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NASCITA DI ROMA

Secondo la leggenda, la fondazione di Roma a metà dell'VIII secolo a.C. si deve ai fratelli Romolo
e Remo, nonostante il prevalere del primo sul secondo. La data ufficiale, 21 aprile del 753 a.C.,
venne stabilita da Marco Terenzio Varrone calcolando a ritroso i periodi di regno dei re capitolini
(35 anni circa per ogni re). Altre fonti in realtà riportano date diverse: Quinto Ennio nei suoi
Annales colloca la fondazione nell'875 a.C., lo storico greco Timeo di Tauromenio nell'814 a.C.
(contemporaneamente, quindi, alla fondazione di Cartagine), Fabio Pittore all'anno 748 a.C. e Lucio
Cincio Alimento nel 729 a.C. La datazione di Varrone - quella tradizionalmente celebrata - è
considerata sia troppo alta (in relazione alla prima unificazione degli abitati, avvenuta
presumibilmente nella metà dell'VIII secolo) sia troppo tarda (i primi insediamenti risalgono al II
millennio a.C.).

Età Regia

La conquista del Latium vetus da parte dei re di Roma (dalla fondazione all'avvento della Repubblica romana).
ROMOLO (753 a. C. – 716 a. C.)
Origini familiari

Secondo la leggenda Romolo e Remo erano figli di Marte e di Rea Silvia, sacerdotessa vestale figlia
del re di Alba Longa, Numitore, diretto discendente di Enea. Romolo era quindi per parte materna
di stirpe reale albana. Plutarco racconta che un certo Lucio Taruzio, matematico, astrologo ed amico
di Marco Terenzio Varrone (l'autore del De lingua Latina), aveva calcolato il giorno esatto in cui i
due gemelli furono concepiti (24 giugno del 772 a.C.) e nacquero (24 marzo del 771 a.C.). Dopo la
fuga da Troia, Enea giunge nel Lazio e viene accolto dal re Latino, che gli fa conoscere sua figlia
Lavinia. Enea se ne innamora, ma la fanciulla era già promessa a Turno, re dei Rutuli. Il padre di
Lavinia ascolta le intenzioni di Enea ma temendo una vendetta da parte di Turno si oppone ai suoi
desideri. La disputa per la mano della fanciulla diventa una guerra, a cui partecipano le varie
popolazioni italiche, compresi Etruschi e Volsci; Enea si allea con le popolazioni di origine greca
stanziate nella città di Pallante sul Palatino, regno dell'arcade Evandro e di suo figlio Pallante. La
guerra è molto sanguinosa (subito muore Pallante ucciso da Turno), e per evitare ulteriori vittime si
decide che la sfida fra Enea e Turno dovrà risolversi in un combattimento tra i due "comandanti" e
pretendenti. Enea ha il sopravvento, sposa Lavinia e fonda la città di Lavinium (l'odierna Pratica di
Mare). Ben diversa la versione di Livio nei capitoli 1 e 2 del I libro della sua "Ab Urbe Condita" (il
titolo è traducibile dal latino con "dalla Fondazione di Roma"). I Troiani nel loro peregrinare
arrivano nell'agro Laurente e dopo uno scontro Enea addiviene a un patto d'alleanza con il re Latino
e ne sposa la figlia, Lavinia, e fonda la città di Lavinio dal nome della moglie. Dal loro matrimonio
nasce Ascanio. Turno, re dei Rutuli, a cui era stata promessa in sposa Lavinia, dichiara guerra ai
Latini, come si chiamano le genti del luogo dopo il patto. I Latini hanno la meglio ma Enea muore
combattendo.

Infanzia ed adolescenza

Dopo trent'anni, Ascanio (detto anche Iulo) fonda una nuova città, Alba Longa, sulla quale regnano
i suoi discendenti. Molto tempo dopo il figlio e legittimo erede del re Proca di Alba Longa,
Numitore, viene spodestato dal fratello Amulio, che ne costringe la figlia Rea Silvia a diventare
vestale e a fare quindi voto di castità. Tuttavia il dio Marte s'invaghisce della fanciulla e la rende
madre di due gemelli, Romolo e Remo. Il re Amulio ordina l'uccisione dei gemelli, ma il servo
incaricato di eseguire l'assassinio non ne trova il coraggio e li abbandona alla corrente del fiume
Tevere. La cesta nella quale i gemelli sono stati adagiati si arena sulla riva, presso la palude del
Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato Cermalus, dove si trovava il fico
ruminale. Qui i due vengono trovati e allevati da una lupa (probabilmente una prostituta, all'epoca
chiamata anche lupa, di cui si ritrova oggi traccia nella parola lupanare), e da un picchio (animale
sacro per i Latini) che li protegge, entrambi animali sacri ad Ares. Li trova poi il pastore Faustolo
(porcaro di Amulio) che insieme alla moglie Acca Larenzia li cresce come suoi figli. Una volta
divenuti adulti e conosciuta la propria origine Romolo e Remo fanno ritorno ad Alba Longa,
uccidono Amulio, e rimettono sul trono il nonno Numitore.

Fondazione di Roma

Romolo e Remo, non volendo abitare ad Alba Longa senza potervi regnare almeno fino a quando
fosse stato in vita il nonno materno, ottengono il permesso di andare a fondare una nuova città, nel
luogo dove erano cresciuti. Romolo vuole chiamarla Roma ed edificarla sul Palatino, mentre
Remola vuole battezzare Remora e fondarla sull'Aventino.
Roma attorno all'anno della sua fondazione, nel 753 a.C.

È lo stesso Livio che riferisce le due più accreditate versioni dei fatti:

« Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo,
toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per
dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni
augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a
Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato
annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni
sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli
uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo,
colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro
il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium , il solco sacro] e
quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora
in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo Romolo s’impossessò da
solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. »(Livio, cit., I, 7 , Garzanti 1990)

Regno (753 - 716 a.C.)

Plutarco narra che una volta seppellito il fratello Remo, morto nello scontro che precedette la
fondazione della città, Romolo fece venire dall'Etruria esperti di leggi e testi sacri che gli
spiegassero ogni aspetto del rituale da attuare. Fu scavata una fossa circolare attorno al Comizio e
deposte offerte votive per ottenere il favore degli Dei. Romolo però aveva bisogno di più abitanti
per popolare la nuova città, e così accolse pastori latini ed etruschi, alcuni anche d'oltre mare, Frigi
affluiti sotto la guida del suo avo Enea, oltre ad Arcadi arrivati sotto quella di Evandro.

« Dopo la fondazione Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio
compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi
che si rifugiassero lì. » (Strabone, Geografia, V, 3,2.)
Ogni abitante portò una piccola zolla di terreno e la gettò, mischiata alle altre, nella fossa chiamata
mundus, che costituiva proprio il centro della città. Fu poi tracciato il solco primigenius tutto
intorno alla città, i cui confini ne rappresentavano il pomerium, racchiuso all'interno delle mura
"sacre".

Quindi Romolo chiese al Popolo quale forma di governo volesse per la città appena fondata, e
questo rispose che avrebbe accettato Romolo come proprio re. Ma Romolo accettò la nomina solo
dopo aver preso gli auspici favorevoli del volere degli dei, che si manifestò con un lampo che
balenò da sinistra verso destra.

Ratto delle Sabine

Romolo, divenuto unico re di Roma, decise per prima cosa di fortificare la nuova città, offrendo
sacrifici agli dèi secondo il rito albano e dei Greci in onore di Ercole, così com'erano stati istituiti da
Evandro; successivamente dotò la città del suo prima sistema di leggi e si circondò di 12 Littori.Con
il tempo Roma andò ingrandendosi, tanto da apparire secondo Livio "così potente da poter
rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni". Erano le donne che scarseggiavano.
Questa grandezza era destinata a durare una sola generazione se i Romani non avessero trovato
sufficienti mogli con cui procreare nuovi figli per la città, nonostante Romolo, avesse proibito di
esporre tutti i figli maschi e la prima tra le figlie, tranne che fossero nati con delle malformazioni.

« Romolo su consiglio dei Senatori, inviò ambasciatori alle genti vicine per stipulare trattati di alleanza
con questi popoli e favorire l'unione di nuovi matrimoni. [...] All'ambasceria non fu dato ascolto da parte
di nessun popolo: da una parte provavano disprezzo, dall'altra temevano per loro stessi e per i loro
successori, ché in mezzo a loro potesse crescere un simile potere. » (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)

La gioventù romana non la prese di buon grado, tanto che la soluzione che andò prospettandosi fu
quella di usare la forza. Romolo, infatti, decise di dissimulare il proprio risentimento e di allestire
dei giochi solenni in onore di Nettuno equestre, che chiamò Consualia (secondo Floro erano dei
ludi equestri) e che si celebravano ancora al tempo di Strabone. Quindi ordinò ai suoi di invitare
allo spettacolo i popoli vicini: dai Ceninensi, agli Antemnati, Crustumini e Sabini, questi ultimi
stanziati sul vicino colle Quirinale. L'obiettivo era quello di compiere un gigantesco rapimento delle
loro donne proprio nel mezzo dello spettacolo. Arrivò moltissima gente, con figli e consorti, anche
per il desiderio di vedere la città nuova.

« Quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo e tutti erano concentrati sui giochi, come stabilito,
scoppiò un tumulto ed i giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze. Molte cadevano nelle
mani del primo che incontravano. Quelle più belle erano destinate ai senatori più importanti. [...]  »
(Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)

Terminato lo spettacolo i genitori delle fanciulle scapparono, accusando i Romani di aver violato il
patto di ospitalità. Romolo riuscì a placare gli animi delle fanciulle e, con l'andare del tempo,
sembra che l'ira delle ragazze andò affievolendosi grazie alle attenzioni ed alla passione con cui i
Romani le trattarono nei giorni successivi. Anche Romolo trovò moglie tra queste fanciulle, il cui
nome era Ersilia. Da lei il fondatore della città, ebbe una figlia, di nome Prima ed un figlio, di nome
Avilio.Tutto ciò diede origine ad una serie di guerre successive. Dei popoli che avevano subito
l'affronto furono i soli Ceninensi ad invadere i territori romani, ma furono battuti dalle schiere
ordinate dei Romani. Il comandante nemico, un certo Acrone fu ucciso in duello dallo stesso
Romolo, che ne spogliò il cadavere e offrì le sue spolia opima a Giove Feretrio, fondando sul
Campidoglio il primo tempio romano. Eliminato il comandante nemico, Romolo si diresse contro la
loro città che cadde al primo assalto, trasferendone, poi, la cittadinanza a Roma e conferendole pari
diritti a quelli dei Romani. Gli stessi Fasti trionfali celebrano per l'anno 752/751 a.C.:

« Romolo, figlio di Marte, re, trionfò sul popolo dei Ceninensi (Caeniensi), calende di marzo (1º
marzo). » (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di Roma Fasti Triumphales : Roman Triumphs.)

Tale evento era, invece, avvenuto secondo Plutarco, basandosi su quanto raccontato a sua volta da
Fabio Pittore, solo tre mesi dopo la fondazione di Roma (nel luglio del 753 a.C.).Dopo la vittoria
sui Ceninensi fu la volta degli Antemnati. La loro città fu presa d'assalto ed occupata, portando
Romolo a celebrare una seconda ovatio. Ancora i Fasti trionfali ricordano sempre per l'anno
752/751 a.C.

« Romolo, figlio di Marte, re, trionfò per la seconda volta sugli abitanti di Antemnae (Antemnates). »
(Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di Roma Fasti Triumphales : Roman Triumphs.)

Rimaneva solo la città dei Crustumini, la cui resistenza durò ancora meno dei loro alleati. Portate a
termine le operazioni militari, il nuovo re di Roma dispose che venissero inviati nei nuovi territori
conquistati alcuni coloni, i quali andarono a popolare soprattutto la città di Crustumerium, che,
rispetto alle altre, possedeva terreni più fertili. Contemporaneamente molte persone dei popoli
sottomessi, in particolar modo i genitori ed i parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma.

Battaglia del Lago Curzio

L'ultimo attacco portato a Roma fu quello dei Sabini, nel corso del quale si racconta della vergine
vestale, Tarpeia, figlia del comandante della rocca Spurio Tarpeio, la quale fu corrotta con dell'oro
(i bracciali che vedeva rilucere alle braccia dei Sabini) da Tito Tazio e fece entrare nella cittadella
fortificata sul Campidoglio un drappello di armati con l'inganno. L'occupazione dei Sabini della
rocca, portò i due eserciti a schierarsi ai piedi dei due colli (Palatino e Campidoglio), dove più tardi
sarebbe sorto il Foro romano, mentre i capi di entrambi gli schieramenti incitavano i propri soldati
alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i Romani. Quest'ultimo cadde nel corso
della battaglia che poco dopo si scatenò, costringendo le schiere romane a ripiegare presso la
vecchia porta del Palatino. Romolo, invocando Giove e promettendo allo stesso in caso di vittoria
un tempio a lui dedicato (nel Foro romano), si lanciò nel mezzo della battaglia riuscendo a
contrattaccare e ad avere la meglio sulle schiere nemiche. Fu in questo momento che le donne
sabine, che erano state rapite in precedenza dai Romani, si lanciarono sotto una pioggia di proiettili
tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera.

« Da una parte supplicavano i mariti [i Romani] e dall'altra i padri [i Sabini]. Li pregavano di non
commettere un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di
macchiarsi di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri.  »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13.)

« Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile
e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una
parte, ed altre dall'altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i
mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un Dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli... e si
rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono,
cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo. » (Plutarco, Vita di Romolo)

Con questo gesto entrambi gli schieramenti si fermarono e decisero di collaborare, stipulando un
trattato di pace, varando l'unione tra i due popoli con comunanza di potere e cittadinanza,
associando i due regni (quello di Romolo e Tito Tazio), lasciando che la città dove ora era trasferito
tutto il potere decisionale continuasse a chiamarsi Roma, anche se tutti i Romani furono chiamati
Curiti (in ricordo della patria natia di Tito Tazio, che era Cures) per venire incontro ai Sabini.

Contemporaneamente il vicino lago nei pressi dell'attuale Foro romano, fu chiamato in ricordo di
quella battaglia e del comandante sabino scampato alla morte (Mezio Curzio), Lacus Curtius,
mentre il luogo in cui si conclusero gli accordi tra le due popolazioni, fu chiamato Comitium, che
deriva da comite per esprimere l'azione di incontrarsi. Qualche anno dopo Tito Tazio fu ucciso a
Lavinium e Romolo, che non reagì al fatto con alcuna azione militare, rimase unicò regnante della
città. Successivamente Romolo riuscì prima a conquistare Medullia, poi a battere Fidene

Battaglia di Fidene

Di questa battaglia si conoscono due diverse versioni. Una prima, secondo cui Roma riuscì a
catturare Fidene, facendola assalire all'improvviso da un gruppo di cavalieri, a cui era stato dato
ordine di tagliare i cardini delle porte di accesso della città, consentendo a Romolo di presentarsi
inaspettatamente con l'intero esercito. La seconda versione riporta che i Fidenati si affrettarono a
scatenare il conflitto contro i Romani, armando squadroni di cavalieri e spedendoli a devastare le
campagne tra Fidene e Roma e a terrorizzare gli abitanti della zona. La reazione romana non si fece
attendere. Romolo stesso, a capo di un esercito, si diresse verso nord seguendo il Tevere fino a un
miglio dalla città nemica. Lasciata una modesta guarnigione a guardia della città di Fidene, decise
di muoversi con il grosso dell'esercito pronto a tendere un'imboscata all'avversario in una vicina
località boscosa. Egli era deciso ad attirare i Fidenati fuori delle loro mura, adottando una tattica
spericolata, secondo la quale i cavalieri romani scorrazzavano fin sotto le porte della città. Si
trattava in sostanza di un assalto simulato, dove la cavalleria al momento opportuno doveva
ripiegare attirando il nemico nella trappola tesa dal re romano. L'imboscata ebbe successo. Una
volta aperte le porte della città, tale fu la foga dei Fidenati nel gettarsi sul nemico che, se in un
primo momento riuscirono a travolgere le prime linee romane, spintisi fino a ridosso della
boscaglia, dove era nascosto il grosso dell'esercito romano, furono respinti dalle armate romane ed
incalzati fin all'interno della loro città. La guerra era vinta. Secondo Plutarco, Romolo non distrusse,
né la abbatté dalle fondamenta, al contrario fece di Fidene una colonia romana, dove insediò ben
2.500 coloni.

Battaglia di Cameria

Prima che cessasse la pestilenza che era scoppiata a Roma una decina di anni prima, i Camerii
invasero i territori romani e saccheggiarono la regione, convinti che i Romani non potessero
difendersi per la terribile malattia che aveva colpito buona parte della popolazione. Plutarco
racconta che Romolo reagì con prontezza, compiendo una spedizione contro i Camerii, e una volta
sconfitti in battaglia ne uccise 6.000 ed occupò la loro città.Romolo non distrusse, né la abbatté
dalle fondamenta, al contrario fece di Cameria (come aveva fatto con Fidene) una colonia romana,
dove insediò un numero di coloni, due volte superiore ai Camerii sopravvissuti alle calende di
Sestile. Tra le altre cose vi era nel bottino confiscato a Cameria, anche una quadriga in bronzo, che
consacrò nel tempio di Efesto a Roma (identificabile con il Volcanale), facendosi erigere una statua
in cui compariva incoronato dalla Vittoria.

Prima guerra contro Veio

Veio era una città ricca che, posta a soli 20 km da Roma su un altopiano facilmente difendibile,
controllava un attraversamento del Tevere e dominava tutto il territorio posto sulla sua riva destra. Il
fiume costituiva il confine naturale fra il territorio etrusco e quello delle popolazioni latine, ma
soprattutto, era la principale via di traffico dal mare verso l'interno e costituiva il miglior
collegamento fra il sud dell'area etrusca tradizionale ed il primo avamposto etrusco nel meridione
italiano, che era Capua, quasi incastrata fra Latini e l'incombente marea colonizzatrice dei greci che
risalivano la Penisola.

Sul lato sinistro del Tevere, ma in posizione di controllo della navigazione e dei commerci, Veio
vide nascere e in breve tempo crescere una pericolosa concorrente: Roma.Non ci volle molto tempo
perché i Veienti comprendessero quanto quella nuova città sarebbe stata determinante per la loro
ricchezza se non proprio per la loro esistenza. Fondamentale era il controllo delle saline dei septem
pagi, poste alla foce del fiume e del commercio del sale che se ne ricavava. Roma, quindi si era
posta fra Veio e il mare e controllava i controllori. D'altra parte, per Roma la città etrusca era il
primo grosso ostacolo per la sua espansione commerciale e militare verso l'Etruria ed era
strettamente alleata alle città di Capena (fondata, secondo la tradizione, da Veienti guidati dal
leggendario re Properzio), Falerii e Fidene. A quanto ci raccontano Tito Livio e Plutarco, fu Veio a
iniziare le ostilità, reclamando Fidene, poiché ritenevano appartenesse a loro: la prima volta che
troviamo la città di Veio citata in Livio, (siamo nell'VIII secolo a.C.) Romolo voleva una dimicatio
ultima, una battaglia risolutiva:

« La guerra fidenate finì per propagarsi ai Veienti, spinti dalla consanguineità per la comune
appartenenza al popolo estrusco [...] Persero parte del territorio ma ottennero una tregua di ben cento
anni. Questi pressappoco gli eventi succedutisi in pace e in guerra sotto il regno di Romolo.  »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15, Newton Compton, Roma, trad.: G. D. Mazzocato)

« Era una pretesa non solo ingiusta ma anche ridicola, perché quando i Fidenati stavano combattendo ed
erano in grave pericolo, a quel tempo non solo non li avevano aiutati, ma avevano permesso che molti
uomini morissero, ed ora pretendevano di avere diritti su città e territorio, quando essi già
appartenevano ai Romani. » (Plutarco, Vita di Romolo, 25, 2.)

Plutarco racconta che i Veienti divisero il loro esercito in due schiere e con l'una assalirono
l'esercito romano lasciato a guardia di Fidene e con l'altra si scontrarono con Romolo. A Fidene
ottennero una vittoria parziale in cui riuscirono ad uccidere 2.000 Romani, ma nel secondo scontro
persero la vita ben 8.000 Veienti e Romolo ebbe la meglio. Il successivo e decisivo scontro vide i
due eserciti combattere sempre nel territorio di Fidene, dove Romolo dimostrò il maggior merito
della vittoria per la sua grande abilità tattica e coraggio. Al termine della terza ed ultima battaglia
c'erano sul campo di battaglia ben 14.000 i caduti. E Romolo dopo aver sbaragliato l'esercito
nemico, inseguì i Veienti fin sotto le mura della città, tanto che al termine delle ostilitàpoté sottrarre
loro i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e quelli delle Saline, in cambio di una
tregua della durata di cento anni.

Istituzioni

Al regno di Romolo si attribuiscono i primi ordinamenti romani. Sembra, infatti, che per prima cosa
organizzò l'esercito, sulla base della popolazione adatta alle armi. Successivamente istituì
un'assemblea, formata da 100 Patres, mentre i loro discendenti furono chiamati patrizi, a cui diede
il nome nella sua globalità di Senato (Senatus da senex per la loro anzianità).A lui si attribuisce
l'istituzione del diritto di asilo, a quanti erano stati banditi o fuggivano dalle città vicine; la
circostanza si può ricollegare all'esigenza di popolare la città. Gli si attribuisce anche il fenomeno
del patronato dei patrizi nei confronti dei plebei che gli facevano da garanti e protettori in cambio di
favori conosciuto anche con il termine clientela. Tito Livio racconta che in seguito alla pace
stipulata con i Sabini di Tito Tazio (con il quale regnò in assoluta armonia, fino a quando
quest'ultimo non fu assassinato a Lavinio cinque anni dopo l'inizio del loro regno congiunto),
essendo raddoppiata la popolazione, non solo furono eletti altri 100 Patres tra i Sabini, e
raddoppiati gli effettivi dell'esercito (ora composto da 6.000 fanti e 600 cavalieri), ma divise anche
l'intero popolo in tre tribù: i Ramnes, i Tities ed i Luceres, a loro volta suddivisi in dieci curie
ciascuna, attribuendo ad esse i nomi di trenta donne.

Plutarco racconta che i due re, Romolo e Tazio, non tennero un consiglio comune tra loro, ma
ognuno deliberava prima separatamente con i propri 100 Patres, e poi si radunavano tutti insieme in
uno stesso luogo per deliberare.Plutarco racconta che Romolo, inorgoglitosi dei successi conseguiti
contro tutte le popolazioni limitrofe alla città di Roma, con grande arroganza abbandonò la
precedente tendenza democratica, per sposare un modello di monarchia assoluta, opprimente ed
intollerabile. Egli indossava un mantello purpureo e una toga bordata di porpora, dava udienza su di
un trono, attorniato da alcuni giovani, chiamati celeres (una forma di guardia del corpo reale da lui
creata), ed era preceduto da alcuni littori, che respingevano la folla con dei bastoni a difesa del rex.
In effetti si tratterebbe di un'istituzione già presente nelle città etrusche, dalla quali fu probabilmente
ripresa ed introdotta in Roma in epoca storica. Si racconta, inoltre, che, quando il nonno Numitore
morì, a Romolo spettasse il governo della città di Alba Longa, ma egli preferì affidarne
l'amministrazione al popolo, attraverso un suo magistrato che eleggeva annualmente, e così insegnò
anche ai cittadini più potenti di Roma a desiderare di vivere in una città senza un rex, autonoma.
Infatti a Roma, da quando Romolo aveva mutato il suo atteggiamento da democratico a dispotico, i
cosiddetti patrizi, pur partecipando alla vita pubblica, portavano solo un "titolo" onorifico ed un
prestigio apparente, riunendosi in Senato più per abitudine che per esprimere un parere. Di fatto
tutti si limitavano ad obbedire agli ordini di Romolo, avendo un unico privilegio: quello di essere
informati per primi sulle decisioni de re, rispetto alla moltitudine. Plutarco aggiunge che Romolo
coprì di ridicolo il Senato, distribuendo personalmente ai soldati la terra conquistata in guerra e
restituendo gli ostaggi ai Veienti, senza aver preventivamente consultato ed ottenuto l'assenso da
parte dei senatori.

Prime forme di diritto privato romano

Romolo stabilì anche una legge secondo la quale una moglie non potesse lasciare il marito. Al
contrario la donna poteva essere ripudiata se tentava di avvelenare i figli, di sostituire le chiavi di
casa o in caso di adulterio. Nel caso in cui fosse stata ripudiata per altri motivi, il marito era tenuto a
versarle una quota del suo patrimonio e ad offrirne una seconda al tempio di Demetra. Chi ripudiava
la propria moglie era, infine, tenuto a sacrificare agli dei Inferi. Curioso che Romolo non stabilì
alcuna pena contro i parricidi, ma definì parricidio tutte le forme di omicidio, come se il parricidio
fosse un delitto impossibile da compiersi.

Festività e riti sacri

Sabini e Romani, una volta uniti sotto Tito Tazio e Romolo, parteciparono alle rispettive feste e riti
sacri, senza eliminare nessuno di quelli che ciascun popolo aveva fino a quel momento celebrato
singolarmente. Al contrario ne istituirono di nuovi, come i Matronalia, i Carmentalia ed i Lupercali.
A Romolo o al suo successore, Numa Pompilio, è inoltre attribuita l'istituzione del culto del fuoco,
con la creazione delle vergini sacre a sua custodia, chiamate Vestali.

Calendario romuleo

La tradizione afferma che Romolo avrebbe istituito per primo il Calendario romano (un calendario
lunare con inizio alla luna piena di marzo, costituito da 10 mesi - 6 mesi di 30 giorni e 4 mesi di 31
giorni, per un totale di 304 giorni; i restanti 61 giorni di inverno non venivano assegnati ad alcun
mese). Va altresì segnalato che altri storici come Eutropio, sostengono possa essere stato il suo
successore Numa Pompilio. Questo fu un argomento molto dibattuto dagli storici del tempo (da Tito
Livio a Dionigi d'Alicarnasso o Plutarco) poiché alcuni di loro affermavano trattarsi di un
calendario piuttosto disordinato, dove i mesi variavano da 20 giorni a 35 giorni.

Morte, sepoltura e deificazione

Dopo trentotto anni di regno, secondo la tradizione (all'età di cinquantaquattro), Romolo venne
assunto in cielo durante una tempestaed un'eclissi, avvolto da una nube, mentre passava in rassegna
all'esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra (nel campo Marzio). L'improvvisa
scomparsa del loro fondatore fece sì che i Romani, lo proclamarono dio (con il nome di Quirino, in
onore del quale fu edificato un tempio sul colle, chiamato in seguito Quirinale), figlio di un dio
(Marte), re e pater (padre) di Roma. Ancora ai tempi di Plutarco si celebravano molti riti nel giorno
della sua scomparsa, avvenuta secondo tradizione il 5 o il 7 luglio del 716 a.C.Sembra anche che,
per dare maggiore credibilità all'accaduto, la tradizione racconta che riapparve al suo vecchio
compagno albano Proculo Giulio, il più antico personaggio noto appartenente alla gens Iulia.

« Stamattina o Quiriti, verso l'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e
apparso davanti ai miei occhi. [...] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma
diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell'arte militare e tramandino ai loro figli che
nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16.)

L'evidente somiglianza delle tradizioni, ha indotto alcuni storici a ritenere che questo racconto abbia
ispirato quello relativo alla risurrezione di Gesù. Nella probabile realtà storica, invece, il primo re di
Roma sarebbe morto assassinato dai Patres durante una seduta del consiglio regio al Volcanal
(ovvero il tempio di Efesto nel Foro romano). Si racconta infatti che, a causa delle continue
limitazioni che aveva posto al Senato, organo divenuto più che altro di facciata ad una forma di
monarchia sempre più "assoluta", soprattutto dopo la morte di Tito Tazio, caddero sui suoi membri
sospetti e calunnie. Il suo corpo sarebbe stato poi simbolicamente smembrato dai senatori, "a causa
del suo carattere troppo duro"e le sue parti (divise tra gli stessi membri del Senato) sepolte nelle
varie aree componenti il territorio della città.
Numa Pompilio (715 a. C. – 673 a. C.)
L'incoronazione di Numa non avvenne immediatamente dopo la scomparsa di Romolo, ma per un certo
periodo i Senatori governarono la città a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo di
sostituire la monarchia con una oligarchia. Però, incalzati dal sempre maggiore malcontento popolare
causato dalla disorganizzazione e scarsa efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno i
Senatori furono costretti ad eleggere un nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa delle
tensioni fra i senatori Romani che proponevano il senatore Proculo ed i senatori Sabini che proponevano
il senatore Velesio. Per trovare un accordo si decise di procedere in questo modo: i senatori romani
avrebbero proposto un nome scelto fra i Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un
romano. I Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abitava nella città
sabina di Curesed era sposato con Tazia, l'unica figlia di Tito Tazio. Sembra che egli fosse nato nello
stesso giorno in cui Romolo fondò Roma. Numa, concittadino di Tito Tazio, era noto a Roma come
uomo di provata rettitudine oltreché esperto conoscitore di leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di
Pius. I Sabini accettarono la proposta rinunciando a proporre un altro nome. Furono dunque inviati a
Cures Proculo e Velesio (i due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini)) per
offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei senatori, per la fama violenta dei
costumi di Roma, Numa vi acconsentì solo dopo aver preso gli auspici degli dei, che gli si dimostrarono
favorevoli; Numa fu quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo.

Riforme politiche e religiose


La leggenda afferma che il progetto di riforma politica e religiosa di Roma attuato da Numa fu a lui
dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei boschie che si innamorò di
lui al punto da renderlo suo sposo. A Numa non è ascritta alcuna guerra, bensì una serie di riforme tese a
consolidare le istituzioni della nuova città, prime tra tutte quelle religiose, raccolte per iscritto nei
commentarii Numae o libri Numae, che andarono perduti quando Roma fu saccheggiata dai Galli. Sulla
base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini religiosi: i
Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici. Numa stabilì di
unificare ed armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani e dei Sabini residenti a Roma per
eliminare le divisioni e le tensioni fra questi due popoli, riducendo l'importanza delle tribù e creando
nuove associazioni basate sui mestieri. Appena divenuto re nominò, a fianco del sacerdote dedito al
culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio
Quirino. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei flamini a cui
diede precise regole ed istruzioni. Proibì ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e
animale perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini e, durante il suo regno non
furono costruite statue raffiguranti gli dei. Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal
Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestali
(vedi sotto) e sulla moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere
sacro. Istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio
in cui era custodito il fuoco sacro della città; le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia
(erano dunque quattro, Anco Marzio ne aggiunse altre due portandole a sei). Istituì anche il collegio dei
Feziali (i guardiani della pace) che erano magistrati - sacerdoti con il compito di tentare di appianare i
conflitti con i popoli vicini e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi
diplomatici.Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei Salii, sacerdoti che avevano il compito
di separare il tempo di pace e di guerra (per gli antichi romani il periodo per le guerre andava da marzo
ad ottobre). Era, questa funzione, molto importante per gli abitanti dell'antica Roma, perché sanciva, nel
corso dell'anno, il passaggio dallo stato di cives (cittadini soggetti all'amministrazione civile e dediti alle
attività produttive) a milites (militari soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle
esercitazioni militari) e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Migliorò anche le
condizioni di vita degli schiavi p.es. permettendo loro di partecipare alle feste in onore di Saturno, i
Saturnalia assieme ai loro padroni.

La tradizione romana rimanda a Numa Pompilio la definizione dei confini tra le proprietà dei privati,e
tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a
Jupiter Terminalis , e l'istituzione della festività dei Terminalia. Nel Foro, fece costruire il tempio di
Vesta, , e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano,
le cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace (e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni
del suo regno). Secondo Dionigi di Alicarnasso Numa poi incluse nella città il Quirinale, anche se
questo a quell'epoca non era ancora cinto da mura.

Calendario romano

A lui viene ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi
di 355 giorni (secondo Livio invece lo divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun
calcolo), con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine dell'anno,
dopo dicembre (l'anno iniziava con il mese di marzo, da notare tuttora la persistenza di somiglianze dei
nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre, ottobre, novembre, dicembre). Il calendario
conteneva anche l'indicazione dei giorni fasti e nefasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna
decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più difficili, la tradizione racconta
che il re seguì i consigli della ninfa Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni.
L'anno così suddiviso da Numa, non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad annate alterne veniva
aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni, togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era
il collegio dei pontefici a decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze
politiche.

Feste religiose

Come sopra scritto, Floro racconta che Numa insegnò i sacrifici, le cerimonieed il culto degli Dei
immortali a Romani. Creò anche i pontefici, gli auguri ed i Salii. La tradizione vuole che Numa abbia
istituito, tra l'altro, anche la Festa di Quirino e la Festa di Marte. La festa prima si celebrava a febbraio,
mentre la festa dedicata a Marte si celebrava a marzo, e veniva officiata dai Salii. Numa partecipava di
persona a tutte le feste religiose durante le quali era proibito lavorare. A queste riforme di carattere
religioso corrispose anche un periodo di prosperità e di pace che permise a Roma di crescere e
rafforzarsi, tanto che durante tutto il suo regno le porte del tempio di Giano non furono mai aperte.

Morte e sepoltura
Morirà ottantenne e non di morte improvvisa ma consunto dagli anni (per malattia secondo Livio),
quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, aveva solo cinque anni, circondato dall'affetto dei romani,
grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace di cui avevano goduto. Alla processione funebre
parteciparono anche molti rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato ma seppellito
insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa esperienza del regno di Romolo,
Numa Pompilio seppe con la sua saggezza fornire un saldo equilibrio alla nascente città.Durante il
consolato di Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, nel 181 a.C., due contadini ritrovarono il
luogo della sua sepoltura e sette libri di precetti religiosi.

Discendenza
Il senatore sabino Marcio, che aveva sposato la figlia Pompilia, si candidò alla successione ma fu
superato da Tullo Ostilio e si lasciò morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra Pompilia e
Marcio era nato Anco Marcio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune fonti raccontano di un secondo
matrimonio di Numa Pompilio con una certa Lucrezia da cui sarebbero nati quattro figli: Pompone,
Pino, Calpo e Memerco dai quali avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei
Calpurni e dei Marci.

Tullo Ostilio (673 a. C. – 641 a. C.)


Tullo Ostilio fu scelto dai senatori perché era un romano e perché suo nonno Osto Ostilio aveva
combattuto con Romolo contro i Sabini. Dopo la morte di Numa Pompilio lo spirito di pace sembrò
indebolirsi. Floro di lui disse che istituì tutto quanto riguardava la disciplina militare e l'arte della
guerra, tanto che dopo aver esercitato i giovani romani, osò provocare gli Albani, popolo vicino e a
lungo potente.

Conquista di Alba Longa


A Tullo Ostilio la tradizione attribuisce inoltre un ampliamento dei confini cittadini includendo il
territorio del Celio, territorio che venne distribuito gratuitamente a quanti, fra i cittadini, non
avevano mai ricevuto un'area sulla quale costruire la propria abitazione. Ciò gli valse l'appoggio
delle classi più popolari. Macrobio, nei Saturnali, attribuisce a Tullo Ostilio anche la costruzione del
tempio di Saturno e l'istituzione della festa detta dei Saturnalia, precisa però che Varrone e Gellio
erano di diverso avviso. Si trattava di feste dedicate al dio Saturno durante le quali era costume far
godere agli schiavi un po' di libertà e di riposo, mentre i signori si dedicavano alle umili attività
domestiche che per il resto dell'anno assolutamente evitavano. La "politica estera" di Tullo Ostilio
si presentò presto ben diversa da quella del suo predecessore e, quando si verificarono alcuni
incidenti di frontiera con la vicina Albalonga, il nuovo re non protrasse a lungo le trattative
diplomatiche e dichiarò guerra alla città rivale. Quali furono le circostanze che portarono alla guerra
con gli Albani non è difficile immaginare: incidenti fra pastori, dispute sul possesso dei terreni e dei
luoghi dove pascere ed abbeverare il bestiamno, e così via. Governava Albalonga Gaio Cluilio, un
nobile albano della stessa famiglia alla quale apparterrà la più famosa Clelia, eroina della guerra
contro gli Etruschi agli albori della Repubblica. Dionisio di Alicarnasso, che non brilla per
imparzialità, attribuisce la a questo Cluilio responsabilità delle prime aggressioni, tramite bande di
predoni appositamente organizzate. Comunque siano andate le cose Cluilio morì in circostanze
misteriose, fu infatti trovato esanime nella propria tenda senza che il suo corpo presentasse alcun
segno utile a spiegare le causee del decesso. Non si trattava certamente di un presagio incoraggiante
per gli Albani che si trovavano senza un capo alla vigilia di una guerra pericolosa e non mancarono
fra loro superstiziosi e menagrami, pronti a parlare dell'avversa volontà degli dei. Si decise, ad
Albalonga, di creare un dittatore al quale conferire l'autorità necessaria per fronteggiare la
situazione e fu scelto Mezzio Fufezio. Ci troviamo qui in presenza di un personaggio che potrebbe
avere un concreto fondamento storico. Il fatto che a sostituire il defunto re sia un dittatore e non un
nuovo monarca (come sembrerebbe naturale), il nome certamente non latino di Fufezio, il contesto
di belligeranza in cui il personaggio compare, fanno pensare all'intromissione di uno straniero nella
vita politica e sociale dei Latini. Fufezio propose a Tullo Ostilio di comporre pacificamente il conflitto
in quanto era venuto a sapere (e poteva dimostrarlo con prove e documenti) che Veienti e Fidenati
intendevano approfittare della situazione e che si stavano preparando per attaccare Albalonga e Roma
quando queste, combattendo fra loro, si sarebbero sufficientemente indebolite. Tullo Ostilio considerò la
proposta ragionevole ma, non soddisfatto della prospettiva di quella che avrebbe potuto essere una pace
effimera, propose a sua volta di riunire la popolazione e creare un unico senato. Consultati gli Albani,
Fufezio rispose che questi non erano disposti a lasciare le proprie case per trasferirsi a Roma ma erano
propensi all'unificazione del consesso senatorio. A questo punto, tuttavia, si presentava la delicata
questione dell'assegnazione dei poteri di governo: gli Albani li richiedevano in virtù della maggiore
antichità di Albalonga e dicevano di considerare Roma una loro colonia. Da parte loro i Romani
negavano l'esistenza di una legge naturale che potesse impedire ad una colonia di prevalere sulla città di
origine, inoltre vantavano la potenza di Roma come titolo per prevalere nella contesa. Si giunse così
alla decisione di affidare all'esito di un duello fra pochi combattenti la soluzione della questione.
Il fatto che due famiglie fra loro imparentate (gli albani Curiazi ed i romani Orazi) comprendessero
ciascuna tre gemelli maschi in età adatta al combattimento e molto abili con le armi era forse una
pura coincidenza ma Fufezio la interpretò come un segno del destino e propose che fossero proprio
questi sei giovani a scontrarsi nel fatale duello. Da canto suo, invece, Tullo Ostilio si disse timoroso
che far combattere fra loro persone legate da vincoli di parentela fosse un sacrilegio ma infine,
sentito il parere favorevole degli Orazi stessi e del loro padre, accettò la sfida come proposta da
Fufezio. Come si usava in occasioni così importanti, la dichiarazione ufficiale del duello fu affidata
ai Feziali. Questi erano un'antica istituzione presente in molte popolazioni italiche ma la tradizione
ne faceva risalire l'origine a Numa Pompilio. Si trattava di un collegio i cui membri potevano essere
considerati magistrati per le caratteristiche del loro operato e per l'autorità della quale erano
investiti, ma anche sacerdoti per i significati sacrale della loro funzione. Il loro compito principale,
di natura sostanzialmente diplomatica, era quello di svolgere le opportune trattative quando si
profilava un conflitto con uno stato confinante, ma quando queste trattative fallivano allora spettava
ai Feziali pronunciare la dichiarazione di guerra seguendo un preciso rituale per comunicare
all'avversario l'apertuta delle ostilità. Inoltre i Feziali dovevano vigilare sul rispetto dei trattati di
pace e dei patti di alleanza, nonché ascoltare gli ambasciatori stranieri che fossero venuti a chiedere
soddisfazione di un torto subito.Il caso del duello fra Romani ed Albani non era a rigore una
dichiarazione di guerra in quanto, come si è visto, il conflitto era in pieno svolgimento, tuttavia è
ragionevole pensare che questi magistrati siano stati chiamati a farsi in qualche modo garanti della
chiarezza die patti prima dello scontro e della loro effettiva attuazione a duello concluso. Due
solenni cortei accompagnarono i duellanti fino al luogo concordato per la prova. La gente, racconta
Dionigi di Alicarnasso, procedeva indirizzando loro manifestazioni di onore e di lutto: si trattava
ormai di vittime consacrate, consapevoli di andare verso il sacrificio. Orazi e Curiazi, si è detto,
erano legati da vincoli di parentela: uno dei Curiazi era fidanzato ad Orazia, sorella dei rivali,
mentre Marco Orazio aveva sposato una sorella dei Curiazi. Per le due giovani la situazione era
dunque tragica qualunque fosse l'esito dello scontro, si trattava, quanto meno, di perdere l'uomo
amato o i fratelli. Come si svolse il combattimento e come si concluse è cosa nota anche ai bambini.
Se ben ricordo i tempi dei miei studi elementari, questo degli Orazi e Curiazi insieme agli episodi di
Romolo e Remo, di Orazio Coclite e di Attilio Regolo, entravano in quel confuso coacervo di
anedottica e moralismo che pedestri insegnanti con voglia ossidata e visione ristretta
somministravano a disinteressati scolari durante "l'ora di storia". Se il povero Tito Livio avesse
saputo quale uso meschino si sarebbe fatto della sua opera monumentale tanti secoli più tardi ... ma
tant'è e noi, per amor di completezza, racconteremo per l'ennesima volta anche questa vicenda. In
un primo momento, dunque, i Curiazi ebbero la meglio e due romani vennero uccisi, ma i tre albani
erano feriti mentre l'unico Orazio superstite era ancora illeso. Approfittando di questo vantaggio,
l'uomo decise di giocare di astuzia e cominciò a correre per distanziare gli avversari ed affrontarli
uno ad uno. I Curiazi lo credettero un vile e presero ad inseguirlo, più o meno rallentati dalle loro
ferite; volgendosi improvvisamente all'indietro, Orazio trafisse il suo primo insegitore, poi il
secondo ed infine, ucciso l'ultimo Curiazio, fu il vincitore del duello e spogliò gli avversari delle
armi per recarle a Roma come trofeo. Il giovane eroe venne accolto dai Romani con grande
esultanza, quindi ci si occupò di dare sepoltura ai caduti. Se ad Alba dopo la conclusione dello
scontro ci si doleva per la morte dei Curiazi e per la sconfitta subita, anche a Roma qualcuno
piangeva. Era Orazia, la sorella del vincitore e fidanzata di uno degli albani caduti. Riconoscendo
fra le spoglie degli sconfitti il mantello da lei stessa confezionato, racconta Livio, la giovane si era
sciolta le chiome ed aveva dato libero sfogo alla sua disperazione chiamando fra la gente il nome
dello scomparso. Non lo aveva tollerato il fratello (qui la pagina liviana si fa drammatica, teatrale) e
l'aveva uccisa maledicendo tutte le donne romane disposte a piangere per i nemici. Il gesto di
Orazio era atroce, ma si trattava di condannare colui che aveva appena dato la vittoria alla città e
quando a Tullo Ostilio toccò di pronunciare una sentenza si trovò in grave imbarazzo, così decise di
nominare i duumviri perduellionis. Si trattava di due magistrati ai quali veniva conferito l'incarico
di giudicare nei casi di alto tradimento.
Tullo ritenne quindi che il delitto di Orazio che si era arbitrariamente sostituito allo stato nel punire
la sorella fosse, prima di tutto, un caso di tradimento. Dice Livio che i duumviri "non si ritenevano
autorizzati ad assolvere neanche un innocente", vale a dire che la loro nomina equivaleva
automaticamente - se non nella norma, nella consuetudine - alla sicura condanna dell'imputato ed
infatti Marco Orazio fu destinato alla terribile pena prevista per i traditori: con il capo velato, le
mani legate, doveva essere appeso ad un albero e fustigato. La pena doveva svolgersi nel pomerio
(lo spazio sacro adiacente le mura) e fuori di esso, fino alla morte. Tullo Ostilio, tuttavia, aveva
lasciato ad Orazio una via di uscita che consisteva nel diritto di appellarsi al giudizio popolare ed il
giovane vi fece ricorso. Davanti al popolo Orazio fu difeso dal padre che dichiarò di ritenere giusta
la morte della figlia, lei sì colpevole di tradimento, e che egli stesso l'avrebbe punita se fosse
scampata all'ira del fratello. Inoltre il vecchio pregava che non privassero dell'ultimo figlio lui che
tanto aveva perduto della sua famiglia per servire la patria. E non mancò, ovviamente, di
mensionare la recentissima vittoria del figlio: la pena si sarebbe dovuta influggere nel pomerio fra
le spoglie dei nemici che aveva appena sconfitto, fuori dal pomerio fra le loro tombe. Si trattava di
straziare le carni del liberatore di Roma. Le parole dell'uomo e la prospettiva dell'atroce tortura che
avrebbe dato la morte ad Orazio riuscirono a toccare il cuore dei Romani più della fine improvvisa
della giovane fidanzata ed il popolo deliberò la grazia. Un fratricidio commesso in pubblico,
tuttavia, non poteva rimanere impunito, così fu affidato al padre il compito di punire
simbolicamente il figlio per purificarlo dalla sua colpa. Il vecchio Orazio svolse gli opportuni
sacrifici quindi fece passare il figlio con il capo coperto sotto una trave come si faceva con i
prigionieri di guerra che venivano costretti a transitare sotto il giogo. E' opinione di molti critici che
dietro a questo episodio, riferito da Livio e da Dionigi di Alicarnasso, si celi la memoria di un
antico rito di iniziazione al quale venivano sottoposti i ragazzi al momento del passaggio alla
pubertà. I racconti di Livio e di Dionisio non concordano, invece, per quanto riguarda la sepoltura
di Orazia: stando al primo fu innalzato per lei un grandioso tumulo sul luogo in cui era stata uccisa,
mentre il secondo sostiene che il padre le negò ogni sepoltura e che furono i passanti impietositi a
coprire di terra le sue membra. Dionisio aggiunge che furono decretati onori per gli Orazi ed un
contributo pubblico a favore della loro famiglia. Ma torniamo a Tullo Ostilio. A Mezzio Fufezio
che si rimetteva al suo volere come previsto dall'accordo egli garantì che gli Albani sarebbero stati
trattati con onore e che le loro istituzioni sarebbero rimaste intatte. Dispose quindi che Albalonga
preparasse un esercito e lo tenesse pronto per agire a fianco dei Romani contro Etruschi e Fidenati,
quindi se ne tornò a Roma con le sue truppe intatte e celebrò il trionfo.

Battaglia di Fidene

Trascorse un anno mentre Tullo Ostilio preparava la guerra, intanto la pace con Albalonga era
soltanto apparente. Fufezio aveva perso gran parte del suo prestigio, gli Albani lo ritenevano
responsabile della sconfitta subita e se era ancora al potere ciò era dovuto soltanto al precario
equilibrio politico che si era creato dopo il duello degli Orazi e Curiazi. L'uomo, inoltre, era infido e
rancoroso, almeno così lo hanno immaginato gli antichi storici che ci parlano di lui, e da buon
doppiogiochista andava intessendo accordi segreti con Veienti e Fidenati mentre predisponeva le
schiere che avrebbero dovuto combattere con i Romani.Quando infine Tullo Ostilio decise di
scendere in campo, fra le sue truppe ausiliarie figuravano quelle albane ma Fufezio, durante la
battaglia, si posizionò su un colle, lontano dal vivo degli scontri, temporeggiando in attesa di capire
chi sarebbe stato il vincitore. La sua intenzione era quella di attaccare i Romani, ma se Tullo Ostilio
si fosse dimostrato troppo forte e pericoloso avrebbe fatto muovere le sue truppe contro i Fidenati
sperando di dissimulare così i suoi propositi di tradimento. Tullo Ostilio comprese il
comportamento di Fufezio ma ebbe la presenza di spirito di far credere ai suoi soldati di aver
personalmente ordinato la manovra degli Albani per accerchiare il nemico, in questo modo evitò
che i Romani fossero presi dal panico e vinse la battaglia.

Se i Romani nutrivano ancora dubbi sul tradimento di Fufezio li risolsero interrogando alcuni
Fidenati catturati durante la battaglia i quali confermarono le segrete proposte di alleanza che il
dittatore di Albalonga aveva avanzato alla loro città.Tullo Ostilio convocò il Senato e venne
decretata la distruzione di Albalonga. Marco Orazio, il vincitore del duello, ebbe dal re l'incarico di
eseguire la sentenza, con l'ordine di non recare danno alle persone e risparmiare gli edifici sacri.
Quanto a Fufezio venne convocato insieme ai suoi ufficiali e fu smascherato davanti all'assemblea.
Mentro Orazio, secondo l'ordine ricevuto, distruggeva meticolosamente Albalonga, a Roma si
svolgeva il processo contro il dittatore destituito. L'imputato cercò di difendersi attribuendo al
senato albano la responsabilità del suo comportamenteo: "ho soltanto eseguito gli ordini" affermò.
Scoppio una rissa ma Tullo Ostilio aveva previdentemente circondato il tribunale di uomini in armi
ed i disordini furono rapidamente placati. La condanna fu esemplare: riconosciuto colpevole di
tradimento, Mezzio Fufezio venne legato a due coppie di cavalli che straziarono il suo corpo al
cospetto dell'assemblea. L'episodio doveva avere un certo impatto sull'immaginario romano se
anche Virgilio (Eneide VIII) decise di menzionare l'immagine del supllizio di Fufezio fra le
decorazioni dello scudo preparato da Vulcano per Enea.La cittadinanza di Albalonga venne
interamente deportata a Roma. I suoi membri più autorevoli vennero ammessi al Senato e ed alcune
famiglie ottennero il rango patrizio; a queste vicende facevano infatti risalire le proprie origini le
gentes Giulia, Servilia, Curiazia, Quintilia, Cleia, Gegania e Metilia.Per sistemare questa nuova e
consistente popolazione, Tullo Ostilio fece ampliare la cinta di mura includendo il Celio, assegnò
lotti di terreno e prese provvedimenti per aiutare gli Albani a costruire nuove abitazioni. Finiva così
la gloriosa Albalonga, fondatoa secondo la tradizione 487 anni prima da Ascanio, ricca ed
importante, forse la più prestigiosa delle vittime dell'espansionismo romano ai suoi primordi.In
generale agli Albani venne imposta la condizione di clienti, cioè di abitanti di Roma privi di
cittadinanza, condizione che comportava una serie di doveri verso i patroni dai quali ricevevano
protezione ed agevolazioni.Anche la guerra con i Fidenati ribelli (Fidene era già colonia romana) si
concluse con la vittoria di Tullo Ostilio il quale, dopo alcuni mesi di assedio, si impadronì della città
ed eliminò i caporioni della rivolta.

Guerra controSabini e Latini


Tullo Ostilio, che per alcuni studiosi è un "doppio" di Romolo, era un guerriero e la sua missione
era quella di rendere Roma sempre più potente, così dopo aver distrutto Albalonga e ridotto al
silenzio i Fidenati, si rivolse contro i Sabini. Ancora una volta la versione tradizionale fornisce, con
il suo linguaggio ed i suoi personaggi, una versione semplificata della realtà storica che in questo
caso è descritta in modo estremamente lapidario dalle parole di Mommsen: "le ostilità (dei Romani
contro i loro vicini) si fecero presto guerra, la rapina divenne conquista". E per suffragare questa
affermazione lo storico tedesco fa presente che il territorio romana, che inizialmente comprendeva
solo i pochi chilometri quadrati dell'area del Palatino, crebbe nel giro di poche generazioni
annettendo tutta la regione densamente popolata compresa fra il Tevere e l'Aniene, una superficie di
oltre cinquecento chilometri quadrati.Tanta belligeranza arcaica venne rappresentata dagli storici e
dagli antiquari della prima età imperiale come un glorioso passato e spesso si ricorreva
all'espediente di giustificare le aggressioni romane ai danni delle popolazioni limitrofe come
sacrosante reazioni a violazioni di accordi, a soprusi, scorrerie, tentativi di invasione. In pratica
Roma sarebbe cresciuta "per legittima difesa".E' il caso della guerra mossa da Tullo Ostilio contro i
Sabini. Stando a Dionigi di Alicarnasso la causa della guerra fu un'aggressione ai danni di alcuni
cittadini romani operata dai Sabini durante le celebrazioni della dea Feronia, in un santuario
comune. Livio convalida questa versione ma, più obiettivo, riporta anche la versione dei Sabini che
lamentavano il rapimento di alcuni loro conterranei avvenuto nella stessa occasione.In ogni caso fu
la guerra. L'esercito romano era corroborato dall'arruolamento più o meno coatto di quanti fra gli
Albani recentemente trasferiti erano idonei alla vita militare; dal canto loro i Sabini, consapevoli
della superiorità dell'avversario, avevano accresciuto le proprie risorse cercando l'alleanza dei
Veienti ed ingaggiando mercenari.
Si creava così un equilibrio di forze e gli scontri della prima parte della guerra non portarono a
risultati significativi. La situazione fu sbloccata l'anno successivo dalla cavalleria Romana che
Ostilio aveva particolarmente curato e rafforzato durante una pausa del conflitto e che ebbe
facilmente ragione dell'esercito sabino. Si dice che in questa occasione Tullo Ostilio abbia istituito
le feste in onore di Saturno e di Opi (Saturnalia ed Opalia) in ottemperanza ad una promessa votiva
fatta a quelle divinità alla vigilia del combattimento decisivo.Secondo Macrobio che, come si è
detto, riporta la notizia dell'istituzione dei Saturnalia, inoltre, Tullo Ostilio dedicò a Saturno il
tempio nel quale veniva custodito il tesoro dello Stato le cui colonne svettano ancora oggi nel Foro
Romano ma, come precisa lo stesso Macrobio, Varrone e Gellio erano di diversa opinione; in realtà
il tempio fu inaugurato nel 497 a.C., risale quindi alla prima età repubblicana.Gli sconfitti subirono
le rivalse abituali per quei tempi: il loro territorio venne razziato dai Romani e fu loro imposto il
pagamento di pesanti tributi. Successivamente tentarono di violare il trattato di pace ma Tullo
Ostilio li sconfisse di nuovo in una guerra, questa volta, brevissima.Intanto Roma aveva cercato di
affermare la propria supremazia sulle città che formavano la Lega Latina, città che per lungo tempo
avevano fatto riferimento ad Albalonga. Gli Albani avevano infatti tenuto la presidenza di una lega
di almeno trenta comuni confederati che finirono col riconoscere a Roma l'eredità politica della
vetusta città conquistata. Si stabilirono tuttavia rapporti ben diversi: Roma era già troppo più forte
ed organizzata delle altre città per non realizzare un'egemonia di fatto, tanto che anche l'esercito
confederato era comandato soltanto da generali romani. I tentativi di resistenza da parte dei Latini
nel periodo che andò dalla distruzione di Albalonga al definitivo consolidarsi della posizione
dominante di Roma sono narrati da Dionisio di Alicarnasso. I Latini, scrive lo storico, nominarono
due comandanti: Anco Publicio di Cora e Spurio Vecilio di Lavinio i quali intrapresero una guerra
fatta di brevi incursioni, minacce, azioni di guerriglia senza mai dispiegare un vero e proprio
esercito, parole queste che dimostrano chiaramente come gli sforzi indipendentisti dei comuni
laziali fossero ben poca cosa davanti alla struttura militare ed amministrativa dello stato romano.
Questa situazione si protrasse comunque per cinque anni ed infine vennero stipulati accordi e trattati
che portarono ad una stabile situazione politica del Lazio e, come si è detto, al potere incontrastato
di Roma sulla Lega Latina. Quindi i romani furono impegnati in 5 anni di combattimenti contro le
città Latine, che si opponevano alla pretesa di Roma di governare sopra tutte queste, per aver
sconfitto Alba. In effetti non si trattò che di schermaglie, e l'unico fatto davvero cruento fu la presa
di Medullia, già colonia romana, ribellatasi a Roma. Medullia subì l'assedio e la conquista da parte
dei romani.

Morte e sepoltura

La fine di Tullo Ostilio fu preceduta da sinistri presagi e da una grave pestilenza che colpì anche il
re inducendolo a ripristinare i culti religiosi che durante il suo regno bellicoso erano stati trascurati
o del tutto abbandonati. Questo pentimento tardivo non giovò a Tullo Ostilio che, dopo aver regnato
per trentadue anni, perì insieme alla famiglia nell'incendio improvviso che distrusse la sua casa.
I superstiziosi videro nell'incendio la mano divina: certo Giove aveva voluto punire con i suoi
fulmini quel monarca tanto poco diligente nel culto e nella liturgia, i più maligni, invece,
sospettarono di Anco Marzio, nipote di Numa Pompilio ed aspirante al trono che avrebbe eliminato,
con un incendio doloso, i figli di Tullo, suoi potenziali rivali. Quest'ultima diceria la riferisce il
solito Dionisio di Alicarnasso, pur dichiarando apertamente di ritenerla inverosimile.
Anco Marzio (641 a. C. – 616 a. C.)
Nel 641 a.C. Anco Marzio succede al bellicoso Tullo Ostilio, diventando il nuovo re di Roma,
favorito all'ascesa al trono dal legame di parentela con Numa Pompilio, di cui era nipote per parte di
una figlia. Pur essendo il nipote di Numa Pompilio, grande amante della pace e della religione, fece
la guerra per difendere i suoi territori. Dopo il regno di Tullo Ostilio, che aveva cancellato ogni
relazione tra il potere monarchico, la religione e la nascente sacralità romana, il nuovo monarca
restaura questo rapporto.

Politica militare

Anco Marzio riprende l'espansione verso sud a danno dei Latini, guerra già avviata dal suo
predecessore, conquistando Politorium, i cui cittadini furono deportati a Roma. Secondo Livio, la
guerra fu iniziata dai latini che avevano previsto che Ancus avrebbe seguito la pia ricerca della pace
adottata da suo nonno, Numa Pompilio.The Latins initially made an incursion on Roman lands. I
Latini inizialmente fecero un'incursione su terre romane.When a Roman embassy sought restitution
for the damage, the Latins gave a contemptuous reply. Quando un'ambasciata romana cercò la
restituzione per il danno, i latini diedero una risposta sprezzante.Ancus accordingly declared war on
the Latins.Di conseguenza, Anco dichiarò guerra ai latini.The declaration is notable since,
according to Livy, it was the first time that the Romans had declared war by means of the rites of
the fetials .La dichiarazione è degna di nota poiché, secondo Livio, era la prima volta che i romani
avevano dichiarato guerra attraverso i riti dei feticisti.Anco Marzio ha marciò da Roma con un
nuovo esercito prese d' assalto la città latina di Politorium (situata vicino alla città di Lanuvium).Its
residents were removed to settle on the Aventine Hill in Rome as new citizens, following the
Roman traditions from wars with the Sabines and Albans .I suoi abitanti furono rimossi e fatti
stabilire sul Colle Aventino a Roma come nuovi cittadini, seguendo le tradizioni romane dalle
guerre con i Sabini e gli Albani.When the other Latins subsequently occupied the empty town of
Politorium, Ancus took the town again and demolished it.Quando gli altri latini occuparono
successivamente la vuota città di Politorium, Anco prese di nuovo la città e la demolì. The Latin
villages of Tellenae and Ficana were also sacked and demolished.Quindi dopo quattro anni di
combattimenti, conquistò nuovamente Medullia, dopo che questa colonia romana aveva
nuovamente defezionato passando ai Latini. La stessa sorte toccò agli abitati di Tellenae e Ficana,
che furono saccheggiate e demolite, garantendo così a Roma il controllo dei territori che si
estendevano dalla costa all'Urbe. Quindi, dopo altri due anni di guerre infruttuose di guerre con i
Latini, i Romani conquistarono e saccheggiarono Fidenae e respinsero anche razziatori Sabini, che
avevano compiuto scorrerie nei possedimenti romani lasciati sguarniti. Quindi, dopo pochi anni, i
Romani combatterono e vinsero due guerre (la seconda delle quali nei pressi di Campus salinarum)
contro la città di Veio, che pretendeva di riavere i possedimenti persi all'epoca di Romolo, e l'anno
seguente ebbero la meglio anche dei Volsci, che dopo aver razziato le campagne romane, si erano
ritirati entro le mura di Velitrae all'apparire dell'esercito romano.

Politica urbanistica
Aggiunse così alla città di Roma, oltre all'Aventino, che cinse all'interno della mura cittadine e
popolò con le popolazioni latine deportate a Roma (tra le quali quelle di Tellenae e Politorium),
anche il Gianicolo, e probabilmente anche il Celio. Durante il suo regno sono realizzate numerose
opere architettoniche tra cui la fortificazione del Gianicolo, la fondazione della prima colonia
romana ad Ostia alla foce del Tevere (a 16 miglia da Roma), "evidentemente perché già allora
aveva il presentimento che le ricchezze ed i viveri di tutto il mondo sarebbero stati, un giorno,
ricevuti lì, come se fosse lo scalo marittimo di Roma"; la costruzione della via Ostiense, dove per
primo organizzò le saline e costruì una prigione, la costruzione dello scalo portuale sul Tevere
chiamato Porto Tiberino e la costruzione del primo ponte di legno sul Tevere, il Ponte Sublicio.

Politica religiosa

Ristabilì le cerimonie religiose istituite da Numa. A lui si fa discendere la definizione dei riti che
dovevano essere seguiti dai Feciali perché la guerra dichiarata ai nemici non dispiacesse agli dei e
potesse essere quindi una "guerra giusta". Anco Marzio sarebbe soltanto un duplicato di Numa,
come si potrebbe dedurre dal suo secondo nome, Numa Marzio, dal confidente e pontefice di Numa,
non essendo niente altro che Numa Pompilio stesso, rappresentato come sacerdote. L'identificazione
con Anco è indicata dalla leggenda che indica quest'ultimo come un costruttore di ponte (pontifex),
il costruttore del primo ponte di legno sopra il Tevere. È nell'esercizio delle sue funzioni sacerdotali
che la somiglianza è mostrata più chiaramente.

Morte

Come Numa Pompilio, Anco Marzio morì di morte naturale dopo venticinque anni di regno (nel
616 a.C.), di malattia secondo altri lasciando due figli, uno dei quali ancora fanciullo. Gli
succedette Tarquinio Prisco.
Tarquinio Prisco (616 a. C. – 579 a. C.)
Secondo la tradizione Lucio Tarquinio Prisco era nato a Tarquinia, ma era greco per parte di padre
(Demarato era originario della città greca di Corinto da dove era fuggito per stabilirsi poi a
Tarquinia) e a causa di questa ascendenza, e nonostante fosse ricco e noto in città, veniva osteggiato
dai suoi concittadini e non riusciva ad accedere alle cariche pubbliche. Per questi motivi, e su
consiglio di sua moglie Tanaquilla, decise quindi di emigrare da Tarquinia a Roma, dove cambiò
nome, dall'etrusco Lucumone al più latino Lucio Tarquinio detto poi Prisco per distinguerlo
dall'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo. Delle sue qualità Floro dice:

« [...] riuniva in sé il genio greco con le qualità italiche. » (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium
annorum DCC, I, 5.1.)

Ascesa al trono

Al suo arrivo a Roma, nei pressi del Gianicolo, dove arrivò a bordo di un carro, accadde un fatto
eccezionale; un'aquila prima gli portò via il berretto, poi tornò indietro e lo fece cadere sulla sua
testa. Tanaquilla, che in quanto etrusca conosceva l'arte di interpretare i segni del cielo, interpretò
questo fatto come il segno di future grandezze per il marito.In città Tarquinio si fece notare per le
sue qualità e la sua generosità, tanto che Anco Marzio volle conoscerlo e, una volta divenuto amico,
prima lo fece entrare tra i suoi consiglieri, poi decise di adottarlo, affidandogli il compito di
proteggere i suoi figli. Secondo alcuni studiosi come Giuseppe Valditara, ricoprì anche la carica di
magister populi. Alla morte del re, Tarquinio riuscì a farsi eleggere re dal popolo romano come
figlio di Anco Marzio salendo al potere in seguito a una congiura contro lo stesso Marzio.

Politica militare

La sua abilità militare fu subito messa alla prova da un attacco sferrato dai Sabini; l'attacco fu
respinto dopo sanguinosi combattimenti nelle strade della città, portando non pochi territori di
queste genti vinte ai possedimenti di Roma. Fu in questa occasione che fu aumentato il numero di
cavalieri, che ognuna delle tre tribù (Ramnes, Tities e Luceri) doveva fornire all'esercito.Tarquinio
poi combatté i Latini, destinandoli a sorte diversa a seconda avessero combattuto contro i romani, o
si fossero arresi dopo essersi ribellati. E così se distrusse Apiolae, e conquistò Collatia, che diventò
colonia romana governata dal nipote Egerio, , fu più clemente con Crustumerium e Nomentum.
Quindi combatté contro una coalizione di Latini ed Etruschi delle città di Chiusi, Arezzo, Volterra,
Roselle e Vetulonia corsi in aiuto dei Latini. Lo scontro si risolse, a seguito di due durissime
battaglie campali, a favore dei romani, che ebbero la meglio sulla coalizione nemica, con i Latini
che ottennero la pace dietro il pagamento dei danni e la restituzione di quanto depredato. Gli scontri
continuarono però anche nei due anni successivi, questa volta però contro una coalizione di Etruschi
e Sabini, fino a che i romani sbaragliarono i due campi nemici, che erano stati eretti alla confluenza
tra il Tevere e l'Aniene nei pressi di Fidenae, con uno stratagemma. In seguito a questa sconfitta i
Sabini concordarono con i romani una tregua di sei anni, contrariamente agli Etruschi, che
occuparono Fidenae con una propria guarnigione, avendo intenzione di continuare gli scontri. Gli
scontri tra i romani e gli Etruschi di Veio e Caere durarono altri sette anni, e si risolse con un grande
scontro campale presso la città sabina di Eretum, vinta dai romani. In seguito a questo scontro gli
etruschi si arresero ai romani e presentarono a Tarquinio Prisco i segni del potere delle proprie città,
Fasci Littori e Sedie Curuli, come segno di resa.

Riforma "equestre" dell'esercito romano

Attuò una riforma che riguardò la classe dei cavalieri, aumentandone gli effettivi. Egli decise di
raddoppiare il numero delle centurie o comunque aumentarne i loro effettivi (fino ad allora in
numero di tre), e di aggiungerne altre a cui diede un nome differenteQueste ultime furono chiamate
posterioreso sex suffragia, portando così il totale dei cavalieri a 600.

Ordinamento interno

Tarquinio riformò anche lo stato, aumentando il numero dei membri dell'assemblea centuriata a
1.800 componenti (contro il parere di un certo Attio Nevio) e raddoppiando (o comunque
aumentando) il numero di senatori, dai 100 membri romulei ai 200, aggiungendone comunque altri
100. Fu Tarquinio che per primo celebrò un trionfo su un cocchio dorato a quattro cavalli in Roma,
vestito con una toga ricamata d'oro ed una tunica palmata (con disegni di foglie di palma), vale a
dire con tutte le decorazioni e le insegne per cui risplende l'autorità del comando. E sempre a lui si
deve l'introduzione in città di usanze tipicamente etrusche, relative alla sua posizione regale, come i
riti sacrificali, la divinazione, la musica per le pubbliche manifestazioni, le trombe (tubae), gli
anelli, lo scettro, il paludamentum, la trabea, la sella curule, le faleree, toga pretesta ed i fasci littori
e le asce.

Politica urbanistica

Grazie alle fortunate guerre intraprese contro le vicine popolazioni, riuscì a rimpinguare le casse
statali con i ricchi bottini depredati alle città sconfitte. E sembra che decise di dotare la città di
Roma di nuove mura. Si occupò anche dei giochi della città, erigendo il Circo Massimo e
destinandolo come sede permanente delle corse dei cavalli, istituendo i ludi Romani; prima di allora
gli spettatori assistevano alle gare, che qui si svolgevano, seduti da postazioni di fortuna.In seguito a
forti alluvioni, che interessarono specialmente le zone dove sarebbe sorto il futuro Foro Romano,
fece poi iniziare la costruzione della Cloaca Massima. A lui si deve poi l'inizio dei lavori per la
costruzione del tempio di Giove Capitolino sul colle del Campidoglio.

Morte e sepoltura

Il maggiore dei figli di Anco Marzio, nella speranza di ottenere il trono che riteneva gli fosse stato
usurpato da Tarquinio, organizzò un complotto e lo uccise. I suoi piani furono però frustrati
dall'abile Tanaquilla, che fece in modo che il popolo romano eleggesse suo genero Servio Tullio
come sesto re di Roma e successore di Lucio Tarquinio Prisco.

Servio Tullio (578 a. C. – 539 a. C.)


Servio, come attestato anche dal nome, era di umili origini; nacque infatti da una prigioniera di
guerra (che si racconta fosse stata nobile nella sua città) ridotta a servire il focolare domestico del re
Tarquinio Prisco. Si narra anche potesse essere il figlio della schiava Ocresia (nobile di Corniculum,
fatta prigioniera) e di un Tullio, sempre di Corniculum attuale Montecelio. Si racconta poi che
quando da bambino, Servio stava ancora nella culla, gli brillò una fiamma sulla testa.

Regno (578 - 539 a.C.)

Deve la sua fortuna a Tanaquil, colta ed ambiziosa moglie del re Tarquinio Prisco, che ne indovinò
la futura grandezzae per questo gli diede in sposa la figlia e alla morte del marito fece in modo che
Servio gli succedesse come re di Roma. Infatti, quando Tarquinio fu ucciso in una congiura messa
in atto dai tre figli di Anco Marzio, ai quali aveva sottratto il trono, Tanaquil ne informò il popolo
romano nascondendo la morte del re, dicendo invece che egli era rimasto ferito e che nel frattempo
Servio Tullio ne sarebbe stato il reggente. Diede quindi modo a quest'ultimo di presentarsi come il
successore spontaneamente designato da Tarquinio quando, tre giorni dopo e solo in seguito al
ristabilirsi della calma, venne comunicata la morte del re etrusco. Il sesto re di Roma, saliva così al
trono senza alcuna espressione di consenso da parte del popolo e col tacito patto, propostogli dalla
suocera Tanaquil, di cedere la carica al primogenito orfano di Tarquinio non appena questi avesse
raggiunto la maggiore età.

« [...] alla morte di Tarquinio Prisco, grazie agli sforzi della regina [Tanaquil], Servio fu posto sul trono
al posto del re, come se fosse una misura non definitiva, ma conservò il regno conquistato con l'inganno
con tanta abilità, che sembrava lo avesse ottenuto in modo legittimo. »
(Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 6.2.)

Riforma militare per classi sociali e censimento

Fu l'autore della più importante modifica dell'esercito dell'epoca pre-repubblicana, dividendo la


popolazione in classi. Si rese conto, infatti, che per assicurare a Roma una forza militare sufficiente
a mantenere le proprie conquiste era necessario un esercito più numeroso di quello che possedeva
(un'unica legione di circa 3.000 uomini, detto esercito romuleo). Si impegnò quindi a favorire il
reclutamento degli strati inferiori della società, fino ad allora esclusi dal servizio militare, segnando
così il primo passo verso il riconoscimento politico di quella che solo grazie a questa riforma
prenderà a chiamarsi plebe. L'inclusione della plebe nell'esercito portò ovviamente i re etruschi ad
un primo contrasto con lo strato superiore della società romana, i patrizi, che vedevano minacciati i
propri privilegi. Servio Tullio modificò la tradizionale ripartizione in tribù del popolo romano, che
non tenne più conto dell'origine delle genti, ma che considerava come criterio di appartenenza il
luogo di residenza. Vennero così create quattro tribù urbane (Suburana, Palatina, Esquilina e
Collina) a cui se ne aggiungevano altre ventidue nel territorio circostante (regiones o pagi); in
questo modo, oltre a omogenizzare i cittadini romani, si poteva anche valutare il patrimonio dei
singoli cittadini e quindi fissarne il tributo che questi dovevano versare alle casse dello stato, oltre
che il censo, che ne determinava i diritti ed i doveri. Primo fra i Romani condusse il primo
censimento generale (dividendo i cittadini per patrimonio, dignità, età, mestieri e funzioni),
contando 80.000-83.000 cittadini romani, insieme a quelli delle campagne circostanti.

Riorganizzazione urbanistica

Ampliò il pomeriumed aggiunse alla città di Roma i colli Quirinale, Viminale e Esquilino, scavando
poi tutto intorno al nuovo tratto di mura un ampio fossato. Fece, quindi, costruire insieme agli
alleati latini, sull'Aventino, il tempio di Diana, che corrisponde alla dea greca Artemide, il cui
tempio si trovava ad Efeso, trasferendo da Ariccia il culto latino di Diana Nemorensis. Come per i
Greci, per i quali il tempio di Artemide rappresentava una federazione di città, con il tempio di
Diana, costruito intorno al 540 a.C., i Romani miravano a porsi come centro politico e religioso
delle popolazioni del Lazio e forse anche dell'Etruria meridionale. E sempre a Servio si ascrive
anche la decisione di costruire il Tempio di Mater Matuta ed il Tempio della Dea Fortuna, entrambi
al Foro Boario.

Politica militare

Roma continuò comunque la sua politica di espansione territoriale, sia a danno dei vicini Sabini, sia
delle città etrusche di Veio, Cere e Tarquinia le quali, non accettando la sovranità di Servio Tullio,
considerato un usurpatore, non volevano più rispettare gli accordi di tregua stipulati con Tarquinio;
dopo alterne vicende i Romani ebbero la meglio su queste città e ingrandirono il loro territorio verso
nord.

Morte e sepoltura

Servio Tullio fu ucciso da Lucio Tarquinio (chiamato dal popolo Tarquinio il Superbo una volta al
trono), che ebbe come complice la seconda moglie Tullia Minore, figlia minore di Servio. Si
tramanda infatti che Tarquinio, dopo aver provocato il re, gettasse questo giù dalle scale della
Curia; il sovrano, ferito ma non ancora morto, fu quindi finito dalla figlia che gli passò sopra con un
carro trainato da cavalli, mentre cercava di scappare dal foro.
Tarquinio il superbo (535 a. C. – 509 a. C.)
Figlio di Tarquinio Prisco, e fratello di Arunte Tarquinio, sposò prima Tullia Maggiore, la figlia
maggiore di Servio Tullio, poi sposò la sorella di questa, Tullia Minore, da cui ebbe i tre figli Tito,
Arrunte e Sesto, e con il cui aiuto organizzò la congiura per uccidere il suocero ed ascendere sul
trono di Roma. Tito Livio ci racconta che Tarquinio un giorno si presentò in Senato e si sedette sul
trono del suocero rivendicandolo per sé; Tullio, avvertito del fatto, si precipitò nella Curia.

« Servio, avvertito da un trafelato messo, sopraggiunse durante il discorso, e improvvisamente dal


vestibolo della Curia gridò a gran voce: "Che vuol dire cotesto, o Tarquinio? E con quale audacia osasti,
me vivo, adunare i Padri e sederti sul mio seggio?" » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. I, capoverso 48)

Ne nacque un'accesa discussione tra i due, che presto degenerò in scontri tra le opposte fazioni; alla
fine il più giovane Tarquinio, dopo averlo spintonato fuori dalla Curia, scagliò il re giù dalle scale.
Servio, ferito ma non ancora morto, fu finito dalla figlia Tullia Minore che ne fece scempio
travolgendolo con il cocchio che guidava.

Monarchia assoluta

A Tarquinio fu attribuito il soprannome di Superbo dopo che negò la sepoltura di Servio Tullio.
Tarquinio assunse il comando con la forza, senza che la sua elezione fosse approvata dal Popolo e
dal Senato romano, e sempre con la forza (si parla anche di una guardia armata personale) mantenne
il controllo della città durante il suo regno. In breve tempo annientò la struttura fortemente
democratica della società romana realizzata dal suo predecessore e creò un regime autoritario e
violento a tal punto da unire per la prima volta, nell'odio verso la sua figura, patrizi e plebei.

« Lui stesso dopo aver infierito contro i senatori con le stragi, contro la plebe con le verghe, contro tutti
con la superbia, che per la gente onesta è peggio della crudeltà, e dopo che fu soddisfatto della ferocia
esercitata in patria, si rivolse ai nemici [di Roma]. » (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum
DCC, I, 7.4.)
Politica militare

Se le fonti antiche lo criticano per come conquistò e mantenne il potere in città in modo tirannico, le
stesse gli riconoscono però grandi capacità militari: sotto il suo regno furono conquistate, infatti,
importanti città del Latium vetus, quali Suessa Pometia, Ardea, Ocricoli e Gabii.

« Tarquinio fu un re ingiusto coi suoi sudditi, ma abbastanza un buon generale quando si trattò di
combattere. Anzi, in campo militare avrebbe raggiunto il livello di quanti lo avevano preceduto sul
trono, se la sua degenerazione in tutto il resto non avesse offuscato anche questo merito. Fu lui a iniziare
coi Volsci una guerra destinata a durare due secoli, e tolse loro con la forza Suessa Pomezia. Ne
vendette il bottino e coi quaranta talenti d'argento ricavati concepì la costruzione di un tempio di Giove
[sul Campidoglio] le cui dimensioni sarebbero state degne del re degli dèi e degli uomini, nonché della
potenza romana e della sua stessa posizione maestosa. Il denaro proveniente dalla presa di Suessa fu
messo da parte per la costruzione del tempio. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. I, capoverso 53)

Sempre durante il suo regno, iniziò la centenaria lotta tra romani e i Volsci. Sappiamo, inoltre, che
il delegato della città latina di Aricia, Turno Erdonio, durante l'assemblea della Lega tenutasi presso
Locus Ferentinum, avendo osato opporsi al volere del Superbo re di Roma, fu messo a morte e fatto
affogare in un fosso.

A Tarquinio si fa discendere lo stratagemma con cui i romani conquistarono la città di Gabii, dove
mandò il proprio figlio Sesto Tarquinio che si fece accogliere in città dicendo di voler sfuggire alla
tirannia del padre. In verità il genitore ed il figlio agivano di comune accordo, dovendo il figlio
recare discordia nella città nemica, tanto che questa per i contrasti sorti al suo interno si diede a
Roma senza che fosse combattuta battaglia alcuna.

Espansionismo commerciale

Durante il periodo della dominazione etrusca Roma divenne un'importante stazione commerciale ed
acquisì il controllo su alcune comunità circostanti iniziando la sua espansione, anche con la
fondazione di colonie romane, come quelle di Signa e Circei.

Politica urbanistica

Sotto il suo regno fu portata a termine la costruzione della Cloaca Massima e del Tempio di Giove
Ottimo Massimo, dopo la campagna vittoriosa contro i Volsci, con il bottino delle città conquistate.

Fine del regno

Preoccupato da una visione, un serpente che sbucava da una colonna di legno, il re organizzò una
spedizione a Delo in modo da ottenerne un'interpretazione del famoso oracolo, inviandovi i propri
figli per chiedere chi avrebbe regnato su Roma; di questa spedizione fece parte anche Lucio Giunio
Bruto, nipote del re, che celava i suoi veri pensieri fingendosi stolto, bruto appunto. Dopo aver
avuto il vaticinio richiesto dal re, la comitiva chiese anche chi sarebbe stato il prossimo re di Roma;
il responso dell'oracolo, "Avrà in Roma il sommo imperio chi primo, o giovani, di voi bacerà la
madre",fu compreso solo da Bruto, che tornato in patria sbarcando finse di cadere e baciò la madre
terra. I fatti poi gli diedero ragione. In quel tempo Roma stava conducendo una guerra contro i
Rutuli asserragliati nella città di Ardea; tutti i cittadini atti alle armi partecipavano all'assedio. In
questo quadro si inserisce l'episodio di Lucio Tarquinio Collatino e di sua moglie Lucrezia, di cui si
invaghì il figlio del re Tarquinio Sestio. Questi, lasciato il campo, tornò a Roma dove con l'inganno
e la forza fece violenza a Lucrezia. Il giorno seguente, la donna si recò nel campo militare dove si
trovava il marito, e si uccise per il dolore di essere stata violentata.

« Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: "Tutto bene?" Lei gli risponde:
"Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le
tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia
morte. Ma giuratemi che l'adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte
è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se
siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui." Uno dopo l'altro
giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo
sull'autore di quell'azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che
pecca ma la mente e quindi, se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: " Sta a voi
stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò
una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore! "
Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita,
cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre »(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. I, capoverso 58)

Sconvolti dall'accaduto e pieni d'odio per Tarquinio e la sua famiglia, Bruto e Collatino giurarono di
non aver pace fino a quando i Tarquini non fossero stati cacciati dalla città.

Raccolto il cadavere della nobile donna, seguiti dai giovani seguaci, i due si diressero a Roma dove
Bruto parlò alla folla accorsa nel Foro; il suo eloquio fu così efficace e trascinante, e la nefandezza
di Sestio così grande, che riuscì a smuovere l'animo dei propri cittadini, stanchi dei soprusi dei
Tarquini, che proclamarono il bando dalla città del re, destituendolo, e dei suoi figli mentre questi,
avvertiti da dei seguaci, stavano tornando in città dal campo militare. Al re furono, quindi,
confiscati tutti i beni, fu poi consacrato il territorio a Marte e affidato dal popolo il potere ai
difensori della libertà.

Esilio

Tarquinio, messo al bando dalla città su cui regnava, venuto a sapere di questa notizia, mentre stava
ancora assediando la città di Ardea, partì per Roma per reprimere la rivolta. Lucio Giunio Bruto,
allora, informato che il re si stava avvicinando, per evitare l'incontro, fece una breve diversione e
raggiunse l'accampamento regio ad Ardea dove fu accolto con entusiasmo da tutti i soldati, i quali
espulsero i figli del re, mentre a quest'ultimo venivano chiuse le porte in faccia e comunicata la
notizia dell'esilio. Due dei figli seguirono il padre in esilio a Cere (Cerveteri), Sesto Tarquinio
invece, partito per Gabii, qui fu assassinato, da coloro che si vendicarono delle stragi e razzie da
quello compiute. In seguito a questi eventi, furono convocati i comizi centuriati dal prefetto della
città di Roma, ed elessero i primi due consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.
Inizio della Repubblica
Civiltà romana repubblicana
Vale qui la pena ricordare solo che i più alti comandi, come quello dell'esercito e il potere
giudiziario, che in età regia erano prerogativa del re, in epoca repubblicana, tranne che in poche
occasioni, furono assegnati a due consoli, mentre per quanto riguarda l'ambito religioso, prerogative
regie furono attribuite al pontifex maximus. Con la progressiva crescita di complessità dello Stato
romano si rese necessaria l'istituzione di altre cariche (edili, censori, questori, tribuni della plebe)
che andarono a costituire le magistrature. Per ognuna di queste cariche venivano osservati tre
principi: l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno (faceva eccezione la carica di
censore, che poteva durare fino a 18 mesi), la collegialità, ovvero l'assegnazione dello stesso
incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle
azioni dell'altro, e la gratuità. Il secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee
popolari, che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi. La
loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante
erano comunque i comizi centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo,
secondo un meccanismo (quello della divisione delle fasce censitarie in centurie) che rendeva
preponderante il peso delle famiglie patrizie. Il terzo fondamento politico della repubblica era il
Senato, già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie
(Patres) ed ex consoli (Consulares), aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati,
indicazioni che poi divennero de facto vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese dalle
assemblee popolari.

La cacciata di Tarquinio Il Superbo


Nel 509 a.C. la monarchia etrusca fu rovesciata eTarquinio il Superbo fu cacciato dalla popolazione
a causa dei continui abusi di potere, violenze e cattiva amministrazione.Romanon solo si rese
indipendente dal potere etrusco, ma nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco
nell'area dell'antico Latium vetus, e Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia
dalla città, si diede un assetto repubblicano, una forma di governo basata sulla rappresentatività
popolare e in contrasto con la precedente autocrazia monarchica.Il re deposto, Tarquinio il Superbo,
la cui famiglia si narra fosse originaria di Tarquinia in Etruria, ottenne il sostegno delle città di Veio
e Tarquinia, ricordando loro le sconfitte in guerra e le perdite di terra causate dallo stato romano,
oltre ai propri legami familiari. Gli eserciti delle due città seguirono Tarquinio nell'impresa di
riconquistare Roma, ma i due consoli romani, Publio Valerio Publicola e Giunio Bruto, avanzarono
con le forze romane per venire a contatto con loro.

Battaglia della Selva Arsia

L'ultimo giorno del mese di febbraio,gli eserciti delle due città etrusche seguirono Tarquinio in
battaglia, ed i consoli romani condussero l'esercito romano per intercettarli, con Publio Valerio al
comando della fanteria e Lucio Giunio al comando dei cavalieri. Nell'altro schieramento,il re
comandava la fanteria etrusca, e suo figlio Arrunte Tarquinio la cavalleria. Le cavallerie furono le
prime a scontrarsi, e Arrunte, dopo aver spiato da lontano i littori, e riconoscendo in tal modo la
presenza di un console, si accorse subito che Bruto era al comando della cavalleria. I due uomini,
che erano cugini, si affrontarono l'un l'altro, finendo entrambi uccisi.

Anche la fanteria si unì alla battaglia, e il risultato dello scontro rimase incerto per qualche tempo.
L'ala destra di ogni schieramento risultava vittoriosa, con l'esercito di Tarquinia che costrinse i
Romani a ripiegare, ed i Veienti piegati allo stesso modo dai romani. Lo scontro fu interrotto da una
violenta ed improvvisa tempesta, senza che fosse certo l'esito, tanti erano i morti che giacevano sul
campo di battaglia. Entrambe le parti reclamavano la vittoria.La notte dopo la battaglia, Tito Livio
riferisce, che si sentì la voce del Dio Silvano, proveniente dalla Selva, dire: "nella battaglia sono
caduti più Etruschi, e che i romani hanno vinto la guerra".Impauriti dalla voce molti tra gli Etruschi
fuggirono, lasciando i compagni prigionieri nelle mani dei romani e Valerio poté così rientrare a
Roma in trionfo, il primo trionfo celebrato da un condottiero romano (1º marzo del 509
a.C.).Valerio quindi organizzò con grande magnificenza il funerale di Bruto. Livio scrive che in
seguito, nello stesso anno, Valerio tornò a combattere i Veienti. Non è chiaro se questo scontro sia
stato la continuazione della battaglia della Selva Arsia, o frutto di una nuova disputa.

Porsenna assedia Roma


Primo assalto

E così Tarquinio, non essendo riuscito a riconquistare il trono insieme agli alleati etruschi delle città
di Tarquinia e Veio, cercò aiuto nel lucumone di Chiusi, Lars Porsenna (nel 508 a.C., durante il
consolato di Tito Lucrezio Tricipitino e Publio Valerio Publicola). Chiusi era a quel tempo una
potente città etrusca. Nonostante la tradizione ci presenti Lars Porsenna come re di Chiusi, ci sono
elementi che portano a ritenere che quest'ultimo agì anche per conto di altre città etrusche alleate o
sottomesse. Plinio il Vecchio, nel descriverci il leggendario mausoleo del sovrano, chiama Porsenna
non tanto "re di Chiusi" ma "Re d'Etruria", ed infine, nel riportare una storia etrusca secondo la
quale un fulmine fu evocato da Porsenna per distruggere il mostro Olta che minacciava la sua città,
indica Porsenna come re di Volsinii. Vi è da aggiungere, per completezza, che Dionigi di
Alicarnasso e Floro indicano Porsenna come lucumone della città di Chiusi e re di tutta l'Etruria.
Il Senato romano, venuto a sapere che l'esercito di Porsenna si stava avvicinando, temette che il
popolo di Roma potesse, per la paura, accogliere di nuovo il re Tarquinio in città. Per questo motivo
il Senato prese una serie di provvedimenti che rafforzassero la volontà da parte della plebe di
resistere di fronte all'imminente assedio. Si provvedette pertanto ad avere cura, prima di tutto,
dell'annona, inviando emissari tanto ai Volsci quanto a Cuma con l'obiettivo di procurare frumento;
il commercio del sale, il cui prezzo era ormai aumentato alle stelle, fu sottratto ai privati e divenne
monopolio di stato; la plebe venne esentata da dazi e tributi, mentre le classi abbienti dovettero
sostituirsi fiscalmente nella misura in cui erano in grado di farlo. Queste misure ebbero successo,
tanto che la popolazione di Roma prese animo, pronta a combattere contro il nemico.

Quando il nemico etrusco apparve, Tito Livio racconta che ci fu un generale fuggi fuggi dalle
campagne a Roma, che venne munita di numerosi presidi armati. Il ponte Sublicio offriva al nemico
una breccia, se non fosse stato per un uomo solo, Orazio Coclite, il quale da solo si oppose al
nemico. Destinato, per caso, alla guardia del ponte, vide che il nemico aveva ormai occupato il
Gianicolo con un attacco a sorpresa e poi, da quel punto, stavano scendendo rapidamente verso il
ponte. I compagni di Orazio, in preda al panico, gettarono le armi e provarono a darsi alla fuga, ma
Orazio riuscì a bloccarli, urlando che era inutile fuggissero, poiché avrebbero permesso in poco
tempo al nemico di occupare anche il Palatino ed il Campidoglio. Ottenuto ciò che voleva, Orazio
esortò i suoi compagni a distruggere il ponte con qualunque mezzo avessero a disposizione,
compreso il fatto di dargli fuoco, mentre egli avrebbe retto, anche da solo, l'urto dei nemici. Avanzò
così a grandi passi verso l'ingresso del ponte, lasciando gli Etruschi sbalorditi per l'incredibile
coraggio che dimostrava nell'affrontarli, armi alla mano.

Battaglia del Ponte Sublicio (508 aC). dispiegamento di forze

« Trattenuti dal senso dell'onore due restarono con lui: si trattava di Spurio Larcio e Tito Erminio,
entrambi nobili per la nascita e per le imprese compiute. Fu con loro che egli sostenne per qualche
tempo la prima pericolosissima ondata di Etruschi e le fasi più accese dello scontro. Poi, quando rimase
in piedi solo un pezzo di ponte e quelli che lo stavano demolendo gli urlavano di ripiegare, costrinse
anche loro a mettersi in salvo. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 10)

Gli Etruschi allora ebbero un attimo di incertezza. Poi, spinti dalla vergogna, si gettarono tutti
insieme all'assalto, urlando. Ma Orazio riuscì a ripararsi con lo scudo da tutti i loro colpi e
mantenne la posizione ad ogni costo. Quando gli Etruschi erano ormai prossimi a travolgerlo, il
fragore del ponte che andava in pezzi e la gioia dei Romani per aver portato a termine l'operazione,
ne contennero l'urto. In quello stesso momento Coclite gridò: «O padre Tiberino, io ti prego
solennemente di accogliere benignamente nella tua corrente questo soldato con le sue armi!» Detto
ciò, si tuffò nel Tevere armato e, sotto un lancio fittissimo di frecce, giunse indenne a nuoto fino
alla sponda dove si trovavano i suoi commilitoni, protagonista di un'impresa destinata a grande eco
presso i posteri, tanto che la Res publica lo ricompensò più tardi con una statua in pieno comizio e
la concessione di tutta la terra che fosse riuscito ad arare in un giorno. Accanto agli onori ufficiali,
ci furono anche attestati di gratitudine da parte dei privati cittadini, i quali, nonostante il periodo di
grande carestia, donarono una razione dei loro viveri, secondo le proprie possibilità.

Assedio alla città

Porsenna, respinto al primo attacco, decise di modificare la propria strategia, ponendo la città di
Roma sotto assedio. Pose, quindi, una guarnigione sul Gianicolo e si accampò in pianura lungo le
rive del Tevere. Poi, mise insieme una flottiglia con le imbarcazioni che riuscì a razziare nei
dintorni, impiegandola per il blocco alle importazioni di grano a Roma, oltre a mettere i suoi armati
nelle condizioni di compiere delle razzie ai danni dei Romani. In questo modo i contadini romani
furono costretti a portare all'interno delle mura cittadine, non solo tutto ciò che possedevano nei
campi, ma anche il bestiame che nessuno più osava portare al pascolo fuori città. Ma sembra anche
che tutta questa libertà lasciata agli Etruschi facesse parte di un preciso piano. Tito Livio racconta
infatti che il console Valerio, in attesa di assalire di sorpresa un numero consistente di nemici,
permetteva continuassero le aggressioni di poca importanza. E così un giorno, per attirare il nemico,
fece sapere agli Etruschi, tramite un disertore, che avrebbe permesso ai Romani di uscire in massa
con le greggi, il giorno successivo, dalla porta Esquilina (la più distante dalle postazioni nemiche).
Gli Etruschi, allora, guadarono il Tevere in molti più del solito, sperando in un ricco bottino.

Publio Valerio Publicola diede ordine a Tito Erminio di appostarsi con un modesto contingente
sulla via Gabinia, a due miglia da Roma; Spurio Larcio venne, invece, inviato alla porta Collina con
un contingente di giovani fanti, armati alla leggera, e di lasciar passare il nemico per poi tagliargli la
via della ritirata. Dei due consoli, Tito Lucrezio Tricipitino uscì dalla porta Nevia con alcuni
manipoli, mentre Valerio guidò delle truppe scelte sul monte Celio, che per prime il nemico avrebbe
viste. Quando Erminio capì che la battaglia era iniziata, uscì dal suo nascondiglio e piombò sulle
retrovie etrusche, incuranti del pericolo che avevano alle spalle, poiché erano rivolti in direzione di
Lucrezio. A sinistra, dalla porta Collina, e a destra, da quella Nevia, altri reparti romani giunsero,
circondando il nemico e massacrandolo, visto che erano inferiori in numero ai Romani e senza
possibilità di ritirarsi. Questa sconfitta segnò la fine delle razzie etrusche. L'assedio di Porsenna
continuò, risultando per i Romani pressante la sua tattica che li costringeva a non potersi rifornire
adeguatamente di frumento, che cominciava pertanto a scarseggiare. Porsenna nutriva, infatti,
speranze di espugnare la città. Intanto, un giovane di nobile famiglia, Gaio Muzio non riusciva a
sopportare che il suo popolo, mai prima d'ora assediato da altri popoli, una volta libero dal regime
monarchico, fosse costretto a rimanere rinchiuso tra le mura dagli Etruschi che, in passato,
combattendo contro Roma avevano solo subito sconfitte. Determinato a porre fine all'assedio, senza
consultare nessuno, decise di penetrare nell'accampamento nemico. Ma poiché temeva, senza
l'adeguata autorizzazione consolare, di essere arrestato per diserzione se le sentinelle romane lo
avessero sorpreso, preferì comparire di fronte al senato. Qui espose il suo piano dicendo:

« Senatori, vorrei attraversare il Tevere e penetrare, qualora sia possibile, nell'accampamento nemico,
non per compiere atti di razzia e ripagare il nemico con identica moneta. No, con l'aiuto degli dèi vorrei
fare qualcosa di più grande. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 12.)

I senatori approvarono e Muzio decise di compiere l'impresa con una spada nascosta sotto la veste.
Giunto all'accampamento etrusco, riuscì a mescolarsi nel fitto della folla di fronte al palco del re.
Casualmente era giorno di paga per i soldati e vi era uno scrivano, seduto accanto al re, vestito in
modo simile a lui, al quale tutti i soldati si rivolgevano. E poiché Muzio non voleva chiedere quale
dei due fosse Porsenna, per evitare di essere smascherato, preferì affidarsi alla sorte e sgozzò lo
scrivano al posto del re. Cercò quindi di fuggire, facendosi largo con la spada insanguinata in mezzo
alla folla, presa dal panico. Giunte poco dopo le guardie reali, poco dopo riuscirono a catturarlo,
portandolo di fronte al palco del re. Qui, Muzio, al cospetto di Porsenna disse:

« Sono romano e il mio nome è Gaio Muzio. Volevo uccidere un nemico da nemico, e morire non mi fa
più paura di uccidere. Il coraggio nel fare e nel soffrire è cosa da Romani. E io non sono il solo a
provare questi sentimenti nei tuoi confronti: dopo di me la lista dei nomi di quelli che vorrebbero avere
questo onore è lunga. Per questo motivo, da oggi in poi, se ci tieni alla vita, preparati a difenderla ogni
ora del giorno e abituati all'idea di un nemico armato fin nel vestibolo della reggia. Questa è la guerra
che i giovani romani ti dichiarano: nessuna battaglia, non aver paura. Sarà solo una cosa tra te e uno di
noi. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 12.)

Poiché il re era furibondo e terrorizzato per il pericolo corso, e minacciava di mandarlo al rogo se
non dava adeguate spiegazioni, Muzio esclamò:

« Attento! Questo è il valore che il corpo dà a chi aspira a una grande gloria!  »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 12.)

Così dicendo infilò la mano destra in un braciere acceso, pronto per un sacrificio, e la lasciò
bruciare come se fosse stata priva di sensibilità. Il re fu talmente sbalordito dal gesto che, dopo
essersi alzato di scatto dal suo scranno, costrinse il giovane ad allontanarsi dall'altare e gli disse:

« Vattene, sei libero! Sei riuscito a colpire te stesso più di quanto tu non abbia fatto con la mia persona.
Ti attribuirei grandi onori se solo tu fossi al servizio del mio popolo, ma poiché non è così, ti risparmio
la vita e ti lascio libero. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 12.)

Allora Muzio, per ricambiarne la generosità, aggiunse che avevano giurato in trecento, il meglio
della gioventù romana, di provare ad uccidere il sovrano etrusco in ogni modo, e che Muzio era
stato semplicemente sorteggiato per primo. Gli altri avrebbero perseguito il loro obbiettivo fino a
quando non fosse stato ucciso. Una volta rilasciato Muzio, in seguito soprannominato Scevola per la
perdita della mano destra, vennero inviati a Roma degli ambasciatori da parte di Porsenna. Il re,
scosso all'idea di dover affrontare lo stesso pericolo per altre trecento volte, pari al numero dei
futuri aggressori, preferì offrire la pace ai Romani.

Reazioni immediate

Secondo la leggenda romana, Porsenna, pieno di ammirazione per gli atti di valore dei Romani, tra
cui basta ricordare quelli di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, desistette dal conquistare
Roma, facendo ritorno a Chiusi. Questo secondo quanto raccontano gli storici favorevoli alla
tradizione romana come Tito Livio, o Floro, probabilmente per nascondere una possibile disfatta
romana. Livio infatti aggiunge che tra le richieste del trattato di pace offerto da Porsenna ai Romani,
c'era anche quella riguardante la restituzione del trono di Roma ai Tarquini, anche se sapeva in
partenza che sarebbe stata rifiutata. Porsenna fu costretto ad avanzare tale proposta, poiché non se la
sentiva di negare la cosa in partenza ai Tarquini. Ottenne invece la restituzione dei territori perduti
dai Veienti. Quanto ai Romani, furono costretti a consegnare degli ostaggi, in cambio del ritiro della
guarnigione etrusca dal Gianicolo. Conclusa la pace a queste condizioni, Porsenna lasciò il territorio
romano, mentre a ricompensa del gesto coraggioso che aveva portato alla fine della guerra, il
Senato donò a Muzio un terreno al di là del Tevere che in séguito prese il nome di prata Mucia.
Vi fu infine un atto di patriottismo, questa volta da parte di una ragazza romana di nome Clelia, cui
era toccato in sorte di far parte del numero di ostaggi. Poiché l'accampamento etrusco era
posizionato vicino alla riva del Tevere, la ragazza riuscì a fuggire alle sentinelle e, con un gruppo di
coetanee, attraversò a nuoto il fiume sotto una pioggia di frecce, riuscendo a salvarsi ed raggiungere
i propri parenti in città. Quando il re lo venne a sapere, mandò degli ambasciatori a Roma per
chiedere la restituzione di Clelia, senza preoccuparsi delle altre ragazze. Passato poi dalla collera
all'ammirazione per l'impresa della ragazza, disse che il rifiuto di restituire l'ostaggio avrebbe
costituito una violazione del trattato. Promise quindi che non le avrebbe fatto alcun male. Fu così
che i Romani riconsegnarono la ragazza, che il re etrusco non solo protesse, ma onorò,
permettendole di scegliere gli altri ostaggi che avrebbero dovuto farle compagnia e che Clelia
indicò in alcuni adolescenti come lei. Una volta conclusa la pace, i Romani immortalarono il gesto
di estremo coraggio della ragazza con una statua equestre in cima alla Via Sacra.Ancora Livio
racconta che qualche anno più tardi (nel 504 a.C.), Porsenna fece l'ultimo tentativo diplomatico per
restituire ai Tarquini il trono di Roma. Allora il senato inviò al re alcuni suoi eminenti membri, con
una risposta garbata ma concisa da non lasciare alcuno spazio alla mediazione, evitando però di
rovinare i buoni rapporti tra i due popoli (Roma e Chiusi):

« Niente re a Roma » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 15.)

Gli ambasciatori romani pregarono il re affinché, qualora gli stesse a cuore il bene di Roma, non
calpestasse la loro libertà. Vinto dal senso di rispetto, Porsenna rispose:

« Poiché vi vedo assolutamente irremovibili, non vi chiederò più su una questione a senso unico, né
illuderò più i Tarquini con la speranza di dar loro un aiuto che non posso garantirgli.

Qualunque siano le loro intenzioni [...], dovranno cercarsi un altro posto per il loro esilio, in modo da
non incrinare i nostri rapporti » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 15.)

Alle sue parole seguirono ulteriori dimostrazioni di amicizia, con la restituzione di tutti gli ostaggi,
oltre al territorio di Veio avuto dopo il trattato di pace sottoscritto sul Gianicolo. Tarquinio, invece,
persa ogni speranza di poter rientrare, si ritirò in esilio a Tuscolo, presso il genero Ottavio
Mamilio.Invece, secondo la versione di Dionigi di Alicarnasso, dopo la partenza di Porsenna il
senato romano inviò al re etrusco un trono d'avorio, uno scettro, una corona d'oro e una veste
trionfale, che rappresentava l'insegna dei re. Da Plutarco veniamo, inoltre, a sapere che a Porsenna
fu eretta una statua di rame in prossimità del senato e che la città dovette pagare decime per molti
anni. Anche Plinio il Vecchio lascia intendere che Porsenna proibì ai Romani l'uso del ferro se non
in agricoltura.

Impatto sulla storia

L'arresto dell'espansionismo etrusco era pertanto cominciato sul finire del VI secolo a.C. Prima era
stata Roma a liberarsi dalla loro supremazia con la cacciata, verso il 510 a.C., dei Tarquini; poi se
ne liberarono i Latini, che, sostenuti da Aristodemo di Cuma, ad Ariccia, nel 506 a.C., sconfissero
le forze etrusche poste sotto il comando del figlio di Porsenna, Arunte. In questo modo, gli
avamposti degli Etruschi in Campania rimasero isolati e si indebolirono dopo la sconfitta navale che
essi subirono a Cuma nel 474 a.C. (v. battaglia di Cuma), andando perduti nel 423 a.C. con la
conquista di Capua da parte degli Osci.Roma approfittò della nuova situazione venutasi a creare. Il
significato storico che sta sotto l'elaborazione leggendaria della fondazione della repubblica
riguarda due aspetti fondamentali per la storia militare e sociale romana: l'emancipazione politica
dagli Etruschi e, soprattutto, l'esito del contrasto tra l'istituzione monarchica ed il ceto dei Patrizi;
questi ultimi, preoccupati dalle iniziative politiche popolari sostenute dai re etruschi (come la
riforma centuriata e l'imposizione fiscale "progressiva"), che sembravano condurre ad un sempre
crescente peso della plebe, si assicurarono con la cacciata di Tarquinio il Superbo il controllo
politico e sociale attraverso un istituto oligarchico.Vi è da aggiungere che vi fu un'altra componente
che favorì la cacciata da Roma degli Etruschi: l'alleanza con i Sabini. Questi ultimi, scendendo dai
monti verso il Latium vetus, andarono ad insidiare il fianco etrusco. Questa collaborazione latino-
sabina è confermata - secondo il De Francisci - non solo in base a quanto riferito da Livio (secondo
il quale Atta Clausus con la gens Claudia ed i suoi clientes vennero ammessi nel territorio romano)
ma anche dal fatto che Appio Erdonio (di chiara origine sabina) si impadronì del Campidoglio (nel
460 a.C.). In aggiunta a ciò, va tenuto presente che molte delle cariche più elevate di questi anni
vennero occupate da gentes sabine come i Valerii, i Claudii, i Postumii e gli Lucretii. Il periodo
immediatamente successivo alla cacciata dei Tarquini fu segnato da una crisi militare ed economica
per l'Urbe: l'espansione territoriale guidata dai re fu seguita da una controffensiva dei popoli
circostanti (Equi e Volsci), che ridimensionarono i confini di Roma, mentre l'emarginazione dei ceti
plebei artigiani e mercantili, che sotto la monarchia avevano guidato la crescita economica della
città, portarono ad una recessione economico-agricola dominata dai grandi proprietari terrieri.I
primi Consoli assunsero il ruolo del re con l'eccezione dell'alto sacerdozio nell'adorazione di
Iuppiter Optimus Maximus nel grande tempio sul colle Capitolino. Per quel compito i Romani
elessero un Rex sacrorum o "Re delle cose sacre". Fino alla fine della Repubblica, l'accusa di
volersi dichiarare re, rimase una delle più gravi accuse a cui poteva incorrere un personaggio
potente (ancora nel 44 a.C. gli assassini di Giulio Cesare sostennero di aver agito per prevenire la
restaurazione di una monarchia esplicita).

I primi anni della Repubblica (509-493 a.C)


I primi anni della Repubblica furono caratterizzati dalla necessità di stabilizzare il nuovo ordine,
difendendolo sia da nemici interni (coloro che venivano accusati di voler restaurare il regime
monarchico), sia dai nemici esterni, che, contando sulla debolezza del nuovo regime, provarono a
recuperare la propria indipendenza dallo Stato romano. Nel 507 a.C. il Tempio di Giove Ottimo
Massimo, per secoli simbolo della potenza romana, fu dedicato al dio da uno dei primi consoli
repubblicani, Marco Orazio Pulvillo, quasi ad avocare al nuovo stato un tempio voluto e realizzato
dagli ultimi tre re di Roma. In qualche modo, la difesa del nuovo ordine della Repubblica, da quello
appena rovesciato della monarchia, fu un movimento storico che a Roma assunse caratteri di psicosi
collettiva, considerando che lo stesso Publio Valerio (il futuro Publicola ovvero amico del popolo),
dovette difendersi dall'accusa di voler farsi re, costretto poi ad abbattere la dimora che stava
costruendo in cima al Velia e promulgando una legge che permetteva a tutti i cittadini romani di
uccidere chiunque avesse tentato di farsi re. Il corpo sociale era in fermento: all'ordine più
tradizionalista, come quello legato alle famiglie patrizie, si contrapponeva il popolo romano (la
plebe), in un movimento dialettico che sfociò anche nella violenza e che sarebbe emerso più
chiaramente nel decennio successivo, con la prima secessione della plebe del 494 a.C. È di questo
periodo l'introduzione nell'ordinamento romano della provocatio ad populum, che garantiva ad ogni
cittadino che fosse stato condannato da un magistrato alla pena capitale, di appellarsi al popolo per
trasformare la pena inflittagli, e la nomina di due questori da parte del popolo. Dal punto di vista
militare, dopo essersi garantita l'indipendenza dal potente vicino etrusco, Roma si trovò a dover
ristabilire la propria autorità lungo i confini settentrionali con i Sabini, che sempre più spesso
compivano scorrerie in territorio romano (nel 505 a.C. sull'Aniene e 504 a.C. nei pressi di Fidene), e
verso i meridionali, dove la colonia di Pometia fu duramente punita per essere passata dalla parte
degli Aurunci. Che i Romani si sentissero accerchiati, lo si desume dai trionfi che furono accordati
per vittorie forse anche di modeste dimensioni, ma ancor più dall'istituzione della figura del
dittatore, carica che per la prima volta fu attribuita nel 501 a.C. a Tito Larcio, in previsione di una
futura guerra contro una lega di città latine. È in queste condizioni che si sviluppò quella che
potremmo definire una prima forma di "politica estera" dello stato romano: il divide et impera, teso
a dividere gli avversari, grazie ad azioni diplomatiche, per poi arrivare allo scontro campale con un
nemico indebolito nella propria consistenza numerica.Nel 499 a.C. la città di Fidenae, che alcuni
sostengono fosse di origine latina, altri etrusca, fu assediata dai Romani.

Prima guerra latina (505 – 493 a.C.)


La caduta della monarchia romana lasciò i Sabini in una posizione ambigua riguardo alla politica di
Roma. I loro trattati erano stati stipulati con i re, ma ora i re se ne sono andati. Nel 505 aC Porsena
convinse i Sabini che avrebbero dovuto aiutare a restaurare i re. I tentativi sabini furono sconfitti tre
volte e i consoli Marco Valerio Voluso e Publio Postumio Tubertino ottennero un trionfo. I trionfi
sono registrati nei Fastos Triumphales, anche se i dettagli di queste battaglie sono andati perduti.

Battaglia di Fidene 504 a.C

Nel 504 aC i consoli eletti furono Publio Valerio Poplicola (per la quarta volta) e Tito Lucrezio
Tricipitinus (per la seconda). Secondo Livio, volevano dare una lezione ai Sabini, che portò
all'elezione di questi consoli esperti.
I consoli marciarono verso la città di Fidene dove i Sabini ei loro alleati avevano piantato il loro
accampamento. All'arrivo ogni console stabilì il proprio accampamento, Poblicola presso i Sabini
all'aperto, mentre Tricipitino si accampò su un colle presso Fidene .

Prima guerra latina con indicazione delle battaglie. La linea verde è il confine romano nel 700 a.C.,
la linea rossa è il confine romano nel 500 a.C., la linea rossa tratteggiata è il confine tra le città-stato
latine

Il piano di Sabine era quello di attaccare di notte l'accampamento di Publicola, lasciando un agguato
per impedire a Tricipitino di venire in aiuto del collega, ma alcuni disertori rivelarono il piano.
L'attacco è avvenuto dopo la mezzanotte. I Sabini riempirono il fossato e misero rampe oltre il muro
indisturbati, nonostante il rumore, credendo che i romani dormissero. Entrarono nell'accampamento
dove speravano di sorprendere i romani, ma erano in fila ad aspettarli al buio. Le truppe hanno
urlato e caricato contro gli intrusi sorpresi. I Sabini subirono una grave sconfitta in cui
presumibilmente subirono 13.500 morti e 4.200 prigionieri. Fidene sarebbe quindi stata assediata e
presa d'assalto.

Battaglia di Eretum 503 a.C

Nel 503 aC i Sabini approfittarono del fatto che l'esercito romano si impantanò nel fallito assedio
della ribelle colonia latina di Pomezia, apparendo addirittura davanti alle mura stesse di Roma.
Tuttavia, alla fine si ritirarono dopo aver sconfitto una forza romana improvvisata e saccheggiato
l'area circostante. I romani marciarono di nuovo contro i Sabini, sconfiggendoli nella battaglia di
Eretum. L'ormai scomparsa città di Eretum era situata nella valle del Tevere, al confine con i
Sabini.

Battaglia di Cure 502 aC

La vittoria definitiva avverrebbe nell'anno 502 aC, nella battaglia di Cure, città situata 45 km a nord
di Roma nella valle del Tevere, nella quale il console Casio Vecelino avrebbe causato 10.300
vittime ai Sabini e fatto 4.000 prigionieri. . I Sabini chiesero la pace, accettando di consegnare
grano e alcuni seminativi a Roma. La tranquillità durò poco perché la Lega Latina insorse contro la
Roma su richiesta di Tarquinio il Superbo. Questa rottura incoraggiò i fidenati esiliati, che nel 500
aC riuscirono a riconquistare Fidene ea rivoltarla contro Roma. Un anno dopo ci fu un tentativo
romano di riconquistare Fidene ma l'assedio fallì.
Battaglia del Lago Regilus 495 a.C

Nel 495 aC, di fronte alla minaccia imminente di un'invasione sabina, i romani nominarono
dittatore (temporaneo) Aulo Postumio Albo. Un esercito sabino entrò in territorio romano,
avanzando fino al fiume Anio, e saccheggiò le zone rurali. Postumius White radunò un esercito di
23.700 fanti e 3.000 cavalieri. Mandò il suo magister equitum (secondo in comando) Publio Servilio
Prisco con la cavalleria per incontrare il nemico, mentre si lasciò indietro con la fanteria. La
cavalleria romana attaccò i ritardatari sabini e raggiunse la massa sabina che aveva 40.000 fanti e
3.000 cavalieri, tra i loro ranghi c'erano romani esiliati tra cui Tarquinio ei suoi figli. I Sabini
diedero battaglia nei pressi dello scomparso lago Regilo, molto vicino alla città di Gabii.
Sia Postumio Albo che il suo secondo furono feriti, così come Mamilio. La battaglia del Lago
Regilus era a un tavolo quando Lucio Tarquinio intervenne con gli esuli romani e stava per vincere
la battaglia. Tuttavia, un intervento della guardia di cavalleria di Postumio Albo riuscì a ripristinare
la situazione. L'appoggio della cavalleria diede nuovo coraggio alla fanteria romana che vinse i
nemici, provocando 25.000 vittime e uccidendo Mamilio e facendo 5.000 prigionieri,
apparentemente solo 10.000 sopravvissuti.

L'anno successivo, 494 aC, Volsci, Sabini ed Equi presero le armi contemporaneamente. Per far
fronte alla minaccia fu nominato un nuovo dittatore romano, Manius Valerius Maximus. Furono
radunate dieci legioni, il più grande esercito mai formato. Il dittatore fece marciare il suo esercito
per incontrare i Sabini, anche se il luogo della battaglia non è chiaro. L'esercito sabino si schierò in
una formazione molto ampia con il centro troppo debole. Il dittatore sfruttò questa debolezza,
lanciando una carica di cavalleria attraverso il centro sabino, seguita da un attacco di fanteria. I
Sabini furono sconfitti e fuggirono. I romani catturarono l'accampamento dei Sabini e rivendicarono
la vittoria nella guerra. La vittoria fu importante quanto la battaglia del Lago Regilus.
La guerra si concluse così con il cosiddetto foedus cassianum (dal nome del console Espurio Casio)
attraverso il quale Roma fu eretta a principale potenza del Lazio. Riconosceva tuttavia l'autonomia
delle città latine, che avrebbero dovuto fornire aiuti militari in caso di minaccia esterna, riservando
in quel caso a Roma il comando militare dell'alleanza. Furono autorizzati anche i matrimoni misti e
l'instaurazione di stabili rapporti commerciali. Nel 493 il console Postumus Cominius assediò la
città volsca di Corioli. Mentre le forze romane si concentravano sull'assedio della città, una forza
volsca di Anzio attaccò i romani, contemporaneamente le forze della città di Corioli organizzarono
una sortita. Gaio Marcio notò la partenza delle forze volsche e radunò una manciata di soldati
romani per sfondare le file nemiche ed entrare in città. Prendendo l'iniziativa, Coriolano e le sue
forze caricarono contro le porte della città e cominciarono ad appiccare il fuoco ad alcune case
vicino alle sue mura, il colpo d'effetto fu tale che le forze volsche si arresero sul posto, e fu allora
che Gaio Marcio ottenne il soprannome di "Coriolano". Dopo aver sconfitto i Volsci, Coriolano
godette di grande popolarità a Roma, ma a causa della sua ideologia conservatrice e del suo stile di
vita ostentato fu accusato di appropriazione indebita di fondi pubblici e sedizione e fu imprigionato
ed esiliato dalla città di Roma. Coriolano esiliato offrì i suoi servigi ai Volsci, suoi ex nemici,
contro Roma. Coriolano condusse così l'offensiva contro Roma insieme alla lega latina e continuò a
depredare le terre dei plebei, lasciando intatte le terre dei patrizi, per generare disordini sociali.
Dopo aver saccheggiato le città a sud di Roma, l'esercito di Coriolano si accampò sulle mura di
Roma, pronto a porre l'assedio. Nel suo accampamento apparvero le levatrici della città guidate
dalla madre e dalla moglie, che lo rimproverarono per la sua ingiustizia e lo implorarono in
ginocchio. Infine Coriolano cede alle suppliche della madre e della moglie e rinvia l'assedio e si
ritira ad Anzio.

Foedus Cassiano

Il foedus Cassianum o Trattato di Cassio era un trattato che formò un'alleanza tra la Repubblica
Romana e la Lega Latina nel 493 a.C. C. dopo la battaglia del Lago di Regilo. Questo trattato pose
fine alla guerra tra la confederazione latina e Roma, ponendo Roma in una posizione di potere pari a
quella di tutti i membri della Lega messi insieme. Nel loro primo trattato con Cartagine, i Romani
enumerarono le campagne che circondavano la città come parte del loro territorio, affermazione che
la Lega Latina contestava, denunciando che detto territorio apparteneva effettivamente a loro.
Scoppiò una guerra che portò alla vittoria dei romani nella battaglia del lago Regillus e alla sconfitta
condizionale della confederazione subito dopo. Il trattato, il primo foedus mai firmato da Roma,
suggellò la capitolazione. Fu completato nel 493 a.C. C. tra Roma e trenta città latine come due
potenze indipendenti. I foedi presero il nome da Spurio Cassio che era console della Repubblica
Romana al momento della firma del trattato e che si presume abbia negoziato i termini dell'accordo.
Il trattato aveva diversi termini: non solo prevedeva la pace tra le due parti, ma imponeva che gli
eserciti romano e latino si unissero per fornire una difesa reciproca alle tribù italiche. Un altro
termine era che la Lega Latina e Roma avrebbero condiviso tutto il bottino preso durante la guerra.
Inoltre, le due parti hanno deciso di stabilire colonie congiunte nel territorio catturato in modo che
entrambi prosperassero. Infine, istituì una comunità di diritti privati tra le città di Roma e quelle di
qualsiasi città latina. Il trattato, di cui una copia in bronzo è sopravvissuta nel Foro Romano fino al
tempo di Marco Tullio Cicerone, fu una pietra miliare nella storia antica di Roma. L'originale non è
sopravvissuto, ma una versione è data da Dionisio di Alicarnasso. Il trattato rafforzò fortemente
Roma, in quanto sostanzialmente aggiunse la potenza militare dei Latini all'esercito dell'ancora
debole Repubblica Romana. Questa situazione permise a Roma di espandersi ulteriormente,
conquistando gran parte della penisola italiana. Il trattato fu rinnovato nel 358 a. C.; tuttavia, Roma
rinnegò il trattato subito dopo e iniziò un'altra guerra latina. Alla fine, Roma sconfisse i membri non
romani della Lega e il foedus Cassianum rimase invalido.

Vicende politiche interne (494-487 a.C.)


Intanto la città era teatro di violenti conflitti tra patrizi e plebei, conflitti che trovano origine nella
richiesta dei secondi di essere rappresentati nelle istituzioni della città (istituzioni che, dopo la
caduta della monarchia, erano appannaggio esclusivo dei patrizi) e di non essere ridotti in schiavitù,
in applicazione del Nexum, perché debitori a seguito di eventi bellici. In quel frangente l'Urbe riuscì
a resistere alle forze esterne solo ritrovando l'accordo tra i due ordini (il dittatore Manio Valerio
Massimo promise le riforme a guerra conclusa) i quali, compatti, con rapide ed efficaci azioni
militari riuscirono nel 494 a.C. a respingere gli attacchi dei Sabini, Equi e Volsci. A guerra
conclusa, poiché i patrizi non volevano concedere ai plebei quanto promesso, soprattutto a causa
della forte opposizione a questa riforma dell'ala più oltranzista dei patrizi guidata da Gneo Marcio,
conosciuto come Coriolano, questi per la prima volta nella storia romana adottarono come forma di
lotta politica la secessio plebis, ovverosia abbandonarono la città, ritirandosi sul monte Sacro
appena fuori le mura cittadine, rifiutandosi di rispondere alla chiamata alle armi dei Consoli.

La rivolta della plebe del 494 a.C.

I plebei romani in rivolta (si è parlato di un vero e proprio sciopero),si ritirarono sul Monte Sacro e
furono ricondotti all'ordine dal senatore di rango consolare Menenio Agrippa con il famoso apologo
pronunciato: con una metafora come in Esopo, il convincente Agrippa paragonò l'ordinamento
sociale romano a un corpo umano, nel quale tutte le parti sono essenziali; e, brevemente, ammise
che se le braccia smettessero di lavorare lo stomaco non si nutrirebbe e proseguì dicendo che ove lo
stomaco languisse, le braccia non riceverebbero la loro parte di nutrimento. La situazione fu
velocemente ricomposta ed i plebei fecero solerte ritorno alle loro occupazioni.

La plebe, rimanendo sulla collina per alcuni giorni e rifiutandosi di dare il solito contributo alla vita
della città, ottenne l'istituzione dei tribuni della plebe e degli edili della plebe e l'istituzione di una
propria assemblea, il concilium plebis, che eleggeva i tribuni e gli edili plebei. Le delibere dei
concilia plebis (plebisciti) avevano valore di legge per i plebei. Sia i tribuni che gli edili della plebe
erano inviolabili. Peraltro il ricomporsi della frattura tra i due ordini non comportò il ristabilirsi
della concordia interna. In ricordo dell'evento e a monito per il mantenimento degli accordi pattuiti i
plebei eressero sulla cima del monte un'ara dedicata a Giove Terrifico. Forse anche da questo deriva
il titolo di "sacro" assegnato al monte.

Guerra contro gli Ernici (487 a. C.)


Il Senato Romano inviò un'ambasceria agli Ernici, chiedendo conto delle loro scorrerie nelle
campagne romane, mentre Roma era minacciata dai Volsci, condotti da Coriolano, in vigenza di un
trattato di alleanza tra romani ed Ernici. Alla risposta degli Ernici, che sostenevano come il trattato
fosse stato sciolto con la morte di Tarquinio il Superbo, fu dichiarata la guerra tra Romani ed Ernici.

Battaglia di Preneste

Gaio Aquillio Tusco, il console cui era stata affidata la campagna contro gli Ernici (al collega
console era stata affidata quella contro i Volsci), portò l'esercito romano nel territorio di Preneste, a
duecento stadi da Roma. Per due giorni i due eserciti si fronteggiarono, prima di venire a battaglia,
provocata dagli Ernici, che usciron in formazione dai loro alloggiamenti fortificati. Lo scontro fu
duro ed equilibrato; prima si fronteggiarono gli arcieri, poi i frombolieri, poi i cavalieri e quindi la
fanteria. Quando il console romano, richiamò i più stanchi tra le prime file, per sostituirli con i
soldati della riserva, gli Ernici interpretarono i movimenti come un cedimento della prima linea
romana, e scagliarono i propri uomini con più forza, senza però ottenere alcun risultato. Quando si
arrivò verso sera, senza che le prime fila degli Ernici avesse avuto alcun cambio, il console incitò i
cavalieri ad attaccare l'ala destra del nemico, che iniziò a cedere ed ad abbandonare la battaglia.
L'ala sinistra degli Ernici, cedette solo all'arrivo delle nuove forze romane, liberatesi dall'altro
scontro, cercando scampo nel proprio accampamento. I romani, ormai padroni del campo,
inseguirono i nemici nel tentativo di prenderne anche il campo, ma furono fermati dal console, e
rientrarono nei propri accampamenti. Il giorno seguente i cavalieri romani riferirono che gli Ernici,
nottetempo avevano abbandonato i propri accampamenti e il campo di battaglia. Dopo aver razziato
l'accampamento nemico, l'esercito romano tornò a Roma, dove ottenne una ovazione.

Prima guerra di Veio (480 -474 a.C.)


Da tempo i Veienti compivano razzie nel territorio romano, e finora Roma non si era risoluta a dare
battaglia in campo aperto, oltre che per la forza del nemico, per i dissidi interni dovuti alla mancata
approvazione della Lex Cassia agraria proposta da Spurio Cassio Vecellino. Nel 480 a.C. ai romani
sembro che si fossero create le condizioni propizie per portare guerra a Veio.I due consoli romani
posero due campi distinti di fronte a quello nemico, posto a difesa di Veio, dove erano presenti, non solo
i Veienti, ma Etruschi provenienti da tutta l'Etruria, formando una forza superiore a quella romana. I due
consoli, nonostante scaramucce di poco conto, e le provocazioni del nemico, adottarono una tattica
attendista, decidendo che il momento non fosse adatto a dare battaglia. Quando un fulmine si abbatté
sulla tende del console Gneo Manlio, presagio negativo, questi ordinò di abbandonare il campo, che poi
fu razziato dai nemici, per andare nel campo dell'altro console, formando un unico accampamento
fortificato.I consoli romani ancora non si decidevano per lo scontro, anche perché non si fidavano dello
spirito con cui lo avrebbero affrontato i soldati plebei, a cui era particolarmente invisa i Fabii, per la loro
forte opposizione alla distribuzione delle terre tra i cittadini romani, non facendosi prendere dalle
provocazioni degli etruschi.

Ma queste ebbero effetto sull'esercito, che alla fine, come anche avevano sperato i due consoli, si
rivolse ai propri comandanti chiedendo di scendere in battaglia. A questo punto Marco Fabio
espresse tutta la sua preoccupazione per i dissidi interni tra i romani, con un lungo e animato
discorso, cui rispose Marco Flavoleio, un plebeo primipilo molto noto per il suo valore in battaglia,
con il giuramento alla causa comune dei romani, uniti contro il nemico. A questo punto, i consoli,
effettuati i consueti riti, diedero l'ordine di battaglia.

Battaglia di Veio(480 a. C.)

L'ala destra romana era condotta da Gneo Manlio, il centro da Marco Fabio, mentre e l'ala sinistra
dal legatusQuinto Fabio, fratello di Marco Fabio e già due volte console.La situazione si fece subito
difficile per l'ala sinistra romana, sia per l'inferiorità numerica, sia per la posizione più elevata, in
cui si trovava l'ala destra nemica, con cui si fronteggiava. Completamente circondato Quinto Fabio
morì trafitto da una lancia nemica. A quella vista, il console e fratello Marco Fabio, con l'altro
fratello Cesone Fabiosi scagliò con furore per portare soccorso, non riuscendo però ad arrivare in
tempo per salvare il fratello, cambiando però le sorti di quello scontro, costringendo l'ala destra
nemica al ripiegamento.Intanto l'altro console romano, Gneo Manlio, fu ferito al ginocchio, e
trasportato nell'accampamento romano; la cosa fu interpretata dagli Etruschi come un'iniziale
cedimento, e solo il pronto arrivo dei Fabii, riuscì a far sì che lo spiegamento romano non
piegasse.In questo frangente l'accampamento romano, che in quel momento non era ben presidiato a
causa dello scontro in atto, fu preso d'assalto da quegli Etruschi, che si erano presi l'accampamento
abbandonato dai romani, e negli scontri riuscirono ad uccidere il console Gneo Manlio, e con lui,
anche i soldati lasciati a presidio. Un contingente di romani, guidato dal Legatus Tito Siccio, riuscì
però a riprendere l'accampamento, scacciandovi i nemici. La battaglia continuò cruenta fino a sera,
con diversi capovolgimenti di fronte, e solo l'abbandono dell'accampamento da parte dei nemici,
poté giustificare che il giorno dopo i romani, si proclamassero vincitori.I Romani, dopo aver
saccheggiato il campo nemico, seppellito i caduti, tornarono a Roma, dove il console rifiutò il
trionfo, per la perdita del collega console e del fratello, dimettendosi dalla magistratura due mesi
prima del tempo.

Battaglia di Cremera (477 a. C.)

I Fabii erano una gens all'epoca fra le più influenti della città. Il primo console offerto dai Fabii a
Roma, fu Quinto Fabio Vibulano nel 485 a.C. e nei sette anni seguenti tre fratelli Fabii (Quinto,
Marco e Cesone) si succedettero alla massima carica, fino a quando l'aristocrazia romana non riuscì
a fermare la loro potenza aggredendo la politica della gens e in particolare di Cesone, tesa
all'affrancamento delle classi meno abbienti. Nel 479 a.C., forse anche per distogliere l'attenzione
dei concittadini dal modo di amministrazione della politica interna perseguita da Fabii, la famiglia
decise di assumersi tutte le responsabilità di una nuova e definitiva guerra contro Veio. Tali
operazioni militari divennero quindi una faccenda privata, per cui privati avrebbero dovuto essere
costi e benefici. I costi lo furono. Fabii si riunirono il giorno successivo, erano "trecentosei uomini,
tutti patrizi, tutti membri di un'unica famiglia". Partirono osannati dall'intera popolazione, il console
li guidò verso le mura, uscirono dalla città attraverso l'arcata destra della Porta Carmentale
(dall'esito della spedizione questa arcata verrà chiamata Porta Scelerata). In realtà si calcola che le
forze messe in campo dai Fabii fossero prossime alle cinquemila unità, (quasi un'intera legione di
cui i Fabii "veri" probabilmente fornivano la cavalleria) dato che assieme ai componenti della
famiglia si dovettero aggregare, per amore o per forza, anche i numerosi clientes legati ai Fabii,
secondo le leggi romane del patronato e della clientela, da doveri di aiuto e sostegno reciproci.

Per due anni i Fabii rimasero in territorio veiente, sconfiggendo a loro piacimento gli Etruschi. Per
Veio, allora la più potente città della zona, che una sola famiglia romana, riuscisse per due anni a
tenerle testa era un abbassamento di prestigio. E un pericoloso segnale di impotenza lanciato ad altri
popoli nemici. Veio non poteva tollerare la situazione. La risposta venne nel 477 a.C. Questi, allora,
cominciarono a far credere di essere più deboli di quanto non fossero: rendevano deserto parte del
territorio per simulare una maggiore paura dei loro contadini; lasciarono libero parte del bestiame
per far credere che fosse stato abbandonato in una fuga precipitosa; fecero arretrare le truppe
mandate a contrastare le incursioni. I continui successi resero i Fabii supponenti e imprudenti. Il 13
luglio 477 a.C. i Fabii, dall'alto della loro fortezza videro le greggi "abbandonate" e sicuri della loro
forza senza pensarci troppo si misero a correre tralasciando i collegamenti tra di loro; oltrepassarono
l'imboscata allestita proprio lungo il loro itinerario e, in ordine sparso iniziarono a catturare le pecore  . I
veienti uscirono allo scoperto disorientando i Fabii con grandi grida, li bersagliarono di proiettili, li
circondarono con "una muraglia impenetrabile di guerrieri". Si vide quindi quanto pochi fossero i
Fabii e quanti, invece, fossero i veienti. Per i Fabii non c'era alternativa; lasciato il precario ordine
di combattimento, schieratisi a cuneo, sempre battendosi, si aprirono una via per radunarsi sopra un
rialzo del terreno.  Lì organizzarono una prima resistenza, poi, appena il luogo sopraelevato diede loro
un po' di respiro e consentì loro di riprendersi dal grande spavento, presero addirittura a respingere i
nemici che si facevano sotto. E anche se il loro numero era scarso, sfruttando la posizione, avrebbero
vinto se i veienti, aggirando l'altura, non si fossero impadroniti della sommità di questa. La conquista
della cima restituì il vantaggio ai veienti. I Fabii furono sopraffatti e massacrati.

Di tutta la gens Fabia rimase un solo componente: Quinto, figlio di Marco. Livio riporta che era
stato lasciato a Roma perché troppo giovane ma l'informazione sembrerebbe errata dato che solo
dieci anni dopo Quinto Fabio Vibulano divenne console.Sull'onda del successo i veienti sconfissero
un esercito romano inviato immediatamente a contrastarli al comando del console Tito Menenio
Lanato. I Veienti avevano stabilito un fortilizio sul Gianicolo, da dove partivano per razziare la
campagna romana.

A causa della presenza di Veienti sotto le mura di Roma, in città si soffriva la carestia, perché non si
era potuto coltivare a grano le terre minacciate dal nemico. Roma rischiò di essere assediata e fu
salvata solo dall'intervento di altre truppe richiamate dal territorio volsco dove stavano combattendo
al comando dell'altro console Gaio Orazio Pulvillo.A questo punto i romani, con i consoli Aulo
Verginio Tricosto Rutilo e Spurio Servilio Prisco (476 a.C.), si risolsero a dar battaglia ai Veienti,
guadando nottetempo il Tevere.

Battaglia del Gianicolo (476 a. C.)

Virginio comandava l'ala destra romana e Servilio la sinistra. I Veienti accettarono subito lo
scontro, e si combatté a lungo, finché gli Etruschi non iniziarono a ritirarsi verso le proprie trincee,
in alto sul Gianicolo.Ora, mentre Virginio diede l'ordine ai propri soldati di non incalzare i nemici,
quelli dell'ala sinistra iniziarono a inseguire il nemico, sulle pendici del Gianicolo. Ma arrivati in
prossimità della cima, i Veienti in ritirata, si voltarono, ed aiutati da quanti erano rimasti nel
fortilizio, iniziarono ad incalzare i romani, che quasi subito furono costretti ad abbandonare lo
scontro per cercare scampo più in basso. A quel punto Virginio, inteso quanto stava accadendo,
lasciò parte delle proprie forze ad aiutare i fuggitivi romani, e portò l'altra parte alle spalle degli
attaccanti Veienti, che così si trovarono impossibilitati a fuggire, quando furono attaccati
contemporaneamente dai due schieramenti romani. Alla fine sul campo di battaglia rimasero solo i
romani.Quanti tra i Veienti erano rimasti nel fortilizio sul Giancolo, lo abbandonarono il giorno
seguente, quando capirono che da Veio non sarebbero venuto alcun aiuto.Tanti furono i soldati
romani uccisi, e grave il pericolo corso, tanto che il console Spurio Servilio Prisco, dovette
difendersi dall'accusa di imperizia nella conduzione dell'esercito. A Roma non si celebrò alcun
trionfo per la vittoria sui Veienti.

Tutto ciò convinse i Sabini a scendere in campo, alleandosi con i Veienti. I due eserciti, aspettando
ulteriori rinforzi dagli Etruschi, si radunarono sotto le mura di Veio, dove posero due campi distinti.
Allora il console Valerio facendosi aiutare dai socii Latini ed Ernici, per prevenire le mosse degli
avversari, decise di uscire senza troppo clamore dalla città, accampandosi oltre il Tevere.

Battaglia di Veio (475 a. C.)

Uscito dal campo durante la notte, Valerio fece marciare ordinatamente l'esercito di notte, in modo da
poter attaccare il campo dei Sabini, alle prime luci dell'alba. Grande fu la strage dei nemici, presi di
sorpresa dai Romani. Preso il campo dei Sabini, i Romani provarono ad prendere anche quello dei
Veienti, ma questi, ormai avvertiti dal clamore degli scontri, li affrontarono sul campo di fronte agli
alloggiamenti. Questa difesa non ebbe grande riuscita. La cavalleria di Valerio riuscì a scompaginare i
difensori e a sbaragliare gli Etruschi,che furono costretti dai Romani a rientrare nel campo.I Veienti
resistettero ai loro nemici per tutto il resto del giorno e della notte. Solo verso l'alba, i Veienti,
disperando ormai di poter resistere ancora, presero a fuggire entro le mura cittadine. Tra i Romani si
distinse particolarmente Spurio Servilio Prisco, legatus del console. Non potendo attaccare le mura
fortificate di Veio, dopo aver ottenuto la vittoria campale, i Romani razziarono le campagne dei Sabini,
ottenendo il trionfo, quando fecero ritorno a Roma. I consoli dell'anno successivo furono Lucio Furio
Medullino e Gaio Aulo Manlio. A quest'ultimo fu affidata l'ennesima guerra con Veio. I risultati furono
notevoli; i Veienti, senza combattere, chiesero e ottennero una tregua di quarant'anni. Nel 445 a.C. e si
rifecero vivi i Veienti; i consoli erano Marco Genucio Augurino e Gaio Curzio Filone me Livio non
approfondisce limitandosi a parlare di "scorrerie ai confini del territorio romano". Nel 438 a. C., mentre
a Roma, l'annosa contesa tra Plebei e Patrizi, aveva portato all'elezione dei Tribuni consolari (furono
eletti Lucio Quinzio Cincinnato, figlio di Cincinnato, Mamerco Emilio Mamercino e Lucio Giulio Iullo)
in luogo degli ordinari consoli di nomina senatoriale,la colonia romana di Fidene, da anni stabilita nella
città etrusca« passò al re di Veio, Lars Tolumnio.

Non solo i Fidenati abbandonano l'alleanza con Roma, ma Tolumnio, per far in modo che la scelta
di campo di Fidene fosse irreversibile, fece uccidere i tre romani inviati a Fidene, per chiedere
motivo della decisione. Il risultato, fu che i Romani divennero ancora più adirati verso gli
Etruschi.A Roma si decise di affidare la guerra ai consoli dell'anno successivo, quando furono eletti
alla massima magistratura Marco Geganio Macerino e Lucio Sergio Fidenate, cui fu affidato il
comando delle azioni belliche. Lucio Sergio guidò immediatamente l'esercito romano contro
l'esercito veiente, guidato da Tolumnio, in uno scontro campale lungo le sponde dell'Aniene; i
romani ebbero la meglio, ma lo scontro fu così violento, e causò molte perdite anche tra i romani.

Seconda guerra di Veio (437 – 426 a.C.)


La situazione, pur se vittoriosa, non doveva essere tanto felice se fu nominato (come accadeva solo
nei momenti più gravi) un dittatore nella persona di Mamerco Emilio che scelse come magister
equitum Lucio Quinzio Cincinnato, degno figlio di un padre così illustre. Il dittatore raccolse, quali
legati, i più celebrati nomi di Roma. La scelta convinse gli etruschi e i loro alleati a ritirarsi e
attestarsi sotto le mura di Fidene dove furono raggiunti anche dai Falisci. I romani posero il proprio
accampamento vicino alla confluenza dell'Aniene con il Tevere, ponendo delle fortificazioni a
protezione del campo.Mentre i romani erano intenzionati a provocare immediatamente la battaglia,
Tolumnio, che come i fidenati pareva più propenso a temporeggiare, si decise allo scontro,
soprattutto perché preoccupato dei Falisci, desiderosi di dar subito battaglia perché lontani dalle
propria città.Tolumnio schierò i Veienti sull'ala destra, i Fidenati al centro, e i Falisci e i Capenati
sulla sinistra. Mamerco affidò a Tito Quinzio le operazioni contro i Fidenati, a Barbato quelle
contro i Veienti, riservandosi il comando dei soldati opposti ai Falisci e Capenati.Mamerco lasciò la
cavalleria sotto il comando del Magister equitum, in modo che potesse intervenire su tutto il fronte
della battaglia, ma non dimenticò di lasciare alcune guarnizione di soldati a protezione del campo,
sotto il comando di Marco Favio Vibulano, mossa che risultò decisiva per contrastare un attacco a
sorpresa, portato al campo da parte della cavalleria etrusca, mentre infuriava la battaglia tra i due
eserciti. Lars Tolumnio combatté anche in modo acceso correndo in ogni punto del fronte per
rincuorare i suoi fino a quando:

« Come vide il segnale, levato il grido di guerra, (il dittatore romano) lanciò contro il nemico per primi i
cavalieri, seguiti dalla schiera dei fanti che combatté con grande vigore. In nessuna parte le legioni
etrusche riuscirono a reggere l'urto romano: i loro cavalieri offrivano la resistenza più tenace e il re in
persona - il più forte, in assoluto, di tutti i cavalieri - prolungava la lotta avventandosi contro i Romani,
mentre questi ultimi si sparpagliavano nella foga dell'inseguimento. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri)

Lo scontro ebbe il suo punto di svolta con la morte di Tolumnio provocata dall'azione solitaria di
Aulo Cornelio Cosso:

« E, spronato il cavallo, si buttò, lancia in resta, contro quel solo nemico. Dopo averlo colpito e
disarcionato, facendo leva sulla lancia, scese anch'egli da cavallo. E mentre il re cercava di rialzarsi,
Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo scudo e poi, colpendolo ripetutamente, lo inchiodò al suolo con la
lancia. Allora, trionfante, mostrando le armi tolte al cadavere e la testa mozzata infissa sulla punta
dell'asta, volse in fuga i nemici, terrorizzati dall'uccisione del re. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri)

Le file dei nemici dei romani, scompaginate e messe in fuga dopo la morte di Tolumnio, furono
massacrate dai romani, che arrivarono a far razzia fino nelle campagne di Veio. Il tribuno militare
Aulo Cornelio Cosso spogliò il cadavere di Tolumnio portando a Roma le spoglie opime. Per questa
vittoria Mamerco Emilio Mamercino ebbe il trionfo a Roma.I Veienti ci riprovarono due anni dopo,
nel 435 a.C., durante una pestilenza e senza l'aiuto dei Falisci. Veienti e Fidenati arrivarono fino a
quasi Porta Collina per poi essere respinti dalle legioni guidate dal dittatore Quinto Servilio Strutto.
Questa volta gli etruschi si barricarono a Fidene ma la città fu conquistata con una guerra di mina.
Con falsi attacchi da quattro diverse direzioni in quattro momenti diversi i Romani coprirono il
rumore degli scavi e arrivarono alla rocca.La caduta di Fidene mise in grande allarme gli Etruschi e
vennero inviati messaggeri alle dodici città per indire un convegno al tempio di Voltumna. Anche i
Romani prepararono la guerra eleggendo un dittatore, Mamerco Emilio. La guerra non ci fu. Alcuni
mercanti portarono la notizia che i Veienti non avevano ricevuto la solidarietà degli altri etruschi in
quanto avevano iniziato le ostilità di propria iniziativa. Mamerco Emilio approfittò per diminuire la
durata della carica dei censori, si dimise da dittatore e fu quindi accusato di aver limitato la
magistratura altrui. Condannato, fu espulso dalla tribù, iscritto fra gli erarii si vide aumentate le
tasse di otto volte. Continuarono gli scontri con Volsci ed Equi che permisero ai Veienti di
recuperare le forze e ancora prima di veder scadere i tempi della tregua concessa dopo la presa di
Fidene, Veio aveva ricominciato con le scorrerie.Dopo aver inutilmente inviato i feziali Roma
decise di mandare l'esercito contro Veio, nel 426 a.C. furono nominati Tribuni consolariTito
Quinzio Peno Cincinnato, Gaio Furio Pacilo Fuso, Marco Postumio Albino Regillense e Aulo
Cornelio Cosso, con il compito di condurre la guerra contro Veio, colpevole di aver razziato le
campagne romane.Effettuata la leva, mentre i primi tre conducevano l'esercito in territorio etrusco,
contro una coalizione composta da Veienti e Fidentati, ad Aulo Cornelio Cosso fu affidata la
guardia della città. Questa volta i Veienti ebbero la meglio su un esercito comandato non dai consoli
ma da tre tribuni militari i quali, in disaccordo fra di loro, adottarono tre strategie diverse e
favorirono l'attacco etrusco e la disfatta dei Romani.A Roma la notizia della sconfitta fu accolta con
terrore, tanto che il senato decise di nominare un dittatore, ricorrendo perla terza volta a Mamerco
Emilio Mamercino.

Battaglia di Fidene (426 a. C.)


I Veienti raccolsero molti volontari etruschi sotto le loro insegne e il popolo di Fidene che fece
strage dei coloni romani inviati dopo la caduta della città. Fu deciso che era preferibile combattere
da Fidene e l'esercito veiente vi fu trasferito. Mentre i Veienti attraversavano il Tevere e si
radunavano a Fidene, Mamerco Emilio Mamercino nominò Aulo Cornelio CossoMagister equitum
e inicominciò ad arruolare l'esercito per l'imminente battaglia. L'esercito romano sconfitto fu
richiamato da Veio e schierato fuori Porta Collina. Emilio, mentre faceva accampare l'esercito ad un
miglio e mezzo da Fidene, protetto a destra dalle alture e a sinistra dal fiume Tevere ordinò al
proprio legato Tito Quinzio Peno Cincinnato di occupare, non visto, un colle alla spalle dei nemici.
Lo scontro avvenne il giorno successivo e fu violentissimo. I Romani avevano già fatto vacillare i
nemici, quando da Fidene uscì una massa di soldati, urlante e armata di fuochi, che portò
scompiglio tra le file degli attaccanti. Il dittatore reagì facendo entrare nello scontro la riserva
precedentemente nascosta e la cavalleria, che scompaginò i nemici, correndo tra loro a briglia
sciolta e che, alzando un gran polverone, ne rallentava i movimenti. Attaccati da due lati e impediti
dalle scorribande dei cavalieri romani, i Veienti abbandonarono il campo di battaglia rifugiandosi al
di là del Tevere, mentre i Fidenati arretravano verso la propria città, inseguiti dalle forze fresche
romane. Queste ultime riuscirono a entrare a Fidene, raggiunte poco dopo dal resto dell'esercito
romano. Molti Veienti finirono per annegare nel Tevere, i Fidenati tentarono di resistere nella loro
città che però fu nuovamente espugnata e questa volta, distrutta; la popolazione fu venduta schiava.
Il giorno successivo, dopo aver premiati i più meritevoli tra i Romani con uno o più prigionieri, il
dittatore portò il resto dei fidenati a Roma, dove furono venduti all'asta come schiavi. Per questa
vittoria Mamerco ottenne il trionfo.

Terza guerra di Veio (407– 396 a.C.)


Assedio e resa di Veio (407 a. C. – 396 a. C.)

Nel 408 a.C. scadeva la tregua con Veio e vennero inviati ambasciatori per riscuotere i danni di
guerra. Una delegazione di Veienti chiese di poter conferire con il Senato di Roma e, in senato
ottenne di differire il pagamento dei debiti in quanto presi da grosse difficoltà: anche a Veio si
avevano lotte intestine.Tito Livio (IV,58) esalta la magnanimità dei Romani ma c'è anche da
ricordare come una guerra con Veio, per quanto dai risultati quasi scontati, avrebbe distolto molte
forze dal fronte sud-orientale. Tanta magnanimità non fu poi ricompensata. O più probabilmente la
debolezza fu riconosciuta come tale. L'anno successivo, infatti, ambasciatori romani furono mandati
a Veio per riscuotere, i Veienti li minacciarono di riservare loro lo stesso trattamento usato da Lars
Tolumnio. Si cercò di dichiarare guerra ma le proteste della plebe ricordarono che non si era ancora
conclusa quella con i Volsci, che due guarnigioni erano state sterminate, che altri luoghi erano in
pericolo e che Veio poteva coinvolgere l'intera Etruria nel conflitto.Venne quindi deciso di
concentrare le azioni sui Volsci, l'esercito romano fu diviso in tre parti e mandato a saccheggiare il
territorio dei nemici sotto il comando di tre dei quattro Tribuni militari. Lucio Valerio Potito si
diresse su Anzio, Gneo Cornelio Cosso si diresse su Ecetra e Gneo Fabio Ambusto attaccò e
conquistò Anxur lasciando la preda ai soldati di tutti e tre gli eserciti.

« I patrizi poi aggiunsero un dono quanto mai opportuno per la plebe: il senato, senza che mai prima
plebe e tribuni via avessero fatto menzione, decretò che i soldati ricevessero uno stipendio tratto dalle
casse dello Stato. Fino a quel momento ciascuno adempiva al servizio militare a proprie spese. (60) A
quanto risulta, nessun provvedimento fu accolto con tanta gioia dalla plebe. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 59-60, op. cit.)
Ovvie le conseguenze: ringraziamenti dei plebei, polemiche dei Tribuni che vedevano spuntate
alcune delle loro armi, proteste di chi doveva pagare.

Il vantaggio immediato fu che venne approvata una legge che dichiarava guerra a Veio e i nuovi
Tribuni con potestà militare vi condussero un esercito in massima parte formato da volontari. Era il
407 a.C. Sei erano i tribuni che condussero l'esercito e misero Veio sotto assedio. Gli etruschi
convocati al tempio della dea (o dio) Voltumna non si accordarono per portare aiuto alla città
consorella. L'anno successivo l'assedio si prolungò senza grandi avvenimenti anche perché i soliti
Volsci dovevano essere combattuti. Conquistata la volsca Artena però, l'esercito romano fu
riportato sotto le mura di Veio.

Veio era, come Roma, percorsa da discordie interne che però non cessavano con l'insorgere del
pericolo comune. Con Roma in armi alla loro porta e che aveva portato a otto i Tribuni Militari, i
Veienti non trovarono di meglio, per sopire le discordie interne, che eleggere un re inviso alle altre
città etrusche per il suo carattere prepotente e superbo. Inoltre aveva compiuto diversi sgarbi
interrompendo giochi e spettacoli (che per gli Etruschi costituivano carattere religioso).Sempre
divisi, gli etruschi furono concordi nel negare gli aiuti a Veio finché quel re fosse stato al potere.
Questo non tranquillizzò i Romani che iniziarono a fortificarsi in entrambe le direzioni; verso Veio
per proteggersi dagli abitanti e verso l'esterno per prevenire interventi dall'esterno.La novità
importante fu che anziché cessare l'assedio nei tempi soliti per permettere agli agricoltori di
lavorare le loro terre, un esercito stipendiato poté essere tenuto indefinitamente sotto le mura della
città etrusca. I comandanti romani fecero costruire anche i quartieri invernali. E fu la prima volta.
Quando a Roma si seppe della novità i Tribuni della plebe insorsero dicendo che

« quello era il motivo per cui era stato assegnato lo stipendio ai soldati, e non si erano sbagliato
nell'asserire che quel dono era intinto nel veleno. La libertà della plebe era diventata merce da vendere e
la gioventù veniva tenuta lontana e segregata dalla città e dalla repubblica. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V)

La battaglia politica si scatenò fra Tribuni della plebe e Appio Claudio, lasciato a Roma proprio per
contrastarli nel Foro. Infine furono i Veienti ad aiutare il patrizio; con un contrattacco notturno
distrussero le macchine da assedio e i terrapieni di Roma, ricompattando per l'ennesima volta la
città. Alcuni appartenenti all'ordine equestre si dissero disposti a combattere pagandosi il cavallo, al
che molti plebei si dissero appartenere all'ordine pedestre e di voler combattere volontariamente.
Iniziò una corsa al volontariato come spesso si vide a Roma. Il senato ringraziò e trovò nelle pieghe
del bilancio di che pagare i fanti volontari e perfino per fornire un aiuto economico ai cavalieri. Il
nuovo esercito, arrivato a Veio ricostruì le vinee e fabbricò altre e nuove macchine. Da parte della
città fu maggiormente curato il vettovagliamento.Questa fu l'altra novità di quell'anno: fu la prima
volta che i cavalieri prestarono servizio utilizzando cavalli di loro proprietà. Prima il cavallo, in
guerra, era fornito dallo Stato.L'anno successivo Roma, che contestualmente stava assediando
Anzio, vide trucidato il presidio di Anxur. Ma anche a Veio, somma preoccupazione della
repubblica, le cose non miglioravano; i Tribuni militari romani non andavano d'accordo e a Veio
arrivarono rinforzi dai Falisci e dai Capenati che avevano finalmente compreso come, una volta
espugnata Veio i Romani avrebbero avuto via libera per altre conquiste. L'accampamento di Manio
Sergio fu attaccato e Lucio Virginio si rifiutò di aiutarlo asserendo che se il collega aveva bisogno
di rinforzi li avrebbe chiesti. L'ovvio risultato fu che i soldati di Manlio dovettero cedere e
abbandonare le postazioni. La commissione di inchiesta in senato si divise e le polemiche fra senato
e tribuni della plebe infuriarono. Solo la minaccia della nomina di un dittatore che avrebbe messo
tutti a tacere fece calmare gli animi. L'anno successivo Roma ebbe gravi difficoltà a reperire forze
per affrontare Veio con i suoi nuovi alleati da una parte e i Volsci dall'altra. Perfino i più giovani e i
più anziani furono chiamati alla leva quantomeno come ausiliari a presidio della città.
Un altro problema venne dal soldo per l'esercito. Più soldati servivano maggiori erano le uscite per
il soldo; ma più soldati erano in guerra meno contribuenti potevano essere tassati per fornire la base
economica. Chi restava in città doveva servire lo Stato come presidio e anche pagare la tassa. Le
polemiche, naturalmente erano continue e ruggenti. La maggiore fu portata avanti da Gneo
Trebonio, tribuno delle plebe che vedeva vanificare la Lex Trebonia che rendeva obbligatoria
l'elezione anche di plebei come Tribuni Militari. Trebonio imbastì un ragionamento, oggi diremmo
dietrologico, sul protrarsi della guerra, accusando persino i patrizi di connivenza col nemico.
Manlio e Virginio, in due comandanti sconfitti furono condannati a una multa di diecimila assi
pesanti, il tributo per l'esercito non fu versato, venne presentata una legge agraria.

Gli eserciti che assediavano Veio e Anxur cominciarono a protestare per una paga che non arrivava,
le razzie nei territori dei Falisci, dei Capenati e dei Volsci non bastavano a fermare il dissenso e il
malumore. Infine con l'elezione di anche un plebeo (ma era un diritto acquisito) come Tribuno
Militare la plebe si calmò, la paghe arrivarono agli eserciti, Anxur fu riconquistata. L'anno seguente
la pace sociale sembrava acquisita, al tribunato Militare fu eletto un solo patrizio e cinque plebei. La
punizione di Manlio e Virginio si rivelò utile quando sotto Veio arrivarono due eserciti, uno da
Falerii e uno da Capena. La resistenza fu comune e tutto l'esercito romano si impegnò riuscendo a
respingere gli attaccanti e perfino a massacrare molti Veienti che, usciti dalla città e messi in fuga,
erano rimasti chiusi fuori dalla mura.La guerra con Veio si trascinò stancamente per anni tanto che
perfino da Tarquinia vennero mandate delle coorti armate alla leggera per saccheggiare l'agro
romano. Tentativo mandato in fumo dalle reazione romana che inviò dei volontari i quali sorpresero
i Tarquiniesi di ritorno verso casa oberati di bottino. Li uccisero, li spogliarono del carico e
riportarono a Roma sia quanto avevano razziato sia i beni stessi degli etruschi. Se le discordie
interne di Roma non cessavano, anche le città etrusche non erano in accordo.

Nel solito consesso al tempio di Voltumna, Veio, Falerii e Capena chiesero aiuto alle altre città
etrusche che rifiutarono perché Veio aveva iniziato la lotta (anni prima) senza chiedere il loro
parere ma soprattutto perché un nuovo nemico si stava affacciando sull'Etruria: i Galli Senoni
guidati da Brenno. L'unica concessione era la non-interferenza dei governanti se i giovani volevano
recarsi a Veio come volontari. Andarono in molti. La notizia delle dimensioni dell'esercito veiente
fece tacere le polemiche interne di Roma. Due tribuni militari, inviati contro Falisci e Capena
subirono una sconfitta, la notizia giunse ingigantita sia all'esercito che assediava Veio che a Roma.
Il popolo si gettò a pregare nei templi, le matrone ne spazzavano i pavimenti con i capelli.
Sembrava che, anziché chiusi fra le loro mura, i Veienti fossero alle porte. Fu deciso di nominare un
dittatore, fu Marco Furio Camillo. Con questo potente incipit Tito Livio quasi "canta" la sorte della
città:

« Già i Giochi e le Ferie Latine erano stati rinnovati, già l'acqua del lago Albano era stata dispersa per i
campi, già il destino incombeva su Veio. »(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 19.,)

Camillo infuse un nuovo coraggio e un nuovo entusiasmo nell'esercito romano e nella popolazione.
Scelse Publio Cornelio Scipione come maestro della cavalleria, punì i disertori e i fuggiaschi delle
precedenti battaglie e scaramucce, stabilì un giorno per la chiamata di leva, corse sotto le mura di
Veio a rincuorare i soldati che stavano continuando l'assedio, tornò a Roma a reclutare il nuovo
esercito. Nessuno cercò di farsi esentare e anche "stranieri" Latini ed Ernici si offrirono volontari.
Completata l'organizzazione, il dittatore fece voto di indire grandi giochi e di restaurare il tempio
della Madre Matuta che si trovava nel Foro Boario, quando Veio fosse stata conquistata.Camillo si
diresse su Veio. Strada facendo sconfisse Capenati e Falisci, ne prese gli accampamenti e un grande
bottino. Arrivato sotto le mura di Veio fece costruire altri fortini e fece cessare le pericolose
scaramucce inutilmente combattute nello spazio fra il vallo romano e le mura etrusche. Poi ordinò la
costruzione di una galleria che doveva arrivare fino alla rocca nemica. Gli scavatori furono divisi in
sei squadre che si avvicendavano ogni sei ore.Basandosi sul favorevole procedere delle operazioni,
Camillo si pose il problema della spartizione di un bottino che si preannunciava superiore a quello
di tutte le precedenti guerre assommate. Se spartito fra i soldati con avarizia se ne sarebbe scatenato
il risentimento ma si sarebbe arricchito lo Stato. Se fosse stato generoso con i combattenti i patrizi
avrebbero contrastato le decisioni. Il Senato, investito del problema, si divise:una fazione guidata da
Publio Licinio chiedeva -pilatescamente- che con pubblico editto si annunciasse al popolo che chi
voleva del bottino se lo doveva andare a prendere a Veio; l'altra fazione, patrizia, capeggiata da
Appio Claudio, chiedeva il versamento alle casse dello Stato per poter diminuire le tasse con cui
veniva finanziato il soldo dei militari. Il Senato decise di "non decidere", lasciò al "popolo", riunito
nei Comizi, la parola finale. Vinse la prima e turbe di Romani si avviarono verso nord, verso la città
condannata.

La caduta di Veio

Camillo, fortunatamente, era pronto. Il dittatore ordinò ai soldati di prendere le armi, pregò
ApolloPitico che aveva "aiutato" i Romani con un favorevole responso dell'oracolo di Delfi
offrendogli la decima parte del bottino, pregò Giunone Regina di seguirlo da Veio a Roma dove
avrebbe costruito un tempio degno della sua grandezza.Con questo, Roma era pronta per lo sforzo
finale; aveva predisposto un esercito forte e motivato, aveva nominato un dittatore che poteva
concentrare in un unico punto lo sforzo bellico, aveva patteggiato con il soprannaturale
"comperando" la caduta della città nemica. Camillo ordinò l'assalto alle mura con il maggior
numero di uomini possibile:

« I Veienti ignoravano di essere stati consegnati al nemico dai propri vati e dagli oracoli stranieri,
ignoravano che gli dèi erano stati chiamati a spartire il bottino, ignoravano che qualche dio era stato
chiamato fuori Veio dalle preghiere romane e già guardava i templi dei nemici e le nuove sedi,
ignoravano che quello era il loro ultimo giorno. »(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 25,)

Gli dèi abbandonarono Veio e Livio stesso ammette che qui il racconto diviene leggendario, fabula.
Dopo giorni e giorni in cui gli assalti romani erano stati sospesi, con sommo stupore degli etruschi,
il re di Veio stava celebrando un sacrificio nel tempio di Giunone quando gli assaltatori romani, che
avevano quasi terminato lo scavo e attendevano di abbattere l'ultimo diaframma, udirono il presagio
dell'aruspice etrusco: la vittoria sarebbe andata a chi avesse tagliato le viscere di quella vittima. I
soldati romani uscirono dal cunicolo, iniziarono l'attacco e prese le viscere le portarono al loro
dittatore. Nello stesso tempo fu sferrato l'attacco generale di tutte le forze romane contro i difensori
delle mura. Così, mentre tutti accorrevano sui bastioni,

« Gli armati sbucarono nel tempio di Giunone che sorgeva sulla rocca di Veio: una parte aggredì i
nemici che si erano riversati sulle mura, una parte tolse il serrame alle porte, una parte diede fuoco alle
case dai cui tetti donne e schiavi scagliavano sassi e tegole. Ovunque risuonarono le grida miste al
pianto delle donne e dei fanciulli, di chi spargeva terrore e di chi il terrore subiva.  »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 21., Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

In una pausa dei combattimenti Camillo ordinò, per mezzo di banditori, di risparmiare chi non
portava armi. Il massacro si arrestò e si scatenò il saccheggio.La caduta di Veio fu probabilmente la
più importante occasione di arricchimento della Roma dei primi secoli. Livio racconta che:

« Camillo, appena ebbe sotto gli occhi il bottino [...] levò, a quanto si dice, le mani al cielo pregando
perché, se a qualcuno degli dèi e degli uomini sembrava eccessiva la fortuna toccata a lui e al popolo
romano, fosse consentito di placarne il risentimento con minimo danno proprio, come privato, e con
minimo danno pubblico dell'intero popolo romano. »(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 21.)

Naturalmente questa preghiera può essere stata introdotta negli anni seguenti per dare una forma di
presagio per la successiva carriera negativa del dittatore ripudiato dal suo popolo. D'altra parte,
com'era logico attendersi, non mancarono gli scontenti che rimproveravano al dittatore il fatto di
dover destinare una parte del bottino (compreso addirittura il valore economico della città etrusca)
per ripagare, come promesso, il dio Apollo del suo aiuto. Camillo il giorno dopo la vittoria vendette
all'asta gli uomini liberi e quello fu il solo denaro che entrò nelle casse dello Stato, ma ugualmente
la plebe fu scontenta; il bottino non era merito del dittatore, ritenuto un avaro; non era merito del
Senato che aveva abdicato la sua funzione decisionale. Tutto il merito della spartizione era della
gens Licinia che il figlio aveva proposto e il padre fatto approvare. Ad ogni modo Camillo tornò a
Roma in trionfo, con grande concorso di popolo plaudente, su un carro trainato da cavalli bianchi e
la cosa non fu gradita: nelle processioni i cavalli bianchi trainavano i carri con le statue di Giove e
del dio Sole. Infine il dittatore appaltò la costruzione del tempio promesso a Giunone e sempre
come promesso, consacrò il tempio alla Madre Matuta. Quindi depose la dittatura.La secolare
guerra contro Veio era terminata, definitivamente. Vi è da aggiungere che la sconfitta di Veio
rappresentò l'inizio della conquista romana dell'Etruria.

Guerre contro Equi eVolsci


Guerra 495 - 493

Appena usciti vittoriosi dalla Battaglia del Lago Regillo contro i Latini, i romani furono attaccati
dai Volsci nel 495, che li credevano incapaci di rispondere dopo le fatiche di quella guerra.

Invece i romani, guidati dl console Publio Servilio Prisco Strutto, non solo li respinsero, ma ne
distrussero la capitale Suessa Pometia.Nel 494, nominato dittatore Manio Valerio Voluso Massimo,
chiamò alle armi il popolo romano in massa. Si racconta, infatti, che furono formate ben 10 legioni,
affidate tre a ciascuno dei due consoli dell'anno, e mantenendone così quattro sotto il diretto
controllo del dittatore. Quest'ultimo elaborò un piano secondo il quale, Aulo Verginio Tricosto
Celiomontano avrebbe condotto le proprie legioni contro i Volsci, Tito Veturio contro gli Equi,
mentre egli stesso si sarebbe opposto ai Sabini. Aulo Verginio, alla testa delle tre legioni affidategli
dal dittatore, mosse contro i Volsci, sbaragliandoli in campo aperto, nonostante i romani fossero in
inferiorità numerica ed esitanti, rincorrendoli fin dentro la loro città di Velletri, che fu conquistata e
saccheggiata.Stessa sorte toccò anche agli eserciti guidati da Manio Valerio e Tito Veturio, che
ebbero ragione dei propri nemici e poterono così far ritorno a Roma. Nel 493, consoli Postumio
Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, si ebbe la prima secessione della plebe, che
si era ritirata sul Monte Sacro. La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di
definire un nuovo trattato (foedus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio,
trattato che da lui prese di nome (Foedus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci,
contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio
Cominio. Quest'ultimo iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di
Anzio, al termine della quale la città fu espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro
le città volsce di Longula, Polusca e Corioli, che finirono per essere conquistate anch'esse dai
Romani. Di quest'ultima si ricorda l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Tito Livio annota:

« ....L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini,
concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria
su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i
Volsci »(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 33)
Guerra 488-484

Pochi anni più tardi nel 488 quello stesso Coriolano che aveva contribuito a vincere i Volsci, si
rifugiò in esilio forzato presso di loro. Egli scelse la città di Anzio, ospite di Attio Tullio, eminente
personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma,
iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si
sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i romani, tali da far nascere in questi il
desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino.Alla fine i Volsci decisero per una nuova
guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito.
« ....Il primo bersaglio fu Circei: ne cacciò i coloni romani e restituì la città, ora libera, ai Volsci.
Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse
dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie,
catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e
si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città »(Tito Livio, Ab Urbe condita libri)
Ma, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus
Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli del 488 a.C., Spurio Nauzio e
Sesto Furio, organizzavano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre
Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a
desistere dal proprio proposito di distruggere Roma.Tito Livioriporta come non ci fosse
concordanza sulla morte di Coriolano; secondo parte della tradizione, fu ucciso dai Volsci, che lo
considerarono un traditore, per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma, secondo Fabio morì di
vecchiaia in esilio.

Battaglia di Velletri (487 a.C.)

I Volsci, guidati da Attio Tullio, il nobile che aveva causato la morte di Gneo Marcio Coriolano ad
Anzio, aveva condotto il proprio esercito nei territori degli alleati di Roma, per attuare la stessa
azione militare condotta l'anno prima con successo da Coriolano. Questa volta però i romani
risposero inviando un esercito in soccorso dei Velletrani. I due eserciti vennero allo scontro in
territorio Velletrano, su delle alture aspre e sassose, che impedivano il movimento dei cavalieri. Per
gran parte della giornata, i soldati dei due schieramenti si affrontarono senza che uno riuscisse ad
avere il sopravvento sull'altro, anche perché i Volsci avevano tratto giovamento dagli insegnamenti
avuti da Coriolano. Le sorti della battaglia mutarono quando i cavalieri romani ottennero il
permesso dal console di entrare in battaglia, anche senza i cavalli. Una parte di questi fronteggiò lo
schieramento destro dei Volsci, un'altra si pose in posizione sopraelevata rispetto al nemico, sul
quale iniziò a lanciare lance. Il centro e l'ala sinistra dei Volsci iniziarono a ritirarsi verso il proprio
forte, quando videro che l'ala destra era stata completamente sopraffatta a seguito dell'intervento dei
cavalieri romani. Ma i romani non diedero tregua ai Volsci, inseguendoli e riuscendo ad entrare nei
loro alloggiamenti fortificati; in questi scontri morì anche il condottiero nemico Attio Tullio, che
pure si comportò con grande valore. Alla fine i superstiti si arresero ai romani. Dopo il rientro a
Roma dell'esercito, al console Tito Sicinio Sabino fu concesso il trionfo.

Eletto console per la terza volta, Spurio Cassio Vecellino nel 486 marciò contro i Volsci e gli
Ernici, e poiché i nemici chiesero subito la pace alla vista delle legioni romane, non ci fu nessuno
scontro. Nonostante ciò Cassio ottenne il trionfo, che è registrato nei fasti trionfali.I Volsci, da
tempo in guerra contro i Romani, nonostante l'anno prima erano stati sconfitti dal loro esercito
condotto dal console Quinto Fabio Vibulano, pensando di approfittare dei dissidi interni a Roma
dovuti soprattutto all'elezione a console di Cesone Fabio Vibulano, accusatore ed uccisore di Spurio
Cassio Vecellino, ripresero le ostilità contro l'Urbe invadendo il territorio dei Latini e degli Ernici
suoi alleati, e preparando un altro esercito per la difesa del proprio territorio. Nel 484ì Romani
conquistarono una prima volta il centro principale degli Equi.

Battaglia di Anzio (484 a.C.)

I due eserciti si accamparono a vista, entrambi su delle alture davanti ad Anzio, essendo l'esercito
romano condotto dal console Lucio Emilio Mamercino, mentre l'altro esercito romano, condotto da
Cesone Fabio Vibulano, portava soccorso agli alleati attaccati dai Volsci. Dopo qualche giorno di
studio, le due schiere vennero a battaglia innanzi nel terreno tra i due accampamenti. Dopo il lancio
delle lance, dei dardi e di altre armi da lancio, i due schieramenti vennero a contatto. I Volsci, forti
degli insegnamenti di Coriolano, dopo aver sostenuto l'urto della fanteria romana pian piano
iniziarono ad indietreggiare verso il proprio accampamento. I Romani inizialmente tennero dietro ai
Volsci in buon ordine, ma quando videro che le riserve nemiche rientravano di gran fretta
nell'accampamento, credendo che i Volsci fossero prossimi alla rotta si diedero all'attacco
disordinato, se non addirittura al saccheggio di quanti erano caduti, a battaglia ancora in corso.
I Volsci, giunti che furono in prossimità del proprio accampamento, mutarono atteggiamento
contrastando con maggior vigore quanti tra i Romani li fronteggiavano, aiutati in questo dai molti
rinforzi che arrivarono dal campo loro, oltre che dalla posizione elevata dello stesso. In breve
tempo, quella che pareva una vittoria certa si trasformò in sconfitta, con i Romani incalzati ed uccisi
sul campo di battaglia, costretti a ritirarsi nell'accampamento, ed aiutati anche dal sopraggiungere di
un temporale, che fece desistere il nemico dal continuare l'attacco al campo romano. Con il favore
della notte i Romani lasciarono l'accampamento, abbandonando il campo di battaglia, e si ritirarono
a Longula dove posero un nuovo campo. I Volsci vittoriosi decisero di inseguire l'esercito romano,
che raggiunsero dopo qualche giorno, con la certezza di poterlo sconfiggere una seconda volta.

Battaglia di Longula (484 a.C.)

L'esercito romano si era accampato su di un'altura nei pressi della città, fortificando la posizione.
Qui sostennero un primo assalto dei Volsci, sicuri di poter prendere l'accampamento romano, grazie
all'impegno dei cavalieri e dei triari, costringendo i Volsci a ritirarsi in pianura.Nei giorni seguenti i
Volsci cercarono, invano, di procurar battaglia con i romani, che la rifiutavano, aspettando i rinforzi
dall'altro console Cesone Fabio Vibulano. I rinforzi arrivarono di nascosto dai Volsci, che credendo
i romani in difficoltà, tentarono un nuovo attacco, alla collina difesa dall'esercito nemico. I romani,
prima permisero ai nemici di arrivare sotto le fortificazioni, lasciandoli fiaccare nel tentativo di
distruggerle, poi ad un segnale, improvvisamente in più punti atterrarono loro stessi le difese, ed
attaccarono il nemico, sia affrontandolo con i fanti, sia da lontano, scagliando lance e frecce. I
Volsci, sorpresi e in posizione sfavorevole, abbandonarono lo scontro, rientrando sconfitti nel loro
accampamento. Con la battaglia di Longula, i romani riuscirono a rifarsi della sconfitta patita ad
Anzio, ma nonostante questo, il console Lucio Emilio, preferì non presentarsi in città per presiedere
ai comitia. Nel 482 gliEqui attaccarono la città latina di Ortona. Il console romano Gaio Giulio Iullo
fu incaricato di condurre contro di loro una nuova guerra.Nel 475 il console Publio Valerio
Publicola si fece aiutare dai socii Latini ed Ernici, scagliandosi prima contro i Sabini ed espugnando
l'accampamento mettendo in crisi anche la fiducia dei Veienti. La cavalleria di Valerio riuscì a
scompaginare i difensori e a sbaragliare questi ultimi. Appena in tempo per fermare un attacco dei
Volsci che a loro volta approfittavano delle difficoltà romane per compiere razzie e devastazioni.

Guerra 469-468

Nell'ambito dello scontro tra Romani da una parte, Volsci ed Equi dall'altra, durante il consolato
dell'anno 469, al comando di Tito Numicio Prisco, i Romani espugnano e distruggono la città volsca
di Cenone, porto ed emporio di Anzio, senza però neppure tentare di assediare quest'ultima; al cui
interno delle mura si erano rifugiati i Volsci. Nel 468 a.C. i Romani decisero di continuare lo
scontro, e il comando dell'esercito fu affidato al console Tito Quinzio Capitolino Barbato.

Battaglia di Anzio (468 a.C.)

Lo scontro ebbe luogo a trenta stadidi distanza da Anzio, con l'esercito romano che affrontava in
inferiorità numerica quello congiunto di Volsci ed Equi. I Romani, dopo essersi accampati in un
luogo più in basso rispetto all'accampamento nemico, il giorno stesso, a mezzogiorno, si
presentarono in formazione di battaglia al nemico. Lo battaglia iniziò immediatamente, con i
combattenti che si equivalevano. Quando il console si accorse che la propria ala destra iniziava a
cedere più per l'inferiorità numerica che per il valore del nemico, con i cavalieri corse in soccorso
della fanteria, riuscendo non solo a riequilibrare le sorti del combattimento, ma addirittura a far
ripiegare lo schieramento nemico. Piegata l'ala sinistra nemica, sulle ali dell'entusiasmo i Romani
riuscirono a piegare anche l'ala destra nemica, che riparò nel proprio accampamento. Quindi i due
eserciti rimasero per diversi giorni nei propri accampamenti, dove ritemprarsi dalle fatiche e curare
i feriti. In quel frangente il campo nemico ai Romani ricevette il soccorso di altri soldati, tanto che,
contando su di una notevole superiorità numerica, i Volsci e gli Equi si decisero ad attaccare
l'accampamento romano durante la notte, nella speranza di indurli ad abbandonare l'accampamento.
I Romani invece, dopo aver respinto gli attacchi nemici dall'interno delle strutture difensive, verso
mezzogiorno, quando il nemico appariva ormai stanco e disorganizzato, uscirono in formazione
compatta, riuscendo a cogliere di sorpresa i Volsci e gli Equi che iniziarono a rinculare verso il
colle, dove sorgeva il proprio accampamento. Ma i Romani non concedettero quartiere, seguendo ed
attaccando il nemico, anche a costo di perdere i cavalieri, affinché non potesse riorganizzarsi e
sfruttare la posizione favorevole; il combattimento durò per tutto il resto della giornata, alla fine
della quale i Romani riuscirono a conquistare l'accampamento nemico.

Il giorno dopo gli Anziati, non fidandosi della volontà degli Equi di sostenere l'assedio della città,
decisero di arrendersi ai Romani. Tito Quinzio, dopo aver preteso dal nemico sconfitto il soldo per i
propri soldati, lasciato un presidio in città tornò con l'esercito a Roma, dove gli fu concesso il
trionfo. Nel 467 i Romani fondano una colonia nel territorio di Anzio, e siglano un trattato di pace
con gli Equi.

Situazione interna a Roma

In Roma si erano ormai integrati i popoli Latini e Sabini nella gestione della res publica (la gens
Quinzia, che proprio in quegli anni molto incideva nella vita politica romana, per esempio, era di
origine latina e non romana ma era stata prima accolta in città e poi "naturalizzata" per i grandi
meriti acquisiti). Gli Ernici erano già fedeli alleati. Gli Etruschi ancora restavano in disparte con
l'eccezione di Veio, posta a poche miglia dall'Urbe. I nemici esterni di Roma che ancora si
battevano con tenacia e determinazione erano i Volsci e gli Equi. Spesso da soli, spesso da alleati
questi due popoli il primo a ovest e l'altro a est della città attaccavano Roma e soprattutto il
territorio circostante per saccheggiare. Gli Equi, in particolare, scesi dall'Appennino si erano
attestati sui colli attorno a Tusculum e con le loro operazioni insidiavano l'agro romano e le
comunicazioni commerciali lungo la Via Latina. Ad Anzio era stata istituita una colonia romana
che, contestualmente, offriva terre alla plebe e teneva sotto controllo il territorio dei Volsci. Dopo il
processo a Cesone Quinzio le eterne diatribe fra patrizi e plebei erano riprese. Ogni volta che veniva
presentata la Lex Terentilia la gioventù patrizia scendeva in campo in modo anche violento e,
comunque, ad ogni minaccia dall'esterno ogni attività legislativa si fermava. Roma conobbe anche
una rivolta di schiavi ed esuli che per molti mesi tennero addirittura il Campidoglio con i templi
della Triade Capitolina: Giove, Giunone e Minerva e nella quale morì il console Publio Valerio
Publicola. A causa delle tensioni interne, il riscatto di Roma dovette aspettare l'intervento amico dei
Tusculani guidati dal loro dittatore Lucio Mamilio. Al posto di Publio Valerio fu eletto Lucio
Quinzio Cincinnato con grande terrore dei tribuni della plebe che temevano una vendetta per il
processo al figlio e le conseguenti perdite economiche che affliggevano il nuovo console. A
coronamento di una situazione politica intricatissima, Marco Volscio il tenace accusatore di Cesone
Quinzio, venne messo sotto processo per aver prodotto un falso testimone contro Cesone e quindi
aver fatto condannare un innocente.

Guerra 459-458

In mezzo a questo marasma politico, nel 459 a.C. gli Equi attaccarono Tusculum e ne conquistarono
la rocca. La riconoscenza dei romani per il determinante aiuto dato dai Tuscolani nella appena
conclusa guerra servile fece muovere il console Lucio Cornelio Maluginese e le legioni di Roma in
aiuto della città attaccata. Per alcuni mesi Quinto Fabio Vibulano si divise fra l'assedio di Anzio
contro i Volsci e le colline di Tusculum e proprio durante una delle assenze del console i tuscolani
riuscirono a scacciare, dopo averli affamati, i nemici dalla rocca. Gli Equi furono letteralmente
denudati, fatti passare sotto il giogo e rimandati alle loro terre; il console, che stava tornando verso
Tusculum li massacrò tutti alle falde del monte Algido. L'anno successivo, il 458 a.C., gli Equi,
rotto il patto stipulato pochi mesi prima con Roma, conferirono il comando a Gracco Clelio, il loro
personaggio più in vista. E ricominciò il saccheggio.

« Sotto la guida di Gracco gli Equi invasero prima il territorio di Labico e poi quello di Tuscolo
devastandolo [...] Carichi di preda posero gli accampamenti alle falde dell'Algido. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 25. trad.: G.D. Mazzocato)

Roma inviò ambasciatori - Quinto Fabio, Publio Volumnio e Aulo Postumio - per chiedere il
rispetto dell'accordo. Gracco li trattò in modo sprezzante.

Il senato ordinò che un console portasse l'esercito sul monte Algido contro Gracco e che l'altro
console saccheggiasse il territorio degli Equi. I tribuni della plebe cercarono ancora una volta di
fermare la leva ma, "provvidenzialmente" per i consoli e - stranamente - come ogni volta che i
tribuni della plebe cercavano di portare avanti la discussione di una legge, addirittura un esercito di
Sabini si mise a devastare l'agro romano fin sotto le mura della città. La plebe prese le armi senza
discussione e furono formati due grandi eserciti. I consoli Gaio Nauzio Rutilo fu mandato nelle terre
degli Equi mentre Lucio Minucio Esquilino Augurino partì con le sue legioni verso il monte Algido.

« Minucio [...] aveva posto gli accampamenti non lontano dal nemico e, pur senza aver subito gravi
sconfitte, si teneva pavidamente dentro le fortificazioni. I nemici se ne accorsero e, come succede, la
paura del nemico fece correre l'ardimento: di notte aggredirono il campo, ma poiché l'assalto non aveva
sortito effetto, il giorno dopo presero a costruire fortificazioni tutto attorno. » (ibid, III, 26.)

Cinque cavalieri riuscirono a sfuggire alla stretta, rientrarono a Roma e informarono la città che il
console e tutto il suo esercito erano sotto assedio sul monte Algido. Nauzio, l'altro console, fu
richiamato ma non seppe affrontare la situazione. Con accordo generale fu deciso di nominare un
dittatore. Fu scelto Lucio Quinzio Cincinnato.

« ...stava coltivando oltre il Tevere giusto davanti dove ora sono i cantieri navali, un campo di quattro
iugeri il cui nome è Prato Quinzio. [...] Cincinnato e i legati si scambiarono i saluti. Poi gli fu rivolta la
preghiera - e insieme l'augurio che ciò sarebbe stato di buon auspicio per lui e per la repubblica - di
ascoltare con la toga ciò che il senato gli mandava a dire. Cincinnato rimase stupito e chiese:"C'è
qualcosa che non va bene?"; intanto diede ordine alla moglie Racilia di portargli subito la toga dalla sua
casupola. Si deterse la polvere e il sudore, indossò la toga e si avvicinò ai legati. Questi, congratulandosi
con lui, lo salutano dittatore, lo chiamano in città, gli comunicano quanti motivi di paura abbia
l'esercito. » (ibid, III, 26.)

Lo stato pagò al dittatore il traghetto fino alla città. Quando entrò in Roma lo accolsero i tre figli,
altri parenti, amici, buona parte del senato. La plebe accorse anch'essa ma con il timore che incuteva
il potere della carica e il timore che Quinzio fosse, per i plebei, un'accresciuta minaccia. Livio
conclude il capitolo con le parole:"E quella notte, a Roma, tutti vegliarono".

Battaglia del Monte Algido (458 a.C.)

Cincinnato non perse tempo, il giorno seguente, nel Foro nominò il suo magister equitum, fermò
ogni attività legislativa e giudiziaria, fermò ogni attività commerciale, vietò di attendere a qualsiasi
affare privato, ordinò a tutti coloro che erano in età adatta al servizio militare di presentarsi prima
del tramonto al Campo Marzio, armati, con cibo pronto per cinque giorni e dodici paletti per il
"vallo" ciascuno. Da questo dettaglio si può arguire che Cincinnato aveva già un piano di battaglia;
infatti il vallus, il paletto che serviva a costruire la palizzata del campo, era la dotazione normale dei
soldati. Ma non dodici, uno a testa. In formazione di battaglia più che in assetto di trasferimento, i
romani partirono per il monte Algido incitandosi a vicenda e ricordandosi l'un l'altro che i
commilitoni erano assediati già da tre giorni. Tanto fu efficace questo incitamento che a metà della
notte giunsero a ridosso dei nemici. Senza troppo attendere, il dittatore dopo una breve
esplorazione, fece portare in un solo punto i bagagli, fece disporre i soldati in una lunga fila attorno
all'accampamento dei nemici, ordinò loro di lanciare un forte grido. Subito dopo il grido, l'ordine fu
di scavare una fossa e piantare i paletti. Il suono delle trombe e le grida dei soldati romani
spaventarono gli Equi e raggiunsero i commilitoni assediati che compresero, con sollievo, di essere
stati raggiunti dagli aiuti e, soprattutto, fecero capire al console che non doveva più tergiversare. Le
grida non si lanciavano, tanto meno di notte, solo per salutare i commilitoni; era in corso una
battaglia.

Gli assediati presero quindi le armi e si lanciarono anch'essi all'attacco con grandi urla e rumori.
Una battaglia notturna estremamente rumorosa che informò Cincinnato e le sue forze che gli
assediati si erano mossi e intralciavano il contrattacco degli Equi. Gli Equi si trovarono ovviamente
presi fra due fuochi. Avendo compreso che i rinforzi romani erano arrivati, si stavano portando
verso gli attaccanti esterni. Proprio allora furono raggiunti alle spalle dagli assediati. A questo
punto, pensando a una sortita, per evitare che i due eserciti si unissero, dovettero nuovamente girarsi
per fronteggiare chi li attaccava alle spalle. Combatterono fino all'alba con l'esercito di Lucio
Minucio. I soccorritori ebbero tutta la notte per finire il loro lavoro; al mattino la palizzata era
terminata. Gli Equi erano circondati. Cincinnato non fece nemmeno riposare i suoi uomini. Dopo
una sera di marcia e una notte di scavi e costruzioni ordinò ai suoi di afferrare le armi ed entrare
nella zona circondata dal vallo. Qui iniziò una seconda battaglia mentre la prima non era ancora
terminata. Gli Equi,

« alla fine, schiacciati da due parti, passarono dal combattimento alle preghiere, supplicando da una
parte il dittatore e dall'altra il console che non considerassero fondamentale per la loro vittoria
sterminarli e li lasciassero andare, sia pure senza l'onore delle armi. » (ibid, III, 28.)

Ottenuta come risarcimento la cittadella di Corbione, Cincinnato portò a Roma, in catene, Gracco
Clelio e i capi Equi, il bottino raccolto nel campo nemico fu distribuito fra i componenti del solo
esercito salvatore mentre i salvati furono rimproverati e il console Minucio fu deposto dalla
funzione, rimase a comandare il suo esercito come legato del dittatore e poi sostituito dal pretore
Fabio. L'esercito assediato, pur se rimproverato e senza preda, conferì a Cincinnato una corona
aurea di una libbra salutandolo, alla partenza, come salvatore. Quinzio ebbe il suo trionfo con feste
e banchetti, Lucio Mamilio, il dittatore tuscolano, ricevette l'ambita cittadinanza romana. Volscio,
l'accusatore - accusato nell'affaire "Cesone Quinzio", fu giudicato colpevole ed esiliato a Lanuvio.

Guerra 449-438

Dopo la sciagurata parentesi politica dei Decemviri, che aveva visto il suo esercito combattere
svogliatamente o non combattere affatto, Roma aveva ripreso con i consoli Lucio Valerio Potito e
Marco Orazio Barbato la sua impressionante serie di vittorie. Le legioni si erano rinfrancate ma non
apparivano ancora quell'invincibile apparato bellico prima conosciuto. Nel 449 il console Lucio
Valerio Potito ottenne nuovi successi ed il meritato trionfo sugli Equi, e sui Volsci della città di
Corioli. A complicare la situazione intervennero le fazioni politiche che dividevano la società
romana giungendo a mettere il Senato, espressione del patriziato, contro i consoli, anch'essi
espressione del patriziato. Eclatante esempio di questo scontro fra i poteri legislativo ed esecutivo
fu l'episodio del trionfo decretato ai consoli Valerio e Orazio non dal Senato, come sempre era
accaduto, ma dall'assemblea del popolo romano. Paradossalmente, queste diatribe interne permisero
l'elezione di consoli e tribuni politicamente intelligenti che non approfittarono della situazione per
aggrapparsi al potere a tutti i costi. E, ancora paradossalmente, i turbolenti vicini, Volsci ed Equi,
per due anni non attaccarono Roma permettendo all'Urbe di ricomporsi socialmente ed
economicamente. Ma non poteva durare a lungo. Nel 446 a.C. le ostilità ripresero. Stando a Tito
Livio, furono i Volsci e gli Equi, spinti da capi avidi di bottino, a rompere la pace e gettarsi nel
saccheggio delle campagne attorno a Roma. Ad un osservatore esterno, infatti, la città appariva
divisa, si notava una plebe insofferente agli ordini e agli arruolamenti, la disciplina militare
sembrava volatilizzata; Roma non era più quel compatto blocco sociale che dominava il territorio.
L'occasione appariva perfetta per liberarsi di un vicino tanto forte e capace di usare quella forza. I
due popoli riunirono i loro eserciti e si diedero al saccheggio del territorio dei Latini. I Romani presi
dalle loro interne discordie non uscirono a contrastarli; gli attaccanti arrivarono fino alle porte della
Città predando bestiame e, con calma, si acquartierarono a Corbione. Finalmente Tito Quinzio
Capitolino console per la quarta volta, si decise a prendere in pugno la situazione.

In un lungo e accorato discorso stigmatizzò le divisioni interne, le continue richieste di riforme della
plebe, la secessione sull'Aventino, ricordò i danni economici che a ciascun romano derivavano
dall'azione dei nemici nei campi, danni che nessun politico, nessun tribuno avrebbe potuto ripagare;
il nemico stava predando gli averi di ciascun romano, il nemico andava fermato sul campo di
battaglia. L'intera città rispose all'appello del console; i giovani che in genere facevano della
renitenza un'arma contro il patriziato si dichiararono favorevoli a prendere le armi, i senatori
elogiavano Tito Quinzio per aver

« parlato badando a rispettare l'autorità dei patrizi, la concordia delle classi, le esigenze del momento. E
dunque i senatori pregavano lui e il collega di prendere in mano le redini della repubblica e pregavano i
tribuni di voler collaborare, in unità di intenti, con i consoli [...] Il consenso fu unanime e la leva fu
indetta e attuata. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 69., Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

Il giorno seguente si presentarono tutti. Senza controllare chi avesse diritto all'esenzione, in poche
ore le legioni furono formate. Alla testa di ogni coorte furono posti due senatori. Furono aggiunte
alcune coorti di veterani volontari, le insegne giunsero dall'Erario al Campo Marzio e l'esercito
romano si mosse ad decimum lapidem (alle dieci) riuscendo a portarsi a dieci miglia da Roma entro
sera. E il giorno dopo i Romani posero i loro accampamenti a Corbione, vicini a quelli degli
avversari. Il giorno successivo avvenne la battaglia.

Battaglia di Corbione (446 a. C.)


Agrippa Furio Fuso, l'altro console, riconoscendo le maggiori capacità del collega, gli lasciò la
conduzione delle ostilità, mentre Quinzio lo innalzava mettendolo a giorno dei suoi piani e
lasciandogli molta libertà operativa. Nella formazione Quinzio si mise al comando dell'ala destra,
Agrippa guidava l'ala sinistra e ai due legati Spurio Postumio Albo e Publio Sulpicio furono affidati
rispettivamente il centro della formazione ed il comando della cavalleria. Iniziato l'attacco, l'ala
destra, sotto gli occhi del comandante in capo, si batteva con maggior ardore del resto della fanteria.
La cavalleria di Sulpicio riuscì a sfondare le linee nemiche. Sulpicio, anziché ritornare fra i ranghi
preferì attaccare i nemici alle spalle. L'intuizione sarebbe stata ottima se a sua volta non fosse stato
attaccato dalla cavalleria degli Equi e dei Volsci. La cavalleria romana, per non essere circondata,
dovette impegnarsi allo spasimo senza accontentarsi di mettere in fuga gli avversari. Il compito
imposto da Sulpicio fu di uccidere quanti più uomini e cavalli possibile per evitarne il ritorno, il
riaccendersi della mischia, il possibile accerchiamento. I cavalieri romani riuscirono nell'intento e la
parte equestre della battaglia terminò in modo favorevole. Sulpicio mandò dei messaggeri ai consoli
per avvisare della vittoria e informarli che avrebbe attaccato i nemici alle spalle. Gli Equi e i Volsci,
che già stavano retrocedendo, sentirono il peso del cresciuto attacco e si demoralizzarono mentre i
Romani aumentavano gli sforzi per l'entusiasmo. L'ala comandata da Quinzio cominciò a far
arretrare la corrispondente ala nemica. Agrippa, che al comando dell'ala sinistra romana si trovava
in maggiori difficoltà, vedendo che gli altri reparti ottenevano maggiori risultati fu costretto ad
afferrare alcune insegne e a gettarle nel folto dei nemici. L'onore dei fanti romani li costrinse ad
andare a recuperarle. Equi e Volsci cominciarono ad arretrare anche in quel settore. Quinzio, che
stava già disperdendo i suoi diretti avversari, informò della cosa il collega e lo avvisò che avrebbe
atteso per far sì che tutto l'esercito romano potesse irrompere nel campo nemico e impadronirsi del
bottino. I due consoli, assieme, travolsero i pochi difensori dell'accampamento e riportarono a
Roma anche i beni romani precedentemente saccheggiati. Nel 438 sembra che i Volsci si unirono ai
Veienti e Fidenati contro i Romani, ma anche questa volta furono sconfitti dal dittatore Mamerco
Emilio.

Brenno e il sacco di Roma (390 a. C.)


Roma, al principio del IV secolo a.C., aveva appena sperimentato un decisivo salto di qualità della
sua storia, sia per l'importante acquisizione territoriale sia per l'esibizione di un'accresciuta
disciplina e organizzazione militare, uscendo vittoriosa nel 396 a.C. dalle guerre con Veio. La
caduta di Veio aveva comportato un riequilibrio degli assetti politici delle altre capitali etrusche e
delle loro tradizionali tensioni interne: l'ostilità verso Veio era malamente adombrata dalla
neutralità manifestata dalle altre città della dodecapoli etrusca gravitante intorno al Fanum
Voltumnae: in almeno un caso, questa ostilità era apertamente sfociata nell'aperta alleanza offerta a
Roma da Caere (Cerveteri). Un altro effetto fu l'accresciuta consapevolezza delle potenzialità, anche
militari, della res publica. A minare questo clima di fiducia e a mettere in allarme Roma fu una
tribù particolarmente bellicosa: i Senoni. Attorno al 391 una tribù dei Senoni, al comando di Brenno
si spinse nel cuore dell'Etruria piantando il campo davanti a Chiusi, città etrusca sul confine
toscano. Gli Etruschi di Chiusi chiesero aiuto ai Romani. Roma non diede un aiuto militare, ma
inviò in qualità di ambasciatori, per trattare con i Galli, i tre figli di Marco Fabio Ambusto. Costoro
non solo condussero l'ambasceria in modo arrogante, ma addirittura presero parte ad un
combattimento nelle file degli Etruschi di Chiusi contro i Senoni, e uno di essi colpì e uccise a
tradimento un capo senone durante le trattative, scatenando l'ira dei Galli. Messi in fuga gli
ambasciatori romani, Livio racconta che i Senoni decisero di mandare degli ambasciatori a Roma,
per chiedere che i tre Fabii gli fossero consegnati, perché avevano contravvenuto alle regole delle
ambasciate (gli ambasciatori, essendo consacrati, durante le loro funzioni non potevano toccare il
ferro né versare sangue). Il Senato romano, pur giudicando giusta la richiesta dei Senoni, rifiutò di
dar loro soddisfazione per le pressioni della Gens Fabia; anzi la potente gens riuscì a far nominare i
tre Fabi addirittura tribuni consolari per l'anno 390 assieme a Quinto Sulpicio Longo, Quinto
Servilio e Publio Cornelio Maluginense. Indignato Brenno, capo dei Galli, per la poca
considerazione data alle loro proteste levò l'assedio di Chiusi e con tutta l'armata si volse verso
Roma. I Romani allestirono in fretta un esercito improvvisato.

Battaglia del fiume Allia

Lo scontro fra i due eserciti avvenne sul fiume Allia, il 18 luglio «ad appena undici migliadalla
città, là dove il fiume Allia, scendendo dai monti Crustumini in una gola profonda, si getta nel
Tevere poco sotto la strada»; il fiume Allia corrisponde probabilmente all'attuale "Fosso Maestro",
un piccolo affluente di sinistra del Tevere.

Mentre l'esercito celtico con ogni probabilità era ben addestrato ed equipaggiato, sebbene desse
l'impressione di avanzare come un branco di predoni non organizzato, quello romano era poco più
che raccogliticcio e composto da due legioni più gli alleati latini (circa 15.000 soldati). La condotta
dei Romani, così come descritta dai primi analisti e da Tito Livio, appare presuntuosa e temeraria. I
tribuni militari schierarono l'esercito «senza aver scelto in anticipo uno spazio per il campo, senza
aver costruito una trincea che potesse fungere da riparo in caso di ritirata, dimentichi, per non dire
degli uomini, anche degli dèi, non essendosi minimamente preoccupati di trarre i dovuti auspici e di
offrire sacrifici augurali». Brenno aveva di fronte a sé l'intero schieramento avversario e rimase
sorpreso dalla sua pochezza. Con grande acume tattico, il capo Gallo valutò che l'unico pericolo, in
condizioni di forza per lui tanto vantaggiose, poteva provenire solo da un eventuale tranello tesogli
sul suo fianco sinistro, ovvero da un nemico occultato alle spalle dei "subsidiariis" e tra le pieghe
dei monti Crustumerii. Decise dunque di attaccare proprio questa posizione, prevenendo, così, un
eventuale aggiramento sul fianco. Fu sufficiente questa sua mossa per mandare in crisi l'intera
formazione romana che andò in panico e fuggì senza che il nemico avesse fatto altro che lanciare il
proprio grido di battaglia: l'ala sinistra schierata obliquamente con la fronte a Nord-Est sentì
provenire dalle proprie spalle il clamore del combattimento e andò istantaneamente in rotta, il
centro e l'ala destra la seguirono subito, lasciando soli a combattere, ma anche qui per poco, gli
uomini sull'altura. Vuoi per allontanarsi dal rumore, vuoi perché si trattava forse di truppe
provenienti dalla recente acquisizione di Veio, gli uomini all'ala sinistra cercarono la fuga oltre il
Tevere e verso quel territorio, con annesso corredo di morti affogati. Tutti gli altri, invece
scapparono verso Roma.
Narra Livio:

« Non appena le grida dei Galli arrivarono alle orecchie dei più vicini di fianco e ai più lontani dalle
spalle, i Romani, prima ancora di vedere quel nemico mai incontrato in precedenza e senza non dico
tentare la lotta, ma addirittura senza far eco al grido di battaglia, si diedero alla fuga integri di forze e
illesi. In battaglia non ci furono perdite. Gli uomini delle retrovie furono gli unici ad avere la peggio
perché, nella confusione della fuga, si intralciavano a vicenda combattendo gli uni con gli altri. Sulla
riva del Tevere, dove erano fuggiti quelli dell'ala sinistra dopo essersi liberati delle armi, ci fu una
grande strage: moltissimi, non sapendo nuotare o stanchi, appesantiti dalle corazze e dal resto
dell'armatura, annegarono nella corrente. Il grosso dell'esercito riuscì invece a riparare sano e salvo a
Veio. E di lì non solo non furono inviati rinforzi a Roma, ma nemmeno un messaggero con la notizia
della disfatta. Gli uomini schierati all'ala destra, che si era mantenuta lontana dal fiume in un punto più
vicino alle pendici del monte, si diressero in massa a Roma e lì, senza nemmeno preoccuparsi di
richiudere le porte, si rifugiarono nella cittadella. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 38)

Gli stessi Galli rimasero sbalorditi per la conclusione così improvvisa della battaglia.

Sacco di Roma

I superstiti, incalzati dai Galli, si ritirarono in ordine sparso entro le mura di Roma, dimenticando di
chiuderne le porte, come riportato dallo storico Livio. I Galli misero a ferro e fuoco l'intera città, ivi
incluso l'archivio di stato, cosicché tutti gli avvenimenti antecedenti la battaglia risultano in gran
parte leggendari e di difficile ricostruzione storica. In questo contesto di caos e distruzione, nel
racconto di Tito Livio, si inserisce la figura leggendaria di Lucio Albinio, che, semplice plebeo,
aiutò le vergini Vestali a mettersi in salvo, fuggendo nella città di Cere. L'irruzione dei Galli in
Senato vide i senatori, seduti in modo composto sui propri scranni, tutti barbaramente massacrati.
Narra Tito Livio (Ab Urbe Condita libro V, 41) l'episodio del senatore Marco Papirio: un gallo gli
tirò la barba per vedere se fosse vivo e l'altero vegliardo lo colpì con lo scettro eburneo; il soldato
gallo reagì, dando così il via al massacro. Solo il Campidoglio resistette e venne posto sotto assedio.

Livio narra che i Galli decisero di dividere il proprio esercito, lasciandone una parte ad assediare i
romani, e inviando l'altra a razziare le campagne dei dintorni di Roma. Intanto la notizia del sacco
di Roma e delle razzie in corso nelle campagne circostanti giunse ad Ardea, dove gli arderatini
decisero di affidare il comando dei propri soldati a Marco Furio Camillo, il quale riuscì a tendere
un'imboscata al contingente gallico, uscito da Roma, e ad infliggergli - sempre secondo il racconto
di Tito Livio - una sonora sconfitta. Allo stesso modo, anche i soldati romani che si erano ritirati a
Veio riuscirono a battere in due scontri campali alcuni contingenti etruschi che, approfittando della
situazione in cui versava Roma, ne stavano razziando le campagne più settentrionali. Mentre
l'assedio dei Galli continua, senza che le reciproche posizioni mutassero, a Veio si decise di inviare
un messaggero a Roma, Ponzio Comino, affinché portasse al Senato la proposta di nominare Furio
Camillo dittatore. Ponzio riuscì a rompere l'assedio ed il Senato poté nominare Camillo dittatore per
la seconda volta. Subito dopo la leggenda narra che le oche sacre del tempio capitolino di Giunone
avvisarono Marco Manlio, console del 392 a.C., del tentativo di ingresso da parte dei Galli
assedianti, facendo così fallire il loro piano. A questo episodio venne dedicata una festività romana,
che cadeva il 3 agosto, durante la quale le oche erano portate in processione ed onorate come
salvatrici della patria.Intanto, mentre il dittatore preparava le necessarie operazioni belliche, Roma,
ormai allo stremo per la fame, trovò un accordo con i Galli, che erano stati colpiti da un'improvvisa
epidemia. Dopo diverse trattative, il tribuno Quinto Sulpicio Longo e il capo dei Galli, Brenno,
giunsero ad un accordo, in base al quale i Galli sarebbero ripartiti senza arrecare ulteriori distruzioni
in cambio di un riscatto pari a 1.000 libre d'oro puro. In questo contesto si sarebbero verificati i
famosi episodi della bilancia truccata da parte dei Galli per ottenere più oro, con Brenno che fa
pesare anche la sua spada in segno di spregio, urlando: "Vae victis!" ("Guai ai vinti!"). La
tradizione romana tramanda che Marco Furio Camillo, venuto a conoscenza della richiesta di
riscatto, tornò velocemente a Roma per affrontare di persona Brenno. Una volta giunto alle bilance
gettò anch'egli la propria spada sui piatti, così da compensare il peso della spada del barbaro.
Quindi gli si rivolse dicendo:

« Non con l'oro si difende l'onore della patria, bensì col ferro delle armi! »

I Romani, a seguito di quest'episodio e dietro la guida di Furio Camillo, si riorganizzarono, la città


venne liberata dai Galli. Il condottiero Romano continuò a inseguire Brenno e i suoi anche oltre i
confini di Roma, sconfiggendoli in due battaglie campali (la seconda lungo la via Gabinia), a
seguito delle quali vennero completamente massacrati. Brenno fu quindi costretto a rifugiarsi nel
nord dell'Italia. Per questa vittoria il dittatore Furio Camillo ottenne il trionfo a Roma. Secondo
invece un'autorevole interpretazione moderna di Emilio Gabba, i Galli si ritirarono per fronteggiare
gli attacchi dei Veneti, a nord dei loro territori originari, portando via il bottino di guerra.

Reazioni immediate

Si racconta che i Galli sulla strada del ritorno, furono attaccati in Sabina dagli Etruschi di Caere
(alleati dei Romani), i quali riuscirono a privarli del bottino che avevano depredato a Roma. I
Ceretani diedero, inoltre, ospitalità a coloro che si erano rifugiati presso di loro, tra cui il fuoco
perenne e le vestali ad esso preposte.Roma, colpita duramente da questa invasione, vedeva il suo
prestigio momentaneamente compromesso ed i Latini, precedentemente soggiogati, tornarono a
destare forti preoccupazioni da parte romana. Nei mesi successivi al saccheggio, la plebe chiese di
trasferire la città nell'antica Veio che, anche se distrutta pochi anni prima dalla stessa Roma (nel 396
a.C.), appariva più sicura. Ottenuto il trionfo, riuscì a convincere i Romani a non emigrare a Veio,
abbandonando la città, essendo per questo fatto ricordato come il Secondo Fondatore di Roma.

« Dopo averla salvata in tempo di guerra, Camillo salvò di nuovo la propria città quando, in tempo di
pace, impedì un'emigrazione in massa a Veio, nonostante i tribuni - ora che Roma era un cumulo di
cenere - fossero più che mai accaniti in quest'iniziativa e la plebe la appoggiasse già di per sé in maniera
ancora più netta »(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 4, 49.)

Roma ne usciva con un'economia a pezzi e con le riserve auree depauperate. La plebe poteva ora
imporre leggi a proprio vantaggio nei confronti dell'oligarchia senatoria. La cerchia delle mura
serviane venne nuovamente potenziata dopo dodici anni di nuovi lavori (nel 378 a.C.), costruzione
che secondo la tradizione letteraria antica si deva al penultimo re etrusco, Servio Tullio. La sconfitta
fu così grave che la data del 18 luglio (il Dies Alliensis) fu da allora considerata come giorno
nefasto (Nefas) nel calendario romano. Collegati a questa ricorrenza vennero anche istituiti i
cosiddetti Lucaria (19 e il 21 luglio) che celebravano le divinità dei boschi che avevano offerto
rifugio agli scampati della battaglia di Allia.Ora che tra Celti e Romani era corso per la prima volta
il sangue, altri conflitti intermittenti, per oltre due secoli, continuarono a sorgere tra i contendenti:
intorno al 360 a.C. Tito Manlio Imperioso vinse i Celti in battaglia presso il ponte sull'Aniene,
trasmettendo alla propria discendenza il cognomenTorquatus, per aver sottratto il torque a un
nemico vinto in singolar tenzone. L'anno successivo, nel 389 a.C.Furio Camillo fu nuovamente
nominato dittatore, quando Roma dovette fronteggiare la minaccia dei Volsci, degli Equi e degli
Etruschi, che pensavano di non dover trovare resistenza dall'Urbe, uscita stremata dalla lotta con i
Senoni. Dopo aver chiamato la leva, e riorganizzato l'esercito, lo divise in tre parti, affidandone una,
che si stabilì a Veio, a Lucio Emilio Mamercino, con il compito di fronteggiare l'attacco etrusco,
un'altra a Aulo Manlio Capitolino, con il compito di proteggere la campagna romana, e preso il
comando della restante parte, condusse l'esercito contro i Volsci, sconfiggendoli a Mecio, nei pressi
di Lanuvio. In seguito a questa sconfitta, i Volsci da più di sett'anni in guerra contro i romani,
firmarono la propria resa. Dopo i Volsci, Camillo attaccò gli Equi, riuscendo ad espugnarne la città
di Bola. In quel frangente la città di Sutri, alleata dei romani, stava subendo l'assedio da parte degli
etruschi, e per questo aveva mandato ambasciatori a Roma, per richiederne l'aiuto. Camillo, tornato
in città proprio mentre gli ambasciatori promuovevano la causa di Sutri, decise immediatamente di
portare aiuto alla città alleata, riuscendo a cogliere di sorpresa gli attaccanti, proprio mentre erano
entrati in Sutri per razziarla. Gli etruschi che abbandonarono le armi, ebbero salva la vita, ma
furono venduti come schiavi. Tornato in città, Camillo celebrò il trionfo per le tre vittorie ottenute
in quell'anno.

Nel 386 a.C. Furio Camillo fu eletto tribuno consolare con Quinto Servilio Fidenate, Lucio Orazio
Pulvillo, Servio Cornelio Maluginense, Lucio Quinzio Cincinnato Capitolino e Publio Valerio
Potito Publicola. Quando Anzio riprese le armi contro Roma, sostenuta anche da giovani fuorisciuti
Latini ed Ernici, il Senato decise di affidare le operazioni belliche a Furio Camillo, che volle con sé
il collega Publio Valerio. A Quinto Servilio fu affidato il compito di organizzare un esercito da
porre nella campagna romana, a difesa della città da possibili attacchi degli Etruschi, a Lucio
Quinzio fu affidato il compito di presidiare le mura cittadine, a Lucio Orazio di organizzare tutto
l'approvvigionamento di guerra e a Servio Cornelio l'amministrazione della città. I Romani si
scontrarono con l'esercito di Volsci, Latini ed Ernici, numericamente superiore a loro, nelle
campagne intorno a Satrico; è a questa campagna che si riferisce l'episiodio leggendario di Furio
Camillo, che lancia il vessillo romano oltre le schiere nemiche, per spronare i romani al
combattimento.

« Dopo aver quindi suonato la carica, scese da cavallo e prendendo per mano l'alfiere più vicino lo
trascinò con sé verso il nemico gridando: «Avanti l'insegna, o soldato!». Quando gli uomini videro
Camillo in persona, ormai inabile alle fatiche per l'età avanzata, procedere verso il nemico levarono
l'urlo di guerra e si buttarono all'assalto tutti insieme, ciascuno gridando per proprio conto «Seguite il
generale!». Si racconta anche che Camillo ordinò di lanciare un'insegna tra le linee nemiche, e che gli
antesignani furono incitati a riprenderla. » (Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 8.)

Nello scontro campale i Romani ebbero la meglio, e i Volsci, riuscirono a ritirare entro le mura di
Satrico, grazie ad un provvidenziale temporale che interruppe lo scontro. Ma abbandonati dagli
alleati, i Volsci non riuscirono a difendere la città dal successivo attacco romano, che entrarono in
Sutri, costringendo i nemici alla resa. A Furio Camillo, tornato a Roma per ottenere il permesso di
attaccare Anzio, il Senato affidò il comando delle operazioni belliche contro gli Etruschi che,
approfittando dell'impegno romano contro i Volsci, avevano attaccato le città alleate di Sutri e Nepi.
Inviati Lucio Quinzio e Lucio Orazio a presidiare le campagne dove si era svolto lo scontro contro i
Volsci, Furio Camillo e Publio Valerio condussero l'esercito cittadino alla volta di Sutri, che fu
liberata dagli Etruschi, che l'avevano occupata, grazie ad un'azione coordinata. Infatti mentre
Camillo occupava gli assedianti con un attacco su di un lato della città, Publio conduceva l'altra
parte dell'esercito, che entrò a Sutri dalla parte più sguarnita. La riconquista di Nepi si presentò più
difficile, anche per la defezione di parte dei cittadini, passati dalla parte degli occupanti Etruschi.
Anche in questo caso i romani ebbero la meglio, riuscendo a riconquistare Nepi, massacrando gli
etruschi e quanti fra i nepi si erano uniti a loro. Nel 381 a.C.Furio Camillo fu eletto tribuno
consolare con Lucio Postumio Albino Regillense, Lucio Lucrezio Tricipitino Flavo, Aulo Postumio
Albino Regillense, Lucio Furio Medullino Fuso e Marco Fabio Ambusto.Contro tutte le regole, la
conduzione della campagna di guerra contro i Volsci, che avevano occupato la colonia di Satrico, fu
affidata a Furio Camillo, ed a Lucio Furio, estratto a sorte tra gli altri tribuni, che avrebbe dovuto
fungere da aiutante di Furio Camillo, ormai avanti negli anni.Lucio Furio però iniziò a criticare il
generale, perché questo, arrivati davanti a Satrico, aveva adottato una tattica attendistica, in ragione
del maggior numero degli avversari. E quando Lucio Furio, che era pur sempre un magistrato di
pari grado, gli prospettò la necessità dell'attacco contro i Volsci, Furio Camillo non si oppose,
lasciando al collega il compito di condurre l'attacco, riservando per sé il comando delle riserve.

« Il fautore dello scontro schierò la prima linea, mentre Camillo assicurò la copertura delle retrovie,
disponendo un solido contingente di fronte all'accampamento. Poi si andò a piazzare su un'altura,
osservando con attenzione i risultati dell'altrui strategia. » (Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 3, 23.)

L'attacco delle legioni, guidate da Lucio Furio, si risolse in una sconfitta per i romani, ricacciati
indietro dai Volsci, e si sarebbe tramutato in una completa disfatta per i romani, se non fosse stato
per il provvidenziale intervento dell'anziano generale. Lucio Furio, mitigò le proprie responsabilità,
adoperandosio a trasmettere gli ordini di Furio Camillo nello scontro, a cui partecipò in prima
persona, distinguendosi per il valore. Alla fine Furio Camillo riuscì a guidare i romani alla
vittoria.Tra i tanti prigionieri i romani ne riconobbero diversi provenienti dalla città alleata di
Tuscolo, e per questo Furio Camillo ne portò alcuni a Roma, perché fossero interrogati dai
Senatori.Il Senato decise immediatamente per la guerra contro Tuscolo, affidandola a Furio
Camillo, che, contrariamente ad ogni pronostico, volle come collega Lucio Furio. Arrivati a
Tuscolo i romani trovarono la città aperta, e tutti i cittadini disarmati, intenti alle loro normali
attività. A questo punto Furio Camillo permise ai maggiorenti della città di recarsi a Roma, per
ottenere il perdono dai Senatori, che lo concessero, proprio in virtù dell'atteggiamento apertamente
remissivo dei tuscolani.

Quarta dittatura

Nel 368 a.C., nel pieno della battaglia politica tra Plebei e Patrizi, per la definizione dei futuri
assetti politici di Roma, e per la definizione della questione dei debiti contratti dai plebei (e della
loro conseguente riduzione in schiavitù se non onorati), quando i tribuni della plebe Gaio Licinio
Calvo Stolone e Lucio Sestio Laterano portarono le tribù a votare le proprie proposte di legge a
favore dei plebei, nonostante il veto espresso dagli altri tribuni della plebe, controllati dai patrizi, il
Senato nominò Marco Furio Camillo dittatore per la quarta volta, allo scopo di impedire la
votazione delle leggi proposte da Licinio e Sestio.

« E dato che le tribù erano giù state chiamate a votare e il veto dei colleghi non ostacolava più i
promotori delle leggi, i patrizi allarmati ricorsero ai due estremi rimedi: la più alta delle cariche e il
cittadino al di sopra di ogni altro. Decisero di nominare un dittatore. La scelta cadde su Marco Furio
Camillo, che scelse Lucio Emilio come maestro di cavalleria » (Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 38.)

Ma Furio Camillo non riuscì a dissuadere i tribuni della plebe dal recedere dalle loro azioni,
rispettando il veto dei colleghi, e anzi, si dimise dalla carica; secondo alcuni perché la sua elezione
non era stata regolare, secondo altri, perché temeva la reazione della plebe, una volta tornato
normale cittadino romano.

« Tuttavia, prima ancora che la contesa avesse designato un vincitore tra le due parti in causa, Camillo
rinunciò al proprio incarico, sia perché - come hanno scritto alcuni autori - la sua elezione non era stata
regolare, sia perché i tribuni della plebe proposero e la plebe si disse d'accordo che, qualora Marco Furio
avesse preso qualche iniziativa in qualità di dittatore, gli sarebbe stata inflitta un'ammenda di 500.000
assi » (Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 38.)

A seguito delle sue dimissioni, il Senato elesse dittatore Publio Manlio Capitolino.

Quinta dittatura
Nel 367 a.C., Furio Camillo nominato dittatore per fronteggiare un'invasione dei Galli, nominò Tito
Quinzio PenoMagister Equitum.I romani affrontarono i Galli nei pressi di Albano, sconfiggendoli e
mettendoli in fuga. Tornato a Roma, a Furio fu tributato il trionfo.

« E non ostante l'enorme spavento ingenerato dai Galli e dal ricordo della vecchia disfatta, i Romani
conquistarono una vittoria che non fu né difficile né mai in bilico. Molte migliaia di barbari vennero
uccise nel corso della battaglia e molte altre dopo la presa dell'accampamento. I sopravvissuti, dispersi,
ripararono soprattutto in Puglia, riuscendo a evitare i Romani sia per la grande distanza della fuga, sia
per il fatto di essersi sparpagliati in preda al panico » (Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 42.)

In quell'anno furono approvate le Leges Liciniae Sextiae, che permettevano l'accesso dei plebei al
consolato.

Morte di Furio Camillo

Sebbene patrizio nell'animo, comprese la necessità di fare concessioni alla plebe e fu determinante
nel far approvare le Leggi licinie sestie. Morì di peste all'età di 81 anni (365 a.C.).

Guerre Sannitiche (343 a. C. – 290 a. C.)


Antefatto

Erano i Sanniti un ramo della stirpe Sabellica sparsasi dall'Appennino settentrionale nelle regioni
appenniniche centrali e meridionali. I Sabelli fin da tempi remoti si erano divisi in vari rami, i quali
recatisi in altri paesi della penisola, avevano preso nomi diversi. Un ramo si era stabilito nella valle
di Rieti con il nome di Sabini, un altro era emigrato nelle odierne Marche con i nomi di Picenti,
Marrucini e di Frentani, un terzo ramo era andato nella valle del Fucino prendendo i nomi di Marsi
e Peligni, un quarto si era spinto ad oriente della Campania e si era suddiviso in vari gruppi che si
erano chiamati Pentri, Caudini e Irpini, pur mantenendo il nome comune di Sanniti.

Attratti dal clima e dalle ricchezze della Campania e approfittando delle condizioni di questa
regione in gran parte sotto il dominio degli Etruschi che non avevano saputo assimilarsi gli abitanti
ed eliminare perfino al loro interno il dissidio tra la democrazia e l'aristocrazia, i Sanniti vi erano
scesi dalle loro montagne, avevano sottratto Capua agli Etruschi, Cuma ai Greci e, fatte eccezione
altri piccoli insediamenti ellenici, avevano occupato quasi tutto il territorio campano.Qui i Sanniti
avevano subìto un forte influsso della civiltà greca; con i numerosi contatti, arricchiti con le
industrie e i commerci e con il relativo indotto, avevano a poco a poco perduta l'originaria fierezza e
si erano procurati una vita di agi e di mollezze. Solo i Sanniti ancora isolati sulle montagne del
Sannio avevano conservato i loro costumi, la loro sobrietà, la forza e la fierezza della propria stirpe.
Ma proprio per quest'isolamento era però assente il concetto dell'"unità nazionale" e questo
rappresentava la debolezza della stirpe sabellica; pure loro come gli Etruschi, i vari gruppi erano
l'uno all'altro estranei e non di rado nemici. Poi lo furono ancora di più quando quelli sulla costa
abbandonarono tradizioni, costumi e vita.Nonostante discesi da un ceppo comune non correvano
buoni rapporti tra i Sanniti del Sannio e quelli della Campania e quando i Sidicini, che abitavano tra
il Liri e il Volturno, furono assaliti dai Sanniti del Sannio, tra questi e i Sanniti Capuani scoppiò la
guerra che doveva provocare l'intervento di Roma.I Sidicini, non potendo resistere ai loro nemici, si
erano rivolti per aiuti a Capua, che era la principale città campana, e questa aveva inviato in loro
soccorso un esercito che era stato sconfitto presso Teano. Una seconda e non meno grave sconfitta
subirono poco tempo dopo i Capuani. Il partito aristocratico che governava la città nelle disfatte
delle sue armi e nell'avanzarsi dei Sanniti del Sannio, vide più il pericolo che incombeva sull'interna
fazione politica capuana, che quello da cui era minacciata la patria e pur di salvare se stesso e
mantenere il potere non esitò ad affidarsi ad una potenza straniera per combattere i loro stessi
lontani cugini.Ambasciatori con pieni poteri furono inviati a Roma affinché chiedessero aiuti contro
i Sanniti del Sannio; ma Roma a questi era legata da un trattato di amicizia stipulato nel 400 (354
a.C.) e non poteva né voleva violare i patti, con il rischio di alimentare inimicizie così vicine e che
potevano poi unirsi ai soliti nemici (Volsci o Latini, mai del tutto sottomessi).Dichiararono allora i
plenipotenziari che Capua si metteva volontariamente sotto la sovranità di Roma. Era questo un
modo per non responsabilizzare i romani di essersi ingeriti in contese locali. Il senato accettò e, non
potendo lasciare i nuovi sudditi sotto la minaccia del nemico, atteggiandosi come intermediaria,
inviò ambasciatori ai Sanniti affinché si astenessero dal recare ai Capuani molestia. Non dissero
palesemente altrimenti cosa sarebbe accaduto, ma gli altri capirono benissimo.E per tutta risposta i
Sanniti, alla presenza degli stessi ambasciatori, ordinarono alle proprie truppe di fare una scorreria
nel territorio di Capua. Era dunque un'aperta sfida.

Prima guerra Sannitica (343 a. C. – 341 a. C.)


BATTAGLIA DEL MONTE GAURO (343 a. C.)

A quel punto, ma ne era ben cosciente, e forse non cercava altro che questo, Roma dichiarò guerra
ai Sanniti e, senza perdere tempo, allestiti due eserciti, furono mandati uno, al comando del console
VALERIO CORVO, in Campania, l'altro, capitanato dal console CORNELIO COSSO, nel Sannio.
Valerio occupò Capua e poiché il partito democratico mostrava apertamente d'essere malcontento
del governo che aveva di sua iniziativa offerto ai Romani il protettorato della città e per questo
motivo poteva, insorgendo, nuocere alle legioni di Roma, Valerio decise di andare ad incontrare il
nemico lontano dalla città e venne a contatto con questo presso il monte Gauro. Le prime operazioni
di guerra furono scaramucce di poco conto, ma furono di molta utilità ai Romani perché diedero
loro modo di conoscere il nemico, il suo modo di combattere e anche capire il carattere di quella
fiera popolazione, audace individualmente, ma spesso insofferente alla disciplina e all'unione.La
battaglia campale avvenne dopo alcuni giorni e fu molto accanita.

I fieri montanari del Sannio, imbaldanziti dalle recenti vittorie riportate sui Capuani, si battevano a
loro modo con ardore e per lungo tempo rimasero incerte le sorti della battaglia. Allora il console,
vedendo che non riusciva alle sue legioni di respingere con la forza il nemico, pensò di fare entrare
in azione la cavalleria affinché scompigliasse le linee dei Sanniti. Ma il campo di manovra era
molto ristretto, il terreno ostile, e i cavalieri non riuscirono efficacemente pur con l'impeto a
rompere il fronte avversario.Deciso a vincere ad ogni costo, VALERIO CORVO smontò da cavallo
ed ordinò alla cavalleria di fare altrettanto, di unirsi ai fanti e di seguirlo. Spronati dall'esempio, i
Romani si lanciarono dietro il loro capitano. L'urto fu terribile, ma i Sanniti, benché decimati dalla
furia romana, resistettero impavidi. La giornata volgeva già al termine e dopo l'intera giornata
trascorsa in battaglia, la stanchezza si era impadronita delle legioni di Roma; tuttavia con un ultimo
attacco, e con tutta la rabbia in corpo, tentarono l'ultimo offensiva, e fu tale l'impeto accompagnata
dall'ira, che per i Sanniti, convinti di averli stremati, quest'attacco a fine giornata fu una spiacevole
sorpresa; questa volta furono costretti ad arretrare davanti ai Romani.
La strage sarebbe stata immane e la vittoria delle truppe di Valerio completa se il sopraggiungere
della notte non avesse posto termine al combattimento.Durante la notte i Sanniti ritennero
opportuno darsi alla fuga abbandonando precipitosamente il campo e, quando spuntò l'alba, i loro
alloggiamenti furono occupati dall'esercito vincitore.

BATTAGLIA DI SATICOLA (343 a. C.)

Quanto sopra avveniva nella zona di Capua, mentre contemporaneamente l'esercito del console
CORNELIO COSSO si era accampato a Saticola, presso il Volturno. Sapendo il console che un
esercito sannitico era in marcia e avanzava contro di lui, preferì togliere il campo muovendogli
incontro. Ma, privo di guide e non conoscendo i luoghi, imprudentemente, guidò l'esercito in una
valle boscosa fra Saticola e Benevento. I Sanniti che avevano spiato le mosse dei Romani
approfittarono dell'occasione che si offriva, con buon anticipo occuparono le alture che
fiancheggiavano la valle. Quando Cornelio Cosso avanzando si accorse d'esser caduto in trappola,
era ormai troppo tardi per tornare indietro e l'esercito sarebbe stato interamente massacrato se non
fosse stato salvato dal valore del tribuno PUBLIO DECIO MURE.Questi, avendo vista un'altura che
dominava le posizioni nemiche e che i Sanniti si erano o dimenticati o trascurato di occupare, la
mostrò al console e, chiesto e ottenutone il permesso di collocarsi su quella, con una compagnia di
fanti armati alla leggera, attraverso un bosco si diresse verso la cima e solo quando prese posizione i
nemici se n'accorsero.I Sanniti, che non sapevano che si trattava solo di un manipolo di uomini,
preoccupati della minaccia che sopra di loro sovrastava, non osarono né scendere dalle loro alture
né quindi di assalire il grosso dell'esercito, il quale ebbe così il tempo di uscire dalla valle.
Il manipolo dei coraggiosi poteva essere facilmente assalito e fatto a pezzi o bloccato dallo
stragrande numero di nemici, ma questi non seppero neppure questa volta approfittare
dell'occasione e poiché era ormai calata la sera, circondata l'altura, si disposero a passare la notte.
DECIO MURE, sapendo che non era prudente aspettare il nuovo giorno e che solo col favore delle
tenebre sarebbe potuto sfuggire alla stretta nemica in cui volontariamente si era messo, decise di
tentare di passare inosservato durante la notte attraverso il campo dei Sanniti o di aprirsi il varco a
viva forza.

Pertanto esplorate le posizioni avversarie ed avendo costatato che non erano state prese misure di
sicurezza, seguito dal suo distaccamento, si pose in cammino, ed avrebbe raggiunto il console senza
colpo ferire se il rumore prodotto dallo scudo di un soldato non avesse svegliato una sentinella
sannitica, la quale, dato l'allarme, mise il campo a rumore.I Sanniti, improvvisamente svegliati,
dubbiosi se assaliti dai Romani discesi dall'altura -di cui non conoscevano la consistenza- o
dall'esercito del console tornato indietro per attaccarli, spaventati dalle grida dei soldati di Decio
che facevano baccano per dare l'impressione che erano in molti, in parte esitarono troppo, e in parte
sgomenti si sbandarono e quelli che tentarono isolatamente di opporsi al passaggio dell'audace
manipolo furono fatti a pezzi. Rimanevano ancora alcune ore della notte. Rifugiatosi in un luogo
sicuro, Decio Mure aspettò lì il giorno e, spuntata l'alba, avvertì il console degli avvenimenti della
notte, ma senza altri impedimenti riuscì subito dopo a riunirsi al grosso dell'esercito, dove fu accolto
trionfalmente.

Decio Mure però troncò le manifestazioni di gioia dei commilitoni e gli elogi che Cornelio Cosso
aveva cominciato a rivolgergli; consigliò che si doveva approfittare dello sbigottimento del nemico
attaccandolo nella stessa mattina in forza. Seguirono il consiglio. L'esercito di Cosso trovò i Sanniti
che non si erano ancora riavuti dalla sorpresa, buona parte per il terrore di essere stati circondati si
erano sbandati, di modo che non fu difficile sbaragliarli del tutto e in buona parte -e questa volta era
vero- circondarli manipolo dopo manipolo e che -considerandosi ormai spacciati- non opponendo
resistenza si arresero.Secondo quello che narrano gli storici, quel giorno furono messi fuori
combattimento trentamila nemici. A Decio Mure, l'eroe della giornata, dal console gli fu data una
corona e donati cento buoi, fra cui uno bianco dalle corna dorate; mentre ai soldati del suo eroico
manipolo una doppia razione di viveri, due vestiti e un bue a testa. Le stesse legioni donarono a
Decio una corona ossidionale ed un'altra la offrirono i soldati del suo stesso manipolo, ai quali
Decio distribuì i cento buoi ricevuti in dono dal console. Il bue bianco invece fu sacrificato a Marte.

BATTAGLIA DI SUESSULA(343 a. C.)

I Sanniti, non piegati dalle due sconfitte, che avevano sottratto buona parte del loro esercito,
ritentarono la sorte delle armi e, reclutato un nuovo fortissimo esercito, marciarono su Suessula alle
falde del monte Tifata.Informato dalle vedette di questi nuovi ostili movimenti, Valerio Corvo,
lasciati indietro sotto buona scorta i carriaggi, marciò con il suo esercito, munito dei viveri
strettamente necessari, verso Suessula senza dare troppo all'occhio e mise quasi in sordina il campo
nelle vicinanze di quello nemico. I Sanniti si schierarono a battaglia, ma i Romani senza far scoprire
le loro carte, rimasero chiusi nel loro campo. I nemici credevano che l'esercito consolare fosse poco
numeroso o che aveva paura di misurarsi e, siccome l'esercito sannitico scarseggiava di viveri, i
capi lasciarono negli alloggiamenti -non conoscendo la consistenza del nemico- una sufficiente
parte dell'esercito e buona parte lo mandarono nei dintorni a procurarsi e procurare i viveri con
alcune razzie. Valerio vedendo i nemici disseminati per la campagna e scarsamente protetti gli
alloggiamenti, a quel punto ordinò l'assalto al campo sannitico e fu questo così improvviso e furioso
che in breve tempo i pochi difensori furono sopraffati con gravissime perdite e il campo
conquistato. In questo, a guardia, il console lasciò due legioni e con il resto dell'esercito diede
addosso agli altri manipoli Sanniti, che erano andati ognuno per proprio conto in cerca di viveri e,
affrontati uno ad uno ne fecero strage strage, nella fuga trovarono scampo solo coloro che non
perirono sotto il ferro romano.Narra LIVIO che quarantamila scudi e centosettanta bandiere dei
Sanniti caddero in mano delle legioni Romane, ai quali fu distribuita la preda fatta nel campo.La
notizia delle tre strepitose vittorie si sparse rapidamente e aumentò il "terrificante" prestigio di
Roma. La prima guerra fuori dai confini era - come abbiamo visto per inesperienza dei nemici- stata
quasi più facile che non quelle dentro i propri confini.

L'anno successivo, il console Gaio Marcio Rutilo inviato a prendere il comando delle truppe
acquartierate vicino Capua a sua difesa, si trovò nella necessità di affrontare comportamenti
sediziosi dei soldati, che progettavano di prendere con la forza Capua, per impadronirsi delle sue
ricchezze. Con tattiche diversive, riuscì ad allontanare dagli accampamenti militari gli elementi più
pericolosi, fino a quando gli insubordinati ne capirono le mosse, uscendo allo scoperto, e muovendo
armati alla volta di Roma. Marco Valerio Corvo, nominato dittatore, riuscì ad evitare lo scontro tra
truppe romane, promuovendo un accordo con i rivoltosi. La guerra si concluse nel 341 a.C., quando
il console Lucio Emilio Mamercino Privernate fu affidata la campagna nel Sannio. Entrato in
territorio nemico, i romani iniziarono a devastarne le campagne, finché i Sanniti non inviarono
ambasciatori a Roma per chiedere la pace. A Roma gli ambasciatori ottennero la pace con i Romani,
ed il permesso di continuare la guerra contro i loro nemici di sempre, i Sidicini. Con questo trattato
terminò la prima guerra sannitica, anche se durante lo stesso anno, i Sanniti dovettero subire gli
attacchi dei Latini, alleati di Roma.I Falisci chiesero ed ottennero di essere alleati dei Romani, i
Latini che si preparavano a una nuova guerra contro Roma, cambiarono le proprie mire e rivolsero
invece le armi contro i Peligni, di stirpe sannitica.Perfino i Cartaginesi si congratularono con Roma
e le inviarono in dono una corona di oro del peso di venticinque libbre che fu posta nel tempio di
Giove nel Campidoglio. Erano ancora i tempi dei buoni rapporti e i contrasti egemonici non erano
ancora nati. Cacciati dalla Campania da qualche tempo gli Etruschi, i Cartaginesi e anche i Greci,
pensarono che i Romani proteggendo Capua, avevano fatto solo un comodo favore ai propri
interessi.

TERZA SECESSIONE DELLA PLEBE (342 a.C.)

Il trionfo dei due consoli e di Decio Mure fu strepitoso e altrettanto grande fu la gioia di Roma per
la guerra vittoriosamente condotta a termine. Ma la gioia ben presto scomparve al sopraggiungere
delle notizie dalla Campania. La ribellione serpeggiava fra le truppe vincitrici lasciate come
presidio a Capua, a Suessula ed in altri luoghi della vagheggiata nuova provincia romana.
La ribellione era l'effetto del malcontento dei soldati, ai quali, per essersi la guerra svolta in un
modo inconsueto, cioè in un territorio volontariamente datosi a Roma, quindi amico, era dunque
mancato il solito saccheggio delle città, e ai soldati eccetto la gloria non era venuto in tasca proprio
nulla. Di questo malcontento aveva approfittato la democrazia campana per togliere il potere
all'aristocrazia. Roma aveva già esportato le guerre intestine; ed era anche un buon motivo -o un
pretesto- per intervenire aiutando una delle due fazioni; che prima o poi avrebbe poi dominate, o
sostituite nel governo della regione.A sedare l'insurrezione militare della Campania fu mandato il
console plebeo CAJO MANIO RUTILO, il quale licenziò i soldati più turbolenti, sicuro che,
epurate le guarnigioni degli elementi sediziosi, la calma e la disciplina sarebbero tornate
nell'esercito.Ma il rimedio fu peggiore del male. I legionari licenziati si radunarono presso Auxur,
in una località chiamata Lantule, costituirono un proprio esercito - in verità misero insieme una
marmaglia- che poi aumentato di numero, disordinatamente invasero, predandolo, il territorio
albano dove piantarono il loro campo.Mancando un vero capo, prima pregarono poi costrinsero
TITO QUINZIO, valoroso patrizio ritiratosi a vita privata in una villa presso Tuscolo, a comandare
le bande dei rivoltosi, poi con la bandiera in testa marciarono su Roma.La notizia dell'avvicinarsi
dei ribelli - per i motivi detti sopra, di essere stati prima abbandonati poi licenziati- aveva perfino
commosso la cittadinanza. Si pensò allora che solo un uomo saggio poteva scongiurare il pericolo
che sovrastava la repubblica: M. VALERIO CORVO, uomo molto amato dai soldati, stimato dalla
plebe e popolare nell'esercito per le vittorie riportate sui Sanniti al Monte Gauro e Suessula.Fu
perciò creato dittatore e creò a sua volta maestro della cavalleria LUCIO EMILIO
MAMERCO.Valerio andò incontro ai rivoltosi sulla via Appia, ad otto miglia dalla città e bastò la
sua presenza per spegnere l'ira dei legionari, che promisero obbedienza al loro antico condottiero, il
quale, a sua volta, promise l'amnistia ai rivoltosi.Questa rivolta non fu certamente di lieve entità se,
per placarla, si ricorse alla dittatura, e i patrizi non si opposero ad alcune leggi che in quello stesso
anno furono fatte in favore dei soldati e della plebe.Una di queste leggi, proposta dal dittatore e che
da lui si chiamò "lex Valeria militaris", stabiliva che non potevano essere licenziati i soldati se non
a chiedere il congedo fossero stati loro stessi e che dovevano essere rispettati i gradi conseguiti
nell'esercito.Un plebiscito, detto GENUCIO dal tribuno di questo nome che aveva presentato la
proposta, stabiliva che non si poteva prestare denaro ad usura; un secondo plebiscito stabiliva che
nessuno poteva coprire la medesima carica più volte entro il periodo di dieci anni; un terzo vietava
che una persona coprisse contemporaneamente due cariche; un quarto infine permetteva che
entrambi i consoli fossero plebei. Quest'ultimo caso non si avverò per la prima volta che settantanni
dopo, nel 582 (172 a.C.), quando da molto tempo erano già cessate le contese tra patriziato e plebe.

Seconda Guerra Latina (340 – 338 a.C.)

Conseguenza della sedizione militare fu che i popoli vicini nemici -sempre pronti a sfruttare le
disgrazie dei romani- rialzarono la testa e fra questi alcuni popoli della confederazione latina che
negli anni precedenti si erano sottomessi ai romani o con la forza o con l'opportunismo.I primi a
prender le armi furono i Privernati che fecero scorrerie nel territorio di Sezia e Norba; seguirono poi
i Volsci capeggiati da Anzio. Contro gli uni e gli altri fu inviato il console CAJO PLAUZIO, il
quale mosse prima contro Priverno e, sconfitti i difensori, s'impadronì della città nella quale mise un
grosso presidio romano, poi marciò contro Anzio e qui un'accanita battaglia fu combattuta contro i
Volsci e i loro improvvisati alleati, ma i due eserciti, dopo aver combattuto a lungo, furono divisi da
una furiosa tempesta. Preparandosi il giorno dopo i Romani a riaccendere il combattimento, i
Volsci, sfiduciati e stanchi, fuggirono nella vicina Anzio, lasciando sul campo gran quantità di armi
e numerosi feriti. CAJO PLAUZIO con il suo esercito con il suo esercito continuò il saccheggio in
tutto il territorio fino alla maremma. All'altro console LUCIO EMILIO MAMERCO fu dato
l'incarico di continuare la guerra contro i Sanniti, i quali però chiesero la pace e la ottennero ed
ebbero anche una certa libertà di azione contro i Sidicini.

Infatti, dopo aver ritirate le truppe romane dal Sannio, i Sanniti si affrettarono a marciare contro i
Sidicini, i quali questa volta furono loro a chiedere aiuto a Roma che era ormai amica e protettrice
dei Sanniti, e ovviamente essendosi rifiutata, i Sidicini si allearono con quella parte di popoli Latini
che avevano ripreso le ostilità contro Roma.Da lungo tempo questi sopportavano malvolentieri la
supremazia di Roma e cercavano solo un'occasione propizia per ottenere parità di condizioni.
Approfittando della guerra contro i Sanniti, già avevano armato alcuni eserciti e li avevano mandati
a combattere nel Sannio per proprio conto. Ora non esitarono ad allearsi con i Sidicini e ad
intendersi con i Campani, cioè con il partito democratico che aveva abbattuto il regime aristocratico
a Capua scacciandone la guarnigione romana. Lamentandosi i Romani del contegno ostile dei
Latini, questi inviarono a Roma un'ambasceria guidata dai pretori LUCIO ANNIO di SEZIA e
LUCIO NUMIZIO di CIRCEJO.Presentatisi in Senato, prese la parola ANNIO ed espose le pretese
dei Latini, chiedendo che fra le città latine e Roma vi fosse eguaglianza politica e civile, che latino
fosse uno dei due consoli e latini la metà dei senatori.Le richieste di Annio provocarono nel Senato
una grandissima indignazione. Il console MANLIO TORQUATO, trascinato da furiosa collera,
insorse a parlare e dichiarò che se avessero i Senatori accolte le domande dei Latini egli sarebbe
entrato con le armi in mano dentro la curia ed avrebbe ucciso i Latini che avessero osato di
occupare i legittimi seggi concessi. Il contegno sprezzante di Annio e certe parole poco riguardose
rivolte - secondo la tradizione - da lui agli dèi furono fatali all'imprudente ambasciatore di Sezia.Il
Senato sollevatosi a tumulto, gli ambasciatori furono cacciati dalla curia, e LUCIO ANNIO,
scivolando a terra, picchiò il capo contro lo spigolo di una pietra rimanendo ucciso sul colpo. A
stento i suoi compagni, protetti dai magistrati, riuscirono tornare incolumi in patria.La morte di
Annio e la cacciata degli ambasciatori equivalse ad una dichiarazione di guerra.Correva l'anno (340
a.C.). I Latini, privi degli aiuti dei Volsci che non si erano riavuti dalle recenti sconfitte, ma forti dei
soccorsi dei Sidicini e dei Campani, avevano posto il campo nei pressi di Napoli, vicino il Vesuvio
per attirare i Romani nella Campania, più lontano possibile dalle loro basi, sperando che passassero
attraverso il territorio dei Volsci e degli Aurunci, popoli nemici di Roma, ai cui eserciti potevano
recar danni considerevoli durante la marcia.Erano consoli per quell'anno TITO MANLIO
TORQUATO e DECIO MURE, l'eroe di Saticola. Questi accortamente, anziché condurre i loro
eserciti per le terre nemiche dei Volsci e degli Aurunci, risalito il Liri, attraversarono il territorio dei
Marsi e dei Peligni, gente non ostile ai Romani, e, congiuntisi con gli alleati sanniti, giunsero con le
truppe integre presso il campo latino. Essendo i Latini una popolazione che parlava la stessa lingua
di Roma e usava le stesse vesti, i medesimi costumi, gli stessi metodi di guerra e le stesse armi dei
Romani, i consoli per evitare equivoci dolorosi proibirono con la "pena di morte" che si
combattesse fuori delle file. Accadde un giorno che il giovane figlio dello stesso console Manlio,
mandato in ricognizione con un drappello di cavalleria, si spingesse a un tiro d'arco dal campo
latino e si incontrasse con una squadra di cavalieri tusculani comandata da GEMINIO MEJIO
nobile per nascita e famoso per le imprese.Motteggiato e sfidato da costui, il giovane Manlio
dimenticò il divieto dei consoli ed accettò di misurarsi con l'orgoglioso latino. Ai primi colpi il
cavallo di Mejio, ferito alla testa, s'impennò e gettò di sella il cavaliere, il quale, mentre tentava di
rialzarsi, fu colpito alla gola dalla lancia del guerriero romano e abbattuto al suolo.Lieto della
vittoria riportata, il giovane ritornò al campo romano portando con sé le spoglie del nemico ucciso.
Ma il padre lo accolse molto severamente e, radunati i soldati, decretò al loro cospetto la "corona
civica" al figlio per il valore dimostrato, ma dichiarò che non poteva lasciare impunita la
disobbedienza del giovane. Ci voleva un esempio per ammonire l'esercito a rispettare gli ordini del
capo e mantenere la disciplina. Davanti al dovere, il console dimenticava con dolore l'amor di padre
e non esitava a condannare il figlio.Data la sentenza, l'esecuzione fu immediata: i littori legarono al
palo il guerriero e la sua testa cadde sotto i colpi inesorabili della scure fra il doloroso silenzio dei
soldati. II corpo di Manlio dai commilitoni ebbe splendide onoranze funebri, poi ornato delle
spoglie nemiche, fu arso sul rogo fra il compianto di tutti. Da questo fatto ebbe origine il proverbio
"manliana imperia" a significare una legge crudelmente rigorosa.

Il console non ci guadagnò in favore popolare, ma la disciplina nell'esercito fu ferreamente


mantenuta e a questa si deve se la vittoria in quella guerra e in quella circostanza arrise ai
Romani.Intanto dall'una parte e dall'altra si preparava la battaglia decisiva.Narra la tradizione che
una notte comparve in visione all'uno e all'altro console una figura gigantesca d'uomo, la quale disse
loro che avrebbe vinto quell'esercito il cui comandante si fosse spontaneamente sacrificato alla
Madre Terra ed agli Dei Infernali. Richiesto il parere agli aruspici, questi confermarono il sogno, e i
consoli stabilirono che si sarebbe gettato nella battaglia sacrificandosi quello le cui schiere avessero
cominciato per prima ad indietreggiare. Finalmente giunse il giorno della battaglia; a Decio Mure
toccò il comando dell'ala sinistra, a Tito Manlio quello della destra dell'esercito, schierato sulle rive
del Veseri.Lo scontro fu terribile; dall'una e dall'altra parte si combatté ad oltranza con eguale
accanimento e bravura. Ma ecco che l'ala sinistra dei Romani, fortemente premuta dalle legioni
latine, indugia, tenta di resistere e non riesce a contenere l'impeto nemico. Gli astati sono costretti
ad indietreggiare nelle file dei principi. A quella vista il console Decio chiama a gran voce Marco
Valerio, pontefice massimo, e lo prega di dettargli la formula del sacrificio. Il pontefice gli ordina di
indossare la toga, di ricoprirsi il capo con un velo e di ergersi sopra una lancia distesa a terra e di
profferire le parole sacramentali: "Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari familiari, Dei
novensili, Dei indigeti, Dei che avete in potere noi Romani ed i nemici nostri. Dei Infernali, vi
prego, vi adoro, vi domando perdono e vi scongiuro di dar forza e vittoria al popolo romano e dei
Quiriti e di mettere nell'animo dei suoi nemici, spavento, terrore e morte. Io maledico e meco stesso
agli Dei Infernali e alla terra consacro ed offro le legioni dei nemici per la salvezza delle legioni e
della romana repubblica".

Decio Mure pronuncia solennemente la formula, informa il collega del sacrificio che sta per
compiere, monta armato a cavallo e si lancia perdutamente nella mischia. Spettacolo stupendo! Non
un uomo sembra Decio Mure, ma un essere soprannaturale, una divinità calata sulla terra per
rialzare le sorti dell'esercito romano ed abbassare quelle dei nemici. Egli non si cura di difendersi;
cerca anzi di perire e non ha altra mira che quella di uccidere. Galoppa furiosamente in mezzo alle
schiere latine con un ardire superbo, si lancia come una catapulta, si abbatte come un fulmine, ogni
cosa che incontra travolge come una valanga. I Latini non resistono, cadono intorno a lui, fuggono,
si scompigliano pazzi di terrore, mentre i Romani, animati dal mirabile esempio del console,
riprendono forza e coraggio e respingono le schiere avversarie ma ormai già scompigliate da quella
eroica bufera scatenata in mezzo a loro da Decio, che pur colpito da ogni parte e con il corpo
squarciato da numerose ferite continua a galoppare fino all'ultimo sacrificio, quando cade come un
cencio fra i nemici. Sacrificio che però ha già dato la vittoria per merito proprio di quell'ala sinistra
che Decio comandava e che poco prima aveva dato origine al suo sacrificio. Nonostante
l'immolazione del console, sugli altri settori della battaglia le sorti non volgevano a favore dei
Romani. L'altro console allora ricorse ad uno stratagemma: fece avanzare le riserve anziché i triari,
e riservò questi per l'ultimo cozzo finale.I Latini che sapevano benissimo come operava l'esercito
Romano, furono convinti che si erano buttati nella battaglia le ultime disponibilità di uomini e a
loro volta fecero avanzare i loro triari.Il combattimento continuò per molto tempo e sempre incerto
sull'esito, ma quando Manlio vide che i triari nemici erano stanchi e che le sue riserve cominciavano
a piegare, a quel punto ordinò ai veri triari di entrare con tutto il loro impeto e la loro esperienza in
battaglia (ricordiamo che i "triari" erano composti di veterani).L'intervento di queste truppe mature
ma fresche decise le sorti della giornata. Il nemico respinto in tutti i punti subì delle perdite ingenti,
più della quarta parte delle sue forze, e il resto fu completamente disfatto. Abbandonati gli
alloggiamenti, i Latini superstiti furono da NUMIZIO, che era il loro capo, condotti verso Minturno,
lasciando nelle mani dei Romani gran quantità di bottino e un numero considerevole di prigionieri.
Durante la notte fu cercato invano il corpo di Decio Mure e solo il giorno dopo fu ritrovato sotto un
mucchio di nemici uccisi e fu sepolto con grandissima pompa.NUMIZIO, sperando in un'immediata
rivincita chiamò alle armi quanti piùuomini gli fu possibile di reclutare fra i Latini e i Volsci e con
questi e i resti del suo esercito mise insieme un altro potente nuovo esercito.

Ma prima che questo, nella fase preparativi, e prima che si organizzasse e si armasse, a Trifanno, tra
Sinuessa e Minturna, fu sorpreso dal grosso dell'esercito di Manlio e fu scompaginato prima ancora
di entrare in azione; il risultato fu un disastro per i latini, una buona parte senza nemmeno le armi in
mano fu massacrata, una parte nelle stesse condizioni fu facilmente fatta prigioniera, pochi
riuscirono a mettersi in salvo fuggendo.

Dopo questa seconda battaglia il territorio latino fu percorso e dando la caccia al bottino fu
completamente depredato; e Capua vista la disfatte per non farsi punire con un sicuro massacro, si
affrettò ad aprire le porte ai vincitori.L'agro pubblico del Lazio Latino ribelle, ormai disfatto, fu
diviso ai plebei poveri in lotti di due jugeri e mezzo, quello della Campania in lotti di tre jugeri. I
Laurentini, poiché non si erano ribellati, non furono privati dell'agro e a milleseicento cavalieri
capuani, che non avevano preso le armi, fu concessa come premio di fedeltà la cittadinanza romana
ed una pensione annua di quattromilacinquecento assi ciascuno ma carico della stessa Capua.
Così Roma premiava il partito aristocratico. LE LEGGI DI PUBLILIO FILONE Tuttavia benché
vinti, i Latini superstiti, non deposero le armi e le ostilità continuarono sotto forma di scorrerie.
Parecchie ne subirono i territori di Ostia e di Ardea da parte di Anzio e poiché Manlio in questo
periodo era infermo, fu creato dittatore LUCIO PAPIRIO CRASSO che, senza aver nulla fatto
contro i nemici, cedette il potere ai due consoli TITO EMILIO MAMERCO e QUINTO PUBLILIO
FILONE. Questi entrambi nel 415 (339 a.C.) sconfissero un esercito latino. Filone, tornato a Roma,
ricevette il trionfo; l'altro marciò contro Pedo nelle cui vicinanze mise in fuga un esercito nemico
composto di Pedani, Tiburtini, Prenestini, Veliterni ed Anziati, poi si preparò ad investire il campo
e la città, ma, essendogli giunta a notizia del trionfo tributato al collega, lasciò sospese le operazioni
di guerra e si recò a Roma a reclamare anche lui il trionfo, che però dai senatori gli fu rifiutato.
Benché patrizio, EMILIO MAMERCO pieno di rancore, cominciò da quel giorno ad avversare il
suo ceto e ad accusare, con il console plebeo PUBLILIO FILONE, il Senato di avere usato
parzialità nella divisione dell'agro latino e campano. Avendo la curia deciso la creazione di un
dittatore la scelta cadde su di lui, su PUBLILIO FILONE, al quale si devono le leggi che lo resero
famoso. Una di queste stabiliva che le deliberazioni della plebe (plebisciti) avessero valore per tutti
i Romani; un'altra che le leggi proposte nei comizi centuriari fossero approvate dall'assemblea
senatoriale prima che fossero sottoposte al suffragio dei comizi; una terza legge stabiliva che uno
dei censori fosse sempre plebeo. Nel frattempo i Latini preparavano la riscossa. Ma fu l'ultimo ed
inutile loro sforzo, perché, essendo, nel (338 a.C.), consoli LUCIO FURIO CAMILLO e CAJO
MENIO, i Lanuvini, i Veliterni e gli Aricini furono dal secondo sorpresi e battuti presso il fiume
Astura; mentre i Tiburtini, i Prenestini e i Pedani furono sconfitti dal secondo sotto le mura di Pedo
e la città quel giorno stesso fu presa d'assalto e costretta con la forza alla resa.Dopo queste vittorie
gli eserciti romani iniziarono la conquista metodica dell'intero Lazio: s'impadronirono con la forza o
a patti di tutte le città che le erano ostili, e in ciascuna di queste crearono delle forti guarnigioni.
Così finì questa lunga e immemorabile guerra che era iniziata nella notte dei tempi, e le ostilità fin
dalla fondazione di Roma.E, affinché il Lazio non potesse più ribellarsi, fu dato ad ogni città un
assetto particolare e si fece scomparire le locali "unità nazionale"; ma anche favorendo
diversamente individui, famiglie e partiti e facendo sorgere o continuando a far sopravvivere
diffidenze e rivalità nei soliti due ceti alternativamente dominanti; e che non solo a Roma, ma in
ogni parte del pianeta e in ogni epoca, ha sempre caratterizzato la società umana, causando
innumerevoli guerre sanguinose; mai terminate. Laurento, in premio della sua fedeltà, fu dichiarata
indipendente ed alleata di Roma con parità di diritti e doveri; Tuscolo, Nomento, Aricia e Lanuvio,
che prima delle altre avevano fatto atto di sottomissione, ottennero la cittadinanza romana; Velletri,
Lavinio, Fondi, Forma, Capua, Cuma e Suessula ricevettero la cittadinanza ma senza i diritti
politici; a Tiburi e Preneste fu tolto parte del territorio che diventò agro pubblico romano; le mura di
Priverno e di Velletri furono smantellate; i senatori di Velletri relegati oltre il Tevere; ad Anzio
(allora un apprezzabile porto commerciale sul Tirreno) furono portate via tutte le navi, di cui una
parte fu condotta nell'arsenale di Roma ed una parte distrutta.

Con i rostri delle navi distrutte fu costruita nel foro una loggia. Da ultimo, ad Anzio fu mandata una
colonia e a tutte le città fu fatto divieto di tenere diete e di mantenere o allacciare relazioni politiche
e commerciali con qualsiasi altra città; unica a poterlo fare: Roma. La conquista del Lazio e di parte
della Campania e l'assetto dato a questi nuovi territori da Roma non produssero un lungo periodo di
pace, anzi ben presto le legioni romane dovettero sostenere una nuova guerra. Nemici di Roma
questa volta furono i Sidicini e gli Ausoni, popoli alleati tra loro; e causa della guerra fu l'avere i
primi invaso il territorio degli Aurunci, amici dei Romani, e di aver costretta alla resa e poi distrutta
la loro città. La guerra ebbe varie vicende e si trascinò alcuni anni. Piuttosto debole all'inizio, prese
vigore nel (336 a.C.) quando consoli LUCIO PAPIRIO CRASSO e CESONE DUILIO
sbaragliarono un esercito di Sidicini e di Ausoni nelle vicinanze di Cales, posta nel centro della
Campania.Fra rivalse, rivincite, e ostinazione da entrambe le parti, le operazioni offensive furono
riprese con maggiore vivacità l'anno seguente (419) dal console MARCO VALERIO CORVO, il
quale, nuovamente vinti i nemici nel territorio di Cales, pose l'assedio alla città, il quale chi sa
quanto sarebbe durato a causa delle formidabili fortificazioni se un fortunato caso non l'avesse con
gran facilità consegnata in mano ai Romani.Vi era a Cales prigioniero un romano di nome MARCO
FABIO. Questi, in un giornata di grande festa dei nemici, approfittando delle eccessive libagioni dei
suoi carcerieri non meno sobri degli altri, riuscì a fuggire calandosi per mezzo di una corda dalle
mura e indusse il console a dare subito l'assalto alla città. Questa fu facilmente presa e i nemici
furono fatti prigionieri e venduti come schiavi, spopolando così la città. A Cales fu lasciato un forte
presidio e l'anno dopo (A. d. R. - 334 a.C.) per ripopolarla fu inviata da Roma una colonia di
duemilacinquecento uomini.

ASSEDIO E CONQUISTA DI PRIVERNO (330 a.C.)


La potenza di Roma con queste ultime imprese, si andava sempre più affermando nell'Italia centrale e
meridionale. Con una sua oculata politica, Roma castigava esemplarmente le città riottose e su queste
faceva pesare la sua mano di ferro; oppure premiava le fedeli, ne univa a sé alcune per mezzo di trattati
d'alleanza, ad altre concedeva la cittadinanza. I cittadini romani che nel (339 a.C.) risultavano 160.000,
salirono nel (329 a.C.) a 250.000 e le tribù che erano ventisette raggiunsero nel (332 a.C.) con la
creazione delle due nuove tribù, chiamate "Mecia e Scapzia" il numero di ventinove. Grande sviluppo
prendeva intanto il sistema coloniale; il quale aveva due scopi: quello di alleviare la miseria della plebe
e di eliminare le cause di perturbamenti interni con l'allontanamento dei disoccupati, e quello di rendere
più sicure le conquiste e custoditi i confini. Pur fra tanto fervore e tanta sapienza di provvedimenti
economici, politici e militari, non mancavano le ribellioni e le spedizioni punitive. Se da una parte
l'affermazione della potenza romana attirava nella sua orbita popoli nemici come i Volsci, Fabratemi e
gente lontana come quella dei Lucani, che chiedevano ed ottenevano la protezione di Roma, dall'altra le
ultime scintille d'indipendenza facevano qua e là sorgere tentativi di riscossa.Nel (330 a.C.) riprese le
armi Priverno spalleggiata da non pochi abitanti di Fondi. La rivolta fu capeggiata da un patrizio
fondano di nome VITRUVIO VACCO, molto noto a Roma perché era uno dei rarissimi che
possedevano case sul monte Palatino. Vitruvio, con le sue soldatesche, aveva invaso e saccheggiato il
territorio di Sezia e di Norba. Contro di lui fu inviato il console LUCIO PAPIRIO CRASSO, che
scontratosi con il nemico, con molta facilità lo sconfisse costringendolo a ritirarsi prima dentro il campo
trincerato, poi dentro le mura di Priverno.L'altro console, LUCIO PLAUZIO VERNONE, lasciato il
collega all'assedio di Priverno, marciò su Fondi, i cui abitanti fecero subito atto di sottomissione. Dopo
questa resa le forze romane furono concentrate intorno a Priverno, che fu costretta alla resa non molto
tempo dopo e cadde pure questa in potere dei Romani. Alcuni affermano che la città fu presa d'assalto,
altri invece che si arrese consegnando Vitruvio. Il console Plauzio fu ricevuto a Roma in trionfo;
Vitruvio morì sotto le verghe; le mura di Priverno furono smantellate ed alla città fu imposto un
numeroso presidio; le case di Vitruvio sul Palatino furono demolite e ai senatori privernati inflitte le
stesse pene alle quali era stato condannato il senatore di Velletri. Agli abitanti di Priverno, in premio
della loro fierezza e del loro patriottismo, il fine tatto politico di Roma concesse la cittadinanza.

Spedizione in Italia di Alessandro I re d’Epiro (334 a. C.)


Alessandro I d'Epiro , detto il Molosso fu un re dell'Epiro della dinastia degli Eaci. Fu zio del re
macedone Alessandro Magno. Nell'anno 334 a. C., Alessandro I il Molosso ricevette alla sua corte
una delegazione della città di Taranto appartenente alla regione della Magna Grecia, che richiedeva
aiuto militare. La delegazione implorò il suo aiuto, poiché vari popoli italici vicini ai Tarentini
erano vittime di incursioni: i Messapi, i Lucani ei Bruttii. Le città greco-italiche avevano già deciso
di chiedere lo stesso tipo di aiuto militare, ma all'epoca lo fecero ad altri re greci sotto forma di
invio di mercenari greci. Nella guerra contro i Lucani. Archidamo III, re di Sparta, guidò una
spedizione in Italia intorno al 346 a.C. C. L'unica cosa che si sa di questa spedizione è che si
concluse con la sconfitta degli Spartani intorno al 338 aC. a Manduria, a circa 40 km da Taranto,
nella quale fu ucciso in battaglia lo stesso Archidamo III. Fu una vittoria congiunta dei Lucani e dei
Messapi, che portò alla successiva alleanza tra i due popoli, e all'aggravarsi delle vessazioni dei
Sanniti, che furono alleati dei Lucani, sulle città appartenenti alla Magna Grecia. La campagna di
Alessandro I "Il Molosso" in Italia è storicamente impantanata nelle nebbie dell'incertezza, poiché
non c'è mai stato uno storico che raccontasse in modo solido e coerente questa breve campagna che
Alessandro I d'Epiro tenne nelle città greco-italiche; È solo da Tito Livio che si possono trovare
alcuni pochi riferimenti storici, costituenti l'unica fonte disponibile sulla fine del regno di
Alessandro I d'Epiro. Fonti classiche indicano che il desiderio di Alessandro di espandere la sua
influenza verso ovest aveva una motivazione quasi fantasy, basata su presagi e profezie. Nel
momento in cui giunsero alla sua corte gli ambasciatori di Taranto, ricevette dall'oracolo di Dodona
l'avvertimento in cui gli veniva consigliato di guardarsi dalle acque del fiume Acherusia e della città
di Pandosia, «perché lì i limiti del loro destino ”. La città di Pandosia era nella regione di Cassopaei,
in Epiro, e il suddetto fiume nasceva in Molosia e sfociava nel Golfo di Ambracia. Pertanto,
Alessandro, che aveva grande rispetto per gli oracoli dell'antichità, decise che la cosa più sicura era
allontanarsi il più possibile da quel luogo. Domanda che lo portò ad accettare l'invito dei Tarantini,
poiché lo teneva lontano dai pericoli mentre incombeva il vizio della guerra. Tuttavia, altre ragioni
avrebbero potuto essere. L'esercito macedone aveva mostrato la sua superiorità su quello della polis
greca e contro i barbari del nord; e la Molossia aveva subito un'enorme evoluzione sia a livello
governativo che militare durante i regni di Neottolemo I e dello stesso Alessandro I, molto a
immagine del suo vicino e alleato. Se Alessandro di Macedonia, seguendo il piano di suo padre,
stava ora facendo conquiste in Oriente, perché l'Epirote non dovrebbe fare lo stesso con
l'Occidente? In altre parole, il desiderio di conquistare l'Occidente era qualcosa che Alessandro
mormorava da molto tempo. E l'ambasciata tarentina non fece altro che offrirgli un motivo
convincente per eseguirlo. Tito Livio (8, 3) colloca l'approdo di Alessandro nei pressi di Paestum
(Posidonia greca), tuttavia è molto più probabile che sia avvenuto presso la stessa Tara. Non solo
Posidonia e dintorni furono dominati dai Lucani e uno sbarco di tale portata sarebbe impossibile
senza un porto alleato, ma anche Giustino (12, 2) afferma che le prime azioni furono contro gli
"Apulios", cioè gli Messapi. Una volta in Italia, come abbiamo detto, la prima mossa fu mossa
contro i Messapi, che riuscì a sconfiggere e ad accaparrarli dietro le mura della loro città principale,
Brentesion (la Brindisi romana). E a questo punto, i re di entrambi i popoli decisero di fare la pace.
Apparentemente, secondo Giustino, la superstizione giocava un ruolo importante in questa
decisione, poiché quando Alessandro venne a conoscenza della storia in cui i Messapi presero il
controllo della città, il monarca molosso non volle contraddire i disegni di un oracolo. Brentesion
era stata fondata da coloni etolici, tuttavia fu catturata dai barbari. Quando gli ambasciatori dei
Greci li esortarono a tornare nella loro città, alludendo a ciò che era governato da un oracolo, il
quale diceva che "avrebbero posseduto per sempre il luogo che avevano voluto recuperare", i
Messapi uccisero gli ambasciatori e li seppellirono nella città stessa, avendovi poi residenza
permanente e compiendo l'oracolo. Se la firma della pace avesse una giustificazione politico-
strategica o una mera superstizione dovrebbe essere lasciata alla scelta del lettore poiché non ci
sono più prove al riguardo.

Assicurato l'Oriente, Alessandro mosse il suo esercito contro Lucani e Bruttii. Recuperò la città di
Eraclea. Si diresse quindi a nord e prese la città lucana di Potentia e l'antica colonia greca di
Siponto, detenuta dai Dauni e che fungeva da porto da cui partire per effettuare incursioni
piratesche nell'Adriatico. Ritornato sui suoi passi, e senza poter essere fermato da alcun esercito
nemico, entrò in territorio bruciano, prendendone la capitale, Cosentia e riprendendo Terina, nonché
"altre città dei Messapi e dei Lucani", secondo Livio (8, 24 ). Intanto (332 aC) si propone di
riorganizzare e rafforzare il territorio. Strinse alleanze con Metapontini, Peuceti e Romani, che
erano già visti come la forza principale del centro italiano, oltre ad essere nemici di un possibile
futuro rivale di Alessandro, i Sanniti. Mandò anche 300 famiglie nobili in Epiro, come ostaggi come
assicurazione per mantenere i trattati firmati con lui.
Ma un tale successo non era gradito a tutti. La faida tra Taras e Alexander era in corso da tempo. I
Tarentini erano preoccupati per la grande potenza che l'Epirote stava ottenendo. Fino ad allora
avevano tenuto l'egemonia tra i Greci d'Italia, ma ora Alessandro, oltre a fermare l'avanzata dei
barbari, stava ponendo molte città sotto la sua influenza. Abbiamo appena discusso di come
Alessandro avesse stretto un'alleanza con la città di Metaponto, che fino ad allora era stata sotto
l'influenza tarentina. Poiché nessuna fonte indica che questa città fu presa dai barbari e riconquistata
da Alessandro, questa alleanza implica una rottura tra Metaponto e Tara, così come, in generale, i
Greci d'Italia inizierebbero a vedersi più sicuri stringendo amicizia con lui .re della Molossia che
sotto il dominio di Taras o di qualsiasi altra polis. Così i Tarentini cominciarono a porre ostacoli
allo svolgimento delle campagne dell'Epirote ea ritirare le truppe. La risposta del Molosso fu di
trasferire nel territorio di Thurios l'assemblea generale delle feste di tutti i popoli greci di quella
parte del mondo, che si riuniva ad Eracleia, che era una colonia di Taras ed era stata sotto il suo
controllo. Da quel momento si aprì l'inimicizia tra Tarentini e Alessandro I di Molossia, ritirando
tutte le truppe che gli avevano offerto.

Battaglia di Pandosia (331 a. C.)


Imperterrito dalla situazione, Alessandro decise di continuare con le sue campagne di conquista. Si
stabilì vicinissimo alla città di Pandosia, vicino al confine tra Lucania e Brucia, su tre colli dove
divise il suo esercito. Da quel momento fece incursioni in territorio nemico, impiegandovi come
guardie del corpo un gruppo di duecento profughi lucani, nella cui fedeltà aveva riposto la sua
fiducia. Quando venne l'inverno (probabilmente le prime settimane del 331 aC), piogge continue
inondarono l'intera pianura, rendendo impraticabile il terreno compreso tra i tre colli e impedendo
alle tre divisioni dell'esercito di sostenersi a vicenda. Mentre si trovavano in queste condizioni, le
due divisioni che non erano comandate dal re furono attaccate e sconfitte da un esercito lucano; e
dopo averli annientati, il nemico prese d'assalto il terzo colle. Il gruppo di profughi che fungevano
da guardie del corpo di Alessandro riuscì a comunicare con i loro compatrioti. Vedendo che le sorti
della vittoria stavano cambiando lato, decisero di tradire il re, purché fosse garantito loro un ritorno
sicuro. Alessandro, con un distaccamento scelto di truppe, si fece strada con splendido coraggio
attraverso il nemico. Lo stesso generale dei Lucani lo affrontò e il re dei Molossi lo uccise dopo un
corpo a corpo. Fu allora che, sollevato dalla pressione nemica, riuscì a radunare quelli dei suoi
uomini che si erano dispersi e si diressero verso un ponte sul fiume vicino. Ma trovandolo spazzato
via dalle inondazioni, i resti dell'esercito furono costretti a guadare il torrente in condizioni incerte.
A questo punto, sia Livio che Giustino ci raccontano una storia che chiude la profezia dell'oracolo
di Dodona.
"Un soldato, quasi esausto dalla fatica e dalla paura, maledisse il fiume con il suo nome funesto ed
esclamò: 'Non c'è da stupirsi che il tuo nome sia Acheron!' Quando queste parole giunsero alle
orecchie del re, gli venne subito in mente l'avvertimento dell'oracolo e si fermò, dubitando se
attraversare o meno. Sotimo, uno dei suoi assistenti personali, gli chiese perché esitasse in un
momento così critico e attirò la sua attenzione sui movimenti sospetti dei profughi lucani che
evidentemente stavano contemplando il suo tradimento. Il re si voltò e li vide arrivare in gruppo
compatto; immediatamente sguainò la spada e spronò il suo cavallo in mezzo al fiume. Aveva già
raggiunto le secche dall'altra parte, quando uno dei profughi, a una certa distanza, lo trafisse con
un giavellotto. Cadde da cavallo il suo corpo senza vita, con la lancia conficcata dentro,(Livio 8, 24).
Non è necessario dare credito eccessivo alla componente fantasiosa della storia, perché al di là di
quanto potesse essere superstizioso Alessandro, è estremamente improbabile che l'Epirote non
avesse conoscenza preventiva del nome di quel fiume (né della città, Pandosia, accanto era stato
stabilito), soprattutto quando si era accampato per lungo tempo nelle sue vicinanze e doveva averlo
attraversato prima per compiere quelle incursioni che le stesse fonti ci raccontano. Da qui ci sono
due versioni principali. Livio ci racconta come il corpo del re fu orribilmente mutilato; tagliata a
metà, i suoi nemici ne mandarono una metà a Cosentia, trattenendo l'altra per schernirla. Quando gli
furono lanciati dardi e pietre, una donna venne al campo e li implorò di fermarsi, poiché sperava di
recuperare suo marito ei suoi figli, che erano prigionieri del nemico, consegnando il corpo di
Alessandro. Ciò pose fine agli oltraggi e le spoglie furono cremate a Cosentia con cura reverenziale
e le loro ossa restituite a Metaponto; e di là portò Cleopatra, moglie di Alessandro, e Olimpia, sua
sorella. Giustino, molto più basso, dice che il corpo fu recuperato da Turio, a spese del pubblico
tesoro, e sepolto. La morte di Alessandro fu una tregua per Taras, che vide come avrebbe potuto
recuperare la sua egemonia sulle altre polis della regione. Inoltre, il Molosso aveva inferto così tanti
colpi ai barbari che avrebbero impiegato del tempo per riprendersi. Tuttavia, nel 315 aC dovettero
chiedere nuovamente assistenza, questa volta a Sparta, arruolandosi in questa compagnia Acrotato,
per combattere Agatocle di Siracusa; ancora nel 303 aC, mandando Sparta a Cleonimo; e nel 281
aC, questa volta a Pirro, nipote dello stesso Alessandro I di Molossia, per affrontare un nemico
molto più temibile delle tribù barbariche dell'Italia meridionale: Roma.Cleopatra rimase regina
reggente della Molossia, poiché Neottolemo, l'erede, aveva solo 3 o 4 anni.
Nei trent'anni che seguirono, il trono di Molossia passò per varie mani, trascinato in parte dal
vortice seguito alla morte di Alessandro Magno e alla lotta tra i Diadochi, fino a quando cadde
definitivamente nelle mani di Pirro, figlio di Eciade (che era anche re) e nipote di Arabbas.
Seconda guerra Sannitica (326 a. C. – 304 a. C.)

ASSEDIO DI PALEOPOLI (326 a.C.)


Mentre Roma era intenta a rafforzare il suo dominio sul Lazio e sulla Campania e si premuniva
contro il Sannio inviando coloni nei confini di questa regione, continue guerre tenevano sconvolta
l'Italia meridionale. Una lotta accanita si era ingaggiata fra la Lucania e la Messapia da una parte e
Taranto dall'altra. ("Messapi" = antico popolo della Puglia d'origine Illirica).Taranto era una città
d'industriali e di commercianti che si governava a regime democratico. Colonia greca da oltre
quattro secoli, ma con influenze egee già millenarie, era diventata l'emporio più fiorente della
penisola; ma le guadagnate ricchezze cui erano successi agi e mollezze avevano reso apatici gli
abitanti, forse un po' troppo convinti che le invidie non abitavano su questo pianeta; e che la
prosperità sarebbe durata all'infinito.Assalita dai Messapi e dai Lucani, Taranto, priva di proprie
forti milizie, si era servita di alcuni eserciti di mercenari chiamati nella vicina penisola balcanica e
da quella Grecia con la quale i rapporti commerciali reciproci erano molto stretti. Del resto a
Taranto i Greci avevano i loro migliori empori e quindi interessati a difenderli.

Era giunto poi, chiamato dai Tarantini, ALESSANDRO re d' Epiro (lo zio dell'allora ventenne
ALESSANDRO MAGNO) il quale, più fortunato, aveva presso Pesto, disfatto i Lucani e i Sabini e
a Siponto i Messapi. Schieratosi poi contro la stessa Taranto (la situazione politica in Grecia era
completamente mutata - Filippo la dominava interamente), cui aveva tolto la città di Eraclea, e
richiesti invano gli aiuti dei Greci che erano in Italia, Alessandro si era trovato ad aver come nemici
non solo i Tarantini, ma anche i Bruzi, i Lucani, ancora i Messapi ed i Sanniti, e, trovandosi un
giorno a guadare un fiume Acheronte vicino la città di Pandosia, era stato colpito da un soldato
lucano; ferito annegò nel fiume. Erano nel frattempo passati dieci anni dal suo arrivo.
Le condizioni dell' Italia meridionale e specialmente in quegli anni con la presenza di Alessandro,
alleato di Roma, avevano tenuto a freno i Sanniti, i quali non si erano rassegnati alla perdita del loro
predominio sulla Campania ed aspettavano solo il momento della riscossa.Schiaritosi l'orizzonte nel
mezzogiorno della penisola e morto Alessandro, i Sanniti pensarono che era giunto il momento di
ergersi contro i Romani e cominciarono con il creare a Roma delle difficoltà nella Campania,
istigando Paleopoli a insorgere (alcuni storici, Paleopoli la identificano con Napoli stessa, allora
non sterminata come oggi; forse era quella parte posta più a sud; in ogni caso parlando di
Paleopolitani ci si riferisce ad entrambe le due colonie).Primo a venire in aiuto di Taranto era stato
ARCHIDAMO, re di Sparta, ma questi non aveva avuto molto fortuna, e nel 338 a.C., l'anno stesso
in cui FILIPPO II di Macedonia vinceva a Cheronea, sconfitto dai Lucani era rimasto ucciso in
battaglia.

Paleopoli era una città vicinissima alla vera Neapolis sull'omonimo golfo e l'una e l'altra erano due
colonie di Cuma, e, benché sotto un governo comune, non andavano d'accordo essendo democratica
la prima e più aristocratica la seconda (probabilmente erano due insediamenti nel grande golfo, ma
divisi dal ceto; e in mezzo da una fascia di territorio ancora disabitato). Paleopoli iniziò la lotta
contro la Campania romana facendo delle scorrerie nel territorio falerno e in quello di Capua.
Affinché questi moti iniziati a Paleopoli non si estendessero alle altre città campane, Roma fu
dell'avviso di prendere seri provvedimenti e allestì due eserciti, di cui uno, al comando del console
CORNELIO LENTULO, fu inviato a Capua per contrastare una probabile minaccia sannitica,
l'altro, capitanato dal console PUBLILIO FILONE, fu inviato contro Paleopoli, la quale, nel
frattempo aveva ricevuto l'aiuto di quattromila Sanniti e duemila Nolani.

PUBLILIO FILONE si accampò tra Neapolis e Paleopoli e iniziò le operazioni d'assedio. Questo
però non fu impresa facile e breve, e Paleopoli resisteva ancora quando scaduto il termine del
consolato (326 a.C.), allo scopo di non interrompere la continuità del comando, a Roma fu dai
comizi lasciato in carica PUBLILIO con il titolo di proconsole per tutta la durata della guerra.Il
Sannio intanto si preparava alla guerra; da una parte cercava di far sollevare Formia, Fondi e
Priverno, dall'altra mobilitava l'esercito e richiedeva aiuti agli altri popoli di stirpe sabellica, i quali
però rimasero neutrali, eccettuati i Vestini.Venuta a conoscenza di questi preparativi, Roma inviò
ambasciatori nel Sannio per chiedere spiegazioni; ma i Sanniti risposero lagnandosi del contegno
ostile della repubblica romana che aveva non molto tempo prima riedificata Fregelle, dal Sannio
tolta ai Volsci e disfatta, e non contenta vi aveva inviato una numerosa colonia con degli scopi non
proprio chiari.Inoltre i Sanniti fecero sapere che, se i Romani non avessero abbandonata Fregelle,
essi avrebbero fatto ogni sforzo per riaverla; e, poiché gli ambasciatori proponevano di mettere
"questa vertenza" al giudizio di amici comuni, i Sanniti aggiunsero con arroganza: "Nessuno deve
essere giudice delle nostre liti; e nella piano tra Capua e Suessula, dove ci incontreremo, le nostre
armi risolveranno"questa vertenza".

Inizia la guerra

Fu pertanto dichiarata guerra al Sannio.

I Lucani e gli Apuli si schierarono in favore dei Romani e l'anno successivo, nel (325 a.C.) prima
ancora che i Sanniti fossero pronti a scendere in campo, tre città della loro regione, Alife, Calife e
Rufrio invase caddero in mano dei Romani.Quel medesimo anno anche Paleopoli cadde in potere
dell'esercito romano. Stanchi del lungo assedio e non volendo sopportare oltre la prepotenza dei
Nolani e dei Sanniti loro alleati, gli abitanti di Paleopoli decisero di consegnar la città al nemico.
Due dei principali cittadini, CARILAO e NINFIO, furono gli autori del tradimento. Il primo,
recatosi dal proconsole romano, promettendo la conquista della città gli fu affidato un contingente
di tremila fanti; il secondo, riuscito a persuadere LUCIO QUINZIO, capo dei Sanniti, di voler fare
un'incursione verso Roma, si allontanò di notte dalla città con la maggior parte della guarnigione,
lasciando così la città con poche difese.

In questo modo Carilao riuscì a penetrare con i Romani dentro le mura e offrire la città occupata al
proconsole Filone. Ottenuti questi successi nel Sannio e a Neapolis, ed essendo gli amici Lucani
passati ai Sanniti, Roma decise di intensificare la guerra e, affinché i Vestini non potessero
congiungersi con i Sanniti, diresse all'inizio del 324 a.C., contro quelli, il console GIUNIO
BRUTO e contro questi, il console LUCIO FURIO CAMILLO.

Bruto invase il territorio dei Vestini saccheggiandolo e, sbaragliato il nemico, lo costrinse a


rifugiarsi dentro le loro città murate, delle quali due furono in poco tempo costrette alla resa: Cutica,
Cingilia.L'altro esercito, essendosi ammalato Camillo, passò sotto il comando del dittatore LUCIO
PAPIRIO CURSORE, valentissimo capitano, che scelse come maestro della cavalleria QUINTO
FABIO RUTILIANO.Trovandosi quest'esercito nel Sannio, il Dittatore dovette recarsi a Roma per
ricevere gli auspici e, partendo, ordinò a Fabio di non scendere a battaglia con il nemico durante la
sua assenza.
Battaglia di Inbrinium (324 a. C.)

FABIO però, appreso che i Sanniti non si adoperavano molto a fare buona guardia, non seppe
resistere al desiderio di sorprendere e vincere i nemici, e, dimenticati gli ordini ricevuti, li assalì ad
Imbrinio e li sconfisse in una battaglia cruentissima. Secondo gli storici, circa ventimila Sanniti
caddero in quella loro drammatica giornata.

Anziché ricevere il premio della vittoria, Fabio scampò a stento, grazie all'aiuto dei soldati, all'ira di
Papirio, che voleva punirlo esemplarmente per aver trasgredito l'ordine, e lui si rifugiò a Roma,
dove le preghiere del Senato e del vecchio padre di Fabio riuscirono a chiedere il perdono per il
vincitore d'Imbrinio.PAPIRIO CURSORE, ritornato al campo, riprese le operazioni nel corso
contro i Sanniti; ma i suoi soldati non erano più quelli di prima; la sua intransigenza in fatto di
disciplina aveva da lui alienato le simpatie delle truppe e queste avrebbero con il loro contegno
compromesse le sorti della guerra se Papirio Cursore non avesse, con molta abilità, riacquistato la
loro amicizia e allontanato il rancore. Le legioni romane tornarono a battersi volentieri e, in una
battaglia campale, inflissero al nemico una terribile disfatta; poi corsero in lungo e in largo il Sannio
saccheggiandolo per ottenere il più possibile bottino di guerra.Battuti, stanchi, invasi dalle scorrerie,
e privi d'aiuti, i Sanniti chiesero la pace, ma avrebbero dovuto totalmente assoggettarsi, perché i
romani l'avrebbero concessa ma senza alcuna condizione; così ottennero dai Romani solo la tregua
per un anno e furono messi sotto osservazione.

La tregua non fu rispettatadai Sanniti. Non era ancora finito l'anno di tregua, quando nel corso
dell'anno (322 a.C.) sotto il consolato di QUINTO FABIO E LUCIO FULVIO, fu riportato a Roma
che il Sannio riprendeva le armi e alcune milizie dei vicini popoli erano state assoldate per
organizzare un grande esercito. Fu creato allora il dittatore AULO CORNELIO COSSO e maestro
della cavalleria MARCO FABIO AMBUSTO e fu allestito un fortissimo esercito.Le legioni
romane, entrate nel Sannio, poiché il paese sembrava tranquillo, si accamparono in una zona non
molto felice, e inoltre trascurando di costruirsi consistenti opere di difesa. Nel tardo pomeriggio,
poco distante, comparve improvvisamente un numeroso esercito sannitico.Fortunatamente per
l'approssimarsi della sera, il nemico non molestò i Romani; ma senza dubbio il giorno dopo la
battaglia non sarebbe mancata e, siccome il dittatore pensava che lo svantaggio del luogo avrebbe
potuto influire sul valore dei propri soldati, ritenne opportuno approfittare delle tenebre per
allontanarsi con tutto l'esercito e condurlo in una posizione migliore.

Calata la notte, CORNELIO per ingannare il nemico, fece accendere numerosi fuochi, ma intanto
levava il campo, e un reparto dopo l'altro senza far rumore lo mise in marcia verso la nuova
postazione. Si accorse però della mossa del dittatore un reparto della cavalleria nemica, che subito
si mise sulle tracce dell'esercito in ritirata; ma non lo molestò per tutta la durata della notte, ma alla
prime luci dell'alba, cominciò a dare noia alla retroguardia, cercando di ritardare la marcia dei
Romani e così dare tempo alla fanteria sannitica di intervenire. Giunta questa e facendosi più
minacciosi i nemici e più difficile la ritirata CORNELIO a quel punto decise di fermarsi, per potersi
meglio organizzare a fronteggiare i Sanniti, e fornì le istruzioni di come schierarsi nell'imminente
battaglia.Il combattimento non tardò ad essere ingaggiato. Imbaldanziti per la ritirata delle schiere
romane che i Sanniti credevano una fuga, si battevano furiosamente sperando di sconfiggere questa
volta le odiate milizie di Roma. Queste, dal canto loro, non combattevano con minore accanimento,
desiderose com'erano di salvar la vita e l'onore delle armi.Gli opposti eserciti essendo di pari forza e
animati dallo stesso desiderio di far soccombere l'avversario, la battaglia durò quasi fino a sera; e
forse la giornata sarebbe finita senza un vincitore, se l'impazienza delle turbe sannitiche non
riuscirono a resistere nell'attaccare - prima che piombasse la notte- i carriaggi romani che si
trovavano poco distanti dal campo e senza guardia. Avevano il timore che durante la notte i Romani
togliessero il campo con una ritirata -come nella precedente- senza poterlo depredare. Ci si avventò
la cavalleria; ma anche la fanteria temendo anch'essa di restare senza bottino era sul punto di
sfasciarsi. Il dittatore lasciò fare e quando fu ben sicuro che i cavalieri nemici erano intenti al
saccheggio, mandò proprio là la propria cavalleria guidata da MARCO FABIO, la quale in un
lampo piombò addosso ai predatori appiedati trasformando il campo dei cariaggi in un
macello.MARCO FABIO non si accontentò di distruggere la cavalleria avversaria.

Fatta la strage, con mossa repentina compiendo un lungo giro, con tutte le forze a disposizione e
con lo stesso impeto attaccò l'esercito nemico alle spalle informando subito il dittatore quali erano
le sue intenzioni.La battaglia, che poco prima languiva, riarse furiosa; la fanteria romana, rianimata
dalle grida dei cavalieri che spingevano alle spalle i Sanniti verso di loro, assalì con furore le prime
schiere nemiche, poi cadendo queste, quelle successive, le quali, prese di fronte e alle spalle, non
potendo andare né contro la morte, né da questa farsi inseguire, sparpagliandosi ognuno cercò di
sgusciare ai lati cercando poi la salvezza nella fuga.Ma non molti furono quelli che scamparono: la
maggior parte ormai intrappolata cadde sul campo; inutile fu l'eroica resistenza; se alcuni
scampavano da quelli che avevano davanti, la cavalleria che sopraggiungeva da dietro li faceva a
pezzi.Scendeva la sera quando la battaglia cessò. Fu così grande il numero dei morti, dei feriti e dei
prigionieri Sanniti che tutto il Sannio insorse contro i capi, che avevano innanzitutto rotto la tregua,
che erano i responsabili della guerra perché incapaci di farla, e quindi gli "irresponsabili" di quella
disfatta e di quell'ecatombe di soldati portati al macello. Non potendo sopportare il peso di questa
vergogna e le accuse della pubblica opinione, il capo sannita BRUTOLO PAPIO si uccise e il suo
corpo dagli stessi cittadini Sanniti fu consegnato ai Romani. Un gesto che voleva dire: costui è il
responsabile, noi desideriamo la concordia e la pace.Ma la pace come l'anno precedente fu
superbamente rifiutata da Roma.

FORCHE CAUDINE (321 a. C.)

Se i Romani si fossero mostrati, anche l'anno prima, meno esigenti e non avessero pretesa dai
Sanniti una resa senza condizioni che equivaleva alla completa perdita dell'indipendenza, forse
avrebbero avuto con il Sannio già da allora una pace duratura. Ma non pensavano i Romani ad una
pace, né allora né ora dopo questa seconda disfatta; sapevano anzi che una lunga pace avrebbe
giovato più al Sannio che a Roma; non volevano vivere in buoni rapporti con i loro vicini, ma solo
soggiogarli.Di questo n'erano coscienti anche i Sanniti. Amareggiati più che dalla disfatta patita, dai
propositi di Roma, i Sanniti ritrovarono l'innata fierezza e stabilirono di difendere fino all'ultimo
l'indipendenza della loro nazione; gli stessi che avevano consegnato ai Romani il corpo di Brutolo
Papio ed avevano insistito per la pace furono i primi a bruciare di sdegno per la pace superbamente
rifiutata dal nemico e a sollevare il paese incitandolo ad una nuova guerra.Fu proclamato capo
supremo delle forze sannitiche GIOVIO PONZIO TELESINO, famoso guerriero ed accorto
capitano, figlio di Erennio venerato da tutti per il suo valore ma anche per la sua prudenza.
Di PONZIO si narra che, vedendo tornare gli ambasciatori senza avere ottenuto la pace, esclamasse:
"La guerra, o Sanniti, è giusta per coloro ai quali è necessaria; le armi sono pie e religiose solo a
coloro cui non rimane speranza di salvezza altrove che nelle armi".E le armi furono prese e tutta la
gioventù sannita accorse sotto le bandiere.Roma ovviamente non perse tempo e, armato un
poderoso esercito, lo inviò sotto il comando dei consoli TITO VETURIO CALVINO e SPURIO
ALBINO POSTUMIO a Calazia in Campania per sorvegliare le mosse degli avversari.
Qui ai consoli giunse la notizia che Luceria, nell'Apulia, amica ed alleata, era assediata dai Sanniti e
correva pericolo di cadere nelle loro mani. La notizia era stata divulgata ad arte da GIOVIO
PONZIO, il quale sperava di attirare con questo stratagemma i Romani nella trappola che lui aveva
concepito. E vi riuscì pienamente. I consoli furono dell'avviso che Luceria non la si doveva
abbandonare al nemico ma bisognava immediatamente soccorrerla.Quindi, levati in fretta gli
alloggiamenti, si misero in marcia verso la fortezza assediata. Due strade portavano a questa città,
una sicura ma piuttosto lunga, l'altra molto più breve ma attraverso il Sannio. Quest'ultima però,
prima di sboccare a Caudio, passava, presso i villaggi di Arpaia e Montesarchio, per una valle
acquitrinosa, stretta e dominata da rocce scoscese, aperta solo alle due estremità da due gole
strettissime.I consoli scelsero questa strada, allo scopo di giungere a tempo utile a Luceria, e
imprudentemente condussero dentro l'insidiosa valle l'intero esercito; all'entrata superata la prima
gola, percorsero interamente la valle, ma quando giunsero all'uscita e videro la stretta gola ostruita
da enormi tronchi d'alberi e da grossi macigni si accorsero troppo tardi di essere caduti in una
trappola infernale.I monti circostanti brulicavano di nemici. Si ripeteva la critica situazione in cui
anni prima, combattendo contro gli stessi nemici, si erano trovate le truppe romane a Saticola. Ma
questa volta non c'era un Decio Mure che salvasse i soldati dal tranello in cui erano cascati.Per
ordine dei consoli l'esercito rifece il cammino della valle in senso inverso, sperando di poter uscire
dall'altra gola per la quale era entrato; ma questa era fortemente custodita dal nemico, che sbarrava
il passo più minaccioso dei tronchi e dei massi perché questo aveva le armi in mano.
Non c'era altra via di scampo che quella di aprirsi un varco a viva forza attraverso le schiere
sannitiche. E questo fu fatto con una decisa volontà di riuscirci. Le legioni romane si lanciarono
disperatamente addosso al nemico che sbarrava la gola, ma la strettezza del passo rendeva
impossibile ogni manovra e la posizione dei nemici che dominavano tutte le posizioni migliori
rendeva vano ogni sforzo. Abbandonata l'idea di aprirsi la via con le armi, le legioni cominciarono a
fortificare la valle in cui si trovavano scavando fossati e costruendo steccati: questi lavori erano del
tutto inutili, perché il nemico non aveva nessuna intenzione di assalirli, volevano costringerli
all'umiliante resa senza colpo ferire. Da quella poi cosiddetta "forca", non c'era per i romani
scampo, i nemici anche senza agire, sarebbero periti tutti per fame.Tuttavia i Sanniti, stupiti di avere
ottenuto a così buon mercato quel clamoroso successo, non sapevano quale decisione prendere.

Lo stesso GIOVIO PONZIO, che aveva concepito quella trappola infernale, indeciso sul partito da
seguire, mandò a chiedere consiglio a suo padre ERENNIO; il vecchio giunse al campo e consigliò
al figlio che per la sorte dei Romani c'erano solo due soluzioni: o ucciderli tutti o lasciarli tutti
liberi. Nel primo caso la pace sarebbe stata assicurata per parecchi anni pur con l'odio degli umiliati
Romani; nel secondo per gratitudine si sarebbe ottenuta una perpetua amicizia con un popolo
potentissimo.A PONZIO non piacquero i consigli del padre e quando giunsero a lui i trafelati
ambasciatori romani a proporgli una pace ragionevole o, se questa non era accettata, battaglia in
campo aperto, lui rispose che considerava la guerra finita e dettò le seguenti singolari condizioni di
pace: consegna delle armi e dei bagagli; il passaggio di ogni uomo delle legioni sotto il giogo
predisposto, indossando ciascun soldato un'umile veste simile a quella degli schiavi; sgombero da
parte dei Romani dei territori sanniti occupati e di tutte le colonie. Gli ambasciatori tornarono alla
base e quando riferirono le condizioni di pace, una grande commozione e indignazione invase gli
animi; si videro le guance di molti legionari solcate da lagrime e dalle bocche dalle quali erano tante
volto uscite grida di trionfo uscirono singhiozzi e lamenti. Moltissimi urlarono che fossero rifiutati i
patti, che si corresse alle armi e si cercasse ancora di salvar la vita e l'onore combattendo, che era
meglio morire tutti piuttosto di accettare condizioni che disonoravano il nome di Roma in perpetuo.

Ma LUCIO LENTULO, capo dell'ambasceria, disse: "Ma che utile recheremo alla patria nostra
con il nostro sacrificio? In noi c'è tutta la speranza, la riverenza e la potenza nostra. Se noi
salviamo tutto questo salviamo e conserviamo la patria; se perdiamo questo esercito e lo lasciamo
fare a pezzi noi tradiamo e roviniamo la patria nostra. Cosa sozza e vile è il darsi al nemico, ma la
carità verso la patria deve essere tale da indurre a salvarla, quando sia necessario tanto con la
morte quanto con la vergogna. Si sopporti dunque quest'onta, pur essendo così grande, e si
ubbidisca alla necessità, che neanche gli dèi possono superare. Andate, o consoli, e ricomperate
con il ferro quella città che i nostri padri dai Galli ricomperarono con l'oro".

I consoli andarono e firmarono la vergognosa pace (il cosiddetto "trattato caudino") e si


obbligarono di osservarla oltre i consoli, i prefetti, i legati, i questori ed i tribuni dei soldati.
Giunto il momento di eseguire i patti della resa, furono consegnati in ostaggio seicento cavalieri, i
quali, sotto buona scorta furono poi condotti dai Sanniti a Luceria; i soldati senza le armi uscirono
dagli alloggiamenti; furono tolti i fasci littori, i gradi e gli ormanenti ai consoli, indi, in testa i
comandanti supremi dell'esercito seguiti dagli ufficiali e dietro i soldati; tutti mezzo nudi e con gli
occhi bassi per la vergogna, furono fatti passare due a due sotto il giogo, al cospetto dei nemici che
li schernivano e li insultavano minacciandoli. I pochi che osarono alzare lo sguardo verso i Sanniti
furono da questi feriti, alcuni mortalmente.Quando la vergognosa cerimonia ebbe termine, i vinti
furono lasciati liberi e presero la via del ritorno. A Capua furono accolti amichevolmente con tanta
pietà e furono accompagnati fino alle frontiere da molti giovani nobili della città.

IL SENATO RIFIUTA DI RATIFICARE LA PACE CAUDINA

A Roma quando giunse la notizia, della pace ottenuta a quelle condizioni e con quella messa in
scena umiliante, l'indignazione fu impressionante; la città piombò nel lutto. Ritornati da Capua, i
consoli si dimisero dalla carica e prima fu creato dittatore QUINTO FABIO AMBUSTO, poi
MARCO EMILIO PAPO, ma entrambi non riuscirono ad assicurare un regolare svolgimento dei
comizi; seguirono due interregni, il secondo, di VALERIO CORVO procedette poi alla nomina
d'ufficio e la creazione dei nuovi consoli per l'anno successivo, il 320 a.C.Riuscirono eletti
QUINTO PUBLILIO FILONE e LUCIO PAPIRIO CURSORE. Questi, il giorno stesso in cui
entrarono in carica, riunirono il Senato e sottoposero all'approvazione il "trattato caudino".
Prima che il Senato si pronunciasse si levò a parlare SPURIO POSTUMIO, il vinto console reduce
della disfatta, il quale, accusandosi colpevole di quella pace, affermò che non doveva essere
ratificata perché stipulata senza il consenso del popolo romano e propose anzi che fosse mandato
insieme con il suo collega a Caudio per essere consegnato ai Sanniti.Accettò il Senato la proposta di
Postumio e ne ammirò lo spirito di sacrificio. Roma respirò liberamente vedendo la possibilità di
lavar l'onta inflitta al suo esercito e, dimenticando l'ignominia di cui si era ricoperto Postumio,
accettando le condizioni della resa, ora rivolse allo stesso la sua infinita ammirazione per ciò che
aveva detto e proposto.Fu tanto l'entusiasmo dei cittadini che un grandissimo numero corse
volontariamente ad arruolarsi e fu presto formato un poderoso esercito questa volta solo di
accompagnatori, che subito si mise in marcia verso Caudio.Giunti alle porte della città nemica, -
secondo quanto narra LIVIO, i due consoli furono spogliati e legati e siccome il littore, per rispetto,
non aveva stretto con forza le funi intorno a Postumio, è fama che questi gli dicesse: "Perché non
stringi fortemente i legami affinché la consegna sia piena e giusta?".Condotti i due consoli al
cospetto di GIOVIO PONZIO TELESINO, questi non volle accettarli, dicendo che non loro due ma
la repubblica romana, in nome della quale i Sanniti avevano stipulato i patti, doveva mantenere fede
a questi, e aggiungendo che se Roma non voleva ratificare la pace allora dovevano essere
riconsegnati non i soli i due consoli ma tutto l'esercito, chiuso nella valle di Caudio che lui aveva
fatto tornare libero a Roma. E liberi lasciò andare i due consoli rimandandoli indietro; erano i primi
mesi dell'anno 320 a.C.

LA LIBERAZIONE DI LUCERIA (320 a. C.)

Pochi mesi dopo il rifiuto del Senato di ratificare la "Pace Caudina", ricominciò la guerra.
Nel frattempo Satrico si era arresa ai Sanniti e anche Luceria e Ferentino erano cadute in potere del
nemico. La colonia di Fregelle, assalita di notte, si difese accanitamente, ma alla fine pure questa si
arrese ai Sanniti che massacrarono buona parte gli abitanti della colonia.Ovviamente pure Roma
riprese la guerra e i due consoli romani decisero di cominciare le operazioni liberando Luceria in
cui si trovavano chiusi i seicento cavalieri presi dai Sanniti come ostaggi alla stipula della pace.
Con le numerose legioni arruolate furono formati due eserciti; uno, sotto il comando di PAPIRIO
CURSORE, attraverso la regione sabina e lungo la costa adriatica, marciò verso Luceria; l'altro,
comandato dal collega QUINTO PUBLILIO, puntò verso la medesima mèta per la via del Sannio.
Questo secondo esercito, incontrato il nemico, lo attaccò selvaggiamente con tutto l'odio che i
soldati e gli ufficiali avevano in corpo, lo sbaragliò e lo mise in fuga, poi, occupati i loro
alloggiamenti dopo averli distrutti con altrettanta rabbia, continuò la marcia verso Luceria, dove si
congiunse con l'esercito comandato dal suo collega Papirio Cursore e misero sotto assedio la città
da un lato.Nei primi giorni questo assedio di Luceria non diede che scarsi risultati, poiché dal
Sannio e dall'Apulia la città era rifornita. Perciò fu stabilito di togliere le comunicazioni che
univano Luceria con i paesi da cui provenivano i rifornimenti. A tale scopo Papirio rimase attorno
alla città mentre Publilio Filone con le sue truppe si portò nel territorio circostante allo scopo
d'impedire che agli assediati giungessero viveri.

L'effetto non tardò a farsi sentire. Altri Sanniti che si erano raccolti poco lontano intorno a Luceria,
vedendo che non potevano più portare soccorso agli assediati, decisero di rompere l'assedio con la
viva forza.Ma la vittoria non arrise i Sanniti. Avidi di vendetta i Romani assaltarono con impeto
irresistibile i Sanniti nell'aperta campagna e li sbaragliarono; essendosi questi rifugiati nel campo
trincerato, anche qui li assalirono e, penetrati dentro le difese, uccidevano chiunque incontrassero,
armato o disarmato, e nessuno dei nemici sarebbe rimasto vivo se Papirio non avesse fatto suonare a
raccolta e fatta cessare la strage temendo per la vita degli ostaggi che erano rinchiusi nella stessa
Luceria.Dopo questa vittoria, il console Publilio cominciò a scorrere 1'Apulia, sottomettendo con la
forza non poche città, e alcune ingraziandosele amicandosele. Papirio rimase invece ad assediare
Luceria, la quale, sconfortata dalla disfatta recente dei Sanniti e priva di mezzi di sussistenza, non
tardò a capitolare. Con i vinti i Romani usarono la legge del taglione, GIOVIO PONZIO con i suoi
settemila soldati fatti prigionieri furono fatti passare sotto il giogo. L'onta delle Forche Caudine era
lavata. Immenso fu il bottino fatto nella città conquistata, dove dopo aver liberati i seicento cavalieri
fu messa come guarnigione mezza legione di soldati romani.

DISTRUZIONE DI SATRICO E TREGUA COL SANNIO

L'anno seguente (319 a.C.) PAPIRIO CURSORE fu rieletto console ed ebbe come collega
QUINTO AULIO. Questi si mosse con un esercito contro i Ferentani, li ruppe in battaglia e
costrinse la città ad arrendersi consegnando ostaggi. Mentre Papirio con un altro esercito marciò su
Satrico, la quale, benché godesse della cittadinanza romana, dopo la disfatta di Caudio si era
ribellata a Roma ed aveva accolto dentro le sue mura una guarnigione sannitica.
All'avvicinarsi dell'esercito romano, Satrico inviò al console un'ambasceria chiedendo la pace, ma
Papirio rispose che l'avrebbe concessa solo se uccidevano o consegnavano nelle sue mani il presidio
dei Sanniti. Avendo gli ambasciatori obbiettato che non era possibile ai cittadini catturare o
uccidere una forte e numerosa guarnigione, è fama che il console rispose: "Andate a chiedere come
lo si può fare a coloro che hanno consigliato di ricevere nella città quel presidio".

Atterrito più da questa risposta che dalla presenza delle legioni romane il Senato di Satrico si riunì
per deliberare; dovendo durante la notte il presidio dei Sanniti eseguire una scorreria fuori Satrico,
propose a quei Senatori che avevano caldeggiato la ribellione, di avvisare i Romani per riscattarsi.
Nella notte le schiere sannitiche uscite dalla città caddero in un agguato loro teso dai Romani e
furono fatte a pezzi; nello stesso momento il grosso dell'esercito, penetrando dentro Satrico, se ne
impadroniva. Vogliono alcuni che Papirio Cursore, condannati alla fustigazione e alla decapitazione
i cittadini colpevoli di ribellione e sottratte le armi a tutti gli abitanti mise poi a Satrico una
fortissima guardia; mentre altri narrano che la città fu rasa al suolo e gli abitanti deportati.
Le vittorie dai Romani riportate e le severe punizioni inflitte produssero grande impressione presso i
popoli vicini, specie negli Apuli che chiesero ed ottennero pace riconoscendo la signoria di Roma
su quasi tutta la regione. Le città invece che tentarono di resistere furono costrette alla resa a viva
forza e fra queste Nerulo in Lucania e Ferento.Quanto al Sannio, la stanchezza, le vittorie romane e
le sottomissioni di tante città, lo consigliarono a domandare ancora una volta la pace. Non ottenne
però, come le due volte precedenti, che una tregua di due anni, dalla quale erano esclusi i suoi
alleati, che Roma uno per volta si proponeva di combattere e sottomettere allo scopo d'isolare i
Sanniti e poterli poi facilmente soggiogare.

RIPRESA DELLA GUERRA SANNITICA

I Sanniti, non domi da tante sconfitte e da tante umiliazioni, anche se le avevano date, seguitano a
sognare la riscossa. I due anni di tregua sono da utilmente impiegati per preparare una nuova guerra
e a spingere con delle trame la Campania alla rivolta. Le discordie tra l'aristocrazia e la democrazia
campana offrono ai Sanniti l'occasione per fare il loro buon giuoco.

Terminati i due anni di tregua, scoppia, la rivolta a Saticula; creato dittatore LUCIO EMILIO,
questi marcia con l'esercito sulla città ribelle e pone il campo nelle sue vicinanze. Le operazioni
d'assedio sono appena cominciate quando un forte esercito di Sanniti avanza; le legioni romane si
trovano tra due nemici e ben presto Lucio si accorge che Saticula e il Sannio hanno preparato da
lungo tempo il piano d'azione. Infatti, al giungere dell'esercito sannitico, gli assediati fanno una
vigorosa sortita e contemporaneamente le truppe del Sannio attaccano.L'esercito dittatoriale si trova
in una posizione difficile, ma Lucio Emilio non è uomo da lasciarsi facilmente sopraffare. Presa
posizione fulmineamente in una favorevole località fa fronte a tutte e due gli avversari, ma rivolge
lo sforzo maggioro contro quelli della città e con vigorosi contrattacchi li costringe a ritornare con
non poche perdite dentro le mura; sferrato l'attacco con tutti i soldati a disposizione contro i Sanniti,
li attacca violentemente, li preme, li incalza e, infine, ciò che ottiene è quello di permettere ai
nemici di rientrare nel loro accampamento.L'azione combinata è dunque fallita, ma migliore sorte
non hanno i Sanniti. Sopraggiunta la notte e spenti i fuochi, i Sanniti, disperando di poter difendere
Saticula ed infliggere uno scacco ai Romani, si allontanano alla chetichella e vanno a cinger
d'assedio Plistia, città amica di Roma.La guerra riprese maggior vigore sotto la direzione del nuovo
dittatore QUINTO FABIO, che, condotto a Saticula nuove forze, intensificò le operazioni d'assedio.
Anchei sanniti nel frattempo avevano ricevuto rinforzi e da Plistia erano tornati verso Saticula.
Presso il campo romano si combatté una ferocissima battaglia tra la cavalleria nemica e quella di
Roma comandata da QUINTO EMILIO. I Sanniti furono dopo una gran mischia respinti, ma
rimasero sul campo il capo dei cavalieri nemici ucciso da Quinto Emilio e lui stesso ammazzato dal
fratello di quello.Dopo questo sanguinoso fatto d'arme i Sanniti ritornarono a Plistia, l'assalirono e
la , l'espugnarono pure. Poco tempo dopo Saticula si arrendeva ai Romani.

INSURREZIONE DI SORA E BATTAGLIA DI LAUTULE (315 a. C.)

Il tenace ed occulto lavorio dei Sanniti durante gli anni di tregua cominciava a dare i suoi frutti e la
guerra si spostava da sud a nord.Ecco giungere al dittatore la notizia che Sora, sull'alto Liri, uccisi
gli abitanti romani, si è ribellata dandosi ai Sanniti. QUINTO FABIO non indugia nemmeno un
attimo e da Saticula marcia su Sora. Lungo la via è informato che un esercito sannitico si trova a
Lautule e verso questa località si dirige il dittatore per affrontarlo. Ma pare che la sorte della
battaglia non fu benigna ai Romani. LIVIO invece racconta che la notte divise i combattenti e che,
essendo rimasto ucciso il maestro della cavalleria, ne fu inviato un altro da Roma e precisamente
CAJO FABIO, che si portò dietro un altro grosso contingente di soldati. Il dittatore, che stava
chiuso nel campo, quando seppe dell'arrivo dei soccorsi, uscì dagli alloggiamenti ed assalì il
nemico, il quale combattuto dal vecchio e dal nuovo esercito romano, dopo una forte resistenza fu
sbaragliato e gran parte di fu fatto a pezzi.Così TITO LIVIO narra la battaglia di Lautule. "È da
credersi - per testimonianza di altri storici e per gli avvenimenti che seguirono - che i Romani
subissero uno scacco. Difatti il dittatore fu sostituito dai nuovi consoli MARCO PETILIO e CAJO
SULPICIO che a verso sera condusse sul posto altre truppe.La città fu presa con 1'inganno e grazie
al tradimento di uno dei suoi abitanti, il quale, fatto allontanare di alcune miglia l'esercito consolare
per far credere ai suoi concittadini che l'assedio fosse stato levato e messi alcuni drappelli presso
una porta in agguato, durante la notte introdusse dieci soldati romani nella rocca, poi diede
l'allarme. I cittadini, svegliati improvvisamente e saputo che la rocca era caduta in potere del
nemico, si diede inerme e precipitosamente alla fuga, mentre i drappelli appostati penetravano in
città compiendo una grande strage. All'alba il grosso dell'esercito Romano avanzava contro Sora e
l'occupava definitivamente, stabilendovi un forte presidio (314 a.C.).Duecentoventicinque uomini
che risultarono autori della insurrezione furono arrestati e condotti a Roma, e nel Foro, dopo di
essere stati fustigati, furono decapitati".

INSURREZIONE DI AUSONIA, MINTURNA, VESTINA, LUCERIA E CAPUA (314 a. C.)

Che a Lautule la sorte non fosse favorevole ai Romani lo dimostra 1'insurrezione di varie città nei
dintorni. Ausonia, Minturna e Vestina ribellatesi, avevano fornito aiuto ai Sanniti; Luceria, essendo
stata tradita la guarnigione romana, si era data ai Sanniti e a Capua parecchi notabili avevano pure
loro ordito delle (traditrici) congiure.Levati gli eserciti da Sora, i consoli marciarono sopra Ausonia,
Minturna e Vestina. Alcuni soldati camuffati con delle toghe, ma che nascondevano sotto quelle
delle armi, riuscirono a penetrare nelle suddette città e, massacrate le guardie delle porte, aprirono il
passo ai Romani, che, nello stesso giorno, si resero padroni di tre città facendovi strage degli
abitanti.Nel 313 a. C. anche Luceria fu espugnata e passati per le armi tutti i Sanniti che vi si
trovavano e un gran numero di abitanti. A Capua invece fu mandato, allo scopo di esaminare la
situazione e scoprire le file della congiura, il dittatore CAJO MENIO. La guerra contro il Sannio
però non era ancora terminata; tuttavia il piano dei Sanniti di trasportarla fuori della loro regione era
fallito con la presa di Sora e, con la rivolta della Campania domata, le operazioni di guerra si erano
ridotte nello stesso Sannio.Pur non abbandonando la guerra, Roma trae profitto dal sopravvento che
è riuscita ad ottenere sul nemico e prepara altre basi di operazioni per mezzo di colonie. Nel 314 a.
C. ne manda una di 2.500 uomini a Luceria; due anni dopo una di 4.000 ad Interamnae (Terni); altre
colonie stabilisce a Suessa Aurunca, all' isola di Ponza e a Saticola. Sono le sue sentinelle avanzate
nel cuore dei territori conquistati, sono il suggello delle sue conquiste e della sua potenza, sono
nuclei di romanità in mezzo a popoli ancora d' incerta fede, sono infine fortezze che tuteleranno i
nuovi domini e punti di appoggio alle legioni per le future immancabili conquiste.

Prima che il loro consolato finisse, CAJO SULPICIO e MARCO PETILIO riportarono sui Sanniti
una grande vittoria. Dall'Apulia il nemico, alle notizie delle congiure di Capua, si era concentrato a
Caudio poi, sceso verso la pianura campana, aveva incontrato l'esercito consolare, con il quale,
dopo alcuni giorni impiegati in logoranti scaramucce, era entrato in battaglia. Il combattimento oltre
che aspro fu anche lungo, e alla fine lo scontro terminò con la disfatta dei Sanniti. Secondo LIVIO,
tra morti e prigionieri, perdettero circa trentamila uomini. I Sanniti non avevano più un esercito.
Questa vittoria apriva ai Romani la via del Sannio e la guerra si trasferiva nel cuore della regione
nemica, intorno a Boviano, capitale dei Sanniti Pentri, i quali cercarono di allontanare l'esercito
consolare dal loro territorio assaltando ed espugnando Fregelle.La riconquistò poco tempo dopo,
senza colpo ferire per la fuga dei Sanniti, il dittatore CAJO PETILIO, che, lasciatovi un buon
contingente di milizie si trasferì in Campania dove riprese Nola al nemico. Più tardi anche Atina e
Calazia caddero in potere dei Romani.Mentre la guerra sannitica, dopo questi avvenimenti, languiva
e i Romani mandavano colonie nel sud e costruivano strade per rendere più facili le comunicazioni
con la Campania (312 a.C.) il console Appio Claudio fece lastricare la famosa via che porta il suo
nome, notizie minacciose giungevano dal nord.Era terminata la tregua di quarant'anni concessa nel
(351 a.C.) agli Etruschi. Questo popolo ora, forse credendo indebolita Roma dalle guerre, forse
credendo, che era giunto il momento di riprendere ai Romani i territori perduti, sperando di ribellare
con il suo intervento la Campania e di indebolire con il concorso delle sue armi la potenza di Roma,
torna nuovamente a brandirle. Solo gli Aretini rimangono spettatori.Erano consoli CAJO GIUNIO
BUBULCO e QUINTO EMILIO BARBULA. Il primo con un esercito passò nel Sannio, dove i
Romani, assediati a Cluviano, si erano arresi per fame, e, appena giunto, assalì la città, la costrinse
alla resa, e passò per le armi tutti gli uomini dai quattordici anni in su, poi, attirato in un agguato
riuscì abilmente a disimpegnarsi e infliggere al nemico numerose perdite che LIVIO fa giungere
alla cifra di ventimila uomini.Quinto Emilio Barbula fu invece inviato contro gli Etruschi, i quali
con un potente esercito si erano presentati davanti a Sutri. Qui si combatté una grande battaglia con
la quale fu inaugurata la guerra romano-etrusca. Superanti di numero erano gli Etruschi, ma più
agguerriti e superiori nell'arte militare i Romani. Fu la consumata perizia di questi ultimi che trionfò
sul numero.Gli Etruschi lanciarono nella mischia fin dall'inizio tutte le loro forze, i Romani invece
lasciarono da parte per il momento decisivo alcune schiere e con altre sostennero l'urto nemico.

La battaglia, cominciata dopo il mezzodì, si protrasse con esito incerto e sanguinosa fino al tardo
pomeriggio; i combattenti erano affaticati e stanchi quando il console ordinò alla riserva di entrare
in azione.

Queste truppe fresche decisero le sorti della giornata e pochissimi nemici sarebbero scampati alla
strage se la sera non fosse sopravvenuta ad interrompere la battaglia.Questo fu l'unico
combattimento dell'anno. Entrambi i due eserciti rimasero nei loro campi ad attendere rinforzi che
compensassero le perdite rilevanti che avevano subite. Altre truppe calarono dall' Etruria e giunse a
Sutri da Roma con un altro esercito il nuovo console QUINTO FABIO.Mentre questi marciava
lungo le falde dei monti in soccorso della città, gli si fece incontro un numeroso esercito nemico. Il
console, non credendo prudente affrontarlo al piano, si rifugiò sulla costa, nelle alture. Fidando
nella loro superiorità numerica gli Etruschi, gettati per terra giavellotti e frecce e snudate le spade, si
slanciarono verso il nemico con grande impeto. Ma questo assalto non fu di lunga durata. I Romani,
dall'alto, cominciarono a tempestare gli assalitori con un abbondante e ininterrotto lancio di dardi e
di sassi che fermò prima la fuga dei nemici, poi scompigliò le prime linee. A quel punto Fabio
ordinò ai suoi di contrattaccare e i Romani scesero impetuosamente dalle alture addosso agli
Etruschi, i quali, non riuscirono a sostenere l'urto e, voltate le spalle si diedero alla fuga verso gli
alloggiamenti, che non riuscirono a raggiungerli; la cavalleria romana, lanciata all'inseguimento,
tagliò a loro la via della ritirata e gli Etruschi sbandati, alcuni cercarono scampo su per i monti e la
maggior parte dentro la foresta "selva Ciminia"Molte migliaia di nemici rimasero uccise sul campo,
trentotto bandiere, gli alloggiamenti ed un enorme bottino caddero in potere dei Romani.
Desideroso di sfruttare la vittoria, QUINTO FABIO decise d'inseguire il nemico e fu una grande
impresa la sua, perché la selva Ciminia era fitta, impenetrabile, paurosa, e temuta per le terribili
leggende che correvano sul suo conto; ma anche perché poteva prestarsi ad una sorpresa ancora più
drammatica di quella che la valle di Caudio aveva riservato alle legioni romane.

Tuttavia l'impresa fu tentata. Secondo alcuni i Romani superarono l'immensa foresta e portarono
oltre i monti boscosi la guerra e il saccheggio; secondo altri, fecero delle ardite e lontane scorrerie
nei territori circostanti. La verità è che l'effetto fu opposto a quello che il console si era ripromesso
di ottenere. Anziché fiaccare il nemico i Romani allargarono il campo della guerra e si tirarono
addosso altri popoli, fra i quali i montanari dell' Umbria, di modo che, qualche tempo dopo, al
campo sotto Sutri nel quale, carico di preda, si era ritirato l'esercito di Fabio, giunse
un'impressionante moltitudine di nemici.Il console non si sbigottì più di tanto, ed ordinò ai suoi di
non uscire dai trinceramenti, ma durante la notte e prima dell'alba, ordinate le schiere, impartì
precisi ordini, ad ogni squadra il suo compito, poi s'avvicinò furtivamente all'accampamento dei
nemici; questi erano svegli ma ancora in quel gran disordine che precede l'inquadramento
dell'esercito; in quell'istante QUINTO FABIO impartì l'ordine d'attacco; con una serie d'operazioni
delle legioni, circondarono il campo e con poca fatica costrinsero alla resa gli sbigottiti nemici. Nei
settori che vollero resistere, non ci fu scampo, ci fu una strage d'Etruschi e d'Umbri. Poi si razziò il
ricchissimo il bottino che completò la disfatta; ma molto più grandi furono le conseguenze di questa
vittoria. Infatti, Perugia, Cortona ed Arezzo, tutti grossi centri, si distaccarono dalla lega etrusca e,
chiesta a Roma la pace, la ottennero con l'impegno di una tregua di trent'anni.

LA GUERRA NEL SANNIO

Mentre successi così clamorosi riportavano nell'Etruria le armi romane, l'altro console CAJO
MARCIO, nel Sannio costringeva alla resa Alife e subito dopo con la forza conquistava molti altri
paesi. Ma ecco giungere la notizia che l'esercito di FABIO, dopo la sua brillante conclusione al
campo Etrusco-Umbro, inoltratosi nella selva Ciminia era stato circondato dagli Etruschi e dagli
Umbri e si trovava in una situazione critica. La notizia era del tutto falsa, anzi la verità era
completamente opposta; ma i Sanniti prestando fede alle chiacchiere, forse pensando ad un'altra
"forca caudina", infiammati dalla presunta disfatta dei Romani e rammaricandosi solo che era stato
per merito degli Etruschi, decisero di fare un grande sforzo e di sconfiggere le legioni di MARCIO
stimolandolo ad iniziare la battaglia. Ma rifiutandosi il console di iniziarla, invece di attaccare,
stavano decidendo di passare in Etruria attraverso la regione dei Marsi e dei Sabini. Solo a quel
punto CAJO MARCIO decise di accettare il combattimento e l'esercito romano si batté con tale
fervore che si sarebbe meritata sorte migliore di quella che invece gli fu riservata. Scrive TITO
LIVIO che furono uguali le perdite dei Sanniti e dei Romani; ma forse la verità, è che questi ultimi
ebbero la peggio. Molti cavalieri, infatti, e parecchi tribuni militari caddero durante questa battaglia
e lo stesso console fu ferito.Che la sconfitta ci fosse e di una certa gravità lo dimostra chiaramente il
fatto che il Senato, appresa la notizia, decretò di creare un dittatore.Non c'era miglior capitano a
Roma in quel tempo di LUCIO PAPIRIO CURSORE e su di lui cadde la scelta, ma dovendo
approvare il console Fabio la proposta del Senato ed essendo Fabio nemico di Papirio dal quale, per
disubbidienza, come i lettori ricorderanno, era stato condannato a morte, si temeva che la proposta
non fosse approvata.QUINTO FABIO invece, facendo tacere la voce del personale rancore e
solamente ascoltando quella della patria, si mostrò degno della sua fama di valoroso guerriero e
diede l'approvazione.Nominato GIUNIO BUBULCO maestro dei cavalieri, Papirio Cursore, alla
testa di un nuovo esercito, marciò alla volta del Sannio e raggiunse CAJO MARCIO a Longula.
Qui, unito il suo esercito a quello del console, insieme affrontarono il nemico e in breve tempo fu
sbaragliato

BATTAGLIA DEL LAGO VADIMONE (310 a.C.)

Nel frattempo non meno fortunati, anzi più decisivi i successi delle truppe romane in Etruria. Sutri
fu liberata e QUINTO FABIO, superata (senza ostacoli - perché la notizia abbiamo detto era falsa)
la selva Ciminia, si preparava a portare la guerra all'interno della regione nemica.

Gli Etruschi, non scoraggiati dalle passate disfatte, radunano un grandissimo esercito; e contro di
questo va incontro il console romano. La battaglia avvenne sulle rive del lago Vadimone (Bolsena)
e fu molto particolare per l'irruenza di entrambi gli eserciti, che fin dall'inizio combattono corpo a
corpo con le spade, gareggiano nell'impeto e nell'ostinazione e quando cedono le prime schiere,
quelle più fresche si buttano nella mischia con lo stesso accanimento delle precedenti. I Romani non
riconoscono più nei loro avversari quegli stessi Etruschi che tante volte hanno sconfitto. Sembra a
loro di avere di fronte un altro popolo tanto è il valore che dimostrano. Il combattimento si prolunga
per molto tempo; le riserve sono state lanciate nella mischia e sono impiegate anche le retroguardie.
Tutte le forze di cui l'una e l'altra parte dispongono sono impegnate ed incerta è la sorte dello
scontro in fin di giornata. I cavalieri romani tentano un ultimo sforzo; smontano da cavallo per
trasformarsi in fanti e, passando a stento tra le armi e i cadaveri, si portano nelle prime linee, con la
loro presenza e il loro valore rinfrancano gli stanchi pedoni e fanno sentire il proprio peso sul
nemico che anch'esso stanco e affranto, si batte ancora, ma con la disperazione.L'intervento della
cavalleria appiedata, decide le sorti della battaglia; qualche bandiera nemica inizia a cedere, poi
l'intera prima fila si assottiglia e cede pure questa, e invece di essere aiutata e sostituita dai rincalzi,
questi hanno girato le spalle e si sono dati alla fuga, abbandonandoli al loro destino.I cavalieri
raddoppiano gli sforzi assecondati dai fanti, poi visto il nemico in fuga, rimontano a cavallo e li
incalzano. Su quello che poco prima era un campo di battaglia frastornante, cade il silenzio di un
campo cimitero. Questa battaglia per gli Etruschi fu l'ultima grande battaglia.(anche se la critica
storica moderna ha posto in dubbio questa "tradizione")(parleremo ancora di questa battaglia non
nel prossimo capitolo ma nel successivo). Il combattimento (noi seguiamo la tradizione) del lago
Vadimone fu, infatti, l'ultimo grande sforzo militare del popolo Etrusco. Si opporrà ancora alle armi
romane e tenterà di rialzare le sue sorti; ma ogni suo tentativo riuscirà vano davanti alla potenza
sempre più crescente dei Romani. E il suo destino è ormai segnato.Poco tempo dopo, riuscì agli
Etruschi di far rompere a Perugia la tregua (dei trentanni) e con l'aiuto di questa tentò di muovere
alla riscossa. Ma il loro esercito era ormai sfiduciato,e quando le legioni di Fabio si mossero per
affrontarlo, la resistenza fu molto scarsa; la vittoria delle truppe romane fu facile; poi, dopo averlo
annientato, marciarono su Perugia per castigarla severamente per aver dato -rompendo la tregua-
aiuto ai suoi ex alleati.Ma il castigo fu evitato all'ultimo momento. Lungo la strada incontro a Fabio
andarono gli ambasciatori per chiedere accoratamente la pace e per trattare la resa della città.
Perugia evita così di essere punita e saccheggiata, ma da quel giorno la sua indipendenza è finita.
Fabio si è fermato, ma mentre gli ambasciatori sono inviati a Roma a discutere le condizioni della
resa con il Senato, un forte contingente di soldati romani penetra, occupa e si stabilisce in città. Non
andranno più via! Perugia d'ora in avanti è territorio Romano.QUINTO FABIO assolto il suo
compito, torna in patria a ricevere il suo meritato trionfo.Nello stesso anno le legioni romane
colgono altri allori nel Sannio, dove il residuo esercito nemico soccombe ancora sotto i colpi del
dittatore, del maestro della cavalleria di MARCO VALERIO e PUBLIO DECIO e lasciano nelle
mani dei vincitori le splendide armature dei cavalieri sanniti e i magnifici scudi ornati d'oro e
d'argento che più tardi una parte servirà come addobbo del Foro romano nelle sacre cerimonie; e
un'altra parte saranno armati dai Capuani i Gladiatori.

GUERRE CONTRO GLI UMBRI

Nonostante queste vittorie riportate sugli Etruschi e sui Sanniti, la guerra non era del tutto finita.
Rieletto nell'anno (309 a.C.) console, QUINTO FABIO marcia con il suo esercito nel Sannio,
sottomette Allife, poi scontratosi con un esercito di Sanniti -questa volta rinforzato da aiuti forniti
dai Marsi e dai Peligni- lo attacca e lo sconfigge. Al suo collega PUBLIO DECIO, sono invece
affidate le operazioni in Etruria. Costringe Tarquinia a vettovagliare il suo esercito e a chiedere una
tregua di quarant'anni; penetrato nel territorio di Volsinio, s'impadronisce a viva forza di alcuni
castelli ed altri ne rade al suolo, poi esegue scorrerie, bruciando, devastando e saccheggiando.

Mette tanto spavento negli Etruschi che questi chiedono pace; ma è solamente accordata una tregua
di un anno con l'obbligo di corrispondere ad ogni soldato romano la paga per l'anno medesimo e due
vesti.Dopo questi avvenimenti vi sarebbe stata pace in Etruria se non avessero brandito le armi i
vicini Umbri, trascinando questa volta loro gran parte degli Etruschi.Voci preoccupanti correvano
sulle intenzioni dei nuovi nemici; si sosteneva che avevano allestito un esercito possente e che,
lasciandosi alle spalle l'esercito consolare volevano marciare su Roma.Furono queste voci che, da
una parte consigliarono PUBLIO DECIO MURE a spostarsi verso il sud per contrastare il passo
verso Roma di eventuali appoggi ai nemici; e dall'altra il Senato informò della situazione l'altro
console invitandolo, se le condizioni del Sannio lo permettevano, a trasferirsi prontamente
nell'Umbria.QUINTO FABIO MASSIMO ubbidì senza indugiare e a marce forzate trasferì il suo
esercito nei pressi di Mevania (308 a.C.).L' improvviso arrivo di Fabio, che gli Umbri radunati
proprio a Mevania credevano invece impegnato nel Sannio, atterrì il nemico e ne raffreddò
l'audacia; che era quella di marciare su Roma. A marciare erano stati invece i Romani, e ora li
avevano in casa, quindi bisognava difendersi, altro che attaccare! Alcuni volevano ritirarsi nelle
città murate, altri affermavano che bisognava abbandonare una buona volta la guerra, e altri ancora
- e questi erano gli illusi oltre che ingenui promotori - volevano la battaglia, lo scontro, la guerra a
Roma.Non tutti gli Umbri parteciparono al combattimento e quelli che vi presero parte lo iniziarono
così disordinatamente da comprometterlo irreparabilmente.I Romani invece - infiammati dagli
incitamenti del console - si lanciarono al suono delle trombe addosso al nemico e lo atterrirono così
tanto che gli Umbri -così narra LIVIO- si lasciarono portar via le bandiere, e farsi catturare come
prigionieri senza opporre seria resistenza.

SANNITI ED ERNICI SCONFITTI

Vinti gli Umbri, QUINTO FABIO se ne tornò nel Sannio e nel (307 a.C.) rimasto per la seconda volta
proconsole, affrontò presso Allife, sul Volturno, i Sanniti combatté l'intera giornata, infine li respinse fin
dentro i loro alloggiamenti. La sera era venuta ad interrompere la battaglia, temendo che il nemico
durante la notte abbandonasse il campo, lo fece circondare e, spuntato il giorno, accordò al nemico la
resa alla condizione che (memore delle umilianti "forche caudine") passassero sotto il giogo. Quelli tra i
nemici però che non erano di nazionalità sannitica furono fatti prigionieri e venduti come schiavi. Il
numero di questi ultimi fu di circa settemila e fra loro si trovarono moltissimi Ernici, che subirono la
sorte degli altri.Il trattamento fatto da Roma ai soldati della loro stirpe indignò gli Ernici, che, ad
eccezione di Alatri, Verula e Ferentino - le quali si mantennero fedeli ai Romani e in premio ottennero
la cittadinanza completa - presero le armi.Per questi nuovi ed insperati aiuti, riprese animo il Sannio e,
riunite insieme le truppe, formando un esercito piuttosto rilevante, assalì alcune fortezze romane. Sora e
Calazia furono costrette alla resa e i presidi romani che le difendevano fatte a pezzi.Correva l'anno (306
a. C.) quando avvenivano questi fatti e consoli erano PUBLIO CORNELIO GRAVINA e QUINTO
MARCIO TREMOLO. Il primo fu mandato contro i Sanniti, il secondo contro Anagni e le altre
popolazioni erniche. Non fu difficile a Marcio avere ragione del nemico, benché nei primi giorni della
campagna le comunicazioni tra il suo esercito e quello del collega fossero state interrotte dagli Ernici,
con molta preoccupazione del Senato romano, il quale aveva in gran fretta già allestito due nuovi
fortissimi eserciti, chiamando alle armi tutti gli uomini validi dai diciassette ai quarantacinque
anni.CORNELIO GRAVINA invece si trovò a mal partito per la tattica usata dai Sanniti. Questi,
essendo inferiori di forze e non osando assalire l'esercito consolare in aperta campagna, avevano
occupato tutti i passi e, favoriti dalla posizione dei luoghi che potevano essere tenuti con pochi armati,
impedivano al console di comunicare con le sue basi e di ricevere rifornimenti. MARCIO TREMOLO,
vinti ed assoggettati gli Ernici, volle passare nel Sannio in aiuto del collega rimasto -come detto sopra-
isolato. I Sanniti, sicuri di non potere misurarsi con il nemico se avessero lasciato che i due eserciti
romani si riunissero, decisero di assalire Tremolo mentre marciava in soccorso di Cornelio.Scoperto in
tempo che stava per essere attaccato durante la marcia di trasferimento (era quasi arrivato e stava già per
congiungersi all'esercito del suo collega) MARCIO fece prontamente mettere in mezzo i carriaggi e
ordinate come meglio poté le schiere, fece fronte al nemico.

Il quale non conseguì i risultati che si aspettava sia per la sveltezza con la quale il console seppe
disporre la difesa sia perché qualche segnale di cosa stava accadendo poco lontano giunse a
CORNELIO ARVINA, il quale, senza perder tempo, uscito dal suo accampamento, si diresse e
attaccò il campo nemico, quasi vuoto perché impegnati con Marcio, e quindi mal difeso; lo espugnò
lo incendiò, poi assalì i Sanniti alle spalle.Questi attaccati sia davanti sia dietro, non resistettero a
lungo e cercarono di salvarsi, fuggendo, ma da ogni parte si trovarono circondati dai Romani; in
quella sacca infernale subirono delle enorme perdite. A trentamila TITO LIVIO fa ascendere il
numero dei morti che i Sanniti lasciarono su quel terreno.Ma la battaglia non era finita. I Romani,
dopo la strage, avevano appena terminato di suonare le trombe per chiamare a raccolta i reduci della
battaglia, quando comparve un secondo esercito nemico, che era quello di rincalzo ma che giungeva
in auto del primo troppo tardi. Le truppe romane non aspettarono nemmeno l'ordine dei loro consoli
e, entusiasmati dalla precedente vittoria, si lanciarono sui Sanniti come una furia, prima che questi
si rendessero conto che cosa era accaduto poco prima ai loro colleghi.Lo scontro fu breve e
nemmeno fu ingaggiata una vera e propria battaglia: il nemico sgomento e subito sbaragliato,
arretrando cercò riparo sui monti, ma i Romani lo inseguirono cercando non di farlo fuggire ma di
annientarlo. Non era più una battaglia, era una caccia spietata, senza tregua. Stanchi, feriti,
demoralizzati, i Sanniti implorarono la pace obbligandosi di provvedere le truppe romane di grano
per tre mesi, di corrispondere loro la paga per un anno e dare una veste ad ogni soldato.Lasciato il
collega nel Sannio, MARCIO TREMOLO fece ritorno a Roma preceduto dalle strabilianti notizie
della duplice vittoria; tributatogli il trionfo, per decreto del Senato, gli fu innalzata una statua
equestre nel foro davanti al tempio di Castore.

LA BATTAGLIA DI BOVIANO (305 a. C.)


L'anno seguente (305 a. C.), avendo i Sanniti ex capuani, fatte alcune scorrerie nel territorio di Capua,
furono inviati contro di loro due eserciti, comandati l'uno dal console TITO MINUCIO AUGURINO,
l'altro dal collega LUCIO POSTUMIO MEGELLO.Boviano, la città più importante del Sannio, fu la
meta del primo, su Tiferno puntò invece il secondo, che, preso contatto con il nemico, lo costrinse a
battaglia.Discordanti sono le notizie tramandateci dagli storici sulla giornata di Tiferno. Alcuni
riferiscono che il combattimento, accanito, terminò con una sanguinosa disfatta del nemico che perse,
fra morti e prigionieri, trentamila uomini; altri invece raccontano le cose in un altro modo. Narrano che
si combatté tutto il giorno senza vantaggio di alcuna delle due parti. Giunta la notte, POSTUMIO,
fingendo di aver paura e di volere fortificarsi in una località sicura, condusse il suo esercito sulle vicine
montagne e quivi pose il campo e lo munì di salde difese. I Sanniti lo seguirono nelle nuove posizioni e
a loro volta misero gli accampamenti, poco lontano, a due miglia dai Romani.POSTUMIO aveva fatto
quella manovra perché aveva appreso che il collega, nei pressi di Boviano, era minacciato da un forte
esercito nemico. Prima che spuntasse l'alba, Postumio fece sapere a Minucio che sarebbe corso in suo
aiuto e lo consigliò di attaccare subito i Sanniti; poi, lasciato sotto buona guardia il campo, di nascosto
con il resto dell'esercito partì alla volta di Boviano.Quando vi giunse, da molte ore tra Minucio e i
Sanniti era stata ingaggiata la battaglia e fino a quel momento era molto incerto l'esito, inoltre entrambi i
due eserciti erano spossati dal lungo combattere. Ma giunto all'improvviso Postumio con l'esercito
fresco fu lui a decidere la sorte della battaglia.I Sanniti, non potendo resistere alle milizie sopraggiunte,
tentarono di fuggire, ma, stanchi com'erano, ben presto furono raggiunti e fatti a pezzi lasciando in
mano ai vincitori venti bandiere. I due consoli anche dopo la vittoriosa battaglia, nonostante fosse già
quasi sera, non riposarono. Riunite le truppe, si avviarono al campo di Postumio, già preceduti dalle
notizie della grande vittoria riportata e, non appena giunti, benché stanchi dal viaggio e dalla precedente
lotta, assalirono pure il secondo esercito nemico, lo sbaragliarono, lo misero in fuga, s'impadronirono di
ventisei bandiere e fecero moltissimi prigionieri fra cui il più importante: STAZIO GELLIO, il
comandante e duce dei Sanniti.Dopo queste strepitose vittorie, la capitale del Sannio, rimasta esposta
alle offese di due potenti eserciti Romani, non aveva alcuna speranza di salvezza, ben presto fu investita
dalle truppe consolari e cadeva in loro potere.Subito dopo, anche Sora ed Arpinio furono costrette alla
resa dai Romani.

LA PACE CON IL SANNIO

Orribilmente provati da una lunga e disastrosa guerra, con gli eserciti distrutti e il paese
saccheggiato, ai Sanniti bellicosi o no, non rimaneva altro da fare che chiedere la pace. La chiesero
e la ottennero dopo aver fornito tutto lo Stato verso i Romani prove di buona volontà alle condizioni
da Roma proposte.TITO LIVIO scrive che le condizioni di pace furono vantaggiose per i Sanniti
con i quali Roma rinnovò l'antica alleanza; DIONISIO invece afferma che Roma impose al Sannio
come condizione la propria sovranità e che non intraprendesse, senza il permesso della repubblica,
guerre e stringesse ogni tipo d'alleanze.L'affermazione di DIONISIO ci sembra più rispondente alla
verità. Non si può difatti ammettere che Roma pur con tanta generosità, abbia stipulato la pace e
l'antica alleanza, sulla base della mutua uguaglianza con un popolo vinto; inoltre sapevae i
precedenti non mancavano di certo- che il Sannio avrebbe prima o poi riprese le armi (e così fu - lo
leggeremo nel prossimo capitolo-riassunto).Pensiamo piuttosto che Roma avrebbe rifiutato
senz'altro la pace e, approfittando delle sue vittorie, avrebbe continuata la guerra fino alla definitiva
conquista del Sannio se si fosse trovata in migliori condizioni.Ma anche Roma era stanca; gli sforzi
fatti contro i Sanniti, gli Etruschi, gli Umbri e gli Ernici l'avevano esaurita, rilevanti erano state le
perdite di uomini che aveva subito, altissimi i costi, ed aveva perciò bisogno di ristorarsi con un
periodo, più o meno lungo, di quiete.Tuttavia, sapendo che presto o tardi si sarebbe trovata ancora
di fronte ai Sanniti, approfittò della pace per poter -con un periodo di quiete- consolidare la sua
posizione.Convinta della bontà del suo sistema coloniale, Roma nel 304 a. C. inviò ad Alba, sul
lago Fucino, una colonia di 6.000 uomini, che doveva assicurare le comunicazioni con l'Apulia, e
un'altra, di 4.000 uomini, a Sora Fucense al confine sannitico e nel 455 due altre colonie, a Marnia
nell' Umbria ed a Carseoli nel paese degli Equi.

NUOVE GUERRE CONTRO GLI EQUI, GLI ETRUSCHI E GLI UMBRI

Sei anni, dal (304-299 a.C.) durò la pace tra i Romani ed i Sanniti poi scoppiò nuovamente una
lunga guerra (che narreremo nel prossimo capitolo) ma durante questo periodo di tempo le armi di
Roma non riposarono proprio per nulla.Due spedizioni fu costretta a fare contro gli Equi, e
altrettante in Etruria e una nell'Umbria.La prima spedizione contro gli Equi avvenne l'anno stesso
che fu firmata lapace con il Sannio. Gli Equi avevano radunato in un campo una grande moltitudine
di armati di varie città, senza disciplina e priva di validi capi e soprattutto di un solo capo. Quando
appresero che un esercito Romano si era fermato a quattro miglia dal loro campo, decisero di
abbandonarlo, di sciogliere l'esercito e tornare alle proprie città a fare resistenza ognuno dentro le
proprie mura.Disciplinati, forti e organizzati com'erano, i Romani si diedero a percorrere la regione
in lungo e in largo e in sessanta giorni -tanto durò la guerra- s'impadronirono a viva forza di oltre
quaranta paesi, e la maggior dopo averli costretti alla resa furono distrutti o incendiati.Questa guerra
sistematica di pulizia, impressionò talmente i popoli vicini che i Marrucini, i Marsi, i Peligni ed i
Ferentini si decisero di chiedere la definitiva amicizia a Roma e con essa strinsero alleanza.
La seconda spedizione fu fatta nel (302 a.C.) che fu breve, durò solo una settimana. Causa della
guerra fu la colonia romana creata a Sora l'anno prima, e che gli Equi assalirono. Pur essendo stati
gli assalitori respinti dagli stessi abitanti della città, Roma, credendo che gli Equi fossero aiutati da
altri popoli, piuttosto allarmata, creò dittatore CAJO GIUNIO BUBULCO BRUTO. Questi con un
forte esercito marciò contro il nemico che ingenuamente accettò battaglia ma fu al primo assalto
sgominato e disperso e nei giorni seguenti, più saggiamente, implorando la pace accettò di
sottomettersi a Roma.Questa breve guerra, oltre che la sottomissione degli Equi, fruttò anche
l'alleanza con i Vestini.La prima spedizione in Etruria fu fatta nel (303 a.C.) e fu causata dalle
discordie intestine degli Aretini culminate con la prevalenza del partito democratico
sull'aristocratico (che non erano una novità fra gli Etruschi).E siccome contemporaneamente i Marsi
intorno all'importante colonia Romana di Carseoli si erano ribellati, fu creato dittatore MARCO
VALERIO MASSIMO e maestro della cavalleria MARCO EMILIO PAOLO.

Il dittatore, passato nel territorio dei Marsi, attaccò i ribelli costringendoli a rifugiarsi entro le mura
delle città ed, avendo in pochi giorni costretto alla resa Milonia, Plistia e Fresilia, riuscì a pacificare
la turbolenta regione. Di là Marco Valerio tornò a Roma per rinnovare gli auspici; l'esercito, rimasto
sotto il comando di Marco Emilio, passò in Etruria, ma qui, uscito imprudentemente dal campo per
predare, cadde in un'imboscata e, dopo avere lasciato sul terreno alcuni morti e qualche bandiera in
mano al nemico (o perse per la strada), fu costretto a rifugiarsi nel suo più protettivo campo.
Poco fu il danno materiale subito dai Romani, ma la notizia dello scacco giunse subito a Roma e in
un modo diverso e fece pensare ad una grande sconfitta. Per questo motivo, allarmistico furono
messe guardie alle porte, ronde nelle vie e furono chiamati i cittadini alle armi.MARCO VALERIO,
partito precipitosamente, costatò che le cose in Etruria non presentavano alcuna gravità. Il campo
era in un luogo sicuro e quei soldati che avevano perso le bandiere erano stati lasciati per punizione
fuori degli alloggiamenti.Altissimo infine era il morale dell'esercito sempre pronto a
combattere.Tuttavia levato il campo, il dittatore trasferì l'esercito nel territorio di Russelle dove il
nemico lo seguì. Qui gli Etruschi cercarono di trarre in agguato una schiera romana comandata dal
legato CAJO FULVIO, ma non essendovi riusciti, l'assalirono con numerose forze.FULVIO, riuscì
ad informare Valerio, e cercò di sostenere l'urto dei nemici fino a quando comparve il grosso
dell'esercito.Prima ad attaccare fu la cavalleria che seminò il panico nelle file nemiche; queste sì
diedero alla fuga ma verso il loro campo e vi si trincerarono, e ai Romani non ci volle molto tempo
per costringerli alla resa e a subire così una totale disfatta.Gli Etruschi chiesero la pace, ma fu loro
concessa solo una tregua di due anni.Della seconda spedizione, la causa fu un'invasione di Galli in
Etruria. Gli Etruschi prima subirono il danno delle razzie dei feroci e possenti barbari, poi con il
denaro ingaggiarono i Galli versando loro una grossa somma. Ma, ricevuto l'oro, i Galli pretesero
pure una parte del territorio, ma per il rifiuto degli Etruschi e per aver appreso che il dittatore
MARCO VALERIO marciava con un forte esercito verso l'Etruria, abbandonarono la regione.
MARCO VALERIO quando vi giunse volle punire gli Etruschi e non avendo questi accettato
battaglia rifugiandosi dentro le mura delle città, si diede ad incendiare e saccheggiare il paese e i
dintorni.Fra la prima e la seconda spedizione romana in Etruria, i Romani nel (299 a.C.) dovettero
brandire le armi contro l'Umbria. Non sono note le cause di questa guerra, solamente si sa che il
teatro dove fu combattuta é Nequino sulla Nera (il famoso fiume che nasce sui Monti Sibillini, e
alimenta la cascata delle Marmore).La posizione arroccata dove sorgeva la città umbra era forte per
natura; quindi gli abitanti erano decisi non solo a difendersi ma anche sicuri di non capitolare.
Infatti, un contingente romano inviato ad assediarla al comando del console APULEIO, non riuscì a
fare proprio nulla per oltre un anno e soltanto nel secondo riuscì a conquistarla ma grazie al
tradimento di due abitanti che indicarono ai legionari un passaggio segreto per introdursi nella città,
che ovviamente non ebbe scampo.Sulla Nera, per tenere a freno gli Umbri, in questo medesimo
anno, fu inviata una colonia romana che prese il nome di Narnia (od. Narni).Così Roma consolidava
le sue conquiste, e, crescendo i cittadini di numero, furono aggiunte due nuove tribù alle vecchie
(1'Aniense e la Terentina) le quali, con quelle istituite nel 332 (1'Ufentina e la Falerna.) diventarono
ora trentatre.Ma intanto nel Sannio, dopo cinque anni di tregua, tornavano a rumoreggiare le armi e
una nuova guerra sannitica si annunciava, non meno accanita delle precedenti.

Terza guerra sannitica (298 a.C. - 290 a.C.)


ROTTURA DELLA PACE COL SANNIO

Roma pur con una lunga serie di vittorie, dopo le due clamorose disfatte subite dai Sanniti, concesse
al Sannio la pace, pur non avendola sottomessa del tutto; ma la concesse con uno scopo ben preciso:
non solo il Sannio nella situazione di perdente ma anche Roma la vittoriosa, con gli sforzi fatti quasi
contemporaneamente contro i Sanniti, gli Etruschi, gli Umbri e gli Ernici l'avevano esaurita;
rilevanti erano state le perdite di uomini subite ma anche altissimi erano stati i costi, ed aveva perciò
bisogno di ristorarsi con un periodo, più o meno lungo, di quiete. Tuttavia, sapendo che presto o
tardi si sarebbe trovata ancora di fronte ai Sanniti, concesse malvolentieri quella pace per poter -con
un periodo di quiete- consolidare la sua posizione.Erano trascorsi sei anni di pace, ma anche per i
Sanniti, questi erano stati sufficienti per darsi sollievo delle perdite subite e degli sforzi poderosi
fatti durante le guerre precedenti. Era tempo per il bellicoso popolo di vendicare i suoi morti, di
liberare i lembi di terra sannitica caduti in potere dei Romani, di lavare le onte patite e riacquistare
tutta intera la libertà d'azione che gli era stata tolta dal nemico con i patti dell'ultimo trattato di pace
concluso nel (304 a.C.).Lo abbiamo visto nel precedente capitolo, a Roma, l'esercito, pur
disimpegnato dai Sanniti, non era rimasto inoperoso ma dovette occuparsi nei successivi sei anni di
altri conflitti; vittoriosi, ma pur sempre impegnativi come uomini e mezzi. Non così i Sanniti, che
sgravati dalla guerra con Roma, impiegarono i sei anni per prepararsi a farne un'altra per vendicarsi
delle precedenti disfatte. E dopo i preparativi ritennero che il momento era giunto, e che non poteva
essere migliore.Siamo nel 299 a.C. L'Etruria da qualche tempo è in armi contro Roma, e i Galli
partiti all'avanzarsi delle legioni di Valerio possono forse tornare, e forse allearsi con gli Etruschi,
che questi hanno già tentato di assoldare. Mordono poi il freno i Marsi per i quali Corseoli (Carsoli)
per Roma è come una spina nel fianco. Poi ci sono gli Umbri, vigilati dai coloni di Narnia, ma che
aspettano pure loro l'occasione di insorgere. Potrà resistere Roma contro tanti nemici?Il Sannio
cerca altri alleati, sapendo quanta sia grande la potenza di Roma. A mezzogiorno ci sono i Lucani.
In parte, quindi non tutti, sono amici dei Romani, è vero, ma la regione è retta dal partito
aristocratico e si può tentare di rovesciare il regime e di acquistare un nuovo alleato aiutando il
partito democratico ad impadronirsi del potere. Sono pertanto inviati ambasciatori nella Lucania
affinché tentino in tutti i modi d'indurre il paese a muovere guerra contro Roma. Ma i Lucani
rifiutano: perché giocare una carta così pericolosa ?Allora i Sanniti ricorrono alle minacce, poi alla
forza: schiere di armati varcano i confini della Lucania e mettono a ferro e a fuoco il paese. A quel
punto i Lucani un giorno dell'anno 455 (299 a.C.) si presentano al Senato romano ed ai consoli
CUCIO CORNELIO SCIPIONE e GNEO FULVIO MASSIMO degli ambasciatori lucani a lagnarsi
che, a motivo dell'incrollabile volontà di amicizia del loro paese verso Roma, tale affetto ha causato
l'inimicizia dei Sanniti e questi hanno invaso il loro territorio. Rinnovano la loro devozione per la
potente repubblica, e offrono, ove sia necessario, la sudditanza della Lucania a Roma.I consoli e il
Senato non sono sordi all'appello degli ambasciatori e stringono con i Lucani un trattato di alleanza,
poi mandano i Feciali nel Sannio affinché ufficialmente dicano chesiano ritirate le truppe sannitiche
dalla Lucania e siano rispettati i nuovi alleati di Roma.La notizia prima ancora dell'arrivo degli
ambasciatori di Roma giunge rapidamente nel Sannio e sono mandati incontro dei messi che
superbamente ammoniscono i messaggeri romani di non entrare nel paese: perché nessuno si
farebbe garante della loro incolumità. Gli ambasciatori Romani risentiti riprendono la via del
ritorno, mentre i Sanniti ben sapendo quale sarà la reazione a Roma, iniziano a preparare i loro
eserciti, fidandosi nel concorso della armi etrusche.

BATTAGLIA DI VOLTERRA (298 a. C.)

Ma gli Etruschi non sono più affidabili alleati sulla cui forza si possa contare come su un
coefficiente importante di vittoria; gli Etruschi, lo abbiamo visto nell'ultimo conflitto, ormai non
sono che l'ombra di quel popolo una volta così potente. Unito veramente non lo era mai stato, ma
nemmeno diviso come in questi ultimi anni. Un esercito romano, guidato dal console LUCIO
CORNELIO SCIPIONE, risale l'Etruria in cerca del nemico, e già dispera di trovarlo e pensa che la
presente campagna sarà simile a quella dell'anno precedente, quando con sua grande sorpresa gli
Etruschi, presso Volterra, gli si fanno incontro. Gli si offre quella battaglia che lui va del resto
cercando. In un attimo le schiere sono disposte in ordine di combattimento e si scaglia addosso con
furia sul nemico. Pare che gli Etruschi abbiano ritrovato l'antica vigoria e si siano, ad un tratto,
ricordati di essere i nipoti dei famosi guerrieri di Porsenna. Infatti, si battono con valore e di fronte
all'incalzare impetuoso delle legioni romane non cedono di un passo.

La battaglia infuria tutto il giorno, poi cala la sera e le armi tacciono. Quando l'alba spunta si
schierano ancora i Romani per riprendere il combattimento che la notte ha interrotto; ma gli
Etruschi non sono più là a fronteggiarli né stanno chiusi nel campo. La battaglia del giorno prima,
energica ma così impegnativa, li ha sicuramente provati e nel pieno della notte hanno abbandonato
precipitosamente l'accampamento per trovare riparo nelle città murate. Gli alloggiamenti sono
saccheggiati e offrono un bottino ricchissimo. Scipione passa nel territorio dei Falisci, lascia a
Faleria con poca guardia i carriaggi e percorre con le sue legioni il paese nemico mettendo ogni
cosa a ferro e a fuoco.

BATTAGLIA DI TIFERNO (297 a. C.)

Con questa loro defezione, più che su quelle degli Etruschi i Sanniti ora devono contare sulle
proprie forze ed opporsi al console GNEO FULVIO che marcia con un esercito nel Sannio e punta
risolutamente verso Boviano. La loro capitale è minacciata. Le truppe sannitiche escono ad
incontrare le legioni consolari e dalla città si ode il rumore della battaglia; che non dura molto, i
Sanniti in ritirata cercano rifugio dentro le mura della stessa Boviano. GNEO FULVIO non si
accontenta di questa mezza vittoria riportata in aperta campagna, la vuole totale, si muove ed
investe la città, che ben presto cade sotto gli assalti impetuosi dei legionari romani.Lasciata a
Boviano un forte presidio, il console punta verso il Sangro, su Anfidena, che invano si difende con
accanimento ma segue la sorte della consorella.Dopo queste vittorie romane la guerra langue, ma i
Sanniti non dormono; per nulla domati o scoraggiati preparano nuovi e più poderosi eserciti, e
giunge notizia che anche gli Etruschi sono impegnati a fare intensi preparativi.Occorre dunque che
Roma non riposi sugli allori, che altre legioni siano formate e che si affidi il comando a capitani più
famosi. QUINTO FABIO MASSIMO RULLIANO, vecchio d'anni e carico di gloria, rivive nel
meritato riposo gli anni eroici del suo passato; ma il popolo, la nobiltà, il Senato vogliono che
stringa nel pugno ancora la sua celebre spada per la grandezza di Roma, e che a lui si affidato
l'imperio. L'illustre vegliardo rifiuta; non ha più la vigoria di una volta; che si riservino ai giovani le
imprese gloriose. La città torna a pregarlo e Fabio a rifiutare. Da tutte le parti si insiste perché egli
accetti il consolato. Il famoso capitano alla fine non resiste agli accorati appelli e cede alle
pressioni, ma desidera che gli si dia come collega PUBLIO DECIO MURE, ardente anima di
guerriero ed espertissimo duce.Ora le legioni romane sono in ottime mani. Nel corso dell'anno 457
(297 a.C.) un console andrà a mietere allori in Etruria, l'altro nel Sannio. Ma le notizie dei
preparativi etruschi risultano false: messaggeri che giungono da Sutri, da Nepi e da Faleria
riferiscono che tutto è quieto da quella parte. A Roma non dispiace, tanto meglio. Gli sforzi si
convergeranno tutti sul Sannio. Partono i consoli con la stessa meta ma per vie diverse, l'anziano
FABIO attraverso il territorio di Sora, DECIO attraverso il paese dei Sidicini, avanzando con
somma prudenza perché sanno che i Sanniti sono maestri nell'arte di tendere agguati (sono del resto
quelli delle "forche caudine"!). Ed infatti, un agguato è teso, a Tiferno, ma non a Decio, ma al
vecchio Fabio; i nemici si sono imboscati nelle alture che fiancheggiano una valle ed aspettano che
le legioni di Roma l'attraversano. Il console, cui non manca l'esperienza, in qualche modo apprese le
intenzioni dei Sanniti; lascia i carriaggi in luogo sicuro sotto buona guardia ed entra nella valle, ma
non in forma sparsa, ma con l'esercito disposto in quadrato come se si trattasse di una battaglia.
Fallita la sorpresa, i nemici, desiderosi di battersi, a quel punto scendono al piano. Numerosi sono
gli uomini che motivati dall'odio si battono oltre ogni limite; tuttavia pur ostinata la battaglia, per
qualche tempo è incerto l'esito; anzi il console teme di essere sopraffatto. Soltanto la cavalleria può
compiere il miracolo di rompere le prime linee nemiche. Ordina perciò ai tribuni MARCO FULVIO
e MARCO VALERIO di far entrare in azione i cavalieri, e nello stesso tempo ordina al
luogotenente SCIPIONE di mettersi alla testa degli astati della prima legione e con un'intelligente
manovra di aggirare i Sanniti per portarsi alle loro spalle.I suoi ordini sono prontamente eseguiti: la
cavalleria sferra con impeto il fronte avversario; purtroppo questo non cede. I cavalieri si ritirano e
cresce la fiducia nei Sanniti che hanno avuto in quello scontro il sopravvento.

E lo avrebbero mantenuto se i principi (la seconda linea del rincalzo del quadrato) freschi di forze,
non fossero entrati nella mischia ad arginare l'impeto dei nemici, non proprio risolutivo ma
sufficiente per tenere impegnati i Sanniti per qualche tempo, nell'attesa della "fortuna".Che arriva!
Infatti, improvvisamente, un rumor d'armi sorge alle spalle dei Sanniti: sono gli astati di
SCIPIONE, ma Fabio grida che è l'esercito di DECIO MURE che corre al soccorso.Si rinfrancano i
Romani e lo sgomento invade gli animi dei nemici, che si danno alla fuga. Si vorrebbe incalzarli per
annientarli, ma i Sanniti fuggendo si sono sparsi in così tante direzione che gli inseguimenti
risultano tutti inconcludenti. Tuttavia lasciano sul terreno 3.400 morti, ventitre bandiere, e solo 330
prigionieri.

BATTAGLIA DI MALEVENTO (297 a. C.)

Se il vecchio ma astuto FABIO avesse indugiato nella valle a predisporsi in battaglia con i Sanniti e
si fosse trovato al suo posto un altro esercito consolare, forse a Tiferno non avrebbero vinto i
Romani.I Sanniti erano riusciti a trascinare alla guerra gli Apuli ed un esercito di questi muoveva
alla volta di Tiferno per congiungersi con gli Alleati.Però il console DECIO che aveva preso la via
del paese dei Sidicini faceva buona guardia. Giuntagli la notizia di questo nuovo esercito che
avanzava, marcia risolutamente con le sue legioni contro gli Apuli e giunge a prender contatto con
questi a Malevento.Gli Apuli non rifiutano di battersi e la battaglia si accende furiosa, ma la fortuna
arride all'esercito di DECIO MURE. Duemila nemici cadono sul campo e maggiore sarebbe stato il
numero dei morti se gli Apuli, sgomenti per l'andamento della battaglia non avessero abbandonato il
campo per darsi alla fuga e mettersi in salvo.La via del Sannio era aperta. I due eserciti consolari
invasero la regione e vi portarono la devastazione. Quarantacinque - scrive TITO LIVIO - furono i
luoghi dove Publio Decio si accampò ed ottantasei quelli dove Quinto Fabio pose il campo. Né
dopo la loro partenza rimasero soltanto le tracce degli steccati e dei fossati, ma i segni ben più gravi
della devastazione nei paesi dove avevano sostato un solo giorno.Fabio assalì poi la città di Cimetra
prendendola d'assalto e la resistenza dovette essere stata accanita a giudicare dalle perdite nemiche:
mezzo migliaio di morti e un migliaio e mezzo di prigionieri.L'anno seguente (296 a.C.), la guerra
nel Sannio non ebbe un momento di tregua. Sono consoli APPIO CLAUDIO CIECO II, astuto
uomo politico, più che valoroso capitano, e il plebeo LUCIO VOLUMNIO FLAMMA VIOLENTE
II; ma sono stati lasciati come proconsoli per sei mesi i due valorosi reduci delle vittorie QUINTO
FABIO e PUBLIO DECIO.Il vecchio FABIO passa con le sue legioni in Lucania dove il partito
democratico ha avuto il sopravvento sull'aristocratico, e rimette con le armi il potere in mano della
nobiltà amica di Roma; Decio rimane invece nel Sannio a guerreggiare.Ma non è più una guerra in
campo aperto, esercito contro esercito; sono solo scorrerie, devastazioni, incendi e saccheggi per le
campagne. PUBLIO DECIO vuole, così operando, portare solo lo sgomento nel territorio nemico e
impoverirlo affinché non possa per lungo tempo con uomini e mezzi riorganizzarsi. E vi riesce; poi
prende di mira le città dove le truppe sannitiche si sono concentrate.Murganzia, nonostante città
potente, è investita e in un solo giorno è costretta con la forza alla resa; che procura 2.100
prigionieri e un ricchissimo bottino. E poiché le prede, bottino e uomini non si possono trascinare
dietro, ogni cosa si vende. E siamo al punto che i mercanti, abili a gestire questo lucroso mercato,
seguono a breve distanza l'esercito, nell'attesa della più che sicura "abbondanza" di lauti guadagni.
Dopo Murganzia cade Romulea: 2.300 sono i nemici uccisi, ma 6.000 sono i prigionieri che vanno
in mano ai mercanti di schiavi. Cade Ferentino, dove accanita e non breve fu la resistenza favorita
dalla fortezza del luogo e delle opere di difesa; qui l'immenso bottino - avviene ogni tanto per
rinnovare l'audacia e motivare gli assalti- è lasciato ai soldati Romani, e sono allora loro a fare
affari con i mercanti, non potendosi trascinare dietro l'ingombrante bottino.

I SANNITI IN ETRURIA - LA QUADRUPLICE LEGA

Ma i Sanniti non sono per nulla scossi da tutti questi disastri. Capo supremo della bellicosa nazione
è ora GELLIO EGNAZIO, forse figlio di STAZIO caduto a Boviano nel 449, patriota insigne e
guerriero valorosissimo. GELLIO capisce che da solo il Sannio non può sperare di tenere testa alla
potente Roma e che prima o poi finirà con il soccombere e cadere sotto il giogo della repubblica; e
pensa di opporre al nemico una forte coalizione di popoli dell'Italia centrale. Gli Apuli, è vero, non
hanno più il coraggio di tornare a brandire le armi contro Roma, né i Lucani vogliono mancarle di
fede; ma ci sono ancora fra gli insofferenti di Roma, gli Umbri, i Galli e gli Etruschi.

GELLIO EGNAZIO raccoglie quante più forze possibili, lascia la patria in balia degli eserciti
romani vittoriosi e convinto di operare meglio fuori dei propri confini passa in Etruria.
Gli Etruschi sono stanchi della guerra e i rappresentanti delle varie città sono riuniti e stanno per
decidere di chiedere la pace ai Romani. L'arrivo del duce sannita fa tuttavia abbandonare le idee di
pace e, mentre s'inviano messi nell'Umbria e presso i Galli, si stabilisce d'intensificare la guerra
contro la vicina repubblica.È il momento per Roma di agire con la massima prontezza e risolutezza.
In Etruria vi è già un esercito al comando del console APPIO CLAUDIO, ma la perizia del console
nell'arte militare non è molta, rispetto a quella del suo anziano ex collega Quinto Fabio, e più volte
l'esercito combatté contro gli Etruschi con esito poco felice. Fu così chiamato in Etruria dal Sannio,
dove si trovava con un altro esercito, il console plebeo LUCIO VOLUMNIO.Il suo arrivo per
APPIO CLAUDIO fu come un'offesa. Questa frivola questione di prestigio, di amor proprio e di
risentimento personale, avrebbe gravemente danneggiato i supremi interessi della patria in guerra se
i nemici, decidendo di assalire le legioni Romane, non avessero fatto sopire i rancori e fatto nascere
una nobile gara nell'animo dei due consoli. EGNAZIO GELLIO, il duce Sannita, non è presente,
essendo andato in cerca di vettovaglie, e la sua assenza favorisce i Romani per sferrare un attacco;
quando il duce sannita rientra è troppo tardi; Etruschi e Sanniti, dopo un furioso combattimento
sono stati respinti negli alloggiamenti, poi attaccati con estrema violenza dagli eserciti consolari,
sono caduti in loro potere. Settemila e trecento nemici sono rimasti uccisi e oltre duemila fatti
prigionieri. Il duce al suo rientro a stento riesce ad evitare la cattura.

LUCIO VOLUMNIO SCONFIGGE I SANNITI


Tuttavia questo scacco non scoraggia EGNAZIO GELLIO. Poiché Fabio e Decio, terminato il loro
proconsolato, sono tornati a Roma, e VOLUNNIO si trova in Etruria lasciando sguarnito di truppe il
Sannio, Gellio ordina che un nuovo esercito sia allestito in patria; e n'assume il comando STAJO
MINACIO, il quale, attraverso il paese dei Vestini, scende nella Campania e nel territorio Falerno,
razziandolo.Appresa la novità, a marce forzate, con il suo esercito torna il console VOLUMNIO
verso il Sannio e non appena entra nel territorio campano gli si mostrano le testimonianze dei
saccheggi. Per mezzo di spie e di prigionieri apprende che un esercito sannitico, ricco di bottino
fatto in Campania, di ritorno nel Sannio è accampato sul Volturno; decide subito di mettersi in
marcia verso quello e di sorprenderlo.Favorito dalle tenebre si avvicina ai Sanniti; qui apprende che
le bandiere e il meglio degli armati nemici sono partiti da poco e che il resto dell'esercito che ha con
sé il bottino, lascerà il campo prima dell'alba. Le informazioni sono esatte. Non è ancora l'alba
quando in gran disordine inizia la partenza del nemico. Non c' è miglior momento per assalirlo.
L'assalto è sferrato con così estrema violenza che nella confusione, numerosi Campani fatti
prigionieri dai Sanniti nelle precedenti scorrerie, riescono a liberarsi e in un baleno tutti riuniti,
essendo dentro il campo nemico, riescono a catturare STAJO MINACIO che sotto la minaccia di
ucciderlo è costretto ad impartire ordini di resa.Le schiere nemiche, partite durante la notte,
informate degli avvenimenti, tornano indietro, ma là battaglia è ormai perduta; tutta la preda è
caduta in mano dei vincitori, trenta bandiere, quattro tribuni militari e duemila e cinquecento uomini
sono prigionieri e altri seimila giacciono morti nel campo.

BATTAGLIA DI SENTINO (295 a. C.)

Questa vittoria comunque non tranquillizza Roma, allarmata sia dai preparativi che i nemici fanno
in Toscana e sia dalle informazioni che da quella regione fornisce Appio Claudio. Gli Umbri,
infatti, hanno preso le armi, e lo stesso hanno fatto i Galli.Mai Roma ha avuto tanti nemici contro di
sé ed è necessario ricorrere a misure eccezionali. Il consolato di CLAUDIO e VOLUNNIO è al suo
termine. Occorre che i nuovi consoli siano i migliori capitani di cui Roma disponga.
Chi più valoroso, più prudente, più esperto nelle armi di Fabio e di Decio? I due famosi generali
sono assunti al consolato e questi chiamano sotto, le bandiere Romani e Latini; circa novantamila
uomini sono ripartiti in cinque eserciti, al comando dei due consoli e dei tre vicepretori LUCIO
SCIPIONE, GNEO FULVIO e LUCIO POSTUMIO MEGILLO.QUINTO FABIO corre in Toscana
per rendersi conto personalmente della situazione e vi rimane per qualche mese, poi, lasciato a
presidio di Chiusi LUCIO SCIPIONE con due legioni, torna a Roma.Verso Chiusi intanto si
dirigono i Galli e SCIPIONE, stimando svantaggioso attendere nel campo un nemico infinitamente
superiore di numero, conduce le sue legioni verso un colle che sorge tra gli alloggiamenti e la città,
ma nello spostamento sorpreso dai Galli durante il cammino, ha l'esercito interamente distrutto.Altri
raccontano in modo diverso quest'avvenimento, scrivendo che fu il legato LUCIO MANLIO,
inviato con un distaccamento in cerca di vettovaglie, ad esser sorpreso e battuto e che, accorso
Scipione, questi poi sconfisse i nemici.Ma questo è un episodio che non ha peso nella grande
guerra. La parola decisiva sarà detta fra poco a Sentino. Qui si sono raccolte le truppe dei popoli
coalizzati, che si fanno ascendere a circa centomila uomini; loro duce supremo è GELLIO
EGNAZIO.Verso Sentino marciano FABIO e DECIO, ma non hanno tutte le forze mobilitate; gli
eserciti dei vicepretori Fulvio e Postumio sono stati lasciati, come riserva e guardia della via di
Roma, presso Faleria. A quattro miglia dal nemico FABIO pone il campo romano e solo allora si
accorge della superiorità numerica degli avversari. La vecchia "volpe", non perde la sua freddezza,
e cerca con uno stratagemma di pareggiare le forze. Ordina a FULVIO e a POSTUMIO con una
parte dell'esercito di marciare verso Chiusi, devastando, al passaggio, il territorio etrusco. Lo
stratagemma riesce: gli Etruschi abbandonano gli alleati e corrono a difendere le loro terre, invase e
saccheggiate dalle truppe, romane.Allora Fabio incita alla battaglia i nemici e la battaglia avviene il
terzo giorno dalla partenza degli Etruschi. Da una parte e dall'altra i due avversari si dispongono in
ordine di combattimento: i Galli formano l'ala destra dello schieramento nemico, i Sanniti e gli
Umbri la sinistra. Contro i primi sta l'esercito di DECIO MURE, contro gli altri quello di QUINTO
FABIO MASSIMO.Prima che il combattimento abbia inizio, avviene un fatto che dai Romani è
interpretato come segno di propizio augurio: una cerva è inseguita da un lupo, e, cercando rifugio
verso i monti, passa in mezzo tra le opposte schiere. Qui la cerva, avvicinandosi ai Galli, è uccisa da
questi a colpi di saetta; il lupo invece, andando verso i Romani, riceve da questi il passo libero.
Un soldato romano grida: "La fuga e la morte sono dalla parte dove uccisa giace la fiera sacra a
Diana; il lupo, sacro a Marte, ci annunzia che la salvezza sarà con noi e ci ammonisce di
ricordarci del dio, nostro progenitore".Il grido fu come un segnale di inizio della battaglia che,
infatti, si scatena su tutto il fronte.

IL SACRIFICIO DI DECIO MURE

QUINTO FABIO ordina che le sue legioni si difendano solo, in modo da lasciare che il nemico si
logori e si stanchi assalendo. L'accorto generale vuole prolungare più possibile la battaglia onde
evitare di logorare le proprie truppe per lanciarle poi decisamente contro i Sanniti e gli Umbri
quando questi sono prostrati dalla fatica. PUBLIO DECIO, al contrario, giovane ed irruente,
lasciandosi vincere dalla foga e dall'ardore, scaglia furiosamente le sue legioni contro i Galli e
poiché gli sembra che la fanteria non assalga con l'impeto con cui egli vorrebbe che si combattesse,
fa entrare in azione la cavalleria, e lui stesso, con un manipolo di valorosi cavalieri, fa prodezze
inaudite sulla prima linea.

Due volte mettono in rotta la cavalleria nemica e si spingono arditamente in mezzo ai pedoni e li
avrebbero senza dubbio sbaragliati se non gli fossero venuti incontro i carri da guerra dei Galli,
mezzi mai visti prima d'allora dai Romani, i cui cavalli, spaventati dallo frastuono delle ruote, si
irritano, si imbizzarriscono, indietreggiano senza più il controllo del cavaliere, mettendo in
disordine la stessa retrostante fanteria. E' la rotta. I cavalieri e i fanti dell'esercito nemico intanto
incalzano, perfino increduli di quella facile vittoria. Invano DECIO MURE va in giro a rivolgere a
suoi incitamenti per la battaglia; più nessuno gli bada. Allora si ricorda del padre, che al fiume
Veseri -come abbiamo ricordato noi nelle precedenti pagine- aveva fatto sacrificio della propria vita
per salvare l'esercito vacillante. Chiama il pontefice MARCO LIVIO e davanti a lui pronuncia la
formula rituale e, votando se stesso e i nemici alla madre Terra ed agli dèi Infernali, spronato il
cavallo, si lancia disperatamente nel folto delle schiere galliche, dove, colpito da innumerevoli
dardi, squarciato il corpo da numerose ferite, finisce la sua corsa stramazzando al suolo.Il sacrificio
del console non è del tutto vano. Stimolati dall'esempio eroico del loro capo, aiutati dalla
retroguardia giunta con Cornelio Scipione e Cajo Marcio al soccorso, i Romani tornano alla
battaglia e prima tempestano di dardi e giavellotti la fronte nemica, poi come una furia piombano
addosso ai Galli e prendono in un baleno il sopravvento su truppe che ormai sono stanche.La lotta
non è finita, ma manca pochissimo al suo termine, perché quello è il momento che aspettava l'astuto
Quinto Fabio. Vedendo quella debole difesa, intuito che i Sanniti e gli Umbri sono stanchi, il
vecchio lancia all'assalto tutte le sue riserve fresche, ordina alla cavalleria capuana di aggirare i
Galli e le manda dietro, di rincalzo, i principi della terza legione anche loro freschissimi.La
moltitudine nemica non resiste, vacilla, cede, fugge verso gli accampamenti, si fa una ressa
indescrivibile intorno alle porte, troppo strette per dare passaggio a tanta gente. GELLIO
EGNAZIO tenta di frenare l'impeto romano davanti gli steccati, facendo un'ultima resistenza, ma
non resiste neppure lui, e mentre eroicamente combatte, il duce cade ucciso.La disfatta degli eserciti
alleati è completa: 30.000 nemici uccisi giacciono sul terreno e più di 8.000 sono fatti prigionieri;
ma anche dalla parte romana le perdite sono molto gravi, che TITO LIVIO fa ascendere a 8.200
morti.Il giorno dopo imponenti funerali sono tributati al console DECIO MURO.Nello stesso
giorno i resti dell'esercito sannitico, fuggendo attraverso il territorio dei Peligni, sono da questi
assaliti e lasciano lungo il percorso oltre 1.000 morti. Nei successivi giorni, gli Etruschi, affrontati
dalle truppe di GNEO FULVIO, subiscono presso Chiusi una grave sconfitta e lasciano sul campo
3.000 morti e nelle mani dei Romani venti bandiere; correva l'anno di Roma (295 a. C.).

PACE CON L'ETRURIA - LA BATTAGLIA DI LUCERIA

Dopo la sconfitta di Sentino si sciolse la confederazione dei quattro popoli nemici di Roma.
In Etruria la guerra ebbe qualche ripresa, ma dai risultati poco efficaci per non dire disastrosi; oltre
che i cittadini, nelle stesse truppe la voglia di combattere era di molto scemata e non era questa una
buona garanzia per coloro che volevano ad ogni costo condurre scellerate operazioni belliche, senza
però esserne capaci, pur potendo contare - come abbiamo visto a Sentino- su oltre centomila
uomini, che erano tali, ma non soldati; spesso erano civili costretti a fare il combattente senza
averne le capacità oltre che la volontà necessaria.Per prima fu Perugia che pagò le spese di questa
inefficienza e passività diffusa. Le sue milizie mandate al macello, furono, infatti, sbaragliate in un
istante, dallo scaltro QUINTO FABIO ed ebbero 4.500 e cinquecento morti e circa 2.000 prigionieri
che furono - per non restare senza necessari e operosi cittadini- poi riscattati pagando 310 assi
ciascuno. Poi venne la volta di Volsinio che, combattuta dal console POSTUMIO, perdette oltre
2.000 uomini, e di Russelle che fu costretta alla resa e si ebbe il territorio saccheggiato.Esausta,
l'Etruria chiese a Roma l'anno dopo, nel (294 a. C.) la pace per quarant'anni e le principali città
Volsinio, Perugia ed Arezzo, furono obbligate a pagare cinquantamila assi ciascuna come indennità
di guerra ed a ricevere dentro le loro mura e rifornire di viveri e vesti le guarnigioni romane.Il
Sannio invece non si diede per vinto.

Radunato un esercito, lo mise in marcia contro il pretore APPIO CLAUDIO e il proconsole


VOLUNNIO; ma la sorte piuttosto ovvia gli fu contraria e il valore spiegato in battaglia non fu
compensato dalla dea fortuna. 16.000 Sanniti perirono ed oltre 2.000 furono catturati.Benché
disfatto, il fiero popolo ha ancora la forza di mettere in campo tre eserciti. Con uno intende
custodire i confini della regione, con il secondo tentar la fortuna in Etruria, con il terzo invadere la
Campania. Contro quest'ultimo fu mandato il console ATTILIO REGOLO che incontrò il nemico in
una località infame per ingaggiare una battaglia e poco mancò di finire soccombente.Era una notte
di gran nebbia e le guardie romane facevano scarsa vigilanza alle porte del campo, quando i Sanniti,
prima che spuntasse l'alba, scatenarono l'assalto e riuscirono a penetrare nel recinto addirittura fino
al padiglione del questore LUCIO OPIMIO PANSA che uccisero. Nella confusione che seguì il
console non perse il sangue freddo, e, dato l'allarme, riuscì opporre al nemico un'energica difesa e a
ricacciarlo.Però dalla critica posizione in cui l'esercito di Attilio si era venuto a trovare, ci pensò il
collega POSTUMIO MEGILLO, il quale, poi divisosi da Regolo, dopo un accanito combattimento,
costrinse alla resa Milonia e, senza colpo ferire, Ferentino ed altre città, che erano state abbandonate
dai loro abitanti.

LUCERIA

MARCO ATTILIO REGOLO con le sue legioni passò in Apulia e si scontrò al confine del
territorio di Luceria con un esercito sannitico. La battaglia fu tremenda e le perdite romane
superarono quelle del nemico. Alla stanchezza della lotta subentrò nelle truppe di Regolo lo
sconforto e se, durante la notte o sul far del mattino, i Sanniti avessero assalito il campo non
avrebbero avuto certamente difficoltà a conquistarlo. Per fortuna anche il nemico era stanco e non
meno sfiduciato di quello romano e, giunto il giorno, anziché riprendere il combattimento, avevano
deciso di abbandonare il campo per rientrare nel Sannio. Il console vedendo quel movimento pensò
che i Sanniti volessero assalire l'accampamento romano e con le preghiere e con le minacce riuscì a
far riprendere le armi agli stanchi e svogliati soldati per schierarli contro il nemico.Benché né gli
uni né gli altri avessero voglia di tornare a combattere, spinti dai loro comandanti, s'ingaggiò
nuovamente la battaglia e stava questa per volgere in favore dei Sanniti con i Romani che già
ripiegavano verso il campo, quando Regolo, fatto voto a Giove Statore di edificargli un tempio se la
vittoria fosse stata delle armi della repubblica, con un manipolo di cavalieri, prima riunì i soldati
che tentavano di rientrare negli alloggiamenti, poi li persuase che quello era il momento migliore
per attaccare; infine insieme sferrarono l'attacco decisivo con una vittoria strepitosa.La giornata fu
più sanguinosa della precedente, ma questa volta la disfatta del nemico fu completa, avendo lasciati
sul terreno circa 5.000 morti. Oltre 7.000 furono i prigionieri che Regolo fece poi passar nudi sotto
il giogo.Dopo questa vittoria un'altra molto facile la conseguì l'esercito di Regolo, che, ritornando
da Luceria, imbattutosi in un esercito carico di bottino fatto nel territorio di Interamnae, lo attaccò,
lo fece a pezzi e recuperò anche il bottino.

BATTAGLIA DI AQUILONIA(293 a. C.)

Nell'anno (293 a. C.) i Sanniti tentano con un grande sforzo la riscossa.Tutti gli uomini validi
furono chiamati alle armi e si minacciò di morte coloro che non rispondevano all'appello della
patria. Ma il Sannio rispose generosamente non perché c'era la minaccia, ma solo perché si trattava
di salvare l'onore della nobile e sfortunata nazione. Quarantamila uomini si concentrano ad
Aquilonia (Lacedogna). Qui, in un recinto di legno coperto di tela, il sacerdote OVIO PACCIO,
compie il sacrificio secondo l'antico rito sannitico chiamando le divinità a difesa della patria e della
stirpe. Il duce supremo poi chiama, ad un per volta, dentro il recinto gli uomini più nobili per
sangue e per imprese e singolarmente li conduce davanti all'altare. Presso l'ara innalzata agli dèi
giacciono sanguinanti gli animali immolati e ritti stanno attorno i centurioni con le spade sguainate.

I soldati pronunciano ad uno ad uno, un'orribile formula, invocando che sulla propria vita e su
quella della loro famiglia e della loro stirpe cada la maledizione se non seguono ciecamente i loro
capi se fuggono, o se lasciano impuniti quelli che di faccia al nemico voltano le spalle.Sedicimila
uomini fanno questo giuramento solenne e con loro si forma una legione disperata di guerrieri votati
alla morte, la cosiddetta legione "linteata". Le loro vesti sono bianche, di lino, impennacchiati gli
elmi e dorate le armature dei legionari, perché si distinguano dai rimanenti soldati. Contro il Sannio
in armi Roma allestisce due poderosi eserciti. Li comandano SPURIO CARVILIO e LUCIO
PAPIRIO CURSORE, il figlio del vincitore di Longula. Marciando verso il Sannio, il primo
conquista Amiterno, il secondo costringe alla resa Duronia; saccheggiando lungo la via, il primo
giunge a Cominio che cinge d'assedio l'altro ad Aquilonia, in mano all'esercito Sannita.
Venti miglia separano i due consoli, e giorno e notte sono percorse da messi che mantengono il
contatto tra i due campi romani.Presso Aquilonia, per molti giorni si scaramuccia soltanto, ma
infine si arriva alla giornata della grande battaglia, desiderata dal duce, desiderata dai capitani, dai
legionari, dagli auguri. E' tanto il desiderio dell'áugure "pullario" che, per affrettare il
combattimento, senza pigliare gli auguri, li annuncia favorevoli. Si schiera a battaglia l'esercito
romano: LUCIO VOLUNNIO comanda l'ala destra, LUCIO SCIPIONE la sinistra, CAJO
CEDEZIO e TREBONIO la cavalleria. SPURIO NAUZIO, escogita un singolare stratagemma;
privati delle bardature i somari del carreggio li conduce di nascosto sopra un'altura alle spalle del
nemico e, a combattimento inoltrato, farà scendere giù per la china gli animali sollevando un fitto
polverone come se si trattasse di un terribile grande esercito al galoppo.Davanti, l'esercito nemico
luccicava d'oro e d'argento, svolazzavano i pennacchi degli elmi, e le candide vesti della legione
linteata formavano una scena stupenda.Si aspettava più solo che sia da una parte sia dall'altra che i
capi impartissero il segnale dell'inizio della battaglia; ed ecco che davanti al console Papirio, come
propizio augurio, andò a posarsi e a gracchiare un corvo. Fu a quel punto che suonarono le trombe e
dai legionari si levò il grido della battaglia.La battaglia inizia con violenza inaudita; il desiderio di
combattere o l'ira spingono i Romani, assetati di sangue nemico; mentre gran parte dei Sanniti erano
costretti più dal giuramento a resistere che non ad assalire ed essendo abituati ad essere vinti non
avrebbero retto al primo scontro dei Romani se una potente paura non li avesse trattenuti dal
fuggire, avendo sempre davanti agli occhi l'orribile rito del giuramento, l'altare circondato di vittime
e nella memoria le maledizioni invocate sulla loro vita, su quella della famiglia e sulla stirpe. Ed
infatti, i bianchi linteati vincolati dal giuramento, non indietreggiano di un solo passo, nemmeno
quando i legionari di Roma irrompono su di loro sciabolando a destra e a manca come dei
seminatori di morte. Ed ecco, a un tratto, alle spalle del nemico sorge un sordo rumore come di
cavalleria che avanza al galoppo e un nugolo fitto di polvere si alza al cielo. "È l'esercito di
SPURIO CARVILIO, che, vinto Cominio, viene in nostro aiuto", urla Papirio ai suoi. Era invece lo
stratagemma di SPURIO NAUZIO, e il polverone era quello dei somari al galoppo giù per la china
alle spalle del nemico. I legionari e i Sanniti hanno udito il grido del console; i primi raddoppiano
gli sforzi, i secondi sbigottiti, perdono vigore nella resistenza. A questo punto Papirio alza una
lancia al cielo, è il segnale convenuto; si aprono le schiere romane e attraverso il varco da dietro
irrompe la cavalleria che cozza furiosamente contro il baluardo vivente dei linteati, poi subito
seguita dalla fanteria.Ora la battaglia ha il suo tragico epilogo. La disfatta dei difensori del Sannio è
irreparabile. I pedoni superstiti sono respinti agli alloggiamenti, i nobili e i cavalieri sanniti fuggono
verso Boviano; e gli uni e gli altri sono inseguiti dai vincitori; ma gli steccati del campo sono un
debole riparo per i vinti, travolti e superati dalle schiere di Volumnio per i Sanniti non c'è più
scampo.Scipione, oltrepassato il campo con un distaccamento dei suoi, giunge sotto le mura di
Aquilonia che non può fare altro che arrendersi.Trentamila Sanniti giacciono sul campo e altre
migliaia fatti prigionieri.Né questa è la sola sconfitta di quella giornata. All'alba l'importante città
Cominio è stata attaccata da SPURIO CARVILIO e, dopo una resistenza accanita e dove sono
caduti quattromila uomini, si è arresa a discrezione con tutta la guarnigione di quindicimila Sanniti.
Aquilonia e Cominio sono prima saccheggiate, poi ad entrambe è appiccato il fuoco; nello stesso
giorno le due città sono ridotte in cenere.

Più tardi anche Sepino, Volana, Palumbino ed Erculaneo cadono nelle mani degli eserciti consolari.
In un solo anno, nella disastrosa guerra i Sanniti hanno lasciato sul terreno oltre cinquantamila morti
ed hanno avuto più di ottantamila prigionieri, e gran parte della ricchezza del Sannio è stata preda
delle legioni romane. Nel trionfo, che più tardi celebrerà a Roma, Papirio porterà in moneta due
milioni e cinquecentotremila assi, tratti dal ricavato dei prigionieri venduti ai mercanti, e mille e
cento trenta libbre fra oro e argento.

FINE DELLE GUERRE SANNITICHE

Nelle condizioni in cui era ridotto, pareva che il Sannio non dovesse più rialzarsi e invece un anno
dopo nel, (292 a.C.) è di nuovo in armi; ma è l'ultimo sforzo, vano ed eroico insieme.Capo delle
truppe Sannite è PONZIO TELESINO, che comincia la lotta con una vittoria. Nella Campania gli si
offre l'occasione di sorprendere l'esercito del console FABIO MASSIMO GURGITE, figlio del
grande Fabio Rulliano, e di sconfiggerlo. Ma a vendicare la sconfitta delle legioni romane e a
cancellare l'onta recata al glorioso nome dei Fabii, parte il vecchio QUINTO FABIO, che in una
memorabile battaglia, non sappiamo in quale luogo combattuta, sconfigge i Sanniti, i quali lasciano
migliaia di morti sul campo e fra le mani dei Romani quattromila prigionieri.Fra questi è PONZIO
TELESINO che, carico di catene, segue a Roma il carro trionfale di RULLIANO, poi terminata la
cerimonia è messo a morte.L'anno seguente, nel (291 a. C.) il console L, POSTUMIO MEGELLO,
conquista Venusia, nell'Apulia, e vi si stabilisce una colonia di ventimila uomini. E' l'ultimo atto!Il
Sannio ha finito di lottare. Dopo cinquant'anni circa di ostinate guerre, l'anno dopo, nel (290 a.C.) si
arriva alla pace definitiva con Roma e mette la parola fine alla sua indipendenza.Tuttavia alcuni
Sanniti irriducibili, continueranno a opporsi ai Romani, partecipando a tutte le coalizioni militari
che saranno promosse contro Roma. Non sono grandi battaglie storiche, ma ne fa fede la menzione
di trionfi registrati dai Fasti ancora per gli anni 279, 276, 275, 273, e 272 a.C.Con la fine della terza
guerra sannitica, sono ormai sotto il dominio romano, oltre al Lazio, il Sannio, l'Etruria, l'Umbria, la
Sabina e la Campania.Ma nominando per ultima la Campania, che fin qui abbiamo menzionato nel
conflitto dei Sanniti con Roma, nel frattempo altri avvenimenti erano avvenuti nell'intero Meridione
e in Sicilia; con i Greci e i Cartaginesi.

GUERRA CONTRO I SABINI (290 a. C.)


I Sabini, quest'antica popolazione italica centrale, assai affine ai Sanniti (la loro capitale era Reale -od.
Rieti), una parte si era stanziata sul colle Quirinale fin dalle origini di Roma, poi (leggenda o no del
"ratto delle Sabine") si era fusa con i Romani. Ma il proprio territorio nei successivi cinque secoli era
rimasto sempre indipendente, non era stato mai sottomesso, pur essendo i Sabini alleati dei Romani;
ciononostante nelle guerre che Roma aveva dovuto sostenere contro il Sannio non solo non si erano
schierati in suo favore, ma non avevano neppure - specialmente nell'ultima guerra - mantenuta una
bonaria neutralità.Anzi, sia per i vincoli di parentela che li stringevano al Sannio con il quale avevano in
comune la stirpe, sia perché pensassero che Roma dovesse soccombere nell'impari lotta contro quattro
bellicosi popoli, sia perché, costretti dalla posizione geografica del loro paese, non potevano o, non
fidandosi delle proprie forze, non volevano impedire che gli eserciti sannitici passassero attraverso il
loro territorio, nelle ultime -per Roma- decisive guerre, avevano lasciato che le truppe del Sannio si
trasferissero nell'Etruria attraversando la Sabina.Roma tutto questo lo sapeva benissimo, ma, impegnata
com'era contro tanti nemici, non voleva certo farsene un altro vicinissimo, quasi alle porte della città, e
aveva aspettato per protestare, che la guerra sannitica terminasse. Poi sarebbe venuto in qualche modo il
castigo.Non aspettarono invece i Sabini che Roma alla fine avrebbe chiesto a loro conto della violazione
dell'alleanza, e nel 464 (290 a.C.) e imbracciarono le armi ribellandosi alla potente vicina e, poiché
presto giunse la notizia che un esercito consolare avanzava, anziché muovere ad incontrarlo con tutte le
forze che avevano riunito, pensarono meglio di frazionarle presidiando i punti più deboli e importanti
della regione (Reale (Rieti). Nursia (Norcia), Amiternum, Tremula Mutusca ecc.).

L'esercito che da Roma era stato inviato contro i Sabini, guidato dal console MANLIO CURIO
DENTATO, quest'ingenuo piano di difesa messo in opera dai Sabini, invece di metterlo in difficoltà, gli
facilitò enormemente il compito.Se un esercito numeroso e compatto, guidato da un solo capo, poteva
lottare contro l'invasore con probabilità di successo, niente potevano sperare i Sabini di ottenere tanti
piccoli distaccamenti di fronte a delle legioni forti, agguerrite, compatte e con capitani che provenivano
da una scuola che aveva alle spalle una lunga esperienza di guerra, di assedi, di strategie.Infatti, il
console assalì una dopo l'altra queste sparse forze sabine sconfiggendole, e in brevissimo tempo,
sottomise al dominio della repubblica tutta la regione.Celebri sono rimaste le parole di CURIO
DENTATO quando aveva annunciato al Senato i risultati ottenuti: "…ho preso un territorio così vasto
da rimanere deserto se non avessi insieme fatti tanti prigionieri; ho catturato un numero così grande di
uomini che perirebbero di fame se non avessi preso tanto terreno".Roma, dopo la spedizione vittoriosa
trattò molto duramente i vinti; offrì loro, è vero, la cittadinanza, ma li escluse però dai diritti civili e
politici (sine suffragio), inoltre sottrasse tutto il loro l'agro pubblico che, in lotti di sette jugeri l'uno,
distribuì ai più poveri fra i plebei e come il solito anche a quelli non poveri, o che sottrassero poi i
terreni dopo che i poveri avevano contratto con loro prestiti a usura.Al console; il Senato, in premio di
avere ottenuto così magnifici risultati, assegnò cinquanta jugeri dell'agro sabino, ma Curio Dentato non
ne volle accettare che sette, come tutti gli altri, dando esempio mirabile di onestà.Un altro fatto ci
mostra quanto grande era in Curio il sentimento di onestà. Per ingraziarselo ed indurlo ad intercedere
presso la repubblica perché le condizioni di pace fossero miti, i Sabini cercarono di corromperlo
mandandogli, per mezzo di ambasciatori, una somma rilevante. Sdegnosamente rifiutando, Curio
Dentato rispose che "come le armi dei Sabini non avevano saputo vincerlo, così non poteva l'oro Sabino
piegarlo, e che amava di più rendere ricca e grande la patria che non se stesso" .La sottomissione dei
Sabini fu una delle più facili vittorie, ottenuta senza sacrifici, con un vantaggio enorme, e in una sola
guerra, che guerra non era, semmai solo un'occupazione punitiva.

QUARTA SECESSIONE DELLA PLEBE


Alla guerra sabinica, a Roma, successe un periodo di pace di oltre un lustro con i soliti nemici esterni,
ma questa pace fu turbata da malumori interni, che divennero così intensi da provocare un'aperta
ribellione.Nonostante le enormi prede fatte nelle guerre precedenti, le spese sostenute per mantenere
tanti eserciti avevano svuotato le casse dello Stato. Si ricorse allora a tributi, che gravarono
specialmente sulla parte più povera della plebe ("infima plebs"- 293 a.C.), la quale non nascose il suo
malcontento. Le condizioni in cui versava la plebe erano molto tristi; più di una carestia aveva costretto
i plebei a contrarre debiti con i ricchi e, l'usura dei creditori infuriando peggio del flagello, i tribuni
avevano alzato la voce invocando severi provvedimenti in favore dei miseri. Ma invano: i senatori e i
consoli (che facevano parte della categoria dei ricchi) si erano sempre opposti.Quest'insopportabile stato
di cose spinse la plebe alla rivolta. Questa avvenne nel 467 (287 a.C.). I ribelli, anziché sull'Aventino,
questa volta si accamparono minacciosamente sul Gianicolo. Fu tale la preoccupazione prodotta dalla
sedizione popolare, che il Senato ricorse (come se si trattasse di una grave guerra esterna) alla dittatura,
ma ebbe la furbizia, da creare QUINTO ORTENSIO, che era di famiglia plebea, ma era pur sempre
legato al regime. Il dittatore pensò prima d'ogni altra cosa di calmare gli animi degli insorti e fece
credere che la repubblica fosse minacciata da eserciti nemici. I plebei, in cui non si era mai smentito
l'amore per la patria, si misero a disposizione del magistrato e si dichiararono pronti a marciare contro il
nemico. Ottenuto questo, Quinto Ortensio indusse la plebe della ribellione a deporre le armi e promise
di non punire i ribelli e di interessarsi in favore dei debitori.La calma ritornò ben presto e il dittatore
propose e fece approvare una legge con la quale si conferiva valore legale, senza alcuna restrizione, ai
plebisciti.Con questa, che dal suo autore si chiamò "Legge ortensia", la giurisdizione del Senato, al
quale era riservato il diritto di sanzionare i plebisciti cessava, e la plebe ( "concilia plebis") poteva
chiedere, con sicurezza di ottenere, quello che prima della secessione le era stato negato e cioè
l'alleviamento dei debiti. La cosa era più formale che sostanziale.

GUERRA CONTRO I GALLI E GLI ETRUSCHI


Roma tuttavia per quattro anni ebbe pace fino al (285 a.C.) nel quale anno dovette riprendere le armi e
far marciare le sue legioni verso l'Etruria. Di questa regione soltanto Arezzo aveva interesse a mantenere
i vincoli d'amicizia che la stringevano a Roma, questo perché solo la potenza della repubblica romana
poteva salvarla dalla cupidigia dei vicini Galli; le altre città etrusche invece non avevano abbandonato
l'idea, ormai diventata atavica, della riscossa e di una rivincita contro l'odiata nemica del sud
dell'Etruria, e non guardavano perciò di buon occhio la consorella.

Battaglia di Arrentium (Arezzo) 285 a.C


Roma tentò di dare ai Senoni uma lezione per il loro sostegno ai Sanniti, ma questi aiutati dai Boi,
Insubri, Lingoni e Gesati, radunanarono un esercito di 50.000 fanti e 20.000 cavalieri e assediarono
Arezzo. Il console Lucio Cecilio Metelo fu inviato con un esercito consolare (20.000 soldati) in aiuto
della città. Sotto le mura di Arezzo si svolge una terribile battaglia. I Galli uscirono ad affrontare
Metelo con circa 30.000 guerrieri e lo sconfissero, massacrando lo stesso Metelo e 7 tribuni militari, e
circa 13.5000 legionari, le vittime galliche furono stimate in 5.500. Ci sono pochissimi dati sulla
battaglia, ma è molto probabile che i Galli abbiano teso loro una trappola. La notizia di una simile
disfatta, produce a Roma una profonda impressione. Molti sono i prigionieri caduti nelle mani dei Galli
e si sa quanto grande sia la crudeltà di questo popolo. Prima ancora di pensare a vendicare lo scacco
militare subito, il Senato pensa alla sorte dei prigionieri e manda ai Senoni alcuni ambasciatori perché
trattino il riscatto. I Galli, in quest'occasione, non smentirono la fama della loro barbarie: gli
ambasciatori furono presi e trucidati. Il dolore della sconfitta di Arezzo fu reso più intenso dalla notizia
dell'uccisione degli ambasciatori. Lo sdegno della cittadinanza non poteva esser calmato che da
un'esemplare vendetta, che era anche orgogliosamente voluta dalla dignità offesa della repubblica. Il
console PUBLIO CORNELIO DOLABELLA fu scelto come capo della spedizione punitiva e gli furono
affidati pieni poteri. Dolabella ritenne opportuno non condurre le legioni attraverso l'Etruria, né ritenne
di andare a combattere i Galli ad Arezzo. Ad un nemico che si era macchiato di così efferato delitto, non
si doveva offrire una leale, onorevole battaglia, ma mettere in pratica la legge del taglione. Il console
prese la via della Sabina e del Piceno, e, senza che al nemico giungesse la notizia della marcia
dell'esercito romano, piombò nel paese dei Senoni. I SENONI, facevano parte di un'antica popolazione
Celtica, insediatasi nel V secolo ca. sulla costa adriatica tra Rimini e Ancona. Altri Senoni rimasti in
Gallia erano invece stanziati lungo la Senna (ricordiamo che Galli era il nome latino dato dai Romani ai
Celti). La regione fu messa a ferro e a fuoco, campagne e paesi furono saccheggiati e devastati.
Dove passavano le legioni di Roma, se prima esisteva il rumore e la vita delle genti, dopo vi piombava il
silenzio e la desolazione. Occhio per occhio, dente per dente! Gli uomini, che non riuscirono a salvarsi
con la fuga, furono spietatamente uccisi, le donne e i fanciulli fatti schiavi. La vendetta romana fu
inesorabile. Giunta ad Arezzo la notizia che la loro patria era stata invasa ed era sotto il sistematico
sterminio, i Galli rimossero l'assedio e si affrettarono verso il loro paese. Le vittorie riportate sui Senoni
e la devastazione del loro paese procurarono a Roma, anziché la pace, altri nemici. I Galli BOI,
confinanti a Sud verso Rimini, con i Senoni, videro in queste imprese belliche di Roma una minaccia
contro la loro regione. I Galli Boi, pure loro erano una popolazione Celtica, provenienti da quella
regione tuttora chiamata Boemia. Una parte emigrò a Bordeaux, un'altra intorno al 400 a.C. scese in
Italia occupando il territorio fra il Po e l'Appennino, comprendente l'antica città Etrusca di Felsina che
divenne poi la loro capitale con il nome di Bonomia (Bologna).

Battaglia del lago Vadimone (283 a. C.)

Questi si presentarono in battaglia e furono sconfitti ed espulsi dalla loro terra, in cui i romani
stabilirono la colonia di Sena Gallica, la prima ad essere fondata sul territorio gallico. Questa
vittoria allarmò così tanto i Boi che temettero di condividere la stessa sorte dei Senoni e invitarono
gli Etruschi a unirsi a loro.
Le loro forze combinate marciarono in massa contro i romani e furono sconfitte in modo
schiacciante nella battaglia del lago Vadimone a circa 55 km a nord di Roma dal nuovo console
Publio Cornelio Dolabella. I Boi e gli Etruschi, tuttavia, riuscirono a sollevare un'altra forza l'anno
successivo, facendo pressioni sui giovani affinché si mobilitassero. Ma quando furono nuovamente
sconfitti dai Romani, i Galli chiesero un accordo di pace, che fu concesso. Quell'anno medesimo,
sul litorale adriatico, a sud della foce del fiume Sena, i Romani inviarono una forte colonia
fondando Sena Gallica (Senigallia), che da quel momento fu la sentinella avanzata delle conquista
verso nord-est; con il nome che era tutto un programma.

BATTAGLIA di POPULONIA (282 a.C.)


Decisi a difendere nella loro regione la propria indipendenza, raccolsero le schiere superstiti dei Senoni
e, stretta alleanza con gli Etruschi, presero la via di Roma. Fu affidato ancora a CORNELIO
DOLABELLA l'incarico di arginare l'avanzata dei nemici e di ricacciarli. Accanto a lui fu l'altro
console, GNEO DOMIZIO CALVINO. Le legioni romane incontrarono i Galli e gli Etruschi presso il
lago Vadimone, dove Fabio aveva, circa quindici anni prima, riportata una memorabile vittoria, e li
attaccarono violentemente. Nonostante il nemico si battesse con valore e con un accanimento disperato,
quel gíorno il violento impatto dell'esercito romano e fu incontenibile. Di quell'esercito che
superbamente voleva scendere su Roma con il proposito di distruggerla, dopo la battaglia non rimase
che miseri avanzi e a stento molti si salvarono solo dandosi alla fuga. Ciononostante, i Boi e gli Etruschi
non disarmarono e l'anno seguente scesero ancora in campo. Le legioni, che Roma inviò contro di loro,
erano comandate dal console EMILIO PAPO. Il nemico, non fidandosi delle sole sue forze, cercò
d'avere ragione dell'esercito romano con l'insidia, ma l'accorto console non cadde nel tranello che gli era
stato teso e costrinse i Galli-Etruschi a una battaglia in campo aperto. Il combattimento avvenne a
Populonia (Piombino) e i nemici subirono una tale sconfitta al primo attacco, da esser costretti subito a
deporre le armi e arrendersi. I Boi chiesero la pace, la ottennero a buone condizioni e la rispettarono per
circa quarantacinque anni; gli Etruschi, essendo state vinte le città di Volsinio e di Vulci, chiesero pace
pure loro e trovarono i Romani così ben disposti da stringere un trattato di alleanza che ebbe una lunga
durata: circa due secoli.Da questo momento la nazione Etrusca scompare dalla storia come potenza
militare, ma anche il nome "etrusco" cessa di esistere, in breve tempo la regione è romanizzata, e la sua
popolazione, non pensando più alle guerre, rivolge alle arti ed all'industria quasi tutta la sua attività.

Guerre contro Pirro (280 a. C.-275 a. C.)

Busto di Pirro di epoca romana, dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Antefatti
Lasciamo da parte questi, e torniamo ai Greci. Approdati iniziando dagli anni dell'VIII-VII sec.
a.C., si fermarono nei punti migliori del litorale Jonico, Tirrenico ed Adriatico e vi fondarono
numerose colonie, che, ingrandendosi per mezzo di successive immigrazioni dalla madre patria,
fondarono a loro volta altre colonie, ed estesero le loro conquiste, qualche volta guerreggiando, con
le popolazioni indigene.Sorsero, sulle coste dei tre mari, città che in poco volgere d'anni
raggiunsero un alto livello di ricchezza, di civiltà e di potenza. Prime fra queste, Locri, Crotone,
Sibari, Cuma, Caulonia, Metaponto, Siri, Eraclea, Posidonia, Taranto, le quali rivaleggiarono con le
città medesime della Grecia ed attirarono con il loro fascino, con la loro fama, con il clima
dolcissimo delle feconde terre in cui sorgevano, non soltanto i commercianti stranieri, ma filosofi e
poeti di grido, e molti esuli, tutti coloro che la rivoluzionaria politica di Atene o di Sparta, aveva
cacciato dal seno della madre patria.Pitagora, Archiloco, Saffo, Epicarmo, Senofane, Erodoto,
Pindaro vi si recarono e ne magnificarono le meravigliose bellezze; alcuni non vollero nemmeno
più far ritorno alla loro madre patria; e non pochi uomini illustri vi nacquero e le resero famose
queste contrade con la loro arte e la loro dottrina.Zaleuco e Caronda, grandi legislatori del loro
tempo, resero illustrissima la città di Locri; Crotone, la superba città sul fiume Esaro, dalle mura
gigantesche, andò famosa per Pitagora; Taranto vantò il matematico Archita, oltre moda e arte che
anticipa di 2000 anni, l'arte ottocentesca europea. Né soltanto per i grandi ingegni furono illustri le
città della Magna Grecia, ma anche per le industrie che vi fiorivano per i commerci che vi facevano
affluire ricchezze da ogni porto del Mediterraneo, per le feste che vi si celebravano, per l'arte che
aveva saputo innalzarvi teatri vasti e templi maestosi adorni di mirabili sculture; e per le delizie e il
lusso sfrenato che vi era andò famosa la "molle" Sibari.Peccato però che mancasse in tutte le città
greche dell'Italia meridionale l'unità politica; questa mancanza rese effimera la loro potenza e fu la
causa principale della loro rovina. I coloni avevano portato nelle nuove gli ordinamenti politici delle
città da cui provenivano e in Italia erano stati trapiantati i partiti, le istituzioni, i governi della
Grecia, che furono poi le cause di contrasti e di guerre. Guerre tra città e città, tra partito e partito,
per la prevalenza di un paese o di una forma di governo. Una delle guerre che maggiormente influì
sui destini della Magna Grecia, fu quella combattuta tra la democrazia e l'aristocrazia. Scaturì
proprio nella "molle" Sibari la prima scintilla, dove il popolo, insorto contro i ricchi che
sperperavano in piaceri le ricchezze, cacciò cinquecento nobili che furono ospitati poi a Crotone.
Fra Crotone, retta a regime aristocratico, e Sibari, caduta in mano della democrazia, si accese
accanita la guerra che si decise sulle rive del Tronto.

L'esercito crotonese, capitanato da MILONE, sconfisse i nemici e distrusse Sibari dalle fondamenta.
Effimera vittoria dell'aristocrazia perché, ben presto, in quasi tutte le altre città la democrazia,
insorta, ebbe il sopravvento e stabilì il suo predominio.Causa della debolezza delle città greche
furono, oltre che la lotta fra i vari partiti, la quale spesso sacrificò gli interessi della patria (quasi del
tutto dimenticata) la mancanza di solidarietà tra le varie città, gli odi che le tennero divise, le rivalità
che le spinsero l'una contro l'altra; la ricchezza, ottenuta con i commerci, che rese apatici gli abitanti
e ostili o incapaci alla creazione di eserciti propri; cause queste tutte che dovevano rendere un
popolo, forte in origine e civile, facile preda -come vedremo in altri capitolo- delle rapaci aquile
romane.

LA SICILIA

Le colonie greche della Sicilia invece, conseguirono maggior splendore, ebbero più forte vitalità e
maggior peso negli eventi, fino al punto che decisero in modo decisivo i destini di Roma e del
Mediterraneo.Posta nel centro del Mediterraneo, dotata di un clima meraviglioso e di un suolo
fertilissimo, ricca di comodi porti naturali, circondata da mari pescosi, ebbe fin dai tempi più antichi
una parte importantissima nella storia della umana civiltà, attirò nella sua splendida isola, dai tre
continenti popoli di razza diversa, e con l'Africa, con il continente europeo e con l'Asia ebbe intense
relazioni di commercio, oltre che culturali.Siculi, Sicani, Elimi e forse Fenici popolavano l'isola, in
possesso d'una civiltà non indifferente, quando nel secolo VIII a. C., cominciarono a stabilirsi i
primi coloni greci; e non poche e non brevi furono le lotte che questi dovettero sostenere con i fieri
abitatori della Sicilia, prima di potersi affermare ed imporre la propria civiltà.Numerose città
sorsero su tutte le coste e molte nell'interno dell'isolaNasso, Zancle (poi Messana), Leontini, Catana,
, Megara Iblea, Mile, Imera, Selinunte, Agrigento, Gela, Acre, Siracusa (fondata nel 733 a-C. dal
Corinto Archia); queste le principali, ma molte altre scomparvero in seguito dalla storia.
Come nell'Italia meridionale cosi nella Sicilia, manca fra le colonie greche l'unità nazionale; le città
sono rivali tra loro, spinte l'una contro l'altra da odi e da interessi economici e politici contrastanti e,
per giunta, tutte, o quasi, hanno da lottare contro l'elemento indigeno che orgoglioso della sua terra,
non vuole rassegnarsi alla perdita della propria indipendenza.Oltre a questo, in ogni singola città i
partiti si dilaniano tra loro; la democrazia è in perpetua guerra con l'aristocrazia e da questo stato di
cose nascono sommosse, congiure, eccidi, mutamenti di governo, alleanze temporanee e talvolta
ibride di una città con l'altra, rivoluzioni di cui approfittano uomini arditi e spregiudicati per
impadronirsi del potere ed instaurare la tirannide, che lascia tracce sanguinose dietro di sé e produce
altre guerre ed altre rivolte.Ad Agrigento e a Siracusa, che sono le più grandi città dell'isola, periodi
di splendore si avvicendano con periodi di turbolenza, e le rivolte si alternano con la
tirannide.Tristemente famosi sono FALARIDE, ALCMENE, ALCANDRO e TERONE che
dilaniano Agrigento: CLEANDRO, IPPOCRATE e GELONE che tiranneggiano a Gela; TERILLO
che infierisce nella città di Imera.Non tutti i tiranni però si distinsero solamente per la crudeltà del
loro carattere e per il modo spietato con cui trattarono i loro sudditi. C'è fra di loro chi fra i delitti e
le sevizie, fra la durezza e la ferocia ha momenti di bontà e di nobiltà ed opera per la grandezza
della patria.Fra questi è GELONE con il quale Siracusa si mette in prima fila tra le città greche di
Sicilia. Chiamato dalla nobiltà siracusana, che è stata scacciata dalla plebe, Gelone si impadronisce
di Siracusa, la espande, ne moltiplica la popolazione attirandovi coloni, la rende ricca e potente e
unifica sotto il suo scettro gran parte delle colonie greche della zona occidentale dell'isola; mentre
TERONE, suo suocero, amplia lo stato agrigentino.È il secolo in cui sembra che i Greci di Sicilia
stiano per raggiungere l'unità nazionale. Infatti, le città greche dell'isola, salvo pochissime, si
raggruppano intorno a Siracusa ed Agrigento e anche queste due stringono alleanza.Immensa è la
potenza raggiunta da entrambe; nel frattempo Atene, minacciata dai Persiani, chiede aiuto a
Siracusa e questa manda duecento navi, ventiquattromila fanti e duemila cavalieri (da queste cifre,
possiamo immaginare quanta ricchezza circolava, per permettersi il lusso di inviare duecento navi)

Nel 483 a.C. il tiranno di Imera, Terillo, amico di Amilcare Magone, era stato cacciato dalla sua
città dal tiranno Terone di Agrigento. Terillo si rivolse, allora, per aiuti a Cartagine, dando come
ostaggi ad Amilcare per provargli la propria fedeltà i figli del genero Anassilao. I Cartaginesi, forse
di concerto con i Persiani che si apprestavano ad invadere la Grecia, prepararono per 3 anni il più
grande esercito che avessero mai formato, al comando di Amilcare Magone: la tradizione ci
tramanda il numero, quasi sicuramente esagerato, di 300.000 uomini. Probabilmente l'esercito di
Amilcare non contava in realtà più di 30.000 uomini, un numero comunque superiore alle truppe
guidate da Gelone di Siracusa e da Terone di Agrigento (circa 24.000 fanti e 2.000 cavalieri).La
flotta cartaginese invece constava di 200 navi da guerra, proprio come quella di Gelone: la flotta
siracusana era infatti la maggiore del mondo greco dopo quella ateniese. Nella navigazione verso la
Sicilia, tuttavia, Amilcare Magone soffrì la grave perdita della cavalleria a causa delle avverse
condizioni atmosferiche. Sbarcato a Palermo, l'esercito cartaginese si portò nei pressi di Imera, dove
fu pesantemente sconfitto nella battaglia di Imera, in cui lo stesso Amilcare trovò la morte per le
ferite o per il suicidio suggerito dalla vergogna. Questa battaglia costituisce quasi il corrispettivo ad
Occidente della vittoria greca su Salamina. I Persiani di Serse sono costretti ad abbandonare
l'Attica. I Greci imposero ai Cartaginesi il pagamento delle spese di guerra (un'indennità di 2.000
talenti, pari a oltre 50 tonnellate di argento) e la clausola di abbandonare l'uso punico di sacrificare
bambini agli dei. I Cartaginesi di Amilcare furono costretti ad abbandonare la Sicilia per un
settantennio, per dedicarsi all'Africa, pur conservando il possesso della Sicilia occidentale.A
GELONE succede il fratello GERONE, che muove guerra ad Agrigento, e uscitone vincitore, volge
le armi contro gli Etruschi sui quali riporta una grande vittoria navale.Siracusa si libera dalla
tirannide scacciando TRASIBULO, successore di Gerone, e instaurando un governo democratico.
Un periodo di pace e di libertà pare che inizi nella grande città, ma ben presto la guerra è
nuovamente davanti alle sue porte. Gli indigeni dell'isola bandiscono una crociata contro i Greci
usurpatori. DUCEZIO il più famoso capopopolo innalza il vessillo dell'indipendenza nazionale,
espugna Etna, assedia Motia e sconfigge Agrigentini e Siracusani. Ma la lotta è impari e Ducezio
non può continuarla, ben presto è costretto a cedere le armi e relegato in esilio a Corinto; ma qui
ricomincia a sognare la riscossa della sua patria; vi ritorna, fonda la città di Cale Acte, ma mentre
organizza gli isolani per iniziare una nuova guerra, l'eroe siciliano muore.A sostenerla e ad essere
fiera di scatenarla la guerra, è Trinacria, una potente città sicula rimasta indipendente (che prese il
nome che i greci allora davano alla Sicilia, per la sua forma "triangolare"). Assalita da un poderoso
esercito siracusano, Trinacria si difende eroicamente. Vecchi, giovani, fanciulli, uomini e donne si
battono disperatamente e solo il numero infinitamente superiore degli avversari ha ragione dello
sconfinato valore degli isolani.I superstiti però non si sottomettono e si rifugiano sulle montagne, da
cui sperano di scendere per scacciare i Greci (o chicchessia) dalla loro terra.Con la vittoria ottenuta
sugl'indigeni dell'isola cresce ancora la potenza di Siracusa, e cresce ancora di più quando ottiene
altre vittorie sugli Agrigentini e sugli Etruschi. Ma questa supremazia siracusana sulle vicine città
greche pesa non poco e queste o isolatamente o unite tentano di liberarsene.Prima a ribellarsi è
Leontini, la quale, non potendo da sola competere con Siracusa, chiede aiuto ad Atene e si allea con
Reggio. Atene invia navi in soccorso, ma prima del loro arrivo, Leontini era già stata vinta e si era
arresa.Ad Atene si rivolge, dieci anni dopo (siamo nel 415 a.C.), Segesta, trovandosi in guerra
contro Selinunte che è spalleggiata da Siracusa; ed Atene, che da qualche tempo cerca di
sottomettere e vuole allargare il suo dominio in Sicilia, non si lascia sfuggire l'occasione: allestisce
una potente flotta (con a capo Alcibiade ma che appena arriva è richiamato ad Atene con
un'infamante accusa) e pone l'assedio a Siracusa. In soccorso di quest'ultima si schiera Dori, che
invia un poderoso esercito comandato dallo spartano GILIPPO (Con Sparta in lotta con Atene,
Siracusa ha ottimi rapporti).Gli Ateniesi sono costretti a levare l'assedio e si preparano a partire, ma,
impediti da una tempesta, sono improvvisamente assaliti dai Dorici e dai Siracusani e
sanguinosamente sconfitti. Settemila superstiti cadono prigionieri e chiusi nelle Latomie (cave di
pietra) dove molti soccombono tra sofferenze inenarrabili.La sfortunata spedizione siciliana costa
agli Ateniesi la perdita di duecento navi e più di quarantamila uomini.

IL TIRANNO DIONISIO

Dopo questa vittoria, Siracusa è la città più potente dell'isola; ma per la rivalità delle colonie greche, la
Sicilia rischia di cadere in potere di uno straniero che da tanto tempo le ha messo gli occhi addosso:
Cartagine.Segesta e Selinunte sono di nuovo in lotta e, questa volta, la prima si rivolge per aiuti ai
Cartaginesi (344 A. di R. - 410 a.C.), che sbarcano numerosi sull'isola e saccheggiano e distruggono
Selinunte ed Imera. La ferocia degli Africani, che tutto al loro passaggio mettono a ferro e a fuoco,
commuove Siracusa; in questa città affluiscono spaventati gli abitanti dei territori invasi, raccontando
orribili episodi di stragi e di violenze; e inoltre affermano che il nemico non si accontenterà di ciò che
ha già conquistato e sicuramente marcerà sulla ricca Siracusa. E' necessario quindi correre ai ripari. Ma
il governo è perplesso e l'esercito inoperoso. Di questo stato di cose approfitta un uomo furbo, audace,
ambizioso, di nome DIONISIO, il quale fa credere al popolo che i capi dell'esercito hanno intenzione di
cedere la città al nemico. La plebe si solleva e Dionisio, è a furor di popolo nominato capo delle milizie.
Poco dopo anche il governo cade nelle sue mani e Dionisio, anziché rivolgere le cure alla guerra contro
gli invasori, si preoccupa solo di rafforzare la sua posizione, raduna intorno a sé schiere prezzolate e usa
il braccio di ferro sui più influenti cittadini, esautorandoli dalle più importanti cariche.Questa sua
condotta provoca un ammutinamento dell'esercito, che, assalito il palazzo del suo capo, ne uccise la
moglie; ma Dionisio con le sue schiere prezzolate, seppe domare la rivolta, poi rivolse la sua attenzione
alla guerra contro i Cartaginesi e fu così abile nello sconfiggerli, che riuscì perfino a farsi restituire o a
recuperare tutto ciò che avevano saccheggiato.Ma ben presto a Siracusa torna a scoppiare una rivolta,
ma di nuovo Dionisio riesce a reprimerla con tutta la ferocia delle milizie che sono ai suoi ordini.Poi
mosso da uno sfrenato desiderio di potenza, assoggetta Catana, Etna e Nasso e, poiché i Cartaginesi
sono ritornati minacciosi, Dionisio raduna un esercito di ottantamila fanti e tremila cavalieri ed una
flotta di trecentocinquanta navigli. Ma superiori di numero sono le forze nemiche: trecentomila soldati e
quattrocento navi. La guerra si svolge accanita ma con alterna vicenda, ma alla fine fu il numero a
vincere: nelle acque di Catana la flotta di Dionisio è distrutta e Siracusa, investita da tutte le navi di
Cartagine, sta per capitolare. Ma accadono due fatti; il primo è una provvidenziale peste che,
improvvisamente scoppia fra i nemici, che ne diminuisce sensibilmente le forze e terrorizza
demoralizzando le stesse; il secondo è il tempestivo aiuto di una flotta giunta da Sparta. Le due cose
salvano Siracusa ed allontanano i Cartaginesi.La guerra non tarda ad essere ripresa; segue prima un
periodo di conflitti tra Siracusa e Cartagine, durante il quale l'una e l'altra ottengono vittorie e subiscono
sconfitte.Ma DIONISIO non pensa solamente a fiaccare i Cartaginesi e a cacciarli dalla Sicilia. Le sue
mire vanno oltre l'Isola: nel Tirreno vuole far cessare l'egemonia etrusca, vuole insignorirsi delle colonie
greche dell'Italia meridionale e concepisce perfino l'ambizioso progetto di assoggettare la Grecia.Agli
Etruschi, infatti, non concede un momento di tregua; riesce a cacciarli dalle coste illiriche ed italiche
dell'Adriatico e invia colonie ad Ancona, a Numana ed Hatria (Adria) e nelle isole di Lisso e di Issa;
dalla parte del Tirreno espugna, nel 369 a.C. la florida città di Pirgi.Maggiore accanimento mette
nell'attuare il disegno di conquista delle colonie della Magna Grecia. E prima fra tutte è Reggio a subire
i fieri colpi di Dionisio, che si presentacon centoventi navi davanti la città e, non riuscendo a
costringerla alla resa per l'eroica difesa degli abitanti, capitanati da ELORI, ne saccheggia e devasta il
territorio.Contro il tiranno siracusano si schierano quasi tutte le città greche, ma DIONISIO, con accorta
politica, riesce a tirare dalla sua parte Locri e i Lucani. Mentre lui torna ad assalire Reggio, i Lucani
sconfiggono l'esercito che difende TURIO. Reggio seguita a resistere; la guerra si estende a Caulonia e
Crotone che affidano ad ELORI un forte esercito.La sorte favorisce Dionisio: l'esercito nemico cade in
un'imboscata, Elori resta ucciso con un gran numero di combattenti e diecimila soldati sono fatti
prigionieri. La vittoria è schiacciante, decisiva, e molte città cadono sotto il dominio del tiranno; poco
dopo pure Reggio, dopo un'eroica resistenza, si arrende per fame e Caulonia dopo aver subito la stessa
sorte, per punizione è rasa al suolo.Il terzo e più arduo disegno, la conquista della Grecia, forse sarebbe
rimasto solo un desiderio, anche se lui fosse vissuto più a lungo. Ma la morte lo coglie nell'anno 367
a.C., e con la sua morte non poche città della terraferma, che erano finite sottomesse alla Sicilia,
riacquistano la loro libertà.

IL SECONDO DIONISIO, DIONE ED AGATOCLE

Al tiranno succede suo figlio, con lo stesso nome; (detto "il giovane" o DIONISIO II); meno audace
e ambizioso ed anche di minore ingegno, ma come il padre malvagio e più del padre dissoluto.
Contro di lui si muove lo zio DIONE, cacciato dal nipote, il quale, aiutato da non pochi esuli, sbarca
in Sicilia, solleva Agrigento, Gela e Camarina e marcia su Siracusa, che dopo un aspro
combattimento conquista; DIONISIO è costretto a rifugiarsi in esilio a Locri. Era l'anno 357 a.C.
Ma DIONE resta al potere per poco tempo, nemmeno tre anni: prima osteggiato dal partito
favorevole a Dionisio, infine nel 354 a.C., è ucciso a tradimento da un certo CALIPPO, lasciando la
città in preda al disordine.Ritornato a Siracusa dall'esilio, Dionisio ben presto si rende inviso ai
cittadini a causa dellesue scelleratezze. Si congiura contro di lui e si chiede aiuto a Corinto. Nel 344
a.C., è inviato sull'isola TIMOLEONE che libera dalla tirannide Siracusa, Catana, Leontini e
Messana:Dionisio II assediato in Ortigia, si arrende. Inviato in esilio in Grecia vivrà ancora a lungo
come privato, morendo infine, sembra, a Corinto.TIMOLEONE instaura governi democratici, poi
nel 341 a.C., dichiara guerra a Cartagine, sostenitrice dei tiranni dell'isola, e con dodicimila uomini
affronta un esercito di settantamila Cartaginesi e lo sconfigge sul Simoenta (fiume Crimiso).Libera
dalle insidie straniere, tutelata dall'onestà di Timoleone, che procede alla riorganizzazione di molte
città sotto il dominio di Siracusa, tra le quali Selinunte, da lui ricostruita, la Sicilia respira e gode
alcuni anni di pace e di benessere, ma, a causa della cecità da cui è stato colpito, si ritira a vita
privata nel 337 a.C., dopo aver costituito un sinedrio di 600 cittadini. Ma la bellissima opera
rinnovatrice da lui costruita in breve tempo si sfascia e la libertà è spenta dalle milizie mercenarie,
che proclamano tiranno AGATOCLE, un turpe avventuriero il quale era riuscito a diventar loro
capo.Comincia con lui, in Sicilia, un periodo di violenze, di persecuzioni, di sangue, che ha un
momento di tregua solo quando (310 a.C.) nell'Isola sbarca un grosso esercito di Cartagine.
AGATOCLE gli dà battaglia al monte Ecnomo, presso Imera, ma è sconfitto e lascia al campo
settemila uomini. La sua disfatta segna per i Siciliani l'ora della riscossa; molte città, pur di liberarsi
dalla tirannide di quel mostro, si alleano con i Cartaginesi, che marciano contro Siracusa.
Ma AGATOCLE ritorna all'offensiva; pone in stato di difesa Siracusa e, raccolto un esercito,
eludendo la vigilanza della flotta cartaginese, sbarca in Africa con lo scopo di far allontanare dalla
Sicilia i Cartaginesi portando la guerra in casa loro (311 a.C.).Sbarcati con i suoi uomini,
AGATOCLE distrugge le navi per costringere i soldati a combattere strenuamente togliendo loro i
mezzi per una ritirata; poi, saccheggiando e devastando, giunge in Libia. Per accrescere il suo
esercito, ricorre ad un ignobile stratagemma. Ad OFELLA, governatore di Cirene (che si è reso
quasi indipendente da Tolomeo) promette di metterlo sul trono di Cartagine, futura capitale di un
suo grande impero greco-africano. L'ingenuo Ofella raggiunge Agatocle con un esercito di
diecimila uomini, ma il tiranno lo fa trucidare (309 a.C.) e con le nuove milizie di Cirene e le
vecchie di Sicilia continua la sua marcia.Intanto Siracusa, assediata dal nemico, resiste eroicamente,
anzi infligge perdite considerevoli ai Cartaginesi, il cui capo, è ucciso. Mentre continua l'assedio, le
città greche dell'isola che sono sotto la tirannide di Agatocle, capeggiate da Gela ed Agrigento, si
proclamano indipendenti.AGATOCLE capisce che, rimanendo lontano, rischia di perdere la Sicilia;
lasciato parte dell'esercito in Africa sotto il comando del figlio ARCAGATO, con un forte
contingente di truppe ritorna nell'isola e doma ferocemente la rivolta, poi fa vela ancora per l'Africa
e punta su Cartagine.Ma i soldati di Cirene lo abbandonano e passano al nemico; i suoi stanchi di
stare in Africa, si ammutinano; Agatocle si nasconde; scoperto, è fatto prigioniero, ma riesce a
fuggire a Siracusa lasciando in balia delle truppe, che poi li uccidono, i figli Arcagato ed
Eraclito.Costretto e conclusa la pace con Cartagine, Agatocle in Sicilia continua nella sua vita di
scelleratezze fino a quando, padrone di tutta l'isola, già avanti con gli anni, volge le sue mire
all'Italia; stringe e scioglie alleanze con gli Apuli e Iapigi; dà in sposa la figlia LANASSA a
PIRRO, re dell'Epiro; assedia ed espugna Crotone, s'impadronisce d'Ipponio, fa scorrerie sulla costa
dei Bruzii, ne cattura la flotta e medita una nuova guerra contro Cartagine.

Ma la sua ultima ora è suonata: un suo nipote, ambizioso quanto lui, desideroso di regnare, lo fa
avvelenare (289 a.C.). Alla morte di Agatocle l'anarchia succede in Sicilia e la libertà,
improvvisamente ottenuta dopo tanti anni di tirannide, di schiavitù e di degrado, genera l'abuso di
libertà, rinascono le discordie intestine, e n'approfitta Cartagine, che dalla sponda dell'Africa
sorveglia gli avvenimenti dell'isola e risuscita le sue cupidigie.In non più liete condizioni versano
intanto le città dell'Italia meridionale, prima oppresse ed impoverite dai tiranni siciliani, combattute
ora dagli abitatori indigeni e specialmente dai Lucani. Con questi è in continua lotta Taranto, che,
città di mercanti com'è, non potendo da sola frenare l'audacia dei nemici, seguita a chiamare in aiuto
capitani di ventura e truppe mercenarie.Ad ARCHIDAMO segue - come abbiamo visto -
Alessandro Re d'Epiro (zio dell'allora ventenne Alessandro Magno); ad Alessandro si allea lo
spartano CLEONIMO, che viene in Italia al soldo di Taranto e, dopo aver combattuto contro i
Lucani, si allea con gli stessi contro Metaponto.Abbattuta l'aristocrazia lucana, Taranto spinge la
democrazia di quel popolo, che ha aiutato ad acquistare il potere, contro la città italiota-greca di
Turio (o Turi - la odierna Bari).Turio è una città fondata dai superstiti abitanti di Sibari mezzo
secolo circa dopo la distruzione di questa città da parte di Crotone ed è l'unica colonia greca nel
circondario in mano ad un governo aristocratico. Assediata da un esercito lucano capitanato da
STATILIO, Turio non vede altra salvezza che chiedere aiuto a Roma, la tenace sostenitrice di tutte
le aristocrazie dell'Italia meridionale. Dal giorno che gli ambasciatori di Turio mettono piede nel
Senato romano il destino del mezzogiorno d'Italia è segnato: le legioni di Roma, chiamate in aiuto,
andranno in Meridione, ma da quel terreno che bagneranno con tanto sangue, non torneranno più
indietro.A Roma, i governanti da qualche tempo preoccupati per la politica espansionistica dei
Tarantini, e irritati per il loro intervento a favore di Turi, per entrare in guerra, come pretesto
ricorrono ad un incidente vecchio quanto il mondo: alcune navi romane sconfinano a N del capo
Lacinio (od. Capo delle Colonne); era quello il limite invalicabile delle navi romane, indicato in un
trattato bilaterale del 301-303 a.C.Alle proteste del governo tarantino, non solo le navi Romane
superano il limite violando i patti, ma provocatoriamente, quattro navi entrano dentro il porto di
Taranto sfacciatamente in un giorno di gran festa per la città affacciata sul mare. La popolazione
furibonda accorsa sul porto fa a pezzi l'equipaggio, l'ammiraglio e infine incendia le navi
romane.Dopo l'attacco alla flotta romana, i Tarantini, resisi conto che la loro reazione alla
provocazione romana avrebbe potuto condurre alla guerra e convinti dell'atteggiamento ostile di
Roma, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata; la guarnigione che i Romani avevano
posto a tutela della città ne fu scacciata assieme agli esponenti dell'aristocrazia locale.

L'oltraggio di Filonide

Gli avvenimenti subito successivi all'attacco tarantino testimoniano la cautela e l'accortezza del
gruppo dirigente romano, che, pur senza sottovalutare la situazione, preferì tentare un'azione
diplomatica piuttosto che muovere subito guerra a Taranto: da Roma, non appena si ebbe notizia di
quanto era accaduto, si decise infatti di inviare a Taranto un'ambasceria guidata da Postumio, per
chiedere la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini
aristocratici espulsi da Thurii, la restituzione dei beni a loro depredati e la consegna di coloro che
erano responsabili dell'attacco alle navi romane: dal rispetto di tali condizioni sarebbe dipeso il
futuro svolgimento delle relazioni tra le due potenze. I diplomatici romani, giunti a Taranto, furono
ricevuti non senza riserve nel teatro da cui i Tarantini avevano scorto le navi attraversare il golfo; il
discorso di Postumio, tuttavia, fu ascoltato con scarso interesse da parte dell'uditorio, più attento
alla correttezza della lingua greca parlata dall'ambasciatore romano che alla sostanza del messaggio.
Vittime di risate di scherno da parte dei Tarantini, che si prendevano gioco dell'eloquio scorretto e
delle loro toghe dalle fasce purpuree, gli ambasciatori furono condotti fuori dal teatro; nel momento
in cui ne stavano uscendo, tuttavia, un uomo chiamato Filonide, in preda all'ubriachezza, si sollevò
la veste e orinò sulla toga degli ambasciatori con l'intento di oltraggiarli.

A tale atto, che ledeva il diritto all'inviolabilità degli ambasciatori, Postumio reagì tentando di
suscitare lo sdegno della folla dei Tarantini verso il concittadino; tuttavia, accortosi che tutti coloro
che erano presenti nel teatro sembravano aver apprezzato l'atto di Filonide, li apostrofò, secondo
Appiano di Alessandria, promettendo loro che avrebbero pulito con il sangue la toga sporcata da
Filonide, o dicendo, secondo la testimonianza di Dionisio di Alicarnasso, "Ridete finché potete,
Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!". Detto ciò, gli ambasciatori lasciarono
dunque la città di Taranto per rientrare in Roma, dove Postumio mostrò ai concittadini la toga
sporcata da Filonide.

Le conseguenze

Gli ambasciatori giunsero a Roma, senza portare risposte, nel 281 a.C., nei giorni in cui i nuovi
consoli, Lucio Emilio Barbula e Quinto Marcio Filippo, entravano in carica; Postumio riferì l'esito
della sua ambasceria e l'offesa che aveva subito: i consoli, dunque, convocarono il senato, che si
riunì per più giorni dall'alba fino al tramonto, per decidere sul da farsi. Un certo numero di senatori
riteneva poco prudente intraprendere una spedizione militare contro Taranto quando le ribellioni dei
popoli italici non erano ancora state del tutto sedate, ma la maggior parte preferì che la decisione di
dichiarare guerra a Taranto venisse messa subito ai voti: risultarono essere in maggioranza coloro
che volevano che Roma si impegnasse all'istante in un'azione militare, e la popolazione ratificò la
decisione senatoria.. Lo storico Marcel Le Glay pone l'accento sulle pressioni di una parte dei
politici romani e delle grandi famiglie, tra cui la gens Fabia, per l'espansione territoriale di Roma
verso il sud Italia. Lucio Emilio Barbula fu dunque costretto a sospendere temporaneamente la
campagna che aveva intrapreso contro i Sanniti e fu incaricato dal popolo di riproporre a Taranto,
per salvare la pace, le stesse condizioni proposte da Postumio. I Tarantini, impauriti dall'arrivo
dell'esercito consolare romano, si divisero tra coloro che sarebbero stati intenzionati ad accettare le
condizioni di pace offerte dai Romani e coloro che avrebbero invece voluto dare inizio alle ostilità.
Barbula cominciò a devastare le campagne circostanti la città, tanto che i Tarantini, consci di non
poter affrontare a lungo l'assedio romano, cercarono nuovi aiuti questa volta in Epiro, richiedendo
l'intervento del re Pirro. Quest'ultimo, che aveva avuto un'educazione militare dall'allora sovrano di
Macedonia, Demetrio I Poliorcete(aveva tra l'altro combattuto, assai giovane, alla battaglia di Ipso),
accolta la richiesta di aiuto dei Tarantini, desideroso di ampliare il proprio regno ed incorporare
nella propria sfera d'influenza la Magna Grecia, compresa la Sicilia (contesa dai Cartaginesi e dalla
città greca di Siracusa) fondando uno stato nell'Italia meridionale, inviò Cinea per comunicare la
sua decisione, poco prima che Taranto capitolasse. Pirro non poteva respingere la richiesta di aiuto
fatta da Taranto poiché quest'ultima aveva dato un contributo importante per la conquista di Corfù e
per la riconquista della Macedonia, persa nel 285 a.C. Scullard scrive che se Pirro non avesse
aderito alla richiesta dei Tarantini, il dissidio tra Taranto e Roma si sarebbe risolto facilmente e
velocemente. E invece fu la guerra.

Fasi del conflitto

Assedio di Taranto

Si dice che i Tarentini e i loro alleati si vantassero di poter disporre di 350.000 uomini e 20.000
cavalieri reclutati tra Sanniti, Lucani e Bruzi. Nel 281 a.C. le legioni romane, al comando di Lucio
Emilio Barbula, entrarono in Taranto e la conquistarono, malgrado i rinforzi dei Sanniti e dei
Messapi. All'indomani della battaglia i Greci chiesero una breve tregua e la possibilità di intavolare
delle trattative con i Romani. I negoziati vennero bruscamente interrotti con l'arrivo a Taranto
dell'ambasciatore Cinea che precedeva (o accompagnava) 3.000 soldati, forza d'avanguardia di Pirro
posta sotto il comando del generale Milone di Taranto.

Il console romano Barbula, che si era spinto nel Metapontino, si ritrovò sotto il tiro delle macchine
da guerra delle navi nemiche che erano disposte lungo la costa a presidiare il golfo.
Nella battaglia che ne scaturì, Barbula riuscì a subire perdite minori del previsto poiché aveva
astutamente disposto sul lato destro della colonna, esposto ai colpi, i prigionieri di guerra. Il piano
di Pirro era quello di aiutare Taranto e respingere i Romani al di là del meridiano italiano, per poi
iniziare ad espandere la propria influenza in Sicilia e quindi attaccare Cartagine, nemica storica dei
greci della Magna Grecia. Così fece nel 278 a.C. aiutando i Siracusani in guerra contro Cartagine.
Ma dopo la campagna in Sicilia, fu costretto ad abbandonare il suo progetto, sia per la forte
resistenza dei Cartaginesi a Lilibeo, sia perché le città greche sue alleate non riuscivano ad
accordarsi fra di loro e non mandarono i contingenti promessi e sia per il malcontento che scatenò
sulla popolazione del luogo per la sua avida gestione delle risorse.

Gli alleati di Pirro

Dopo aver lasciato l'Epiro, Pirro avanzò richieste di aiuti militari a vari sovrani ellenistici, in quanto
l'Epiro era un regno montanaro e da solo non aveva sufficienti mezzi per condurre una lunga e
dispendiosa campagna contro Roma.

Chiese aiuti ad Antioco I (re del regno seleucide) e ad Antigono II Gonata (figlio di Demetrio I
Poliorcete), nonché al re di Macedonia, a Tolomeo Cerauno, al quale chiese sostegno finanziario e
marittimo. Il re dell’EgittoTolomeo II promise l'invio di una forza di 4.000 soldati, 5.000 cavalieri e
50 elefanti da guerra destinata a difendere l'Epiro durante la campagna d’Italia. Analogamente,
Pirro, reclutò anche altre forze mercenarie, tra cui i cavalieri di Tessaglia e i frombolieri di Rodi.
Nel 280 a.C. Pirro salpò verso le coste italiche ma, durante la traversata, fu sorpreso da una
tempesta che arrecò danni alle navi e lo indusse a sbarcare le truppe, probabilmente nei pressi di
Brindisi. Era a capo di 25.500 armati e 20 elefanti. Di lì proseguì via terra verso Taranto dove si
acquartierò, aiutato dai Messapi. Dopo aver atteso l'arrivo delle restanti navi, Pirro lasciò a Taranto
un presidio di 3.000 uomini con il suo fidato ambasciatore Cineae si spostò verso sud,
accampandosi nei pressi di Heraclea.

Tattica dei Romani

I Romani avevano previsto l'imminente arrivo di Pirro e mobilitarono otto legioni. Queste
comprendevano circa 80.000 soldati divisi in quattro armate:

 la prima armata, comandata da Barbula, si stanziò a Venosa per impedire ai Sanniti e ai Lucani di
congiungersi con le truppe di Pirro;
 la seconda armata fu schierata a protezione di Roma nell'eventualità che Pirro tentasse di
attaccarla;
 la terza armata, comandata dal console Tiberio Coruncanio, aveva il compito di attaccare gli
Etruschi per scongiurare che si alleassero con Pirro;
 la quarta armata, comandata da Publio Valerio Levino, avrebbe dovuto attaccare Taranto ed
invadere la Lucania.

Difatti, Levino invase la Lucania ed intercettò Pirro nei pressi di Heraclea, città alleata dei
Tarentini, con l'intento di bloccare la sua avanzata verso sud, scongiurando in questo modo una sua
alleanza con le colonie greche di Calabria. Pirro si dispose alla battaglia organizzando una "falange
articolata" con divisioni di fanteria leggera fra i falangiti, per renderla più mobile sul collinoso
territorio italiano, e gli elefanti a sostegno della fanteria.

La prima sconfitta romana ad Eraclea (280 a.C.)


Pirro preferì non muovere immediatamente verso Roma, verosimilmente per attendere i rinforzi
inviati dai suoi alleati, ma nel frattempo il console Levino invase la Lucania impedendo alle armate
dei Lucani e dei Bruzi di unirsi all'esercito di Pirro. Non potendo più contare su questi rinforzi,
Pirro decise di accamparsi e di attendere i Romani nella piana situata tra le città di Eraclea e di
Pandosia, nei pressi della riva sinistra del Sinni, per cui intendeva sfruttare il fiume a proprio
vantaggio contando sulle difficoltà che i Romani avrebbero avuto per attraversarlo.

Prima fase

Poco prima dell'inizio della battaglia, Pirro inviò alcuni diplomatici al cospetto del console romano
Levino per proporgli una mediazione nel conflitto tra Roma e le colonie della Magna Grecia. I
Romani rigettarono la proposta e si accamparono anch'essi nella piana, sulla riva destra del fiume
Sinni. Pirro, udito ciò, cavalcò lungo il fiume per spiare i nemici. Meravigliandosi della disciplina
militare romana e dell'ordine con cui era disposto l'accampamento, si voltò verso Megacle, uno dei
suoi più fidati ufficiali, esclamando:

« Questa disposizione dei barbari, Megacle, a me non pare barbara, ma vedremo le opere loro. »
(Plutarco, Vita di Pirro, 16.)
Dopo aver detto questo decise di non fare la prima mossa. Levino, dal canto suo, non disponeva di
rifornimenti sufficienti per mantenere a lungo quella posizione, per cui decise di non tardare
ulteriormente l'azione e di attraversare il fiume per dare battaglia. Dionigi di Alicarnasso e Plutarco
riferiscono che all'alba del 1º luglio 280 a.C. i Romani attraversarono il Sinni: la fanteria guadò il
fiume davanti alle truppe di copertura di Pirro, mentre la cavalleria scelse un guado più lontano. La
cavalleria di Pirro si mosse tardivamente e non riuscì a sorprendere le truppe romane durante il
guado, pertanto la cavalleria romana giunse indisturbata contro il fianco della fanteria greca lasciata
in copertura.

Le truppe greche furono costrette a ritirarsi per sfuggire all'accerchiamento. In seguito all'attacco
romano, Pirro ordinò alla cavalleria macedone e tessala di contrattaccare la cavalleria romana. Il
resto della sua fanteria, composta da mercenari, arcieri e fanteria leggera, si mise in marcia.

Durante lo scontro uno dei capitani di Pirro, Leonato il Macedone, fu attratto da un romano, Oblaco
Volsinio (chiamato in Floro, "Ossidio" e in Plutarco "Oplax"), prefetto della cavalleria alleata
romana dei ferentani, il quale a suo dire non perdeva mai di vista il re Pirro. Difatti pochi istanti
dopo Oblaco spinse il cavallo e, abbassando la lancia, aggredì Pirro. Nello scontro entrambi caddero
da cavallo, dopo aver gettato le insegne. Leonato intervenne in aiuto di Pirro, mentre Oblaco fu
bloccato e ucciso dai soldati greci. In conseguenza di ciò, Pirro chiamò a sé Megacle e decise di
scambiare con quest'ultimo i panni e le armi, continuando così a combattere come un normale
soldato e scongiurando altri rischi.

Seconda fase

Gli opliti, disposti in formazione a falange, giunti in prossimità del nemico effettuarono ben sette
cariche nel tentativo di sopraffare i legionari romani. Riuscirono a sfondare le prime linee nemiche
ma non poterono avanzare ulteriormente a meno di non rompere la propria formazione. Una simile
eventualità avrebbe esposto gli opliti ai colpi dei Romani, per cui furono costretti a restare sulla loro
posizione. Lo scambio dei panni e delle armi fu essenziale per salvaguardare la vita del re. I Romani
continuarono a prendere di mira colui che portava le armi reali finché un cavaliere di nome Destro
assalì e uccise Megacle; lo spogliò quindi delle vesti reali e corse verso il console Levino,
annunciando a tutti di aver ucciso Pirro.

Dopo tale notizia i Romani, galvanizzati dalla morte del re epirota, sferrarono un deciso
contrattacco, mentre i Greci sbigottiti cominciarono a perdersi d'animo. Pirro, avendo inteso il fatto,
si mise a correre per il campo e a capo scoperto si fece riconoscere dai suoi soldati. Per riprendere
in mano le sorti della battaglia, mandò in campo gli elefanti da guerra che, con la loro grossa stazza,
crearono subito scompiglio tra le file romane. Inoltre, questi animali portavano in groppa una
torretta con soldati che potevano a loro volta colpire dall'alto i nemici. I Romani non avevano mai
visto questi animali prima di allora e li scambiarono per i grandi buoi tipici del posto; per questo
furono chiamati "buoi lucani". Gli elefanti travolsero le legioni romane creando panico tra gli
uomini e i cavalli, anche a causa dell'enorme massa, bruttezza e odore, e li terrorizzarono con il loro
barrito. Paolo Orosio racconta, forse confondendo un episodio raccontato da Floro e attribuito da
quest'ultimo alla successiva battaglia di Ascoli Satriano, che durante lo scontro il primo astato della
IV legione, Gaio Minucio (o Numicio), riuscì a ferire alla proboscide un pachiderma; questi,
inferocito e fuori controllo, si rigirò contro le truppe greco-epirote causando numerose vittime.
Alla vista di questo disordine Pirro ordinò alla cavalleria tessala di attaccare, sbaragliando
definitivamente la fanteria romana ormai in ritirata.

Ciò permise ai Greci di conquistare il controllo del campo di battaglia e di entrare


nell'accampamento romano. Nelle battaglie dell'antichità, la presa dell'accampamento nemico
rappresentava una grande disfatta per l'avversario; si suppone inoltre che i Romani abbiano
abbandonato nell'accampamento materiali da guerra e armi: i legionari superstiti, forse seguendo la
via Nerulo-Potentia-Grumentum, si ritirarono a Venosa probabilmente dopo essersi liberati del
proprio equipaggiamento. Fu tuttavia soprattutto grazie al sopraggiungere della notte che i Romani
e il console Levino poterono salvarsi da una carneficina ancor peggiore.

Le perdite

Nel riportare le perdite subite dagli schieramenti, Plutarco cita due fonti molto divergenti tra loro:

 lo storico greco Geronimo di Cardia, che registra 7.000 vittime tra le file romane e 4.000 tra quelle
greche;
 Dionigi di Alicarnasso, secondo il quale, invece, le perdite furono molto più elevate: 15.000 morti
tra i Romani e 13.000 tra le truppe di Pirro.

Inoltre Eutropio riferisce che 1.800 soldati romani furono fatti prigionieri

« Pirro prese mille e ottocento Romani e li trattò con il massimo riguardo, seppellì gli uccisi. E avendoli
veduti a terra giacere con ferite sul petto e con volti truci, anche morti, si dice che egli alzasse le mani
al cielo con queste parole: "Avrebbe potuto essere il padrone di tutto il mondo, se gli fossero toccati
tali soldati". »
(Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, II, 11.)

Paolo Orosio fornisce questo preciso bilancio delle perdite romane: 14.880 morti e 1.310 prigionieri per
la fanteria, 246 cavalieri uccisi e 502 prigionieri, oltre a 22 insegne perse. I dati di Paolo Orosio sono in
linea con quelli di Dionigi e di Eutropio, che li riportano in più scritti. Se si fa riferimento a quanto
riferito da Dionigi, le perdite ammontavano alla metà dell'esercito greco, mentre se si considerano i
numeri di Geronimo le vittime ne rappresentavano comunque un quinto.
In entrambi i casi queste perdite erano difficilmente colmabili dal momento che l'Epiro non era in grado
di fornire rimpiazzi in tempi brevi, a differenza dell'esercito romano che arruolava nuove legioni con
estrema velocità, soprattutto se si considera la qualità degli uomini che perirono. Pirro perse molti
fedeli amici e ottimi capitani e anche lui stesso rischiò più volte la morte; così, anziché festeggiare
per la vittoria ottenuta, venne preso dallo sconforto. Di conseguenza, tentò di reclutare i prigionieri
romani nel proprio esercito, come aveva già fatto in Oriente con i contingenti mercenari, ma essi
rifiutarono e preferirono restare fedeli a Roma. Secondo lo storico Giovanni Brizzi, la battaglia fu
decisa dal fatto che i Romani si confrontarono per la prima volta con la "manovra avvolgente" di
origine ellenistica e le legioni, che avevano tenuto testa alla falange fino a quel momento, cedettero
di colpo quando gli elefanti e la cavalleria tessala piombarono sul loro fianco, costringendo
l'esercito romano a ripiegare in disordine.

Conseguenze

La sconfitta di Levino fu un duro colpo per i romani. Il console Tito Coruncanio, ancora in
campagna in Etruria, ricevette l'ordine di abbandonare le azioni e tornare presto a Roma. Vennero
anche reclutate due nuove legioni e inviate a Levino, e si proclamò che tutti quei volontari che
volevano prendere il posto dei caduti, scrivessero il loro nome nell'« albo dell'esercito » (Appiano:
Sam. 10 '8( 24)). Per Gaius Fabricius Luscinus  (console nel 282 aC) la sconfitta fu colpa di Levino,
scagionando così le legioni sconfitte. Tuttavia, Levino fu confermato al comando di quelli. Il suo
esercito ferito ricadde nel Sannio. Le settemila vittime (quasi due legioni in meno) lo avevano
messo sulla difensiva, ma era comunque un esercito rispettabile. Era l'ora di Pirro. L'Epirote passò
rapidamente all'offensiva e si precipitò sulla Campania verso Roma con Levino alle sue spalle. Il
console era alle calcagna del nemico e gli molestava le spalle (Zonara 8,4).
Secondo Zonara, il re voleva prendere Capua, ma Levino, andando avanti, entrò in città per
difenderla. Tanto bastò a Pirro per abbandonare l'idea di prendere d'assalto la città, e mise gli occhi
su Neapolis . Non si racconta il perché (forse ancora per il buon lavoro di Levino), ma neppure il re
dell'Epiro ebbe fortuna in quella città. E non volendo ritardare la sua marcia verso Roma,
abbandonò questa meta e diresse il suo esercito nella metropoli del Lazio. Fino a Roma, il territorio
nemico fu sistematicamente saccheggiato. Per alcuni autori (vedi Dio Cassius fr.40'25-26) ciò
impedì ad alcuni popoli allora alleati con i Romani (probabilmente i Campani), e che stavano per
unirsi a Pirro, visto che " i Greci” devastarono i possedimenti di “ alleati e nemici allo stesso modo
”, rimasero fedeli al Lupo. Tra i suoi piani c'era anche l'idea di conquistare l'appoggio degli
Etruschi. Tuttavia, già nel Lazio, dopo aver occupato Anagnia   prima, e Praeneste (l'attuale
Palestrina)  dopo, e con Roma in vista, seppe che quel popolo (gli Etruschi) aveva firmato un patto
con Romani. Seppe anche che l'altro console era già tornato a Roma con il suo esercito, e fu
sorpreso di vedere che Levino ora possedeva un esercito grande quanto il primo, o anche più
grande! Per Cineas, gli Epiroti stavano " combattendo una guerra contro un'idra”. Così Pirro decise
di ricalcolare la sua posizione. Il suo esercito era carico di spoglie (dall'incursione a cui sottopose i
paesi che attraversava), e portava con sé numerosi prigionieri (600 secondo alcune fonti). Riteneva
che il rischio fosse enorme e decise di "rinviare la battaglia". Poi si voltò e tornò in Campania. Già
in Campania, Levino giunge al bivio formando le sue legioni per la battaglia, provocazione che
Pirro decise di evitare, per proseguire il suo cammino verso Taranto.

Ambasciate
Con il ritorno di Pirro a Taranto, la guerra lasciò il posto al dialogo. Ambasciate di entrambe le parti
andavano avanti e indietro da Taranto a Roma, o da Roma a Taranto. Tuttavia, secondo la fonte
indirizzata, Roma è la prima a inviare un ambasciatore per ottenere la liberazione dei prigionieri
romani (e alleati) detenuti da Pirro. Ma secondo altre fonti, fu Pirro che si precipitò in un trattato di
pace inviando Cinea a Roma. Non importa come lo dicono le fonti, il risultato è sempre lo stesso.
Pirro rilascia gratuitamente i prigionieri a Roma (circa 600 a quanto pare) e offre un trattato di pace
in cui impone determinate condizioni. Allo stesso tempo, la Lupa libera altrettanti Tarentini e
Sanniti in suo potere, e respinge le condizioni del re epirote, rispondendo che: "(Pirro) non potrebbe
avere pace con i Romani, a meno che non abbia lasciato l'Italia " (Eutropio 2.12'4). La guerra è
continuata. La tradizione romana ha saputo imporre l'idea che, grazie al celebre intervento di Appio
Claudio, Roma riuscì a evitare l'umiliazione di un trattato di pace con Pirro. Assecondando l'idea
che la maggioranza dei senatori fosse incline ad accettare le condizioni del re dell'Epiro. Appio
vecchio apparentemente cieco scosse le coscienze del senato romano. E la nobiltà di Gaio Fabricio
Luscinus (console nel 282 aC) ha trasceso anche la trattativa con Pirro per la sorte dei prigionieri
romani tenuti dal re dell'Epiro. A quanto pare (e secondo Dionisio di Alicarnasso in 19.13'1-18'8) il
romano seppe evitare di essere cooptato dall'Epirote, che cercò di sedurlo proponendosi di unirsi al
suo consiglio. Offerta che fu respinta dal romano in una dimostrazione di presunto orgoglio e
stoicismo. Al contrario, questi tentativi di corrompere il senato romano, e poi Luscinus (per farsi
infine sedurre dalla magnanimità e nobiltà di Fabrizio Luscinus), danno l'idea di un Pirro dedito ad
atti perfidi e disonorevoli. Ma grazie a Plutarco (Pirro 18'4-5), sappiamo che Pirro cominciava a
pensare che la Roma fosse un traguardo irraggiungibile, quindi un trattato di pace sembrava una
buona idea. Inoltre, grazie alla sua recente vittoria, credeva di avere il privilegio di porre condizioni
alla Roma. E grazie a Zonara (8,4) sappiamo che fu idea di Cineas proporre a Roma il ritorno
gratuito dei prigionieri romani affinché, dando un'immagine di magnanimità e benevolenza da parte
di Pirro, un trattato di pace con i romani. Piano che i figli della Lupa rifiutano, o per orgoglio o, più
probabilmente, perché hanno avvertito una certa "debolezza" in Pirro, nel suo esercito, e nella sua
alleanza con Taranto e le altre città d'Italia. L'indulgenza con cui Pirro tratta i prigionieri romani,
sommata al rispetto verso i corpi dei nemici caduti sul campo di battaglia, dipinge un'immagine
opposta a quella che la tradizione romana cercava di trascendere.
Chiuse le trattative, il Senato romano ordina a Levino di marciare verso Saepinum, nel paese dei
Peligno (Samnio), per costruirvi un accampamento e trascorrervi l'inverno. Nel frattempo, Pirro si
leccò le ferite, rinforzò il suo esercito e si preparò ad affrontare un altro anno di guerra. La sconfitta
di Eracleia e la marcia di Pirro su Roma suscitarono in città antiche paure. La gravità dell'evento
portò alla nomina di Gnaeus Domicio Calvino Máximo a Dittatore con l'incarico di indire le
elezioni per i nuovi consoli per l'anno successivo (sarebbero eletti Publio Decio Mus e Publio
Sulpicio Saverriión). Insomma, il conflitto tra Roma e Pirro non ha trovato al momento una
soluzione pacifica. Un nuovo incontro tra le armi romane ed epirote si profilava all'orizzonte.
Entrambi i contendenti si sono preparati al meglio per cercare di sottomettere il loro rivale. Roma
con l'obiettivo di espellere Pirro dall'Italia. E Pirro con l'idea di piegare Roma e farle rinunciare ai
suoi tentativi di soggiogare i popoli dell'Italia meridionale.

L'anno 279 aC iniziò con entrambi i contendenti che si preparavano per le loro prossime mosse.
Pirro finalmente ricevette le truppe che gli erano state promesse. La vittoria di Eracleia mise il re
Epirote al posto di "Liberatore" dei popoli dell'Italia meridionale. La promessa di Pirro a questi
popoli era di condurre gli eserciti uniti alla vittoria contro le armi romane. E una volta raggiunto
questo obiettivo, lascia l'Italia per tornare in Epiro. Nulla potrebbe essere più lontano dai veri
obiettivi del re Epirote, che si considerava un conquistatore alla pari di Alessandro Magno, e i
territori sotto i suoi piedi come suoi futuri possedimenti. Ma per il momento niente di tutto questo
preoccupava Pirro. Il suo interesse era rafforzare il suo esercito e porre fine definitivamente ai
romani. La vittoria di Eracleia era stata ottenuta all'ultimo momento, grazie all'intervento degli
elefanti, ea caro prezzo di vite umane. Molti ufficiali dell'Epirote avevano perso la vita nella
battaglia, rimuovendo un elemento importante dall'esercito di Pirro. Per quanto riguarda i romani, il
279 aC è l'anno di un nuovo censimento. Gnaeus Domicio Calvino Máximo, nominato dittatore
dopo la sconfitta di Eracleia ( 280 aC ) aveva indetto l'elezione dei nuovi consoli, dai quali sarebbe
stato eletto P. Sulpicius Saverrio . stato eletto P. Decio Mus ; e poi assume come censore (il primo
censore plebeo nella storia di Roma) e celebra il lustro. Festa che veniva celebrata ogni 5 anni e
culminava con una cerimonia sacrificale (detta suovetaurilia ) durante la quale si effettuava un
censimento, che portava all'iscrizione di circa 287.222 cittadini. I consoli furono posti a capo dei
rispettivi eserciti consolari, ereditati dai predecessori (purtroppo non si parla di reclutamento di
nuove legioni, anche se questo sicuramente avvenne). Ma questa volta, entrambi i consoli si
sarebbero incaricati di affrontare Pirro. Fu così retrocesso il teatro delle operazioni in Etruria.
Dopotutto, romani ed etruschi avevano concluso un trattato, che copriva le spalle di Roma.

Pirro invade la Iapigia, 279 aC


L'esercito romano intanto compiva innumerevoli azioni di guerriglia ai danni degli Epiroti. Inoltre
ogni qual volta un manipolo di legionari veniva sgominato, un altro ne prendeva il posto a compiere
azioni di disturbo. Anche all'interno della stessa Taranto non ci si poteva sentire al sicuro. Pirro,
desideroso di far insorgere tutta l'Italia meridionale con un esercito variegato comprendente anche
mercenari al soldo dei tarantini, reparti di re Tolomeo Cerauno di Macedonia (una falange
macedone, un reparto di cavalleria tessala), fanti e cavalieri mercenari provenienti dall'Etolia, dalla
Acarnania e dall'Atamania, disertori oschi e sanniti, per un totale di 40.000 uomini, Nella primavera
del 279 a. C. Pirro si diresse a Nord, nel territorio della Daunia, regione pressappoco corrispondente
all'attuale Provincia di Foggia. Molte piazze vengono catturate o sottomesse al re dell'Epiro. Ed è
nei dintorni di una roccaforte, nota come Asculum (Asculum, attuale Ascoli Satriano) che l'esercito
romano, guidato dai consoli Publio Sulpicio Saverrión e Publius Decius Mus , riesce ad intercettare
Pirro e le sue truppe. Forse l'obiettivo di Pirro era la conquista dei territori a est ea nord dei suoi
alleati sanniti. E poi da lì attraversare l'Appennino e invadere il "basso Lazio" aggirando la
Campania. Dove sembra che i romani fossero riusciti a bloccare l'avanzata di Pirro. Curiosamente,
Iapigia è il luogo in cui parte della flotta di Pirro finì a causa della tempesta.
Anche se la relazione tra questi due fatti è discutibile. Asculus sembrava dominare un'ampia pianura
che andava dall'Appennino al mare Adriatico, e lo faceva dalla sommità di uno sperone roccioso ai
piedi dei monti oggi conosciuti come " Monti Carpinelli ". Da lì i vecchi sentieri (la futura Via
Traiana e Via Appia ) potrebbero essere facilmente accessibili. Da quel luogo, attraversato
l'Appennino, contava di piombare sul basso Lazio e di prendere Roma di sorpresa. Ma le spie
romane, avendo avuto la certezza dell'intento di Pirro, fecero sì che i romani attirassero l'esercito
avversario tra il torrente Carapelle ed i monti Carpinelli, in una piana non vasta abbastanza per la
cavalleria avversaria e per lo schieramento dei 19 elefanti che Pirro aveva con sé. La stessa falange
macedone richiedeva ampi spazi per poter esser pienamente operativa. Viceversa le compatte
legioni romane erano interdipendenti e non richiedevano ampi spazi di manovra. I romani
schieravano 8 legioni per un totale di 40.000 uomini: 4 romane e 4 alleate (sanniti, latini, etruschi).
Lo storico greco Polibio, che scrive circa un secolo e mezzo dopo la data degli avvenimenti, lascia
supporre che i Dauni, alleati di Roma, abbiano scelto essi stessi il luogo della battaglia e che Pirro,
vista l'inferiorità nella fanteria e la superiorità nella cavalleria, che era neutralizzata dalla topografia
del luogo, alternò picchieri a coorti di alleati e mercenari.

Battaglia di Ascoli Satriano (279 a. C.)

Come abbiamo anticipato, Dionisio e Plutarco non sono d'accordo sul numero di giorni in cui si
svolge la battaglia (abbiamo detto, in Dionisio si interpreta solo un giorno di battaglia; in Plutarco,
due). Lo stesso Plutarco prende atto di questa contraddizione. Ma dal modo in cui Dionisio si
avvicina alla storia della battaglia, sembra proprio che questo autore decida di saltare una parte (o si
è perso?). In ogni caso, il racconto di Dionisio non sembra in alcun modo offuscare la versione di
Plutarco. Al contrario, si completano perfettamente. Vediamo: Secondo Plutarco, i romani
intercettano Pirro vicino ad Asculo.
E lo costringono a combattere su un terreno svantaggioso per i greci. A quanto pare, entrambi gli
eserciti erano separati dal torrente Carapelle, e i combattimenti sembrano svolgersi da una parte e
dall'altra di essa, nel suo settore più tempestoso. Questo è probabilmente ai piedi delle montagne. I
boschi, il torrente, le propaggini rocciose, il poco spazio impediscono a Pirro di proporre una
battaglia convenzionale. La falange non poteva essere schierata e la cavalleria greca, che era stata
superiore a quella romana, non poteva approfittare di una tale situazione. Anche gli elefanti
sembravano non funzionare per Pirro. Plutarco dirà che i romani effettuarono movimenti
(Plut.Pirr.21,6) che gli permisero di ottenere un vantaggio in combattimento (dato che offre un
ottimo riferimento per descrivere il vantaggio del legionario nel “combattimento irregolare”).
Questo tipo di combattimento durò fino alla notte, quando entrambi gli eserciti decisero di
abbandonare i combattimenti e di recarsi nei loro accampamenti senza essersi chiaramente
approfittati l'uno dell'altro. Anche se a quanto pare, Pirro contava più morti e feriti rispetto ai
romani.

Lo scontro

L'indomani, Pirro, all'alba, fece occupare il colle ed il bosco che il giorno prima aveva dato rifugio
ai romani. Secondo Frontino, il re schierò a destra i Sanniti (con gli ipaspisti); al centro la falange
epirota appoggiata dai Tarantini; a sinistra gli ausiliari Lucani, Bruzi e Messapi. I romani dovettero
scontrarsi in campo aperto con gli Epiroti, ma la falange, su un terreno accidentato, non riusciva ad
assicurare la compattezza indispensabile a sopraffare le legioni romane. A questo punto, Pirro
decise di far intervenire gli elefanti per sfondare le linee romane, cosa che puntualmente avvenne.

I romani non ebbero successo a contrastare i pachidermi con speciali carri di loro invenzione. In
compenso, ebbero miglior fortuna crivellandoli di dardi e di giavellotti. Pirro stesso fu colpito da un
giavellotto al termine della battaglia.

I romani si ritirarono ordinatamente nel loro campo, mentre gli Epiroti dovettero faticare non poco a
calmare gli elefanti impazziti dal dolore per le frecce e le lance ricevute. In questa battaglia morì il
console Publio Decio Mure immolandosi con una Devotio. Tatticamente, la vittoria fu degli epiroti,
ma strategicamente fu del tutto inutile: né i Sanniti si ribellarono ai Romani, né lo fecero i Latini, gli
Etruschi e gli altri popoli italici.
Anche i Greci di Napoli e di Cuma rimasero alleati dei Romani. Roma stessa non poté esser assalita
da Pirro che vide sfumare il suo proposito intimidatorio. Pirro si dice avesse esclamato che "Un'altra
vittoria come questa e torno a casa senza esercito!". I Romani coniarono l'espressione "Vittoria di
Pirro" per identificare appunto una vittoria ottenuta a caro prezzo e che non porta a vantaggi
concreti e tangibili. La battaglia di Ascoli Satriano, dove Pirro, pur vincendo tatticamente il secondo
scontro, contò tra le sue file un numero di vittime quasi pari a quello romano (4.000 contro le 6.000
romane), mostrò inoltre che il re epirota non era riuscito a "strappare" alcun alleato della regione
apula ai Romani. Pirro si trovava così, per la seconda volta, in una posizione di stallo nella quale,
pur avendo sconfitto ancora i Romani, aveva lasciato pressoché invariate le loro forze militari, e
aveva anzi incoraggiato gli alleati di Roma a resistergli.

A tenerlo inattivo per il resto dell'anno contribuì anche la notizia di un'invasione da parte dei Galli
dei Balcani (Pannonia, Norico, Illiria settentrionale) che invasero la Peonia, la Macedonia e la
Tracia. L'esercito macedone fu completamente distrutto e Tolomeo Ceraunos fu ucciso in battaglia.
La morte del suocero generò in Pirro sentimenti contrastanti di preoccupazione e ambizione, come
sostiene Brizzi. Il sovrano epirota si trovava, infatti, a perdere un autorevole alleato, ma al tempo
stesso la sua scomparsa gli apriva la porta per accedere al trono di uno dei più importanti regni del
mondo antico.

Spedizioni Celtiche nei Balcani


La situazione politica nei Balcani settentrionali era in costante mutamento con varie tribù
dominanti sui loro vicini in qualsiasi momento. All'interno delle tribù, le spedizioni militari erano
condotte da "una classe di guerrieri intraprendente e mobile in grado di volta in volta di
conquistare vaste aree e di sfruttare la propria popolazione". La situazione politica nei Balcani
durante il IV secolo aC giocò a vantaggio dei Celti. Gli Illiri avevano fatto guerra ai Greci,
lasciando debole il loro fianco occidentale. Mentre Alessandro governava la Grecia, i Celti non
osarono spingersi a sud vicino alla Grecia. Pertanto, le prime spedizioni celtiche si concentrarono
contro le tribù illiriche. La prima tribù balcanica ad essere sconfitta dai Celti fu l' Illirico
Autariatae , che, durante il IV secolo aC, aveva goduto di un'egemonia su gran parte dei Balcani
centrali, centrati sulla valle della Morava . Un resoconto delle tattiche celtiche è rivelato nei loro
attacchi agli Ardiaei. Nel 335 aC, i Celti inviarono rappresentanti per rendere omaggio ad
Alessandro Magno , mentre la Macedonia era impegnata in guerre contro i Traci al confine
settentrionale. Alcuni storici suggeriscono che questo atto "diplomatico" fosse in realtà una
valutazione della potenza militare macedone. Dopo la morte di Alessandro Magno, gli eserciti
celtici iniziarono a invadere le regioni meridionali, minacciando il regno greco di Macedonia e il
resto della Grecia. Nel 310 aC, il generale celtico Molistomos attaccò in profondità il territorio
illirico, cercando di sottomettere Dardani , Peoni e Triballi . Tuttavia Molistomos fu sconfitto dai
Dardani. Il nuovo re macedone Cassandrosi sentì in dovere di prendere alcuni dei suoi vecchi
nemici illiri sotto la sua protezione anche se gli Illiri ne uscirono vittoriosi. Nel 298 aC, i Celti
tentarono un attacco penetrante in Tracia e Macedonia , dove subirono una pesante sconfitta vicino
a Haemus Mons per mano di Cassandro. Tuttavia, un altro corpo di Celti guidato dal generale
Cambaules marciò sulla Tracia, catturando vaste aree. La tribù celtica dei Serdi visse in Tracia e
fondò la città di Serdica , l'odierna Sofia .

Invasioni della Grecia


Grande spedizione del 279 a.C

La pressione militare celtica verso la Grecia nei Balcani meridionali raggiunse il suo punto di
svolta nel 281 a.C. Il crollo del regno successore di Lisimaco in Tracia aprì la strada alla
migrazione. La causa di ciò è spiegata da Pausania come avidità di bottino, da Giustino come
risultato della sovrappopolazione, e da Memnone come risultato della carestia. Secondo Pausania ,
una prima incursione di indagine guidata da Cambaules si ritirò quando si resero conto che erano
troppo pochi di numero. Nel 280 aC, un grande esercito composto da circa 85.000 guerrieri se ne
andòLa Pannonia , divisa in tre divisioni, marciò verso sud in una grande spedizione verso la
Macedonia e la Grecia centrale . Sotto la guida di Cerethrius, 20.000 uomini si mossero contro i
Traci e Triballi. Un'altra divisione, guidata da Brenno (Da non confondere con il Brenno del
secolo precedente, che saccheggiò Roma nel 387 a.C.) e Acichorius mosse contro i Paioniani,
mentre la terza divisione, guidata da Bolgios , mirava ai Macedoni e agli Illiri. Bolgios inflisse
pesanti perdite ai macedoni, il cui giovane re, Tolomeo Keraunos , fu catturato e decapitato.
Tuttavia, il contingente di Bolgios fu respinto dal nobile macedone Sostene e, soddisfatto del
bottino che avevano vinto, i contingenti di Bolgios tornarono indietro. Sostene, a sua volta, fu
attaccato e sconfitto da Brenno e dalla sua divisione, che furono allora liberi di devastare il paese.

Dopo che queste spedizioni tornarono a casa, Brenno li esortò e li convinse a organizzare una terza
spedizione unita contro la Grecia centrale, guidata da lui stesso e da Acichorius. La forza riportata
dell'esercito di 152.000 fanti e 24.400 cavalieri è incredibilmente grande. Il numero effettivo di
cavalieri è da intendersi grande la metà: Pausania descrive come usassero una tattica chiamata
trimarcisia , in cui ogni cavaliere era supportato da due servi a cavallo, che potevano fornirgli un
cavallo di scorta se dovesse essere smontato , o prendere il suo posto nella battaglia, se dovesse
essere ucciso o ferito.

Battaglia delle Termopili (279 a.C.)


Una coalizione greca composta da Etoli , Beoti , Ateniesi, Focesi e altri greci a nord di Corinto
prese posizione allo stretto passo delle Termopili , sulla costa orientale della Grecia centrale .
Durante l'assalto iniziale, le forze di Brennus subirono pesanti perdite. Quindi decise di inviare una
grande forza sotto Acichorius contro Etolia. Il distaccamento etolico, come sperava Brenno, lasciò
le Termopili per difendere le loro case. Gli Etoli si unirono tutti alla difesa: i vecchi e le donne si
unirono alla lotta. Rendendosi conto che la spada gallica era pericolosa solo a distanza
ravvicinata, gli Etoli ricorsero a tattiche di schermaglia. I Galli distrussero Kallion, al confine tra
l'Euritania e l'Etolia, commettendo orribili atrocità, ma la resistenza dell'intera popolazione etolica
nel sito di Kokkalia inferse un colpo decisivo alla minaccia di Galati. Secondo Pausania, solo la
metà del numero che era partito per l'Etolia tornò. Alla fine Brenno trovò un modo per aggirare il
passo delle Termopili, ma i greci fuggirono via mare.

Attacco a Delfi

Brenno si spinse verso Delfi , dove fu sconfitto e costretto a ritirarsi, dopodiché morì per le ferite
riportate in battaglia. Il suo esercito ricadde sul fiume Spercheios , dove fu messo in rotta dai
Tessali e dai Mali. Entrambi gli storici che riferiscono l'attacco a Delfi, Pausania e Junianus
Justinus, diciamo che i Galli furono sconfitti e scacciati. Furono sorpassati da un violento
temporale, che rese impossibile manovrare o addirittura ascoltare i loro ordini. La notte che seguì
fu gelida e al mattino i Greci li attaccarono da entrambe le parti. Brenno fu ferito ei Galli
indietreggiarono, uccidendo quelli dei loro stessi feriti che non potevano ritirarsi. Quella notte, il
panico cadde sul campo, poiché i Galli si divisero in fazioni e combatterono tra loro. A loro si
unirono Acichorius e il resto dell'esercito, ma i greci li costrinsero a una ritirata su vasta scala.
Brenno si tolse la vita bevendo vino puro secondo Pausania, o pugnalandosi secondo Giustino.
Pressati dagli Etoli, i Galli tornarono allo Spercheios, dove i Tessali ei Mali in attesa li distrussero.

L'intervento di Pirro in Sicilia (278 a.C. - 276 a.C.)


In quell’anno Pirro ricevette due offerte allo stesso tempo: da un lato, le città greche di Sicilia gli
proposero di estromettere i Cartaginesi (l'altra grande potenza del Mediterraneo occidentale) dalla
metà occidentale dell'isola; dall'altro, i Macedoni gli chiesero di salire al trono di Macedonia al
posto di re Tolomeo Cerauno, decapitato nell'invasione della Grecia e della Macedonia da parte dei
Galli. Costretto a scegliere, Pirro optò per l'Occidente.
Le vittorie contro i Romani non solo lo avevano imbaldanzito, ma sembravano per lui un'ottima
opportunità per cacciare definitivamente i Cartaginesi dalla Sicilia e poi permettergli, grazie a
questa nuova alleanza con una Magna Grecia "riconoscente" del servigio prestatole, di far ritorno in
Epiro con nuove e importanti risorse finanziarie e militari, e conquistare il primato in Macedonia e
Grecia.Per realizzare questo progetto Pirro aveva però bisogno di una pace duratura con i Romani,
che gli permettesse di occuparsi dei soli Cartaginesi; ma questi ultimi riuscirono ad anticiparlo e a
stipulare un nuovo trattato di alleanza con il Senato romano contro il comune nemico epirota.
Polibio narra infatti:

« Nel trattato [tra Roma e Cartagine] si confermavano tutti i precedenti accordi, e in più si aggiungevano
i seguenti: nel caso in cui uno dei due stati concludesse un patto di alleanza con Pirro, entrambi erano
obbligati a inserire una clausola che preveda di fornire aiuto l'uno all'altro, qualora venisse attaccato nel
proprio territorio; se uno dei due avrà bisogno di aiuto, i Cartaginesi dovranno fornire le navi per il
trasporto e per le operazioni militari [...]; i Cartaginesi aiuteranno i Romani anche per mare se
necessario, ma nessuno potrà obbligare gli equipaggi a sbarcare se non lo vorranno. »

(Polibio, Storie, III, 25, 1-5.)


Pirro conquista di Siracusa

Pirro arrivò a Sicilia all'inizio del 278 a.C. Quando sbarcato in Sicilia si alleò con Tindarione,
tiranno di Tauromenio. Dopo aver ricevuto soldati da quella città, continuò a marciare verso Catania
dove fece sbarcare la sua fanteria. Mentre stava trasferendo il suo esercito e la flotta a Siracusa, i
cartaginesi inviarono una trentina di navi in missione altrove. La flotta e l'esercito rimanente si
ritirarono e Pirro entrò a Siracusa incontrastato. Successivamente Tinione e Sosistrato consegnarono
la città a lui, che li riconciliò.

Pirro inglobò la propria flotta con quella di stanza a Siracusa. La città possedeva oltre 120 navi, di
cui 20 senza ponti, e un enneres reale; Pirro così aumentò la sua flotta di oltre 200 navi. Eraclide di
Leontini presentò a lui le sue città e l'esercito di 4.000 fanti e 500 cavalieri. Dopo aver stipulato con
molte altre città siciliane un'alleanza, Pirro desiderò anche conquistare la Libia. Pirro, entrato da
poco in territorio siciliano, si diresse verso Agrigento. Sulla strada incontrò il tiranno di Agrigento,
Finzia, che con lui strinse un'alleanza e promise di consegnarli la città di cui era tiranno. Arrivato
alla città si unì con l'esercito di Sosistrato, formandone uno di quasi 40000 uomini, e prese, come
per Finzia, possesso dei suoi domini che ammontavano a più di trenta città. Con questi alleati
sottomise, in ordine cronologico, le città di Eraclea, Azones, Selinunte, Halicyae, Segesta e molte
altre città che Diodoro Siculo, fonte principale insieme a Plutarco, non nomina. E successivamente
al comando di un esercito di 37.000 uomini mosse da Agrigento verso Erice.

Assedio di Erice (277 a.C.)

L'assedio di Erice , nell'ambito delle guerre pirriche e delle guerre greco-puniche, vide contrapposti
i Cartaginesi e Pirro re d'Epiro. Pirro, re d'Epiro, giunse nel 278 a.C. quando le città greche di
Sicilia lo chiamarono per aiutarli a respingere la pressione cartaginese. Pirro accorse ai richiami dei
sicelioti con un esercito di quasi 40000 uomini si diresse in Sicilia dove iniziò la sua espansione nei
territori cartaginesi. La città di Erice, posta su un monte, fu subito notata per la sua posizione
strategica da Pirro che organizzò il suo esercito per assalirla, nonostante fosse ben armata. Dopo
aver posto le macchine d'assedio, uccise tutti i Cartaginesi che opposero resistenza organizzando,
nel contempo, l'assalto a sorpresa. La battaglia che si scatenò tra Siracusani e Cartaginesi fu
cruenta, Pirro promise che, se avesse vinto, avrebbe organizzato giochi in onore di Eracle. La
fortezza fu espugnata e, come da promessa, Pirro offrì al dio gare e sacrifici.

Caduta la città filo-cartaginese più fortificata, altre come Segesta e Iato si consegnarono all'epirota.
Fu così nominato re di Sicilia, e i suoi piani prevedevano la spartizione dei territori fin lì conquistati
tra i due figli, Eleno (a cui sarebbe andata la Sicilia) e Alessandro (a cui sarebbe andata l'Italia).La
caduta di Erice, la più munita fortezza filo-cartaginese sull'isola, rese quasi naturale la defezione
delle altre città controllate dai punici. Cartagine aveva deciso di non difendere città come Palermo
ed Eraclea Minoa, ma concentrò i suoi sforzi su Lilibeo, città che veniva rifornita via mare: fu così
possibile ai fenici di sostenere l'assedio posto da Pirro.

Assedio di Lilibeo (276 a.C.)

La perdita di Lilibeo, rocca alquanto fortificata dei cartaginesi, avrebbe per loro significato la rovina
dei loro domini in Sicilia e il trionfo di Pirro sui nemici. Nonostante l'impresa di espugnarla fosse di
enormi difficoltà già in partenza, Pirro pose l'assedio e preparò al meglio il suo esercito. I
Cartaginesi, consci dell'importanza di questa rocca, mandarono una richiesta d'aiuto a Cartagine che
inviò grandi quantità di uomini e macchine. Data la posizione della città, che era a ridosso del mare,
i generali cartaginesi decisero di costruire mura formate da torri continue in direzione della
terraferma; fatto questi si inviarono messi a Pirro per chiedere una tregua promettendo l'offerta
annuale di un tributo. Pirro, chiamati a raduno i suoi generali, decretò che l'unica condizione che
sarebbe stata accettata era quella di lasciare la Sicilia e tutti i possedimenti che il governo di
Cartagine deteneva, oltre che a smantellare le navi che permettevano di dominare tra i mari. L'esosa
richiesta di Pirro, che avrebbe troppo indebolito i Cartaginesi, fu respinta e il re d'Epiro dovette
passare all'attacco. Ma i Cartaginesi resistettero coraggiosamente agli assalti di Pirro, il cui esercito
andava, di giorno in giorno, scemando in uomini. Tale era la quantità dei difensori e le macchine
che per poco le mura riuscivano a contenerli. Le macchine che Pirro aveva portato con sé
dall'assedio di Siracusa non erano in grado di far breccia e presto furono sostituite da altre nuove
che, scavando il terreno al di sotto delle mura, cercavano di indebolirle. Tutti gli espedienti però,
risultarono vani. Dopo due mesi d'assedio, persa ogni speranza, Pirro dovette ritirarsi e sollevare
l'assedio. Nonostante la disfatta, Pirro pensò, forse sulle tracce di Agatocle di Siracusa, di portare la
guerra direttamente in Africa. La mancanza di marinai però, spinse Pirro a ricercarli tra le polis di
Sicilia. L'eccessivo rigore e gli ingiustificati soprusi a danno dei Sicelioti, li spinsero a reagire
contro il re d'Epiro che, sotto il contrattacco dei Cartaginesi, si dovette ritirare in Italia. Il mancato
successo finale peggiorò, infatti, il rapporto tra Pirro e i Sicelioti, forse anche a causa di un'avida
gestione delle risorse del luogo da parte del re epirota che avrebbe voluto imporre una monarchia di
stampo ellenistico sull'isola. Pirro tornò quindi in Italia, prendendo come pretesto una nuova
richiesta d'aiuto di Taranto.

Fase finale
Nel frattempo Roma, sempre rifornita abbondantemente da Cartagine, rioccupava senza colpo ferire
tutto il territorio precedentemente perduto in Puglia ed in Lucania. Sedata definitivamente la
ribellione di Oschi e dei Sanniti (la componente stanziata al confine tra le attuali Campania e
Puglia), arrivò nell'inverno del 276 a.C. a porre nuovamente sotto assedio Taranto, per terra e questa
volta anche per mare, complice la flotta cartaginese. I tarantini invocarono nuovamente l'aiuto di
Pirro, che dovette dunque abbandonare la Sicilia e sbarcare in Lucania. Rientrato in Italia
meridionale, Pirro si accorse che durante la sua assenza di tre anni (dal 278 al 276 a.C.) i Romani
avevano ripreso l'iniziativa, battendo ripetutamente i suoi alleati Bruzi, Lucani e Sanniti. Anche gli
Italioti di Crotone e Locri avevano chiesto una nuova alleanza con Roma. Il re epirota tentò invano
di raddrizzare le sorti della guerra, ma inutilmente; anche se riuscì a riprendere Locri. Ma l'esercito
di Roma, che nel frattempo aveva riconquistato tutte le posizioni nell'Italia meridionale e
minacciava nuovamente Taranto, lo aspettava in Campania, a Maleventum.

I Romani avevano infatti compreso che Pirro, anziché affrontarli direttamente, avrebbe tentato di
costringerli a togliere l'assedio a Taranto marciando direttamente su Roma.

Battaglia di Benevento (275 a. C.)


L'esercito romano era comandato dal console Manio Curio Dentato, che si era accampato su
un'altura e contava su una forza di circa 17.000 uomini. Pirro disponeva invece di quasi 20.000
soldati, oltre ad alcuni elefanti da guerra. Nello schieramento del suo esercito erano presenti reparti
di cavalleria macedone, greca e sannitica, mentre la fanteria era organizzata secondo il modello
della falange macedone e comprendeva anche opliti greci, oltre a frombolieri, lanciatori di
giavellotto e arcieri. Pirro aveva diviso i suoi uomini in due armate: una era restata a fronteggiare un
console in Lucania, con l'altra si era diretto nel Sannio, dove gli si erano aggregati pochi rinforzi.
Poteva così disporre di forse 20.000 fanti, 3.000 cavalieri e una ventina di elefanti. Nel dettaglio:
3.000 fanti e 300 cavalieri Tarantini; 3.000 fanti e 300 cavalieri Apuli; 3.000 fanti e 300 cavalieri
Sanniti (solo Irpini e Caudini); i rimanenti erano veterani portati dall'Ellade nel 280 a.C.. Il piano di
Pirro prevedeva una rapida marcia verso l'accampamento romano. Dovrebbe essere di notte ("
Intanto il cielo gira con le sue vaste costellazioni " Quinto Enio, 205), per sorprendere i romani, e
poter attaccare di sorpresa l'accampamento, evitando il più possibile la battaglia campale. La
rapidità dell'assalto notturno, la sorpresa, devono essere state la sua migliore risorsa.
Comprendiamo che Pirro si avvicinò abbastanza, cercando di non essere rilevato, da mettere "una
notte" a distanza tra le sue truppe e l'accampamento romano. Una volta raggiunto questo obiettivo, è
iniziato l'approccio notturno. Il difficile sentiero scelto per la marcia, sentiero delle capre secondo
Dionisio, boscoso aggiunge Plutarco; Aggiunto all'oscurità, impediva loro di mantenere l'ordine di
marcia. Molti uomini hanno perso la strada e lui li ha costretti a fermarsi per riorganizzarsi. Il tempo
perso ha impedito loro di raggiungere l'obiettivo prima dell'alba. E all'alba, " quando le tenebre
furono scacciate e il giorno imbiancato per la prima volta " (V Enius:206), ancora lontano
dall'accampamento romano, l'intero esercito di Pirro era in vista dei romani. Manio Curio Dentato
non esitò un secondo, e facendo fuori una parte delle sue truppe, attaccò l'avanguardia di Pirro
provocando grande strage grazie al vantaggio che i romani potevano ottenere in un luogo dove la
falange non poteva formarsi. Nel frattempo, l'esercito romano si stava riversando fuori
dall'accampamento per formare le proprie linee.

Un gruppo di elefanti che agiva all'avanguardia è stato separato dal resto e quindi sono stati
catturati. Lasciando una massa di morti, l'esercito di Pirro si ritirò il più rapidamente possibile da un
sito così svantaggioso e, tentando di raggiungere la vicina pianura, si preparò alla battaglia.
Sorpresa persa, attacco al campo annullato. Pirro e i romani affrontarono la terza e ultima battaglia
delle guerre di Pirro.

Una volta formate le linee, entrambi gli eserciti vennero alle mani. Ma poiché non esiste un resoconto
dettagliato della battaglia, la sua ricostruzione è molto complessa. Tuttavia, alcuni indizi offerti da fonti
antiche ci aiutano nel nostro tentativo di dare forma alla battaglia. Secondo Plutarco (Pirro 25,4), i
romani approfittarono di alcuni punti sul campo di battaglia. Ma furono travolti, ancora una volta, dagli
elefanti in un altro settore. Vantaggio per Pirro che Dionisio sembra sostenere con la sua storia (“
Quando Pirro e coloro che erano con lui salirono insieme agli elefanti ” DionHal.20.12,3). Questa
situazione riferita, in quanto la formazione dell'esercito di Pirro, e l'antecedente delle precedenti
battaglie, lascia supporre che i romani abbiano probabilmente prevalso sulle truppe alleate o mercenarie
di Pirro (i Sanniti e i mercenari di Siracusa) in un settore del campo di battaglia (fianco sinistro? qualche
settore al centro del dispositivo?). Intanto, in un altro settore del campo (quello a destra?), occupato
dalla falange, e sorretto dagli elefanti che ancora aveva Pirro, il vantaggio era per l'esercito epirote. Da
quanto interpreta Plutarco, questa situazione favorevole per Pirro era più di una semplice vittoria una
tantum o di un vantaggio tattico. Apparentemente un'intera "ala" romana viene sopraffatta e costretta a
rientrare nell'accampamento. Quello che stava succedendo era che Pirro stava travolgendo i romani e
mettendo la vittoria a portata di mano. Ma Manio era una vecchia volpe, temprata nelle grandi battaglie
e ricca di vittorie. Lungi dal soccombere alla spinta dell'Epirote, prese la sua riserva e la lanciò in
battaglia. Questa riserva non era altro che la guardia del campo. Ma come hanno fatto questi legionari a
ottenere ciò che i loro compagni non erano stati in grado di ottenere? Apparentemente questo vigoroso
contrattacco di truppe fresche era diretto principalmente contro gli elefanti. E usando i loro giavellotti,
sono riusciti a ferire questi animali al punto da provocare una fuga precipitosa che ha colpito la linea
della falange di Epirote che si trovava dietro. E che, quindi, non poteva evitare di essere spezzato da
questi animali. Era il momento che Manio stava aspettando. Per la prima volta da quando Pirro mise
piede in Italia, i romani ebbero un vero vantaggio. Gli elefanti, che avevano causato tanti danni,
sembravano ora dare la vittoria ai romani. Se ci lasciamo trasportare da Dionisio, Manio ordinò in quel
momento il rilievo delle linee. E gli hastati furono sollevati in prima linea dai principi (armati di hasta),
e con l'accusa della crema di Roma, l'esercito epirote viene spezzato e costretto a fuggire. Quello che
seguì fu un feroce massacro. Diversi elefanti furono radunati e catturati con i loro “ mahout ”  indiani
(otto animali secondo Zonaras). L'inseguimento raggiunse persino il campo dell'Epirote, che non poté
essere sostenuto. Pirro, con il suo esercito completamente distrutto, accompagnato da pochi cavalieri,
sarebbe fuggito a Taranto. La vittoria romana fu completa e indiscutibile.

Vittoria romana in Lucania


Mentre ciò avveniva nei pressi di Maleventum (l'attuale Benevento), l'altro console romano, sia perché
avvertito, sia intuendo gli eventi, affrontò e sconfisse il secondo esercito di Epirote. Quello inviato per
impedire a entrambi gli eserciti consolari di unirsi contro Pirro. E che, intuivamo, non aveva alcun
obbligo di impegnarsi in battaglia con i romani. Per qualche ragione, questo secondo esercito di Epirote
non poteva evitare uno scontro che era chiaramente perso in anticipo. Il suo obiettivo non era
combattere con un esercito consolare che, a nostro avviso, era più numeroso di lui. In caso contrario, e
attraverso azioni di guerriglia o molestie alle retrovie, ad esempio, impedire una marcia rapida e sicura
di questo esercito a sostegno del suo equivalente. La sconfitta degli eserciti di Pirro fu totale. Su tutti i
fronti di battaglia. La strategia disegnata da Pirro, interessante dal nostro punto di vista, per vari motivi
non ha raggiunto l'obiettivo programmato. E ha finito per causare la sua sconfitta finale. Le difficoltà di
Pirro nel prendere di sorpresa l'accampamento di Manio, insieme alla sgradita fuga precipitosa degli
elefanti, impedirono a Pirro di infliggere un duro colpo ai romani. Al contrario, finì con il suo esercito
praticamente distrutto. Tatticamente la battaglia di Benevento può essere considerata uno stallo, ma
strategicamente è stata una vittoria dei Romani. Una spiegazione dell'esito negativo dello scontro per
Pirro, che in precedenza aveva battuto le legioni romane nella battaglia di Heraclea e ad Ascoli Satriano,
può ricercarsi nel fatto che il re dell'Epiro a Beneventum non aveva più a piena disposizione, come
all'inizio della campagna in Italia, le sue forze migliori, in particolare gli esperti falangiti, che avevano
subito perdite pesanti non solo nelle campagne del 280 a.C. e 279 a.C. nella penisola, ma anche durante
l'attraversamento dello stretto di Messina nel ritorno dalla campagna in Sicilia.

Fine della guerra contro Pirro


Pirro, per non cadere prigioniero dei romani, dovette far ritorno precipitosamente nel suo regno con
quanto rimaneva del suo esercito. Era l'atto finale della guerra. Con le forze ormai logore Pirro decise di
far ritorno in patria, lasciando nell'alleata Taranto un timido presidio comandato da Milone, il quale si
arrese però ai Romani pochi anni dopo (nel 272 a.C.). Tornato in patria Pirro, non pago del grave prezzo
in uomini, denaro e mezzi della sua avventura a Occidente, due anni dopo preparò un'altra spedizione
bellica contro Antigono II Gonata: il successo fu facile e Pirro tornò a sedersi sul trono macedone, dove
morì di lì a poco mentre tentava di conquistare il Peloponneso. Di lì a poco tutto il resto dell'Italia
meridionale passò nell'orbita dell'Urbe (Reggio fu presa nel 271 a.C.): Roma aveva completato la
sottomissione della Magna Grecia e la conquista di tutta l'Italia meridionale. Dopo Reggio ad uno ad
uno, tutti i popoli del Mezzogiorno, Lucani, Bruzii, Calabri, Picentini si sottomisero e l'ultima resistenza
dei Sanniti fu definitivamente domata. Lo stesso avvenne di tutte le città della Magna Grecia. L'ultima
città a cadere in mano dei Romani fu Brundisium (Brindisi) nel Salento, che fu costretta alla resa e
occupata nel 267 a.C. I Romani già avevano prolungato (dopo la battaglia di Malevento) la via Appia da
Capua fino alla ribattezzata Beneventum, ora la fanno proseguire fino a Brindisi, per assicurarsi una via
di penetrazione verso le regioni della Magna Grecia (ma fra breve in Illiria, poi nella stessa Grecia).
L'integrazione della Magna Grecia nel dominio della Repubblica Romana fu l'inizio di varie evoluzioni
sociali per la città, che accoglieva così molti più greci con la loro cultura che avrebbe in seguito
influenzato la stessa società romana. Roma fondò in tutta l'area numerose sue colonie: Posidonia (la
latina Paestum) nel 273 a.C., Beneventum nel 268 a.C., Aesernia nel 263 a.C. Nel 265 a.C., con la presa
di Volsinii, la sottomissione della penisola poté dirsi conclusa da parte della Repubblica romana. Roma
era ora proiettata alla conquista del Mediterraneo occidentale contro la potenza marittima di Cartagine,
sua alleata durante le guerre pirriche.

Prima guerra punica


La prima guerra punica (264 - 241 a.C.) fu la prima di tre guerre combattute tra l'Antica Cartagine
e la Repubblica romana. Per più di 20 anni, le due potenze si scontrarono per acquisire la
supremazia nel Mar Mediterraneo occidentale, principalmente combattendo in Sicilia e nelle acque
circostanti, ma anche in maniera minore nella penisola italiana e in Nordafrica. Cartagine era situata
in quella che è l'odierna Tunisia ed era la potenza dominante del Mediterraneo occidentale all'inizio
del conflitto. La Repubblica romana risultò vincitrice al termine della guerra e impose a Cartagine
pesanti sanzioni economiche. La serie di guerre tra Roma e Cartagine furono chiamate dai romani
"guerre puniche", dal nome in latino con il quale venivano chiamati i cartaginesi: Punici, derivato
da Phoenici, in riferimento alle origini fenicie del popolo.

Quarto Trattato tra Roma e Cartagine (279 a.C.)


La potenza navale di Cartagine si vide nel 279 a.C. attenta a non far dimenticare i suoi interessi
sulle coste italiche e preoccupata di un possibile allargamento del regno di Pirro, greco e
"imparentato" con Siracusa, Cartagine inviò una flotta di 120 navi, comandata da Magone Barca
che si ancorò nel porto di Ostia per forzare i romani, impegnati nella guerra con Pirro e che
pensavano alla pace, a continuare le ostilità. Cartagine così ottenne di avere mani più libere contro
Siracusa e la stipulazione di un trattato (il quarto con Roma) nel quale le due potenze
implicitamente spartivano le zone di influenza. Il patto, oltre a promesse di aiuto economico e
militare di Cartagine contro i greci, garantiva a Roma che i punici non si accordassero con Pirro
(c'erano voci di accordi in proposito) mentre Roma era impegnata in combattimenti con Sanniti,
Lucani e Bruzi. La zona di influenza di Roma veniva fissata nell'Italia peninsulare e proibiva ai
romani di sbarcare in Sicilia se non per necessità di rifornimento o riparazioni navali. L'anno
successivo, Pirro sbarcò con 8.000 uomini a Catania e Taormina, allontanò i cartaginesi da Siracusa
e conquistò praticamente tutta la Sicilia riducendo i punici al possesso del solo Capo Lilibeo. Due
anni dopo dovette però rientrare in Italia e Cartagine ritornò sulle posizioni precedenti.

Casus belli
Nel 288 a.C. i mamertini, un gruppo di mercenari italici della Campania originariamente al servizio
di Agatocle, tiranno di Siracusa, rimasti senza un signore alla morte di quest'ultimo avvenuta l'anno
prima, occuparono la città di Messana (la moderna Messina) uccidendo tutti gli uomini e
prendendone le donne. Nel 280 a.C., la vittoria di Pirro sui romani nella battaglia di Eraclea portò le
popolazioni italiche a ritenere possibile la sconfitta di Roma e in alcuni casi a ribellarsi.
La guarnigione romana di Rhegium (la attuale Reggio Calabria) costituita da soldati campani, pensò
di prevenire una sollevazione della popolazione e fece strage degli uomini, impossessandosi anche
in questo caso dei beni e delle donne. Sconfitto Pirro nella battaglia di Maleventum del 275 a.C., i
romani nel 270 a.C. decisero di riprendere Rhegium. Il consoleGneo Cornelio Blasione pose
l'assedio alla città, aiutato dalla flotta siracusana, e quando la guarnigione si arrese dopo una strenua
difesa, deportò a Roma i sopravvissuti tra i 4000 che avevano dieci anni prima preso la città. Il
senato chiese una punizione esemplare per quei soldati che si erano macchiati di crimini contro la
popolazione e i superstiti furono condannati come scellerati. Vennero perciò tutti fustigati e
decapitati. In Sicilia invece i mamertini saccheggiavano il territorio circostante Messana e si
scontrarono con la città indipendente di Siracusa. Gerone II di Siracusa divenuto tiranno di Siracusa
dal 270 a.C. e lo stesso anno si scontrò con i mamertini vicino Mylae, l'odierna Milazzo,
sconfiggendoli nella battaglia presso il fiume che lo storico Polibio nelle sue Storie chiama
Longanus nei "Campi Milesi". Alla sconfitta seguì la presa di Milazzo. I mamertini dopo il
rovescio subito si rivolsero a Roma e Cartagine per ottenere assistenza militare. La prima a
rispondere alla richiesta fu Cartagine che contattò il rivale Gerone per ottenere la cessazione di
ulteriori azioni e nello stesso tempo convinse i mamertini ad accettare una guarnigione cartaginese a
Messana. Forse perché non contenti della prospettiva di dover accogliere truppe cartaginesi in città,
o forse convinti che la recente alleanza tra Roma e Cartagine contro Pirro confermava l'esistenza di
relazioni cordiali tra le due potenze, i mamertini chiesero di allearsi anche con Roma, sperando di
avere una protezione più affidabile. Ma la rivalità tra Roma e Cartagine era aumentata rispetto ai
tempi della guerra con Pirro e, secondo lo storico Warmington, un'alleanza con entrambe le potenze
in contemporanea non era possibile. Secondo lo storico Polibio, vi fu un vasto dibattito a Roma per
decidere se accettare la richiesta dei mamertini e entrare in questo modo probabilmente in guerra
con Cartagine. Se da un lato alcuni non ritenevano si dovesse andare in aiuto di soldati che
ingiustamente avevano rubato una città ai legittimi proprietari, cosa recentemente punita nel caso di
Rhegium, né fosse saggio violare il trattato precedente che imponeva ai romani di non mettere piede
in Sicilia; d'altra parte molti non erano disposti a vedere espandersi ulteriormente il potere
cartaginese in Sicilia, poiché lasciando i cartaginesi indisturbati a Messana, essi avrebbero dato a
questi la possibilità di un successivo confronto con Siracusa, sconfitta la quale la conquista della
Sicilia sarebbe stata completa. Ciò avrebbe reso strategicamente meno sicuri gli interessi romani nel
sud della penisola, con il dominio cartaginese tanto vicino ad essa. Il senato, riluttante a imbarcarsi
in un'impresa tanto rischiosa, arrivò ad uno stallo e la questione venne rimessa alla assemblea
popolare: qui maggiore voce in capitolo l'aveva la parte mercantile e popolare di Roma, che era
anche interessata al possibile controllo delle ricchezze e delle scorte di grano in Sicilia (isola già
nota per le risorse soprattutto nelle città greche), nonché alla possibilità di fondare colonie per aprire
nuovi mercati e allentare la pressione sociale e demografica nella capitale. Così in assemblea fu
deciso di accettare la richiesta dei mamertini. Venne posto il console Appio Claudio Caudice a capo
di una spedizione militare con l'ordine di attraversare lo stretto di Messina, cosa che avvenne nel
264 a.C.

Prima fase: guerra sulla terra


La prima fase della prima guerra punica
1. Arrivo dei romani e avanzata contro i siracusani a Messana (264 a.C.)
2. I romani sconfiggono l'esercito congiunto di Siracusani e Cartaginesi e avanzano verso Siracusa
3. I romani proteggono il fianco dell'avanzata conquistando Adranon e assediando Centuripae che si
arrende
4. Catania si arrende
5. I romani mettono sotto assedio Siracusa. Gerone II chiede la pace e diventa alleato di Roma
6. I romani conquistano Agrigento (262 a.C.)
7. Enna e Halaesa si arrendono a Roma

Cartagine aveva risposto all'appello di Messina molto più prontamente; una flotta punica "amica"
aveva occupato il porto messinese e il comandante cartaginese si era insediato nella rocca. Di fatto
controllava la città. I Mamertini,

« in parte con le minacce, in parte con l'inganno chiamarono a sé Appio e nelle sue mani rimisero la
città. » (PolibioStorie, I, 11, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Si trattò quindi, di une vera e propria deditio come quella di Capua all'inizio delle Guerre
sannitiche. La città rinunciava all'indipendenza chiedendo di essere protetta contro i nemici dalla
superiore forza militare romana. Che poi il governo della città non fosse proprio del tutto legale
stava diventando rapidamente un fatto secondario. Cartagine era stata estromessa dallo Stretto e
questo era il risultato che si voleva. Messina era diventata romana anche se ex post, Roma aveva
stabilito il "Diritto" di stare in Sicilia. I Cartaginesi non rimasero passivi. Per prima cosa
crocifissero il loro stesso comandante (Zonara, VIII, 9, 1 ss - ci dà il nome Annone) ritenendo che
avesse agito con viltà e sconsideratamente, posero la flotta nei pressi di Capo Peloro e le forze
terrestri vicino alle Sine (oggi luogo non determinato, probabilmente sulla costa a nord di Messina).
Gerone (diventato Gerone II di Siracusa) pensò che allearsi con Cartagine in funzione anti-
Mamertini fosse una buona mossa strategica, stipulò un trattato con i Cartaginesi, uscì dalla città
con le sue truppe e si accampò a sud di Messina abbozzando una azione "a tenaglia". Appio
Claudio, in un primo momento cercò di evitare il combattimento; con una mossa dal sapore
diplomatico, quasi a volersi porre al di sopra della mischia e velare l'attivo interesse romano sullo
Stretto, cercò di mediare fra i Mamertini e gli assedianti. Inutilmente.
Appio dovette mostrare attivamente che Roma era lì per avere voce in capitolo, pose le legioni sul
terreno e attaccò i Siracusani. La battaglia, a quanto dice Polibio fu lunga ma i Siracusani dovettero
cedere e ritirarsi nel loro accampamento. Durante la notte Gerone e i suoi ritornarono a Siracusa. Il
giorno successivo Appio, saputo della ritirata, alle prime luci dell'alba attaccò i Cartaginesi. Anche
qui la vittoria fu romana e i nemici dovettero cercare scampo nelle città vicine. Appio ritornò allora
sui suoi passi, si diresse a Siracusa e pose l'assedio.

Risultati

A Roma, quando si seppe dei brillanti risultati di Appio si decise di inviare in Sicilia entrambi i
consoli (nel frattempo erano stati eletti Manio Otacilio Crasso e Manio Valerio Massimo Messalla
con tutte e quattro le legioni; 16.000 fanti e 1.200 cavalieri. Dovette essere un discreto shock per la
Sicilia perché

« la maggior parte delle città , ribellandosi ai Cartaginesi e ai Siracusani, si unì ai Romani. Gerone [...]
concluse che le prospettive dei Romani fossero più brillanti di quelle dei Cartaginesi. Perciò, orientato
in questo senso dalle sue riflessioni mandava inviati ai consoli parlando di pace e di amicizia. I Romani
accettarono soprattutto per gli approvvigionamenti... » (Polibio, Storie, I, 16, BUR. Milano, 2001. )

I consoli accettarono la pace, Gerone dovette restituire i prigionieri senza ricevere il riscatto, il
versamento di 100 talenti d'argento e impegnarsi a supportare dal punto di vista logistico le attività
belliche di Roma in Sicilia. Questo sollevò l'Urbe da una serie di problemi derivanti dal totale
controllo del mare della flotta cartaginese. Ratificato l'accordo dal popolo, Roma ridusse le truppe
di occupazione a due legioni ma Cartagine, constatato che ormai Siracusa era ridiventata nemica e
che ora anche Roma era pesantemente coinvolta nelle vicende dell'Isola, arruolò mercenari Liguri,
Celti e Ispanici per rinforzare le proprie guarnigioni; li concentrò ad Agrigento. I successivi consoli
Lucio Postumio Megello e Quinto Mamilio Vitulo, inviati in Sicilia con, nuovamente, quattro
legioni vi si scatenarono contro nella battaglia di Agrigento. I Cartaginesi, scivolati lentamente nelle
spire della guerra osservando che Roma aveva inviato due legioni assoldarono mercenariLiguri,
Celti e soprattutto Iberi e li portò in Sicilia. Roma alzò il livello di coinvolgimento e portò il suo
esercito a circa 40.000 uomini organizzati in quattro legioni con le rispettive alae di cavalleria. Il
comando era affidato a entrambi i consoliLucio Postumio Megello e Quinto Mamilio Vitulo. Le
legioni di Roma erano supportate logisticamente da Siracusa e nel giugno del 262 a.C. marciarono
su Agrigento dove i Cartaginesi tenevano una guarnigione comandata da Annibale di Giscone. Le
legioni romane si accamparono a circa otto stadi (circa 1.500 metri) dalla città. Annibale di Giscone
si rinchiuse con la guarnigione e la popolazione all'interno delle mura raccogliendo tutte le vivande
possibili dal territorio circostante. La città era preparata ad un lungo assedio e, in effetti, sembrava
che tutto quello che si doveva fare era resistere in attesa che dalla madrepatria giungessero i rinforzi
programmati. Inoltre dobbiamo ricordare che tutta la superba ingegneristica da assedio sviluppata
nel tempo dai Romani era, all'epoca, ancora rudimentale o del tutto sconosciuta. Per conquistare una
città come Agrigento l'unico metodo era l'assalto o la presa per fame. Così le legioni di Roma si
accamparono per bloccare all'interno della città gli abitanti e le truppe. Dal canto loro i Romani,
supportati da Siracusa e liberi di foraggiare nel territorio non avevano problemi di rifornimento.
Però,

« Essendo in pieno corso la mietitura e annunziandosi l'assedio di lunga durata, i soldati si impegnarono
a raccogliere grano con più ardore del dovuto. I Cartaginesi, visti i nemici disperdersi per la campagna
fecero una sortita e piombarono sui foraggiatori. Dopo averli facilmente messi in fuga, gli uni presero a
saccheggiare il campo, gli altri si gettarono sui presidi. In seguito avvenne che i Cartaginesi si
comportassero con maggiore prudenza e che, d'altra parte, i Romani provvedessero al foraggiamento
con maggiore cautela. » (Polibio, Storie, I, 17-18, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)
Poi, visto che la guarnigione – logicamente - non usciva in battaglia e aspettandosi l'arrivo di
rinforzi da Cartagine, i consoli divisero in due l'esercito; una delle due metà rimase davanti alla città
e l'altra fu spostata in direzione di Eraclea Minoa, ancora in mani puniche, da dove presumibilmente
sarebbero giunti i Cartaginesi. I legionari costruirono una contravvallazione di due fossati uno per
ripararsi dagli attacchi portati dalla città e l'altro per difendersi dall'esterno e una serie di
fortificazioni in punti strategici. Dopo cinque mesi i Cartaginesi di Agrigento, che cominciavano a
risentire dell'assedio, mandarono appelli perché fossero inviati i rinforzi. Cartagine reagì e truppe
puniche si raccolsero a Eraclea Minoa all'inizio dell'inverno 262-261 a.C. In Sicilia giunsero circa
50.000 fanti, 6.000 cavalieri e 60 elefanti comandati da Annone. Dopo una marcia segnata da
alcune scaramucce vinte dalla cavalleria di Annone i Cartaginesi riuscirono a impadronirsi delle
scorte alimentari romane stipate a Erbesso, si accamparono a poca distanza dai Romani e in poco
tempo si disposero in formazione di battaglia. L'assedio di Agrigento continuò ma ora anche i
Romani erano sotto assedio.

Battaglia di Agrigento

Assediati da Annone, tagliati fuori dai rifornimenti di Siracusa e dalla possibilità di foraggiare
liberamente i consoli romani dovettero decidere di scendere in campo per uno scontro diretto.
Ovviamente questa volta fu Annone a non volersi impegnare. Più avesse indebolito i nemici
affamati e -pareva- colpiti da un'epidemia e meno problemi avrebbe avuto in uno scontro campale.
E, a quanto afferma Polibio, per due mesi le forze cartaginesi se ne stettero ad assediare il campo
romano limitandosi a sporadiche scaramucce di cavalleria. Per fortuna dei Romani, Gerone di
Siracusa riuscì a inviare un nuovo rifornimento che permise loro di scartare la pur ventilata ipotesi
di abbandonare l'assedio. Nello stesso tempo inoltre, la situazione all'interno della città, stretta
d'assedio da oltre sette mesi, si stava facendo rapidamente disperata. Annibale di Giscone,
comunicando con i soccorritori tramite segnali di fuoco chiedeva un soccorso urgente e Annone
dovette scendere in campo. Secondo Giovanni Zonara, furono i Romani a dover ingaggiare battaglia
avendo limitate scorte di cibo a disposizione, ma Annone fu preoccupato da questa improvvisa
decisione. I dettagli dello scontro sono variamente descritti a seconda dello storico dell'epoca che li
narrò. Secondo Zonara, Annone avrebbe voluto effettuare un combattimento coordinato con le
truppe cartaginesi di Agrigento, ma i Romani compresero ciò. Annone dispose le truppe di fanteria
su due linee sistemando rinforzi ed elefanti in seconda fila e, probabilmente, disponendo la
cavalleria alle ali come era normale abitudine dell'epoca. Nulla si sa della disposizione delle truppe
romane ma sembra logico supporre che abbiano seguito i canoni della disposizione delle legioni su
tre linee. Zonara afferma di un agguato romano alla parte posteriore dell'esercito cartaginese
all'inizio della battaglia, grazie al quale durante la stessa Annone fu attaccato su due fronti. Tutte le
fonti concordano sul fatto che la battaglia sia stata di lunga durata fino a quando i Romani non
riuscirono a rompere il fronte cartaginese. Questo portò il panico nelle retrovie e le riserve puniche
abbandonarono il campo. È anche possibile che gli elefanti della seconda fila, animali notoriamente
tendenti a imbizzarrirsi per il panico, abbiano disorganizzato lo schieramento cartaginese. In ogni
caso i Romani sopraffecero il nemico e vinsero, La cavalleria riuscì a circondare e catturare diversi
elefanti. D'altra parte la vittoria non fu così netta. Durante la notte, Annibale di Giscone con tutta la
guarnigione di Agrigento riuscì a uscire dalla città, attraversare i fossati e le linee romane e a
mettersi in salvo, a quanto riferisce Polibio (I, 23,4), "su una nave a sette ordini di remi che era
stata del re Pirro". Al mattino i Romani accortisi di quanto avvenuto attaccarono la retroguardia dei
fuggitivi ma poi si gettarono sulle porte della città e se ne impadronirono. A seguito della battaglia,
la prima delle quattro battaglie terrestri della prima guerra punica, i Romani occuparono al città, la
saccheggiarono e, come d'uso, vendettero schiava la popolazione. Ai consoli pur vittoriosi,
probabilmente a causa della fuga di Annibale di Giscone e Annone, non furono concessi gli onori
del trionfo al loro ritorno.
In Sicilia
Perciò, visto che le coste italiche erano sempre più attaccate da Cartagine mentre le coste africane
restavano indenni, a Roma si decise di “prendere il mare” » (Polibio, Storie, I, 20, BUR. Milano, 2001)

Dal 261 a.C. i Romani controllarono la maggior parte della Sicilia (a parte il territorio dell'alleata
Siracusa e qualche ridotta cartaginese) e poterono stornare su Roma la grande produzione agricola
dell'isola La fame di conquiste e di potenza si scatenò a Roma. Infatti,

« Quando giunse al Senato dei Romani la notizia dei fatti di Agrigento, essi [...] non si fermavano ai
ragionamenti iniziali e non si accontentavano di aver salvato i Mamertini, né dei vantaggi derivati dalla
guerra stessa ma, sperando che fosse possibile cacciare del tutto i cartaginesi dall'isola e che, una volta
avvenuto tutto ciò la propria potenza si incrementasse notevolmente erano presi da questi ragionamenti
e dai progetti che ne derivavano » (Polibio, Storie, I, 20, BUR. Milano, 2001. Trad.: D. Musti)

Dopo la battaglia di Agrigento del 261 a.C. Roma, con il supporto di Siracusa aveva messo
stabilmente piede nelle fasce orientale e sud orientale della Sicilia da Messina ad Agrigento.
Cartagine continuava a controllare le zone occidentali e la costa tirrenica oltre all'interno dell'isola.
Nessuna delle due contendenti voleva fermarsi e consolidare la situazione. Cartagine, vedeva
vanificare rapidamente secoli di lotte di conquista. Roma aveva appena iniziato a raccogliere i frutti
della sua fase espansiva e ne intravvedeva di più interessanti. Rendendosi conto, però, che i
cartaginesi mantenevano il controllo del mare, con tutte le conseguenze che ne derivavano, Roma
decise che era giunto il tempo di dotarsi di una flotta militare e non accontentarsi di "noleggiare"
navi dai Greci e dagli Etruschi per spostare le truppe di terra. Secondo Polibio l'acquisizione del
know how romano avvenne con la cattura di una nave cartaginese nel 264 a.C., durante il
trasferimento delle truppe in Sicilia prima della battaglia di Messina.

« ...una loro [dei Cartaginesi] nave coperta, nello slancio si spinse avanti fino a incagliarsi e cadere nelle
mani dei Romani. Essi allora, usando questa come modello, sulla base di essa costruirono tutta la
flotta. » (Polibio, Storie, I, 20, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Il primo "appalto" era costituito da cento quinquiremi e venti triremi. E, sempre secondo Polibio, i
futuri marinai vennero addestrati a vogare riproducendo a terra i banchi dei rematori e facendo delle
prove di navigazione "virtuale". Non si sa quanto tempo venne dedicato all'addestramento di
navigazione in condizioni reali: Polibio si limita a un "per breve tempo".

Battaglia delle Isole Lipari

Nel 260 a.C., dunque la flotta romana era stata costruita e fu affidata al consoleGneo Cornelio
Scipione Asina, mentre a Gaio Duilio, l'altro console, fu dato il comando delle forze di terra.
Scipione, dopo aver ordinato ai capitani delle navi di partire per Messina appena pronti, era partito
in anticipo con 17 navi diretto allo Stretto. Nel tragitto passò vicino all'isola di Lipari, controllata da
Cartagine, e dotata di una guarnigione di dimensioni ridotte. Scipione decise di occupare le isole
Lipari, en passant, probabilmente certo di una facile vittoria. Gneo occupò la città e il suo porto. Le
comunicazioni cartaginesi erano certamente buone in quanto la notizia giunse velocemente a
Palermo. Il comandante Cartaginese era quell'Annibale di Giscone che era riuscito a fuggire da
Agrigento dopo l'assedio e l'intervento di Annone. Annibale inviò Boode, un membro del Senato
cartaginese con venti navi. Le navi cartaginesi, avendo catturato la flottiglia nemica e il suo
comandante che era anche console ritornarono a Palermo. Gneo Cornelio Scipione da questa
battaglia venne soprannominato Asina. Si riteneva, infatti, che le femmine dell'asino soffrissero di
aquarum tedium (paura dell'acqua).
Ma la sua carriera politica e militare non ne risentì molto. Ritornato a Roma, probabilmente con uno
scambio di prigionieri o -meno probabilmente- col pagamento di un riscatto, Gneo Cornelio verrà
nuovamente eletto console nel 254 a.C. con Aulo Atilio Calatino.

L'arma segreta

Rimasti senza un console, i Romani inviarono messaggi all'altro, Gaio Duilio, che comandava le
forze terrestri. Nel frattempo cominciò la preparazione della flotta per sostenere l'attacco di quella
cartaginese che si sapeva essere in movimento; i Romani, resisi rapidamente conto dell'inferiorità
operativa nelle manovre navali e nella guerra per mare in genere, elaborarono quella che oggi si
sarebbe definita un'"arma segreta": il corvo. La vera natura di tale strumento è in discussione fra gli
storici. Secondo lo storico greco Polibio, che scriveva circa un secolo più tardi, il corvo era
costituito da un "palo cilindrico posto a prua della nave, avente una lunghezza di quattro orgyie e un
diametro di tre palmi". Qui veniva inchiodata "una scala a tavole trasversali larga quattro piedi e
lunga sei orgyie". La scala aveva ai lati un parapetto alto fino al ginocchio. Sulla punta era installato
"una sorta di pestello di ferro appuntito con un anello in cima, sicché l'insieme sembrava del tutto
simile ai macchinari per la preparazione del pane". Una corda attaccata all'anello permetteva di
sollevare il corvo che, se lasciato cadere, si piantava sul tavolato della nave avversaria rendendo
impossibile la separazione delle navi. In pratica il corvo era una passerella che fissata alla nave
avversaria, permetteva a soldati abituati a combattere sulla terraferma di passare da una nave
all'altra senza evoluzioni sulle funi e quindi di combattere come erano addestrati a fare. Se le navi
restavano accostate ai fianchi l'abbordaggio era generale, se invece si attaccava la prua, il corvo
permetteva l'attacco dei fanti su due file. I primi assaltatori riparavano loro stessi e i compagni
tenendo gli scudi davanti a loro, quelli che seguivano, sempre con gli scudi, proteggevano i fianchi.

Ricostruzione di un 'corvo'

Battaglia di Milazzo

Gaio Duilio si recò personalmente al comando della flotta, settore più debole, lasciando ai tribuni la
gestione delle truppe e delle operazioni a terra, settore bellico a cui le legioni erano già addestrate e
da secoli vittoriose. Le truppe cartaginesi stavano saccheggiando la zona attorno a Milazzo; Gaio
Duilio diresse la flotta romana verso la città e Annibale di Giscone, informato di questo
spostamento del teatro delle operazioni, salpò da Palermo al comando di una flotta di 130 navi e,
convinto dal risultato della battaglia di Lipari, della sua superiore capacità operativa, incrociò la
flotta nemica nel golfo di Milazzo.

I Cartaginesi, vedendo i corvi sulle tolde delle navi nemiche,


« ...restarono incerti, stupiti dal modo in cui gli attrezzi erano congegnati; tuttavia, avendo una pessima
opinione dei nemici, quelli che navigavano davanti a tutti si gettarono audacemente all'attacco.  »
(Polibio, Storie, I, 23, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Il corvo si rivelò decisivo per le sorti della battaglia: le navi immobilizzate tra di loro permisero ai
Romani di scontrarsi sui ponti delle navi e la battaglia da navale divenne simile a una terrestre, un
genere di scontro in cui i Romani si erano distinti nei secoli. I Cartaginesi, sbalorditi furono in parte
massacrati e in parte si arresero. 30 navi, le prime che erano entrate in battaglia furono catturate e
con queste anche la nave di Annibale che però riuscì a sfuggire alla cattura su una scialuppa.
Si deve citare, a margine, il fatto che qualcuno (Sordi) mette in dubbio l'esistenza dei corvi
attribuendone l'invenzione al comandante cartaginese Annibale di Giscone quale giustificazione
della sconfitta. Vista l'abitudine cartaginese di crocifiggere i generali sconfitti (fine che farà
Annibale dopo la sconfitta alla battaglia di Sulci) si può credere che il pericolo avrebbe "aguzzato
l'ingegno" di Annibale. Il resto della flotta punica cercò di manovrare per evitare l'aggancio dei
corvi, tentando di trarre vantaggio dalla migliore qualità delle navi ed esperienza degli equipaggi.

« Confidando nella loro velocità speravano di portare gli assalti a colpo sicuro, gli uni dai fianchi, gli
altri da poppa. »

(Polibio, Storie, I, 23, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

I corvi però, essendo imperniati verticalmente, potevano essere diretti quasi in ogni direzione e le
navi cartaginesi finivano regolarmente immobilizzate, assaltate e catturate. Alla fine cinquanta navi
puniche restarono nelle mani dei Romani e le altre, virarono di bordo e fuggirono. La battaglia di
Milazzo aveva segnato l'ingresso di Roma nel Mediterraneo. Dopo la sconfitta alle isole Lipari e la
vittoriosa battaglia di Milazzo, Roma prese coraggio e, sullo slancio mise fine all'assedio di Segesta,
che probabilmente sull'esempio di Gerone II di Siracusa ma certo anche a causa della vicinanza
delle legioni, aveva accettato l'alleanza con Roma e contro Cartagine. Non solo Segesta fu tratta
d'impaccio, i Romani conquistarono Macella (oggi Macellaro, a est della colonia elimia). D'altra
parte Amilcare (da non confondere con Amilcare Barca anch'egli attivo nella prima guerra punica),
il comandante delle forze terrestri cartaginesi, avendo saputo che era sorto un dissidio fra i Romani
e i socii che combattevano al loro fianco, ne attaccò il campo, staccato da quello romano e posto fra
Terme Imeresi e Paropo mentre lo smontavano; circa 4.000 legionari perirono nell'attacco.

Invio in Sardegna

Polibio informa che - non si sa se per scelta o se per ordine superiore - Annibale di Giscone,

« con le navi rimaste, salpò alla volta di Cartagine. E non molto tempo dopo, di lì passò in Sardegna »
(Polibio, Storie, I, 24, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Questa partenza e le sue modalità presentano qualche peculiarità: si può ritenere che il massacro di
4.000 uomini possa aver fatto ritenere remota la possibilità di un attacco terrestre romano alle basi e
ai porti cartaginesi quali Palermo e che quindi i comandanti punici si sentissero abbastanza sicuri di
poter fare a meno della flotta. Potrebbe peraltro trattarsi di una decisione presa "in alto". Il
comandante che ha appena subito una pesante sconfitta (poco meno della metà della flotta catturata
da nemici notoriamente poco capaci in mare) in genere non viene certo premiato. C'è quindi da
chiedersi se veramente tutte le "navi rimaste" erano state portate a Cartagine da Annibale. La
presenza a poca distanza di una flotta romana di oltre 100 navi, rinforzata da quelle catturate ai
cartaginesi, non dovrebbe aver suggerito una dismissione così ampia; il pericolo di un attacco
romano in totale assenza di una flotta anche se di dimensioni ridotte avrebbe dovuto suggerire per lo
meno l'invio di rinforzi. Per questo si può infine ritenere che quella flotta fosse tutto quello che
Cartagine poteva mettere in campo in quel momento e fosse necessaria e urgente per un'azione in
Sardegna, in risposta a movimenti delle navi romane che, a loro volta, potevano essere state -tutte o
in parte- distolte dalla Sicilia.

Anche se Annibale è stato sottoposto a qualche processo, marziale o politico, non ne aveva subito
negative ripercussioni; "non molto tempo dopo" venne mandato in Sardegna, possedimento
cartaginese,

« dopo aver preso con sé alcune navi e alcuni apprezzati trierarchi. »(Polibio, Storie, I, 24, BUR. Milano)

Interessante questo dettaglio sui trierarchi. Forse una sorta di tutela operativa per il comandante sub
judice. Annibale appare come un ammiraglio cui veniva sì confermato un comando, ma "dopo poco
tempo" e quindi presumibilmente i tempi "dovevano" essere molto stretti. Veniva inoltre affiancato
da ufficiali di provata capacità o sponsorizzati da parti politiche che avevano approfittato della
sconfitta di Milazzo per pretendere dei cambiamenti.

La battaglia di Sulci

I Romani avevano già tentato di dedurre una colonia in Corsica. Il console romano Lucio Cornelio
Scipione nel 259 sbarcò in Corsica presso l'Étang de Diane, a circa 3 km da Aleria, ed assediò la
città; sebbene l'invasore contasse sull'effetto sorpresa, Aleria resistette a lungo e dopo la
capitolazione Scipione la saccheggiò con accanimento, ciò avrebbe diffuso lo sgomento nelle
popolazioni corse. Il loro interesse per la Sardegna cominciò a notarsi con questa azione bellica e
divenne chiaro e definitivo quando, dopo la fine della guerra e mentre Cartagine era impegnata nella
triennale e sanguinosa rivolta dei mercenari, Roma con un pretesto si appropriò delle due isole.
La battaglia si svolse nel 258 a.C., nel mare al largo della città di Sulci sulla costa occidentale della
Sardegna.Le navi romane erano guidate dal console Gaio Sulpicio Patercolo e il comandante
cartaginese e i suoi "apprezzati tierarchi" consegnarono una vittoria alla formazione romana.
Annibale di Giscone fu "catturato" dai suoi stessi uomini (Polibio parla di "Cartaginesi scampati")
e, come -pare- d'abitudine per i comandanti punici sconfitti, fu crocifisso. Si possono trarre alcune
ipotesi sul comportamento di Annibale dopo (o durante) la battaglia; molto probabilmente tentò la
fuga se Polibio dice che "fu catturato". E d'altra parte già nella battaglia di Milazzo riuscì a non
cadere in mani romane abbandonando la sua nave su una scialuppa.I suoi carnefici potevano essere
cartaginesi che, fuggiti con lui, non ne sopportarono la prosecuzione del comando o la sola vista.
Ma potevano anche essere alleati sardi, specialmente se la fuga era avvenuta a terra; non
dimentichiamo che Roma, negli anni successivi alla conquista, dovette reprimere sanguinose rivolte
delle popolazioni che non ne volevano subire il dominio.

La battaglia di Tindari

La colonia greca di Tyndaris era stata fondata nel 396 a.C. sulla costa tirrenica della Sicilia. Città
assoggettata a Siracusa, aveva dovuto accettare lo stanziamento di truppe cartaginesi nel quadro
delle ostilità di Gerone II contro i Mamertini di Messina; la presenza cartaginese ne fece un
obiettivo militare per la flotta di Roma. Dopo la battaglia navale di Milazzo la flotta romana si batté
con i cartaginesi a Sulci in Sardegna. Mentre Gaio Sulpicio Patercolo si muoveva in Sardegna, il
collega Aulo Atilio Calatino al comando delle legioni operava in Sicilia. Avendo i Cartaginesi
rifiutato una battaglia a Palermo i Romani conquistarono Hippana, e dopo assedi, le città di
Mytistratum, di Camarina che si era ribellata, di Enna e altre piccole città cartaginesi. Anche sullo
svolgimento di questa battaglia si hanno scarse notizie. Polibio lo storico greco che in massima
parte ci fornisce i dati la descrive in poche righe.
« ...il console Gaio Atilio, essendo approdato a Tindari ed avendo osservato che la flotta cartaginese
navigava [...] in ordine sparso... »(Polibio, Storie, I, 25, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Il console Gaio Atilio Regolo era approdato a Tindari. Una descrizione così "tranquilla" fa pensare
che la città fosse passata in mani romane (o almeno siracusane) tanto da permettere l'uso delle
strutture da parte della flotta romana. Gaio Atilio vide che la flotta cartaginese incrociava al largo di
Tindari senza mantenere la formazione riuscendo quindi più vulnerabile. Immediatamente partì
l'ordine di attacco e, senza attendere il resto della flotta, Gaio Atilio, con dieci navi si lanciò contro
le navi dei nemici. I Cartaginesi non ci misero molto a notare che le rimanenti navi romane erano
anch'esse disorganizzate; alcuni equipaggi si imbarcavano lentamente e solo qualche nave
cominciava a salpare; Gaio Atilio era praticamente solo. Visto ciò i comandanti cartaginesi
accettarono lo scontro; virarono di bordo e si lanciarono contro le navi romane. La flotta punica
doveva essere abbastanza numerosa perché Polibio ci dice che i cartaginesi "circondarono" le navi
romane e le distrussero. Mancarono però di catturare la nave del console e il suo equipaggio; la
nave -dice Polibio- era "veloce nella navigazione" e i marinai "ottimi".Lo scontro prese un secondo
aspetto quando il resto della flotta romana arrivò sul teatro della battaglia. I Romani si radunarono
disponendosi in linea, in formazione di battaglia. Il risultato fu la cattura di dieci navi cartaginesi
complete di equipaggio e l'affondamento di altre otto. Il resto della flotta cartaginese, di cui
sfortunatamente non conosciamo l'entità, riuscì a fuggire e a riparare alle isole Lipari. Nel periodo
successivo, mentre le truppe terrestri si affrontavano stancamente in Sicilia, entrambi i contendenti
ritennero che la partita delle battaglie navali fosse conclusa con un risultato di sostanziale parità.
Entrambi i contendenti si dedicarono al rafforzamento della propria flotta. Roma, in particolare,
allestì una flotta di trecentotrenta navi "lunghe coperte" (cioè navi da guerra) e l'anno successivo si
spinsero fino al Capo Ecnomo per prepararsi all'invasione dell'Africa. I cartaginesi, per contro,
inviarono una flotta di trecentocinquanta navi a Eraclea Minoa che era ancora nelle loro mani;
intendevano realizzare un'azione analoga contro i Romani, in Sicilia. Sulle reali dimensioni delle
flotte, come in genere tutte le cifre fornite dagli storici dell'epoca in relazione alle guerre e alle
battaglie, le discussioni sono aperte. In genere si tende a ritenere le cifre molto o leggermente
minori (a seconda delle dimensioni probabili). Però vi sono interpretazioni storiche che tendono a
ritenere le cifre fornite da Polibio - data la sua competenza in materia militare- abbastanza precise e
credibili.

Battaglia di Capo Ecnomo

La battaglia di Capo Ecnomo, combattuta nel 256 a.C. fra Roma e Cartagine nel quadro della prima
guerra punica, è stata una delle più grandi battaglie navali dell'antichità.
Polibio, storico greco vicino al Circolo degli Scipioni, nonché grande esperto di arte militare, la
descrive con dovizia di particolari, definendola "la più grande battaglia navale" dell'antichità.

Siamo già nell'ottavo anno della prima guerra punica. Roma e Cartagine si sono scontrate per terra
ad Agrigento e in altri scontri "minori" per terra e ben più importanti per mare (battaglia a Lipari, a
Milazzo (260 a.C.), in Sardegna (battaglia di Sulci) e al largo di Tindari, in Sicilia (battaglia di
Tindari). Quest'ultima battaglia navale, del 257 a.C. indicò ai due contendenti che sostanzialmente
si erano battuti alla pari, che entrambi avrebbero dovuto compiere un ulteriore sforzo per riuscire a
prevalere definitivamente sull'altro. In quest'ottica, sia Roma che Cartagine potenziarono le
rispettive flotte. Cartagine doveva portare rinforzi considerevoli alle forze terrestri che in Sicilia
stavano subendo la potenza delle legioni di Roma e perdendo man mano le città conquistate
nell'isola durante secoli di guerre. Roma aveva compreso che lo sforzo bellico doveva essere portato
direttamente nel territorio metropolitano dei punici per distogliere le truppe cartaginesi dalla Sicilia
e terminarne la conquista. Non dimentichiamo che quella guerra che noi definiamo "prima guerra
punica", Polibio, mutuando la definizione romana, la chiamava "la guerra per la Sicilia".
Nell'estate del 256 a.C., quindi, i Romani

« ...salparono con trecentosessanta navi lunghe coperte e approdarono a Messana. Salpati da lì,
navigavano avendo la Sicilia a destra e, doppiato il Pachino, si spinsero fino all'Ecnomo, per il fatto che
anche l'esercito di terra si trovava in quegli stessi luoghi. I Cartaginesi, salpati con trecentocinquanta
navi coperte, si accostarono a Lilibeo, e da lì approdarono a Heraclea Minoa. »(Polibio, Storie, I, 25)

Polibio, esperto di arte militare, calcola che ogni nave romana portasse trecento rematori e
centoventi soldati di marina. Ne deriva una forza navale di 140.000 uomini. Con un calcolo analogo
i Cartaginesi venivano accreditati di 150.000 uomini. Le cifre di Polibio alternativamente discusse o
accettate dagli storici porterebbero comunque a mostrare uno scontro di dimensioni epiche. Si
stavano affrontando oltre settecento navi e quasi trecentomila uomini. Per un raffronto, forse non
del tutto ammissibile a tanta distanza di tempo, ricordiamo che la battaglia delle Midway della
seconda guerra mondiale, nel Pacifico, fu combattuta da 7 portaerei e altre 200 navi
complessivamente. La formazione adottata dai romani prevedeva le due navi a sei ordini di remi,
con un console a bordo di ciascuna. I consoli erano Lucio Manlio Vulsone Longo e Marco Atilio
Regolo che sostituiva Quinto Cedicio morto in carica. Affiancate sulla punta del cuneo erano poste
altre due linee di navi in successione e una terza linea a chiudere la base del triangolo. Questa terza
squadra doveva trainare e proteggere le navi da trasporto con i cavalli e l'equipaggiamento per
l'invasione del territorio cartaginese. Una quarta linea di navi, più estesa della base del triangolo
chiudeva la formazione con compiti di retroguardia.

« ...risultò un cuneo il cui vertice era concavo, la base compatta, e tutto l'insieme efficace e pratico, ed
al tempo stesso anche difficile da rompere. »(Polibio, Storie, I, 26, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

La formazione cartaginese, per contro, venne disposta mettendo tre quarti delle navi su una sola
linea spingendo l'ala destra in mare aperto, il restante quarto, piegato ad angolo, formava l'ala
sinistra dello schieramento che così veniva ancorato alla terraferma e protetto da attacchi navali da
quel lato. Questa ala era comandata da Amilcare, lo sconfitto della battaglia di Tindari l'anno
precedente. Il comando delle navi più potenti e veloci, poste all'estrema ala sinistra che doveva
accerchiare la formazione romana, era affidato a quell'Annone che aveva visto le sue forze battute
nella battaglia di Agrigento.Subito dopo l'inizio del combattimento e seguendo gli ordini ricevuti, le
navi del centro della formazione cartaginese volsero alla fuga per attrarre quelle romane e
scompaginare la formazione. Le navi di punta romane si lanciarono all'inseguimento mentre le navi
trasporto e la linea di retroguardia avanzavano lentamente mantenendo la formazione. Su questa
formazione, più lenta, si scatenarono le navi cartaginesi dell'ala sinistra quando videro che la punta
romana si era allontanata abbastanza. Per la maggiore velocità i cartaginesi riuscivano ad accostarsi
e a retrocedere con più sicurezza. Le navi romane utilizzavano ancora il corvo ed erano quindi in
grado di immobilizzare quelle nemiche permettendo proprio alle truppe di terra, trasportate, di
combattere quasi come erano abituate a fare. Nello stesso tempo l'ala destra punica, che si era spinta
in mare aperto, iniziò la manovra per attaccare le navi dell'ultima linea romana mettendole in
difficoltà e tentando di completare l'accerchiamento. La formazione dell'ala sinistra infine,
cambiando disposizione, attaccò le navi che trainavano i trasporti. Queste dovettero lasciare i cavi
di traino e iniziare un duro combattimento a loro volta. L'esito della battaglia si decise quando i
vascelli di Amilcare, ricacciati indietro con la forza, si dettero veramente alla fuga e permisero a
Lucio Manlio Vulsone di ritornare verso la formazione romana portando al traino le navi catturate.
Nello stesso tempo Marco Atilio e i suoi corsero al soccorso dei colleghi dell'ultima linea. Questi
combattenti che già stavano soccombendo all'attacco di Annone ripresero coraggio; i Cartaginesi si
trovarono affrontati davanti e da tergo e per non venire circondati dovettero abbandonare lo scontro
e allontanarsi in mare aperto. Le due squadre dei consoli, infine si lanciarono al soccorso di quelli
che erano in pericolo e che riuscivano a resistere solo per il timore che i punici avevano dei "corvi"
e del confronto ravvicinato. I Cartaginesi circondati lasciarono cinquanta navi in mano ai romani e
solo poche riuscirono a sfuggire lungo la costa. Secondo Polibio i Romani ebbero distrutte
ventiquattro navi e nessuna venne catturata, invece furono sessantaquattro le navi cartaginesi che
caddero in mano romana. Ritornati a terra, i Romani celebrarono la vittoria con premiazioni agli
equipaggi, ripararono le navi catturate aggregandole alla loro flotta e, completato un nuovo
rifornimento di vettovaglie, salparono alla volta dell'Africa. Toccarono terra presso la città chiamata
Aspide, ribattezzata poi dai romani come Clupea.

Sbarco in Africa (256 a. C.)


Assedio di Aspis

Con la vittoria di Capo Ecnomo Roma ebbe libera la navigazione dalla Sicilia verso le coste
africane. La flotta romana guidata dai consoli Marco Atilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone Longo,
dopo le riparazioni dei danni dovute alla battaglia e dopo l'accorpamento nella flotta della
cinquantina di navi cartaginesi catturate, approdò al Promontorio Ermeo, l'attuale Capo Bon, la
lingua di terra che sporge dalla Tunisia verso la Sicilia. Le navi più veloci attesero le navi più lente,
verosimilmente le navi da trasporto dei cavalli e delle vettovaglie e, nuovamente compatta, tutta la
flotta navigò lungo la costa fino a raggiungere una città chiamata Aspide che fu messa subito sotto
assedio e conquistata.Tra l'altro, questa operazione infrangeva le clausole fissate già nel secondo
trattato fra Roma e Cartagine stipulato nel 348 a.C. Già allora Cartagine aveva fissato dei limiti alla
navigazione romana lungo le coste dell'Africa ponendo il Capo Bello come limite invalicabile.
Molto probabilmente Capo Bello è l'attuale Capo Farina, ma una frase di Polibio può far ritenere
che questo limite fosse posto, appunto, all'odierno Capo Bon. I Cartaginesi, convinti che il nemico,
euforico per la recente clamorosa vittoria, avrebbe attaccato direttamente la loro città, si accorsero
che era stato inutile disporre i resti della flotta a sua difesa; la strategia di Roma era diversa.
Espugnando Aspide, i Romani ottennero una notevole testa di ponte in territorio nemico e un porto
su cui poter fare affidamento per gestire i rifornimenti di uomini e materiale bellico che si fossero
resi necessari.
Cartagine allora iniziò una politica di rafforzamento terrestre per difendere il territorio
metropolitano mentre i Romani, inviati messi a Roma per chiedere istruzioni, si dedicarono al
saccheggio e al foraggiamento. Il bottino in oggetti e bestiame fu ingente e vennero caricati sulle
navi circa ventimila schiavi. Roma ordinò che un console rimanesse in Africa e un altro tornasse
con la flotta. Tornò Lucio Manlio con la maggior parte delle navi, il bottino e la grande massa dei
prigionieri e schiavi e celebrò il trionfo per la vittoria nella battaglia navale di Capo Ecnomo. Marco
Atilio Regolo rimase in Africa con quaranta navi, quindicimila fanti e cinquecento cavalieri.
Cartagine nominò comandanti Asdrubale di Annone e Bostare e li inviò a Heraclea Minoa, in Sicilia
dove era rimasto Amilcare con alcune truppe di guarnigione. Quest'ultimo, imbarcati cinquemila
fanti e cinquecento cavalieri giunse in patria, si consultò con Asdrubale, e insieme decisero di
soccorrere le popolazioni depredate dalle legioni di Atilio Regolo

La battaglia di Adys

Ad Adys, che De Sanctis individua nella cittadina romana di Uthina, una ventina di chilometri a sud
di Tunisi, vennero concentrate le truppe di Cartagine.

« Marco dopo alcuni giorni cominciò ad avanzare, prendendo d'assalto e depredando le piazzeforti non
fortificate e assediando quelle fortificate. Giunto all'importante città di Adys si accampò nelle sue
vicinanze e allestì in fretta le operazioni per l'assedio . »(Polibio, Storie, I, 30, BUR. Milano, 2001)

Le forze cartaginesi erano in città e i comandanti decisero di accettare lo scontro per evitare danni
alla popolazione civile. L'esercito cartaginese era infatti composto per lo più di soldati mercenari
mentre i cittadini servivano -in genere- nella marina. L'esercito cartaginese uscì dalla città e si
accampò su un colle che permetteva ai punici di sovrastare i nemici. Polibio, esperto di arte
militare, ci precisa però che la posizione era sfavorevole alle truppe cartaginesi. Infatti le truppe di
terra basavano molta della loro strategia sui movimenti di cavalleria (e la cavalleria numidica era
un'arma formidabile) e sull'uso di elefanti da guerra. Questi reparti, però richiedevano di poter
essere utilizzati prevalentemente in pianura; la cavalleria per sfruttare la velocità e gli elefanti per
sfruttarne appieno la potenza. I Romani, quindi, si accorsero che le forze cartaginesi avevano una
capacità operativa ancora minore di quanto fosse prevedibile. L'esperienza delle legioni in
combattimenti in zone collinose e montane, efficacemente sviluppata nel corso delle guerre
sannitiche si rivelò preziosa. Una volta osservata la disposizione dei nemici i romani compresero
che i reparti più potenti e temibili dell'esercito cartaginese erano stati resi quasi del tutto inutili. Alle
prime luci del giorno i romani attaccarono risalendo il colle da entrambi i lati. La fanteria
mercenaria cartaginese si lanciò in battaglia con grande determinazione e, aiutata dalla posizione
più elevata, riuscì a far arretrare la prima legione romana. La troppa foga si dimostrò essere,
tuttavia, un fattore negativo. Una volta che la legione romana spinta indietro riuscì a riorganizzarsi e
a resistere, frenò l'avanzata dei fanti nemici. Questi si trovarono pressati da tergo dai Romani saliti
dall'altro lato del colle e dovettero cedere. Dal canto loro, la cavalleria e gli elefanti riuscirono a
ritirarsi senza gravi danni perché i romani, dopo un breve inseguimento precauzionale si dedicarono
al saccheggio dell'accampamento. I Romani ebbero campo aperto e continuarono nella politica della
devastazione del territorio. I motivi per queste azioni sono massimamente due: l'arricchimento delle
truppe e dei comandanti e costringere l'esercito nemico ad uno scontro che si possa rivelare
definitivo. L'invito alla battaglia non venne raccolto e i Romani s'impadronirono di una città
chiamata

« Tunisi, che era adatta alle iniziative che si prefiggevano nonché situata in posizione favorevole per le
operazioni contro la città e la regione ad essa vicina. Vi si accamparono. »
(Polibio, Storie, I, 30, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Un - forse imprevisto - alleato si unì alle azioni romane; il popolo dei Numidi, da anni costretto a
fornire aiuti militari a Cartagine, si ribellò iniziando a sua volta a devastare il territorio cartaginese
recando danni perfino maggiori dei Romani. Le popolazioni puniche cercarono rifugio in città
provocando demoralizzazione e scarsità di vettovaglie.

Situazione

Con la battaglia di Adys i Romani avevano sferrato un colpo decisivo alla resistenza di Cartagine. Il
console romano Marco Atilio Regolo, secondo gli ordini di Roma, era rimasto in Africa per portare
avanti la campagna di invasione. Il collega Lucio Manlio Vulsone Longo era rientrato in patria e vi
aveva celebrato il trionfo per la vittoria al largo di Capo Ecnomo.

Per di più stava per scadere il mandato annuale concesso ai consoli: Regolo - che era consul
suffectus - supplente - per la morte in carica di Quinto Cedicio - sarebbe stato sostituito da un nuovo
collega e costretto a rientrare a Roma senza aver concluso la guerra, o senza una vittoria clamorosa,
e quindi senza il diritto al trionfo. La soluzione che per Regolo era quella di concludere la pace
approfittando della debolezza di Cartagine. Il senato cartaginese non era contrario e mandò i suoi
ambasciatori. Le condizioni poste da Regolo erano però talmente dure che gli ambasciatori non solo
non le accettarono ma quasi si rifiutarono di ascoltare. Comunque, riportarono le condizioni al loro
Senato.

« Il Senato dei Cartaginesi, dopo aver ascoltato le proposte del console romano, benché avesse quasi
perduto le speranze di salvezza, si comportò con tanta fermezza e nobiltà d'animo da scegliere di
sopportare tutto e tentare ogni mezzo e ogni opportunità, pur di non accettare nulla di ignobile e di
indegno del proprio passato. »(Polibio, Storie, I, 31, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Abbastanza inusuale che un generale (e politico), pur sapendo di avere la necessità "politica" di
chiudere la guerra, non abbia cercato di raggiungere un accordo. Regolo era il classico "uomo tutto
d'un pezzo" (come dimostrerà qualche anno dopo) ma forse, ebbero un peso anche le richieste che
giungevano da Roma e che lasciavano al console poco spazio per la trattativa. De Sanctis sottolinea
come Roma volesse il totale controllo della Sicilia; Cartagine voleva mantenere alcune basi come
Lilibeo e Palermo. A queste condizioni, la pace poteva essere stipulata solo a seguito di una vittoria
definitiva.
Santippo

In questa situazione di stallo, ritornò a Cartagine un reclutatore di mercenari che era stato mandato
in Grecia. Con lui moltissimi soldati e un certo Santippo, uno spartano che aveva ricevuto
un'educazione militare degna della fama di quella città. Santippo analizzando le battaglie di
Cartagine si accorse velocemente che la responsabilità non era delle truppe ma dei comandanti che
non avevano saputo sfruttare appieno quelle forze che erano state messe a loro disposizione. I
Cartaginesi, per dirla con Polibio, "non erano stati sconfitti dai Romani ma da sé stessi". I
maggiorenti della città, venuti a sapere di queste dichiarazioni convocarono lo stratega e Santippo
dimostrò che se le operazioni fossero state svolte in pianura Cartagine avrebbe potuto facilmente
resistere e anche vincere. L'esercito cartaginese fu messo sotto la sua guida e lo spartano rialzò il
morale delle truppe e dei cittadini con manovre fuori dalle mura. I risultati furono incoraggianti e,
rincuorate, le truppe cartaginesi partirono per la controffensiva. Erano circa 12.000 fanti, 4.000
cavalieri e 100 elefanti. I Romani, quando videro che i nemici si avvicinavano sul terreno
pianeggiante, pur perplessi per la novità non rifuggirono dal contatto. Si accamparono a circa 10
stadi (meno di 2 km).

La battaglia di Tunisi (255 a. C.)

Le truppe cartaginesi chiedevano a gran voce di essere portate in battaglia, i comandanti, vedendone
l'ardore si affidarono a Santippo per la decisione. E Santippo schierò l'esercito. La battaglia fu
combattuta presso le rive del fiume Bagradas (oggi noto come "Medjerda"). In prima fila furono
disposti gli elefanti, come massa d'urto per spezzare le file romane. Dietro a questi a distanza
opportuna veniva la falange cartaginese. Questa falange era la sola forza terrestre composta da
cittadini di Cartagine e veniva formata in caso di estrema necessità; l'esercito cartaginese era, per lo
più composto da mercenari. All'ala destra Santippo dispose appunto i mercenari dotati di
armamento pesante e più lenti e possenti. Quelli più "mobili" e i cavalieri furono posti davanti a
ciascuna delle due ali. La disposizione delle legioni di Attilio Regolo fu decisa in funzione degli
elefanti. I veliti furono posti davanti; rinforzati dietro da molte linee di fanteria.

I cavalieri furono disposti, al solito, sulle ali. Lo schieramento romano fu così più profondo per
poter resistere all'urto dei possenti animali ma più stretto. Questo fu determinante per l'azione della
micidiale cavalleria cartaginese. All'inizio delle ostilità la cavalleria romana surclassata
numericamente da quella nemica cessò ogni resistenza e scomparve dalla scena bellica. La
tetragona fanteria legionaria resistette. L'ala sinistra della fanteria romana, in parte per evitare gli
elefanti, in parte perché consideravano i mercenari un nemico più facile si scagliò contro questi. In
effetti i mercenari volsero rapidamente in fuga e furono inseguiti fino al campo. Il resto dell'esercito
che si trovò a fronteggiare gli elefanti pur con considerevoli perdite per un po' resistette all'urto. Le
forze romane, però, si trovarono circondate dalla cavalleria cartaginese che non aveva trovato
praticamente resistenza e furono costrette a coprirsi anche alle spalle diminuendo la resistenza sul
fronte.

Inoltre gli elefanti riuscivano a compiere un vero e proprio massacro calpestando i malcapitati fanti
e quei pochi di loro che riuscirono a filtrare e a passare dietro la linea degli enormi animali
trovarono ad attenderli la falange cartaginese, ancora fresca, intatta e compatta. Fu un massacro.
Anche i legionari che si diedero alla fuga, essendo il terreno pianeggiante, venivano raggiunti dai
cavalieri o dagli elefanti e uccisi. Secondo Polibio circa cinquecento romani che -assieme al
console- erano riusciti a sganciarsi furono in seguito catturati. Le perdite cartaginesi furono di 800
mercenari, quelli disposti all'ala sinistra e sgominati dai Romani. I componenti dell'ala destra
romana, che li avevano messi in fuga, a causa dell'inseguimento si trovarono fuori dalla battaglia e
si salvarono. Erano circa 2.000. I resti delle truppe romane che avevano avuto la fortuna di salvarsi,
trovarono rifugio nella città di Aspide conquistata l'anno precedente e dove era rimasta anche una
guarnigione. Roma, avuta la notizia, organizzò una flotta di soccorso di trecentocinquanta navi
comandata da Marco Emilio Paolo e Servio Fulvio Petino Nobiliore. I Cartaginesi, spogliati i morti,
tornarono in città con il morale alle stelle, avendo conquistato un buon bottino, molti prigionieri e
perfino il console. Dopo aver festeggiato e ringraziato gli dèi si accinsero ad assediare Aspide per
eliminare tutti i nemici sul territorio. Aspide non cadde e Cartagine organizzò una flotta di duecento
navi per contrastare quella romana che veniva in soccorso. Le flotte si scontrarono al largo del Capo
Ermeo, la flotta cartaginese ebbe la peggio e ben 114 navi -complete di equipaggio- furono catturate
dai romani. La flotta romana raccolse i superstiti concentrati ad Aspide e fece vela verso la Sicilia.
Se le cifre fornite da Polibio sono vere, questa battaglia sarebbe più importante di quella di Capo
Ecnomo. Diodoro parla di perdite cartaginesi limitate a sole 24 navi. Il finale di Santippo non rende
giustizia al suo ruolo in Bagradas. Ebbe problemi con l'aristocrazia cartaginese, avendo suscitato
una tremenda invidia. Come abbiamo visto prima, molti aristocratici avevano carriere militari come
generali, quindi è facile capire che vedevano un pericolo in Santippo. Nonostante avessero espulso i
romani dall'Africa, le truppe cartaginesi non avrebbero dimenticato che tutto era stato merito dello
spartano. Già mostrava loro quanto fossero incompetenti i generali punici in addestramento e in
battaglia, infatti gli fu affidato il comando su espressa richiesta della fanteria cittadina cartaginese,
ed essi non si fidavano più dei loro compatrioti, se non per mietere sconfitte, non erano stati in
grado di fare altro. Con un simile rivale, chi avrebbe conquistato la gloria a Cartagine? Nessuno.
Così, contro gli interessi della città ea favore dei propri, espulsero Santippo con la loro invidia.
Diodoro (XXIII, 16) afferma che i Cartaginesi - o almeno una loro fazione- fecero naufragare la
nave che lo riportava in Grecia, che avrebbe potuto essere possibile visto il disagio che aveva creato
nella classe dirigente punica. Ma il destino non è stato così male con lui in altre terre abbastanza
lontane. In Daniele. 11:7-9 uno Santippo appare come governatore di una provincia recentemente
conquistata da Tolomeo III d'Egitto nel 245 aC Forse è lui il Santippo della nostra storia e terminò i
suoi giorni nelle terre tolemaiche, dove seppero sfruttare il suo talento , ma questo è qualcosa che
sicuramente non sapremo mai. Dopo la sconfitta a Tunisi, Roma aveva anche dovuto subire la
distruzione quasi totale della flotta che riportava in Italia le legioni dello sconfitto e catturato Marco
Atilio Regolo. Polibio ci informa che per il naufragio, avvenuto lungo le coste orientali della Sicilia,
di trecentosessantaquattro navi ne rimasero solo ottanta. Cartagine, rincuorata dalla vittoria terrestre
e convinta di essere più forte sul mare vista la distruzione della flotta nemica, inviò in Sicilia
Asdrubale affidandogli il comando dei soldati già presenti nell'isola compresi quelli di stanza ad
Heraclea Minoa e ben centoquaranta elefanti. Evidentemente la lezione che Santippo aveva dato a
Tunisi era stata recepita dai Cartaginesi. Per rinforzare la flotta che era stata in parte distrutta e in
parte catturata a Capo Ecnomo, Cartagine costruì anche duecento nuove navi. Asdrubale prese terra
a Lilibeo e cominciò a far esercitare i suoi uomini. Era chiaro che voleva incontrare i Romani sul
campo. Conosciute le mosse dei Cartaginesi, i Romani decisero di ricostruire la flotta e in soli tre
mesi allestirono duecentoventi navi e le diedero ai consoli Gneo Cornelio Scipione Asina al suo
secondo mandato dopo la sfortunata prova alle Isole Lipari e Aulo Atilio Calatino, anch'egli al suo
secondo mandato.

Disastro di Camarina (254 a.C.)

Roma nel 255 a.C., radunò una flotta con l'intenzione di assestare il colpo di grazia, ignara della
sconfitta della piana di Bagradas. Successivamente in primavera inviò un esercito e una flotta di 364
navi al comando dei consoli Servio Fulvio Petino Nobilior e Marco Emilio Paulo, per almeno
salvare i 2.000 sopravvissuti che si erano rifugiati ad Aspis e allo stesso tempo dare prova di forza
poiché il piano originale era stato vanificato. Quando la flotta fece il giro del promontorio di
Hermeo, incontrò lo squadrone cartaginese, che sconfisse nel primo scontro, catturando 140 navi (il
numero varia nelle traslazioni) con i rispettivi equipaggi. Quindi si ancorò al largo di Aspis,
raccolse i 2.000 sopravvissuti e si diresse verso la Sicilia. Sulla via del ritorno, il convoglio subì una
tempesta al largo di Camarina in cui furono persi 100.000 uomini,
L'anno successivo subì un altro disastro a causa di una tempesta al largo di Capo Palinuro, quando
tentò di sbarcare nuovamente in Africa, questo disastro fece abbandonare ai romani tutte le
avventure d'oltremare e si concentrarono sulla conquista della Sicilia.

Guerra in Sicilia (254 – 247 a.C.)


Prima battaglia di Palermo (254 a.C.)
I consoli salpati da Roma e raggiunta Messina aggregarono alla flotta le navi scampate al naufragio
che si allargò quindi a trecento navi e si diressero verso Palermo che posero sotto assedio.
I preparativi consistettero nel disporre i soldati, far loro montare le macchine da assedio e nel
concentrarle in due diversi punti. La torre della città, affacciata al mare, cadde con facilità in mani
romane e da quella via le legioni penetrarono d'impeto nella Città Nuova. Nella narrazione di
Polibio non vi è traccia di una reazione cartaginese. D'altra parte Asdrubale era ancora a Lilibeo e,
certo, la guarnigione punica non era abbastanza numerosa per poter resistere validamente a un
assalto ben condotto. Lo storico greco si limita a esporre brevemente che

« ...(la città) Vecchia, d'altra parte, dopo che fu accaduto ciò, si trovò in pericolo. Perciò rapidamente gli
abitanti la consegnarono. »(Polibio, Storie, I, 38, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Sempre Polibio ci informa che i Romani, dopo aver conquistato la città, lasciarono una guarnigione
a sua difesa senza specificarne la consistenza. La flotta tornò veleggiando a Roma. L'estate
successiva Gneo Servilio Cepione e Gaio Sempronio Bleso, i consoli romani si recarono sulle coste
africane per effettuare degli sbarchi ma giunti all'isola di Meninge, conosciuta anche come "isola
dei Lotofagi", vicino alla Piccola Sirte finirono arenati e a stento riuscirono a liberare le navi e a
tornare verso la Sicilia. Ancora una volta i romani

« ...di nuovo incapparono in una tempesta di una violenza tale che persero più di centocinquanta navi  »
(Polibio, Storie, I, 39, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

A questo ponto Roma decise di non insistere sul mare e, mantenuta solo una sessantina di navi da
carico per i rifornimenti delle truppe, mandarono in Sicilia i nuovi consoli Gaio Aurelio Cotta e
Publio Servilio Gemino con rinforzi per le legioni. Cartagine si trovò, quindi, in condizioni molto
migliorate; sul mare regnava incontrastata e, dopo la vittoria a Tunisi ottenuta per mezzo degli
elefanti, riteneva di sapere come contrastare efficacemente le legioni di Roma. La pur contestata
ricostruzione polibiana riferisce di un possente esercito supportato da oltre duecento navi e
centoquaranta elefanti da guerra.

« (I Cartaginesi)... spedirono in Sicilia Asdrubale cui affidarono sia i soldati che c'erano già prima, sia
quelli sopraggiunti da Eraclea, e oltre a questi centoquaranta elefanti. Dopo averlo inviato allestivano
duecento navi... »(Polibio, Storie, I, 38, BUR. Milano, 2001. Trad.: D. Musti)

Per tutto l'anno successivo le legioni romane rifiutarono lo scontro diretto con Asdrubale
mantenendosi su terreni non pianeggianti, inadatti all'uso degli elefanti, e assediando Terme e
Lipara. Roma fece costruire cinquanta navi per riportare in mare una guerra che sul fronte terrestre
si era fermata. Su queste basi strategiche, metà dell'esercito fu riportato a Roma con il console Gaio
Furio Pacilo e metà rimase a Palermo, agli ordini dell'altro console Lucio Cecilio Metello, per
proteggere i raccolti che erano in corso. Asdrubale, vista la riduzione delle forze nemiche pensò che
fosse giunto il momento opportuno, ruppe gli indugi e guidò il suo esercito da Lilibeo fino ai
confini del territorio di Palermo.

Seconda battaglia di Palermo (251 a.C.)

Il console romano, in parte per rassicurare i suoi uomini terrorizzati dagli elefanti, in parte per
calcolo tattico, ritenne più produttivo rimanere al riparo delle mura della città ed evitare lo scontro
diretto con i possenti animali da combattimento che facevano parte dell'esercito cartaginese.
Asdrubale, vedendo questa remissività del nemico, convinto che Cecilio Metello non osasse uscire
dalle mura, lanciò il suo esercito verso la città e impegnò i suoi uomini nella più ovvia delle
operazioni. I Cartaginesi iniziarono la distruzione di raccolti e attrezzature per spingere l'esercito
nemico arroccato ad uscire e difendere il territorio nel più classico degli scontri diretti: la battaglia
campale. Cecilio Metello non era di quest'avviso. Mantenne le sue truppe all'interno delle mura fino
a quando il suo avversario portò gli uomini e gli elefanti ad oltrepassare il fiume che passava vicino
alla città. Allora il console romano fece uscire la fanteria leggera che prese a stuzzicare le truppe
cartaginesi tanto da portarle allo schieramento in ordine di battaglia. Ma Metello non schierò le sue
truppe;

« schierò alcuni degli uomini più mobili davanti alle mura e al fossato con l'ordine di lanciare frecce in
abbondanza nel caso gli elefanti si avvicinassero loro »(Polibio, Storie, I, 40, BUR. Milano, 2001)

Nel caso fossero ricacciati, gli arcieri dovevano rifugiarsi nel fossato e da lì continuare a far piovere
frecce sugli elefanti; un certo numero di operai presi al mercato doveva portare rifornimenti di
frecce ai combattenti. Il console stesso guidava i manipoli di fanti che venivano continuamente
mandati di rinforzo alle truppe esterne alla porta della città che veniva assalita dall'ala sinistra
cartaginese. Lanciato all'attacco, l'esercito cartaginese sfondò facilmente la linea degli arcieri e dei
fanti leggeri mettendoli in fuga e riducendoli dentro al fossato. Assieme alle truppe di fanteria sui
Romani piombarono gli elefanti da guerra. Quella che doveva essere l'arma di supporto e
sfondamento punica divenne lo strumento della sconfitta. Gli arcieri ricoprivano di frecce gli
animali e i fanti, riparati dal fossato, con le lunghe lance riuscivano a ferirli nella parte inferiore; gli
elefanti dei cartaginesi,

« ...ripetutamente feriti dalle frecce e coperti di ferite, furono presto gettati nello scompiglio, e rivoltisi
indietro presero a scontrarsi con gli uomini del proprio schieramento ... »
(Polibio, Storie, I, 40, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Metello attendeva solo questo. I ranghi punici erano sconvolti gli uomini schiacciati e messi in fuga
dai loro stessi elefanti. Gli elefanti non costituivano più un problema per i Romani, anzi lo erano
diventati per i Cartaginesi. Cecilio Metello ordinò alle truppe di uscire dalla città, si lanciò sul
fianco dello scompaginato esercito punico con truppe fresche e ben ordinate. La sconfitta dei punici
fu pesante.

Dieci elefanti furono catturati con gli "indiani", come venivano chiamati i loro conducenti. Gli altri
elefanti, che si erano liberati dagli "indiani", furono in seguito circondati e catturati anch'essi.

Polibio non ci precisa quanti uomini persero la vita fra le file puniche. Molti furono uccisi il resto fu
messo in fuga. Eutropio e Orosio parlano di 20.000 caduti per Cartagine. Con questa battaglia Roma
riprese fiducia nelle operazioni terrestri avendo visto che gli elefanti non erano poi imbattibili. Su
queste basi venne ricostruita una flotta, di circa duecento navi per riportare la guerra in Africa e le
legioni vennero potenziate per cercare di chiudere, dopo quattordici anni di operazioni, la prima
guerra punica. Cartagine, per contro, aveva visto ridursi il controllo del territorio siciliano alle
poche miglia quadrate attorno a Drepana, al Lilibeo e in genere alla punta occidentale dell'isola. E
stava per essere attaccata su quelle posizioni; lì Roma doveva e voleva porre le basi per portare la
guerra alle mura di Cartagine stessa. Con la seconda battaglia di Palermo Cartagine vide il suo già
non completo dominio sulla Sicilia eroso dai Romani. Nel 251 a.C. il territorio controllato dai
Cartaginesi era ormai limitato alla porzione di costa siciliana che fronteggia l'Africa; da Trapani a
Heraclea e alle isole Egusse, le Egadi. Da tempo Roma aveva conquistato Agrigento e l'interno
della Sicilia giungendo a Selinunte e, appunto, a Palermo. La Sicilia non occupata da Romani e
Cartaginesi era controllata da Siracusa che con Gerone II si era schierata con Roma e ne supportava
lo sforzo bellico fornendo l'essenziale appoggio logistico. A Roma ci si era resi conto che la guerra
in Sicilia poteva durare a lungo, che il mare non si poteva abbandonare alla predominanza punica e
che per provare a giungere alla conclusione della guerra sarebbe stato necessario attaccare
direttamente la città nemica. Ma per i Romani poter combattere in Africa significava mettere i
Cartaginesi di Sicilia in condizione di non nuocere, di non poter ritornare in Africa e di essere
lasciati senza alcun porto da cui poter fare vela per Cartagine. La flotta romana che era stata quasi
del tutto smantellata fu ripristinata e, col tempo, portata ad almeno duecento navi, le forze terrestri
potenziate e portate in Sicilia. Tenendo presenti queste necessità la guerra di Roma si spostò al
Capo Lilibeo e alla città omonima: Cartagine per mantenere l'ultima base militare di un certo peso
fu costretta a rispondere.

Assedio di Capo Lilibeo

Nel 250 a.C., essendo consoli Gaio Atilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone Longo, le truppe romane
si portarono a Lilibeo e si accamparono

« ...presso questa città da entrambe le parti e avendo bloccato le zone tra gli accampamenti con un
fossato, una palizzata e un muro, cominciarono a spingere le opere per l'assedio contro la torre situata
più vicino al mare, verso il mare libico. »(Polibio, Storie, I, 42, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

In poco tempo i Romani abbatterono almeno sette torri e si diedero ad attaccare pesantemente le
altre. L'azione di resistenza veniva dal comandante punico Imilcone che quotidianamente
ingaggiava scontri sia provando a incendiare le macchine da assedio sia alzando e irrobustendo le
fortificazioni sia difendendole con una guerra sotterranea di contromine. I cittadini e i diecimila
mercenari sembravano però incapaci di resistere all'azione delle legioni che penetravano lentamente
ma costantemente nelle difese cartaginesi. I mercenari, quindi, cominciarono a ritenere troppo
impegnativo e pericoloso resistere all'attacco. I loro capi si accordarono per consegnare la città ai
Romani e si recarono a parlare con gli assalitori. Polibio, di origine achea, non manca di
sottolineare che fu un acheo, Alessone, il comandante mercenario che informò Imilcone del
pericolo. Questi, riuniti i mercenari, li convinse con promesse di grandi doni a desistere dal
progettato tradimento. Alessone fu mandato a comandare le truppe mercenarie tranne quelle celte
che ebbero come ufficiale di collegamento Annibale, figlio di quell'Annibale di Giscone che fu
sconfitto ad Agrigento e che dopo la battaglia di Sulci fu ucciso dai suoi alleati Sardi.

I mercenari rimasti in città respinsero con pietre e frecce i loro ex-comandanti che vennero a portare
le offerte dei Romani e rimasero fedeli a Cartagine. Non fecero un buon affare e se ne accorsero
qualche anno dopo quando, alla fine della guerra, per ottenere quanto pattuito e senza riuscirci,
scatenarono una sanguinosa rivolta durata tre anni. Pur senza essere a conoscenza del progettato
tradimento, a Cartagine si conoscevano le necessità della base di Lilibeo e furono fatti i preparativi
per aiutare Imilcone. L'allestimento di una flotta di cinquanta navi piene di soldati non fu un
problema per la ricca città marinara. Il comando fu affidato ad Annibale figlio di quell'Amilcare che
era stato sconfitto a Capo Ecnomo e poi a Adys. Annibale, con diecimila soldati al seguito, stabilì
una base alle isole Egadi, attese un vento favorevole ed impetuoso e con quella spinta fece vela
verso Lilibeo. I Romani, sbigottiti dall'audacia del cartaginese furono incapaci di fermarlo. Fra i
festeggiamenti della popolazione Annibale fece sbarcare i suoi soldati raddoppiando così le truppe
dei difensori. Imilcone, comandante della città non attese che l'entusiasmo scemasse e che i rinforzi
comprendessero a fondo la delicata situazione militare. Con un discorso infiammato incitò gli
uomini a cercare lo scontro: dopo averli esortati a riposare e a obbedire ai loro comandanti, il giorno
successivo portò fuori l'esercito e lo lanciò contro gli assedianti. I Romani non furono colti
impreparati; vista l'entità dei rinforzi si aspettavano un attacco e portarono aiuto dove si rivelava
necessario. Ventimila Cartaginesi e "ancor più numerosi" Romani si scontrarono in una battaglia
confusa.
« ...sia le grida che la mischia erano particolarmente intense proprio nei pressi delle opere per l'assedio.
coloro che erano stati schierati originariamente in questo punto sulle due parti [...] dispiegavano un tale
accanimento e impegno [...] che alla fine, per il loro ardore, morivano nello stesso punto in cui erano
all'inizio »(Polibio, Storie, I, 45, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Nonostante l'ardore dei combattenti, i Cartaginesi non riuscirono a sferrare un colpo decisivo e i
Romani riuscirono a mantenere il controllo delle opere da assedio ricacciando i nemici in città.
Vista la situazione, a notte, Annibale lasciò Lilibeo e si recò dal comandante in capo della
spedizione, Aderbale che si era stabilito a Trapani a centoventi stadi (poco più di 20 km) dalla città
assediata.

Qui uno dei notabili, Annibale Rodio (da Rodi) si propose di forzare il blocco di Lilibeo per
ritornare con notizie precise. Anch'egli, con azione ardita e rapida, sfruttando venti e correnti
favorevoli, raggiunse Lilibeo (Polibio ci fornisce perfino l'ora: l'ora quarta) e il giorno dopo salpò.
Il comandante romano, osservando i preparativi, predispose una flottiglia di dieci navi per impedire
l'uscita. Nonostante tutto, Annibale Rodio riuscì con audacia e velocità a sfuggire ai Romani
fermandosi addirittura al largo con i remi alzati in segno di sfida. Queste imprese provocatorie si
ripeterono per giorni recando aiuti e informazioni fra Trapani e Lilibeo, turbando le truppe romane
con la loro audacia. Imitatori di Annibale Rodio cominciarono a operare nello stesso modo e i
Romani, incapaci di fermarne le gesta, provarono a chiudere il porto con un terrapieno. A causa
delle correnti fu un lavoro quasi del tutto inutile; quasi perché in un punto riuscirono a creare un
bassofondo che, essendo ignoto ai conoscitori della costa, una notte fece insabbiare e catturare una
quadrireme. La notte successiva Rodio entrò nel porto e ne cercò poi di riuscirne. La quadrireme
catturata e fornita di un ottimo equipaggio dai romani riuscì a rimanere vicina alla nave di Rodio
che dovette accettare il combattimento, fu sconfitto e catturato. Con due quadriremi di ottima fattura
date in mano a equipaggi esperti i romani riuscirono, quindi, a ostacolare la navigazione dei nemici
nelle acque di Lilibeo.

Il vento combatte con Imilcone


L'assedio a terra continuava; i Cartaginesi riuscivano a resistere ma sembravano aver rinunciato a
danneggiare le macchine da assedio romane. Un giorno, però, si levò un forte vento

« ...con tale forza e impeto da scuotere violentemente anche le gallerie da assedio e sollevare con la
forza le torri collocate davanti ad esse. »(Polibio, Storie, I, 48, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Alcuni mercenari (e Polibio sottolinea, greci) proposero ad Imilcone di sfruttare il vento che
soffiava verso i nemici per incendiare le macchine. L'idea venne messa in opera e in tre punti i
Cartaginesi riuscirono a far attecchire le fiamme. Il legname secco si incendiò facilmente e i
Romani non riuscivano a spegnere le fiamme che il vento faceva allargare e aumentare. La fuliggine
il fumo e le scintille venivano spinte verso di loro impedendo di vedere dove si poteva operare
efficacemente. Ovviamente dalla parte degli assediati la situazione era capovolta; con il vento alle
spalle avevano la visibilità migliore non erano colpiti dalle scintille, non correvano alcun rischio e
addirittura il vento aumentava la forza di dardi, pietre e tutto ciò che veniva lanciato contro le opere.

« Alla fine avvenne che la distruzione fosse così completa che anche le basi delle torri e le aste
degli arieti furono rese inutilizzabili dal fuoco. »(Polibio, Storie, I, 48, BUR. Milano, 2001. trad.:
M. Mari.)

I Romani rinunciarono a questo tipo di attacco limitandosi a cingere la città con un fossato e un vallo e
protessero l'accampamento con un muro. Gli assediati ripararono un muro crollato e coraggiosamente
sostennero l'assedio. La sconfitta in questa battaglia fra fumo e fiamme fece dirottare i successivi sforzi
bellici dei Romani verso altre -anche se non lontane- aree contese. L'assedio di Lilibeo continuò per altri
otto anni, fino 241 a.C. termine della prima guerra punica. La guerra durava ormai da quindici anni; era
infatti il 264 a.C. quando i Romani estromisero i Cartaginesi da Messina scatenando le ostilità. Dopo
alterne vicende sia sul mare che sul territorio dell'isola e in Africa, con battaglie in cui le due città-stato
avevano di volta in volta prevalso mantenendo un sostanziale equilibrio militare, nessuna delle due
contendenti riusciva a prevalere con una battaglia definitiva. Cartagine manteneva un risicato
predominio marittimo facilitato da gravi perdite, causate da naufragi, nella flotta romana. Sulla terra
Cartagine stentava a difendere le poche miglia di costa da Eraclea Minoa a Trapani e i dintorni di
Palermo ma Roma non riusciva a eliminare le forze cartaginesi dalla Sicilia e l'azione bellica delle sue
pur rinomate legioni si era arenata sulle mura di Lilibeo.

A Lilibeo, l'episodio dell'incendio delle macchine da guerra romane da parte dei mercenari greci in
forza nei ranghi cartaginesi e la carneficina che lo caratterizzò, mise fine all'azione di conquista
romana della città e mandò a Roma il segnale che un ulteriore sforzo doveva essere compiuto. E i
Romani lo compirono:

« ...in fretta si misero ad arruolare marinai e, radunatene circa diecimila, li inviarono in Sicilia »
(Polibio, Storie, I, 49, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Quell'anno i consoli erano Publio Claudio Pulcro e Lucio Giunio Pullo. A Publio Claudio, figlio -
secondo Cicerone - di Appio Claudio Cieco fu affidata la campagna in Sicilia e la flotta. Anziché
recarsi a rinforzare le truppe di Lilibeo, Publio Claudio decise di attaccare Trapani dove Aderbale
aveva insediato il comando generale delle forze cartaginesi. L'iniziativa partiva dalla presunzione -
non del tutto errata- che Aderbale, il quale doveva essere all'oscuro dei rinforzi romani, non
ritenesse possibile un attacco a Trapani dopo le perdite romane a Lilibeo. Con l'accordo dei tribuni e
dei soldati che ritenevano la traversata breve e sicura e il bottino ricco, Publio Claudio, verso la
metà della notte imbarcò i suoi uomini e parte dei veterani dell'assedio, salpò da Lilibeo e "navigò
con la flotta compatta tenendo la terra sulla destra" (Polibio, I, 49) arrivò a Trapani con le prime
luci dell'alba. Aderbale non si fece intimidire. Era un buon generale e, una volta compreso che stava
per essere attaccato, prese in fretta le contromisure. Inviò sulla spiaggia i marinai per arginare lo
sbarco di truppe di terra mentre chiamava i mercenari. Una volta radunati li incoraggiò ad uscire in
mare per evitare un possibile e pericoloso assedio dei romani. I mercenari accettarono e Aderbale
ordinò loro di seguire la poppa della sua nave. Uscì in mare per primo proprio mentre metà delle
navi romane erano entrata nel porto e l'altra metà stava per farlo.

La battaglia di Trapani

Claudio Pulcro, vedendo che la sorpresa non aveva funzionato e che la sua flotta rischiava di essere
tagliata in due ordinò a tutte le navi di invertire la rotta e di uscire in mare aperto. La manovra
peggiorò le cose; alcune navi che stavano navigando verso il porto si scontrarono con altre che
avevano invertito la rotta. La confusione regnava sovrana, le file dei remi si spezzavano per i
rispettivi urti. I tierarchi, tuttavia riuscirono a ridisporre la flotta romana lungo la costa con le prue
rivolte verso l'esterno dove stava dispiegandosi la flotta nemica. Publio Claudio pose la sua nave
alla sinistra della sua formazione. Aderbale gli si pose di fronte con cinque navi rostrate con la prua
rivolta verso la flotta nemica. Quando la flotta cartaginese fu schierata Aderbale diede il segnale di
attacco e le navi si scagliarono contro i romani che si trovarono a combattere in condizioni di grave
svantaggio avendo la costa alle spalle e troppo vicina. All'inizio la situazione sembrava mantenersi
in equilibrio data la bravura dei marinai di entrambe le compagini. Ma i Cartaginesi avevano
iniziato il combattimento in condizioni di superiorità tattica:

« Erano, infatti, molto superiori nella velocità di navigazione per l'eccellente qualità delle navi e per la
capacità degli equipaggi, e li aiutava molto la posizione in quanto avevano disposto il loro schieramento
dalla parte del mare aperto. »(Polibio, Storie, I, 51, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Infatti se una nave cartaginese non riusciva a sopportare un attacco poteva retrocedere verso
l'esterno e, cambiando rotta inserirsi nuovamente nella battaglia in un altro punto. Questa manovra
non era consentita alle navi romane chiuse fra la costa e i nemici. Dovevano combattere e vincere.
O arenarsi. O affondare. Anche l'aiuto reciproco fra le navi era facile per i Cartaginesi e impossibile
per i Romani; i primi potevano passare dietro il loro schieramento con tutta sicurezza; i secondi
dietro non avevano spazio di manovra. Le navi romane finirono quasi tutte arenate. Solo
l'ammiraglia con il console e una trentina di navi che erano all'ala sinistra, al riuscirono a sganciarsi
e a fuggire;

« Degli altri scafi, che erano novantatré, si impadronirono i Cartaginesi, e così pure di tutti gli equipaggi
che non si erano allontanati dopo aver abbandonato le navi a terra. »
(Polibio, Storie, I, 51, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)
Aderbale godette di grande prestigio in quanto ritenuto vincitore per grande merito. Viceversa a
Publio Claudio Pulcro venne disprezzato a Roma e considerato imprudente e avventato. Anche se
né Polibio né Diodoro ne parlano, forse qui si inserisce la tradizione che vuole il console non tenere
conto dei presagi. Si narra infatti che polli sacri, i quali venivano interrogati dall'augure sull'esito
futuro delle azioni militari, avessero rifiutata l'offa (evento ritenuto di cattivo presagio) e che
Claudio Pulcro li avesse gettati in mare dicendo: "Se non vogliono mangiare, che bevano!". Vero o
falso che sia l'episodio dei polli, Publio Claudio, portato in tribunale dai tribuni della plebe Rullo e
Fundanio, fu condannato al pagamento de un'ammenda di 120.000 assi, che corrispondeva al bel
peso di quasi 40 kg di rame coniato. Palermo era stata conquistata da Roma nel 254 a.C. e poi difesa
dal contrattacco cartaginese con la Seconda battaglia di Palermo; Trapani aveva visto la vittoria
delle navi cartaginesi sulle flotta di Publio Claudio Pulcro che tentava di porre la città sotto assedio
come Lilibeo. Roma, oltre alla sconfitta causata dall'avventatezza di Publio Claudio Pulcro, registrò
in quello stesso periodo l'ennesimo sfortunato naufragio di una grande flotta, questa volta guidata da
Lucio Giunio Pullo. Dopo questi episodi sia Roma che Cartagine si limitarono, per cinque anni a
brevi incursioni sui territori nemici; Roma colpì in Africa e Cartagine colpì in Sicilia. Da notare
che, pur senza una flotta romana a contrastarla seriamente, Cartagine non fu in grado di colpire
Roma direttamente nel territorio laziale. O forse non voleva scatenare una reazione romana visto
che non riuscì ad ottenere un prestito di 2.000 talenti dal re Tolomeo Filadelfo, d'Egitto. Nella
situazione di stallo ad Amilcare, generale cartaginese padre di Annibale, venne affidata la difesa del
territorio siciliano in mano cartaginese. È significativo che, anche se la sua azione non fu
determinante, Amilcare non venne mai sconfitto dalle legioni di Roma. In questo quadro nel 249
a.C., Lucio Giunio Pullo, reduce dal naufragio sulle coste meridionali della Sicilia, e con il collega
Claudio Pulcro sotto processo, decise di compiere qualche azione importante. Al minimo pretesto
attaccò e occupò Erice prendendo anche il tempio di Afrodite Ericina.

Erice
« L'Erice è un monte presso il Mare di Sicilia, sulla costa sita dalla parte dell'Italia, tra Drepana e
Panormo, più vicino, anzi confinante con Drepana, in altezza di gran lunga superiore agli altri monti
della Sicilia, eccetto l'Etna. Proprio sulla sommità, che è piana, si trova il santuario di Afrodite
Ericina. »(Polibio, Storie, I, 55 7-8, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)

Pullo piazzò una guarnigione sulla cima del monte Erice, controllando così il tempio, la città di
Erice, la montagna stessa e, da lontano, la città - ancora cartaginese - di Drepana (Trapani), mentre
altre truppe stazionavano a ridosso della città marinara. Nel frattempo i Cartaginesi elessero
Amilcare come capo delle operazioni della flotta. Dopo alcuni assalti in Calabria anche Amilcare
approdò sotto un monte vicino Palermo, monte Ercte (per Polibio il Monte Pellegrino). Piazzatosi in
mezzo alle guarnigioni nemiche Amilcare si diede alla guerriglia saccheggiando il territorio e per
tre anni si scontrò con i nemici in continue operazioni di cui Polibio, probabilmente per il grande
numero e la scarsa importanza strategica, non fornisce specifiche informazioni. Nel corso di questi
scontri Amilcare riuscì a occupare la città di Erice mettendo sotto assedio la guarnigione che
stazionava nel tempio ma trovandosi a sua volta assediato dalle truppe che, alla base del monte
tenevano sotto controllo Trapani.

« Tuttavia lì di nuovo gli uni e gli altri, dopo che nell'affrontarsi ebbero fatto ricorso a tutti gli espedienti
e a tutti gli atti di violenza propri dell'assedio [...] alla fine avvenne che la guerra si decidesse in altro
modo »(Polibio, Storie, I, 58 4-6, Milano, BUR, 2001. trad.: M. Mari.)

Infatti la prima guerra punica, con l'esaurirsi delle forze e delle finanze dei contendenti, stava
cronicizzandosi. Vennero anche intavolate trattative per la pace. Però l'ex console Marco Atilio
Regolo, che prima della Battaglia di Tunisi aveva fatto ai cartaginesi proposte di pace e viene
inviato a Roma per patrocinarla, conoscendo le reali condizioni economiche cartaginesi, si oppose
con il famoso episodio del ritorno alla prigionia e alla morte. Solo l'ennesimo sforzo economico del
Romani riuscì a porre fine alle ostilità. Dopo ventiquattro anni di lutti, battaglie, guerriglia, assedi e
naufragi, la prima guerra punica aveva reso insopportabili le condizioni psicologiche e finanziarie
delle due città-stato. Roma cominciava ad avere qualche problema nel chiedere rinforzi ai socii e
aveva dovuto sostenere tante spese per le battaglie navali e i naufragi che l'erario non era in grado di
allestire nessuna flotta degna di questo nome; per cinque anni dalla sconfitta di Trapani e
dall'immane successivo "naufragio di Camarina" aveva dovuto, per necessità o per scelta, cessare di
rinforzare la flotta limitandola alle sole navi onerarie e gestire la difesa marittima con qualche
superstite nave da guerra. Cartagine, anche se sul mare restava dominatrice, si era dissanguata nella
gestione della flotta, i commerci erano rallentati. Infatti i marinai, contrariamente alle truppe di terra
che erano in genere mercenarie, provenivano dalle forze dei cittadini-mercanti. E i mercanti, se non
possono coltivare i loro mercati, finiscono per passare la mano alla concorrenza. I commerci di
Cartagine languivano e non potevano generare la ricchezza necessaria a pagare le sempre più
necessarie truppe mercenarie. Era una pericolosa spirale economico-militare che rischiava di
avvitarsi su sé stessa. Roma, per la terza volta, decise di tornare sul mare e cercare di chiudere la
partita.

« L'impresa fu, essenzialmente, una lotta per la vita. Nell'erario, infatti, non c'erano più risorse per
sostenere quanto si erano proposti. »(Polibio, Storie, I, 59, 6,)

Roma, contrariamente a Cartagine, ebbe la fortuna di avere una classe politica dilaniata all'interno
ma compatta contro le minacce esterne. Una sottoscrizione di cittadini (forse forzosa) finanziò una
nuova flotta di duecento quinquiremi complete di equipaggio. I finanziatori non fecero della
beneficenza: alla fine della guerra sarebbero stati risarciti rivalendosi sul bottino. Se l'esito fosse
stato negativo, però, i patrimoni personali sarebbero stati pesantemente intaccati. A capo della flotta
fu posto Gaio Lutazio Catulo che, all'inizio dell'estate del 242 a.C., prese il mare in direzione della
Sicilia. Questa volta i Cartaginesi di Trapani furono colti di sorpresa; non immaginavano che Roma
fosse in grado di spremere una tale flotta dalle esauste casse statali. Catulo, visto che tutta la flotta
cartaginese era rientrata in patria, rinforzò le truppe che procedevano all'Assedio di Lilibeo e
occupò tranquillamente il porto di Trapani e il territorio attorno alla città ponendola sotto assedio.

Senza fermarsi a queste operazioni terrestri, ben sapendo che la vittoria di Roma sarebbe dovuta
essere ottenuta sul mare, manteneva gli equipaggi allenati con esercitazioni e manovre. A Cartagine,
quando si seppe di questa inopinata spedizione romana, caricarono le navi di grano e altri aiuti per
sostenere le truppe di Amilcare Barca che si battevano alle falde del Monte Erice. Al comando della
flotta fu posto Annone (non è certo se fosse il nemico politico di Amilcare). Il Tierarca portò la
flotta ad ancorarsi all'isola chiamata "Sacra" (una delle Isole Egadi, oggi Marèttimo) in attesa di
scaricare i rifornimenti alle forze terrestri. Avrebbe così ottenuto, inoltre, di alleggerire e rendere
più manovrabili le navi per le battaglie navali e di poter caricare Amilcare e i suoi migliori uomini
come forze navali o truppe da sbarco contro gli assedianti. Lutazio Catulo seppe dell'arrivo di
Annone e preparò la contromossa. Imbarcò i migliori uomini a disposizione e portò la flotta fino
all'isola di Egussa (Favignana). Era il 9 marzo del 241 a.C.

Battaglia delle Isole Egadi


Il mattino del giorno successivo, il 10 marzo, Catulo vide che la flotta cartaginese avrebbe avuto un
forte vento da ovest a favore e che questo avrebbe reso più difficile far salpare la flotta romana.
Dapprima incerto, riflettendo si rese conto che se avesse attaccato subito avrebbe avuto di fronte degli
scafi ancora carichi e quindi più lenti e che questi avrebbero avuto a bordo solo forze di marina. Se
avesse permesso lo scarico delle merci e l'imbarco degli uomini di Amilcare la situazione anche col
vento in poppa non sarebbe stata altrettanto favorevole. La flotta romana si distese su una sola linea
come per formare un muro contro le navi cartaginesi che veleggiavano verso la costa del Monte Erice. I
Cartaginesi accettarono la battaglia; ammainarono le vele per avere maggiore mobilità e attaccarono i
Romani.

« Poiché i preparativi per gli uni e per gli altri venivano regolati in modo opposto rispetto allo scontro
navale svoltosi presso Drepana, anche l'esito della battaglia, com'è naturale, risultò opposto per gli uni e
per gli altri. »(Polibio, Storie, I, 61, 2)

Infatti i Romani avevano cambiato stile di combattimento. Per prima cosa avevano cambiato la maniera
di costruire le navi copiandole, pare, da quella - velocissima - presa con Annibale Rodio durante
l'Assedio di Lilibeo. Inoltre le navi romane erano alleggerite al massimo, gli equipaggi erano stati tenuti
in addestramento ed erano supportati da soldati di marina scelti, più duri ad arrendersi delle truppe di
terra. Per i Cartaginesi la situazione era opposta. Le navi erano cariche di materiale e derrate e quindi
lente nella manovra, praticamente inservibili per la battaglia. Secondo Polibio, inoltre

« gli equipaggi erano completamente privi di addestramento ed erano imbarcati per l'occasione, e i
soldati di marina erano appena arruolati e sperimentavano per la prima volta ogni sofferenza e rischio. »
(Polibio, Storie, I, 61, 4)

In realtà questo atteggiamento cartaginese è credibile se si considera che a Cartagine si riteneva che i
Romani, a seguito della serie di sconfitte e di naufragi, fossero incapaci di governare le navi.
Il risultato fu micidiale. Inferiori nella manovra e nel combattimento ravvicinato, i Cartaginesi videro
rapidamente affondare cinquanta navi e altre settanta furono catturate complete di equipaggio. Un
fortunato volgersi del vento permise alle superstiti, alzate nuovamente le vele, di sganciarsi e ritornare
all'Isola Sacra. Lutazio Catulo tornò a Lilibeo e si trovò alle prese con il problema di gestire tanto
bottino. Settanta navi e circa diecimila uomini erano caduti nelle sue mani. Catulo, comunque rinnovò
l'assedio di Lilibeo e riuscì ad espugnare la città. I Cartaginesi misero la condotta della guerra nelle mani
di Amilcare che dapprima resistette ma in seguito, tagliato fuori da ogni possibilità di rifornimento con
la caduta di Lilibeo e in condizioni operative disperate, mandò ambasciatori a Catulo per trattare la
cessazione delle ostilità.

Il console romano, saggiamente, rendendosi conto che anche Roma era sfinita da ventiquattro anni di
guerra continua, « pose fine alla contesa, dopo che furono redatti i seguenti patti:

"Ci sia amicizia fra Cartaginesi e Romani a queste condizioni, se anche il popolo dei Romani dà il suo
consenso. I Cartaginesi si ritirino da tutta la Sicilia e non facciano la guerra a Gerone né impugnino le
armi contro i Siracusani né contro gli alleati dei Siracusani. I Cartaginesi restituiscano ai Romani senza
riscatto i prigionieri. I Cartaginesi versino ai Romani in vent'anni duemiladuecento talenti euboici
d'argento". »(Polibio, Storie, I, 61, 4)

Il popolo romano, poi, per tramite di una commissione di dieci uomini, rese un po' più gravose le
condizioni. Ma la prima guerra punica era terminata. Per celebrare la sua vittoria Gaio Lutazio
Catulo eresse un tempio a Giuturna presso il Campo Marzio nell'area oggi nota come Largo di
Torre Argentina

Le reazioni immediate

Roma vinse la prima guerra punica alla fine di 23 anni di combattimenti, fra alterne vicende, e alla
fine sostituì Cartagine come maggiore potenza del Mediterraneo occidentale. Nel dopoguerra
entrambi i contendenti erano finanziariamente e demograficamente esausti. La vittoria di Roma fu
per lo più dovuta alla persistenza delle sue istituzioni (Senato in primis) nel non ammettere la
sconfitta e nel non accontentarsi di nulla di meno di una vittoria totale, al contrario delle istituzioni
cartaginesi, spesso paralizzate da inesauribili lotte intestine, che causarono spesso atteggiamenti
ondivaghi nella conduzione strategica della guerra. Inoltre, la capacità della Repubblica di attrarre
investimenti privati nello sforzo bellico, incanalando il patriottismo dei cittadini per trovare navi e
uomini, fu uno dei fattori decisivi, specialmente se a paragone con l'apparente mancanza di volontà
della nobiltà cartaginese di rischiare le proprie fortune per il bene comune. Inoltre, mentre per
Roma l'esercito era formato di coscritti, tenaci, esperti nell'arte militare e motivati dalla difesa della
patria, Cartagine affidava le sorti belliche a mercenari, poco disposti al sacrificio personale. Questa
differenza di attitudini gioco un ruolo decisivo per l'esito finale di numerosi eventi.

Perdite

È quasi impossibile determinare le perdite per i due contendenti. Le fonti storiche normalmente
tendono ad aumentare il valore di Roma. Comunque, (escludendo la guerra terrestre), si consideri
che:

 Roma perse 700 navi (massimamente per cattive condizioni atmosferiche) e almeno una parte degli
equipaggi,
 Cartagine perse 500 navi e almeno parte degli equipaggi
 Ogni equipaggio era composto mediamente da 100 uomini.

Se ne trae la conclusione che le perdite di uomini furono pesanti per entrambe le parti. Lo storico
Polibio commenta che la prima guerra punica fu per l'epoca la più distruttiva in termini di vite
umane nella storia bellica, comprese le campagne di Alessandro Magno, e questo può dare un'idea
delle dimensioni. Guardando ai dati del censimento romano del III secolo, A. Galsworthy notava
come durante il conflitto Roma avesse perso circa 50.000 cittadini. E questo escludendo le truppe
ausiliarie e ogni altro partecipante al conflitto che non avesse avuto il rango di civis romanus;
queste perdite non erano determinabili.
1) trasferimento delle forze navali a Reggio e sbarco navale a Messina (264 a.C.);
2) invio della prima grande flotta di quinqueremi in Sicilia e vittoria navale di Milazzo (260 a.C.);
3) successivo sbarco navale nel golfo di Castellammare per liberare Segesta dall’assedio nemico (260
a.C.);
4-5) sbarchi navali in Sardegna ed in Corsica (259 a.C.);
6) controllo navale delle acque settentrionali della Sicilia e vittoria navale di Tindari (257 a.C.);
7) predisposizione di una grande spedizione navale verso l’Africa e vittoria navale di Ecnomo (256
a.C.);
8) riuscito sbarco navale in Africa (256 a.C.).

Condizioni di pace

Le condizioni poste da Roma furono particolarmente pesanti per Cartagine che dovette accettarle,
non essendo in posizione da poter trattare. Queste imponevano che Cartagine dovesse:

 evacuare la Sicilia,
 restituire i prigionieri di guerra senza ottenere riscatto mentre doveva riscattare i propri prigionieri,
 impegnarsi a non attaccare Siracusa e i suoi alleati,
 perdere il controllo del mar Mediterraneo,
 consegnare a Roma il possesso di un gruppo di piccole isole a nord della Sicilia,
 pagare un'indennità di guerra di 1.000 talenti immediatamente e 2.200 talenti in 10 rate annuali.

Altre clausole determinavano che gli alleati di entrambe le parti non sarebbero stati attaccati dagli
altri, nessun attacco poteva essere effettuato dalle due parti verso gli alleati degli altri e fu proibito a
entrambi di raccogliere truppe nel territorio della parte avversa. Questo impediva ai cartaginesi, che
facevano largo uso di mercenari, soprattutto libici, di accedere alle forze mercenarie inquadrate fra
le legioni e quindi alla tecnologia e alla superiore tecnica militare romana.
L'impatto sulla storia

Nel dopoguerra Cartagine non aveva virtualmente fondi e non fu in grado nemmeno di pagare le
truppe mercenarie smobilitate. Questo portò ad un conflitto interno, la rivolta dei mercenari, vinta
dopo durissimi combattimenti da Amilcare Barca. Forse il risultato politico più immediato della
prima guerra punica fu la caduta di Cartagine come principale forza navale. Le condizioni poste a
Cartagine ne compromisero la situazione economica e impedirono la rinascita della città. Le
indennità richieste da Roma causarono un aggravio ulteriore per le finanze dello Stato e forzarono i
cartaginesi verso la ricerca di altre aree economiche per trovare i fondi da versare a Roma. Tutto ciò
causò l'aggressione dell'interno dell'Iberia e lo sfruttamento intensivo delle sue miniere d'argento. E
alla fine portò alla seconda guerra punica. Per Roma, la fine della prima guerra punica segnò l'inizio
dell'espansione fuori della penisola italiana. Cartagine fu, così, costretta a versare a Roma enormi
somme (3.200 talenti euboici in 10 anni) quale risarcimento per la fine della guerra, oltre alla
restituzione totale di tutti i prigionieri di guerra senza riscatto. La ricca Sicilia era persa e passata
sotto il controllo di Roma (con il divieto per Cartagine di portare la guerra a Gerone II di Siracusa)
e, nell'impossibilità di pagare i mercenari libici e numidi che utilizzava, dovette subire una
sanguinosa rivolta che richiese 3 anni di sforzi ed efferatezze per essere domata. La suddivisione del
Mediterraneo in sfere d'influenza aveva portato i Cartaginesi, una volta perso la Sicilia, a spostare la
propria attenzione verso altre zone affacciantesi sul Mediterraneo ed il cui possesso non li mettesse
in concorrenza con i Romani. Ma in quello stesso anno, seguendo l'esempio dei commilitoni
d'Africa, i mercenari stanziati da Cartagine in Sardegna si ribellarono e s'impadronirono del potere
nell'isola, compiendovi ogni sorta di efferatezze finché i Sardi, esasperati, insorsero e li cacciarono
dalla loro terra. L'orda dei sanguinari invasori si rifugiò allora in Italia dove invitò i Romani a
prendere possesso della Sardegna, momentaneamente indifesa. L'invito fu accolto: Roma, cogliendo
l'occasione dei preparativi punici per la rioccupazione della Sardegna, accusò Cartagine di preparare
l'invasione del Lazio e, nel 238 a.C., inviò le sue legioni in Sardegna. Cartagine, dove i locali erano
in rivolta contro Roma, secondo lo Zonara poiché sobillati dal generale cartaginese Annone; sulla
rivolta non vi sono dubbi, ma sono state espresse perplessità a proposito dell'asserita fomentazione
cartaginese, ad esempio il Dyson definì l'asserzione di Zonara a cryptic passage. Ad ogni buon
conto, Scipione uccise Annone e ne organizzò il funerale. Al rientro del console a Roma si
celebrasse il suo trionfo per la vittoria su Cartaginesi, Sardi e Corsi. Cartagine che non era allora in
condizioni di intraprendere una nuova guerra contro Roma, subì il sopruso. Nel 236 a.C., il senato
romano dichiarò guerra ai Corsi ed inviò una spedizione di conquista guidata da Licinio Varo, non
coerente con il relato di già avvenuta occupazione dell'isola pervenuto da alcuni storici romani. Il
comandante Varo, comunque, conscio delle proporzioni non schiaccianti della flotta assegnatagli,
studiò di far precedere l'attacco principale da un'operazione decentrata meno impegnativa, onde
affievolire le difese corse, e fece sbarcare sull'isola un corpo separato di spedizione al comando
dell'ex console Marco Claudio Clinea. Prima di questa operazione, Clinea aveva già reso
pericolante la sua reputazione presso i Romani, avendo osato andare in battaglia contro l'avviso
degli àuguri[20] ed avendo pure commesso un sacrilegio consistente nell'avere (o aver fatto)
strangolare dei galli sacri; ansioso di riguadagnare prestigio, mosse da solo contro il nemico e ne fu
sconfitto. I Focei lo obbligarono a siglare un umiliante trattato presto sconfessato da Varo, che lo
ignorò o lo infranse, a seconda dei punti di osservazione, ed attaccò quando gli avversari, paghi del
trattato e non più allertati, proprio non se lo attendevano. Varo vinse facilmente e conquistò territori
della parte meridionale dell'isola; poi tornò a Roma dove chiese la celebrazione di un trionfo, che
gli fu però negato. Quanto allo strangolatore di galli, Clinea, Roma decise di lasciarlo in mano ai
Corsi presumendo che lo avrebbero ucciso per esser in qualche modo venuto meno (con l'attacco
guidato da Varo) al trattato sottoscritto, ma questi lo liberarono ed anzi lo rinviarono a Roma
indenne; il Senato non si perse d'animo e, dopo averlo riportato in città, lo condannò a morte,
inducendo Valerio Massimo a chiosare che hic quidem Senatus animadversionem meruerat.
Così come i Corsi, anche le popolazioni sarde che se in precedenza avevano finito con l'accettare la
presenza dei Cartaginesi collaborando parzialmente con loro, ora non erano affatto disposte a subire
il dominio di questa nuova gente, anch'essa venuta d'oltremare con le armi in pugno, ed intrapresero
subito un'accanita resistenza all'invasore nei modi di una formidabile guerriglia. Essi infatti erano
armati alla leggera: utilizzavano le pelli di muflone come corazze naturali, oltre ad un piccolo scudo
ed una piccola spada. Già nel 236 infatti, due anni dopo la conquista da parte romana del centro
sardo-punico della Sardegna, i Romani condussero varie operazioni militari contro i Sardi che
rifiutavano di sottomettersi. Nel 235, sobillati dai Cartaginesi che "agivano segretamente", i Sardi si
ribellarono, ma la rivolta fu soffocata nel sangue da Manlio Torquato, che avrebbe celebrato il
trionfo sui Sardi il 10 marzo del 234. Nel 233 altre rivolte furono sanguinosamente represse dal
Console Carvilio Massimo, il cui trionfo sarebbe stato celebrato il 1º aprile dello stesso anno. Nel
232 fu il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi ed a ricevere gli onori del trionfo il 15
marzo. La resistenza, però, era ben lungi dall'essere stata sedata ed anzi il clima si fece rovente.
Sempre nel 233 a.C. i consoli Marco Emilio Lepido e Publicio Malleolo, di ritorno da una
spedizione in Sardegna in cui avevano razziato dei villaggi, furono costretti da una tempesta a
prendere terra in Corsica; gli abitanti li assalirono, massacrarono i soldati e li depredarono del
bottino sardo. Il Senato di Roma inviò allora nell'isola il console Caio Papirio Maso, il quale dopo
una serie di buoni successi nelle zone costiere, si diede ad inseguire i corsi (per Roma "i ribelli")
sulle montagne. Qui i padroni di casa ebbero facilmente la meglio, dovendo il romano fare i conti
anche con la scarsità di rifornimenti e perdendo uomini, oltre che per le azioni militari, anche per la
denutrizione delle sue truppe. Papirio fu costretto ad una resa e sottoscrisse un altro trattato i cui
dettagli non sono noti, ma che assicurò un buon periodo di pace. In seguito Roma completò
l'occupazione della Corsica durante la prima guerra punica, dando l'avvio ad una fase di
dominazione che durò ininterrotta per circa sette secoli. Nel 231, data la grave situazione di
pericolo, furono inviati addirittura due eserciti consolari: uno contro i Corsi, comandato da Papirio
Masone, e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non ottennero il
trionfo, dati i risultati fallimentari conseguiti. E a poco valse a Papirio Masone celebrare di sua
iniziativa il trionfo, negatogli dal senato, sul monte Albano anziché sul Campidoglio e con una
corona di mirto anziché di alloro.

Cronologia

 265 a.C. - I Mamertini, sotto l'attacco di Gerone II di Siracusa che voleva assediarli a Messana
(Messina), chiedono assistenza a Cartagine. Ottenutala e ritiratisi i siracusani, i Mamertini chiedono
aiuto a Roma per affrancarsi dai cartaginesi.
 264 a.C. - Sbarco in Sicilia di forze romane comandate dal console Appio Claudio Caudice. I romani
sconfiggono nella battaglia di Messina dapprima i siracusani e poi i cartaginesi.
 263 a.C. - Truppe romane passano lo stretto su navi fornite da Taranto, Locri e altre città greche. I
cartaginesi si ritirano ad Agrigento. Il console Manio Valerio Massimo Messalla sopraggiunto da
Roma con altri soldati, pone l'assedio a Siracusa e costringe Gerone II ad un'alleanza con Roma.
 262 a.C. - Le forze cartaginesi si rinchiudono ad Agrigento, la città viene assediata dai romani che la
espugnano dopo sette mesi. Segesta si allea con Roma.
 261 a.C. - Vittoria romana e saccheggio di Agrigento. I cartaginesi riescono a evacuare la
guarnigione. Roma decide di costruire una flotta per contrastare il dominio cartaginese dei mari. Si
apprestano 100 quinquiremi e 20 triremi nei cantieri delle città greche. 30.000 rematori, in gran
parte contadini italici, vengono addestrati a remare su "navi virtuali" nello stesso ordine in cui,
dopo, avrebbero dovuto remare.
 260 a.C. - Prima battaglia navale (battaglia delle Isole Lipari) e disastro per Roma per l'imperizia del
console Gneo Cornelio Scipione (detto poi Asina). Subito dopo, però, l'altro console, Gaio Duilio,
vince la battaglia di Milazzo con l'aiuto dei "corvi".
 259 a.C. - Il conflitto terrestre si estende alla Sardegna e alla Corsica dove viene conquistata Alalia.
 258 a.C. - Battaglia navale di Sulci Tirrenica, vittoria romana. L'Ammiraglio cartaginese Annibale
Giscone sconfitto è crocifisso dai suoi soldati
 257 a.C. - Battaglia navale di Tindaride, vittoria romana. Roma decide di riprendere la politica
aggressiva di Agatocle. Viene apprestata una flotta di 230 navi quinquiremi.
 256 a.C. - Con la nuova flotta, sulla quale sono imbarcati 97.000 uomini, i romani tentano di
invadere l'Africa e Cartagine cerca di intercettare la flotta d'invasione opponendo una flotta di 250
navi con 150.000 uomini. La risultante battaglia di Capo Ecnomo è la più grande battaglia navale
dell'antichità e la maggiore vittoria di Roma. La flotta romana, guidata dai consoli Lucio Manlio
Vulsone e Marco Atilio Regolo in formazione a cuneo si inserisce nella formazione cartaginese,
rischia di essere circondata ma riesce a prevalere per l'uso dei "corvi". Roma, raggiunta la
superiorità navale oltre che terrestre, sbarca le truppe in Africa, a Clupea, e avanza verso Cartagine.
La battaglia di Adys e l'espugnazione di Tunisi da parte dei 15.000 uomini di Atilio Regolo segna il
primo successo romano in Africa e Cartagine chiede la pace. I negoziati non portano ad un accordo
e la guerra continua.
 255 a.C. - I cartaginesi impiegano il generale spartano Santippo per organizzare la difesa. Regolo
cerca la pace ma, per errore di valutazione delle forze, viene sconfitto nella battaglia di Tunisi. Il
comandante Atilio Regolo viene catturato, le truppe romane sopravvissute (solo 2.000 uomini)
raggiungono Clupea e vengono evacuate dalla flotta di 350 navi che però viene distrutta da un
naufragio durante il viaggio di ritorno verso la Sicilia.
 254 a.C. - Viene costruita una nuova flotta di 220 navi per sostituire quella distrutta dalla tempesta
e si apre una leva per un nuovo esercito. I romani vincono a Palermo dove fanno 27.000 prigionieri
di cui 13.000 vennero venduti come schiavi, ma non riescono a compiere passi significativi nella
guerra. Contrattacco cartaginese respinto dalle forze di Cecilio Metello che nel suo trionfo, porta a
Roma per la prima volta degli elefanti. Cinque città greche in Sicilia passano da Cartagine a Roma.
 253 a.C. - Roma continua nella politica di portare la guerra in Africa, nella costa della Sirte, a est di
Cartagine. Dopo un anno senza significativi successi la flotta ritorna in patria. Durante il ritorno i
romani sono nuovamente presi dalla tempesta e perdono 150 navi.
 251 a.C. - Nuova vittoria romana a Palermo contro i cartaginesi condotti da Asdrubale. Come
risultato delle ultime sconfitte Cartagine rinforza la guarnigione in Sicilia e riconquista Agrigento.
 250 a.C. - I romani, dopo aver rinforzato le guarnigioni e costruita una strada fra Agrigento e
Palermo iniziano l'assedio di Lilibeo con forze di terra e 200 navi. Insuccesso.
 249 a.C. - Roma, nel tentativo di forzare il porto perde quasi tutta la flotta nella battaglia di Trapani.
Si dà la colpa al deprimente effetto ottenuto dal console Claudio Pulcro che fece gettare in mare i
polli augurali che non beccavano il mangime (cosa ritenuta di cattivo augurio). La frase del console:
"se non vogliono mangiare, che bevano" è diventata famosa. Il console Giunio Pullo perde, ancora
una volta per la tempesta, la sua flotta ma riesce a conquistare Erice. Aulo Atilio Calatino viene
nominato dittatore e inviato in Sicilia.
 248 a.C. - 243 a.C. - Battaglie di bassa intensità in Sicilia. Scorrerie di entrambi i contendenti in
territorio nemico. A causa delle condizioni economiche disastrose, Cartagine non riesce ad ottenere
da Tolomeo Filadelfo, re dell'Egitto, un prestito di 2.000 talenti. Ma anche Roma non naviga nell'oro
e per contenere le spese limita le unità necessarie a 60 navi. Amilcare Barca compie vittoriose
incursioni in Sicilia e prende prigioniero Giunio Pullo. Nessuna battaglia navale importante.
Vengono intavolate trattative per la pace ma Atilio Regolo, che qualche anno prima cercava la pace
e quindi inviato a Roma per patrocinarla, intuendo che Cartagine era quasi esausta si oppone.
 242 a.C. - Con un estremo sforzo Roma riesce a costruire una nuova flotta ricorrendo anche a
finanziamenti privati. Vengono allestite 219 navi. Cartagine viene colta di sorpresa da questo
riacutizzarsi di una guerra che si stava trascinando senza grandi novità. I romani riescono a
occupare Draepanum (l'odierna Trapani) e il porto di Lilybaeum (l'odierna Marsala) viene bloccato.
 241 a.C. - Il 10 marzo avviene la battaglia delle Egadi con la decisiva vittoria di Roma. Le navi
cartaginesi, cariche di rifornimenti per la Sicilia non riescono a manovrare e fuggono. Cartagine
perde 120 navi e 10.000 uomini vengono catturati. Il comandante Annone finisce sotto processo
per la sconfitta e viene condannato a morte. Cartagine viene forzata ad accettare le condizioni di
pace. Termine della prima guerra punica.
Rivolta dei mercenari cartaginesi (241-237 a.C.)
Non appena la prima guerra punica finì, Cartagine dovette affrontare un pericolo ancora maggiore,
poiché i suoi stessi mercenari si ribellarono nel cuore del suo territorio e non combatteva più per
mantenere o espandere i suoi possedimenti oltre il mare, ma per i suoi propria sopravvivenza.
Amílcar Barca è emerso in questo conflitto come il principale protagonista degli eventi e salvatore
del suo paese. È anche l'episodio meglio documentato della sua vita, in cui le sue capacità di
generale possono essere osservate in modo più dettagliato.

"Tre anni e quasi quattro mesi durò la guerra tra gli stranieri ei Cartaginesi, guerra che superò di
gran lunga in crudeltà e barbarie tutte le altre di cui si ha notizia".
Polibio (1, 88' 7)

Cartagine, Amilcare e l'esercito siciliano nel 241 a.C

Cartagine alla fine di quest'anno fu totalmente sconfitta da Roma. Perse tutti i suoi territori in Sicilia
e lo sforzo bellico aveva lasciato la città con le casse vuote e ora doveva assumersi il pagamento del
risarcimento di guerra: 2.200 talenti eubei d'argento da pagare in rate annuali nei prossimi 10 anni ,
più altri 1.000 talenti da pagare subito. La popolazione cittadina era stata colpita nel numero, dalle
battaglie, ed economicamente, le rotte commerciali marittime interrotte per molti anni. Le
campagne erano devastate dall'invasione di Regolo (255-4 aC) e le comunità libiche e numide
sottomesse a Cartagine erano in fermento per il palese aumento delle tasse. Da parte sua, Amílcare
Barca tornò in patria avendo perso parte del suo prestigio politico e militare (tanto uniti
nell'antichità). Vero è che non fu sconfitto in Sicilia e che con scarse risorse inflisse continue
perdite ai romani, oltre ad essere un costante grattacapo per i consoli che per più di sei anni si
avvicendarono cercando, con schiacciante superiorità numerica, di porre fine la guerra. . Ma non
aveva ottenuto nemmeno la vittoria per Cartagine, cosa di cui i suoi nemici politici avrebbero subito
cercato di approfittare. Non si può ignorare la sorte subita dai generali cartaginesi (e anzi di
qualsiasi città-stato del Mediterraneo, ad eccezione di Roma) che furono sconfitti nelle loro
campagne. La morte o l'esilio erano pratiche comuni. Senza andare oltre, Hannón, l'ammiraglio
sconfitto quello stesso anno alle Isole Egates, fu giustiziato. Annone il Grande, invece, era riuscito a
salire grazie alle sue vittorie contro i Numidi. La bilancia della politica cartaginese pendeva dalla
parte dei grandi proprietari terrieri, con Annone in testa. Per risolvere la sua scomoda situazione,
Amílcar cercò sostegno tra gli altri aristocratici punici. Uno di loro era Asdrubale, soprannominato
il Bello, che sarebbe poi diventato suo genero, e che Appian descrive come “il più popolare dei
grandi uomini”.
Apparentemente, un altro alleato era un certo Bomilcare "il Re", poiché Polibio nomina l'esercito di
Annibale in Italia come "Hannon, figlio di Bomilcare, nipote di Annibale"; cioè sposò un'altra delle
figlie di Amilcare. È probabile che già i Barqa pesassero l'idea di espandere i territori di Cartagine
verso Occidente per aprire nuove rotte commerciali e ricostruire così dopo la perdita della Sicilia,
oltre a pagare il debito con Roma. Ma per il momento, o costretto dai grandi uomini di Cartagine, o
per salvarsi da loro, si tenne lontano dalla scena politica. Tale fu la sua fretta di tornare e
riorganizzare i suoi affari, e forse anche per orgoglio e rabbia con il suo paese per non aver
continuato la guerra, che lasciò Gescón al comando dell'operazione di ritiro delle truppe dalla
Sicilia, che dovette anche restituire i soldi per i suoi servizi. L'esercito mercenario che era stato al
comando di Amilcare contava più di 20.000 uomini, la maggior parte libici, ma anche Galli, Liguri,
Baleari, meticci greci (termine oscuro) e anche disertori romani e italici. Tutti soldati professionisti
con grande esperienza. Non c'è una descrizione dettagliata dell'esercito, ma possiamo dedurre alcuni
punti. Come vedremo in seguito, dopo la sconfitta di Bagradas, Spendio partì con "6.000 uomini di
varie nazionalità", accompagnato dai 2.000 Galli di Autarito.
Pertanto, le truppe non libiche devono aver contato almeno 8.000 uomini, forse 9.000 supponendo
che si sarebbero verificate vittime e diserzioni; essere in grado di crittografare i libici a circa 12.000
o 13.000. Le truppe sarebbero principalmente fanteria (leggera e di linea) ma ci sarebbe anche un
piccolo contingente di cavalleria, come si può vedere in un'azione ad Erice, dove 200 cavalieri
salvarono Bostar, luogotenente di Amilcare, da una grave sconfitta. Inoltre, durante le trattative con
Cartagine, i mercenari chiesero un risarcimento per i cavalli morti. Pertanto, l'esercito avrebbe una
squadra di cavalleria, anche se in numero molto piccolo. Gli ufficiali di ogni contingente erano
generalmente della loro stessa origine, ma i comandanti a cui erano subordinati erano Cartaginesi
(come Gesco) o Fenici di città alleate come Utica e Ippona Acra. Dopo che l'ammutinamento del
247 aC fu represso, i mercenari, ad eccezione di un gruppo di 1.000 Galli, furono fedeli e
professionali con Amilcare, anno dopo anno, nonostante la difficile situazione. Come si può vedere
nel corso della storia, le famiglie di almeno la maggior parte di loro sono rimaste nella stessa
Cartago o nei centri vicini. Che era una forza di pressione per loro. Occorre anche sottolineare in
essa la doppia intenzione cartaginese, con i figli cresciuti tra i cartaginesi, quando tornati nelle loro
terre rafforzarono la politica estera e le possibilità di reclutamento. La questione dei libici è difficile
da analizzare, poiché non è chiaro se si trattasse di mercenari o semplicemente di “servitori” militari
che le comunità sotto il controllo cartaginese erano obbligate a fornire. In ogni caso percepirebbero
anche uno stipendio, anche se inferiore al resto, un punto molto interessante nel futuro della
trattativa che vedremo. Il piano di Gesco di trasferire a poco a poco le truppe affinché anche il
pagamento fosse frammentato e più sopportabile, fu annullato dall'incuria delle autorità di Cartago.
Non sapevano come trovare i mezzi per pagare e rimandare a casa i mercenari, lasciandoli
acquartierati in numero crescente in città.

Dichiarazione di guerra
Una volta che tutti sono a Cartago, i disturbi non tardano ad apparire. I mercenari, oziosi e senza
denaro per sussistere, furono costretti a compiere ogni genere di atti rapaci. Il senato cartaginese
chiese subito ai capi di portare le loro truppe a Sicca, consegnando ad ogni mercenario una moneta
d'oro per le emergenze. I mercenari volevano lasciare i loro bagagli, mogli e figli a Cartagine, ma i
governanti rifiutarono, poiché questo sarebbe stato un motivo per loro di tornare e sarebbero tornati
i disordini. Sicca era una città abbastanza lontana da non potersi preoccupare per un po' dei
mercenari, mentre Cartagine dedicava i suoi scarsi soldi a scopi più urgenti: come saldare debiti e
ricostruire la flotta. Era anche situata in una fertile valle dove questi uomini potevano rifornirsi
senza troppi problemi. Non bisogna dimenticare che il gran numero che erano, inoltre, i loro parenti
avrebbe dovuto essere aggiunto, rendendo un totale troppo grande per essere sfamato facilmente
nella stessa Cartagine. Nonostante ciò, i mercenari continuarono a chiedere la loro paga, e Annone
il Grande (secondo Polibio (1, 67' 1) “governatore dei Cartaginesi in Africa in quel momento”) fu
inviato a negoziare con loro. Ma lungi dal soddisfare le loro speranze, dice loro che a causa della
situazione dovrebbero perdonare una parte di quanto concordato. Sorsero allora dissensi e
commozione tra tutti i presenti, e poiché non parlavano la stessa lingua, tutto il campo era pieno di
confusione. Come sottolinea Polibio, questa differenza linguistica era vantaggiosa per i Cartaginesi
nel mantenere le truppe fedeli ai loro capi, ma per istruire, mitigare e correggere coloro che erano
spinti dalla rabbia era tutto il contrario. La sfiducia crebbe tra tutti, alcuni ufficiali non tradussero il
discorso di Annone come aveva detto lui, né per ignoranza né per pura malizia, poiché nemmeno
loro si fidavano di lui. Hanno non era il generale che li aveva comandati in Sicilia, il che, senza
dubbio, ha ostacolato l'intera trattativa. Pieni di disprezzo, i mercenari marciarono verso Cartagine e
si accamparono a Tunisi verso la metà dell'autunno del 241 a.C. In quel momento i Cartaginesi si
resero conto dell'errore di averli squartati tutti in un unico luogo, oltre ad aver inviato loro i loro
bagagli, donne e bambini. Sarebbe stato più intelligente tenerli in ostaggio e quindi avere una
migliore merce di scambio.
Cercando di placarli, mandarono loro una grande quantità di viveri perché potessero comprarli a
prezzo fisso; ei senatori mandavano loro promesse che tutto sarebbe stato fatto a loro piacimento.
Incoraggiati e vedendo la paura dei Cartaginesi, i mercenari non smettevano di esigere ogni giorno
in modo crescente: oltre allo stipendio chiedevano il prezzo dei cavalli morti; ricevuto, chiedevano
il prezzo della spesa loro dovuta, ecc. Assetati di oro, hanno cercato di ostacolare i negoziati. Il
senato cartaginese decise infine di inviare un generale di cui potersi fidare per chiudere i negoziati.
Il prescelto fu Gesco, il secondo di Amilcare in Sicilia, poiché a Cartagine si pensava che lo stesso
Amilcare Barca fosse causa del loro disprezzo. Quando Gescón arrivò a Tunisi, convocò i capi, che
prima rimproverò per la loro condotta e poi iniziò a pagare per le nazioni. Tra i soldati c'era però un
campano di nome Spendius, che le fonti descrivono come un forte e impavido servitore fuggitivo
dei romani. Temendo che il suo signore lo mettesse le mani addosso e lo crocifiggesse, come vuole
il diritto romano, volle interrompere il patto. Era accompagnato da Mathos, un libico libero, ma
poiché era stato lui il motore degli alterchi aveva paura di rappresaglie.
Mathos convinse i libici che, dopo aver spedito le altre nazioni, i Cartaginesi avrebbero sfogato su
di loro la loro ira e spaventato gli altri africani con la loro punizione. Spendius e Mathos accusarono
e diffamarono Gescón ei Cartaginesi e l'atmosfera si infiammò così tanto che se qualcuno, soldato o
ufficiale, intercedeva per i punici, veniva lapidato. E così, con l'ira alle stelle, Spendius e Mathos
furono eletti capi dei libici. Gesco intanto trattava con gli altri, e poi arrivarono i libici, che
chiedevano insolentemente le razioni loro dovute. Ma il generale cartaginese rispose che
chiedevano a Mathos. Questo li ha irritati ancora di più e gli hanno strappato i soldi e poi hanno
imprigionato Gesco e il suo entourage. I capi ribelli pensavano che se avessero commesso un
crimine contro la legge e la destra avrebbero acceso la guerra che desideravano; e subito dopo lo
dichiararono formalmente (fine 241 aC).

Appello ad Amilcare e Battaglia di Bagradas


Mathos inviò immediatamente legati nelle città dell'Africa, proclamando la libertà e pregandoli di venire
in loro aiuto e prendere parte alla guerra. La proposta fu accolta quasi all'unanimità, solo le città a
popolazione fenicia: Utica, Ippona Acra e le città dell'area bizacena (Tapsus, Hadrumeto, Leptis Minor)
rimasero dalla parte di Cartagine, come già accadde con l'invasione di Agatocle e Regolo. Durante la
guerra precedente, i libici erano stati colpiti da tasse elevate, quindi non ci sono volute molte pressioni
per convincerli a ribellarsi. L'intera popolazione si rivolse agli ex mercenari, pagando a palate i propri
debiti. Cartagine affrontò un pericolo ancora maggiore di quello che aveva subito nella lunga guerra
contro Roma: annientati dopo la guerra di Sicilia, non avevano ora né le truppe né i viveri che
prendevano dalle città dell'Africa, passati al nemico; mancavano armi e forze marittime, senza scorte di
provviste e senza alleati da cui ricevere aiuto. Cartagine inviò Annone il Grande al comando di un
piccolo esercito, ma che comprendeva almeno 100 elefanti, e prepararono le navi di tre e cinque ordini
che avevano ancora. Ci volle sicuramente del tempo, con Annone che se ne andò probabilmente nella
primavera del 240 a.C. Da parte sua, all'esercito di Mathos si erano aggiunti 70.000 libici, in grado di
assediare Utica e Ippona Acra (che potevano essere trattenuti grazie alla piccola ma sufficiente flotta
punica) e allo stesso tempo mantenere una forte guarnigione a Tunisi. Tutte le comunicazioni tra
Cartagine e il resto dell'Africa furono così completamente interrotte. Hanno era un buon organizzatore,
ma non era un abile generale. Andò a Utica e spaventò i suoi nemici con il gran numero di elefanti. Si
ritirarono ed Annone, sicuro di sé, entrò in città, trascurando il campo di battaglia, al quale tornarono i
ribelli, attaccando di sorpresa e mettendo in fuga i Punici, prendendo d'assalto l'accampamento e
sequestrando tutto il bagaglio e le macchine d'assedio che erano state lasciate indietro. portato con sé.
Con questa debacle, il senato cartaginese decise di richiamare nuovamente Amílcar Barca, che stava
tornando sulla scena politica. Il generale radunò un esercito di 10.000 uomini composto da stranieri,
disertori nemici, cavalleria e fanteria cittadina, e 70 elefanti. Non si deve pensare che questo
escludesse Hanno dalla guerra.
Il generale continuò ad operare con il suo esercito, sebbene queste azioni non siano descritte da
nessuna fonte, se non per il poco contributo di Polibio, che lo colloca "giorni dopo" commettendo
nuovi errori in un luogo chiamato Gorza (non identificato). Forse girava intorno a Utica o veniva in
aiuto di Ippona Acra; in ogni caso senza risultati positivi.

Mappa dell'Africa cartaginese al tempo della ribellione. La linea nera delimita (speculativamente) i
limiti del dominio di Cartagine. In Rosso i movimenti dei mercenari; in azzurro i movimenti punici.

Da parte sua, Mathos aveva sorvegliato tutti i passi di montagna che circondano Cartagine a nord
mentre Spendoos difendeva l'unico ponte sul fiume Bagradas (l'attuale Medjerda), lungo il quale i
ribelli avevano costruito una città per difenderla. Il fiume era inguadabile a causa della sua enorme
portata, ma Amílcar conosceva un percorso alternativo. Sapeva che d'estate i venti portavano la
sabbia verso la foce, infangandola e creando una specie di sentiero. Amilcare partì di notte e
attraversò di sorpresa i Bagrada. Spendius lo incontrò con 10.000 uomini della città del ponte, a cui
si unirono altri 15.000 dell'assedio di Utica. Amilcare marciò con gli elefanti all'avanguardia, la
cavalleria e la fanteria leggera al centro e la fanteria pesante nelle retrovie.
Rendendosi conto che il nemico stava attaccando frettolosamente, ordinò di invertire l'ordine di
marcia, facendo passare la fanteria pesante al fronte e l'avanguardia alle retrovie. I ribelli, credendo
che i Cartaginesi stessero fuggendo, abbandonarono ogni formazione e attaccarono in uno
sbarramento. Improvvisamente trovarono di fronte a loro la fanteria punica e non appena la
cavalleria e gli elefanti minacciarono i loro fianchi fuggirono veloci come avevano attaccato. È
iniziata una persecuzione in cui le truppe mobili di Amilcare hanno dato un buon conto dei loro
nemici, uccidendo 6.000 libici e stranieri e facendo 2.000 prigionieri. Gli altri riuscirono a salvarsi
quando raggiunsero la città e il campo di Utica. Non vengono fornite cifre per le vittime
nell'esercito cartaginese, ma erano chiaramente insignificanti.
Mappa che mostra i movimenti prima della battaglia di Bagradas

Ben presto Amilcare capitalizzò la vittoria e prese d'assalto la città dal ponte, i suoi occupanti ora
stavano fuggendo a Tunisi. Poi si recò negli altri paesi vicini, che si arresero senza esitazione,
recuperando così lo spirito e il coraggio dei Cartaginesi. Sicuramente l'assedio di Utica fu revocato
(anche se le fonti non lo specificano) data l'impossibilità di mantenerlo con l'esercito di Amilcare
così vicino e il generale Spendio, fuggito in un altro luogo.

Patto con Naravas e Victoria


Mathos continuò l'assedio di Ippona Acra, ma aveva bisogno di tenere sotto controllo Amilcare, che
viaggiò all'interno del paese recuperando la lealtà di paesi e città per Cartagine. Per questo mandò
Spedio insieme ad Autarito, comandante dei Galli, con la missione di circondare il generale punico,
consigliando loro di evitare le pianure data la superiorità che aveva nella cavalleria e negli elefanti.
Ha anche inviato messaggi a Numidi e Libici chiedendo aiuto e esortandoli a non perdere
l'occasione di riconquistare la libertà. Spendio lasciò Tunisi al comando di 6.000 uomini di varie
nazionalità e accompagnato da Autarito con i suoi 2.000 Galli, cioè i veterani di Sicilia; arrivando al
luogo dove si era accampato Amilcare: una pianura coronata da tutti i lati da monti. Gli eserciti
erano in numero simile, ma quello di Amilcare aveva un chiaro vantaggio in pianura, quindi i ribelli
non osavano scendere dal loro accampamento in montagna. Ma poi vennero i Numidi ei Libici che
erano venuti alla chiamata di Mathos, circa 10-15.000 uomini. Improvvisamente Amilcare si trovò
in gravi difficoltà, circondato dai Libici di fronte, dai Numidi di dietro e da Spendio di lato; e
ampiamente in inferiorità numerica. Tuttavia, tra i Numidi c'era un certo capo, di nome Naravas,
che si appoggiava ai Cartaginesi, influenza ereditata dai suoi padri secondo Polibio, il quale pensava
che questa sarebbe stata una buona occasione per riconciliarsi con Cartagine.
Marciò all'accampamento di Amilcare accompagnato da 100 Numidi, dove incontrò il generale,
dimostrando grande valore, audacia e coraggio. Entrambi hanno concordato un'alleanza, in cui
Amílcar ha promesso a sua figlia se Naravas fosse rimasto fedele a Cartagine.

Mappa della situazione delle prime battute del conflitto.

Fatta l'alleanza, Naravas arrivò con 2.000 Numidi sotto il suo comando accompagnando i
Cartaginesi che furono messi in ordine di battaglia. Dal canto loro, gli uomini di Spendio si unirono
ai libici e tutti scesero in pianura a combattere. Il combattimento fu duro, ma Amilcare vinse. Gli
elefanti avevano un grande protagonismo, ma, secondo Polibio, Navaras si distinse tra tutti. Nel
bottino morirono 10.000 ribelli e altri 4.000 furono fatti prigionieri, ma Spedio e Autarito riuscirono
di nuovo a fuggire. Amilcare, nel tentativo di avvicinarsi ai ribelli, diede il permesso a chiunque
volesse di arruolarsi nel suo esercito. Salvò la vita agli altri e li invitò ad andare dove volevano, ma
sotto la minaccia che se avessero ripreso le armi contro Cartagine sarebbero stati puniti senza
rimedio. Tra i ribelli che si sarebbero uniti a lui e le truppe di Navaras, l'esercito di Amilcare
ammonterebbe ora a 15.000 uomini.

La guerra infuria
Mentre ciò avveniva in Africa, i mercenari della guarnigione a difesa della Sardegna si ribellarono
ad imitazione di Mathos e Spendius. Fu inviato un certo Annone con un nuovo esercito composto di
mercenari, ma questi uccisero il loro generale e si unirono ai ribelli. Cartagine perse così il controllo
dell'isola.
Già nel 239 aC Mathos, Spendio e Autarito, temendo che la politica di riconciliazione di Amilcare
potesse dividere l'esercito, escogitarono un piano per impedirlo. Li radunarono tutti insieme e in
quel momento si comportarono come se fosse arrivato un messaggero dai ribelli in Sardegna,
consigliando loro di stare attenti con Gescón e gli altri imprigionati a Tunisi, perché c'era
dell'esercito che voleva liberarlo. Spendius li esortò a non credere al perdono di Amilcare perché
intendeva catturarli tutti e a non liberare Gescón, poiché questo abile generale sarebbe presto
tornato ad attaccarli con un esercito. In quel momento arrivò un altro messaggero da Tunisi con lo
stesso messaggio di quello della Sardegna. Quindi Autarito esortò tutti a uccidere Gescón e gli altri
prigionieri e chiunque catturassero in futuro. Alcuni hanno cercato di intercedere per Gescón, visto
il buon trattamento che aveva avuto con tutti in passato, ma questo non ha fatto altro che aumentare
l'odio e si sono uccisi ciascuno. Gli uomini di Spedio guidarono Gescón ei suoi 700 compagni fuori
dal campo, gli tagliarono prima le mani, poi i piedi, gli spezzarono le gambe e li gettarono vivi in
una fossa. Consapevole della notizia, Amílcar chiamò Hannón el Grande per unire entrambi gli
eserciti, convinto che in questo modo avrebbero potuto porre fine rapidamente alla guerra; ed
ambedue da Cartagine fu ordinato di vendicare i loro compatrioti, mentre furono mandati emissari a
raccogliere i cadaveri. Ma, dimostrando ancora una volta poca umanità, i ribelli li cacciarono con la
minaccia di subire la stessa sorte. Dopo questo, per raggiungere un punto di non ritorno nelle
ostilità, i ribelli pubblicarono un lato di comune accordo con l'ordine di uccidere con la tortura tutti i
cartaginesi catturati e di tagliare le mani a qualsiasi loro alleato. Cosa che da quel momento in poi è
stata eseguita con tutto il rigore. Nel campo punico, sebbene le intenzioni fossero buone, i due
generali non potevano mettersi d'accordo su come condurre la guerra, se non che avrebbero dovuto
uccidere i ribelli catturati per diritto di rappresaglia; e sprecato i vantaggi che ne derivavano. La
situazione raggiunse un punto tale che Cartagine ordinò a uno dei due di abbandonare il generale,
all'elezione delle truppe, ed è qui che prevalse il carisma di Amilcare, sostituito da Annone dal più
malleabile Annibale. Mentre ciò accadeva, una flotta di rifornimenti dai cosiddetti empori dalle
fonti affondò in una tempesta, lasciando Utica e Ippona Acra a corto di rifornimenti, che ora
passarono al nemico senza molta resistenza, uccidendo la guarnigione di 500 uomini che Cartagine
aveva mandato in loro aiuto, gettando poi i corpi oltre le mura e impedendo loro di essere sepolti.
Senza dubbio, le azioni dei ribelli nei confronti degli alleati di Cartagine ebbero un profondo
impatto sugli abitanti delle uniche due città che potevano ancora sostenerli. La situazione divenne
così compromessa che Spendio e Mathos riuscirono ad assediare la stessa Cartagine nella primavera
del 239 aC Ma lungi dall'arrendersi, Amilcare inviò Navaras e i suoi Numidi a tagliare la linea di
rifornimento nemica, azione che portarono avanti con grande successo . Anche se non abbastanza.
Cartagine fu costretta a chiedere aiuto ai suoi ex nemici. Hiero rispose in modo soddisfacente
perché era interessato a Cartagine che bilanciasse il potere di Roma. La lupa aiutò anche nonostante
l'incidente di circa 500 mercanti italiani che furono catturati mentre cercavano di vendere ai ribelli.
Cartagine li consegnò senza riscatto, per il quale Roma fu ugualmente grata, consegnando il resto
dei prigionieri di guerra siciliani e incoraggiando i suoi mercanti a svendere la stessa Cartagine.
L'atteggiamento romano era così corretto che rifiutarono perfino la proposta dei mercenari sardi,
che erano stati espulsi, di consegnare loro l'isola; e inoltre non hanno accolto la richiesta di amparo
da Útica. Così, a poco a poco, Amilcare privò gli assedianti dei rifornimenti, costringendoli a
ritirarsi all'inizio o alla metà del 238 a.C. Ma ora, sollevati dall'onere di mantenere gli assedi di
Utica e Ippona Acra, i ribelli poterono concentrare le loro forze per inviare un grande esercito a
tenere i passi di Amilcare. Riunendo una truppa di 50.000 uomini, contando sui libici di Zarjas , la
sua idea era di tenere a bada il Cartaginese, anticipandolo e occupando le colline e i passi. Ma anche
se Amilcare era di gran lunga in inferiorità numerica, forse poco più di 20.000 uomini, i ribelli
cercarono di stare attenti a evitare le pianure, data la superiorità di Amilcare negli elefanti e nella
cavalleria. Tuttavia, data la maggiore abilità strategica del generale punico, non potevano impedire
ad Amilcare di attirare piccoli gruppi in combattimento o tendere loro un'imboscata. Tale fu la
pressione a cui li sottopose, che la paura apparve nei nemici quando Amílcar si fece vedere, giorno
e notte, sapendo che quelli che aveva catturati vivi, li gettò agli elefanti, che li calpestarono a morte.

Infine, Amílcare li circondò in un luogo vantaggioso, chiamato Sierra, per la somiglianza che aveva
con questo strumento (luogo non identificato). Sconvolti, i capi ribelli avrebbero cercato un posto
sicuro in cui accamparsi, credendo che l'esercito punico sarebbe stato a una distanza di sicurezza. A
questo punto, la cavalleria numidia e la maggiore capacità di Amilcare di utilizzarla si sarebbero
rivelate cruciali, tenendo d'occhio i ribelli. I Cartaginesi apparirebbero inaspettatamente e
imprigionarono i loro nemici tra i monti, coprendo l'unica via d'uscita dalla valle con un fosso e una
palizzata.

Mappa della situazione nel momento più pericoloso per Cartagine.


I ribelli non potevano scappare e non osavano nemmeno combattere. La fame iniziò a imperversare,
persino a mangiarsi a vicenda. La sua speranza era che i rinforzi arrivassero da Tunisi, ma vedendo
che non si presentavano, Autarito, Zarjas e Spendius decisero di arrendersi e discutere un accordo
con Amilcare. Questo fu suggellato nel modo seguente: “Sarà lecito ai Cartaginesi scegliere tra i
nemici dieci persone, quelle che vogliono; e il resto sarà mandato con il suo vestito». Allora
Amílcar, fatto l'inganno, scelse quei dieci, tra i quali c'erano Autarito, Zarjas e Spedio e altri illustri
capitani. Il resto dell'esercito, ignorando il trattato e timoroso, ricorse inutilmente alle armi data la
loro precaria situazione. Amílcar li circondò e li mise al coltello in numero di oltre 40.000.

Assedio di Tunisi
La vittoria di Amilcare ispirò ancora una volta i Cartaginesi. Il generale punico, insieme ad
Annibale e Naravas, sconfisse le campagne e conquistò diverse città, mettendo all'angolo i resti
dell'esercito ribelle a Tunisi.
Assicurata la retroguardia, lo stato maggiore preparò l'assedio della città, che si trovava in un
"corridoio" tra la baia di Tunisi e il lago Al-Seyoumi, essendo una posizione facilmente difendibile.
Annibale recinta la città da nord, mentre Amilcare lo fa da sud.
Ma Annibale si è comportato in modo eccessivamente sicuro. Prima portò Spendio davanti alle
mura della città dove fu crocifisso. Le truppe erano scarsamente preparate al combattimento e
Mathos se ne accorse, attaccando subito, uccidendone molti e facendo fuggire gli altri nella stessa
Cartagine, sequestrando tutti i bagagli sulla strada. Annibale stesso fu catturato e crocifisso sulla
stessa croce su cui era stato Spendio; così come i 30 senatori cartaginesi che formavano la
commissione che la città aveva inviato con lui. Amílcar non poté aiutarlo quando apprese tardi la
notizia e si trovarono dall'altra parte della città, separati da un enorme lago. Non avendo nient'altro
da fare, Amilcare fu costretto a rompere il campo e posizionarsi alla foce del fiume Bagradas, dove
la sua cavalleria superiore lo avrebbe tenuto al sicuro e in una posizione in cui avrebbe potuto
molestare Mathos se fosse avanzato su Cartagine.

La vittoria finale di Amilcare


Lo scoraggiamento si diffuse nuovamente a Cartagine, che però non si arrese. Rimandò Amilcare ad
Annone il Grande, accompagnato da tutti i cittadini in età militare e da altri 30 senatori che
mediarono tra loro, pregandoli di aggiustare le loro divergenze e di agire di concerto. Mathos vide
le sue opzioni ridotte e si spostò a sud nella regione di Bizacena, cercando di distruggere la fonte di
rifornimenti di Cartagine.
Mappa della situazione alla fine del conflitto.
Lì viene inseguito dai generali cartaginesi, raggiungendolo in giro per la città di Leptis Minor, dove
numerosi piccoli agguati lo tesero, facendogli perdere uomini e speranza. Alla fine Mathos decide
di combattere e il punico, desideroso, lo accetta. Questo incontro non è descritto dalle fonti, se non
per pochi dettagli. Tutti gli uomini disponibili per entrambi i contendenti hanno partecipato alla
battaglia, che sarebbe stata di circa 20.000 uomini dalla parte dei ribelli e circa 25.000 da Cartagine.
La vittoria cartaginese fu rapida, la maggior parte dei libici morirono e il resto fuggì in una certa
città poco prima di arrendersi completamente. Mathos fu arrestato e portato a Cartagine insieme ai
suoi collaboratori, dove subì ogni tipo di obbrobrio. Il resto delle città dell'Africa si arrese presto di
nuovo alla subordinazione di Cartagine, ad eccezione di Útica e di Ippona Acra, che, per
l'atteggiamento con cui avevano agito, non ebbero pretesto per chiedere la pace e persistettero nella
ribellione. Ma non appena Annone si accampò di fronte all'uno e Amilcare di fronte all'altro
all'inizio della primavera del 237 aC, furono costretti ad accettare qualunque termine volesse
Cartagine. Dopo tre anni e quasi quattro mesi (dicembre 241 aC – marzo 237 aC circa), la guerra
dei mercenari si concluse così e Cartagine riprese il controllo dell'Africa. 

Epilogo
Amilcare aveva salvato la città (secondo le parole di Polibio) dalla situazione più pericolosa che avesse
mai dovuto affrontare, tranne quando fu distrutta. Fu un conflitto crudele e spietato da entrambe le parti,
in cui vinse la strategia aggressiva di Amilcare. In contrasto con le azioni ben più esitanti dei generali
punici dell'epoca, qui riflesse in Annone il Grande. Amilcare cambiò il concetto strategico di Cartagine,
trovandosi nella Guerra dei Mercenari quando si riflette più chiaramente. Innova anche nella sezione
tattica, dando maggiore importanza alla cavalleria e agli elefanti, cosa che era stata sviluppata tre
decenni prima con il mercenario spartano Xanthippus, ma che a quanto pare non aveva preso piede tra i
generali della città africana. Due decenni dopo, sarà suo figlio Aníbal Barqa a portare alla ribalta questi
due fattori. Ma i mali di Cartagine non finirono con questa guerra. Roma, attratta dai ribelli sardi, decise
di trasferirsi nell'isola. I Cartaginesi si lamentarono con rabbia di ciò mentre preparavano una spedizione
per riprendere il controllo. Ma i romani, sostenendo che l'esercito non era diretto contro i sardi ma
contro la stessa Roma, dichiararono loro guerra. Cartagine fu travolta dagli eventi, incapace di
riprendere una nuova guerra dopo 28 anni di combattimenti ininterrotti, tra quella che aveva subito in
Sicilia e quella che si era appena conclusa in Africa. È costretta a ottenere la pace non solo per cedere la
Sardegna ma per aggiungere altri 1.200 talenti al debito di 3.200 della prima guerra punica. Questo atto
totalmente opportunistico e sleale da parte di Roma ha acceso la rabbia punica più della precedente
sconfitta, e alla fine è stata la miccia che ha innescato il successivo conflitto tra le due potenze del
Mediterraneo occidentale. E d'altra parte Cartagine, già priva di territori d'oltremare, fu costretta a
cercare risorse e commerci in altre terre. Ed è così che è finito Amílcar in Hispania.

Prima guerra illirica (229 aC al - 228 aC.)Rome's


concern was that the trade across the Adriatic Sea
increased after the First Punic War at a time when
Ardiaei power increased under queen Teuta . [2] Attacks
on trading vessels of Rome's Italic allies by Illyrian
pirates and the death of a Roman envoy named
Coruncanius [3] on Teuta's orders [4] and t, prompted the
Roman senate to dispatch a Roman army under the
command of the consuls Lucius Postumius Albinus and
Gnaeus Fulvius Centumalus.
The Illyrian Wars were a set of wars fought in the period 229–168 BC between the Roman Republic
and the Ardiaei kingdom.Le guerre illiriche erano una serie di guerre combattute nel periodo 229-
168 aC tra la Repubblica Romana e la Ardiaei Unito.In the First Illyrian War , which lasted from
229 [1] BC to 228 BC. Nella Prima guerra illirica, che durò dal 229 aC al 228 aC.Rome's concern
was that the trade across the Adriatic Sea increased after the First Punic War at a time when Ardiaei
power increased under queen Teuta . [2] Attacks on trading vessels of Rome's Italic allies by Illyrian
pirates and the death of a Roman envoy named Coruncanius [3] on Teuta's orders [4] and t, prompted
the Roman senate to dispatch a Roman army under the command of the consuls Lucius Postumius
Albinus and Gnaeus Fulvius Centumalus. La preoccupazione di Roma era che il commercio in tutto
il Mare Adriatico è aumentato dopo la prima guerra punica nel momento in cui il potere Ardiaei
aumentata sotto la regina Teuta . Gli attacchi alle navi mercantili di alleati italici di Roma da parte
dei pirati illirici e la morte di un inviato romano di nome Coruncanio su ordine di Teuta e t, spinto
il senato romano di inviare un esercito romano sotto il comando dei consoli Lucio Postumio Albino
e Gneo Fulvio Centumalus.Rome expelled Illyrian garrisons from the Greek cities Epidamnus ,
Apollonia , Corcyra , Pharos and others and established a protectorate over these Greek towns.
Roma cacciò le guarnigioni illiriche dalle città greche di Epidamnus, Apollonia, Corcyra, Pharos e
altre e istituì un protettorato su queste città greche.The Romans also set up [5] Demetrius of Pharos as
a power in Illyria to counterbalance the power of Teuta. [6] I romani nominarono anche Demetrio di
Pharos come potente di Illiria per controbilanciare il potere di Teuta.
Espansione sotto il regno di Agron

In the second half of the third century BC, the Ardiaei kingdom was transformed into a formidable
power under the leadership of Agron .Nella seconda metà del III secolo aC, il regno Ardiaei è stata
trasformata in una potenza formidabile sotto la guida di Agron .During this time, Agron invaded
part of Epirus , Corcyra, Epidamnos and Pharos in succession, establishing garrisons in them. [15]
The new force disposed of 'the most powerful which could carry 50 soldiers in addition to the
rowersforce, both by land and sea, of any of the kings who had reigned in Illyria before him',
according to Polybius (2.2). Durante questo tempo, Agron ha invaso parte di Epiro , Corcira,
Epidamnos e Pharos in successione, stabilendo guarnigioni in loro. La nuova forza smaltiti 'il più
potente che potrebbe portare 50 soldati in aggiunta al rowersforce, sia via terra che mare, di uno dei
re che avevano regnato in Illiria prima di lui ', secondo Polibio (2.2).The Illyrians used the lembus ,
a small and fast warship with a single bank of oars. Gli Illiri usato la lembus , un piccolo e veloce
nave da guerra con una sola banca di remi.Raids by sea from the Adriatic and Ionian were probably
a familiar threat to the north-western Greeks. Le incursioni via mare dal Adriatico e Ionio erano
probabilmente una minaccia familiare per i greci del nord-ovest.What was new was the use of a
land army to follow up and profit from the victories gained by the navy. [16] The Greek cities (
poleis ) on the coast of Illyria were systematically attacked and perhaps already conquered by
Agron's forces. [17] Rome answered an appeal from the island of Issa , threatened by Agron, by
sending envoys. La novità è l'uso di un esercito di terra di follow-up e il profitto dalle vittorie
ottenute dalla marina. Le città greche (poleis) sulla costa di Illyria sono stati sistematicamente
attaccati e forse già conquistato dalle forze di Agron. Roma rispose ad un appello dall'isola di Issa ,
minacciato da Agron, con l'invio di emissari.They never got there. Non hanno mai arrivati.They
were attacked en route by Illyrian vessels, and one of them was killed, together with an Issaean
ambassador. [18] Sono stati attaccati lungo il percorso da navi illirici, e uno di loro è stato ucciso,
insieme ad un ambasciatore Issaean. That time a number of political events marked the adjacent
Greek states.Quella volta una serie di eventi politici segnato gli stati greci adiacenti.In 234 BC, the
royal succession in Epirus came to an end, and a federal republic was instituted. Nel 234 aC, la
successione reale in Epiro si è conclusa, e una repubblica federale è stato istituito.In the south, the
western part of Acarnania seceded from this arrangement. Nel sud, la parte occidentale della
Acarnania separò da questa disposizione.Their independence was soon threatened by the Aetolians ,
who began to occupy territory around the Gulf of Ambracia , including Pyrrhus' old capital,
Ambracia , which forced the Epirotes to establish a new center at Pheonice. Besieged at Medion ,
the Acarnanians sought assistance from Demetrius II of Macedonia , who for the most of his reign
had been at war with the Aetolian and Achaean Leagues. La loro indipendenza fu presto minacciato
dalle Etoli , che cominciò a occupare il territorio attorno al Golfo di Ambracia , tra cui antica
capitale Pirro ', Ambracia , che ha costretto i Epiroti per stabilire un nuovo centro a Pheonice.
Assediata a Medion , i Acarnani chiesto aiuto a Demetrio II di Macedonia , che per la maggior parte
del suo regno era stato in guerra con la Aetolian e achei Leghe.In response, the king requested
assistance from Agron to relieve the siege. In risposta, il re ha chiesto l'assistenza da Agron per
alleviare l'assedio.

The Illyrian attack under Agron was mounted in either 232 or 231 BC.L'attacco
illirico sotto Agron 232 o 231 aC.One hundred lembi, with 5000 men on board,
sailed up to land at Medion.
In precedenza in 231 aC, dopo la dissoluzione dell'Unione Epirote, la Aetolian Lega aveva chiesto alla
città di Medion ad aderire alla Lega, ma le Acarnani rifiutato. Gli Etoli deciso di prendere Medion con
la forza, a partire l'assedio nel mese di giugno. Il re di Macedonia Demetrio II Etolico , un rivale del
Aetolian Lega, essendo lui stesso impegnato contro i Dardani , richiesto Agron di Illiria di intervenire e
aiutare la Acarnanias. Agron ha accettato e ha inviato una flotta di 100 Lembi e 5.000 uomini per
Medion . Questa è stata la più grande forza di un re illirico avesse mai evocato. Gli Illiri e la
Macedonia non erano necessariamente alleati, ma il primo è stato invece assunto per assalto gli Etoli a
Medion come mercenari per il Macedone. Uno storico moderno, Erich S. Gruen, afferma che il fatto che
Demetrio di Macedonia ha dovuto chiamare i Illiri per alleviare Medion dimostra che egli non era in
grado di farlo se stesso. Questo è applicata da un altro storico, Grainger, che dice che Demetrio era
preoccupato nel nord della Macedonia in una guerra contro Dardania. Come gli Illiri erano anche in
guerra contro i Dardani, Grainger afferma che ha fatto Agron e Demetrio 'alleati'. Polibio, d'altra parte,
che ha scritto un rapporto contemporry, afferma semplicemente che Agron è stato corrotto dalla
Macedonia per attaccare gli Etoli. Polibio forse scritto questo per far rispettare le sue dichiarazioni
precedenti e successivi che gli Illiri erano pirati. Gli Illiri sbarcarono sulla costa Acarnanian nel mese di
settembre e hanno marciato per Medion per attaccare gli assedianti Aetolian. Gli Etoli reagirono
inviando la loro fanteria leggera e la cavalleria di un terreno più elevato, ma una singola carica illirica,
usando la loro stretta formazione e numeri a loro vantaggio, costretto la cavalleria di ritirarsi ai Aetolian
Opliti . Dal loro terreno più elevato Illiri poi addebitato verso il basso su l'esercito Aetolian combinato,
loro instradamento rapidamente. Quando alla fine il Acarnani dall'interno della città aderito l'attacco
Aetolians furono sconfitti e ha perso molti uomini. Dopo aver preso molti prigionieri e molto bottino, gli
Illiri sinistra Medion e navigato in Illiria. Al loro arrivo, hanno riferito la loro vittoria sui Etoli al re
Agron, verso la fine del 231 aC. Si dice che sia morto poco dopo, a causa dei suoi eccessivi
festeggiamenti per la vittoria. Gli successe la moglie, la regina Teuta , lo stesso anno. [8][a] Si presume
che dopo gli Illiri sconfissero i Etoli presso l'assedio, Medion e il resto della Acarnania alleata con
Illyria contro il Aetolian Lega per proteggere la regione da attacchi futuri. Questo è evidente come nella
navale battaglia di Paxos , due anni più tardi, la marina illirica è stato imposto dalle navi da Acarnania.

Cattura di Fenicia 230 a. C.


Illyrian success continued when command passed to Agron's widow Teuta , who granted individual
ships a license to universal plunder.Fenicia era stato precedentemente presa da Illiri che agisce sotto la
regina Teuta, nel 230 aC,
dopo un gallico guarnigione di 800 uomini si arrese alla più grande forza illirica.In reaction, the Epirote
League sent in an army to retake Phoenice. In risposta, la Lega Epirota inviato un esercito per riprendere
Fenicia.They took up positions at a river outside of Phoenice. Hanno preso posizioni in un fiume al di
fuori di Fenicia.Meanwhile, 5,000 Illyrians under Scerdilaidas had advanced inland into Epirus from
Southern Illyria and reached a pass just outside Antigoneia . Nel frattempo, 5.000 Illiri sottoil
comandodi Scerdilaidas erano avanzati verso l'interno in Epiro dall’Illiria meridionale e avevano
raggiunto un passaggio appena fuori Antigoneia. The Epirotes reacted by dividing their army, sending a
small detachment to protect Antigoneia whilst keeping their main body outside of Phoenice. I Epiroti
hanno reagito dividendo il loro esercito, l'invio di un piccolo distaccamento di proteggere Antigoneia
pur mantenendo il loro corpo principale al di fuori della Fenicia.The Illyrians at Phoenice, seeing the
Epirote army was divided, advanced towards their camp and crossed the river.Gli Illiri a Fenicia,
vedendo l'esercito era diviso epirota, avanzarono verso il loro campo e attraversato il fiume. The next
day, the forces engaged each other in battle.Il giorno dopo, le forze impegnate in battaglia.The Greek
forces were routed and badly defeated, [4] with many being killed or captured, and the remnants of the
army fled to Atinania . [1] Le forze greche sono stati mal indirizzate e sconfitte, e i resti dell'esercito
fuggirono a Atinania, dopo aver perso molti uomini tra morti e prigionieri. Following the battle, the
Epirote league had failed to take control of Phoenice, the most powerful city of Epirus.Dopo la
battaglia, il campionato epirota non era riuscito a prendere il controllo della Fenicia, la città più potente
di Epiro.Scerdilaidas forces had also occupied areas of northern Epirus up until Antigoneia. Scerdilaidas
forze avevano anche occupato zone del nord dell'Epiro fino Antigoneia.The Epirotes requested
assistance from the Aetolian and Achaean Leagues , with the former having been defeated previously by
Illyrians under Agron at Medion in 232 BC. [5] Both leagues sent a combined relief army to the Epirotes
which arrived at Helicranum , nearby modern Ioannina , in 230 BC. Il Epiroti ha richiesto assistenza da
parte del Aetolian e achei Leghe , con l'ex essendo stato sconfitto in precedenza da Illiri in Agron a
Medion nel 232 aC. Entrambi i campionati inviato un esercito di soccorso combinato ai Epiroti arrivate
alla Helicranum , vicina moderno Ioannina , nel 230 aC.The Illyrians at Phoenice and those outside
Antigoneia under Scerdilaidas joined forces in Epirus and advanced towards Helicranum at the heart of
Epirus, preparing to engage the new Greek force in battle. Gli Illiri a Fenicia e quelle al di fuori
Antigoneia sotto Scerdilaidas unito le forze in Epiro e Advanced verso Helicranum nel cuore di Epiro,
preparando ad impegnare la nuova forza greca in battaglia.However, they were called back to Illyria by
Teuta before the battle begun, following an Illyrian revolt in support of Dardania . [4][6][7][8][9] The
Dardanian ruler, Longarus , had invaded Illyria, sparking an insurrection. [10] Thus, after briefly
plundering the Epirote coast, the Illyrians made a truce with the Epirotes and retreated. Tuttavia, sono
stati richiamati a Illiria dal Teuta prima della battaglia iniziata, a seguito di una rivolta illirica a sostegno
della Dardania . Il comandante Dardanio, Longarus , aveva invaso Illiria, innescando un'insurrezione.
Così, saccheggiando dopo breve tempo la costa epirota, Illiri fatto una tregua con il Epiroti e si
ritirò.They also gave up the freemen they had captured at the battle along with the city of Phoenice for a
ransom. Ci hanno anche dato i uomini liberi che avevano catturato alla battaglia insieme con la città di
Fenicia per un riscatto.Afterwards, taking slaves and booty the Illyrians returned to Illyria by sea, whilst
the 5,000 under Scerdilaidas retreated northwards to the pass of Antigoneia. [11] In seguito, prendendo
schiavi e bottino Illiri restituito al Illiria via mare, mentre il 5000 sotto Scerdilaidas ritirarono verso nord
fino al passo di Antigoneia. Despite an Illyrian victory at the Battle of Phoenice , a pro-Dardanian
rebellion in the north-east of the Kingdom forced Teuta to call back Illyrian forces from Epirus. [5][9]
Teuta quickly crushed the rebellion, and now turned towards Issa , [10] situated off the coastline of Illyria.
[1]
Nonostante una vittoria illirica alla battaglia di Fenicia , una rivolta pro-Dardanian nel nord-est del
Regno costrinse Teuta a richiamare le forze illiriche dall’ Epiro. Teuta schiacciò rapidamente la
ribellione, e dopo si voltò verso Issa , che si trova al largo della costa dell’ Illiria. Shortly after
defeating the rebels, Illyrians under Teuta and Demetrius , commander of neighbouring Pharos island ,
begun to siege Issa.Poco dopo aver sconfitto i ribelli, gli Illiri sotto Teuta e Demetrio , comandante della
vicina isola di Pharos , hanno iniziato l'assedio di Issa.Soon after the siege begun, Rome sent
ambassadors to meet Teuta at Issa.Ha iniziato l'assedio di Issa stesso anno e ha inviato una grande flotta
in Adriatico, che ha attaccato Epidamnus, Corcyra e Apollonia nella primavera del 229 aC. The Illyrians
landed at the port of Epidamnus in spring 229 BC, with the pretext of collecting food and water. Gli Illiri
sbarcarono al porto di Epidamnus con il pretesto di raccogliere cibo e acqua.The Greeks were careless
and allowed the Illyrians to enter, with the latter concealing swords to prepare for an assault. I Greci
erano distratto e ha permesso Illiri di entrare, con le spade coprenti quest'ultimo per preparare un
assalto.They killed the guards of the gate tower and quickly took part of much of the walls of
Epidamnus. Hanno ucciso le guardie della torre cancello e rapidamente hanno preso parte di gran parte
delle mura di Epidamnus.Eventually, the citizens formed a resistance and pushed the Illyrians outside of
the city. Alla fine, i cittadini hanno formato una resistenza ed hanno spinto gli Illiri al di fuori della
città.The Illyrians then left Epidamnus and joined other Illyrians who were heading southwards towards
Corcyra. Gli Illiri poi a sinistra Epidamnus e si unirono altri Illiri che si dirigevano a sud verso Corcira.

Guerra
Even before the war with Carthage (264-241 BC), the Romans had been aware of the danger to the
Adriatic coast of Italy from seaborne attack.Anche prima della guerra con Cartagine (264-241 aC), i
Romani erano consapevoli del pericolo degli attacchi via mare dei pirati Illirici alle coste adriatiche
dell’Italia.In 246 BC, a colony of Roman citizens was settled at Brundisium to keep a watch on the
Ionian gulf . [23] During their occupation of Phoenice, a number of Illyrian ships had engaged in
privateering against Italian merchants. Nel 246 aC, una colonia di cittadini romani è stata insediata a
Brundisium per mantenere un controllo sul golfo ionico. Durante la loro occupazione di Fenicia, un
numero di navi illiriche erano impegnate nella corsa contro mercanti italiani.So many were robbed,
murdered or captured that the Roman Senate, after ignoring earlier complaints, realized that something
had to be done.Così molti sono stati derubati, uccisi o catturati, tanto che il Senato romano, dopo aver
ignorato le denunce precedenti, si è reso conto che qualcosa doveva essere fatto.Polybius (2.8) furnishes
a suspiciously vivid account of a Roman embassy to Teuta, a version of events that was intended to
justify the Roman invasion of Illyria.Roma, ora che aveva le sue colonie quasi sull'intera costa adriatica,
da Rimini a Taranto, volendo mettere fine a questo stato di cose, salpando da Brindisi, inviò a Scodra
(Scutari), dove risiedeva la regina Teuta, vedova del re Agrone, e che reggeva lo Stato in nome del
figlio minorenne PINNE, i fratelli Caio e Lucio Coruncanio affinché ammonissero la regina a reprimere
la pirateria; ma Teuta rispose che quella era un'attività non punita dalle leggi del suo Stato e, avendo
Lucio Coruncanio affermato che "ci avrebbe pensato Roma a dare all'Illiria delle leggi più civili", fece
assassinare l'ambasciatore.Se Roma andava cercando un pretesto, con l'assassinio di Lucio, ora il motivo
era più che legittimo per scatenare una guerra; con due scopi: eliminare la pirateria e mettere un piede
sull'altra sponda.

Assedio di Corcyra (Corfù) e Battaglia di Paxos

Nella primavera del 229 aC, regina Teuta allestì una grande flotta di navi e la inviò verso le coste
greche.Some of them sailed to Corcyra, while another party anchored in the harbour of Epidamnos ,
professedly to seek water and provision, but really with the design of surprising and seizing the city.
Alcuni di loro navigarono verso Corcira, mentre un'altra parte ancorata nel porto di Epidamnos ,
dichiararono di cercare acqua viveri, ma in realtà con il progetto di sorprendente e occupare la
città.After a failed attempt on the city, the Illyrian commanders hastened to get under way and,
catching up with the rest of the flotilla, bore down on Corcyra. [8]Dopo un tentativo fallito, i
comandanti illirici si affrettarono a lasciare la città e riunirsi con il resto della flottiglia, in
navigazione verso Corcira.The Illyrian army landed on the island and laid siege to the
city.L'esercito illirico sbarcò sull'isola e pose l'assedio alla città.Upon this the Corcyreans, in the
utmost distress and despondency, sent, together with the peoples of Apollonia and Epidamnos,
envoys to the Achaeans and Aetolians , imploring them to hasten to their relief and not allow them
to be driven from their home by the Illyrians.A questo punto i Corcirensi, nella massima angoscia e
sconforto, inviarono, insieme ai messi di Apollonia e Epidamnos, inviati agli Achei e Etoli , li
implorano di affrettarsi a soccorrerli e non permettere che fossero cacciati dalle loro case dagli
Illiri.The two Leagues, after listening to the envoys, consented to their request, and both joined in
manning the 10 decked ships belonging to the Achaeans. Le due leghe, dopo aver ascoltato gli
inviati e acconsentito alla loro richiesta, riunirono una flotta di 10 navi appartenenti alle Achei.In a
few days they were ready and sailed for Corcyra in a hope of raising the siege. [9] In pochi giorni
furono pronti e navigarono verso Corcyra nella speranza di liberarla dall'assedio.

La battaglia navale

The Illyrians, now reinforced by 7 decked ships sent by the Acarnanians in compliance with the
terms of their treaty, encountered the Achaean fleet off the island of Paxos .Gli Illiri, ora rinforzati
da 7 navi inviate dagli Acarnani in conformità con i termini del loro accordo, si scontrarono con la
flotta achea al largo dell'isola di Paxos.The Acarnanians and those Achaean ships which were told
off to engage them fought with no advantage on either side, remaining undamaged in their
encounter except for wounds inflicted on some of the crew. [10] Le Acarnani e quelle navi achee che
è stato detto fuori per impegnarli combattute con alcun vantaggio su entrambi i lati, rimanendo
intatto nel loro incontro ad eccezione di ferite inflitte alcuni membri dell'equipaggio. The Illyrians
lashed their ships in batches of four and thus engaged the enemy.Gli Illiri divisero le loro navi in
gruppi di quattro e quindi impegnarono il nemico.They sacrificed their own ships, presenting them
broadside to their adversaries in a position favouring their charge, but when the enemy's ships had
charged and struck them and getting fixed in them found themselves in difficulty. Sacrificando le
proprie navi, presentando la bordata ai loro avversari in una posizione che favoriva la loro carica,
ma quando le navi del nemico avevano addebitato e li ha colpito e ottenere fissato in essi si sono
trovati in difficoltà.In each case the four ships lashed together were hanging on their beaks, while
the Illyrians leapt on the decks of the Achaean ships and overmastered them by their numbers. In
ogni caso le quattro navi legati insieme pendevano sulle loro becchi, mentre gli Illiri balzò sui ponti
delle navi achee e li vinse con il loro numero.In this way they captured 4 quadriremes and sunk with
all hands a quinquereme, on board of which was Margos of Keryneia . [11] In questo modo hanno
bloccato 4 quadriremi e affondato con tutto l’equipaggio una quinquereme, a bordo della quale era
Margos di Keryneia.

Capitolazione di Corcyra

Highly elated by their success, the Illyrians continued the siege of Corcyra with more security and
confidence.Altamente esaltati dal loro successo, gli Illiri hanno continuato l'assedio di Corcyra con
più sicurezza e fiducia.The Corcyreans, whose hopes were crushed by the repulse of their allies and
after enduring the siege for a short time longer, came to terms with the Illyrians. I Corcyreans, le cui
speranze sono state schiacciate dal rifiuto dei loro alleati e dopo aver sopportato l'assedio per
periodo di tempo più lungo, sono a venuto a patti con gli Illiri.As a result, Corcyra received a
garrison under the command of Demetrius of Pharos . Di conseguenza, Corcyra ricevette un
presidio sotto il comando di Demetrio di Pharos .After this the Illyrian commanders sailed off
immediately and coming to anchor at Epidamnos, set yet another siege to city. [12] Dopo questo i
comandanti illirici salparono subito e gettarono l’ancora a Epidamnos, per impostare l'ennesimo
assedio della città. After these developments the alliance between the Achaeans and the Aetolians
collapsed.Dopo questi sviluppi l'alleanza tra Achei e gli Etoli era crollata.Some historians claim that
this was due to the battle of Paxos, but others believe that it was a result of events that occurred in
the Peloponnesus. [13] Holding Corcyra, the Illyrians were now in a key position that allowed to
intercept the entire trade on the sea routes between Greece , Italy and Sicily , which made a reaction
by the major powers inevitable. Alcuni storici sostengono che questo era a causa della situazione di
Paxos, ma altri credono che si trattava di un risultato di eventi che si sono verificati nel
Peloponneso. Tenendo Corcira, gli Illiri erano ora in una posizione chiave che ha permesso di
intercettare l'intero commercio sulle rotte marittime tra la Grecia , l'Italia e la Sicilia, a questo punto
una reazione da parte delle grandi potenze inevitabile.The Romans were already preparing their first
intervention on the opposite coast of the Adriatic , and soon after the previous events their fleet was
able to take possession of Corcyra. I romani stavano già preparando il loro primo intervento sulla
costa opposta del mare Adriatico , e subito dopo gli eventi precedenti la loro flotta era in grado di
prendere possesso di Corcira.Decisive help to this purpose was not only offered by the Corcyreans
themselves, but also by the Illyrian governor Demetrius, who betrayed his own garrison into the
hands of the Romans. aiuto decisivo a questo scopo non era solo offerto dai Corcyreans stessi, ma
anche dal governatore illirico Demetrio, che tradendo consegnò il proprio presidio nelle mani dei
romani.The armies of the consuls then went on to conquer Apollonia and relieve Epidamnos (soon
renamed Dyrrhachium), thus establishing the first Roman foothold on the Greek mainland. [14] Gli
eserciti dei consoli poi continuato a vincere Apollonia e alleviare Epidamnos (presto rinominato
Durazzo), stabilendo così il primo punto d'appoggio romana sul continente greco.

Offensiva Romana

The Roman consul Gn.Il senato romano inviò il console romano GneoFulvius sailed his 200 ships
to Corcyra to raise the siege, despite having learned that the island had already surrendered. Fulvio
con una flotta di 200 navi a Corcira per porvi l'assedio, pur avendo appreso che l'isola si era già
arresa,He was in secret negotiations with Demetrius, who had fallen out of favor with Teuta, so
Corcyra welcomed the Romans and, with the aid of Demetrius, surrendered its garrison. essendo in
trattative segrete con Demetrio, un avventuriero che essendo caduto in disgrazia con Teuta,
consegnò Corcira con tutta la guarnigione ai romani. La città divenne amica di Roma e d'ora in poi
poteva contare su una protezione romana contro gli Illiri.Demetrius now served as an adviser to the
Roman commanders for the rest of the war. Demetrio divenne consulente dei comandanti romani
per il resto della guerra.Meanwhile, the consul A. Postumius brought an army of 20,000 infantry
and 2,000 cavalry across from Brundisium to Apollonia, which now joined the Roman alliance. Nel
frattempo, il console Postumio A. con un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri era a Brindisi di
fronte a Apollonia, che ora si era unita all'alleanza romana.The fleet under Fulvius reached
Apollonia and the two forces advanced toward Epidamnos, causing the Illyrians to abandon the
siege and disperse. La flotta sotto Fulvio raggiunto Apollonia e riunite le due forze avanzò verso
Epidamnos, costringendo gli Illiri ad abbandonare l'assedio e disperdersi.The city was received into
Roman protection and the army now moved inland among the Illyrian peoples of the hinterland. La
città fu accolta sotto la protezione romana e l'esercito ora si spostava verso l'interno fra i popoli
illirici dell'entroterra.Here, the Romans received delegations from many peoples, including the
Atintani and Parthini , from whom a formal surrender was accepted. Qui, i romani hanno ricevuto
delegazioni di molti popoli, tra cui il Atintani e Parthini , dei qualiè stata accettata una resa
formale.At sea, the blockade of Issa was raised and the city also received Roman protection. [27][28] As
the Romans approached the Illyrian heartlands, opposition stiffened. In mare, il blocco di Issa è
stato rimosso e anche questa città ha ricevuto la protezione romana. Come i romani si avvicinavano
alle roccaforti illiriche, l'opposizione si irrigidiva.The fleet moved northwards and attacked coastal
towns, at one of which the unidentified Noutria, Roman losses included a magistrate of the
Republic and some military tribunes, although 20 ships laden with plunder were intercepted.Poi i
consoli ridussero in loro potere Epidanno (Durazzo), Issa (Lissa) ed Apollonia, e si spinsero fino a
Scodra, portando il terrore nel territorio della regina da indurla a chiedere la pace. The consuls
handed over the kingdom to Demetrius and withdrew the fleet and army to Italy under Fulvius.I
consoli consegnarono il regno a Demetrio e ritirato la flotta e l'esercito in Italia sotto Fulvio.Having
assembled 40 ships and some troops from allies in the area, the other consul remained in Illyria to
keep watch on the Ardiaei and the peoples under Roman protection. [29] Dopo aver costruito 40 navi
e alcune truppe da parte degli alleati nella zona, l'altro console è rimasto in Illiria a vegliare sugli
Ardiaei e i popoli sotto la protezione romana.

Condizioni di Trattato - 228 aC

Before the end of winter, Teuta's envoys appeared in Rome and a treaty was concluded.Le
condizioni furono le seguenti: Teuta doveva lasciar libere le città greche e dalmate conquistate;
doveva pagare un tributo annuo a Roma e impegnarsi che nessuna nave da guerra illirica e non più
di due mercantili si spingessero oltre Lisso (tra Scutari e Durazzo).Con questa guerra Roma si
affermava nell'Adriatico, si annetteva alcuni luoghi, dava a Demetrio da governare le isole e le coste
dalmatiche, rendeva suo tributario un regno e si acquistava molte simpatie presso le popolazioni
greche, le quali consapevoli della sua potenza sempre crescente, cominciavano a considerarla come
una loro protettrice.Corinto come manifestazione di gratitudine per aver liberato i mari dai pirati
concede ai Romani la partecipazione ai giochi istmici, e Atene li ammette ai Misteri eleusini.
Equiparando così Roma ad una città greca.

DISCESA DEI GALLI NELLA PENISOLA (225 a. C.)


Mentre Roma era intenta con le armi a ridurre alla sua obbedienza i Sardi e i Corsi e a punire le
ribalderie delle popolazioni illiriche, un grave pericolo la minacciava dal nord, dove i Galli
tentavano di riconquistare i territori perduti.I Boi effettuavano da qualche tempo continue scorrerie
nelle terre cadute sotto il dominio romano: Faleria, da loro sobillata, si era nel 241 a. C. ribellata;
ma, investita con fermezza dalle truppe della repubblica, dopo sei giorni si era arresa ed era stata
distrutta; alcuni anni più tardi, i Boi, unitisi ai Gesati, popolo del Rodano, erano apparsi davanti ad
Arimino (Rimini), ma, anziché assediarla, si erano scontrati con i locali in una furiosa battaglia, che
non vinsero né persero, ma, stremati dalla fatica, rinunciarono a continuare l'impresa.Tutti questi
fatti avevano indotto Roma a prendere energiche misure ai confini con l'Italia settentrionale, per
stroncare già sul nascere delle ribellioni o degli attacchi. Non si conosce per quale motivo fu
inviato, ma già nel 236 a.C. il console CORNELIO LENTULO a Roma celebra un trionfo sui
Liguri. E' il primo della serie nei confronti di questo popolo che si dimostra subito dotato di una
tenace volontà di resistenza. Questo trionfo, molto probabilmente non era una vittoria, visto che
l'espressione "trionfo ligure" diventò proverbiale presso i Romani per indicare un "trionfo fittizio".

Vero o falso quel trionfo, quella spedizione, è la prima di una lunga serie di veri trionfi dei
comandanti romani su questo popolo stanziato fra l'attuale Toscana, Liguria, Lombardia, e
Piemonte fin dal periodo Paleolitico e Neolitico, poi invaso dai Galli Insubri e Boi (così chiamati
dai Romani tutti i Celti, raramente menzionando i Liguri che erano i veri abitanti).Tre anni dopo,
nel 233 a.C, il console QUINTO FABIO VERRUCOSO fu inviato contro i Liguri che in numerosi
scontri sconfigge togliendo loro alcune terre; e l'anno seguente, su proposta del tribuno G.
FLAMINIO fu approvata una legge con la quale si stabiliva di dividere alla plebe l'agro sottratto ai
Galli, come se fossero questi gli abitanti di quei territori. Ma queste misure, invece d'intimorire le
popolazioni settentrionali, le irritarono ed i Galli (e probabilmente insieme anche ai liguri che
dovevano essere molto di più) si prepararono alla guerra. All'appello dei Boi (i primi ad essere
coinvolti nella marcia verso il nord dei Romani) risposero i Taurisci, gl'Insubri ed ancora i Gesati;
un esercito di cinquantamila fanti e ventimila cavalli fu raccolto per calare verso l'Italia centrale, per
minacciare Roma, e quindi anticipando i Romani. Roma all'annuncio di questi preparativi di guerra
non si lasciò spaventare; nemmeno dal responso sfavorevole dei libri sibillini e da un fulmine
caduto, come infausto augurio, sul Campidoglio. Con determinazione si preparò alla lotta. Correva
l'anno 225 a.C ed erano consoli C. ATTILIO REGOLO E LUCIO EMILIO PAPO. La repubblica
chiamò alle armi tutti i cittadini validi e gli Italici alleati o sottomessi e si narra che raccogliesse
circa duecentomila soldati, fra i quali solo quarantamila erano Romani. Essendo scoppiata una fiera
rivolta in Sardegna, REGOLO fu inviato in quell'isola con un esercito di ventiseimila uomini.
Mentre LUCIO EMILIO PAPO assunse il comando delle operazioni contro i Galli e con un esercito
di ventimila soldati, al quale altrettanti Umbri si unirono lungo la via, marciò verso Arimino
(Rimini).Un forte esercito di Galli Cenomani e di Venedi, popolazioni che invece avevano sposata
la causa di Roma, si accampava intanto minaccioso ai confini dei Boi, mentre un altro esercito di
Etruschi e Sabini, si preparava a impedire al nemico il passo dell'Etruria. Un ultimo esercito, infine,
rimaneva come riserva a Roma.

Battaglia di Fiesole (225 a. C.)

Il formidabile esercito di barbari calò in Etruria, valicando gli Appennini. Alla loro marcia si
oppose l'esercito Etrusco-Sabino nelle vicinanze di Fiesole, ma invano; perché le orde barbariche
ebbero, nella battaglia che ne seguì, il sopravvento e, sconfitte le truppe del pretore, proseguirono il
loro cammino, saccheggiando (ma perdendo tempo) i territori fino a Chiusi. Qui ad aspettare i
nemici vi erano già le schiere superstiti dell'esercito che era stato battuto a Fiesole, subito rinforzato
da altre truppe spedite in gran fretta da Roma. Appena iniziato il combattimento, i Galli finsero di
darsi alla fuga e si lasciarono inseguire dalle truppe dell'imprudente pretore, che caddero
nell'agguato, e vi lasciarono seimila morti, mentre il resto dell'esercito sbaragliato cercò di salvarsi
rifugiandosi sulle alture vicine.

Battaglia di Talamone (225 a. C.)


A risollevare le sorti delle armi romane in Etruria ci pensò il console EMILIO PAPO, il quale,
stimando inutile le sua presenza ad Arimino e appreso della marcia del nemico attraverso il
territorio etrusco verso Roma, si precipitò in difesa della capitale seriamente minacciata.
La notizia del suo avvicinarsi disorientò o spaventò i Galli, in ogni caso, anziché continuare la loro
marcia verso Roma, o aspettare a scontrarsi con le truppe consolari, decisero di ritirarsi verso le loro
regioni per mettere al sicuro l'immenso bottino già razziato e, lasciata Chiusi, si affrettarono al
ritorno lungo la valle dell'Ombrone, inseguiti a non molta distanza dall'esercito del console EMILIO
PAPO, e giunsero presso il capo Talamone (nei pressi dell'odierna Orbetello). Le loro avanguardie
erano appena arrivate presso la foce dell'Ombrone, quando improvvisamente le prime pattuglie di
cavalieri di un esercito romano si presentarono minacciosi davanti a loro.Ma non erano le punte
avanzate di un altro esercito consolare, né quello di Emilio; ma di ATTILIO REGOLO.

Ritornando dalla Sardegna, Regolo era stato spinto dai venti contrari sulle coste etrusche e vi era
sbarcato con il proposito di marciare verso Arimino e congiungersi al collega; ma, appreso che i
Galli avevano invaso l'Etruria, cambiato programma, si era messo in cammino con le sue legioni
seguendo il litorale, giungendo così nei pressi dell'attuale Grosseto, quindi a nord dell'Ombrone
dov'erano giunti a loro volta le avanguardie dei Galli.Vista la via della ritirata sbarrata dal nuovo
esercito, i Galli cercarono di aprirsi il passo con le armi, ma, mentre si affaticavano in quest'inutile
tentativo, ecco sopraggiungere EMILIO PAPO. La situazione del nemico era ormai disperata: in
mezzo a due eserciti, non gli rimaneva che arrendersi o ingaggiare la lotta. I barbari si appigliarono
a quest'ultima scelta. Sopra un'altura, sotto la custodia di un forte contingente di uomini,
accantonarono tutto il bottino da una parte, poi effettuarono un doppio schieramento; uno, composto
dai Boi contro Attilio Regolo, l'altro da Insubri e Gesati contro Emilio Papo.La battaglia iniziò e
continuò accanita; poi la sorte la decisero prima i saggitari di Emilio, che arrestarono l'impeto dei
Gesati, poi la cavalleria di Regolo, che, scesa all'improvviso da un colle, travolse prima i Boi poi gli
Insubri sbaragliandoli.
Battaglia di Telamone 225 aC 1 combattimento sulla collina tra cavalleria gallica e romana; 2
esercito del console Atilio (8 legioni) circa 50.000 soldati; 3 Esercito di corrida e boyos circa
25.000 soldati; 4 bottino e bagagli dei Galli su un colle; 5 esercito di insubres e gesatos circa
30.000 soldati; 6 esercito del console Papo (10 legioni) circa 60.000 soldati.  

Quarantamila Galli rimasero uccisi in quella drammatica (e memorabile per i Romani) giornata, fra
i quali il generale barbaro ANEROESTE, che si tolse la vita non sopportando di essere stato
sconfitto; diecimila furono fatti prigionieri e fra questi l'altro generale, di nome CONCOLITANO.
Ma anche i Romani subirono forte perdite, e dolorosa più di ogni altra fu la morte di ATTILIO
REGOLO, che era stato il vero artefice della vittoria.La disfatta dei Galli aprì il loro territorio ai
Romani e fu lo stesso esercito di EMILIO PAPO a invaderlo e a saccheggiarlo.Al ritorno, Roma
celebrò in suo onore uno splendido trionfo e le catene d'oro, che abitualmente indossavano i capi
barbari, conquistate a Telamone, furono deposte nel tempio di Giove sul Campidoglio.

I ROMANI NELLA GALLIA CISALPINA (224 a. C.)

Quella di EMILIO PAPO nel territorio dei Galli era stata tuttavia una semplice scorreria, non una
vera e propria conquista; quindi ora - ridotta la forza gallica- occorreva imporre a quelle
popolazioni il dominio romano.A questo scopo, nell'anno seguente (224 a.C.), allestiti due eserciti,
comandati dai consoli TITO MANLIO TORQUATO e QUINTO FULVIO FLACCO, penetrarono
nelle terre dei Boi; ma questi non opposero quasi nessuna resistenza e fecero atto di sottomissione.
A quel punto Roma, l'anno successivo 223 a.C.) volle proseguire le operazioni di guerra nell'Italia
settentrionale, rivolgendo le armi contro i Liguri e gl'Insubri. Erano consoli PUBLIO FURIO FILO
e C. FLAMINIO. Il primo fu inviato in Liguria, il secondo arditamente superò il Po presso la
confluenza dell'Adda; fortemente ostacolato dal nemico, pose il campo sulla riva sinistra, ma fu poi
costretto ad arretrare spingendosi oltre il Chiese, nelle terre degli amici Cenomani (Celti anche
questi stanziati nei pressi del Lago di Garda fra Verona e Brescia); non era una ritirata, ma una
semplice precauzione, era una strategia dettata dalle circostanze.Ma a Roma gli strateghi "da
tavolino" la ritennero una defezione, e preoccupato dall'insuccesso del console, il Senato gli spedì
l'ordine di far ritorno immediatamente a Roma. Ma nel frattempo FLAMINIO, organizzatosi meglio
e rinforzato dall'esercito di Furio Filo, era ritornato nel territorio degli Insubri, che in cinquantamila
erano andati ad accamparsi sulla riva destra dell'Oglio.Passato il fiume, gli eserciti consolari si
trovarono di fronte alle truppe nemiche e furono costrette ad accettare battaglia. - Questa,
nonostante la posizione più sfavorevole dei Romani che avevano il fiume alle spalle, fu ugualmente
vinta dalle legioni guidate dal console.Solo alla fine del combattimento FLAMINIO gli giunse e
apprese l'ordine del Senato che lo richiamava in patria; e ritornò a Roma. Qui il Senato aveva già
deciso di metterlo sotto giudizio per disobbedienza; Flaminio invece forte della vittoria riportata, e
che era tutto merito suo, chiese al popolo il trionfo e lo ebbe, poi si dimise dalla carica.
BATTAGLIA DI CASTEGGIO E CONQUISTA DI MEDIOLANUM (222 a.C.)

Dall'Insubria a Roma giunsero proposte di pace, ma avendo il Senato imposto come condizione la
completa sottomissione della regione, gl'Insubri, che volevano mantenere la loro indipendenza, si
rifiutarono e scesero ancora in campo per difendere con un disperato sforzo la loro patria.
In loro soccorso giunsero trentamila Gesati, sotto il comando del loro re VIRIDOMARO (o
Britomarto).Roma inviò prontamente contro di loro i consoli M. CLAUDIO MARCELLO e GNEO
CORNELLO SCIPIONE CALVO. Questi, giunti nell'Insubria, misero in assedio Acerra, presso la
quale posero il campo che munirono di forti trinceramenti. Per costringere i Romani a levare
l'assedio, i Galli invasero il territorio degli Ammari, popolo di stirpe gallica che da poco si era
schierato dalla parte di Roma; ma non riuscirono nel loro intento, perché gli eserciti consolari
rimasero ad Acerra e solo Marcello con poche truppe andò incontro al nemico.I Gesati furono
attaccati a Clastidio (Casteggio) e nello scontro, subirono una sanguinosa disfatta: il loro re
Virdomaro trovò la morte sul campo di battaglia; ma altri storici affermano che fu ucciso in singola
tenzone da Claudio Marcello.Questa vittoria causò la resa di Acerra e la ritirata degl'Insubri verso
Mediolano (Milano), capitale della loro regione.

Ma anche questa città ben presto cadde in potere dei Romani, perché il console SCIPIONE,
inseguito il nemico nella sua ritirata, lo raggiunse sotto le mura di Mediolano e, nonostante
gl'Insubri si battessero disperatamente; li mise in piena rotta, costringendoli ad abbandonare la città
e riparare a nord verso i monti.Con la conquista di Mediolano, la Gallia Cisalpina cadde tutta nelle
mani dei Romani e nel 228 a.C. grazie all'opera di C. Flaminio, si stabilì di creare sul territorio le
colonie di Placentia e di Cremona.Dopo la Sicilia e la Sardegna, la Gallia cisalpina diventa la terza
provincia romana.Il territorio con il nome "Italia" che comincia ad essere esteso a tutti i territori
romani, che era rimasto a lungo sul fiume Aesis (Esino, a N. di Ancona), si trova ora fissato al
Rubicone (pochi chilometri a nord di Rimini) che segnerà d'ora in avanti il confine dello Stato con
al Gallia Cisalpina fino all'avvento di Cesare. I Galli dell'Italia settentrionale si ribelleranno
nuovamente in seguito alla discesa di Annibale. Dopo la sconfitta di quest'ultimo a Zama (nel 202
a.C.), vennero definitivamente sottomessi da Roma. I Celti o Galli, che si erano sollevati contro
Roma durante la seconda guerra punica, non avevano infatti deposto le armi neppure dopo la
sconfitta di Zama. Quando nel 200 a.C. i Galli in rivolta si impadronirono della colonia di Piacenza
e minacciarono Cremona, Roma decise di intervenire in forze. Nel 196 a.C. Scipione Nasica vinse
gli Insubri, nel 191 a.C. furono piegati i Boi, che controllavano una vasta zona tra Piacenza e
Rimini. Superato il fiume Po, la penetrazione romana proseguì pacificamente: le popolazioni locali,
Cenomani e Veneti, si resero conto che Roma era l'unica in grado di proteggerli dagli assalti delle
altre tribù confinanti. Attorno al 191 a.C. la Gallia Cisalpina venne definitivamente occupata.
L'avanzata continuò anche nella parte nord-orientale con la fondazione della colonia romana di
Aquileia nel 181 a.C., come ci raccontano gli autori antichi, nel territorio degli antichi Carni:

« Nello stesso anno [181 a.C.] fu dedotta nel territorio dei Galli la colonia di Aquileia. 3.000 fanti
ricevettero 50 iugeri ciascuno, i centurioni 100, i cavalieri 140. I triumviri che fondarono la colonia
furono Publio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino. »(Tito Livio, Ab Urbe condita libri,
XL, 34.2-3.)

Prima guerra istrica (221 a.C.)


Si trattò di una campagna di repressione della pirateria, condotta da P. Cornelio Scipione Asina e
M. Minucio Rufo. Fu intrapresa dopo che gli Istri avevano depredato alcune navi romane che
trasportavano granaglie. Gli Istri furono completamente sconfitti e Scipione Asina ottenne l'onore
del trionfo.
Nel 177 a.C. venne, infine, sottomessa l'Istria e nel 175 a.C. vennero soggiogati anche i Liguri
Cisalpini. Pochi decenni più tardi, lo storico greco Polibio poteva personalmente testimoniare la
rarefazione dei Celti in pianura padana, espulsi dalla regione o confinati in alcune limitate aree
subalpine.

Seconda guerra illirica (220 a. C. - 219 a. C.)

The decade after 229 BC witnessed a revival of Illyrian power under Demetrius, who succeeded
Teuta. Il decennio dopo 229 aC assistito ad un rilancio del potere illirico sotto Demetrio, che è
riuscito Teuta.Following the war, Demetrius married Triteuta in or around 222 BC, Agron's first
wife and mother of Pinnes , which consolidated his position. Dopo la guerra, Demetrio sposato
Triteuta in o intorno 222 aC, la prima moglie di Agron e madre di Pinnes , che ha consolidato la sua
posizione.His marriage to Triteuta meant that Demetrius formally took over the regency of the
Ardiaean Kingdom. Il suo matrimonio con Triteuta ha fatto sì che Demetrio formalmente ha assunto
la reggenza del Regno Ardiaean.Demetrius' own influence was thereby greatly extended, and the
fundamental weakness of the Ardiaean Kingdom after 229 BC, that there was no competent regent
for Pinnes, was relieved. propria influenza Demetrio 'stato così notevolmente ampliato, e la
debolezza fondamentale del Ardiaean Unito dopo 229 aC, che non c'era reggente competente
Pinnes, è stato sollevato.The king began to renew traditional Illyrian ties with Macedonia. [34] In 222
BC, an Illyrian corps of 1,600 men fought with distinction under the command of Demetrius at
Sellasia , where the Macedonians won a conclusive victory over the Spartans. [35] After Sellasia,
Demetrius began attempting to extend his control over Illyria at the expense of Rome. [36] Il re ha
cominciato a rinnovare i legami tradizionali illiriche con la Macedonia. Nel 222 a.C., un corpo
illirico di 1.600 uomini combattuto con distinzione sotto il comando di Demetrio a Sellasia , dove i
macedoni ha vinto una vittoria conclusiva sopra gli Spartani. Dopo Sellasia, Demetrio ha iniziato il
tentativo di estendere il suo controllo su Illiria a spese della Roma.

Prima di allora, quando Roma era preoccupato per una guerra contro le celtiche popoli del Po
Valley, nel nord Italia 225-222 a.C., Demetrio staccato il illirica Atintani dalla loro alleanza
romana.In addition, he sailed south of Lissus, Lezhë in present-day Albania , and engaged in piracy
in contravention of the settlement in 228 BC. Inoltre, ha navigato a sud di Lissus, Lezhë nell'attuale
Albania , e impegnati in pirateria in violazione del regolamento in 228 aC.In 221 BC, Demetrius
also created an alliance with the Illyrian Histri at the head of the Adriatic, which tribe was
interfering with Roman supply ships. Nel 221 a.C., Demetrio ha anche creato un'alleanza con il
illirica Histri a capo dell 'Adriatico, quale tribù interferiva con le navi rifornimento romani.A
Roman fleet soon attacked the Histri. [37] Early in the summer of 221 BC, when tension was rising in
Greece as Macedonia made an alliance with the Achaean League against the Aetolian League , the
Illyrians attacked in their traditional manner. Una flotta romana appena attaccato il Histri. All'inizio
dell'estate del 221 aC, quando la tensione è in aumento in Grecia come la Macedonia ha fatto
un'alleanza con la Lega achea contro la Aetolian Lega , gli Illiri attaccati nel loro modo
tradizionale.Nel 220 a.C., Demetrio e il comandante illirica, Scerdilaidas , navigato a sud di Lissus
con 90 Lembi. Before then, when Rome was preoccupied with a war against the Celtic peoples of
the Po valley in northern Italy from 225-222 BC, Demetrius detached the Illyrian Atintani from
their Roman alliance.In 220 BC, Demetrius and the Illyrian commander, Scerdilaidas , sailed south
of Lissus with 90 lembi .Un assalto a Pylos nella parte occidentale del Peloponneso inizialmente
fallito, ma Demetrio alla fine catturato 50 navi.Afterwards, the Illyrians separated their forces; In
seguito, gli Illiri separate le loro forze;Demetrius and his forces plundered the Cyclades , while
Scerdilaidas' forces returned north to Illyria. Demetrio e le sue forze hanno saccheggiato le Cicladi ,
mentre le forze Scerdilaidas 'tornato a nord di Illiria.On putting in at Naupactus with forty ships,
Scerdilaidas was encouraged by his brother-in-law Amynas , king of the Athamanes , to join the
Aetolians in their planned invasion of Achaea . A mettere in a Naupactus con quaranta navi,
Scerdilaidas è stato incoraggiato da suo fratello-in-law Amynas , re della Athamanes , per unirsi ai
Etoli nella loro invasione pianificata di Acaia .With help from Cynaethan traitors, they attacked,
seized and burned Cynaetha , a town in northern Arcadia located on the northern slope of the
Aroanian Mountains . Con l'aiuto di traditori Cynaethan, hanno attaccato, sequestrato e bruciato
Cynaetha, una città nel nord Arcadia situato sul versante settentrionale dei Monti Aroanian. They
also attacked, but failed to take, Cleitor .Hanno anche attaccato, ma non è riuscito a prendere,
Cleitor .Meanwhile, Demetrius continued on into the Aegean with 50 ships. Nel frattempo,
Demetrio proseguita nel Mar Egeo con 50 navi.He sailed to the Cyclades , where he extorted tribute
from some of the islands and plundered the others. [38] Chased by Rhodian warships, [39] Demetrius
put into Cenchreae , the Aegean port of Corinth . Ha navigato a Cicladi , dove ha estorto tributo da
alcune delle isole e saccheggiato gli altri. Inseguito da Rhodian navi da guerra, Demetrio messo in
Cencrea il porto del Mar Egeo di Corinto.At the same time, the Macedonian commander in
Corinth, Taurion , learned of the invasion by Scerdilaidas and the Aetolians. Allo stesso tempo, il
comandante macedone a Corinto, Taurion, appreso della invasione da Scerdilaidas e
Aetolians.Taking his cue from the Aetolians, Taurion agreed to drag Demetrius' ships across the
Isthmus to bring them into play in the Gulf of Corinth, in return for Demetrius' assistance against
the Aetolians. Prendendo spunto dalle Etoli, Taurion accettato di trascinare 'navi per l'Istmo di
portarli in gioco nel Golfo di Corinto, in cambio di Demetrio' Demetrio assistenza contro gli
Etoli.Although Demetrius conducted a few raids on the Aetolian coast, he was too late to hinder the
Aetolians' return from Achaea. [40] Anche se Demetrio condotto alcune incursioni sulla costa
Aetolian, era troppo tardi per impedire il ritorno degli Etoli dall’ Acaia. After returning to the
Ardiaean Kingdom, Demetrius continued operations during the following winter, attacking and
seizing Roman allied cities and communities in southern Illyria. [41] The Romans who hitherto
ignored the activities of their former ally, decided that the harbors on the Ardiaean Kingdom's coast
now had to be made secure, in view of the threat of another war with Carthage . [42] These events
precipitated the Second Illyrian War .Dopo il ritorno alla Ardiaean Unito, Demetrio ha continuato le
operazioni durante l'inverno successivo, attaccando e sequestrando romani alleati città e comunità
nel sud Illyria. I romani che fino a quel momento ignorato le attività del loro ex alleato, ha deciso
che i porti sul Ardiaean Regno di costa ora doveva essere fatta sicuro, in vista della minaccia di una
nuova guerra con Cartagine . Questi eventi precipitare nella seconda guerra illirica.

Resa di Dimallum e Issa 219-218 a. C.

Unlike Teuta in 229 BC, Demetrius was well prepared for the Roman invasion.A differenza di
Teuta nel 229 a.C., Demetrio era ben preparato per l'invasione romana.He first placed a garrison in
Dimallum , an Illyrian city-fortress from Apollonia. In primo luogo ha messo un presidio in
Dimallum , un illirico città-fortezza da Apollonia.He eliminated his opponents in other places, those
Illyrians who opposed his rule, and stationed 6,000 of his best forces on his home island of Pharos.
Ha eliminato i suoi avversari in altri luoghi, quei Illiri che si opponevano il suo governo, e di stanza
6.000 dei suoi migliori forze sulla sua isola natale di Pharos.As before, both consuls of the year
accompanied the Roman expedition, but the leading role was played by Aemilius Paullus , who was
to be killed in the great Roman disaster at Cannae three years later. Come in precedenza, entrambi
consoli dell'anno accompagnato la spedizione romana, ma il ruolo principale è stato interpretato da
Emilio Paolo , che doveva essere ucciso nella grande disastro romano a Canne tre anni più tardi.The
Adriatic took on particular importance in Rome's preparations for the Second Punic War from 218
to 201 BC. L'Adriatico ha assunto particolare importanza nella preparazione di Roma per la seconda
guerra punica 218-201 aC.Anticipating a long and difficult war far away from Rome, the Roman
Senate decided first to set matters right in Illyria. [43][44] Anticipando una guerra lunga e difficile
lontano da Roma, la romana Senato ha deciso prima di impostare le cose a posto in Illiria. In 219
BC, having decided that Dimallum was crucial to Demetrius' power in the region, the consul
prepared to besiege the city, but was able to take it by direct assault within seven days [45] and went
to Pharos .Nel 219 a.C., avendo deciso che Dimallum è stato fondamentale per il potere Demetrio
'nella regione, il console preparò ad assediare la città, ma è stato in grado di prendere d'assalto
diretto entro sette giorni ed è andato a Pharos .As a result, all the Illyrian towns and cities of the
area submitted to Roman protection, each receiving the appropriate terms and conditions. Di
conseguenza, tutte le città della zona sottoposta a tutela romana illiriche, ciascuno ricevendo i
termini e le condizioni appropriate.Next, the Romans moved against Demetrius on the island of
Pharos, who awaited the attack with good troops, ample provisions and war materials behind strong
fortifications, that of the city of Issa at modern Stari Grad . Successivamente, i Romani spostato
contro Demetrio sull'isola di Pharos, che attendeva l'attacco con buone truppe, ampie disposizioni e
materiale bellico dietro fortificazioni forti, quella della città di Issa al moderno Stari Grad .To avoid
a long siege, Aemilius decided to risk another frontal attack. Per evitare un lungo assedio, Emilio ha
deciso di rischiare un altro attacco frontale.The Roman army moved from the mainland to a wooded
area of the island. [46] Meanwhile, the next day, a small force of ships was sent out to tempt
Demetrius from behind his fortifications. L'esercito romano spostato dalla terraferma a una zona
boschiva dell'isola. Nel frattempo, il giorno dopo, una piccola forza di navi è stato inviato per
tentare Demetrio da dietro le sue fortificazioni.Demetrius marched down to the harbor to oppose the
Roman landing. Demetrio marciato verso il porto per contrastare lo sbarco romano.The strategy
worked, and when the main Roman army appeared from another direction on the island, the Illyrian
army was forced to give battle, as they were cut off from their city. La strategia ha funzionato, e
quando il principale esercito romano è apparso da un'altra direzione sull'isola, l'esercito illirico è
stato costretto a dare battaglia, come sono stati tagliati fuori dalla loro città.Attacked on two sides,
and cut off from the protection of the city walls, the battle was lost. Attaccato su due lati, e tagliato
fuori dalla protezione delle mura della città, la battaglia era perduta.In 218 BC, the Illyrian forces
soon surrendered, while Demetrius deserted the island and fled to Macedonia, making his way to
the court of Philip V of Macedon , who was now the Macedonian king following the death of
Antigonus. [47][48] Nel 218 a.C., le forze illiriche presto si arresero, mentre Demetrio abbandonato
l'isola e fuggì in Macedonia, facendo il suo cammino verso la corte di Filippo V di Macedonia, che
ora era il re macedone dopo la morte di Antigono.

Conseguenze

The Romans destroyed the fortifications of Pharos and before the summer was over Aemilius was
back in Rome receiving congratulations for a job well done.I romani distrussero le fortificazioni di
Pharos e prima dell'estate era finita Emilio è tornato a Roma riceve congratulazioni per un lavoro
ben fatto.Any threat to Roman holdings in Illyria had been eliminated, all the gains of the First
Illyrian War had been secured, and the old restrictions of movement imposed on Illyrian kings. [49]
Demetrius may have returned to the Ardeaian State and have been attacked by another Roman
force, although the regime of Pinnes , now confirmed as king, was left intact. Qualsiasi minaccia
per le aziende romane di Illyria era stato eliminato, tutti i guadagni della prima guerra illirica era
stato assicurato, e le vecchie restrizioni di movimento imposte sul re illirico. Demetrio potrebbe
essere rinviata nello Stato Ardeaian e sono stati attaccati da un'altra forza romana, anche se il
regime di Pinnes , ora confermato come re, è stato lasciato intatto.Rome supported a small Ardeaian
State ruled by Pinnes and his successors. Roma ha sostenuto un piccolo Stato Ardeaian governato
da Pinnes e dei suoi successori.The Roman republic called for the extradition [50] of Demetrius, but
Phillip refused. La repubblica romana ha chiesto l'estradizione di Demetrio, ma Phillip
rifiutato.Pinnes was ordered to pay the arrears of tribute, reparations imposed after the war. Pinnes è
stato ordinato di pagare gli arretrati di tributi, riparazioni imposte dopo la guerra.The weak Ardaeai
State soon fell prey to Macedonia, while the partial destruction brought onto the scene the urban
koina of the Parthini, Byllines, Amanatini and others. [51] I deboli Ardaeai Stato presto cadde preda
di Macedonia, mentre la parziale distruzione ha portato sulla scena il koina urbano della Parthini,
Byllina, Amanatini e altri.

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