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Persistenze del mondo romano in quello attuale:


 Lingua
 Sistema giuridico
 Modello urbano e sviluppo cittadino
 Concetto di impero: noi con il termine “impero” intendiamo un’entità statuale sovranazionale
che si estende in un territorio molto ampio e include varie etnie, può essere cioè multietnico, e
ha tendenzialmente una lingua. Roma è identificata come il primo impero e rappresenta il
termine di paragone per tutti quelli successivi; è stato l’unico a mantenere un’estensione e
una durata così ampie.

Questo nostro concetto di impero però non è quello che i Romani usavano per definire la loro
organizzazione politico-governativa. Per i Romani infatti l’imperium era la prerogativa del
comando con connotazione di stampo militare, imperare = dare ordini, comandare. Il popolo
romano detiene l’imperium e lo conferisce ai magistrati eletti tramite la lex curiata de imperio,
procedura molto complessa. L’imperium prevede la possibilità di decidere del diritto di vita o
di morte sui cittadini stessi, per questo motivo essi abdicano da questo potere e lo delegano
ad altri (anche per la necessità di essere guidati in guerra). L’esercizio dell’imperium
implicava quindi l’annullamento delle garanzie costituzionali, poteva tradursi cioè nel
decretare la morte di un cittadino.
L’imperator era il generale vincitore, lo si diventava per acclamazione. Egli era protagonista
dei trionfi, una sfilata sulla via sacra che il generale vittorioso faceva con tutto il bottino di
guerra + le insegne del bottino che non si riusciva a far sfilare. Insieme al vincitore sul carro
c’era uno schiavo che gli diceva “ricordati che sei un uomo”, perché era una sfilata così
imponente che il protagonista sembrava quasi un dio. I trionfi sono un’importazione etrusca.
Per i Romani quelli che noi chiamiamo imperatori erano i princeps.

La storia romana si suddivide in età monarchica, repubblicana e imperiale. Solo


secondariamente il termine impero arriva a simboleggiare anche i domini e le terre
d’oltremare che Roma acquisisce nei secoli. Le prime province romane nascono all’indomani
delle guerre puniche, molto prima dell’età imperiale.

 Riserva di riferimenti storici e simbolici

NB: quando si parla di persistenze in questo ambito si deve fare attenzione ai concetti di “radici” e
di “identità culturale”. La metafora delle radici è fuorviante perché esprime una certa fissità, sembra
che oscuri che le riprese di Roma non sono mai neutre né statiche, le somiglianze vanno appurate.
Anche il concetto di identità culturale è problematico, sembra che il patrimonio romano sia
esclusivo di noi “diretti discendenti”, è meglio parlare di memoria culturale perché l’identità è un
costrutto culturale, siamo noi a scegliere di essere eredi di Roma e di ricordarci questo passato.
È altrettanto importante ricordare che oltre alle somiglianze e ai motivi che ci portano a
riconoscerci in Roma (spesso indotti dalla nostra formazione) ci sono anche molte differenze:
Hartley dice che il passato è una terra straniera in cui si fanno cose diverse dalle nostre. I Romani
ad esempio avevano un rapporto ben diverso da noi con la religione.
Un principio inderogabile che sta alla base di tutta la nostra riflessione moderna sui fondamenti
della ricerca storica è che non c’è storia senza documenti. A esplicitare tale principio è Arnaldo
Momigliano.
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STORIA STORIOGRAFIA
1. Susseguirsi di fatti e avvenimenti del
passato che possono essere oggetto di
Scienza e pratica dello scrivere opere relative a
ricerca ed esposizione
eventi storici del passato, in cui si possano
riconoscere un’indagine critica e dei principi
2. Esposizione ordinata di fatti e avvenimenti
metodologici
umani del passato, esito di un’indagine
critica
NB: per i Romani storia sono solo le Res gestae

Le fonti possono essere di vario tipo (più ne abbiamo più la ricostruzione sarà precisa): letterarie,
epigrafiche, archeologiche, papirologiche, numismatiche, geografiche/topografiche. Il compito degli
studiosi di storia antica è interpretare queste fonti.

Scuola delle Annales


Scuola storiografica nata negli anni Trenta del Novecento su iniziativa di Marc Bloch e Lucièn
Fevbre, che:
 Dà un’impronta innovativa alla ricerca storica
 Valorizza l’importanza del lavoro d’équipe nella ricerca, attraverso l’utilizzo di metodologie
interdisciplinari
 Propone un nuovo oggetto di ricerca, mira a studiare ogni aspetto della vita degli esseri
umani antichi per ricostruire il passato nella sua totalità. Si pone quindi in polemica con la
histoire bataille, “storia evenemenziale”

La storia deve essere aperta e totale, aperta all’indagine di tutti gli aspetti dell’attività umana.
Benedetto Croce dice che “ogni storia è contemporanea”. La storia inoltre non è data, è l’esito di
un processo di costruzione.

POPOLI DELL’ITALIA PRE-ROMANA


Roma ovviamente non è l’unico attore nella storia della penisola italiana, nell’Italia pre-romana ci
sono altri popoli, con alcuni dei quali Roma entra in contatto. L’italia pre-romana, situata tra età del
Bronzo e del Ferro, vede varie civiltà, e in particolare durante quella del Ferro è luogo di un vero e
proprio mosaico di culture. Il loro ceppo fondamentale è quello indoeuropeo, anche se non tutti i
popoli hanno questa matrice.
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 Liguri, Reti, Sardi: insieme agli Etruschi, parlano lingue probabilmente non europee
 Veneti: lingua indoeuropea, situati tra Garda e Istria
 Latini e Falisci: lingua indoeuropea, situati nel Lazio settentrionale
 Italici: suddivisi in tre gruppi. Gruppo umbro-sabino nel centro nord; gruppo osco nel centro
sud; gruppo di Enotri e Siculi
 Iapigi: lingua indoeuropea
 Etruschi
 Colonie della Magna Grecia e insediamenti fenici: fondate a partire da metà VIII secolo a.C.
in Italia meridionale da coloni Greci di varia provenienza. Lungo la costa ionica, quella
tirrenica e in Sicilia ci sono una serie di città importanti (Taranto, Crotone, Sibari, Locri,
Reggio, Napoli, Siracusa, Agrigento).

Etruschi
Gli Etruschi abitarono l’Italia in età pre-romana, la loro civiltà fiorisce nell’VII secolo e ha la sua
massima espansione nel VI. Gli studiosi si dividono tra chi li ritiene una civiltà autoctona e chi
riconosce l’apporto esterno dei Greci dell’Italia meridionale. Una delle tradizioni etrusche vede in
un re tirreno della Lidia l’impulso dell’aggregazione del popolo. Sono eredi di una tradizione
precedente, la civiltà villanoviana, su cui poi si innestano altri elementi.
L’area di influenza degli Etruschi si situa tra Arno e Tevere, ma hanno influenza anche nel Tirreno,
in concorrenza con Greci e Cartaginesi.
Gli Etruschi non daranno mai vita a uno Stato unitario, per questo verranno progressivamente
inglobati da Roma. C’era solo una lega, dodecapoli, tra le 12 città etrusche principali.
Sconfitte etrusche:
 espansione a nord: nel VI secolo gli Etruschi si scontrano con i Greci Focei, che avevano
fondato in Corsica la città di Alaia, minaccia agli interessi commerciali degli Etruschi, che li
attaccano. Non c’è un chiaro vincitore
 espansione a sud: A Cuma gli Etruschi subiscono una pesante sconfitta a opera dei Greci
di Siracusa
 Le più cocenti sconfitte sono però quelle operate dai Romani, in particolare a Veio nel 396

Nel III secolo l’Etruria passa in mano alla civiltà romana, che importerà da questa molti elementi.
Roma conosce uno sviluppo notevole nel VI secolo, proprio nel periodo in cui risente dell’influenza
etrusca: innovazioni introdotte da Tarquinio Prisco, insegne del potere (manto, scettro, fascio dei
littori), arte aruspicina e cerimonia del trionfo.
Il legame che i Latini hanno con altre etnie (Etruschi, Sabini, Greci ecc,) è fondamentale per lo
sviluppo della città, l’esperienza di Roma infatti non è chiusa nel mondo latino ma vede vari
contributi esterni sotto molteplici aspetti. Nell’autorappresentazione romana l’elemento della
purezza etnica è quasi totalmente assente, anzi, viene evidenziata proprio la sua promiscuità
ancestrale. Si dice addirittura che agli inizi della città fosse stato fondato un asilum sul Palatino per
accogliere varie civiltà: non sappiamo se sia una cosa reale o un’invenzione di Roma stessa sul
suo passato per raccontarsi in questo modo
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ORIGINI DELLA CITTÀ DI ROMA


Origini è un termine più corretto perché più neutro e scientificamente rigoroso rispetto a
fondazione, che implica invece un’azione istantanea per scelta deliberata di qualcuno ed elimina la
processualità della nascita. È più corretto parlare di sinecismo, cioè aggregazione di varie
comunità situate principalmente sui vari colli della città, e in particolare sul Palatino.
Tale processo di aggregazione inizia nell’VIII secolo. Non sappiamo come queste aggregazioni
fossero organizzate, è probabile che ci fosse un rex, che aveva anche compiti anche cultuali (è
stato ritrovato un santuario dedicato a Diana, il leader dell’aggregazione di comunità era anche
sacerdote). Queste comunità avevano un’economia di tipo pastorale e non erano pienamente
stanziali. A livello di proto-organizzazione sociale erano organizzate in clan di una ventina di
membri, ma non sappiamo nulla dell’organizzazione interna dei clan. È probabile che non ci fosse
una differenziazione così ampia all’interno della società, si è pensato che non esistesse la
proprietà privata  quando i clan si muovevano e conquistavano territori, questi entravano a far
parte delle conquiste del popolo ed erano del popolo nella sua interezza, solo poi venivano
suddivisi (ager publicus). C’erano inoltre degli appezzamenti di terreno, quelli non assegnati delle
proprietà fondiarie pubbliche, che fungevano da pascolo comune tra i vari clan (ager compascuus).
NB: sono tutti ragionamenti non certi, ipotesi formulate dagli studiosi.
Da questa organizzazione più egualitaria e di tipo tribale i villaggi arrivano progressivamente ad
avere forme proto-urbane e poi urbane. Queste prime “città” sono situate su tre colli, Palatino,
Esquilino e Celio. Il luogo è molto favorevole dal punto di vista topografico (alla base dei colli
invece il territorio era molto paludoso). Le alture infatti rendono gli insediamenti facilmente
difendibili, c’erano pascoli, erano vicini al fiume Tevere e a un’ansa che ne rendeva facile il guado.
Roma inoltre si trovava al crocevia delle direttrici fondamentali della mobilità antica, c’erano delle
vie che portavano a nord verso il mondo etrusco, a est verso il mondo sabino e a sud verso la
Magna Grecia.
Alla base delle origini della città c’è quindi questo processo formativo lento e graduale di
federazione di diverse civiltà.

Gli antichi ci tramandano invece l’idea che Roma nasca su suolo vergine attraverso un complesso
rituale, cioè il tracciamento del solco che rappresentava il perimetro originale e il confine sacro
della città, il pomerium. Per i Romani questo confine era sacro al punto che l’esercito in armi non
poteva varcarlo: l’imperium militiae poteva essere esercitato fuori dallo spazio cittadino, all’interno
della città l’imperium aveva carattere domi, prevedeva la non presenza dell’esercito (e infatti
Cesare varcando Roma in armi commette un affronto imperdonabile per il senato).

La leggenda sulle origini di Roma è un mito, un’auto-rappresentazione frutto di due diverse


tradizioni:
 quella greca, saga della fuga di Enea da Troia
 quella indigena, latino-sabina, saga dei gemelli Romolo e Remo

Le due tradizioni vengono saldate tra loro: Ascanio fonda Alba Longa, dove regneranno trenta
generazioni di re. Durante l’ultima generazione due fratelli, Amulio e Numitore, entrano in
competizione tra loro. Amulio spodesta il fratello, legittimo erede, e uccide tutti i suoi figli. L’unica
che viene risparmiata è Rea Silvia, che viene consacrata a vestale in modo che non possa avere
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figli (le vestali dovevano essere vergini), possibili pretendenti al trono dello zio paterno. Rea Silvia
resta però incinta del dio Marte e dà alla luce due gemelli, Romolo e Remo. Amulio preoccupato
vuole annegarli, li mette in una cesta e la butta nel Tevere. I due però vengono salvati da una lupa
che li allatta e li porta in salvo. Arriva poi il pastore Faustolo che trova i gemelli sotto a un fico ai
piedi del Campidoglio (questo ipotetico fico dove Romolo e Remo sarebbero stati allattati dalla
lupa viene detto ficus ruminalis e assume un’aura di sacralità, al tempo di Nerone l’albero si secca
e questo viene ritenuto un presagio di grande sventure; ne parla anche Tacito in età imperiale). Il
pastore prende con sé i gemelli e se ne prende cura con la moglie. Una volta cresciuti, i due
spodestano Amulio e si preparano a fondare una nuova città. Secondo la tradizione avviene però
un fratricidio: i due litigano e Romolo uccide Remo, che aveva varcato il confine sacro in armi.
Romolo fonda da solo la città di Roma nel 753 a.C. (data convenzionale ovviamente).

Rispetto a questa leggenda canonica ci sono tre elementi di criticità da tenere presenti:
1. Gli autori che la raccontano vivono circa otto secoli dopo i presunti avvenimenti: si tratta di Tito
Livio, Dionigi di Alicarnasso e Diodoro Siculo ( + Nevio, Ennio, Varrone, Cicerone,
Plutarco).
Consultano autori precedenti, come Fabio Pittore e Cincio Alimento, esponenti della prima
annalistica, III secolo. Le opere di Fabio Pittore e Cincio Alimento sono organizzate anno per
anno e basate sulla documentazione degli Annales Maximii dei pontefici (ai pontefici massimi
veniva fornita annualmente una tavola bianca su cui dovevano segnare giorno per giorno gli
avvenimenti importanti). Le fonti di tali autori sono anche i documenti d’archivio, il patrimonio
documentario e iconografico conservato negli edifici pubblici e la tradizione orale (tradizione
gentilizia, carmina convivalia, patrimonio comune tramandato oralmente e fruito anche a livello
popolare attraverso le rappresentazioni sceniche). Tali annali però non andavano tanto indietro
nel tempo e in più c’era stato un assedio dei Galli Senoni, che aveva causato la distruzione dei
documenti più antichi della città.
Fabio Pittore e Cincio Alimento scrivono in greco, lingua che la classe dirigente romana
conosce. Roma infatti ha molti contatti con il mondo greco, sente quindi l’esigenza di
presentarsi in greco con scopo apologetico. La storiografia inoltre ab origine è sempre stata
scritta in greco, nasce in Grecia nel V secolo. Inoltre per Roma è importante rifarsi al modello
greco perché la grecità plasma il modo in cui Roma guarda alla sua storia, potrebbe aver fatto
suo proprio il modello dell’ecista greco che fonda città.

La storiografia in latino inizia con Marco Porcio Catone detto “Il Censore”. Egli scrive le
Origines, di cui ci sono giunti solo dei frammenti, in cui narra la storia della città dalle sue
origini fino alla praetura di Galba. Cicerone, a differenza degli annalisti, non parla dell’operato
dei consoli, ma si focalizza sugli eventi.
La storiografia romana ha delle caratteristiche peculiari:
 è influenzata da struttura e mentalità gentilizia della società romana. La gens era una
modalità di articolazione della società che prevedeva una strutturazione in gruppi
familiari che si riconoscevano in un antenato comune. L’appartenenza a una gens si
ricostruisce a partire dall’onomastica romana, basata sui tria nomina (praenomen
individuale; nomem gentilizio, spesso abbreviato; cognomen per identificare i diversi
rami presenti all’interno di una medesima gens, spesso fanno riferimento a
caratteristiche fisiche). Ogni gens tende a essere in competizione con le altre e nel
raccontare la propria storia si attribuisce eventi importanti, per accaparrarsi maggior
prestigio a discapito delle altre
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 risente del ruolo che la religione ha nella vita pubblica romana. Politica e religione
sono fortemente connesse, le iniziative militari non dovevano turbare la pax deorum e
avvenivano solo dopo aver interrogato gli dei e i segni. Per i Romani era impensabile
intraprendere un’azione bellica che non avesse un fine giusto, proprio per non alterare
il rapporto con gli dei (per lo meno nella storiografia e nell’opinione pubblica, nei fatti
era probabilmente diverso)
 non si concentra solo sulla storia contemporanea ma parte dalle origini di Roma e
offre una ricostruzione dell’intera storia della città. Lo scopo principale è quello di
nobilitare e riscattare la reputazione controversa che i Romani avevano nel
Mediterraneo.

2. Il mito di Roma è un’autorappresentazione elaborato nel tempo dai Romani, non è un fatto
neutro ma l’esito di un processo di selezione e costruzione del passato

3. Gli stessi Tito Livio e Cicerone dicono che non sono sicuri sulle origini di Roma , l’attendibilità è
incerta.

Il mito quindi non ci parla delle origini storiche della città, ma non per questo non deve essere
oggetto di indagine storica, anzi. Tim Cornell dice che il mito ci parla del modo in cui i Romani si
vedevano e volevano essere visti dagli altri. Jann Assman parla di memoria culturale: le comunità
non nascono con un’identità definita, l’identità è un processo culturale.

La data canonica di fondazione della città è il 21 aprile 753 a.C. Si tratta di una ricostruzione
intellettuale, nello specifico di M. Terrenzio Varrone, un erudito di età cesariana e antiquario. Non
era rimasta nessuna testimonianza precisa della data di fondazione di Roma, Varrone decise
quindi di procedere all’indietro consultando le liste dei consoli e facendo una serie di calcoli e
congetture. Per determinare gli anni venivano usate le magistrature consolari, da questo momento
in poi invece si iniziò a usare come riferimento la data di fondazione “scoperta” da Varrone, detta
“varroniana” (ad esempio si dice 10 anni ab urbe condita, cioè 10 anni dopo la fondazione di
Roma).
La data varroniana è ovviamente posticcia, ma anche altri storici datano all’VIII secolo a.C. la
fondazione della città, tra loro Fabio Pittore e Cincio Alimento.
Timeo di Tauromenio invece fa risalire la fondazione al IX secolo a.C., ponendola in sincronia con
la data di fondazione di Cartagine.
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ETÀ MONARCHICA (753 – 509 a.C.)


Secondo la tradizione letteraria, durante l’età monarchica a Roma si sarebbero succeduti sette re:
Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il
Superbo. Se ne può contare anche un ottavo, Tito Tazio, sovrano sabino con cui Romolo condivise
il regno all’indomani del leggendario ratto delle Sabine, in funzione della fusione dei due popoli. La
storicità di questa sequenza di re in realtà è da considerarsi di dubbia attendibilità, avvenne infatti
un’operazione di selezione tra molti più sovrani (le figure meno significative vennero tolte dalla lista
convenzionale dei sette re) e di tipizzazione delle varie personalità (a ciascun re vennero attribuite
caratteristiche che lo distinguevano dagli altri).
È altrettanto dubbia l’effettiva esistenza di Romolo, nonostante sia stata trovato il cosiddetto muro
di Romolo alle pendici settentrionali del Palatino. Alcuni studiosi infatti considerano tale reperto
una prova della sua esistenza, mentre altri ritengono che si tratti di un caso di concordismo (ovvero
un tentativo aprioristico di trovare una corrispondenza puntuale tra dato archeologico e dato
storiografico).
Se quindi da un lato la serie di soli sette re e l’esistenza di Romolo sono incerte, dall’altro è
sicuramente vero che Roma abbia attraversato una fase monarchica. Sono state trovate infatti
molteplici prove dell’attività di figure regali, sia rituali che archeologiche ed epigrafiche:
 Presenza nel calendario della sigla Q.R.C.F., quando rex comitiavit fas, che indicava la
data in cui era lecito per il re convocare il popolo in assemblea
 Cerimonia del regifugium, che consisteva in un sacrificio compiuto il 24 febbraio dal re,
che poi, non si sa per quale motivo cerimoniale, doveva fuggire rapidamente
 Ritrovamento della Regia, dimora della figura monarchica del rex, risalente probabilmente
già alla fine dell’VII secolo a.C. Il rex era la massima istituzione della città, aveva
prerogative militari, politico-amministrative e religiose. Questa dimora è coerente con la
Roma delle origini, non ha nulla dello sfarzo dei palazzi medievali e posteriori, ma
nemmeno delle domus repubblicane. Si è certi della sua funzione di dimora regale perché
al suo interno è stato ritrovato un coccio su cui compare la scritta “rex”. La Regia sarà
abitata anche in età repubblicana, non dal re (che non esiste più) ma dal cosiddetto rex
sacrorum, colui che eredita le funzioni religiose del re della Roma delle origini
 Il fatto stesso che il rex sacrorum si chiami così è un’ulteriore spia che indica che in
precedenza sia esistito un rex con altre funzioni
 Istituto dell’interregnum (= interregno, tra un regno e l’altro), a cui in età storica si ricorreva
in assenza di magistrati e che prevedeva una turnazione nella gestione del potere supremo
tra senatori. È uno strascico del periodo monarchico, durante il quale indicava il periodo in
cui il re non c’era e l’assemblea sceglieva un sostituto (ad esempio la fase tra la morte di
un re e la scelta di quello nuovo)
 Cippo del foro romano, iscrizione in latino molto arcaico su un cippo in tufo rinvenuto in
un’area del foro sacra a Romolo e al dio Vulcano, risalente al VI secolo a.C.
(corrispondente al regno di Servio Tullio). Probabilmente si tratta dell’iscrizione di una legge
che disciplinava l’accesso all’area sacra del santuario, e minacciava pene a chi l’avrebbe
infranta. Nel testo è stata attestata in latino molto arcaico la parola “re”, oltre a quella di
“kalator” (araldo, portavoce del re, mediatore tra questi e il popolo; convocava il popolo nel
comizio).
Questa epigrafe è impropriamente chiamata anche lapis niger, cioè pietra nera, in
riferimento alla pavimentazione di marmo scuro, diversa dal resto del travertino, sotto a cui
è stato trovato il cippo (che non è di colore nero). Il nome lapis niger potrebbe anche
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essere un richiamo alla pietra nera a cui si collega il culto della dea Cibele, ma non ci sono
certezze in merito.

Le competenze del re comprendevano le funzioni:


 Religiose, il sovrano in qualità di mediatore tra uomini e dei presiedeva ai riti collettivi,
traeva gli auspici, fissava il calendario e lo comunicava al popolo attraverso il kalator. I
compiti in questo ambito era molto delicati perché la religione romana si basava sullo
scrupoloso rispetto delle prescrizioni rituali, le sole in grado di garantire pax deorum,
concordia tra dei e uomini
 Militari, era a capo dell’esercito in virtù dell’imperium
 Di amministrazione della giustizia, cioè giudicava e decretava sanzioni disciplinari.

Istituzioni della Roma monarchica


La monarchia romana era una carica vitalizia ma, almeno ab origine, non ereditaria ma elettiva.
Quando il re moriva il potere ritornava alle altre due componenti della vita pubblica, senato e
popolo. Il re veniva eletto dai patres, membri più illustri delle gentes che costituivano il senato, e
veniva scelto tra i patres stessi.
Nella gestione del governo il re veniva aiutato e controllato da altre due istituzioni: senato e comizi
curiati. Il senato era un’assemblea ristretta che riuniva i patres, capi delle famiglie, distinti per la
loro anzianità (senato deriva da senex, anziano) e autorevolezza. Il senato della Roma monarchica
inizialmente era costituito da un centinaio di membri, con il tempo si arriverà a 300 e poi, in tarda
età repubblicana, fino a 900. I loro compiti non sono definiti con esattezza, ma sembra che non
avessero facoltà di promuovere iniziative politiche autonome. L’assenso del senato agli atti del re
però era ritenuto necessario, in particolare nei casi in cui si dovevano promuovere campagne
militari, dato che erano le famiglie dei patres a fornire i contingenti bellici. Avevano quindi funzione
consultiva sulle leggi e sulle dichiarazioni di guerra e di pace. Inoltre, alla morte del sovrano in
carica, il senato nominava inoltre un interrex, scelto per estrazione tra i patres, che sarebbe
rimasto in carica fino all’elezione del successivo sovrano.
Un’ulteriore limite al potere del re era costituito dai comizi curiati, assemblea costituita dal popolo
romano (nel senso dei cittadini maschi liberi), che si riuniva nel cosiddetto Comizio. I comizi curiati
emanavano la lex curiata de imperio con la quale conferivano l’imperium al rex eletto dal senato. Si
trattava di una conferma del potere del re, il senato elegge e il popolo ratifica a posteriori, non ha
iniziativa autonoma. I comizi curiati infatti erano un organismo deliberativo senza autonomia di
proposta. Avevano anche la facoltà di approvare o esprimere dissenso nei confronti delle proposte
formulate dal re, riguardo alle quali si era espresso in precedenza anche il senato. I comizi curiati
avevano anche prerogative anche nel diritto famigliare, ratificavano i testamenti e le adozioni
(l’istituto dell’adozione era stato introdotto perché l’estinzione della gens era vissuto come un
dramma, ma non sempre era possibile assicurare una continuità “pura”, solo all’interno della
famiglia). Avevano infine poteri in ambito religioso, ad esempio si esprimevano in merito alla
rinuncia di un individuo ai culti familiari. L’assemblea dei comizi curiati non verrà mai abolita ma
progressivamente perderà i suoi poteri, mantenendo solo il compito di ratificare le adozioni e altre
questioni di diritto familiare.
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La popolazione romana era suddivisa al suo interno in tribù gentilizie. Nella Roma delle origini ne
sono attestate tre: Tities, Ramnes e Luceres. Secondo Plutarco questa tripartizione della
cittadinanza avrebbe natura etnica, indicherebbero la funzione di tre diversi gruppi etnici:
relativamente Sabini, Latini ed Etruschi. Non ci sono certezze in proposito, per altri era basata su
aspetti differenti. Queste partizioni erano di tipo gentilizio, il figlio apparteneva alla stessa tribù del
padre.
La popolazione maschile conosceva un’ulteriore articolazione, ognuna delle tre tribù era infatti
suddivisa in dieci curie, per un totale di trenta unità. I membri delle curie erano detti Quiriti e il loro
dio protettore era Quirino, di cui Romolo era ritenuto l’incarnazione. Ogni curia partecipava alla
festa dei Fornacalia, celebrata in onore della dea delle curie Giunone Quirita.
Queste suddivisioni non erano solo un’unità di articolazione politica ( la somma delle curie
costituiva i comizi curiati), ma anche militare, incidevano soprattutto nell’organizzazione
dell’esercito. In caso di guerra infatti ognuna delle tre tribù (divisa a sua volta in dieci curie) doveva
fornire cento cavalieri e mille fanti, per un totale complessivo di 3300 uomini. L’esercito delle origini
era quindi formato dai tre contingenti delle tribù ed era un esercito di tipo gentilizio. Non sempre
sarà così, a fronte di un esercito elitario e gentilizio in cui l’arruolamento avveniva all’interno delle
gentes, da un dato momento in poi avverrà un’evoluzione dell’esercito e l’elemento fondamentale
diventerà la ricchezza (con la “riforma serviana”).

La “grande Roma dei Tarquini”


I primi quattro re di Roma avevano prodotto un’alternanza tra esponenti latini e sabini, mentre gli
ultimi tre, dall’ascesa di Tarquinio Prisco nel 616 alla cacciata dei re nel 509, costituirono la
cosiddetta dominazione etrusca, articolata in una vera e propria dinastia (Tarquinio Prisco genero
di Servio Tullio, a sua volta genero di Tarquinio il Superbo). Nell’ultima fase della monarchia quindi
il principio ereditario si affermò a spese di quello elettivo.
Con Tarquinio Prisco si iniziarono a mettere in atto una serie di cambiamenti a Roma:
 Rafforzamento del profilo multietnico della comunità romana, caratterizzata per oltre un
secolo da bilinguismo e bigrafismo della lingua/scrittura latina ed etrusca, grazie all’arrivo in
città di svariati gruppi familiari etruschi; essi si insediarono in forze come artigiani, mercanti,
costruttori, medici, esperti in materie religiose
 Bonifica luoghi paludosi e introduzione nuove colture, grazie alla capacità di canalizzare le
acque
 Agricoltura, prima subalterna alle attività silvo-pastorali, diventa protagonista dell’economia
romana
 Definitiva sedentarizzazione delle comunità rurali e prima monumentalizzazione delle
residenze sia pubbliche che private
 Costruzione della rete fognaria della Cloaca Massima e del foro, prima area paludosa e ora
piazza pavimentata in pietra; centro politico, amministrativo, religioso e commerciale, vi si
affacciavano le sedi del potere –Regia, comitium, curia Hostilia– e i negozi, tabernae.
Costruzione della Via Sacra, del Foro Boario, del Circo Massimo e dei primi templi
 Trasformazioni sul piano religioso, introdotti culti e modalità cerimoniali tipicamente
etruschi. Si afferma anche il ricorso all’aruspicina, scienza attraverso cui la classe
sacerdotale si metteva in contatto con la divinità per interpretarne i voleri. D’allora in poi
qualsiasi atto dell’autorità romana veniva preceduto dagli auspicia, apposite procedure
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religiose tese a conoscere se la divinità fosse favorevole o meno all’azione che ci si


accingeva a compiere.
NB: questi interventi presupponevano un forte potere centralizzato e metodi di governo autocratici
che accentravano nelle mani del re prerogative in precedenza detenute dai capi-clan.

Riforme di Servio Tullio


La tradizione è assai discorde circa le origini di Servio Tullio: alcuni autori lo ritengono di ignoti
natali, per altri era figlio di una prigioniera di guerra, mentre per altri ancora avrebbe avuto origini
etrusche e il suo nome inizialmente sarebbe stato Mastarna (fatto testimoniato dalla decorazione
parietale della tomba François a Vulci, risalente al IV secolo a.C., nella quale sono riprodotte le
vicende belliche di alcune guerrieri e viene associato un nome a ognuno di loro; tra questi compare
anche Mastarna). Secondo la tradizione sarebbe salito al potere grazie a un colpo di mano della
moglie di Servio Tullio.
La figura di Servio Tullio è un tipico caso di elaborazione storica: la tradizione gli attribuisce una
serie di riforme in molteplici ambiti, ma alcune di queste sono di storicità incerta, potrebbe trattarsi
di innovazioni posteriori attribuite a lui con scopo legittimante.
1. La prima riforma a lui attribuita riguarda l’aumento dei membri che costituivano il senato, che
passarono da 100 a 300, con l’ammissione delle minores gentes, cioè i clan di recente
accessione. Questo processo in realtà aveva già preso avvio durante il regno di Tarquinio
Prisco.

2. La seconda riforma è una riforma amministrativa, le tre tribù gentilizie vennero sostituite con
quattro tribù territoriali. La popolazione di Roma, che non era una città esclusiva, era infatti
cresciuta notevolmente, e non potendo distribuire tutti gli abitanti in base alla nascita, cioè in
tribù gentilizie, si decise di farlo sulla base del domicilio, in tribù urbane. Roma venne divisa in
quattro distretti amministrativi con finalità di censimento, voto e reclutamento. Le prime quattro
nuove tribù vennero chiamate Suburana, Esquilina, Collina e Palatina.
Il re divise poi l’ager Romanus (cioè il territorio che apparteneva a Roma ma era esterno alla
città, detta urbs), in distretti rurali chiamati pagi. La cittadinanza era concessa solo ai residenti
nella città (che erano iscritti alle varie tribù). Questa riforma depotenziò la forza degli antichi
gruppi gentilizi in quanto estendeva la cittadinanza a tutti i residenti dell’urbs, compresi quindi
gli abitanti che non erano iscritti alle curie, soprattutto artigiani, commercianti e agricoltori
indipendenti.
Le tribù andranno crescendo nel tempo, si arriverà a istituirne 35.

3. La riforma dell’esercito è la più incisiva delle riforme attribuite a Servio Tullio, viene infatti
definita “riforma serviana”, anche se in realtà riproduce un’articolazione sociale di V e VI secolo
e gli studiosi sono incerti sulla possibilità di attribuirne la paternità a Servio Tullio.
Fino al VI secolo a.C. in tutta l’Italia centrale le azioni militari si configuravano come razzie
senza una strategia pianificata. A Servio Tullio è attribuita la creazione di una fanteria oplitica,
ovvero una formazione di linea, armata pesantemente, che combatteva a ranghi serrati,
secondo una tattica acquisita dall’esperienza greca.
Il soldato cittadino romano doveva provvedere personalmente al proprio equipaggiamento, di
conseguenza chi possedeva maggiore ricchezza aveva un armamento più completo. Più il
singolo cittadino possiede, più si arma, può contribuire al destino della città ed è maggiormente
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motivato a difenderla (rispetto a chi non ha nulla ha molto da perdere, vuole difenderlo), può
arricchirsi ulteriormente con il bottino e ha un maggiore peso politico. Vi è quindi un nesso
fondamentale tra l’essere cittadini e l’appartenenza all’esercito, per i Romani il popolo è chi
combatte, populus deriva proprio da populor, avanzare devastando, e chi non combatte, donne
e schiavi, è escluso da questo tipo di concezione.
La riforma serviana provvide a modulare simmetricamente il possesso patrimoniale, l’impegno
bellico e il peso politico (trinomio possedere-combattere-comandare), possibilità di contribuire
alle sorti della città e diritti politici andranno di pari passo.
I cittadini (maschi liberi) furono quindi divisi in 193 unità, dette centurie, sulla base della loro
capacità patrimoniale. Vi erano 18 centurie di cavalieri, 170 di fanti e 5 di corpi senza armi,
costituiti dalla fascia della popolazione che non possedeva niente se non la propria prole, e
quindi non aveva la possibilità di armarsi e di combattere, ma costituiva elementi ausiliari
dell’esercito. Le classi più alte erano quelle che potevano permettersi un armamento più
completo. Vi erano 5 classi (+ una sesta dei nullatenenti), e ognuna di queste prevedeva un
certo numero di centurie (la prima classe era costituita da 18 centurie di cavalleria e 80 di
fanteria pesante e così via).
Ogni classe comprendeva inoltre centurie di iuniores, combattenti dai 17 ai 46 anni, che
costituivano l’esercito effettivo, e di seniores, soggetti fra i 46 e i 60 anni, che rimanevano
invece di presidio e riserva in città.

Oltre a essere unità di reclutamento, le centurie erano anche unità di voto. Venne infatti creata
una nuova assemblea, i comizi centuriati, la cui unità di articolazione erano proprio le
centurie. La centuria costituiva l’unità di voto, ovvero ogni centuria esprimeva un voto. I comizi
centuriati non erano un’assemblea democratica ma oligarchica, i cittadini più abbienti, che
potevano armarsi meglio e quindi combattevano di più, erano distribuiti in più centurie, di
conseguenza avevano diritto a più voti. Solo la prima classe comprendeva infatti un totale di 98
centurie su 193, costituiva da sola la maggioranza (tutte le altre classi messe insieme ne
avevano 95). La prima classe inoltre votava per prima, quindi la coalizione dei cavalieri, spesso
accomunata dagli stessi interessi, era a tutti gli effetti la più influente.
Questa riforma, come descritto da Tito Livio, è timocratica, implica che l’articolazione interna
dell’esercito e dell’assemblea popolare politica è basata sulla ricchezza, i più ricchi sono quelli
che hanno maggior peso. Questo perché si seguiva il solito schema: più uno possiede, più si
arma, più potrà combattere e contribuire al destino della città, ed ha quindi un diritto più pieno a
prendere decisioni.
Si passò da un esercito familiare a un esercito di natura oplitica aperto anche a fasce della
popolazione che non facevano parte delle gentes, ma che nel corso del tempo avevano
acquisito un patrimonio economico. Questo allargamento però era funzionale ad avere un
esercito più cospicuo, non allargava davvero la possibilità di votare a chi possedeva di meno.
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L’assemblea dei comizi centuriati eleggeva i magistrati supremi dotati di imperium e decideva
della guerra. Questa assemblea, che amministrerà Roma fino all’età augustea, sottrasse poteri
ai comizi curiati che furono relegati a un ruolo simbolico e marginale.
I comizi curiati si riunivano nel Campo Marzio, al di fuori del pomerio, in quanto radunava la
popolazione in armi.

4. Per quantificare la capacità patrimoniale di ogni cittadino Servio Tullio dovette procedere al loro
censimento, e in tale occasione avrebbe adottato per la prima volta un’unità di misura sulla
base della quale registrare il patrimonio di ognuno. L’enciclopedista Plinio il Vecchio attribuisce
a Servio Tullio la paternità della prima forma di monetazione, tramite l’introduzione di un
lingotto di bronzo sul quale era impresso un segno che ne garantiva il peso (detto aes
signatum). In realtà tale riforma censitaria sembra ascrivibile a epoca successiva, in quanto gli
esemplari di lingotti in bronzo ritrovati risalgono al V secolo a.C.

A Servio Tullio viene attribuita anche la costruzione delle cosiddette “mura serviane”, una cinta
muraria lunga circa 11 km e alta una decina di metri, costruita con grandi blocchi di tufo giallo. In
realtà solo il recinto più antico è databile al VI secolo a.C., la maggior parte di quanto si conserva
delle mura è assegnata alla ricostruzione effettuata agli inizi del IV secolo a.C., poco dopo la calata
dei Galli sui territori di Roma. Questa datazione è confermata dal fatto che sia stato usato un
particolare tipo di tufo detto “tufo giallo di Grotta Oscura”, le cui cave si trovavano nel territorio di
influenza della città etrusca di Veio; l’impiego massiccio a Roma di questo tipo di tufo si deve
quindi datare successivamente alla conquista della città avvenuta nel 396 a.C.
Già dall’età augustea le mura non ebbero più funzione difensiva e vennero progressivamente
occupate e riutilizzate da altre costruzioni. I resti più monumentali sono quelli conservati a fianco
della Stazione Termini, dove si apriva la Porta Viminalis, e quelli sull’Aventino, in piazza Albania e
in via S. Anselmo
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STRUTTURA FAMILIARE E SOCIALE DELLA ROMA ARCAICA


In età arcaica la struttura sociale e statale era fortemente contrassegnata dal ruolo centrale della
famiglia. Essa era un’entità sociale, religiosa ed economica che comprendeva marito, moglie, figli
nipoti, schiavi, liberti e patrimonio. Ogni famiglia sottostava al potere assoluto del pater familias,
che esercitava la sua autorità sulla moglie (sottoposta alla manus del pater), sui figli (sottoposti alla
potestas), sugli schiavi e sui liberti.
 la statua detta “togato Barberini”, risalente al I secolo a.C. e così chiamata dal nome della
famiglia proprietaria della collezione romana in cui era ospitata, rappresenta il pater familias vestito
con la toga, abito ufficiale del cittadino romano. Il pater è raffigurato con i busti dei ritratti degli
antenati, che venivano esposti nell’atrio della domus ed erano conformati sulla base delle
maschere di cera modellate sul volto dei defunti. Queste venivano a loro volta conservate in
appositi armadi e indossate da figuranti nelle occasioni di festa e di lutto. Questa statua traduce in
immagini l’importanza delle tradizioni familiari nella mentalità romana e la volontà che il passato,
impersonato da antenati esemplari, vivesse nel presente e fungesse da paradigma per il futuro.

Gli schiavi costituivano un incremento della forza lavoro della cellula familiare nell’attività
domestica e agraria, ma in età arcaica erano presenti in misura minoritaria e spesso in forma
transitoria. Erano considerati proprietà del padrone, in condizione di inferiorità giuridica, oggetto
d’acquisto e di vendita, privi di diritti personali. Gli schiavi potevano venir liberati dal padrone
attraverso la procedura della manomissione e diventare liberti, ovvero ex schiavi liberati a cui
veniva data la cittadinanza (dinamismo sociale), che continuavano però a svolgere attività
economiche e osservare doveri di rispetto e solidarietà per il patrono.

Il legame sociale che contraddistinse in maniera più incisiva la società romana fu quello della
clientela. I clienti erano uomini liberi, non alle dipendenze della famiglia, ma collocati in un
rapporto di dipendenza e subalternità rispetto al patrono. La parola clienti deriva dal verbo cluere,
ascoltare, e rimanda infatti alla frequentazione assidua e al rapporto di fedeltà che essi avevano
con il patrono. Questo rapporto determinava una reciprocità di diritti e doveri: il cliente riceveva
protezione e sostentamento dal patrono e in cambio si impegnava ad assicurargli fedeltà e
obbedienza morale e politica. La clientela arcaica declinò nel corso del IV secolo, per tornare sotto
nuove forme in età tardo-repubblicana.
Una cerimonia tipica della clientela era la cosiddetta salutatio matutina, ovvero un incontro che si
svolgeva all’inizio della giornata nella casa del patrono, nel corso del quale i clienti gli tributavano
l’atto di ossequio. La casa aristocratica romana di conseguenza era divisa in due parti, quella
anteriore aperta alla frequentazione pubblica, mentre quella interna di esclusivapertinenza privata.

Per quanto riguarda la componente femminile della famiglia romana, le donne si trovavano in
posizione subalterna dal punto di vista giuridico, ma è importante fare riferimento alla “condizione
della donna romana” in generale, in quanto le esperienze erano molto diverse a seconda del ceto
di appartenenza. L’ordinamento romano era di tipo patriarcale, le donne erano rigidamente
sottoposte all’autorità del pater familias, ma in alcuni casi è possibile riscontrare un margine di
relativa autonomia: le donne dell’élite potevano accedere a un’educazione degna di nota e
acquistare una certa rispettabilità sociale, potevano ospitare riunioni informali nella loro casa e,
con l’avanzare dell’età repubblicana, essere titolari di diritti patrimoniali, per quanto la gestione dei
loro beni fosse comunque sottoposta al controllo di un tutore.
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DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA


Il fatto che gli ultimi tre re (Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo) avessero
costituito una vera e propria dinastia in cui il principio ereditario prevaleva su quello elettivo urtò
fortemente la sensibilità del popolo romano. Già dal soprannome dell’ultimo re, “il superbo”, si può
capire che la sua immagine sia stata fortemente falsata e che gli siano state attribuite delle
caratteristiche tipizzate per renderlo il prototipo del tiranno per eccellenza: avrebbe attuato una
politica autocratica contraria all’oligarchia, istituito una propria guardia del corpo armata e portato
avanti la creazione di grandi lavori pubblici tesi a celebrare le proprie gesta. Nonostante queste
manipolazioni, è innegabile che durante il regno di Tarquinio il Superbo Roma fosse avanzata
notevolmente sul fronte del controllo militare sulla regione e diplomatico  successo bellico a
Suessa Pomezia, che segnò l’inizio del conflitto con i Volsci; estensione dell’area di influenza
nell’area di Tuscolo, grazie a un accordo matrimoniale tra la propria figlia e il capo della città; firma
di rapporti di alleanza con Cuma; impostazione di un trattato con Cartagine, siglato però solo dopo
la sua cacciata dalla città; completamento del tempio di Giove Ottimio Massimo, anche detto di
Giove Capitolino, sul Campidoglio, inaugurato dopo la cacciata.
Il cambio di regime, da monarchico a repubblicano, è identificato nell’anno 509, primo in cui si
riscontrano dei magistrati. Il nuovo regime prese il nome di res publica, cioè cosa di tutti, ma non
ha niente a che vedere con la concezione moderna e contemporanea di repubblica. La gestione
del potere era infatti esclusiva e appannaggio dei soli cittadini maschi liberi adulti. Si trattava inoltre
di un regime oligarchico e che vedeva nella libertas un valore fondamentale. Anche nel caso di
questo termine l’accezione degli antichi è completamente diversa dalla nostra: la libertas si
definiva più in negativo che in positivo, non era la libertà di compiere azioni ma la libertà dal potere
assoluto, cioè la libertà dell’oligarchia di mantenere un ruolo di primo piano nelle dinamiche di
gestione del potere. Con il regno di Tarquinio il Superbo era stata presa una direzione che vedeva
il potere delle antiche famiglie romane diminuito, avevano meno libertas ed erano meno coinvolte
nei meccanismi di gestione del potere, cosa che aveva urtato la loro sensibilità. L’odio verso la
monarchia fu infatti non solo una costante di tutta la storia repubblicana, ma anche un tratto
identificativo di Roma stessa. Anche per questo motivo Augusto cercherà di mantenere in vita, a
livello di facciata, le antiche strutture e magistrature repubblicane e l’assassinio di Giulio Cesare
avverrà nel momento in cui si teme che voglia governare in modo autocratico.

La tradizione, come descritto ad esempio da Tito Livio, riporta come episodio scatenante della
cacciata dei re e del conseguente inizio del regime repubblicano lo stupro di Lucrezia. Nel 509 la
matrona romana Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino, cugino del re Tarquinio il Superbo,
sarebbe stata violentata da Sesto, figlio del re, e per il disonore si sarebbe suicidata (le donne
nell’antica Roma infatti dovevano assicurare una discendenza legittima, anche perché una donna
adultera comportava il rischio che il patrimonio si disperdesse verso figli non appartenenti alla
famiglia). Lo sdegno provocato dall’episodio scatenò una rivolta guidata dal marito Collatino e da
un nipote del re, Lucio Giunio Bruto. Grazie alla sollecitazione e alla guida di due esponenti di clan
latini, Publio Valerio Publicola e Marco Orazio, la rivolta dilagò al punto da portare
all’allontanamento dei Tarquini dalla città e alla caduta della monarchia.
Questa leggenda ha varie criticità: secondo la tradizione l’episodio sarebbe collocato intorno al
510, stesso anno in cui si data la cacciata dei Pisistratidi da Atene, anch’essa innescata da reati di
natura sessuale, in un parallelismo tra ciò che accade in Grecia e a Roma. Inoltre tra gli esponenti
più importanti della rivolta degli aristocratici romani vengono nominati Giunio Bruto e Valerio
Publicola. Il primo apparterrebbe alla stessa gens del Marco Giunio Bruto che secoli dopo ucciderà
Cesare, in quella che verrà ugualmente presentata come una congiura per abbattere un tiranno. Il
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secondo invece ha lo stesso nome di uno degli annalisti, Valerio, che potrebbe quindi aver voluto
dare lustro alla propria famiglia raccontando i fatti in questo modo. La storiografia romana infatti è
di matrice gentilizia e nella storia narrata da Livio c’è una proiezione all’indietro di fatti
contemporanei o più recenti a chi li narra, a scopo legittimante o encomiastico.

A prescindere dalla leggenda però ci sono degli elementi che ci fanno valutare la storicità del fatto
che in anni prossimi al 509 siano avvenuti degli eventi tali da portare a un cambio di regime
piuttosto brusco (che alcuni studiosi in realtà collocano qualche decennio dopo il 510, ci sono
pochissime testimonianze relative a questo passaggio).
Livio riporta che, sulla base di una legge molto antica, ogni anno alle idi di settembre un magistrato
fosse deputato a impiantare un chiodo rituale nel tempio di Giove Capitolino per ricordarne
l’inaugurazione, avvenuta nel 509. Sulla base dei chiodi impiantati si è potuto stabilire che il primo
anno in cui questo è stato fatto, e di conseguenza il primo anno della repubblica, sia proprio il 509.
Un altro elemento è quello dato dai Fasti consolari. Nel nuovo assetto istituzionale l’imperium non
era più detenuto da un’unica figura ma da due magistrati, che avevano incarico annuale (e non
vitalizio) e venivano eletti dai comizi centuriati. Secondo la tradizione i primi magistrati alla guida
della repubblica sarebbero stati Lucio Giunio Bruto e Valerio Publicola, subentrato a Tarquinio
Collatino, marito di Lucrezia, estromesso perché appartenente alla famiglia dei Tarquini. L’operato
di Valerio Publicola come primo console della repubblica è documentato dalla “pietra di Satrico”,
documento epigrafico ritrovato nei pressi del Lazio meridionale e databile al 500 circa; l’iscrizione
recita “A [nome della divinità andato perduto in lacuna] i camerati di Publio Valerio posero [il dono]
nel nome di Marte”. Viene quindi documentata la storicità di Valerio Publicola e si attesta un
gruppo di guerrieri alle sue dipendenze. I nomi dei due primi magistrati sono attestati dai Fasti
consolari, una lista dei magistrati annuali eponimi che a partire dal 509 avrebbero governato la
città. La trascrizione che possediamo è quella fatta predisporre da Augusto e collocata nei fornici di
uno degli archi in suo onore, probabilmente quello partico, in segno della sua volontà di presentare
il proprio operato come un richiamo alle istituzioni repubblicane, egli si dichiara l’ultimo di questi
magistrati repubblicani. L’attendibilità storica di queste liste è stata a lungo dibattuta, abbiamo una
ragionevole certezza della sua veridicità a partire dal 367 a.C., anno in cui vennero emanate le
leggi Licinie Sestie; per gli anni precedenti sussistono alcuni dubbi. Livio non si riferisce mai ai
primi magistrati chiamandoli consoli, siamo certi che essi vengano chiamati in questo modo solo a
partire dall’emanazione delle leggi Licinie Sestie, prima erano detti praetores. Inoltre talora al posto
dei consoli, impossibilitati ad agire o deceduti, deve esserci stato un dictator; infine nei Fasti sono
attestati nomi verosimilmente appartenenti a famiglie plebee anche prima del 367, la “serrata del
patriziato” contro l’accesso dei plebei alle magistrature deve essere avvenuta in un secondo
momento. A parte questi elementi più “controversi” i Fasti vengono quindi ritenuti un documento
affidabile.

La prima fase repubblicana, tra il VI e il V secolo a.C., Roma può essere definita un vero e proprio
laboratorio istituzionale. Le figure magistratuali presenti erano le seguenti:
 Rex sacrorum
 Kalator
 Magister populi
 Praetor
 Consul
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Il rex sacrorum era il re addetto al sacro, figura sacerdotale che sembra di fatto aver ereditato le
funzioni religiose e cultuali dell’ex sovrano privato del potere militare e civile. Continuò a risiedere
nella Regia, nel settore sud-orientale del Foro. Anche la figura del kalator venne depotenziata di
prestigio e autorevolezza: prima era il principale collaboratore del re etrusco, in età repubblicana
svolgeva mansioni subalterne e marginali in ambito cultuale, legate soprattutto alla comunicazione
pubblica delle date dei calendari.
Una magistratura di eccellenza, ma limitata al periodo di transizione, fu quella di mastarna,
documentata dalla leggenda di Servio Tullio e dalle pitture della tomba François a Vulci; essa
sembra corrispondere non a un nome personale ma alla dizione etrusca della carica latina
di magister populi (capo del popolo in armi), di cui non si conoscono le prerogative precise.
Una nuova istituzione fu invece quella della carica di pretore (praetor), la cui etimologia
da praeire = “andare davanti, guidare” ne delinea una posizione di preminenza, forse di carattere
militare. Livio fa riferimento a un praetor maximus. È possibile che con il tempo i consoli abbia
assunto le prerogative proprie dei pretori, ai quali alla quale sarebbero rimasti compiti di natura
giudiziaria.
Quella del console (consul) fu la carica che progressivamente dunque si affermò al vertice del
potere esecutivo e rimase sempre assegnata a una coppia di magistrati. Si trattava di una
magistratura elettiva (eletti ogni anno dai comizi centuriati), annuale, collegiale ed eponima (i Fasti
divennero la base per il calcolo degli anni, dato che i consoli entravano in carica il primo gennaio). I
consoli avevano prerogative:
a) Civili (imperium domi): presiedono comizi e senato, presentano proposte di legge,
controllavanol’ordine pubblico
b) Militari (imperium militiae): detengono il comando sulle legioni
c) Religiose: sono garanti del rapporto tra Roma e gli dei

Al termine di questo processo evolutivo istituzionale si affermarono a Roma alcuni principi di base
che riguardavano tutte le magistrature:
 Separazione dei poteri (militare, giudiziario, religioso  relativamente affidato a
magistrature indipendenti di consoli, pretori e collegi sacerdotali)
 Durata temporanea delle cariche
 Carattere collegiale delle magistrature
 Scelta su base elettiva

L’unica carica che disattese tali principi fu quella del dittatore (dictator), magistratura straordinaria
in quanto non elettiva, veniva nominato dai consoli su indicazione del senato, e temporanea,
rimaneva in carica sei mesi. Essa veniva adottata solo in situazioni di emergenza, quando un
incombente pericolo bellico comporta la necessità di concentrare nelle mani di un solo soggetto la
responsabilità del comando militare. In tali circostanze si produceva la sospensione del consolato
e il dictator aveva il compito di nominare il comandante supremo dell’esercito federale latino,
comando rivestito alternativamente da un romano e da un latino per buona parte del V secolo. Il
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titolo originario del dittatore era quello di magister populi, carica del comandante della fanteria
coadiuvato dal comandante della cavalleria a lui subordinato, il magister equitum.
Non si hanno certezze sulle funzioni originali del dittatore, in piena età repubblicana era appunto
una magistratura straordinaria che restava in carica sei mesi e veniva nominata dai consoli su
indicazione del senato. Nel I secolo a.C. assunse caratteristiche ben diverse: era autoconferita e
solo successivamente ratificata dai comizi; durava oltre sei mesi (Silla fu dittatore dall’82 al 79,
Cesare a vita); veniva giustificata con la necessità di un riassetto costituzionale.

Un elemento di continuità tra età monarchica e repubblicana fu la presenza del senato, che
esercitava una funzione esclusivamente consultiva.

Roma “città aperta” (VIII – VII secolo a.C.)


Roma nacque sotto il segno della vocazione espansiva e della multietnicità, caratteristica
distintiva che i nemici di Roma useranno polemicamente contro di lei. Se infatti i primi successi
militari a spese delle comunità vicine sono attribuiti già a Romolo (vs comunità di Cenina,
Antemna, Crustumerio e Fidene), i re successivi ampliarono i domini intorno alla città. Nello
specifico riportarono vittorie contro i Sabini e gli abitanti della città di Veio, trasferirono
forzosamente in Roma le popolazioni di alcuni centri vicini, come Alba Longa, e fondarono nuove
colonie, tra cui Ostia.
A tale attività bellica si unì la progressiva inclusione nella comunità civica di gruppi di etnia, origine,
estrazione sociale e consistenza numerica diverse  diritto di asilo concesso da Romolo, episodio
del ratto delle Sabine, mobilità sociale orizzontale testimoniata dagli affreschi della Tomba
François.

POLITICA ESTERA NEL V SECOLO


Primo trattato romano-cartaginese (509)
Il testo del trattato viene riportato dallo storico greco Polibio, la cui attendibilità in questo caso è
stata a lungo discussa in quanto non si hanno certezze sul documento che ha consultato, se
l’originale o un riassunto conservato negli archivi del senato e da lui integrato. Polibio stesso in
realtà sembra essere incerto sul contenuto, la principale difficoltà di comprensione è data
dall’arcaicità del trattato. La data 509 è sospetta, ma è certo che il testo verrà rinnovato in più
occasioni fino al III secolo a.C. (nel 348, 306, 279).
Il trattato rendeva Roma interlocutrice della grande potenza fenicia di Cartagine, che controllava
diversi centri nel Mediterraneo che si estendevano dallo Stretto di Ghibilterra alle città della costa
africana, parte della Sicilia e della Sardegna. Vi è una divisione delle sfere di influenza tra Roma e
Cartagine e, per quanto a Roma venga assicurato il controllo del territorio del Lazio Antico, i suoi
movimenti marittimi risultano notevolmente circoscritti. In questo momento infatti l’organizzazione
della città non era ancora completamente sviluppata, era in una fase di laboratorio, e non bisogna
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quindi proiettare al V secolo l’immagine che abbiamo di Roma nelle epoche posteriori. È a partire
dal V secolo infatti che iniziò il processo che porterà Roma a diventare da un villaggio a un impero
che, all’apice della sua espansione, si estenderà per oltre 5000 kmq.

Scontro con i Latini (V secolo)


Nel corso del V secolo Roma fu costretta a fronteggiare delle difficoltà a causa della brusca
interruzione di equilibri data dalla caduta della monarchia. Ad aumentare le criticità furono anche le
attività belliche delle vicine popolazioni dei Sabini e dei Volsci, popoli di montagna stanziati
sull’Appennino laziale che operavano scorrerie annuali a danno degli insediamenti di pianura.
Intorno al 495 queste incursioni divennero sempre più minacciose, al punto che gli scambi
commerciali romani vennero minacciati sia da nord che da sud: da un lato infatti i Sabini
interruppero la percorribilità della via Salaria e, di conseguenza, il commercio del sale verso il
centro Italia; dall’altro i Volsci conquistarono la città di Terracina (di cui cambiarono il nome in
Anxur), la occuparono stabilmente e in questo modo impedirono ai Romani le comunicazioni con la
Campania, determinando la drastica riduzione delle importazioni che giungevano in città per
tramite delle colonie della Magna Grecia. Al tempo stesso Roma conobbe un periodo di gravi
carestie ed epidemie.
Oltre ai ricorrenti attacchi di Sabini e Vosci, inoltre, Roma dovette sostenere uno scontro decisivo
contro una coalizione di città latine. Tra Romani e Latini vi era un rapporto particolare: ogni anno
si alternavano al comando dell’esercito federale e avevano stretto un patto di intervento reciproco
nel caso di attacco. Il rapporto era improntato a una sostanziale parità e le varie comunità della
Lega Latina erano sia associate tra loro per produrre un esercito comune, che anche alleate in
caso di attacco.
Le comunità latine però approfittarono del periodo travagliato che seguì il crollo della monarchia
per dimostrare sempre maggiore insofferenza verso Roma, in particolare la città costiera di Lavinio
ambiva a esercitare una supremazia in ottica anti-romana. Roma riuscì a vincere contro la
sedizione dei Latini tra 497 e 496, riportando una vittoria schiacciante nella battaglia campale
presso il Lago Regillo. Il trattato di pace stipulato dopo questa battaglia prese il nome di foedus
Cassianum (trattato di Cassio) poiché, secondo le fonti, fu siglato nel 493 da Spurio Cassio, il
console che aveva guidato le truppe romane alla vittoria. Gli studiosi moderni in realtà propendono
per una datazione più prossima alla battaglia, il 496, e ipotizzano che il patto sia stato stretto da
Cassio in veste di feziale, cioè magistrato addetto ai rapporti con le comunità estere. Non
conosciamo i termini esatti dell’alleanza, ma dobbiamo presupporre che avesse determinato un
cambiamento radicale nei rapporti di forza all’interno della Lega Latina. Prima del foedus infatti le
città latine avevano stretto un trattato di mutuo soccorso che prevedeva l’assoluta parità tra i
contraenti. Dopo il foedus invece da una parte vi erano tutte le comunità latine, dall’altra Roma
come unico contraente  Roma evidentemente aveva conquistato una statura e una posizione
tale da consentirle di trattare da sola alla pari del gruppo di tutte le altre comunità, in chiara
posizione di preminenza.

Scontro con Veio (V – IV secolo)


Il V secolo fu contraddistinto per Roma anche dallo scontro con la potente città etrusca di Veio. La
causa del conflitto fu il controllo della città di Fidene, contesa tra Roma e Veio a causa della sua
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posizione sulla via Salaria, che la rendeva una chiave strategica per lo smercio di prodotti verso il
centro Italia.
La guerra iniziò intorno al 480 e si articolò in tre fasi, nella prima delle quali l’esercito romano fu
sterminato presso il fiume Cremera. Le fonti attestano che durante questa battaglia la gens fabia,
che costituiva l’esercito romano, fu sterminata. Questa è una testimonianza del fatto che intorno
all’inizio del V secolo l’esercito era ancora di matrice gentilizia, non si era ancora affermata del
tutto la riforma attribuita a Servio Tullio che prevedeva una milizia cittadina sulla base del censo.
La storiografia potrebbe aver esaltato il ruolo della gens fabia, ma vi sono comunque degli
elementi di storicità: i Fasti consolari riportano lo scomparire dei Fabi dalle liste, segno che ci
potrebbe effettivamente essere stato uno sterminio di gran parte degli appartenenti alla famiglia.
Dopo una lunga tregua Roma riuscì a conquistare Fidene, ma la guerra si concluse solo dopo
l’espugnazione romana di Veio, conclusasi nel 396 dopo un lungo assedio grazie all’operato di
Marco Furio Camillo. La tradizione dipinge un assedio decennale con tratti epici che potrebbero
ricalcare quelli della conquista di Troia e non essere quindi completamente veritieri.
La guerra fruttò a Roma un enorme bottino (in seguito il primo motore dell’economia romana sarà
proprio la guerra), di cui essa potè disporre per la prima volta autonomamente, senza doverlo
spartire con gli alleati latini. Oltre a questo, la guerra ebbe le seguenti conseguenze:
1. L’ager publicus venne raddoppiato. Il nuovo territorio venne distribuito in lotti di sette iugeri
ai cittadini romani, elemento che perdurerà nel tempo anche se non sempre le
assegnazioni di terra verranno fatte individualmente come in questo caso. Ciò comunque
diede un forte impulso alla creazione di un ceto di piccoli proprietari agricoli, che infoltirono
l’esercito e crearono le premesse per la transizione a una milizia cittadina

2. Vennero create quattro nuove tribù rustiche, chiamate Stellatina, Tromentina, Arniensis e
Sabatina.
Man mano che il territorio e la popolazione aumenteranno, verranno create nuove
circoscrizioni con valore politico e amministrativo, si creeràanche una nuova assemblea.
Queste circoscrizioni servivano per inquadrare i cittadini che vivevano nelle porzioni di
territorio appena acquisito. Oltre alle tribù urbane c’erano infatti quelle rustiche, che in
origine erano 17 e poi arriveranno a 35 (nel 241, le ultime saranno l’Avelina e l’Aquirina).
Con il tempo si perse la corrispondenza tra l’appartenenza a una tribù e l’essere cittadino di
un certo luogo, nelle tribù verranno iscritti cittadini che risiedono in aree non contigue (Es.
tribù in cui erano iscritti cittadini di Trento raccoglieva anche cittadini che si trovavano a
Palma di Maiorca).
Le prime tribù avevano nomi che ricordano quelli delle gentes perché nella gestione dei
territori esistevano dei gruppi di potere, il territorio che corrispondeva a una tribù era
pertinenza di una certa gens. In seguito le tribù persero l’elemento gentilizio in favore di
quello territoriale anche nel nome

3. Venne introdotto una forma di remunerazione per i soldati, costretti a lasciare le proprie
attività per dedicarsi alla guerra, detta stipendium. Il termine stipendium significa
“merenda”, proprio perché veniva vista come una forma di sostentamento

4. Venne effettuata l’evocatio della dea etrusca Uni, in latino Iuno/Giunone.


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CONFLITTI INTERNI ALLA CIVITAS TRA PATRIZI E PLEBEI


Le fonti letterarie, già in età monarchica, individuano una suddivisione interna della società romana
in due ceti: patrizi e plebei. I Romani si riferivano a questi gruppi con il termine ordines, ordini
(NB non si può tradurlo con “casta” o “classe”, sono termini con connotazioni ben diverse dalla
suddivisione in ceti dei Romani). Si tratta di una questione molto complessa in quanto non ci sono
fonti che definiscano con precisione chi siano i patrizi e i plebei, la cui suddivisione resterà però
sempre viva per tutta la storia della città.
Ci sono varie ipotesi riguardo la composizione di tali gruppi: secondo alcuni studiosi i patrizi
originariamente discendevano dai primi senatori e i plebei invece dai loro clienti; secondo questa
distinzione i plebei non sarebbero stati suddivisi in clan come i patrizi, che erano un numero
chiuso. Un’altra ipotesi dà invece peso all’elemento etnico, i patrizi discenderebbero dai Latini
insediatisi sul Palatino e i plebei dai Sabini sul Quirinale, aggregati nella comunità civica in
condizione di inferiorità rispetto al gruppo latino. Vi è poi una teoria basata sull’aspetto economico,
i patrizi sarebbero stati grandi proprietari terrieri e i plebei invece artigiani e commercianti
emergenti, che avevano possibilità economiche (non si può infatti parlare di una distinzione tra
ricchi e poveri!!) ma avevano nel possesso della terra, trasmessa soprattutto per via ereditaria, un
tratto caratterizzante. Queste tre ipotesi pongono l’accento rispettivamente sulle differenze sociali,
etniche ed economiche, ma nessuna di esse può dirsi pienamente soddisfacente. I due ordini
infatti si erano creati gradualmente nel contesto di una città in continua espansione ed erano molto
eterogenei al loro interno, la distinzione tra patrizi e plebei è il punto d’arrivo di una diversificazione
molto complessa.
All’inizio del V secolo lo scontro tra patrizi e plebei si radicalizzò fino a condurre, nel 494, a quello
che in modo un po’ improprio è stato definito come il primo sciopero della storia: la prima
secessione dell’Aventino. I plebei per manifestare la loro volontà di non sottostare più a certe
condizioni e dinamiche si ritirarono fuori dal pomerio, sull’Aventino (altre fonti citano il Monte
Sacro), sottraendosi dalla partecipazione alle attività della città. La secessione della plebe
comportò un grave turbamento a Roma, anche perché in quel periodo la città era impegnata in un
conflitto contro i Volsci e i Sabini e il rifiuto dei plebei di lavorare nei campi che davano
sostentamento alla città portava ovviamente anche a un indebolimento dell’esercito. I plebei inoltre
si rifiutavano di partecipare alla vita religiosa e ai riti collettivi della città, causando quindi il
turbamento della pax deorum e la potenziale perdita del favore degli dei, cosa che destava grande
preoccupazione.
La plebe si opponeva ai seguenti privilegi dei patrizi, che rivendicava anche per sé:
 Monopolio di natura religiosa, trasmesso per via ereditaria, solo i patrizi potevano trarre gli
auspicia
 Patrizi erano gli unici a poter accedere alle magistrature, a Roma c’era un legame molto
forte tra la politica e la religione, gli auspicia erano un’operazione preliminare e
imprescindibile rispetto a qualsiasi operazione politico-militare
 Spartizione del bottino di guerra era impari, i patrizi erano in ruolo di preminenza, cosa che
aumentava ulteriormente le disuguaglianze sociali: i patrizi accumulavano patrimoni
sempre più ingenti, mentre i plebei spesso non riuscivano a mantenere lo status che
avevano guadagnato lavorando e correvano il rischio di cadere in una forma di
indebitamento così cospicua da costringerli all’asservimento. I più poveri potevano cadere
nel nexum, la schiavitù per debiti, che veniva percepita come una condizione molto
indegna. Ad aggravare questo rischio proprio in quel periodo si stava verificando una
carestia, che rendeva la fascia più povera della plebe ancora più fragile.
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Le richieste dei plebei erano quindi l’abolizione del nexum, l’equa spartizione dei bottini di
guerra e l’ammissione alle magistrature. Queste richieste provenivano da fasce diverse della
plebe, che al suo interno era molto eterogenea: per i plebei più arricchiti la priorità era la
rivendicazione dei diritti politici, cioè l’accesso alle cariche pubbliche e al sacerdozio, per quelli più
poveri invece l’abolizione del nexum, ma furono comunque in grado fare fronte comune
indipendentemente dalle diverse situazioni patrimoniali.

I patrizi si trovarono costretti a intavolare delle trattative conciliatorie con la plebe. Nel 494
inviarono un proprio rappresentante, Menenio Agrippa, che funse da mediatore tra i due gruppi. A
questi viene attribuito un apologo (breve discorso con intento moralistico) nel quale paragonava lo
“stato” romano a un corpo umano nel quale tutti gli organi avevano interesse a cooperare per la
salvaguardia della salute: nello specifico lo stomaco, il senato, non avrebbe potuto ricevere il
nutrimento di cui aveva bisogno senza l’aiuto delle braccia, i plebei. L’apologo viene riportato da
Livio e non è da considerarsi una fonte storica di primo livello.

La plebe comunque rientrò a Roma solo dopo aver ottenuto il riconoscimento di alcuni diritti, primo
tra tutti quello di potersi riunire in un’assemblea, detta concilium plebis (plurale concilia plebis), le
cui deliberazioni, plebiscita, avevano però valore vincolante solo per i plebei. Con la Lex Hortensia
del 287 a.C. diventeranno vincolanti per l’intera comunità, compresi i patrizi. Con il tempo
all’interno di tale assemblea il raggruppamento per tribù arriverà a essere un elemento rilevante,
le fonti la chiameranno concilium plebis tributum proprio perché il voto non veniva espresso dai
singoli ma tramite il raggruppamento dei partecipanti in tribù, in modo da disperdere la
compattezza delle clientele attraverso cui i patrizi riuscivano a influenzare i voti.
Vennero inoltre create due magistrature plebee, elette annualmente dal concilium plebis: edili e
tribuni della plebe. Gli edili plebei erano due ed erano preposti alla manutenzione, cioè il controllo
e l’approvvigionamento, dei templi (aedes) di Diana e di Cerere, Libero e Libera dell’Aventino. I
tribuni della plebe erano la somma magistratura plebea, conquista più importante della prima
secessione. Originariamente erano due, in seguito aumenteranno fino a un collegio di dieci tribuni.
La potestà tribunizia, cioè le prerogative dei tribuni della plebe, comprendeva:
1. Sacrosanctitas – inviolabilità personale, chiunque metteva a repentaglio l’incolumità di un
tribuno diventava homo sacer e poteva essere impunemente ucciso senza che il suo
assassino fosse perseguibile
2. Ius agendi cum plebe (poi cum populo) – diritto di convocare e presiedere l’assemblea
della plebe (e poi anche le assemblee popolari come i comizi)
3. Ius auxilii – diritto di intervenire in soccorso di un cittadino vittima dei soprusi di un
magistrato
4. Ius intercessionis – diritto di veto, cioè capacità di opporsi all’iniziativa di un collega e
bloccarla.

Alcune delle caratteristiche tipiche dei tribuni della plebe rispecchiavano quelle delle magistrature
repubblicane, cioè temporaneità, collegialità, gratuità, elettività e gradualità (cursus honorum,
progressione delle cariche, da honos = magistratura, incarico).
NB: per quanto riguarda la collegialità, essa non implicava che il potere fosse diviso tra i magistrati
che coprivano l’incarico, ognuno di essi aveva pieni poteri, le competenze infatti erano indivisibili e
ogni membro del collegio le esercitava in pienezza. I colleghi potevano però porre dei veti.
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L’unica magistratura a sfuggire dalla collegialità era la dittatura, a causa del suo carattere
straordinario: in caso di situazioni emergenziali si rinunciava alla collegialità e il potere veniva
provvisoriamente posto in mano a una sola figura. Durante la carica del dictator tutte le garanzie
dei cittadini venivano sospese, compreso il diritto di sfuggire alla pena di morte e riccorrere
all’intervento popolare per un cambiamento della pena, introdotto nel 499 (in realtà fu introdotto in
seguito, ma le fonti proiettano all’indietro).
I plebei in questa prima fase riuscirono a ottenere solo parte delle loro rivendicazioni, per il
momento non possono ancora accedere alle magistrature ad esempio. Il percorso di integrazione
dei due ordini fu infatti molto lungo e giunse a maturazione solo all’inizio del III secolo.

Anno Conquista Diritti ottenuti


(a.C.)
494 Concilia plebis Emanazione di leggi (plebisciti) per i plebei
Tribuni della plebe Intercessio (diritto di veto)
Sacrosanctitas (inviolabilità personale)
451 – 450 Leggi delle XII Tavole Conoscenza delle leggi scritte
449 Provocatio ad populum Possibilità di appellarsi ai comizi centuriati per la
commutazione della pena capitale
445 Lex Canuleia Diritto di matrimonio e di commercio tra patrizi e plebei
Forse 409 Legge di latore ignoto Accesso alla questura
367 Leges Liciniae Sextiae Accesso al consolato
Forse 326 Lex Poetelia – Papiria Abolizione della schiavitù per debiti
287 Lex Hortensia Plebisciti (decreti del concilia plebis) hanno valore di
legge per tutti i cittadini romani

Leggi delle XII Tavole


Tra il 451 e il 450 i plebei ottennero la codificazione del diritto tramite la pubblicazione delle leggi
delle XII Tavole. Un collegio di dieci magistrati, detti decemviri, fu incaricato di mettere per iscritto
su supporto durevole le norme vigenti dell’epoca. Il collegio operò in sostituzione ai consoli e con
pieni poteri per due anni, in quanto si avvertì la necessità di completare durante un secondo anno
quanto era stato intrapreso nel primo. Il collegio del 451 era composto solo da patrizi, mentre
quello del 450 da una formazione mista di patrizi e plebei.
Le XII Tavole furono le prime leges rogatae, ovvero votate, sottoposte all’approvazione dei comizi.
Per la prima volta il diritto venne reso accessibile all’intero corpo civico e le leggi divennero uguali
per tutti, sottratte a interpretazioni arbitrarie tipiche di quelle orali appannaggio dei soli pontefici.
Nonostante ciò, le leggi non possono essere definite come una vera e propria conquista della
plebe in quanto non esprimevano un diritto progressista ma lo specchio di una società rurale che
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salvaguardava il potere assoluto del pater familias, la proprietà privata, confermava l’esecuzione
per debitori insolventi e il nexum. Le XII Tavole non possono nemmeno essere definite come la
costituzione di Roma in quanto essa non ne avrà mai una.
Rimasero esposte per più generazioni, forse incise in una prima redazione su un supporto di legno
e poi su lastre o cippi che non ci sono mai pervenute; non conosciamo il testo completo, ma, dato
che veniva memorizzato dai ragazzi come primo esercizio scolastico, numerose parti ci sono state
riportate da autori posteriori.
La stesura delle norme a Roma viene introdotta circa cento anni dopo rispetto che in Grecia con
Solone. Dal punto di vista legislativo e giuridico Roma è in ritardo rispetto alla Grecia, in questo
momento le due potenze sono ancora collocate su piani diversi.

Tra il 444 e il 367 si decise di conferire il potere che in precedenza detenevano i due consoli ad
alcuni dei sei tribuni militari che costituivano gli ufficiali a capo della legione eletti annualmente.
Questi nuovi magistrati presero il nome di tribuni militari con poteri consolari. Potevano essere
di numero variabile da tre a otto, detenevano l’imperium e, come attestato anche dal nome,
avevano come funzione primaria quella militare. Questo cambiamento si spiega considerando che
in quegli anni Roma era molto impegnata sotto il profilo militare ed era quindi stata avvertita la
necessità di avere a disposizione un maggior numero di figure dotate di imperium.
Il dato rilevante è rappresentato dal fatto che i tribuni militari con poteri consolari potevano essere
anche plebei. Gli studiosi moderni hanno ritenuto che questa nuova temporanea magistratura
fosse un espediente compromissorio per avvicinare i plebei al consolato.

Nel 367 Lucio Sestio Laterano e Gaio Licinio Stolone ricoprirono il tribunato della plebe e, dopo
lunghe lotte, riuscirono a far approvare un pacchetto di leggi, dette Licinie Sestie dai loro nomi,
che vengono citate da Livio. Tali leggi intervenivano sui tre problemi che la plebe avvertiva come i
più pesanti: la schiavitù per debiti, la spartizione dei bottini di guerra e l’accesso al consolato.
 La schiavitù per debiti non venne abolita ma si stabilirono delle forme di riduzione e
rateizzazione del debito in modo da ridurre il numero di debitori insolventi
 Venne imposta una limitazione della proprietà terriera, nessun romano poteva possedere
più di 500 iugeri di terra dell’ager publicus. In questo modo vi era maggiore disponibilità di
terra per la distribuzione gratuita ai ceti subalterni
 Fu sottratto il potere consolare ai tribuni militari e si ripristinò il consolato, ma con la
condizione che uno dei due consoli dovesse essere di origine plebea. Il primo console
plebeo fu Lucio Sestio Laterano, che assunse la carica nel 366 a.C.

Nei Fasti consolari compaiono nomi di persone appartenenti a famiglie plebee anche prima del
367, cosa che ha portato alcuni studiosi a dubitare dell’attendibilità di tali liste (insieme al fatto che
vengano sempre citati due nomi). Si è ipotizzato che la “serrata del patriziato”, ovvero l’esclusione
dei plebei dalle cariche, non fosse in realtà un fenomeno così perentorio e presente fin dalla prima
fase della repubblica, ma che si sia sviluppato nel tempo. Al contrario, gli auspicia inizialmente
erano prerogative patrizie.
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Livio riporta anche che, per compensare i patrizi della rinuncia al monopolio del consolato, venne
istituita una nuova magistratura: la pretura urbana. I pretori urbani avevano potere a livello
giurisdizionale, amministravano cioè la giustizia, ed erano dotati di imperium. Si trovavano però in
posizione di sudditanza rispetto ai consoli.
Nel 366 viene testimoniata da Livio anche la creazione di una magistratura patrizia parallela
all’edilità plebea, gli edili curuli. Essi avranno competenze molto più ampie degli edili plebei: oltre
a gestire l’allestimento di giochi in occasione delle festività, si occupavano infatti di controllare
l’approvvigionamento alimentare di Roma (controllo mercati). Per quanto l’edilità patrizia rimarrà
sempre più prestigiosa, con il tempo anche quella plebea conoscerà un’estensione delle proprie
prerogative. Anche la carica di tribuno della plebe in seguito diventerà tanto importante al punto
che alcuni patrizi chiederanno di diventare plebei pur di ricoprirla.

A partire da questo momento iniziarono a venir approvate numerose leggi che portarono alla
parificazione dei plebei anche per quanto concerne l’elettorato passivo, cioè la possibilità di essere
eletti oltre che di votare. Nel 445 con la Lex Canuleia venne consentito il matrimonio tra patrizi e
plebei, e il fatto che il sangue dei due gruppi inizi a mescolarsi rende impossibile perseverare con
l’esclusione di uno di essi dalle cariche pubbliche. Con la Lex Ogulnia vennero scalfiti i privilegi
patrizi pure in ambito religioso, il pontificato massimo e i vari collegi sacerdotali divennero
accessibili anche ai plebei.

Le leggi Licinie Sestie, con i matrimoni misti e la possibilità dei plebei di accedere al consolato,
diedero l’impulso alla creazione di una nuova nobilitas patrizio-plebea, una nuova oligarchia
basata non sulla nascita ma sul ruolo che si ricopriva. La classe dirigente romana ora trovava la
fonte della propria legittimazione nel rapporto di fiducia e credibilità che guadagnava sul campo, in
una nuova concezione di nobilitas non di sangue ma di funzioni.
 una dimostrazione di ciò è l’iscrizione funeraria sul sepolcro (oggi ipogeo) di Lucio Barbato, di
gusto ellenizzante e collocato sulla via Appia, fuori dalle porte di Roma. Vengono elencati alcuni
degli incarichi ricoperti da Scipione e compare la parola nobilis, che indica che fosse una persona
nota. Si dice che Scipione fu edile, console e censore apud vos, presso di voi, cioè era stato scelto
per svolgere quegli incarichi e la sua nobilitas è data proprio da questo (NB gli incarichi sulla
tomba non sono citati nell’ordine in cui venivano svolti secondo il cursus honorum, anche perché la
frase è in metrica).

Nel 447 venne istituita la nuova carica dei questori, eletti in numero di quattro dalle tribù e
collaboratori dei consoli negli affari finanziari, addetti all’amministrazione dell’erario (cassa della
res publica). Con il tempo aumenteranno fino a venti e si occuperanno della gestione delle finanze
non solo a Roma ma anche nei territori d’oltremare.
Nel 443 venne introdotta un’altra carica, aperta esclusivamente agli ex-consoli: la censura. Ogni
cinque anni venivano eletti due censori che restava in carica per diciotto mesi. Si trattava di una
magistratura prestigiosissima le cui prerogative erano:
1. Redigere la stima del patrimonio dei cittadini (fondamentale in un ordinamento timocratico)
2. Registrare i cittadini nelle apposite liste relative alle centurie e alle tribù
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3. Occuparsi della revisione delle liste del senato (lectio senatus, espungere senatori morti o
che macchiatisi di condotta immorale)
4. Controllare la moralità di senatori e cittadini (in forte rapporto con le sorti della città)
5. Gestire gli appalti pubblici (ad esempio appalto costruzione vie, Appio Claudio Cieco
gestisce costruzione Via Appia)

Il cursus honorum quindi iniziava con la questura, poi c’erano l’edilità e il tribunato della plebe più
o meno allo stesso livello, la pretura (snodo importante perchè primo incarico con imperium), il
consolato e la censura. Fino al tribunato della plebe i magistrati venivano eletti dai comizi tributi, a
partire dalla pretura dai comizi centuriati. Per accedere al senato romano bisognava essere stati
almeno questori, poi in base alla carica che si era svolta c’erano delle gerarchie all’interno del
senato stesso.

“Costituzione” romana  Polibio, autore greco del II secolo a.C., sostiene che la “costituzione”
romana sia la migliore in quanto mista: secondo lui i Romani erano riusciti a creare un sistema che
comprendesse elementi di natura monarchica (consoli), democratica (assemblee) e
aristocratica/oligarchica (senato).

POLITICA ESTERA NEL IV SECOLO


Invasione gallica
Le leggi Licinie Sestie furono la premessa per l’espansione romana nel corso del IV secolo, iniziato
con l’importante successo militare della conquista di Veio. Tale spinta espansionistica subì però
una battuta d’arresto nel 387/386 (nei manuali si dice 390) a causa della calata dei Galli Sènoni
sull’Urbs. I Galli, detti anche Celti, erano un insieme di diverse tribù provenienti d’Oltralpe che si
erano insediati nell’area della Pianura Padana dopo aver sconfitto gli Etruschi. Livio data tale
fenomeno al VI secolo, mentre Polibio all’inizio del IV; in ogni caso quella che gli autori antichi
descrivono come un’invasione traumatica nel 386 è in realtà l’epilogo di un processo molto più
antico, descrivibile più come di infiltrazione di tribù di Celti, per lo più con funzione di mercenari,
che come una vera e propria invasione. Tali infiltrazioni furono relativamente lente e causarono
processi di integrazione con le popolazioni locali.
Le popolazioni di Galli insediatesi nella penisola erano le seguenti:
 Cenomani – si insediarono in Transpadana (a nord del Po) tra Brescia e Verona. Il loro
oppidum di riferimento era Brixia. Insieme ai Veneti non entrarono nella coalizione gallica in
funzione anti-romana, a differenza delle altre popolazioni celtiche, ostili a Roma
 Insubri – primi a insediarsi in Transpadana, fondarono Mediolaum
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 Boi – si insediarono in Cispadana (a sud del Po) nell’attuale Emilia Romagna. Il loro centro
di riferimento è l’etrusca Felsina, che successivamente prese il nome di Bononia
 Senoni – ultimi a insediarsi nell’area delle attuali Marche settentrionali, occuparono l’ager
gallicus e picenus

Nel 387/386 a.C. Roma venne occupata dai Galli Senoni guidati da Brenno. L’esercito romano
uscì allora ad affrontare il nemico, sottovalutandolo, e subì una pesantissima sconfitta presso il
fiume Allia. Questa battaglia rimase profondamente impressa nelle menti dei Romani, al punto che
il giorno della sconfitta, il 18 luglio, venne segnato sul calendario romano come ricorrenza luttuosa.
Secondo la tradizione gli abitanti di Roma vennero evacuati a Veio, le Vestali con i simboli sacri
della città a Cere, l’Urbe fu interamente occupata a eccezione del Campidoglio e si verificarono
saccheggi e incendi su larga scala. Durante uno di questi incendi la Regia e tutta la
documentazione pontificale che vi era custodita sarebbero andate distrutte. Brenno non lasciò la
città se non dopo aver ricevuto un cospicuo ricatto in oro.
È possibile inserire l’episodio del cosiddetto “sacco di Roma” all’interno di una vicenda più
complessa: i Galli non avrebbero agito di propria iniziativa in quanto figuravano come mercenari
del tiranno greco di Siracusa Dionigi I, che perseguiva una politica espansionistica mirata a
controllare le rotte commerciali adriatiche e tirreniche.
Ad oggi in realtà gli archeologi sono inclini a minimizzare gli effetti distruttivi della calata dei Galli
su Roma a causa della mancanza di prove archeologiche relative alla devastazione denunciata
con così grande evidenza dalle fonti letterarie.
Le conseguenze principali dell’invasione gallica furono da un lato la crisi dei rapporti di alleanza tra
Romani e Latini, in quanto questi non erano intervenuti in difesa dai Galli, disattendendo il foedus
Cassianum, e dall’altro la costruzione delle cosiddette “mura serviane”.

Espansionismo romano contro Latini, Volsci ed Ernici


Roma riuscì a riprendersi rapidamente dall’incursione dei Galli. Da un lato poteva ancora contare
sul portato benefico derivato dalla conquista di Veio, dall’altro iniziò ad attuare una politica di
espansionismo interno alla penisola che si rivelò fruttuosa.
Nel 381 la città latina di Tusculum si arrese a Roma, che la rese il suo primo municipium (da munia
capere = assumere gli obblighi), ovvero le lasciò autonomia amministrativa e decisionale e non ne
cancellò l’identità originaria ma giovò delle sue strutture già esistenti. Gli abitanti del municipium
ottennero la piena cittadinanza, comprensiva di tutti i diritti e doveri dei cittadini romani.
Nel 354 le città latine di Tivoli e Preneste cessarono la loro resistenza contro Roma.
Roma si scontrò anche con i Volsci, popolazioni situate nell’entroterra appenninico, sottraendo loro
l’area delle Pianure Pontine.
Roma si scontrò infine con la popolazione italica degli Ernici, insediatasi nell’alta valle del fiume
Sacco, e conquistò parte di tali territori.
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Le guerre sannitiche (345 – 295 a.C.)


La progressiva espansione nel Lazio fece da preambolo alle più importanti guerre combattute da
Roma nel corso del IV secolo e l’inizio del III, quelle contro i Sanniti. Tali guerre, a differenza degli
scontri precedenti, determinarono un cambiamento di scala rispetto all’espansionismo romano: da
una dimensione di potenza urbana si passò a una di potenza sovraregionale.
I Sanniti, chiamati anche Sabelli dalle fonti antiche, erano una confederazione di popolazioni
insediate su un territorio molto ampio, il Sannio storico, corrispondente a parte della Campania e al
territorio montuoso retrostante che copriva Abruzzo, Molise e parte della Puglia e della Basilicata. I
Sanniti abitavano quindi aree montuose e con una carrying capacity molto bassa, elemento
importante perché rende chiaro che la loro volontà di espandersi era data prima di tutto da una
necessità fisica, praticavano lo sfruttamento agricolo e soprattutto l’allevamento seminomade ma
c’erano poche risorse rispetto alla popolazione  ogni primavera celebravano il rito del Ver
Sacrum, durante il quale dedicavano al dio Marte tutti i prodotti della primavera, tra cui anche i figli,
che una volta cresciuti, si sarebbero dovuti allontanare dalla comunità per abitare nuovi territori.
Non avevano una forma urbana con un governo amministrativo centralizzato, c’erano
raggruppamenti di tribù articolate in pagi, distretti funzionali al reclutamento militare. La gestione
del potere era oligarchica e vi era un forma di organizzazione politica e amministrativa interna.
Erano sparsi in cantoni ma in certe occasioni si riunivano presso il santuario federale di
Pietrabbondante, in Molise, per riunioni a scopo religioso e politico.
I Sanniti avevano la nomea di essere guerrieri molto valorosi: Taranto, colonia spartana, li
dipingeva come eredi di Sparta, mentre Livio li descrisse come particolarmente tenaci e capaci di
resistere sotto il profilo militare.

Romani e Sanniti vennero a contatto per la prima volta a causa dell’espansione dei primi nelle
Pianure Pontine. Nel 354 ci fu una prima forma di regolamentazione dei rapporti, venne siglato un
trattato che stabiliva che il fiume Liri fungesse da spartiacque tra l’area di egemonia romana e
quella sabina.
Prima fase (343 – 341): nel 343 i Sanniti si accinsero a conquistare il popolo dei Sidicini; questi
allora chiesero aiuto ai Campani, in particolare alla città greca di Capua, che a sua volta si rivolse
a Roma affinchè intervenisse in suo aiuto. A questo punto Roma si trovava a un bivio: se non
fosse intervenuta i Sanniti sarebbero andati avanti con le loro conquiste, se l’avesse fatto avrebbe
disatteso il patto siglato nel 354 e non avrebbe rispettato la propria regola di intraprendere un
conflitto solo se legittimo (bellum iustum), ovvero intervenendo solo se minacciata. Roma, che
voleva espandersi in Italia meridionale, ricorse allora a un espediente di natura diplomatica: i
Capuani tramite la deditio in fidem si consegnarono a lei e vennero incorporati nello stato romano;
in questo modo i Romani avrebbero avuto l’obbligo di intervenire in difesa di Capua contro i Sabini
e così fecero, dando avvio alla guerra.
La prima fase si concluse con un trattato, Roma acconsentì alle richieste di pace dei Sanniti e
permise loro di annettere i Sidicini. Roma entrò in Campania e questo risultato, in realtà non
particolarmente influente, venne presentato come un trionfo.

Seconda fase (326 – 304): in seguito a una serie di provocazioni il conflitto scoppiò nuovamente a
causa dell’occupazione romana di Fregelle, al di là della zona di influenza di Roma segnata dal
Liri. Vi furono una serie di scontri e nel 321 Roma subì una sconfitta epocale presso la valle di
Caudio, dove l’esercito romano rimase intrappolato in una gola rocciosa e si autocondannò.
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L’evento è ricordato con il nome di Forche Caudine a causa dell’umiliazione che i Romani
dovettero subire sfilando disarmati sotto il giogo dei nemici. Questo evento segnò profondamente
la storia di Roma, Livio nel descriverlo si sofferma sull’angoscia e la depressione dell’esercito
intrappolato nella gola e privato della possibilità di avvicinarsi ai nemici, sostenendo ironicamente
che i Sanniti avrebbero potuto vincere restando seduti.
Nonostante l’infortunio Roma successivamente riuscì a riportare delle vittorie decisive a Boviano.

Terza fase (298 – 290): la terza e ultima fase delle guerre sannitiche vide la formazione di una
coalizione anti-romana composta da Sanniti, Etruschi, Galli Senoni e Umbri. Nel 295 a Sentino
avvenne lo scontro campale decisivo, che gli studiosi apostrofano come la “battaglia delle nazioni”
a causa della vastità degli schieramenti coinvolti e che segnò la decisiva vittoria dei Romani.
Il territorio dei Galli Senoni fu requisito e conquistato come ager publicus; Umbri ed Etruschi
ottennero condizioni di resa favorevoli; i Sanniti mantennero la loro integrità territoriale ma persero
il ruolo di leader nell’Italia meridionale, progressivamente assunto da Roma.

La grande guerra latina (341 – 338)


Tra la prima e la seconda fase delle guerre sannitiche si verificò un ribaltamento delle alleanze:
Roma si ritrovò alleata dei Sanniti contro i Latini, coalizzatisi con Volsci, Aurunci e Sidicini, nella
cosiddetta grande guerra latina. Lo scopo di Roma era recuperare egemonia nel Lazio. Il conflitto
fu molto duro perché Roma combatteva contro i suoi ex alleati, con i quali condivideva tecniche e
strategie militari. Roma riuscì comunque a prevalere nello scontro decisivo a Suesse Aurunca. Le
conseguenze della guerra furono:
a) Estensione del controllo di Roma sul territorio del cosiddetto “Lazio aggiunto” (Latium
adiectum), comprensivo non solo del Lazio Antico ma anche dell’Etruria meridionale e della
Campania settentrionale fino al fiume Volturno
b) Scioglimento della Lega Latina e abolizione del foedus Cassianum in favore di nuovi
strumenti diplomatici più flessibili ed efficaci: Roma non siglava più un unico trattato con
tutte le popolazioni soggette, ma stringeva patti federativi individuali e differenziati per
ogni singola comunità. Venne attuato il principio convenzionalmente sintetizzato nella
formula divide et impera, che mirava a ottenere e conservare la supremazia grazie alla
divisione dei popoli soggetti.
Nacque allora quella che per convenzione viene chiamatadai moderni Confederazione
italica, che le fonti nominano sempre “Roma e i suoi alleati”.

Nel 338 avvenne la deduzione di Anzio, ovvero la fondazione di una colonia di cittadini romani
nella città (ai vecchi abitanti volsci fu concesso di iscriversi tra i coloni). A causa della sua
posizione inoltre Anzio era dotata di una flotta molto efficace, che Roma requisì e fece diventare il
primo nucleo della sua futura flotta. Le navi degli Anziati troppo usurate per essere utilizzate dai
Romani vennero bruciate e i loro rostri furono usati per ornare una tribuna del Foro, detta per
questo motivo Rostri, come monito della vittoria contro i Latini.
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Modalità di controllo del nuovo territorio


Per controllare il nuovo ager publicus, che si era andato ampliando moltissimo, vennero stabilite
delle modalità di controllo specifiche, diverse a seconda delle necessità.
1) Distribuzioni viritane (adsignationes): assegnazione a titolo individuale di appezzamenti
terrieri a cittadini romani. Non comportavano la fondazione di un nuovo centro urbano e gli
assegnatari restavano sotto la giurisdizione e l’amministrazione di Roma, anche se si
trovavano a risiedere molto lontano dall’Urbe

2) Colonie (deduzione = fondazione di una nuova città): insediamenti di cittadini trasportati in un


nuovo centro urbano fondato ex novo, non abitato in precedenza, o in un centro urbano pre-
esistente ma ristrutturato al punto da sembrare comunque nuovo. I cittadini romani inviati nei
nuovi territori perdevano la loro appartenenza di origine a Roma e diventavano a tutti gli effetti
cittadini della colonia.

Le colonie potevano essere di due tipologie:


 romane – dedotte e abitate da cittadini romani di pieno diritto, di dimensioni ridotte e
per lo più costiere. Nascevano come avamposti rispetto a potenziali incursioni e proprio
per questo motivo erano molto vicine tra loro
 latine – coloni godevano del diritto latino, che prevedeva ius connubii (diritto di
contrarre matrimonio con cittadini romani), ius commercii (diritto di svolgere attività
commerciali) e ius migrandi (diritto di trasferirsi a Roma), ma non ius suffragii (diritto di
voto attivo e passivo). Tali colonie si trovavano nell’entroterra, erano territorialmente più
estese delle prime e distanti da Roma. In un primo momento avevano funzione
difensiva, poi divennero teste di ponte per l’espansione.

Le colonie dovevano fornire contingenti di natura militare, per Roma erano uno strumento di
fidelizzazione.
Le comunità delle colonie erano formalmente indipendenti, potevano attuare forme di
autogoverno ed eleggere dei magistrati detti duoviri.
Il nucleo fondante delle colonie era quindi costituito dai cittadini che partivano da Roma e si
mischiavano poi con gli incolae, gli abitanti che si trovavano già precedentemente nel territorio
e che non sempre godevano della cittadinanza latina, erano in posizione di subalternità rispetto
ai coloni. I coloni avevano poi rapporti anche con i peregrini, ovvero gli stranieri che si
recavano presso la colonia.
Spesso i soldati poco abbienti si trasferivano nelle colonie con le proprie famiglie nella
speranza di arricchirsi maggiormente rispetto che a Roma (Es colonia di Aquileia). Grazie alla
dialettica tra il centro e le periferie venne favorita la mobilità sociale, ottenendo risultati che la
plebe urbana non sarebbe riuscita a conquistare. Nel tempo inoltre a chi esercitava una
magistratura nelle colonie di diritto latino verrà data la possibilità di essere eletto anche a
Roma.
All’interno delle colonie vi erano comunque forme di gerarchia sociale: la prima operazione
fatta quando veniva fondata una colonia, dopo il tracciamento del pomerio, era l’assegnazione
di lotti di terreno diversi a seconda della ricchezza del colono, chi era più ricco possedeva più
terre e di conseguenza era al comando della città, in riproduzione alla stratificazione sociale
dell’Urbe.

La deduzione delle colonie era responsabilità del senato; venne istituita una commissione di tre
membri, solitamente ex consoli e spesso dotati di imperium, che si occupava di dividere e
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assegnare i lotti ai coloni. Grazie all’aiuto di un gruppo di gromatici e allo strumento della
groma, una croce con fili a piombo ai capi, si procedeva al tracciamento sul terreno di una
griglia ortogonale, detta limitatio o centuriazione, con tasselli quadrati di 200 iugeri l’uno
(considerata l’estensione minima di terra per la sopravvivenza di una famiglia di agricoltori).

La prima colonia fondata da Roma fu Ostia, nel 338. Nel 268 Ariminum e Beneventum vennero
dedotte a presidio dei territori di recente conquista romana, e la stessa cosa avvenne per
Fermo Piceno nel 264. Nel 244 venne dedotta una colonia di diritto latino a Brindisi, caput della
Via Appia ( definizione degli assi viari era un elemento di primaria importanza. Altre vie da
ricordare sono la Via Salaria e la Via Latina).

3) Municipi (municipia): centri urbani pre-esistenti sconfitti e sottoposti al dominio romano a cui
era lasciata una certa autonomia interna in quanto l’amministrazione restava in mano agli
abitanti, che potevano eleggere le proprie magistrature e osservare le proprie leggi. Godevano
inoltre della piena cittadinanza, comprensiva di ius connubii, ius commercii, ius migrationis e
ius suffragii, ma dovevano assumere gli stessi obblighi dei cittadini romani: erano soggetti alla
giurisdizione romana, prestavano servizio militare, pagavano le tasse e la politica estera era
interamente nelle mani dei Romani.
Nel descrivere la vita in un municipium Cicerone elabora il concetto di doppia cittadinanza: si
era cittadini romani ma al tempo stesso si aveva un saldo legame con le proprie origini
precedenti.
Il fatto che a tutti gli abitanti venisse concessa la piena cittadinanza implicava che il bacino
militare e di voto di Roma si stesse ampliando, cosa che fece scatenare maggiori resistenze e
qualche malumore nei confronti dei municipi.

4) Popolazioni alleate (civitates foederatae): popolazioni con cui Roma aveva stretto un trattato
di alleanza, mantenevano l’indipendenza ma si impegnavano a fornire truppe ausiliarie che
combattevano di fianco all’esercito romano

5) Comunità senza diritto di voto (civitates sine suffragio): città autonome che conservavano la
loro autonomia e le loro istituzioni tradizionali, e a cui era stato accordato il diritto di commercio
e matrimonio con i cittadini dell’Urbe. Non potevano promuovere alcuna iniziativa di politica
estera, gli abitanti prestavano obbligatoriamente servizio militare per Roma, agli ordini di
ufficiali romani e, se insediamenti marittimi, dovevano mettere a disposizione di Roma anche la
loro flotta.
Lo strumento delle comunità senza diritto di voto era residuale, in primis si ricorreva a quello
delle popolazioni alleate. Gli strumenti più usati in realtà erano municipia e colonie.

Romanizzazione = processo di uniformazione della penisola, e in seguito del Mediterraneo, ai


modelli romani sotto il profilo giuridico, istituzionale, socio-economico e culturale nella più ampia
accezione. Si tratta di un concetto controverso, in passato era visto in modo negativo in quanto
veniva inteso in senso colonialista e imperialista, di imposizione di Roma rispetto alle realtà pre-
esistenti. In realtà la romanizzazione non fu un processo unilaterale di imposizione dall’alto, a volte
erano le stesse popolazioni ad auto-romanizzarsi o comunque vedevano questo processo in modo
positivo, in quanto Roma godeva di un grande appeal.
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Riforma manipolare dell’esercito


Oltre alla colonizzazione e alla viabilità marittima e terrestre, un altro elemento fondamentale della
conquista era l’esercito. L’episodio delle Forche Caudine aveva reso evidente la problematica
immobilizzazione dell’esercito romano e così, tra la fine del IV secolo e l’inizio del III, si procedette
a una riforma dell’esercito che viene convenzionalmente definita “manipolare”. La centuria, che
contava all’incirca 50/60 uomini, venne abbandonata e si optò per spezzare la legione non solo
orizzontalmente per funzioni, ma anche verticalmente per un’unità.
La legione infatti veniva schierata su tre linee che svolgevano ruoli diversificati: sulla fronte dello
schieramento gli hastati, truppe scelte con armamento completo che si muovevano per prime
contro il nemico; seguivano i princeps, truppe di rincalzo che combattevano a falange; ancora dopo
i triarii, che venivano mobilitati solo le prime due linee non avevano avuto successo. Vi era poi in
realtà un’altra linea di fanti armati alla leggera con funzione di supporto, i velites. A destra e sinistra
di questo schieramento vi erano 300 cavalieri divisi in due squadroni.
Con la riforma manipolare ognuna delle tre linee (hastati, princeps e triarii) fu frazionata in 10
manipoli, per un totale di 30 formazione. A questa nuova unità di combattimento fu aggiunta
la coorte, risultato dell’unione di un manipolo di astati, uno di principi e uno di triari. La legione
poteva suddividersi in articolazioni autonome.
Questa riforma fu la premessa per lo svuotamento militare e politico della centuria, si affermerà la
modalità di reclutamento per tribù e l’assemblea dei comizi tributi, addetti all’elezione di magistrati
minori. Venne inoltre omologato anche l’equipaggiamento dei soldati, non più così differenziato in
base al censo come con la riforma dell’esercito serviano.
Accanto alle legioni c’erano le truppe ausiliarie fornite dagli alleati italici e dalle colonie latine, a cui
ogni anno i consoli avanzavano richieste di contingenti.

ESPANSIONISMO DI III SECOLO A.C.


Scontro con gli Etruschi (284 – 282)
Gli Etruschi, il cui territorio era ormai limitato alla Toscana e al Lazio settentrionale, si schierarono
con i Galli Boi in una nuova offensiva contro i Romani, con l’obiettivo di penetrare nell’Italia
centrale. Roma nel 283 riuscì ad avere la meglio presso il lago Vadimone grazie alla campagna
promossa dal console plebeo Manio Curio Dentato. Questa guerra segnò la fine dell’indipendenza
etrusca: tutte le città etrusche siglarono patti separati con Roma, che provvide a fondare le colonie
di Rimini (268) e Luni (177) a presidio militare dei nuovi territori.

Guerra contro Taranto e Pirro (282 – 275)


Taranto, colonia spartana e una delle più ricche e potenti città del meridione, da tempo si
prodigava per salvaguardare non solo la propria indipendenza dalle incursioni di Bruzi e Lucani,
popolazioni appenniniche e montane dell’entroterra affini ai Sanniti, ma anche il proprio ruolo
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egemonico sulle altre città italiote della Magna Grecia. Nel 302 Roma e Taranto avevano stretto
un’alleanza in funzione anti-sannitica e Roma si era impegnata a non navigare oltre il capo Lacinio,
limite occidentale del golfo di Taranto.
Tra il 285 e il 282 la città italiota di Turi chiese aiuto a Roma contro la minaccia dei Lucani. Roma
inviò una guarnigione militare e posizionò la propria flotta davanti a Taranto, violando il trattato.
Taranto interpretò questo gesto come un segno di sfida e si rivolse a Pirro, re dell’Epiro, affine alla
città anche dal punto di vista culturale. Pirro intervenne e presentò infatti la sua azione bellica in
Italia come difensiva della grecità d’occidente, dipingendosi come il discendente di Achille in
guerra contro i discendenti di Enea, i Romani. Fu proprio nel contesto della dialettica contro Pirro,
che la considerava barbara, che Roma sentì il bisogno di nobilitare le proprie origini. Per la prima
volta comunque Roma si trovò ad affrontare un esercito di stampo ellenistico, erede delle tattiche
di Alessandro Magno e che poteva contare su contingenti di mercenari e l’impiego di elefanti.
Roma, provata dalle guerre sannitiche, fu messa in difficoltà da Pirro. Egli aprì un fronte a nord e
coalizzò in suo favore le forze di Bruzi e Lucani; riuscì a sconfiggere i Romani a Eraclea (280) e
Ascoli Satriano (279). Tali vittorie furono però momentanee e non permisero a Pirro di concludere
vittoriosamente la guerra; aveva infatti riportato moltissimi caduti e il suo esercito era indebolito, a
differenza di quello di Roma che poteva contare su un continuo rinnovo delle forze belliche grazie
agli alleati. In questo frangente Roma ricorse anche all’arruolamento dei nullatenenti che prima
svolgevano solo compiti ausiliari. Tra Pirro e Taranto inoltre stavano sorgendo dei dissensi a causa
delle mire espansionistiche del re dell’Epiro verso Taranto stessa e la Sicilia, dove si recò per farsi
promotore della “crociata” di liberazione anche dei Greci di Sicilia.
Nel frattempo nel 279 venne rinnovato il trattato d’alleanza tra Roma e Cartagine.
Nel 275 avvenne lo scontro definitivo tra Pirro e Roma nei pressi di Malevento. Grazie alla guida
del console Manio Curio Dentato Roma riuscì a prevalere e, per questo motivo, il luogo della
battaglia cambiò nome in Benevento. Per Roma a questo punto si aprì la strada verso il sud Italia:
Taranto fu costretta a consegnare degli ostaggi, ospitare una guarnigione romana e siglare,
insieme a tutte le altre città italiote sotto la sua influenza, un’alleanza con Roma che comportò uno
spostamento definitivo degli equilibri. con la stipula di questo foedus Roma si avvalse poi
dell’imponente e tecnologicamente avanzata glotta tarantina: l’embrionale flotta di Roma si avviò a
diventare quella di una potenza su scala mediterranea.
Nel 273 venne inviata a Roma un’ambasceria del re d’Egitto Tolomeo, simbolo dell’irreversibile
espansione dell’egemonia di Roma verso sud. La fonte di ciò è Timeo di Tauromenio.

CONQUISTA DEL MEDITERRANEO TRA III E II SECOLO A.C.


La prima guerra punica (264 – 241)
La guerra contro Pirro diede il via alla conquista romana del Mediterraneo, detta età
dell’imperialismo, snodata in vari frangenti cruciali. Il primo tra questi è quello delle guerre
puniche, che portarono Roma a conquistare il dominio della rotta mediterranea sulla quale fino a
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quel momento Cartagine aveva avuto il monopolio. Polibio nelle Storie insiste particolarmente sul
conflitto con Cartagine, considerandolo appunto una premessa dell’inarrestabile percorso di Roma
verso il dominio del Mediterraneo. Polibio attribuisce alla superiorità romana una matrice etica, si
sofferma a narrare di come nei momenti di difficoltà più acuta Roma abbia sempre dimostrato di
essere una potenza integerrima dal punto di vista morale, ad esempio rifiutandosi di riscattare i
propri prigionieri in mano al nemico pur di non trattare e dimostrarsi debole.
Cartagine era un vero e proprio impero marittimo governato da un’aristocrazia mercantile e che
poteva contare su una flotta agguerrita e truppe di mercenari; grazie a ciò era in grado di
controllare le coste dell’Africa settentrionale, la Spagna meridionale, la Sardegna, la Corsica e la
Sicilia occidentale. Grazie alle sue capacità nautiche Cartagine riuscì ad arrivare fino in
Cornovaglia e, con Annone, a circumnavigare l’Africa fino alle coste della Guinea. Era una potenza
commerciale affermata soprattutto nel commercio di metalli (stagno in Britannia, rame e altri metalli
in Penisola Iberica), ma aveva anche messo a punto mezzi di sfruttamento agricolo molto efficienti.
Apparentemente quindi lo scontro con Roma era impari, per quanto i suoi possedimenti in Italia
fossero recentemente passati da 5500 a 7000 kmq.
Il casus belli fu dato dall’occupazione di Messina da parte dei Mamertini, mercenari campani che
si erano impadroniti della città con un colpo di mano. Per sostenere le loro rivendicazioni chiesero
aiuto ai Cartaginesi, che rifiutarono, e poi a Roma. Secondo Polibio il senato lasciò all’assemblea
popolare il compito di decidere se accogliere o meno la richiesta d’aiuto di Messina e questa
accettò, convinta dalle lusinghe dei consoli che prospettavano ricchi bottini di guerra. Grazie alla
deditio di Messina nel 264 Roma potè intervenire, infrangendo il trattato con Cartagine e dando il
via alla prima guerra punica.
Le battaglie principali del conflitto furono marittime e Roma riuscì a vincere contro Cartagine,
dotata di una flotta migliore, grazie all’espediente tecnico dei corvi, ovvero delle passerelle mobili
dotate di arpioni sommitali che agganciavano saldamente le navi nemiche e consentivano il
combattimento corpo a corpo. La flotta cartaginese venne sconfitta a Milazzo nel 260, a Capo
Ecnomo nel 256 e nella battaglia decisiva presso le isole Egadi nel 241. L’ammiraglio punico
Amilcare, soprannominato Barca (= “Fulmine”), subì una grave sconfitta e fu costretto a trattare la
resa.
Roma in realtà provò anche ad attaccare Cartagine stessa, impresa non facile perché i Cartaginesi
potevano contare sulle truppe mercenarie dello spartano Santippo, che riuscì a catturare il console
Marco Attilio Regolo.

Al termine della guerra:


 Cartagine: costretta a ritirarsi dalla Sicilia, consegnare tutti i prigionieri di guerra e pagare
un tributo in talenti d’oro
 Roma: nel 241 la Sicilia divenne la prima provincia romana, anche se la provincializzazione
vera e propria avvenne nel 227  fino a quel momento provincia = zona gestita da un
magistrato, d’ora in poi = territorio acquisito da Roma e collocato oltremare/lontano
dall’Urbe. Dopo essersi ribellate a Cartagine, anche Corsica e Sardegna divennero
province. Il regno di Siracusa rimase formalmente indipendente ma suo amico e alleato.
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Le guerre illiriche (230 – 229 e 219)


Il progetto egemonico di Roma sulle rotte marittime non si limitava al comprensorio tirrenico, ma si
estendeva anche all’area adriatica dove, sulla sponda italica, contava ormai ben tre colonie:
Rimini, Senigallia e Brindisi. Per questo motivo decise di arginare la pirateria degli Illiri,
popolazione stanziata in aree corrispondenti all’Albania e al Montenegro che condizionava
pesantemente i traffici per mare operando ruberie e sequestri, imponendo dazi e intermediazioni
forzose a danno dei mercanti greci e italici. Il casus belli fu dato dall’uccisione di uno degli inviati
romani da parte della regina illirica Teuta. Con la prima guerra illirica, 230 – 229 a.C., i Romani si
affacciarono per la prima volta alla sponda orientale dell’Adriatico. Roma riuscì a vincere grazie
all’appoggio del greco Demetrio, ricompensato con la concessione del dominio dell’isola di Faro,
ex territorio illirico prospiciente alla costa dalmata. Dopo la guerra Roma insediò i suoi avamposti a
Epidamno e Apollonia.
Nel frattempo Roma iniziava anche ad acquisire un nuovo status agli occhi dei Greci: nel 228 i
Romani vennero invitati ai Giochi Istmici, di cui parla Livio. Con il tempo, grazie all’accrescimento
del suo potere nel Mediterraneo e a meccanismi di auto-rappresentazione di stampo
propagandistico, Roma verrà considerata sempre più allo stesso livello dei sovrani ellenici.

La seconda guerra illirica fu combattuta vittoriosamente nel 219 contro Demetrio di Faro, che si
era approfittato del potere concessogli e aveva attaccato i possedimenti romani.

Il fronte cisalpino
La conquista dell’egemonia sulle rotte del Mediterraneo occidentale aveva assorbito risorse ed
energie della Repubblica e comportato una momentanea sospensione della deduzione di colonie e
l’assegnazione di terre. Nella seconda metà del III secolo si generò quindi in senato una
divaricazione di orientamenti tra gli esponenti sostenuti da clientele dedite all’artigianato e al
commercio, che erano stati favoriti dall’apertura di nuove rotte mercantili via mare, e quelli
sostenuti da clientele contadine, che prediligevano un espansionismo volto all’acquisizione di
nuove terre da distribuire e coltivare. Per soddisfare le esigenze di questo secondo si puntò a
proseguire l’espansione verso il nord della penisola e l’occasione si presentò quando si produsse
un nuovo tumultus Gallicus, ovvero un’invasione di Celti. Gli scontri con i Galli non erano solo di
territorio ma anche di cultura e stile di vita: erano ad esempio popolazioni composte da pastori e
cacciatori che praticavano il sacrificio umano, considerato dai Romani un uso barbarico.
Le tensioni pre-esistenti scoppiarono quando Roma decise di assegnare a dei suoi cittadini i
territori delle attuali Marche ed Emilia Romagna, a presidio dei suoi possedimenti. Questo infastidì
i Galli, in particolare i Boi, che si allearono contro Roma insieme agli Insubri e i Gesati. I Romani
si assicurarono l’alleanza dei Galli Cenomani, stanziati nel Veronese, e dei Veneti. L’incursione
celtica venne fermata dalle legioni presso Talamone, sulla costa etrusca, nel 225.
I Romani passarono al contrattacco e penetrarono in Pianura Padana, dove nel 222 sconfissero la
resistenza dei Galli presso Clastidium (Casteggio). Si spinsero poi fino a conquistare Milano,
capitale degli Insubri.
I Galli Boi vennero trattati duramente, mentre le popolazioni a nord del Po ottennero un patto di
alleanza non del tutto sfavorevole.
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Per scongiurare altre invasioni da nord i Romani lastricarono la via Flaminia e la via Emilia;
fondarono la colonia dell’attuale Bologna e di Aquileia (fondamentale per i commerci verso il Mar
Baltico e il nord-est Europa, soprattutto d’ambra). Nel 218 a custodia della Cisalpina vennero
dedotte anche le colonie militari di Cremona, a nord del Po, e Piacenza, a sud.
L’occupazione romana della Pianura Padana venne interrotta nella primavera del 218
dall’invasione del cartaginese Annibale, figlio di Amilcare, al quale si dice che il padre avesse fatto
giurare eterno odio contro i Romani.

La seconda guerra punica (219 – 202)


La seconda guerra punica fu per Roma una guerra difensiva. Il pretesto dello scontro si produsse
in Spagna, dove la famiglia cartaginese dei Barca si era insediata ed era riuscita a estendere la
propria egemonia. Questa politica intraprendente non era vista di buon occhio da Roma, che
strinse un’alleanza strategica con la città greca di Marsiglia. Nel 226 strinse con Cartagine il
trattato dell’Ebro, così chiamato perché segnava il corso del fiume come limite delle rispettive
aree di influenza nella penisola iberica.
Annibale attaccò deliberatamente la città di Sagunto, collocata a sud del fiume (dominio
cartaginese) ma già precedentemente alleata di Roma. Sagunto mandò una richiesta di soccorso a
Roma ma, mentre il senato decideva sul da farsi, Cartagine riuscì a espugnarla.
Annibale decise di arrivare in Italia da nord, proseguendo via terra per tutto il percorso anche dopo
aver varcato il Rodano. Valicò i Pirenei, eluse la sorveglianza delle legioni romane inviate a
intercettarlo in Gallia meridionale e durante l’inverno oltrepassò le Alpi con tutto il suo esercito,
compresi cavalleria ed elefanti.

La strategia di Annibale si fondava su due direttrici progettuali:


a) Alienare a Roma l’alleanza delle comunità italiche, che nella prima guerra punica le
avevano garantito la vittoria grazie al rifornimento di uomini e mezzi
b) Aprire nuovi fronti su cui Roma fosse chiamata a combattere in modo da allentare la
pressione nei luoghi in cui si scontrava con Cartagine

Tale strategia in un primo momento si rivelò vincente:


 Celti, Padani e Liguri si allearono con Cartagine, appoggiata anche da Libri, Iberi e Numidi
 Roma venne sconfitta presso i fiumi Ticino e Trebbia e perse il controllo della Cisalpina
 L’anno successivo, nel 217, le legioni furono annientate a causa di un’imboscata di
Annibale presso il lago Trasimeno. Roma perse 15.000 uomini e il console Gaio Flaminio
morì sul campo
 Il dittatore Quinto Fabio Massimo cercò di imporre invano una strategia di logoramento e
attendismo, ma le devastazione compiute dai Cartaginesi in Italia meridionale indussero gli
alleati a richiedere un nuovo scontro campale. La battaglia avvenne il 2 agosto 216 a
Canne, nella piana dell’Ofanto, e fu una delle più devastanti sconfitte patite dall’esercito
romano, che venne accerchiato e battuto dai Cartaginesi nonostante la loro inferiorità
numerica. Roma perse tre legioni ed entrambi i consoli e altri esponenti importanti
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 L’esito disastroso indusse i Greci d’Italia meridionale e molti altri popoli appenninici alla
defezione da Roma, che perse anche la Sicilia. Le città dell’Italia tirrenica, i cui ceti dirigenti
erano entrati in senato, rimasero fedeli a Roma. Capua, sperando di sostituirsi all’Urbe
nell’egemonia italica, accolse Annibale. Questi riuscì a stringere un trattato di alleanza in
funzione anti-romana anche con Filippo V, re di Macedonia.

A Roma, di fronte a un quadro tanto drammatico, si impose la strategia attendista di Quinto Fabio
Massimo, detto il Temporeggiatore. Egli incrementò le leve militari, evitò scontri diretti e impedì che
truppe fresche raggiungessero Annibale dalla Spagna (dove si stavano imponendo gli Scipioni). I
Romani furono sconfitti in molte altre battaglie e persero molti esponenti dell’aristocrazia plebea e
patrizia, ma a partire dal 211 iniziarono la loro rivincita:
 Nel 211 Capua, “capitale” dell’Italia annibalica, fu costretta alla resa. Il Temporeggiatore
aveva infatti deciso di farle terra bruciata intorno per prendere il nemico per la fame. Nello
stesso anno fu ripresa Siracusa, in quello successivo tutta la Sicilia e Taranto
 Nel 209 iniziò a operare in Spagna il giovane Publio Cornelio Scipione, che sarà poi
soprannominato l’Africano, membro dell’illustre famiglia dei Corneli Scipioni. A 25 anni,
nonostante avesse ricoperto solo la carica di edile, il voto popolare gli affidò il comando
delle truppe in Spagna (dove il padre e lo zio erano morti) in qualità di proconsole. Grazie al
suo carisma e genio tattico in soli tre anni di straordinari successi annientò l’egemonia
cartaginese in Spagna. Qui fondò la città di Italica e vi stanziò i propri veterani. Ricevette
dai soldati il titolo onorifico di imperator, ovvero generale vittorioso
 Nel 207 a Metauro vennero sconfitti i rinforzi cartaginesi che il fratello di Annibale,
Asdrubale, stava conducendo in Italia. La testa di Asdrubale fu gettata nell’accampamento
punico, sempre più confinato all’estremità meridionale della penisola. Dopo un assedio a
Crotone abbandonò l’Italia
 Scipione decise di spostare la guerra in Africa, decisione non scontata ma vincente perché
costrinse Annibale a seguire l’esercito romano fino a là e lasciare i suoi domini in Italia
 Nel 206 Roma vinse a Cartagena
 Nel 202 nella pianura di Zama avvenne lo scontro finale e Annibale venne sconfitto. Si
rifugiò in Oriente, dove fu ospitato da Antioco III, re di Siria.
Scipione impose la pace a Cartagine a condizioni durissime, che sancirono il definitivo tramonto
dell’egemonia punica sul mare e il controllo di Roma su tutto il Mediterraneo occidentale.

La prima guerra macedonica (215 – 205)


Nel 215 le legioni romane ripresero il mare alla volta dell’Oriente, dove le grandi potenze erano le
eredi dell’impero di Alessandro Magno, transitato prima nelle mani dei suoi generali, i diadochi, e
ora in quelle dei suoi successori. In Egitto i Tolomei, in Macedonia gli Antigonidi, in Siria i
Seleucidi, nel regno di Pergamo gli Attalidi. Vi era poi una costellazione di piccoli regni
indipendenti: il Ponto, la Paflagonia, la Galazia, la Cappadocia e la Commagene.
La prima guerra macedonica si configurò come un’appendice del conflitto punico. Nel 215 Annibale
aveva stretto un’alleanza con il re di Macedonia Filippo V, che mirava a estendere la propria
influenza sull’Adriatico. I Romani riuscirono però a intercettare la nave su cui viaggiava il testo
dell’accordo tra Annibale e Filippo e, valorizzando in ottica anti-macedone le relazioni diplomatiche
che intrattenevano con numerose poleis greche fin dal tempo delle guerre illiriche, diedero vita a
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una coalizione ostile al re macedone. Tale coalizione era guidata dalla Lega Etolica, partner di
Roma dal 212 – 211, e ne facevano parte anche Atene e il regno di Pergamo. Nel 206 in realtà la
Lega Etolica siglerà un patto separato con Filippo, tradendo i Romani e costringendoli a chiudere
la guerra in modo frettoloso e poco soddisfacente. Nel 205 infatti le ostilità tra Roma e la
Macedonia vennero concluse con la pace di Fenice, siglata in Etolia, che di fatto riconosceva gli
equilibri di forze precedenti il conflitto.

La seconda guerra macedonica (200 – 197)


Roma non aveva particolare interesse interesse a protrarre il conflitto con la Macedonia mentre era
ancora impegnata con le guerre puniche (aveva siglato la pace di Fenice proprio per questo), ma
ben presto le mire espansionistiche di Filippo determinarono ulteriori tensioni lungo le coste
dell’Asia Minore e nel mar Egeo, fino allo scoppio della seconda guerra macedonica.
Filippo V riuscì a portare dalla sua parte il regno di Pergamo e Rodi, precedentemente alleati di
Roma. Questo costrinse l’Urbe, affaticata dal conflitto punico ma al tempo stesso spaventata
dall’idea di un’invasione e desiderosa degli introiti che sarebbero stati generati da un conflitto in
Oriente, a un’azione diretta: nel 200 inviò a Filippo un ultimatum. In realtà i comizi centuriati
avevano già deciso per la guerra, ma questa richiesta a Filippo permetteva a Roma di entrare nel
conflitto in virtù di liberatori della Grecia di fronte alla minaccia dell’invasione macedone. La
seconda guerra macedonica segnò infatti l’inizio dell’intervento romano nel mondo greco su larga
scala.
Nel 200 i Romani varcarono l’Adriatico sotto il comando del console Publio Sulpicio Galba, ma per
due anni non si registrarono eventi decisivi. Nel 198 il comando delle truppe fu affidato a Tito
Quinzio Flaminio, il cui operato fu efficace sia sul capo che per quanto riguarda la gestione
propagandistica del conflitto: tramite l’imposizione a Filippo dello sgombero della Tessaglia,
occupata dai Macedoni fin dal tempo di Alessandro Magno, portò avanti la visione di Roma come
liberatrice della Grecia e ottenne anche l’appoggio della Lega Achea, tradizionale alleata
macedone.
Filippo V avviò le trattative di pace ma il console Flaminio, ottenuta la proroga del proprio incarico,
decise di sbaragliare prima i macedoni sul campo, a Cinocefale nel 197.
La Macedonia sconfitta mantenne la sua autonomia, ma fu costretta a rinunciare alla propria flotta,
ritirarsi dalla Grecia e pagare una consistente indennità di guerra. Nel 196 a Corinto, nel corso dei
Giochi Istmici, Flaminino proclamò la libertà della Grecia; impose alle comunità greche il
pagamento di un tributo e stabilì che delle guarnigioni romane presidiassero gli ex territori
macedoni, ma dimostrò che Roma, in quel momento, non aveva interesse a instaurare un controllo
diretto sulla Grecia (in realtà in questo frangente non ne aveva proprio le capacità). Il dialogo tra
Roma e Grecia comunque si fece sempre più evidente e pari. In onore di Tito Quinzio Flaminio
venne coniato uno statere d’oro (moneta greca) che riportava il suo nome e la sua immagine con
tratti estetici e culturali tipicamente greci, ad esempio nel modo di portare la barba e i capelli.

La guerra siriaca (192 – 188)


I nuovi equilibri instaurati dopo la seconda guerra macedonica lasciavano insoddisfatta la Lega
Etolica: in base all’accordo del 212 – 211, le nuove comunità transitate dalla dalla loro parte o da
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quella dei Romani sarebbero dovuti confluire nell’orbita etolica. Con la liberazione della Grecia nel
196 Roma aveva disatteso tali condizioni (si trattava anche probabilmente di una ritorsione per il
patto degli Etoli con Filippo V durante la prima guerra macedonica).
Gli Etoli giunsero allora a un accordo anti-romano con Antioco III, re di Siria, che non vedeva di
buon occhio l’ingerenza dell’Urbe in Asia Minore. Insieme nel 192 mossero guerra contro i Romani,
appoggiati dalla Macedonia.
Nel 191 Roma vinse alle Termopili e, dopo numerosi scontri vittoriosi per mare e per terra, ebbe
definitivamente la meglio a Magnesia sul Silipo nel 189. Nel 188 venne siglata con il re di Siria la
pace di Apamea, che definì le seguenti condizione di pace:
1) Distruzione della flotta siriaca
2) Pagamento di una consistente indennità di guerra
3) Sgombero dei territori a ovest e nord della catena del Tauro, che venne divisa in due: Lidia
e Caria passarono a Rodi, quanto rimaneva al regno di Pergamo (alleati di Roma)
4) Liberazione delle città che che fin dall’inizio della guerra si erano schierate con Roma
5) Consegna di Annibale, che riuscì però a scappare in Bitinia, dove si suicidò nel 183.

Processo degli Scipioni: al termine della guerra siriaca Marco Porcio Catone imbastì un processo
contro Publio Cornelio Scipione l’Africano e il fratello Lucio Cornelio Scipione l’Asiatico, che aveva
guidato le operazioni in Oriente in qualità di console dal 190. Gli Scipioni vennero accusati di
cospirare contro il senato, essersi fatti corrompere da Antioco III e essersi indebitamente
appropriati dell’indennità di guerra. Vennero chiamati a presentare il registro dei conti e delle
operazioni che ogni magistrato romano era tenuto a rendicontare al senato e al popolo, che loro
però non erano stati in grado/non avevano voluto fare in questo frangente. Scipione l’Africano
preferì ritirarsi volontariamente in esilio a Literno, dove visse spartanamente tra i propri soldati ex
soldati e morì pochi anni dopo.

La terza guerra macedonica (171 – 168)


Nel 179 Filippo V di Macedonia morì e gli successe il figlio Perseo, animato da volontà di rivalsa
contro Roma, volenteroso di sottrarle il ruolo di garante della libertà della Grecia. Nel 171 si arrivò
alla guerra e, dopo una serie di operazioni militari di scarsa efficacia per entrambi i contendenti, nel
168 a Pidna venne combattuto lo scontro decisivo. Perseo venne condotto prigioniero a Roma e
fatto sfilare al trionfo del console Lucio Emilio Paolo (da questo momento soprannominato il
Macedonico); venne trasferita a Roma anche la biblioteca di Perseo. Con questa guerra viene
segnata la fine del regno di Macedonia: Roma non lo assoggettò ma lo divise in quattro distretti
indipendenti, ciascuno dei quali era tenuto a versarle un tributo perpetuo. Allo stesso modo l’Illiria,
principale partner della Macedonia durante la guerra, venne divisa in tre distretti.
Il bottino di guerra inoltre fu così elevato che Roma riuscì a sopprimere il tributum, cioè l’imposta
sulle proprietà dei cittadini romani creata al tempo dell’assedio di Veio per finanziare lo stipendium
dei soldati. A partire da questo momento solo le popolazioni assoggettate, i provinciali, furono
tenute al pagamento di tale tassa. A proposito del bottino di guerra, Cicerone sostiene che Lucio
Emilio Paolo non ne avesse tenuto nemmeno una parte per sé, ma si fosse accontentato della sola
gloria, notizia che non possiamo confermare ma che testimonia un tratto importante della società
romana, ovvero la moderazione verso il lusso; in una società timocratica come quella romana era
infatti fondamentale non esagerare con la tracotanza, almeno idealmente.
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Tutti coloro che avevano sostenuto la causa della Macedonia vennero puniti, tra questi anche la
Lega Achea (Grecia divisa in federazioni di stati), che venne costretta a consegnare e deportare
nell’Ubs mille esponenti politici sgraditi a Roma. Tra di loro c’era anche Polibio di Megalopoli, figlio
di uno dei comandanti della Lega, che rispetto ad altri compatrioti ebbe una sorte favorevole: entrò
in contatto con la famiglia degli Scipioni, che a differenza di altri vedevano di buon occhio il mondo
greco, e iniziò a frequentare i loro circoli, facendo da maestro a Scipione l’Emiliano e
accompagnandolo in alcuni dei suoi viaggi a Cartagine e Corinto, riuscendo anche a rivestire il
ruolo diplomatico di mediatore. A metà del II secolo scrisse le Storie.
Anche Rodi venne punita da Roma: fu privata dai territori acquisiti in seguito alla guerra siriaca e
perse molti dei suoi introiti a causa della creazione romana del porto franco di Delo.

La quarta guerra macedonica (150 – 148)


Andrisco, che si dichiarava figlio di Perseo, si fece promotore di una riunificazione della
Macedonia sotto il suo comando. Grazie a Quinto Cecilio Metello e Lucio Emilio Paolo Roma riuscì
a sconfiggerlo.
La Lega Achea provò a ribellarsi ai Romani e unirsi ad Andrisco, Roma la sconfisse e rase al suolo
Corinto, una delle città più importanti della Lega insieme a Megalopoli. Nel 146 vennero istituite la
provincia di Acaia e di Macedonia.

La terza guerra punica e la distruzione di Cartagine (149 – 146)


Cartagine, nonostante l’imposizione di condizioni di pace molto dure post seconda guerra punica,
era riuscita a risollevarsi, riprendere la propria politica espansionistica nel territorio limitrofo e
addirittura pagare con anticipo l’indennità bellica. Questa cosa preoccupava moltissimo i Romani,
soprattutto considerando che la nemica storica si trovava a soli tre giorni di navigazione dall’Urbe.
Grazie a tale timore, l’insistenza di Catone il Censore (“Carthago delenda est”) e la prospettiva dei
vantaggi che sarebbero derivati dall’acquisizione di un territorio produttore di grano, i comizi
decisero per la guerra.
Il casus belli fu la tensione scaturita tra Cartagine e il regno di Numidia, alleato dei Romani e
ampliato da loro in seguito alla fedeltà del regno durante la guerra annibalica. Cartagine contestò
l’arbitrato romano e, dopo un tentativo di accordo, si diede il via al conflitto armato. Nel 147 Roma
affidò il comando a Publio Cornelio Scipione l’Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo adottato da
Publio Cornelio Scipione, figlio dell’Africano che non aveva potuto avere figli propri (  Publio
Cornelio Scipione l’Emiliano ha come cognomen Emiliano, dal padre biologico, e come gentilizio
Scipione, dalla famiglia del padre adottivo). Scipione l’Emiliano in realtà era privo dei requisiti per
svolgere l’incarico di generale, ma nonostante questo dopo un lungo assedio riuscì a vincere.
Su ordine di Scipione l’Emiliano Cartagine venne saccheggiata e rasa al suolo, per poi essere
ricostruita come colonia romana; nel suo ex territorio nel 146 fu istituita la provincia romana
d’Africa Vetus.
Polibio attribuisce a Scipione l’Emiliano un discorso in cui questi si mette nei panni del nemico e
dice di temere che un giorno la sorte disastrosa toccata a Cartagine possa colpire anche Roma.
Polibio fornisce così un ritratto idealizzato di Scipione l’Emiliano, dipinto come il condottiero per
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eccellenza, vincitore anche grazie alla superiorità morale che per l’autore contraddistingueva i
Romani. Al tempo stesso Polibio espone la sua teoria secondo cui esiste un ciclo dei governi e la
storia non è stabile ma sottoposta a rovesci (anaciclosi).
L’annientamento di Cartagine segnò un’ulteriore svolta nella storia romana in quanto pose fine al
metus hostilis, la paura che i Romani avevano dei loro nemici. Secondo la parte della classe
dirigente romana contraria alla distruzione di Cartagine tale paura era utile perché Roma, spinta
dal timore di un potenziale attacco nemico, avrebbe sempre mantenuto un comportamento retto e
adeguato a essere sempre pronta per respingerlo. Gran parte della storiografia romana data al
146, anno della distruzione di Cartagine e della fine di tale paura, l’inizio del degrado morale che si
sarebbe riverberato nella vita politica e avrebbe portato alla crisi della repubblica.

La Spagna provincia romana (197)


All’indomani della seconda guerra punica, nel 197, Roma ereditò i possedimenti spagnoli di
Cartagine. La penisola iberica fu provincializzata e vennero create due province, il cui confine era
collocato circa all’altezza di Nova Carthago:
1. Spagna Citeriore = più vicina all’Italia, costa nord-orientale. La capitale è Tarragona
2. Spagna Ulteriore = più distante dall’Italia, costa sud-occidentale. Comprende anche la
Betica (valle del Betis). La capitale è Cordova

La conquista della Spagna non fu facile per i Romani, al punto che la provincializzazione venne
completata solo in età augustea, nel 19 a.C. La difficoltà era data sia dalla conformazione
geomorfologica del territorio, che non rendeva semplice lo scontro in campo aperto, che dalle
ribellioni delle popolazioni spagnole. Tra queste c’era in particolare la tribù dei Lusitani, capeggiata
da Viriato, che impegnò le legioni romane tra il 147 e il 139. Nei confronti delle popolazioni ribelli
Roma ricorse sia dialogo che, soprattutto, all’intransigenza e alla repressione.
Nel 137 Roma si impegnò nell’assedio della città di Numanzia. All’inizio il comando venne affidato
al console Gaio Ostilio Mancino, che accettò una pace disonorevole, il cui negoziatore per Roma
fu il questore Tiberio Sempronio Gracco. Il comando fu poi affidato a Scipione l’Emiliano, che nel
133 conquistò Numanzia e la rase al suolo. La tribù dei Celtiberi, con cui Roma si era scontrata più
volte nel corso del II secolo, venne repressa altrettanto duramente.

L’egemonia nell’Italia settentrionale


Fin dall’inizio del II secolo, quando la colonia di Piacenza era stata espugnata dai Celti reduci dal
mercenariato agli ordini di Annibale, Roma aveva dovuto affrontare il problema del consolidamento
dell’egemonia nell’Italia settentrionale, in Gallia cisalpina, dove nel corso della seconda guerra
punica si erano registrate diverse defezioni.
Con le tribù celtiche insediate a nord del Po, Insubri e Cenomani, vennero siglati trattati di alleanza
e fu mantenuta la loro autonomia. Con le tribù a sud del Po, in particolare Liguri e Galli Boi,
vennero adottate invece strategie più dure: confische e deportazioni nel Sannio. Vennero dedotte
le colonie di Bononia, Reggio, Modena, Parma, Cremona, Aquileia; Piacenza venne ripresa sotto il
controllo romano.
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Roma non si limitò a consolidare la propria presenza nel nord Italia, fronte cisalpino, ma si
espanse anche in Gallia Transalpina, Francia meridionale. Marsiglia, colonia greca molto fedele a
Roma, la spinse a intervenire contro la tribù locale dei Salluvii. Nel 122 venne dedotta la colonia di
Aix en Provence e nel 118 quella di Narbonne (Narbo Martius) . Nel 121 venne istituita la provincia
della Gallia Transalpina, che nel 118 cambiò nome in Gallia Narbonense come conseguenza della
deduzione di Narbonne, che ne divenne la capitale.

Nel 133 Roma acquisì ulteriore territorio senza bisogno di conquiste militari: il re di Pergamo morì
e lasciò il proprio regno in eredità al popolo romano, che lo trasformò nella provincia d’Asia.

Ordinamento provinciale
A partire dalla conquista della Sicilia al termine della prima guerra punica, Roma si trovò ad
amministrare per la prima volta dei territori extra-italici e adottò l’ordinamento della provincia. Dal
III secolo vennero definiti province i territori nemici arresi a un generale romano e i cui abitanti
fossero entrati nella categoria di “sudditi che si sono arresi”, cioè privi di diritti politici. La procedura
per costituire una provincia prevedeva una serie di azioni controllate da una commissione di dieci
delegati scelti dal senato e dal generale vittorioso, che si concludevano con l’emanazione dello
statuto provinciale e il loro rientro a Roma. Da quel momento la provincia veniva amministrata da
un governatore, che a seconda delle circostanze poteva essere un pretore o un console a cui
veniva concesso di prorogare la propria magistratura oltre l’anno (prorogatio imperii) e diventare
propretore o proconsole (ex console mantiene comando legioni). Il governatore provinciale veniva
assistito da un quadro dirigente che andò precisandosi nel corso dell’età repubblicana: vi era un
questore, adibito a compiti amministrativi e finanziari, dei legati nominati dal senato con compito di
collegamento e delega, dei consiglieri privati e giovani rampolli dell’aristocrazia. L’incarico durava
due o tre anni  le regole molto rigide del sistema repubblicano con l’accrescere dell’influenza di
Roma iniziarono a essere violate (vedi Scipione l’Africano e Scipione l’Emiliano).

CONSEGUENZE SOCIO-ECONOMICHE DELL’IMPERIALISMO ROMANO


L’ampliamento del controllo di Roma sulle aree affacciate al Mediterraneo ebbe un impatto socio-
economico molto rilevante. Il regime oligarchico era composto da una ventina di famiglie di
nobilitas patrizio-plebea che monopolizzava i vertici delle magistrature. Durante il III secolo però si
verificò un’apertura in due direzioni:
 apertura geografica – alleati italici possono essere eletti a Roma ed entrare in senato (lo
stesso Catone il Censore faceva parte delle classi dirigenti romano-italiche)
 apertura verso il basso – possibilità di ascesa politica aperta anche gli homines novi,
provenienti da famiglie che non appartenevano all’ordine senatorio ab origine e non
avevano quindi già dato magistrati alla Repubblica  per una simile ascesa c’era bisogno
di legami clientelari e con esponenti di famiglie aristocratiche e di un cospicuo patrimonio,
in quanto le magistrature a Roma erano gratuite.
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L’espansionismo romano non favorì solo la classe dirigente, che andava affermandosi ed
elaborando nuove regole per controllare gli elementi che il mercato aveva introdotto, ma anche:
 mercanti: commercio schiavi (spesso seguivano gli eserciti)
 ceto di artigiani specializzati: acquisizione competenze sul piano tecnico (Es coloro che si
occupavano della flotta)
 piccoli e medi proprietari terrieri: distribuzione terre conquistate, incremento manodopera
grazie a schiavi
 liberti: crebbero di numero e di importanza, le famiglie eminenti emancipavano gli schiavi
per incrementare le clientele e farne massa di manovra nelle assemblee popolari
 schiavi: nexum abolito, raggiunta una certa età venivano liberati
 ceti subalterni: bottini spartiti in parte anche con la popolazione urbana
 alleati di Roma: partecipavano in modo subalterno alla spartizione del bottino
 matrone romane appartenenti all’élite: anche all’ellenizzazione della società riuscirono
progressivamente ad accedere all’istruzione e alle riunioni nella domus, entrando a far pare
ufficiosamente delle dinamiche politiche della Roma repubblicana

Queste trasformazioni portarono anche a forti dibattiti nella classe dirigente, divisa tra l’apertura
all’ellenizzazione -parte capeggiata dagli Scipioni- e la fedeltà al mos maiorum, accompagnata dal
timore che senza metus hostilis Roma potesse cadere in un processo di corruzione e
indebolimento -parte capeggiata da Catone il Censore-. A preoccupare la classe dirigente romana
era anche il sorgere di grandi personalità e le ricadute economiche che questo poteva avere.
I senatori sentirono la necessità di salvaguardare il proprio patrimonio, fondamentale anche per la
loro carriera, basato prevalentemente sulla proprietà terriera. Per questo motivo nel 218 venne
emanata la Lex Claudia, che vietava senatori di possedere navi commerciali di capacità superiore
a 300 anfore, considerato numero sufficiente per trasportare il quantitativo di produzione agricola
adeguato al mantenimento di una famiglia senatoria per un anno. Il commercio nella forma mentis
romana era concepito come un’attività disdicevole rispetto alla coltivazione della terra e anche
pericolosa per la stabilità del patrimonio, se le navi fossero naufragate si sarebbe messa a rischio
la famiglia ma anche la gerarchia e l’ordine esistente. Questa limitazione del coinvolgimento della
classe senatoria nel commercio ad ampio raggio era quindi un meccanismo di tutela. Nonostante
ciò, la norma in realtà non venne affatto gradita dai senatori (fu votata da un plebiscito di comizi
contro il loro parere), ed essi trovarono diversi escamotage per aggirarla, come ad esempio l’uso di
prestanome.
L’economia romana in questo momento si stava muovendo sempre più verso un’economia di tipo
monetario, grazie al contatto con la Grecia si iniziarono ad acquisire anche nuove tecniche di
monetazione.

Il secondo meccanismo di tutela della classe dirigente fu la Lex Villia annalis, che regolamentò:
a) la progressione di carriera per i senatori
b) l’età minima per l’accesso a ogni carica
c) un intervallo di inattività di due/tre anni tra una magistratura e l’altra
Lo scopo della legge era evitare il sorgere e l’affermarsi di personalità troppo potenti. NB era già in
vigore una norma che vietava di iterare la medesima carica prima di dieci anni (iterare le cariche in
quest’epoca era anche una cosa anti-economica).
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Gradualmente si delinearono inoltre degli incarichi sia civili che militari preliminari alla questura. A
ricoprirli era il vigintivirato, ovvero un collegio di 20 uomini eletti dai comizi tributi, per la durata di
un anno.
Gli incarichi civili erano (dal meno al più importante):
1. Triumviri capitali: sovrintendono alle esecuzioni capitali
2. Quattuorviri curatori delle strade (viarum curandarum): responsabili della manutenzione
delle vie, sotto la supervisione degli edili
3. Decemviri addetti a dirimere le liti: giudici nelle cause meno importanti non prerogativa del
pretore o altre corti, concernenti ad esempio lo stato civile dei cittadini in tema di
cittadinanza, manomissioni, adozioni
4. Triumviri monetali: curano la monetazione (numismatica impatto ideologico e
propagandistico fondamentale).

Nell’esperienza romana la carriera per i membri della classe dirigente prevedeva un ripetuto
intersecarsi di incarichi di carattere civile e militare, quindi era richiesta competenza in entrambi i
settori. Dopo il vigintivirato si poteva quindi diventare tribuno laticlavio nell’esercito legionario,
incarico preliminare di natura militare. Il nome deriva dalla fascia purpurea alta che il tribuno di
origine senatoria dei sei al comando di ogni legione portava sulla toga. Il tribuno laticlavio aveva
incarichi di natura burocratico-amministrativa. In seguito verrà accompagnato da cinque tribuni
angusticlavi di rango equestre.

Tempio di Saturno - costruito nel V secolo, tra gli edifici più antichi del Foro, aveva duplice
funzione: cultuale, sede del culto del dio Saturno, e amministrativo-finanziaria, sede dell’erario (da
aes, bronzo, materiale delle prime monete romane) del popolo romano e della tesoreria dello stato
+ archivio della città. I questori a Roma operavano all’interno dell’erario (e in altre sedi per
questioni finanziarie riguardanti altri centri fuori dall’Urbe).
Il tempio di Saturno verrà modificato più volte; per la modifica di edifici ci si avvaleva di parte del
bottino e di opere di evergetismo, Roma entità pre-statuale senza locazione organizzata.

Il nuovo ordine equestre


Nel corso del II secolo si affermò sempre di più un nuovo ceto imprenditoriale dedito ad attività
commerciali, manifatturiere e finanziarie, che iniziò ad accumulare capitali molti ingenti. Le
ricchezze acquisite spesso venivano reinvestite in terra allo scopo di guadagnare rispettabilità
sociale e ottenere una forma di guadagno sicura. Il nuovo ordine è detto equestre, i suoi
appartenenti sono cavalieri, perché lo stato conferì al primo nucleo di imprenditori particolarmente
facoltosi un cavallo pubblico, a riconoscimento della loro importanza. La Repubblica inglobò il
nuovo ordine equestre perché si rese conto di non poterne più fare a meno: tale ceto infatti
suppliva alle carenze di uno stato con un ceto senatorio molto ridotto e privo di un apparato
burocratico pienamente capace di adempiere a tutte le funzioni amministrative.
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Un esempio di ciò sono le società di pubblicani che si erano andate affermandosi, ovvero
consorzi privati che gestivano in qualità di appaltatori alcune attività, come la riscossione delle
tasse, la conduzione di miniere (Es in Spagna) o la realizzazione di opere pubbliche. Le societas di
pubblicani partecipavano alle gare d’appalto e quella che proponeva il prezzo più conveniente
vinceva e riceveva dei soldi dalla Repubblica per portare avanti la propria attività. Gli appalti
generalmente duravano cinque anni e permettevano ai pubblicani di arricchirsi moltissimo: per
poter proporre il prezzo più basso e trarre comunque guadagno questi infatti risparmiavano sui
materiali oppure si rifacevano sui provinciali dell’area di cui erano addetti alla riscossione fiscale,
imponendo tasse molto elevate, spesso anche illegalmente. Ciò generò grandi tensioni tra le
province sfruttate e il governo centrale a Roma.
Da un punto di vista economico quindi i cavalieri erano molto ricchi, in alcuni casi anche più dei
senatori. Nonostante ciò erano esclusi dal senato e dalla carriera politica.
Oltre al cavallo pubblico donato al primo nucleo di cavalieri, loro simboli del potere erano: l’anello
d’oro, la striscia purpurea sottile sulla veste e i posti d’onore alle spalle dei senatori alle
manifestazioni pubbliche.

PROBLEMI IN CAMPO NEL CORSO DEL II SECOLO


L’espansionismo e i cambiamenti sul piano sociale ed economico che la società romana stava
attraversando portarono alla creazione di una serie di problemi che nel tempo matureranno e
condurranno a una crisi irreversibile della res publica:
1. Questione agraria e connesse difficoltà dell’esercito  al centro di una serie di provvedimenti
molti incisivi presi dai fratelli Gracchi. Il modo in cui il terreno agrario veniva usato dal popolo
romano aveva ripercussioni anche sull’esercito, che stava manifestando elementi di criticità,
come ad esempio il progressivo restringersi del ceto di piccoli e medi proprietari che aveva
fatto la fortuna dell’esercito romano anche grazie al proprio attaccamento alle terre.
Le fragilità dell’esercito si palesarono con l’assedio di Numanzia e la guerra contro Giugurta, re
di Numidia. Inizialmente Numidia era alleata di Roma, tra il 112 e il 105 si scontrarono e per
anni la Repubblica alternò comandanti senza riuscire ad avere la meglio, almeno fino a una
radicale modifica dell’esercito.
2. Condizione giuridica degli alleati italici  fornivano eserciti ausiliari ma erano sfavoriti nella
divisione del bottino di guerra e anche dalla politica.

3. Gestione delle masse schiavili  con la creazione del porto franco di Delo la società e
l’economia romana divennero di tipo schiavistico. Le condizioni di vita degli schiavi mutarono in
peggio: anche in età arcaica erano sempre stati considerati res, ma fino a quando facevano
parte della famiglia la loro condizione era meno gravosa; ora invece erano erano bottino di
guerra, oggetto di proprietà dei padroni e delle padrone, in condizioni molto meno favorevoli.
Gli schiavi in quest’epoca diedero il via a delle rivolte, mossi però dalla volontà di fare ritorno
alle proprie terre d’origine e non da rivendicazioni sociali o di miglioramento delle loro
condizioni di vita.
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4. Amministrazione dei territori provinciali  i governatori provinciali romani, così come i


pubblicani, erano sempre più spesso complici e conniventi di meccanismi di sfruttamento delle
popolazioni locali, generando gravi malcontenti.
Il regno di Pergamo è il primo nucleo in cui si rivelò tale malcontento: in età ellenistica era un
regno molto ricco, esteso e culturalmente avanzato; nel 133 il re Attalo III lo lasciò
completamente in eredità al popolo romano, che lo trasformò nella provincia d’Asia. Questa
cosa generò delle tensioni all’interno della dinastia. In particolare Aristonico, fratellastro di
Attalo III, si proclamava il legittimo discendente al trono e nella sua propaganda anti-romana
catalizzò una serie di insoddisfazioni e istanze (anche utopiche) legate all’amministrazione di
Roma nel regno di Pergamo. Venne appoggiato anche dagli schiavi e generò una rivolta,
repressa da Roma tra 133 e 129. Aristonico venne catturato e strangolato in un carcere
romano. Si trattò comunque di scontri molto complicati, durante i quali uno dei due consoli
perse la vita.
Un’altra minaccia fu quella mossa da Mitridate VI, re del Ponto, che con meccanismi simili ad
Aristonico cercò di catalizzare il malcontento creato dal dominio romano per i propri scopi
espansionistici.

5. Istituzioni  le regole molto stringenti che venivano elaborate per definire i meccanismi di
potere iniziarono a essere meno rispettate e vittime di molteplici strappi. Si imposero sempre
più grandi personalità, che, in virtù dei meriti acquisiti sul campo, riuscivano a disporre di
clientele anche militari molto fedeli.
Il problema riguardava anche il ceto equestre, sempre più importante ma escluso dalla politica
(sarà Augusto a integrarlo ufficialmente nell’amministrazione creando un percorso apposito per
i cavalieri) e la plebe, sempre più manipolabile a causa delle donazioni di denaro e alimenti.

La seconda guerra punica causò diverse conseguenze anche nell’ambito del sistema produttivo
agrario. A causa delle profonde devastazioni nell’Italia centro-meridionale, che indussero
all’abbandono di estese aree di pianura prima appannaggio di medi e piccoli contadini, e del calo
demografico, si abbandonò l’agricoltura di sussistenza in favore di due nuovi sistemi di
sfruttamento agricolo: l’allevamento transumante e la villa schiavistica. Nel primo caso si trattava di
pastorizia transumante operata da imprenditori con schiavi che produceva cuoio e carne salata,
elementi utili all’esercito. La villa schiavistica era invece un nuovo sistema di conduzione agricola
nata grazie all’arricchimento dei grandi proprietari terrieri, che avevano acquisito i campi venduti o
abbandonati dai contadini che dovevano dedicarsi all’attività militare e non riuscivano più a gestirli
o si erano inurbati. Le ville schiavistiche erano aziende polifunzionali in cui si praticava in larga
parte la coltivazione arboricola (non più quella cerealicola come un tempo, il grano veniva
importato da altre aree come la Sicilia o l’Africa, sul suolo italico si cercava di coltivare prodotti
costosi come la vite o l’olivo, che i piccoli contadini non potevano permettersi). Non veniva però
prodotta solo la materia prima, si facevano anche attività di trasformazione, primo stoccaggio e
immagazzinamento in vista del commercio. La produzione infatti era destinata in prevalenza alla
vendita sul mercato, sia cittadino che a largo raggio. La manodopera era interamente servile e gli
schiavi risiedevano in delle celle dette ergastula.
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I FRATELLI GRACCHI
Tiberio Gracco
La storiografia senatoria è molto critica rispetto all’età dei fratelli Gracchi, l’avvento di Tiberio
Sempronio Gracco come tribuno della plebe viene spesso descritto come l’inizio della fine. La
madre dei Gracchi era Cornelia, figlia di Scipione l’Africano, appartenente a una delle famiglie più
illustri della nobilitas; Cornelia sposò un Tiberio Gracco ed ebbe dodici figli, ma solo tre di loro
sopravvissero: Tiberio, Gaio e Sempronia.
Il loro avvento venne ritenuto così eversivo nella prospettiva senatoria perché intervennero in
modo radicale rispetto al grande problema del terreno “statale”/demaniale romano, l’ager publicus.
La questione agraria, con le connesse difficoltà dell’esercito, era già stata dibattuta
precedentemente. Per risolvere il problema Gaio Flaminio aveva proposto assegnazioni viritane
a ogni uomo ritenuto degno; in alternativa si usava la fondazione di colonie e la vendita
questoria. L’erario romano infatti poteva decidere di affittare in cambio di un canone (vectigal) una
parte del terreno pubblico a chi potesse coltivarlo e sfruttarlo; la vendita questoria quindi non
generava piena proprietà ma solo possesso. Naturalmente solo chi aveva capitali da investire
poteva partecipare e diventare sempre più ricco. Nel tempo però gli usufruttuari iniziarono a gestire
le terre come se fossero proprietari e i loro grandi latifondi iniziarono a essere lesivi dell’interesse
della res publica, in quanto contribuivano a diminuire il ceto di piccoli e medi proprietari che
rimpinguava l’esercito romano  la riforma agraria dei fratelli Gracchi voleva scardinare proprio
questo meccanismo.

Tiberio Gracco aveva svolto il suo apprendistato militare in Spagna, a Numanzia. In


quell’occasione aveva potuto osservare direttamente la situazione di fragilità dell’esercito e,
attraverso il viaggio in Etruria, anche quella dell’agricoltura italica. Tiberio comprese il legame di
consequenzialità tra le due circostanze e, una volta tornato a Roma, nel 133 si candidò al tribunato
della plebe con lo scopo di varare una riforma agraria tesa alla ricostituzione di un ceto di piccoli
proprietari terrieri arruolabili, così da da risolvere la crisi dell’esercito. Scelse di diventare tribuno
della plebe perché essi avevano iniziativa legislativa, esercitabile nei comizi tributi.
La riforma che propose una volta eletto, detta legge Sempronia, non fu rivoluzionaria ma
restauratrice: rivitalizzò uno dei provvedimenti delle leggi Licinie Sestie e propose che fosse posto
un tetto massimo di ager publicus per ogni privato, fissato a 500 iugeri e innalzabile fino a 1000 a
seconda del numero di figli. Il resto del territorio in eccesso, accaparrato in modo improprio dai
grandi possidenti, doveva essere diviso in lotti di 30 iugeri da assegnare ai proletari che ne
avessero fatto richiesta (in modo da avere anche nuovi soldati, sempre meno a causa dei problemi
già afffrontati e del calo demografico post conflitto con Cartagine). Gli appezzamenti dati ai
nullatenenti non venivano concessi in proprietà ma in possesso, i contadini assegnatari dovevano
pagare un canone d’affitto simbolico. In questo modo i lotti erano inalienabili e non potevano
essere venduti ai grandi proprietari terrieri, ricreando la situazione che si cercava di sanare.
La legge Sempronia fu oggetto di violenta opposizione da parte dei latifondisti, che si sentivano
proprietari dei terreni e percepivano l’operazione di Tiberio come un esproprio, nonostante in realtà
non lo fosse. Non solo i senatori erano possessori di tali terreni, c’erano anche diversi alleati italici,
Appiano parla di “ricchi” in generale. Il malcontento quindi era molto diffuso, e non solo in senato,
al punto che molti cercarono di bloccare la proposta. La constatazione più clamorosa fu quella del
secondo tribuno della plebe, Marco Ottavio, anch’esso arricchitosi grazie al possesso di diversi
terreni, che pose il veto alla proposta del collega. Tiberio, pur di veder approvata la propria riforma,
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procedette a un’azione ancora più clamorosa: propose all’assemblea popolare di deporre Marco
Ottavio e, una volta fatto, fece approvare la legge agraria.
Appiano riporta che Tiberio naturalmente non poteva procedere da solo, venne eletta una
commissione triumvirale preposta all’assegnazione e alla divisione delle terre, vennero posti dei
cippi detti graccani per delimitare le varie aree. Si trattava di un’operazione complessa e
dispendiosa, per portare a termine la quale Tiberio si avvalse del lascito testamentale di Attalo III di
Pergamo, con il quale i Semproni erano in stretti rapporti.
Parte dei senatori appoggiava la legge agraria, parte invece continuava a opporsi, non solo perché
la riforma limitava le loro ricchezze, ma anche perché Tiberio stava “invadendo” le competenze del
senato. Una delle prerogative fondamentali del senato infatti riguardavano l’ambito civile e il
controllo finanziario, le entrate e le uscite della res publica; era il senato quindi che si sarebbe
dovuto occupare della gestione dei cippi, i Semproni stavano facendo come volevano, “pestando i
piedi” dei senatori.
La storia ebbe un epilogo truce: finito il mandato Tiberio si ricandidò al tribunato per portare a
termine l’operato, questa cosa venne ritenuta ammissibile, fu accusato di aspirare al regno e nel
132 venne ucciso. Nonostante ciò la commissione continuò a operare fino al 129, segno che se ne
era compreso il valore e la necessità.

Dopo la morte violenta di Tiberio Gracco le tensioni sociali si radicalizzarono. Un fattore di


profonda trasformazione delle dinamiche politiche fu l’approvazione delle leggi tabellari, che
introdussero una novità nella modalità di espressione del voto: non avveniva più per alzata di
mano ma per iscritto su una tabella inserita poi in un’urna. In questo modo il voto non era più
palese e veniva garantita una maggiore autonomia di giudizio.

Gaio Gracco
L’operato di Tiberio venne portato avanti dal fratello Gaio Sempronio Gracco, eletto tribuno della
plebe per la prima volta nel 123. L’anno successivo riuscì a farsi rieleggere, con un strappo alle
consuetudini della res publica.
Sostenuto da un gruppo molto diversificato (senatori, cavalieri, italici, provinciali, plebe rurale e
cittadina), Gaio Gracco promosse un programma articolato e innovativo con lo scopo principale di
soddisfare le esigenze dei ceti subalterni, premiare l’ordine equestre in rapida ascesa e divenuto
progressivamente la forza economica dello stato romano e infine assicurare garanzie ai provinciali
di fronte agli abusi dell’amministrazione romana. Propose un pacchetto di diciassette
provvedimenti legislativi, tutti approvati a parte uno. Tra questi:
 Portò avanti la legge agraria del fratello, promuovendo anche la realizzazione di nuove
strade nei territori confiscati e assegnati a proletari
 Lex Sempronia frumentaria, mirava a regolare la distribuzione del grano a prezzi
calmierati o gratuitamente. Diede impulso all’idea che fosse lo stato a doversi occupare del
sostentamento della plebe
 Legge Rubria, riavviava la la politica di deduzioni coloniarie consentendo che venissero
fondate nuove comunità in territorio italico, come per tradizione, ma anche in aree
extraitaliche. Tra queste spicca Iunonia, nell’ex area di Cartagine
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 Legge militare, non consentiva allo stato di reclutare giovani sotto i diciassette anni e
imponeva di fornire ai soldati un’uniforme pubblica
 Legge sulla pratica giudiziaria, imponeva che un cittadino potesse subire la condanna a
morte solo in seguito a un pronunciamento popolare
 Legge sulla provincia d’Asia, attribuiva alle società di pubblicani l’appalto per la
riscossione delle tasse in tale provincia (Gracchi gestivano l’Asia come se fosse un loro
possesso personale). I cavalieri furono favoriti da questa legge, a differenza dei provinciali,
vittime dell’avidità degli appaltatori
 Legge Acilia, stabiliva che il tribunale permanente preposto a giudicare i governatori
provinciali di rango senatorio accusati di malversazione, precedentemente presieduto da un
pretore e giudici di rango senatorio, venisse composto per la maggior parte da cavalieri
(dando agli appaltatori moltissimo potere). Prevedeva anche un’inasprimento della pena
per i governatori colpevoli
 Emanazione di un senatusconsultum (= provvedimento legislativo del senato) per
intimare al governatore di una delle province spagnole di rimborsare alle città locali i costi
del grano che aveva illegalmente riscosso e inviato a Roma.

La sola legge proposta da Gaio a non essere approvata fu quella che prevedeva la concessione
della piena cittadinanza romana ai Latini e del diritto latino agli alleati italici. Lo scopo di Gaio
era ampliare ulteriormente la propria base elettorale. Questa proposta non venne ben accolta dalla
plebe urbana, spaventata dall’idea di dover condividere i privilegi solo recentemente acquisiti con
un numero troppo ampio di nuovi cittadini.

Mentre Gaio era impegnato a Iunonia, a Roma si impose il tribuno della plebe Marco Livio Druso,
che proponeva un’iniziativa di carattere ancora più demagogico di quella graccana: concedere la
cittadinanza romana anche agli alleati italici e non soli ai Latini. Questa proposta scatenò forti
opposizioni e Druso venne ucciso. Nonostante ciò, ormai era chiaro che l’esasperazione e il
sentimento di ribellione degli Italici fosse giunto a un punto di non ritorno.

Nel 121 Gaio Gracco si candidò per la terza volta al tribunato. L’insofferenza di Roma nei confronti
del troppo potere di uno solo era però troppo grande e quindi gli venne impedito. Gaio armò i suoi
seguaci e il senato emanò un senatusconsultum ultimum, ovvero un provvedimento di emergenza
che consentiva ai consoli di entrare in città con le armi e placare con la forza le sommosse che si
erano scatenate. Gaio, resosi conto di aver perso, si fece assassinare da uno schiavo.
La riforma agraria promossa dai fratelli Gracchi in parte fallì: nel 121 una legge legge stabilì che i
destinatari di fondi pubblici avevano facoltà di vendere i lotti loro assegnati; nel 119 circa si
interruppero le operazioni di ripartizione e ridistribuzione della terra; nel 111 una nuova legge
agraria abolì il canone di affitto dei lotti distribuiti, che divennero proprietà private presto rivendute,
portando nuovamente alla formazione di latifondi.
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All’indomani dei fratelli Gracchi nell’ambito della politica romana maturarono due diversi
orientamenti, gli ottimati e i popolari:
OTTIMATI POPOLARI
Fazione oligarchica Fazione democratica
1. Rappresentavano gli interessi della parte 1. Rappresentavano gli interessi del popolo
più conservatrice dell’oligarchia senatoria
2. Difendevano l’autorità e le prerogative del 2. Favorivano la plebe urbana, i ceti emergenti
senato e gli alleati italici
3. Desideravano il mantenimento della 3. Erano promotori di ampie riforme in campo
situazione sociale, politica ed economica sociale e politico
esistente

NB: ottimati e popolari non sono partiti opposti tra loro, a Roma i partiti non esistevano proprio!! Gli
ottimati inoltre spesso vengono definiti come conservatori, in realtà Lucio Silla, che ne faceva
parte, fu tutt’altro che conservatore.

LE SOLUZIONI AI PROBLEMI DELLA TARDA REPUBBLICA


Gaio Mario
Il fallimento delle riforme agrarie dei Gracchi, che avevano tentato invano di ricostituire il ceto dei
contadini-soldati, riattualizzava la questione dell’esercito, la cui carenza di effettivi si presentava
ormai come un problema cronico (dato che per essere arruolati si doveva avere un censo minimo).
La soluzione fu fornita da un provvedimento d’emergenza ideato da Gaio Mario.
Gaio Mario era un homo novus appartenente al ceto equestre, la sua ascesa fu permessa in parte
grazie alle ingenti risorse economiche che tale ceto era riuscito ad accumulare nel tempo. Oltre
alle risorse economiche, Gaio Mario poteva contare sulla fama di ottimo soldato acquisita sul
campo. Sallustio riporta il discorso che Mario fece davanti al popolo romano prima di partire per
combattere la guerra contro Giugurta in qualità di console (eletto nel 107): il discorso è definito il il
manifesto della novitas, Mario contrappone la nobiltà data dal valore personale e dai meriti
acquisiti con il proprio operato, di cui le cicatrici di guerra sono l’emblema, alla nobiltà tradizionale,
basata sulla discendenza e sempre più scollata dalle virtù e dalle capacità di comando. Il discorso
naturalmente è una rielaborazione letteraria di Sallustio, Mario non pronunciò queste esatte parole,
ma sono comunque utili per comprendere il concetto di nobiltà di funzioni e non di sangue. A
favorire Mario nella sua ascesa furono anche i legami personali: per quanto denunciasse i
comportamenti della nobilitas, Gaio Mario era in stretti rapporti con la famiglia dei Cecili Metelli, tra
le più antiche della nobilitas senatoria, con la quale in seguito entrerà in contrasto. Mario inoltre
sposò Giulia, futura zia di Caio Giulio Cesare, matrona appartenente a una delle più antiche e
prestigiose famiglie di Roma, la gens Iulia.
Ad Arezzo sono state ritrovate diverse iscrizioni sotto forma di elogia, a imitazione di quelle
contenute nel Foro a Roma, e tra queste compare anche un elogio di Mario. La carriera di Mario
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iniziò nel 134 a Numanzia, dove si distinse sotto il comando di Scipione l’Emiliano e, grazie anche
all’appoggio dei Metelli, di cui era cliente, divenne pretore e poi tribuno della plebe. Fu anche
questore, augure (compito di natura religiosa) e tribuno militare. Mario fu poi console sette volte,
elemento davvero particolare: nel 107 primo consolato; dal 104 al 100 cinque consolati
consecutivi; nell’86 settimo consolato.

L’opportunità per la sua consacrazione sulla scena politica venne dalla guerra giugurtina (112 –
105): il console Quinto Cecilio Metello lo volle come legato nella campagna contro Giugurta di
Numidia, succeduto al trono allo zio e padre adottivo Micipsa insieme ai cugini Iempsale e
Aderbale. Giugurta aveva ucciso il primo e messo in fuga il secondo, che aveva chiesto aiuto ai
Romani. Nel 116 una commissione senatoria stabilì una nuova ripartizione della Numidia, secondo
cui ad Aderbale sarebbe spettata la parte orientale, economicamente più prospera, mentre
Giugurta avrebbe governato l’altra. Giugurta non lo accettò e nel 112 assediò il cugino a Cirta, città
più importante del regno di Aderbale. Giugurta sconfisse Cirta e sterminò i commercianti romano-
italici che si trovavano là. Questo fu il casus belli della guerra con Roma.
Inizialmente i Romani riportarono una grave sconfitta. A partire dal 109 si ripresero grazie al
passaggio di comando a Quinto Cecilio Metello, coadiuvato dal legato Mario. L’anno successivo,
nonostante l’opposizione di Metello, Mario si recò a Roma per presentare la propria candidatura al
consolato e nel 107 venne eletto. L’assemblea popolare gli affidò il comando della conduzione
della guerra contro Giugurta, notevole strappo alla regola perché solitamente le province da
assegnare venivano sorteggiate dal senato, che tra l’altro aveva anche già prorogato il comando a
Metello.
Mario tornò in Africa e, grazie all’appoggio del questore Lucio Cornelio Silla e a una congiura ai
danni di Giugurta orchestrata dal suocero di questi, nel 105 vinse la guerra. L’anno successivo
Giugurta fu fatto sfilare al trionfo di Mario a Roma e poi venne giustiziato.

Nell’autunno del 105, mentre ancora si trovava in Africa, Mario venne eletto per un secondo
consolato. Si trattava di una circostanza inconsueta perché da regole istituzionali per candidarsi
bisognava trovarsi a Roma e tra un consolato e l’altro dovevano passare almeno dieci anni.
Nonostante ciò, nel 104 Mario divenne nuovamente console fino al 100 senza soluzione di
continuità, in quanto Roma si trovava nella situazione d’emergenza delle guerre contro i Cimbri e
i Teutoni (113 – 101).
Tali popoli si erano spostati nella penisola dello Jutland ed erano riusciti a entrare in Italia
compiendo delle vere e proprie incursioni di popolo, cioè spostamenti di militari con anche anziani,
donne e bambini. Dopo una serie di sconfitte cocenti per l’esercito romano, in particolare quella del
113 a Noreia e del 105 ad Arausio, ritenuta seconda solo a quella della battaglia di Canne, grazie
all’intervento di Mario Roma riuscì a vincere. Nel 102 sconfisse i Teutoni presso Aix en Provence
(Aquae Sextiae) e nel 101 i Cimbri presso Vercelli (o, secondo una diversa interpretazione, in
prossimità dell’attuale Rovigo).

A Gaio Mario è attribuita una riforma dell’esercito, che coinvolse aspetti relativi al reclutamento e
aspetti tecnico-tattici. In realtà sarebbe più corretto parlare di riassetto invece che di riforma, in
quanto non fu il frutto di riflessioni lungimiranti ma la risposta a delle contingenze immediate.
Inoltre si inserì in cambiamenti di lungo corso: l’abbassamento del limite centistario degli arruolabili
tra III e II secolo e l’arruolamento di nullatenenti, liberti e schiavi in momenti di crisi.
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Per quanto riguarda gli aspetti relativi al reclutamento:


 Arruolamento di volontari, come già aveva fatto Scipione l’Emiliano a Numanzia
 Arruolamento di proletari
 Professionalizzazione dell’esercito, legionari mariani sottoposti a esercitazioni massacranti
tanto da essere soprannominati “muli mariani”
 i soldati quindi devono essere equipaggiati e stipendiati dalla res publica. Lo stipendio in
realtà esisteva già dalla battaglia di Veio, ma a partire da questo momento venne riconosciuto
ufficialmente. Venne inoltre introdotta una buonuscita al momento del congedo che
consentisse ai veterani di sopravvivere dopo il servizio militare. Tale ricompensa consisteva in
minima parte in denaro e soprattutto in distribuzione di terre. Si resero necessari nuovi
appezzamenti di terra, motivo per cui vennero fondate ulteriori colonie: nel 100 avvenne la
deduzione di Eporedia, attuale Ivrea, ultima colonia posta a presidio della Pianura Padana.
Gaio Mario la fondò per ricompensare i soldati che aveva guidato nelle guerre contro Cimbri e
Teutoni, ponendoli a presidio di una zona del Piemonte che in cui avevano combattuto e che
quindi conoscevano.
Si affermò sempre più il fenomeno della clientela militare: le spedizioni militari spesso si
conducevano fuori dall’Italia e duravano molti anni consecutivi, la prorogatio imperii diventò
una consuetudine per far sì che il generale vittorioso portasse a conclusione la campagna. In
questi contesti di battaglie pluriennali si creava un rapporto personale tra il comandante e le
sue truppe, che continuava anche dopo le battaglie, e un legame di mutua solidarietà e
convergenza di interessi. Il generale si faceva garante politico delle distribuzioni di terra ai
veterani e poteva concedere loro sul campo la cittadinanza romana per atti di valore, essendo
dotato di imperium.

Il riassetto dell’esercito coinvolse anche aspetti tecnico-tattici: dal momento che ero lo stato a
fornire l’armamento, scomparsero i veliti, gli armati alla leggera dell’esercito manipolare. Si passò
inoltre da un esercito di stampo manipolare a un esercito composto da coorti, che permetteva una
strutturazione delle legioni in celle più ampie che davano maggiore composizione all’esercito:
 L’unità base dell’esercito era il contubernium, un gruppo di 8 soldati che occupavano la
stessa tenda
 Ogni centuria era composta da 10 contubernia, per un totale di 80 soldati. Le centurie
erano guidate da un centurione, un suo assistente e un portatore delle insegne
 La cellula costitutiva della legione era la coorte. Ogni coorte era formata da 6 centurie
(corrispondenti a 3 manipoli) per un totale di 480 soldati. Ogni coorte era comandata dal
centurione con maggiore anzianità di servizio tra quelli delle centurie che la componevano
 La legione era composta da 9 coorti + la cohors prima, la più importante, costituita da 5
centurie di 160 uomini e retta dal centurione primuspilus. Una legione a ranghi completi
aveva circa 5000/6000 fanti

Con questa “riforma” con cui concedeva la cittadinanza e la possibilità d’ascesa Gaio Mario
incarnò perfettamente il ruolo di leader popolare. Il suo seguito sempre più consistente lo
riconobbe molteplici volte come proprio leader esprimendosi nel voto alle assemblee popolari,
dove il peso dei ricchi non era più l’unico rilevante. Durante quest’epoca si andò incontro anche a
un ampliamento degli organismi d’espressione della parte popolare (nelle assemblee).
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COMIZI COMIZI COMIZI TRIBUTI CONCILI DELLA


CURIATI CENTURIATI PLEBE
Unità di voto 30 curie, 10 per 5 classi di censo
ciascuna delle divise in 193
35 tribù, di cui 4 urbane e 31 rustiche
antiche tribù centurie
Comprendono Tutto il popolo Tutto il popolo Tutto il popolo Solo i plebei divisi
diviso in gruppi diviso in classi in unità territoriali
gentilizi (curie) (tribù)
Presieduti e Console o Console o pretore Console o pretore (e Tribuno o edile
convocati da pretore in alcuni casi edile della plebe
curule)
Funzioni:
Elettive - Elezione dei Elezione dei Elezione dei
magistrati superiori magistrati inferiori magistrati della
plebe
Legislative Votazione della Dichiarazioni di Approvazione della Votazione dei
lex curiata de guerra e stipula di maggior parte delle plebisciti
impero trattati leggi proposte
Giudiziarie - Casi di provocatio Casi di provocatio ad Giudizi frequenti
ad populum per populum per crimini di davanti ai tribuni
reati capitali stato passibili di
ammenda
Luogo di Comitium Fuori dal Campo Marzio per le elezioni, Foro o
riunione (Campidoglio) pomerium, quasi Campidoglio per la legislazione e
sempre al Campo l’amministrazione della giustizia
Marzio

Il potere di Mario diminuì a causa del suo avvicinamento al tribuno della plebe Lucio Apuleio
Saturnino e il pretore Gaio Servilio Glaucia. Saturnino, sostenuto soprattutto dai soldati mariani
appartenenti alla plebe italica, proponeva una serie di provvedimenti di ispirazione graccana:
attribuzione di terre come compenso ai veterani di Mario, distribuzione di grano a prezzo inferiore
rispetto a quello di mercato, deduzione di colonie nelle province, ripartizione in lotti e assegnazione
ai cittadini romani degli ex territori dei Cimbri in Gallia. Glaucia, che promuoveva a sua volta una
politica fortemente filopopolare, si era candidato al consolato. Quando fu chiaro che al suo posto
sarebbe stato eletto un altro candidato, Glacia ne commissionò l’assassino insieme a Saturnino. Il
senato allora emanò senatusconsultum ultimum contro di loro e li dichiarò nemici pubblici; i due si
arroccarono sul Campidoglio. Mario, in qualità di console, non ebbe scelta che perseguirli. I due gli
si consegnarono e, grazie al suo intervento, per un po’ trovarono rifugio nella curia Hostilia, poi
vennero assassinati. L’averli appoggiati metteva Mario in una situazione complicata, fu costretto a
lasciare Roma e ritirarsi provvisoriamente in Africa. La sua carriera politica iniziava a declinare.
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Lucio Cornelio Silla


Lucio Cornelio Silla era stato questore di Gaio Mario durante il suo primo consolato, vicino a lui
nella guerra in Numidia e anche in quella contro Cimbri e Teutoni, riportando grandi successi. Silla
proveniva da un ramo della nobilitas senatoria molto importante ma caduta in miseria, ad inizio
carriera non poteva contare sulle stesse risorse di Mario. Fu l’esponente più rappresentativo della
fazione degli ottimati nella prima metà del I secolo.
Al rientro di Mario a Roma nel 91, l’antagonismo tra lui e Silla andò radicalizzandosi, fino a
scoppiare con l’apertura della prima guerra mitridatica (88 – 84). Mitridate VI Eupatore, re del
Ponto, aveva forti mire espansionistiche: nel 100 aveva combattuto una guerra con Nicomede II di
Bitinia per il controllo della Cappadocia, non riuscendo nell’impresa perché Roma era giunta in
soccorso dell’alleata Bitinia. Alla morte di Nicomede II Mitridate invase nuovamente la Cappadocia
(Silla intervenne in qualità di pretore) e anche la Bitinia, zone d’interesse romano. In breve tempo
gli eserciti mitridatici dilagarono in tutta la provincia d’Asia, anche grazie al successo della
propaganda anti-dominio romano che il re del Ponto portava avanti. Il casus belli della prima
guerra mitridatica furono i cosiddetti vespri asiatici: in varie città dell’Asia furono uccisi circa 80.000
commercianti romani e italici insieme ai loro familiari.
La conduzione della campagna contro Mitridate inizialmente era stata affidata per sorteggio dal
senato a Silla, eletto console nell’88 (tra il 91 e l’89 aveva combattuto contro i socii nella guerra
sociale, nell’area dei Sanniti e del Sud Italia). Dopo vari disordini interni però i comizi decisero di
trasferire il mandato a Mario. Silla allora marciò su Roma alla testa delle sue truppe e prese con la
violenza la prerogativa del comando. Mario si diede alla fuga in Africa. Una volta riottenuto il
comando Silla partì per la spedizione come proconsole, ma prima prese dei provvedimenti tesi a
limitare il potere dei comizi: passò una norma che prevedeva che ogni legge dovesse essere
approvata dal senato prima di transitare all’esame dell’assemblea popolare. Stabilì anche che solo
i comizi centuriati, in cui il peso delle élite era più incidente, avessero facoltà di votare
provvedimenti legislativi.
La campagna orientale di Silla fu vittoriosa e, dopo la resa di Atene e le vittorie a Cheronea e
Orcomeno, nell’85 venne siglata la pace di Dardano. Mitridate doveva pagare una consistente
indennità di guerra e dare ordine ai suoi eserciti di rientrare nei confini del Ponto. Nel frattempo
Mario era rientrato a Roma alla testa di un esercito e nell’87 era stato eletto console per la settima
volta insieme a Lucio Cornelio Cinna. I due stavano promuovendo una severissima repressione dei
sostenitori di Silla, quando nell’86 Mario morì. Cinna fu console anche nel biennio successivo,
definito della dominazione cinnana a causa della dittatura che esercitò, per poi essere ucciso.

Nell’83 Silla fece ritorno in Italia, mentre in Oriente scoppiava la seconda guerra mitridatica (82 –
81, campagna di Lucio Licinio Lucullo). Nell’82 l’esercito di Silla si scontrò a Porta Collina con
l’esercito mariano unito a quello di Sanniti e Lucani, e riuscì ad avere la meglio. Silla inaugurò
allora le proscrizioni: stilò e rese pubblica una lista di avversari politici, soprattutto alleati di Mario e
appartenenti alla fazione popolare, di cui legittimava l’uccisione e la confisca dei patrimoni.
L’operazione era affidata a dei fedelissimi di Silla e creò un enorme scompiglio nella società
romana. I figli dei nemici politici inoltre venivano espulsi dal corpo romano e perdevano anche la
cittadinanza. L’azione politica di Silla fu di successo ma improntata a una profonda violenza, lo
studioso moderno Federico Santangelo lo definisce un “tiranno riformatore”.
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Sempre nell’82 Silla fu eletto dal popolo dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae,
ovvero dittatore con l’incarico di riscrivere le leggi e rifondare lo stato. Tale incarico non
poteva certamente essere svolto nei soli sei mesi tradizionalmente previsti dalla carica di dittatore,
e infatti Silla la mantenne fino a quando non si ritirò a vita privata. In qualità di dittatore fece
approvare i seguenti provvedimenti, tesi da un lato a rinnovare l’architettura istituzionale in
evidente crisi dello stato attraverso il coinvolgimento di un numero più ampio di senatori e
magistrati, e dall’altro a diminuire l’influenza della fazione popolare (Silla, in quanto membro degli
ottimati, cercava di favorire la classe dirigente senatoria):
 Lex Cornelia de magistratibus, aggiornamento della lex Villia: l’assunzione della carica di
tribuno della plebe pregiudicava la prosecuzione della carriera politica. Si trattava di una
limitazione ai poteri del tribunato, carica essenziale per la rappresentatività del popolo nel
sistema istituzionale, ma ultimamente sfruttata dai demagoghi per perseguire i loro fini
personali. Vennero poste limitazioni anche all’utilizzo del veto tribunizio e alla facoltà dei
tribuni di proporre leggi. I giovani con ambizioni magistratuali optarono allora per l’edilità
invece che per il tribunato.
La lex Cornelia de magistratibus fu abolita abolita già nel 70 a.C. dai consoli Marco Licinio
Crasso e Gneo Pompeo Magno
 Ampliamento del numero di senatori fino a 600 membri. Vennero ammessi anche cavalieri
promossi all’ordine superiore ed esponenti italici
 Incremento dei questori da 10 a 20 e dei pretori da 8 a 10. Erano figure necessarie
all’amministrazione delle province e, nel caso dei pretori, anche dei tribunali
 Riconsegna all’ordine senatorio del controllo delle giurie dei tribunali deputati a giudicare i
reati di concussione nelle province
 Definizione della scansione delle magistrature. Si decise che nessun cittadino potesse
iterare una carica se non dopo 10 anni e venne alzata l’età minima per rivestire le varie
cariche (questura non prima dei 30, edilità dei 36 ecc.)
 Confische nelle aree in cui gli avversari politici avevano goduto di maggiori consensi e
redistribuzione delle terre ai suoi veterani
 Abolizione delle frumentazioni, strumento usato dai demagoghi per garantirsi il consenso
popolare
 Ampliamento del pomerium fino alla linea Arno-Rubicone. La Gallia Cisalpina invece era
una provincia e quindi poteva ospitare legioni

Nel 79 Silla abdicò e si ritirò a vita privata. L’anno successivo morì e parte del suo operato di
riforma iniziò a essere messo in pericolo. Il console Marco Emilio Lepido propose una serie di
riforme che avrebbero riportato alla situazione pre-Silla e, quando in Etruria scoppiò una rivolta
contro il dominio romano, si unì ai rivoltosi e marciò su Roma. Il senato emanò
un senatusconsultum ultimum e conferì l’imperium e l’incarico di intervenire in Etruria al giovane
Gneo Pompeo, che all’epoca non deteneva alcuna magistratura. La ribellione fu repressa e Lepido
fuggì in Sardegna, dove morì.

Lucio Licinio Lucullo


Dopo i primi successi di Silla il comando delle legioni fu affidato a Lucio Licinio Lucullo, di cui ci
parla soprattutto Plutarco. Ad Arezzo è stato ritrovato un elogio che espone il suo cursus honorum:
fu augure, tribuno militare laticlavio, questore, proquestore, edile curule, pretore e console. Fu
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contraddistinto da una gestione delle finanze molto oculata in modo da non indisporre troppo il
popolo. Riportò successi schiaccianti contro Mitridate ma poi fu esautorato dall’incarico di
generale. Si ritirò a una vita di vizi, in particolare indisse moltissimi banchetti con pesci allevati da
lui stesso e su cui investiva moltissimo (l’aggettivo luculliano deriva da lui).

La guerra sociale (91 – 89)


Roma fu costretta a risolvere un altro problema oltre alla crisi dell’esercito, cioè le continue
richieste da parte degli alleati italici, i socii, di ottenere la cittadinanza. Lo storico Velleio Patercolo,
un cui parente aveva combattuto durante tale guerra, definì le ragioni degli alleati “giustissime”. Gli
alleati infatti:
a) continuavano a pagare l’imposta destinata al soldo delle loro reclute, mentre i cittadini post
battaglia di Pidna ne erano stati esentati
b) ricevevano una parte meno importante del bottino e punizioni più gravi
c) non potevano ricoprire funzioni di comando (la struttura dell’esercito era concepita a favore
dei cittadini romani)
Con la cittadinanza invece avrebbero ottenuto:
 elettorato attivo e passivo (interessava soprattutto le classi dirigenti locali, gli Italici erano
un gruppo molto eterogeneo al loro interno e avevano priorità diverse)
 distribuzioni agrarie e frumentarie
 sfruttamento delle province
 accesso all’esercito non solo da ausiliari

Dal momento che le altre strategie non stavano funzionando, gli Italici scelsero di ricorrere alla via
delle armi, dando il via alla cosiddetta “guerra sociale”, chiamata bellum sociale perché Roma
combatteva contro gli ex alleati, i socii. La guerra prese anche il nome di bellum Italicum e bellum
Marsicum. Appiano, storico originario di Alessandria d’Egitto, in un’opera fece riferimento ai
generali romani e alle loro controparti italiche.
La rivolta degli Italici contro Roma si diffuse rapidamente in tutta la Penisola, dalla Gallia Cisalpina
alla Puglia, acquisendo adepti soprattutto nel Sannio. Al contrario, quasi tutte le colonie latine si
schierarono con Roma. Gli alleati diedero vita a uno stato federale autonomo parallelo a quello
romano con capitale a Corfinio, rinominata Italica. Si organizzarono in modo analogo alla
Repubblica romana sotto il profilo istituzionale e militare. Per quanto riguarda il profilo istituzionale
elessero consoli e pretori e istituirono un senato in cui sedevano i rappresentanti delle comunità
che avevano aderito alla ribellione. Sotto il profilo militare i ribelli avevano completa familiarità con
le strategie e le tecniche belliche dei Romani, insieme ai quali avevano combattuto per secoli. Tale
circostanza costrinse l’Urbe a impegnare nel conflitto ben 16 legioni, affidate al comando dei più
capaci generali del tempo, come Mario, Silla e Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno.
Le popolazioni italiche inoltre erano così potenti e ricche da riuscire anche a coniare una propria
moneta d’argento  in questo contesto la numismatica è una fonte molto importante: in una delle
monete degli Italici si vede il toro, simbolo dei confederati che si ribellavano a Roma, che vince
contro la lupa, simbolo di Roma; dall’altro lato è rappresentato il dio Bacco. Le monete
simboleggiavano la loro teoria secondo cui un’Italia senza Roma, ovvero autonoma da essa, fosse
possibile (teoria che verrà ripresa nell’Ottocento durante gli scontri con il papa).
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Un momento saliente della guerra sociale fu il massacro del pretore e dei cittadini romani ad
Asculum nel 90. In seguito l’insurrezione si estese sempre più: sul versante adriatico presso
Piceni, Vestini, Marrucini e Frentani; nell’Appennino centrale presso Marsi e Peligni;
nell’Appennino meridionale presso Sanniti, Irpini e Lucani; presso Apuli e Campani.
Dal momento che non si riusciva a giungere a uno scontro decisivo, i Romani promossero una
serie di concessioni sul piano giuridico, che di fatto segnarono il successo degli ex alleati:
 nel 90 legge Giulia sulla concessione della cittadinanza ai Latini e agli alleati:
attribuiva la cittadinanza di pieno diritto ai Latini e agli alleati che erano rimasti fedeli a
Roma. Venne proposta dal console Lucio Giulio Cesare, tra i cui luogotenenti c’era Silla e
che aveva operato sul fronte meridionale (sul fronte meridionale c’era un altro comandante
tra i cui luogotenenti c’erano Gneo Pompeo Strabone, Gaio Mario e Licinio Crasso).
I nuovi cittadini però erano iscritti in sole otto tribù, dal momento che il voto nei comizi si
esprimeva per tribù si cercò di limitare il loro peso politico
 nell’89 lex Plautia Papiria, valida a sud del Po (in realtà fino alla linea Arno-Rubicone in
quanto Silla aveva ampliato il pomerio): concedeva la cittadinanza romana a pieno diritto ai
ribelli che avessero deposto le armi e si fossero registrati dal pretore a Roma entro 60
giorni
 nell'89 lex Pompeia de Transpadanis, valida a nord del Po/Arno-Rubicone: conferiva il
diritto latino (ius Latii) agli abitanti della Transpadana, ovvero a nord del Po; trasformava in
colonie latine le comunità beneficiarie di quell’area, senza deduzione di nuovi coloni;
concedeva la cittadinanza romana di pieno diritto alle colonie latine di quell’area, come
Aquileia e Cremona.
Fu emanata da Gneo Pompeo Strabone, che con le sue tre legioni nell’89 aveva espugnato
Ascoli ed era stato acclamato dall’esercito imperator, cioè generale vittorioso. È stata
ritrovata un’iscrizione bronzea, detta bronzo di Ascoli, che esaltava i meriti dei militari
ausiliari comandati da Strabone durante l’assedio di Ascoli; tra questi c’erano un’unità di
cavalieri perlopiù iberici a cui Strabone concesse la cittadinanza romana come premio per il
valore dimostrato in battaglia.

Le guerre servili (135 – 71)


L’utilizzo intensivo di manodopera servile aveva creato tensioni già nella prima metà del II secolo,
in particolare in Etruria e Puglia. Tra il 135 e il 71 però esplosero delle vere e proprie guerre, tre
delle quali imposero a Roma un consistente impegno militare. Le tensioni non sfociavano da
rivendicazioni consapevoli degli schiavi a proposito della loro condizione ma da rivendicazioni
significative sul piano personale, le masse di schiavi volevano fare ritorno nella propria terra
d’origine.
Prima guerra servile: ebbe luogo in Sicilia tra il 135 e il 132, i promotori furono degli schiavi-
pastori capeggiati dall’indovino siriaco Euno, autoproclamatosi re. I Romani riuscirono a
espugnare Taormina ed Enna e a uccidere i capi rivoltosi.
Seconda guerra servile: ebbe di nuovo luogo in Sicilia tra il 104 e il 101. I promotori furono degli
schiavi che avevano militato nell’esercito di Mario e degli individui nati liberi ma rapiti da pirati e
finiti in schiavitù, i cui i proprietari non avevano concesso la libertà accondiscesa dal senato. Gli
schiavi insorsero guidati da un indovino siriaco di nome Salvio. La rivolta fu repressa nel sangue.
57

Terza guerra servile: ebbe luogo in Campania tra il 74 e il 71. L’insurrezione nacque nella scuola
gladuitoria di Capua e fu capeggiata dal trace Spartaco. Riuscirono a riunire 120.000 ribelli, non
solo schiavi ma anche emarginati e uomini in condizione disagiata, in primis il proletariato libero
delle campagne. La ribellione assunse i connotati di una rivolta contadina, non ci fu adesione tra gli
schiavi cittadini. Spartaco provò a portare il suo esercito in Sicilia ma venne tradito e fallì; la rivolta
si spostò allora in Puglia e poi in Lucania, dove avvenne lo scontro decisivo. Spartaco perse la vita
in battaglia,i superstiti furono crocifissi lungo la Via Appia tra Capua e Roma a scopo di monito.
L’intervento di Licinio Crasso e Gneo Pompeo fu decisivo.
La conseguenza delle guerre servili non fu l’abolizione della schiavitù, ma il diffondersi presso i
proprietari di schiavi della consapevolezza che lo sfruttamento spietato si traduceva in un fattore
antieconomico. Si procedette all’incremento delle emancipazioni e a un ripensamento della
funzione degli ergastula, che da ricoveri in cui gli schiavi venivano rinchiusi in catene durante la
notte divennero progressivamente luoghi di segregazione in cui solo gli schiavi puniti erano tenuti
in ceppi.

LA CRISI DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE


Episodi di eversione nella tarda Repubblica: Catilina e Clodio
Il clima di illegittimità e di disordine istituzionale che caratterizzò gli ultimi decenni della Repubblica
indusse alcuni protagonisti della scena politica a perseguire la propria affermazione personale
attraverso la promozione di progetti sovversivi.
Sallustio parla di Lucio Sergio Catilina, patrizio impoveritosi a causa della partecipazione alla vita
politica e alle dispendiose campagne elettorali, e uno tra i seguaci più sanguinari di Silla. Nel 65
Catilina si candidò al consolato ma fu respinto per indegnità, la stessa cosa avvenne l’anno
successivo e quello dopo ancora, quando a prendere il potere fu Marco Tullio Cicerone. Catilina,
insoddisfatto, organizzò un’azione eversiva allo scopo di uccidere Cicerone e numerosi altri
senatori; sfruttò il diffuso malcontento e mise in piedi un esercito costituito prevalentemente da ex
sillani e persone disagiate a causa della loro situazione sociale ed economica. La congiura venne
scoperta a causa di una delazione e il senato emanò un senatusconsultum ultimum contro Catilina,
dichiarato nemico pubblico e intimato ad allontanarsi da Roma. L’esercito di Catilina fu sconfitto nel
62 a Fiesole ed egli morì. Cicerone fece uccidere alcuni dei catilinari senza sottoporli a un
processo regolare, cosa che gli causò l’esilio.
A proporre l’esilio di Cicerone fu Publio Clodio Pulcro, esponente del patriziato e tribuno della
plebe nel 58 (per diventare tribuno si era fatto adottare da una famiglia plebea). Propose con
successo diverse leggi popolari, tra cui la legge Clodia. Essa stabiliva la distribuzione gratuita di
grano alla plebe urbana e l’abrogazione del decreto senatorio del 64 che aveva sciolto tutte le
associazioni professionali, dette collegia. Esse erano corporazioni private di mestiere, gruppi
associativi a scopi religiosi o finalizzati a tenere una degna sepoltura ai propri soci. Riunivano
perlopiù membri socialmente subalterni e durante le guerre civili erano divenute gruppi di
pressione politica schierate in larga maggioranza dalla parte dei popolari, motivo per cui il senato
le aveva sciolte. Clodio, dopo averne sancito la rinascita, se ne avvalse per condizionare la
politica, egli infatti spesso usava la fomentazione alla violenza delle masse popolari come mezzo
per imporsi politicamente. Gli scontri tra gruppi di facinorosi potevano ad esempio ritardare o
58

impedire lo svolgimento delle regolari elezioni, oppure essere usati come strumento di
intimidazione.
Clodio stesso fu vittima di uno di tali scontri tra bande armate, nel 52 venne assassinato lungo la
via Appia dalle squadre di Tito Annio Milone, sostenitore di Pompeo (Clodio invece tra il 58 e il 52
era il braccio armato di Cesare a Roma mentre questi si trovava in Gallia). Milone fu condannato
nonostante la difesa di Cicerone.

Gneo Pompeo Magno


Gneo Pompeo era il figlio di Gneo Pompeo Strabone, alla morte del padre i soldati a lui fedeli
passarono sotto il comando del figlio. La carriera di Gneo Pompeo, all’insegna delle violazioni della
normativa repubblicana, fu tanto eccezionale da fargli meritare il soprannome di Magno.
Nell’83, quando ancora non ricopriva alcuna magistratura, affrontò i Mariani su ordine di Silla.
Investito di un comando pretorio pur non essendo pretore impedì un colpo di stato da parte di
Marco Emilio Lepido. Dal 77 al 71 trionfò in Spagna contro Sertorio, generale di parte popolare
seguace di Mario che aveva attirato molti esuli mariani ed era stato in grado di creare una sorta di
“anti-stato”. Gli venne dato il comando proconsolare, nonostante ancora una volta non avesse
precedentemente assunto la magistratura corrispondente. Una volta rientrato in Italia partecipò
all’ultima fase della repressione contro Spartaco.
Nel 70 fu eletto console senza l’età anagrafica necessaria e senza aver svolto alcun regolare
cursus politico. Suo collega era Marco Licinio Crasso, sillano molto ricco e della stessa fazione
“conservatrice” di Pompeo.
Nel 67 grazie alla legge Gabinia per la guerra contro i pirati ottenne ampissimi poteri: comando
proconsolare per tre anni esteso a tutto il Mediterraneo. L’incarico era finalizzato alla lotta contro i
pirati che infestavano il Mediterraneo soprattutto lungo la costa africana, in Asia minore e a Creta,
che i Romani non stavano riuscendo a sconfiggere. Con la lex Gabinia Pompeo potè reclutare 20
legioni e 500 navi, usare i proventi delle province e attingere all’erario. Eliminò la piaga sociale dei
pirati in un solo anno.
Nel 66 con la lex Manilia ottenne il comando proconsolare per la terza guerra mitridatica,
scontrandosi con Mitridate re del Ponto e Tigrane re dell’Armenia. Nel 74 i Romani avevano
istituito la provincia di Bitinia, il cui territorio era stato annesso grazie al lascito testamentario di
Nicomede IV. La Bitinia era un’area fondamentale nel Mar Nero, Mitridate quindi l’aveva invasa.
Pompeo subentrò nel comando, con poteri più ampi, a Lucullo. Questi era momentaneamente
riuscito a sconfiggere Mitridate, che si rifugiò in Armenia, ma poi le sue truppe gli si erano ribellate
contro e il senato gli aveva tolto l’incarico. Pompeo fu vittorioso: mentre Tigrane era impegnato
contro i Parti, raggiunse il Ponto e mise in fuga Mitridate, che scappò e si suicidò.
Pompeo confermò il regno di Armenia a Tigrane la gli sottrasse la Siria, che nel 64 divenne
provincia romana. La stessa cosa avvenne alla Cilicia, al Ponto e alla Bitinia. Occupò la Palestina
e la sua capitale Gerusalemme e ne fece un protettorato romano. In Oriente costruì poi una
ramificata rete di relazioni clientelari.

Rientrato in Italia, a Brindisi, nel 62, Pompeo pensava che gli sarebbe stato subito concesso il
riconoscimento delle sue vittorie tramite la ratifica di quanto aveva fatto in Oriente e l’assegnazione
di terre come compenso ai suoi veterani, smobilitò quindi il suo esercito. In senato però molti erano
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preoccupati del grandissimo e crescente potere che stava assumendo, temevano che potesse
essere un pericolo per la res publica, e quindi non gli concessero subito ciò che gli spettava e
desiderava. Tra i suoi oppositori c’erano anche molti esponenti della fazione conservatrice: Catone
il Giovane, Lucullo, i Metelli.
Il malcontento di Pompeo e le tensioni con il senato portarono a uno snodo fondamentale per la
res publica, ovvero la formazione del cosiddetto primo triumvirato nel 60. “Cosiddetto” perché
non si trattava di un accordo istituzionale ma di uno scambio tra privati, quasi con carattere di
segretezza, con scopo di sostegno reciproco. I contraenti erano Gneo Pompeo Magno, Marco
Licinio Crasso e Caio Giulio Cesare, tre delle personalità più influenti di Roma: Pompeo era il
generale più brillante e osannato, Crasso l’uomo più ricco di Roma e Cesare il leader della parte
popolare che si stava affermando attraverso una carriera di successo e dal 63 deteneva il
pontificato massimo. L’accordo aveva durata quinquennale.
Varrone in un libello polemico descrisse il primo triumvirato come un “mostro a tre teste”; Plutarco
a sua volta sostiene che sia il primo e il più grande dei mali per Roma, in quanto portò a una
seconda fase di guerre civili dopo quella degli scontri di Mario e Silla.

L’accordo tra i triumviri fu rinnovato nel 56 per altri cinque anni. I tre si trovarono con le proprie
truppe a Lucca, in Gallia Cisalpina, in quanto questa non era ancora del tutto territorio romano.
 Cesare: rinnovo del comando in Gallia, dove operava già dal 58
 Pompeo: consolato per il 55 e comando proconsolare in Spagna
 Crasso: consolato per il 55 e comando proconsolare in Siria, ottima base di partenza per la
spedizione contro i Parti  la campagna contro i Parti sancì la fine di Crasso, nel 53 a
Carre subì una gravissima sconfitta, lui e il figlio vennero uccisi e Roma perse le insegne
legionarie. Si trattava di un’onta gravissima a cui in seguito Augusto cercherà di rimediare.

Nel 55 Pompeo rivestì quindi il proprio consolato con Crasso e portò avanti il suo programma
edilizio: nel 55 venne inaugurato il teatro di Pompeo, primo teatro stabile in muratura; per ragioni di
ordine pubblico infatti i teatri romani erano solo lignei, Pompeo riuscì a farlo costruire camuffandolo
come la scalinata del tempio dedicato a Venere all’interno del Campo Marzio. Dalla costruzione di
questo tempio ottenne un grandissimo riscontro in termini di immagine popolare.
In quello stesso anno in realtà in base alle regole istituzionali sarebbe dovuto partire per la Spagna
per esercitare il proconsolato, invece vi mandò i suoi legati in modo da poter rimanere a Roma per
controllare la costruzione del tempio e detenere la cura dell’annona (rifornimento di grano della
città, strumento molto prezioso per garantirsi il consenso popolare). Esercitò quindi il proconsolato
in absentia.
Nel 52 Pompeo fu console sine collega. Il secondo console infatti morì e non fu più rieletto,
ennesimo strappo alla regola della sua carriera all’insegna dell’illegittimità costituzionale. Anche
Catone il Giovane, più fiero esponente del partito legalitario e futuro martire della causa
repubblicana a Utica (detto “Uticense”), finì per appoggiare Pompeo.
60

Caio Giulio Cesare


Se da un lato Pompeo (a fasi alterne) fu il campione del senato, dall’altro lato Cesare raccolse
un’eredità politica di stampo popolare. Caio Giulio Cesare apparteneva alla famiglia dei Giuli, che
vantava una discendenza da Venere, attraverso il figlio di Enea Iulo, e nel passato avevano
esercitato una notevole influenza nello stato. La madre di Cesare, Aurelia, apparteneva a una
famiglia dell’aristocrazia plebea.
L’esordio di Cesare in politica fu rallentato dalle insufficienti disponibilità economiche della famiglia,
impoverita a causa dell’allestimento di giochi. Nonostante l’appartenenza al patriziato scelse la
fazione popolare, raccogliendo l’eredità di Mario, marito della zia Giulia, di cui fin da subito cercò di
recuperare la memoria, e del capo mariano Cinna, di cui sposò la figlia Cornelia. Nel corso della
sua carriera perseguì due obiettivi principali, che seppe rendere complementari: l’affermazione
della linea politica dei popolari contro la politica dello schieramento ottimate e il successo
personale. Per raggiungere i suoi scopi si operò per ottenere i seguenti strumenti: solide basi
economiche; alleanze con uomini potenti; comando di un esercito forte, numericamente
consistente e fedele; espansione e diversificazione del proprio bacino clientelare (composto
soprattutto da soldati, plebe e provinciali).
La sua carriera iniziò con incarichi di tipo militare, fu legato e poi tribuno militare. Nel 69 ricoprì la
sua prima carica, fu questore in Spagna. In quell’anno pronunciò un’orazione funebre per la zia
Giulia, secondo la frequente pratica di usare le donne per veicolare messaggi ideologici. Fu edile e
poi pontefice massimo, durante questa carica si oppose alla condanna a morte dei catilinari
richiesta dal console Catone. Fu anche pretore e propretore per la provincia di Spagna Ulteriore.
Nel 60 siglò l’accordo con Crasso e Pompeo e l’anno successivo fu console.

Per consolidare la sua posizione, negli anni successivi decise di impegnarsi nelle campagne
galliche (58 – 52). Nel 58 ottenne per cinque anni il proconsolato su Gallia Cisalpina e Illirico con
tre legioni + su proposta di Pompeo anche quello sulla Gallia Narbonense con un’altra legione.
Cesare aveva ampi poteri e discrezionalità, poteva nominare propri legati, fondare colonie e usare
un’indennità fissa pagabile dal tesoro. Cesare aveva scelto la Gallia per varie ragioni, sia di ritorno
d’immagine che strategiche: in futuro avrebbe potuto sfruttarla come punto di partenza per la
conquista di un potere personale di assoluto rilievo; lo zio acquisito Gaio Mario vi aveva
vittoriosamente combattuto e il ricordo delle sue imprese era ancora vivo presso l’opinione
pubblica, che avrebbe riconosciuto in Cesare l’erede di colui che aveva preservato l’Italia da una
nuova occupazione nemica; Cesare si era fatto paladino della richiesta di equiparazione giuridica
dei Transpadani, il governatorato della Cisalpina gli avrebbe concesso di preparare il terreno per
tale concessione (ed estendere le proprie clientele); impegnarsi per un lungo periodo in una
grande campagna di conquista e romanizzazione con un esercito di vaste proporzioni avrebbe
consentito a Cesare di garantirsi l’appoggio di un’imponente massa militare.
Le operazioni militari presero avvio a causa degli spostamenti degli Elvezi, tribù originariamente
collocata in Svizzera che si stava trasferendo verso ovest minacciando gli Edui, alleati di Roma, e
la provincia di Gallia Narbonense. Cesare riuscì a sconfiggerli a Bibracte, poi sconfisse anche i
Sequani, i Suevi e i Belgi. Dopo essere rientrato in Italia per rinnovare il triumvirato Cesare arrivò
fino in Bretagna, sconfisse le popolazioni locali in rivolta e poi si scontrò con gli Usipeti e i Tencteri,
popolazioni germaniche penetrate in Gallia. Cesare tra 55 e 54 riuscì a riportarli al di là del Reno
(confine tra Gallia Transalpina e Germania).
61

Nel 55 passò la Manica per minacciare le popolazioni celtiche che fornivano sostegno ai Galli della
costa e presso le quali si trovavano le radici santuariali dei sacerdoti Druidi, riferimento religioso
per l’intera Gallia. L’anno successivo guidò un’altra campagna in Britannia e raggiunse il Tamigi.
Nel 52 diverse tribù della Gallia si unirono in un’alleanza anti-romana sotto il comando di
Vercingetorìge, capo degli Arverni. Fecero una strage di Italici a Cenabo e sconfissero i Romani a
Gergovia. Cesare riuscì a sconfiggerli definitivamente con l’assedio di Alesia, nella quale
Vercingetorige si era asserragliato. Vercingetorige sconfitto fu portato in carcere a Roma, fatto
sfilare al trionfo di Cesare e poi decapitato.
Attraverso la campagna gallica Cesare riuscì a raggiungere una forza economica e una fama
straordinaria, oltre che la devozione assoluta del suo esercito (che ricompensò in vario modo). Il
suo potere stava iniziando a offuscare quello di Pompeo e a porre le basi per un’impegnativa
guerra civile. I rapporti tra i due triumviri superstiti inoltre si erano indeboliti ancora di più con la
morte di parto di Giulia, figlia di Cesare andata in sposa a Pompeo, avvenuta nel 54.

La guerra civile tra Cesare e Pompeo


Nel 52 Clodio venne assassinato e Pompeo fu incaricato di sedare le rivolte dei sediziosi; in quello
stesso anno fu eletto console sine collega e ottenne la proroga del comando sulle Spagne.
Cesare aveva chiesto di poter concorrere al consolato per il 50 senza presentare personalmente la
propria candidatura a Roma come avrebbe stabilito la procedura. Nel 59 Cesare aveva ottenuto
l’imperium proconsolare sulle Gallie e l’Illirico per cinque anni, nel 55 una proroga dell’imperium
per un’ulteriore quinquennio. Se si computava l’inizio dell’imperium di Cesare al momento in cui
esso era stato deliberato dal senato nel 55 (e non al momento della sua effettiva partenza per la
Gallia nel 58), nel 50 tale imperium era a tutti gli effetti scaduto e Cesare era solo un privato
cittadino. Il motivo per cui chiese di essere nominato console in absentia era che non voleva
tornare a Roma privo di incarichi magistratuali, perché in quel modo sarebbe stato più esposto agli
attacchi degli avversari. Il senato invece voleva raggiungere proprio questo scopo, di conseguenza
Pompeo negò tale richiesta. Cesare imboccò allora la via estrema e diede inizio alla guerra civile.
L’11 gennaio del 49 Cesare oltrepassò il Rubicone con le sue legioni, compiendo un’azione
illegale. In quest’occasione pronunciò la celebre frase “Alea iacta est”. Pompeo, colto impreparato
dalla marcia su Roma dell’avversario, fuggì dall’Italia con parte del senato, si imbarcò a Brindisi e
si diresse in Oriente per riunire un enorme esercito in grado di fronteggiare quello cesariano. Lo
scontro interno alla civitas romana assunse anche una dimensione mediterranea, la guerra non fu
solo tra Cesare e Pompeo ma anche tra i loro seguaci.
Le città italiche in breve tempo si arresero a Cesare. Il pretore Marco Emilio Lepido gli fece
conferire la carica di dittatore in absentia al solo scopo di convocare i comizi elettorali e farlo
eleggere console per il 48. A ottobre del 48 fu rinominato dittatore per un anno.

Nel 49 gli eserciti di Cesare sconfissero le truppe di Pompeo a Ilerda, in Spagna, e nell’agosto del
48 a Farsàlo, in Tessaglia. Pompeo sconfitto fuggì in Egitto, dove pensava di poter contare
sull’alleanza con il re Tolomeo XII, ma venne ucciso a tradimento. Cesare stava rincorrendo
Pompeo nel Mediterraneo, quando arrivò in Egitto e scoprì ciò che era successo decise di punire
gli uccisori del triumvirato e interferire con la successione al trono dei Tolomei. Nel descrivere
questa vicenda Plutarco da riferimento a una delle cifre stilistiche della dittatura di Cesare, la
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clementia. Cesare infatti tendeva a reintegrare sempre i propri nemici, a differenza di Silla che li
aveva proscritti e privato i loro figli dei diritti; Ottaviano cercherà di rifarsi alla clementia cesariana
nonostante le moltissime violenze commesse all’inizio della sua carriera. Cesare riconobbe
Cleopatra, sorella di Tolomeo, come legittima sovrana d’Egitto al posto degli altri eredi. Nel corso
degli scontri che si succedettero fu incendiata la preziosissima biblioteca d’Alessandria. In quei
mesi Cesare intrattenne una relazione con Cleopatra dalla quale nacque un figlio, Cesarione; la
regina d’Egitto in seguito si recò a Roma con Cesare.
La morte di Pompeo non segnò la fine delle guerre civili, ci furono degli strascichi molto sanguinosi
a causa delle resistenze di nuclei filopompeiani. Nel 46 Cesare vinse a Tapso, in Africa (dopo il
suicidio di Catone Uticense); nel 45 sconfisse i figli di Pompeo Magno a Munda, in Spagna.

Le riforme e il potere di Giulio Cesare


Dopo essere rientrato a Roma e aver celebrato quattro trionfi (Gallia, Egitto, Ponto, Africa), Cesare
si adoperò per trovare una soluzione politica che soddisfacesse buona parte dell’opinione pubblica
e della classe dirigente romana (clementia verso i suoi nemici), e al tempo stesso risanasse lo
stato, distrutto da una crisi istituzionale centenaria. Nel 46 gli era stata conferita la dittatura rei
publicae constituendae per dieci anni, con Lepido come suo magister equitum. Cesare si rese
promotore delle seguenti riforme:
 Il numero di senatori venne portato da 600 a 900 membri, con l’ammissione di cavalieri ed
elementi provenienti da tutto l’impero
 Riforma delle magistrature: il numero di questori passò da 20 a 40, quello degli edili da 4 a
6, quello dei pretori da 8 a 16. In questo modo non solo dava maggiore possibilità di
carriera politica, ma riusciva anche nello scopo di “rimpolpare” i quadri direttivi addetti
all’amministrazione della res publica, precedentemente troppo limitati
 La durata dei governatorati provinciali venne limitata a un anno per i propretori e due per i
proconsoli. Vennero introdotte pene più severe per i governatori rei di malversazione
 Vennero confermate le distribuzioni di grano gratuite, ma il numero di beneficiari venne
dimezzato a 150.000 membri
 Venne promossa una considerevole attività di progetti di rinnovamento urbanistico ed
edilizio e una ambiziosa serie di lavori pubblici. Queste operazioni di restauro, con
conseguente impiego della plebe urbana che non riceveva più le frumentazioni, permise a
Cesare di mantenere la sua buona fama.
Ordinò la ristrutturazione del Foro di Cesare, inaugurato ufficialmente nel 46 ma in realtà
completato da Augusto. Cesare fece costruire anche la cura Iulia, in cui il senato iniziò a
riunirsi dato che la cura Hostilia era stata distrutta da un incendio
 Venne realizzato un vasto programma di colonizzazione e distribuzione di terre per i
numerosissimi veterani di Cesare e per più di 80.000 cittadini meno abbienti (soprattutto
nelle province)
 Come promesso, estese la cittadinanza a tutti gli abitanti della Transpadana e ai suoi
soldati
 La lex Iulia municipalis riordinò e raccordò le norme di governo e amministrazione pubblica
dei municipi e di Roma. A Eraclea sono state trovate delle tavole bronzee in cui si descrive
il modo in cui avvenivano le distribuzioni municipali
 Fece coniare diverse monete d’oro di elevatissimo valore, su cui fece rappresentare il
proprio busto, a modello dei sovrani ellenistici
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 Riforma del calendario: introduzione del calendario solare al posto di quello lunare. Nel
calendario precedente i mesi erano articolati in base al ciclo lunare; le calende erano il
momento del medilunio, poi c’erano le none e le idi. I giorni venivano contati in negativo, in
una sorta di conto alla rovescia delle prossime calende, none e idi. L’anno iniziava in
primavera, quando il dio Marte poteva concedere la sua protezione alle imprese belliche.
Giulio Cesare si avvalse della consulenza di un importante astronomo ed elaborò un
calendario solare di 12 mesi. A partire dal 45 a.C. venne introdotto un anno bisestile che
spesso aveva 30 giorni e non 29 per compensare i divari accumulatisi tra i cambi di
calendario. L’anno durava 365 giorni e 6 ore, che ogni quattro anni formavano un giorno in
più. Ogni 128 anni quindi si accumulava un giorno di ritardo, nel 1582, anno in cui si passò
al calendario gregoriano, c’erano già 10 giorni di ritardo
Cesare diede il nome al mese di luglio, prima chiamato solo come il quinto mese dell’anno,
e Augusto diede al mese di agosto.

Nel 45 Cesare fu eletto dai comizi console sine collega. Nel frattempo aveva assunto anche la
sovrintendenza sui costumi, competenza propria dei censori.
Nel 44 abdicò dalla dittatura decennale per assumere il ruolo di dictator perpetuus. Lepido fece
altrettanto e assunse il titolo di magister equitum perpetuus. La dittatura perpetua rendeva Cesare
molto simile a un antico monarca, cosa che però veniva ritenuta meno grave rispetto alle guerre
civili. L’incarico perpetuo serviva a Cesare per condurre la sua impresa più ambiziosa, una guerra
contro i Parti in vendetta all’onta subita da Crasso. La carica perpetua gli permetteva di non avere
limiti di tempo per portare a termine questo obiettivo e di non dover tornare a Roma affinchè i
comizi ratificassero l’incarico come succedeva con le magistrature normali.
In realtà non sappiamo se Cesare abbia avuto il tempo di ricoprire questa carica o se fosse solo
stato designato dittatore perpetuo, perché, nonostante si fosse rifiutato di essere nminato re, il suo
potere sempre maggiore generava molte preoccupazioni e malcontenti, che sfociarono nella sua
uccisione. Il 15 marzo del 44, alle idi di marzo, Giulio Cesare fu assassinato nella curia di
Pompeo, vicino alla statua dell’ex avversario. I congiurati facevano parte della classe dirigente ed
erano capeggiati da Gaio Crasso Longino e Marco Giunio Bruto, figliastro di Cesare.
Bruto era stato incaricato del ripristino della libertas repubblicana, che si esplicava nel rifiuto di
obbedire al comando di uno solo e nel rispetto dell’oligarchia. Sulla città erano comparse delle
scritte in cui si diceva “Bruto ricordati dei tuoi antenati”, a ricordo di quel Giunio Bruto artefice della
cacciata dei Tarquini secondo la tradizione. Furono coniate delle monete d’argento su cui era
rappresentato sul dritto Bruno, con la scritta “imperator”, e sul rovescio la scritta “idi di marzo” e
due simboli che alludevano alla liberazione della res publica, il pugnale e il berretto che veniva
dato ai liberti nel momento della liberazione.
L’assenza di un programma politico organico dei congiurati per risollevare la res publica dopo
questi eventi traumatici condurrà al secondo triumvirato.

La situazione politica dopo la morte di Cesare


All’indomani della morte di Cesare a Roma c’erano tre figure protagoniste: Marco Antonio, uomo
di fiducia e luogotenente di Cesare, alla sua morte era console; Marco Emilio Lepido, pretore, nel
46 console con Cesare, alla morte di questi era il suo magister equitum e sempre nel 44 diventerà
64

pontefice massimo; Gaio Ottavio, diciannovenne, era figlio di un homo novus e di una parente di
Cesare, alla sua morte stava effettuando l’addestramento militare ad Apollonia.
Prima della sua morte Cesare aveva scritto un testamento per stabilire come i suoi “eredi”
avrebbero dovuto spartirsi i poteri. Inaspettatamente la figura favorita fu quella di Gaio Ottavio: nel
testamento Cesare lo adottò e gli lasciò in eredità il nome (divenne Gaio Giulio Cesare Ottaviano),
la fedeltà delle sue truppe e tre quarti del suo patrimonio. Questa cosa causò dei malcontenti e vari
problemi, il giovanissimo Ottaviano non aveva la stessa rispettabilità di Marco Antonio (che tutti
credevano sarebbe stato l’erede di Cesare) e nemmeno alcuna esperienza politica, a differenza di
molti suoi detrattori.
Nel 44, all’indomani delle idi di marzo, si assunse una politica del compromesso: Marco Antonio
prese l’iniziativa in qualità di console e cercò di mediare con i cesaricidi, decretando un’amnistia in
modo da non proseguire con una nuova guerra civile dentro e fuori Roma. Questa politica in
seguito verrà sospesa e Marco Antonio e Ottaviano si uniranno tra loro proprio nella lotta contro i
cesaricidi. Venne inoltre abolita la dittatura e furono convalidati gli atti di Cesare, per il quale si
organizzarono dei funerali pubblici.

In base al testamento di Cesare a Marco Antonio spettava il comando della Macedonia, cosa che
lo lasciò insoddisfatto in quanto avrebbe voluto la provincia della Gallia Cisalpina. Dal momento
che questa era già stata affidata da Cesare a Decimo Bruto Albino, Antonio se la fece assegnare
extra ordinem. Questo conflitto di interessi portò allo scoppio della guerra di Modena. Tra il 44 e il
Antonio marciò su Modena, dove era asserragliato Decimo Bruto. Il senato inviò contro Antonio i
due consoli e Ottaviano, al quale venne affidato un imperium straordinario propretorio. In questo
frangente Ottaviano si schierò a favore del senato e di Decimo Bruto contro Antonio,
probabilmente per ottenere la fama militare e gli appoggi di cui era sprovvisto. Ottaviano, con
l’esercito che aveva arruolato facendo leva sui soldati di Cesare stanziati in Campania, riuscì a
sconfiggere Antonio. I due consoli morirono durante gli scontri a Modena e parte della tradizione
sostiene che Ottaviano fosse implicato nella loro morte perché il suo obiettivo era proprio
raggiungere il consolato.
Dal momento che la maggior parte dei senatori non vedeva di buon occhio Ottaviano al consolato,
questi compì un’inversione di rotta e si schierò con Antonio e Marco Emilio Lepido contro il senato.
Forte di quest’alleanza in via di definizione, nel 43 Ottaviano marciò su Roma e ottenne il
consolato.

Il secondo triumvirato
Il 27 novembre del 43 la legge Tizia per la ricostituzione dello stato legittimò la formazione del
secondo triumvirato tra Antonio, Ottaviano e Lepido. A differenza del primo, che era un accordo
privato, il secondo triumvirato fu una magistratura ufficiale quinquennale allo scopo di instaurare un
potere costituente. Ai triumviri veniva conferito:
 l’imperium consolare
 il diritto a convocare il senato e il popolo
 il diritto a promulgare editti
 il diritto a designare i candidati alle magistrature
 il diritto a spartirsi le province
65

I triumviri si spartirono quindi le rispettive aree di influenza:


 Antonio - Gallia Cisalpina e Comata
 Lepido - Gallia Narbonense e Spagna Citeriore e Ulteriore
 Ottaviano - Africa, Sicilia, Sardegna e Corsica
Durante il secondo triumvirato le regolari magistrature repubblicane vennero mantenute in vita (Es
Ottaviano fu sia triumviro che console), ma furono svuotate di parte dei loro poteri originali.

Con il secondo triumvirato a Roma ci furono forti malcontenti: da un lato i triumviri imposero una
tassazione molto elevata, addirittura anche alle matrone più ricche, dall’altro c’era un clima di
grande violenza. Una delle prime iniziative fu l’emanazione della lex Pedia contro gli uccisori di
Cesare, che dava l’avvio alla vendetta sui cesaricidi scappati in Oriente. Vennero emanate delle
nuove liste di proscrizione che portarono all’uccisione e alla confisca di beni di ben 300 senatori e
2000 cavalieri. Le teste dei nemici venivano appese al Foro e chi li uccideva veniva premiato. La
vittima più illustre fu Marco Tullio Cicerone, ucciso a causa della sua politica e delle sue orazioni
Filippiche contro Antonio.

Dal momento che l’Occidente ormai era completamente sotto il controllo degli eredi di Cesare,
questi iniziarono a prepararsi per una guerra contro i cesaricidi in Oriente, dove nel frattempo
Bruto e Cassio stavano finanziando un grande esercito grazie alle ingenti tasse che imponevano.
In Sicilia e Sardegna uno dei figli di Pompeo Magno, Sesto Pompeo, agendo come pirata era
riuscito a costruire una propria autonomia; aveva accolto i proscritti e costruito una flotta con cui
metteva in pericolo gli approvvigionamenti che dall’Africa arrivavano a Roma.
Nel 42 Antonio e Ottaviano vinsero definitivamente contro i cesaricidi a Filippi, in Macedonia. Sia
Cassio che Bruto morirono suicidi. Nonostante fosse stato il più abile Antonio a vincere sul campo,
per ragioni propagandistiche Ottaviano si attribuì il ruolo di vendicatore di Cesare. Poco tempo
prima tra l’altro Cesare era stato divinizzato, cosa che permetteva a Ottaviano di
autorappresentarsi come il figlio di un dio. Dietro all’immagine del futuro Augusto come pacificatore
e monarca perfetto ci sono quindi degli atteggiamenti immorali e spietati. Nel 1939 Ronald Syme,
influenzato dagli eventi che avevano segnato la storia europea a lui recente, come l’ascesa dei
regimi nazifascisti, lo descrisse come una sorta di terrorista.

Dopo la battaglia di Filippi si procedette a una nuova spartizione del potere e a un primo tentativo
di estromettere Lepido, accusato di collusione con Sesto Pompeo:
 Antonio - Gallia Comata, Macedonia ed ex aree sotto il controllo dei cesaricidi in Oriente
 Lepido - Africa
 Ottaviano - Spagne, Gallia Cisalpina (non più provincia, entrò a far parte del territorio
romano) e Italia, dove si sarebbe dovuto occupare delle assegnazioni di terra ai veterani. Si
trattava di un problema ostico in quanto Ottaviano fu costretto a fare sia dei versamenti
personali che delle espropriazioni, che potevano causare forti malcontenti.
66

LA FINE DELLA REPUBBLICA


Gli ultimi decenni prima del definitivo decesso della Repubblica furono contraddistinti da lotte
durissime, al punto che il principato fu percepito come una necessità ineludibile nonostante la
radicata opposizione all’affermazione del potere di uno solo che aveva caratterizzato tutta l’età
repubblicana. Ronald Syme definisce l’età compresa tra la caduta della Repubblica e l’avvento
della definitiva vittoria di Augusto la rivoluzione romana. Scipione l’Africano ne era stato un
precursore a causa delle numerose infrazioni ai principi oligarchici, ma essa iniziò definitivamente
con l’avvento dei Gracchi.

Guerra di Perugia (41 – 40)


Il console Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio, e la moglie di Marco Antonio Fulvia si posero
alla testa di un’aspra contestazione alle confische e alle assegnazioni di terra di Ottaviano, che
premiava maggiormente i propri soldati rispetto a quelli di Antonio. Riuscirono a portare dalla
propria parte una fetta del senato e diedero il via alla guerra, che Ottaviano riuscirà a vincere
presso Perugia. Marco Antonio in questo contesto ebbe un atteggiamento ambiguo, non si sa se
fosse dalla parte del fratello e della moglie, che durante uno scontro venne uccisa, o di Ottaviano;
in quel momento comunque Marco Antonio si trovava in Oriente, dove aveva iniziato una
relazione con Cleopatra, e i suoi soccorsi al collega triumviro arrivarono in ritardo.
Sono state ritrovate le cosiddette glandes Perusinae, dei proiettili di piombo scagliati dai
frombolieri dei rispettivi eserciti durante l’assedio di Perugia, contenenti insulti diretti da una parte
a Lucio Antonio e Fulvia e dall’altra a Ottaviano.

Ridefinizione degli accordi (Brindisi e Capo Miseno)


In seguito alla guerra di Perugia fu necessaria una nuova ridefinizione degli accordi tra i triumviri,
che si trovarono a Brindisi nel 40. Il territorio romano fu diviso in due aree, Oriente e Occidente:
 Antonio - Oriente, scopo = portare avanti il progetto cesariano della guerra contro i Parti
 Ottaviano - Occidente, scopo = arginare Sesto Pompeo, al quale vennero assegnate
ufficialmente la Sicilia e la Sardegna. Salvo accordi differenti (che ci furono nel 39)
Ottaviano doveva quindi portare avanti la guerra contro Sesto Pompeo
 Lepido - confermato controllo dell’Africa, sempre più marginalizzato

Vennero strette anche delle alleanze matrimoniali: Ottaviano sposò Scribonia, parente acquisita di
Sesto Pompeo, dalla quale avrà una figlia, Giulia e Antonio sposò Ottavia, sorella di Ottaviano.

Nel 39 i triumviri si riunirono di nuovo a Capo Miseno per stringere un accordo con Sesto
Pompeo. L’obiettivo era risolvere la questione dell’approvvigionamento annonario che Pompeo
intercettava e pacificare la situazione in Oriente prima di concentrarsi sulla guerra contro i Parti.
Venne stabilita la fine delle persecuzioni contro i proscritti e fu concesso loro di ritornare in patria
e riacquisire i propri beni e le proprie cariche; Ottaviano cercava di allearsi con coloro che si
opponevano a lui e reintegrarli nella classe dirigente che invece lo supportava. A Sesto Pompeo
venne riconosciuto il proconsolato sulla Sicilia e la Sardegna ma anche sulla Corsica e sul
Peloponneso.
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Scontro con Pompeo (36)


Antonio si rifiutò di consegnare il Peloponneso a Pompeo, cosa che portò a forti tensioni e poi a
una vera e propria guerra. Ottaviano inizialmente si era schierato con Antonio (e per siglare
questo accordo aveva sposato Scribonia) per evitare che questi giungesse a degli accordi privati
con Pompeo. Dal momento che i rapporti tra Antonio e Pompeo però si stavano logorando,
Ottaviano passò a una nuova politica: nel 38 ripudiò Scribonia e sposò Livia, figlia di un proscritto
suicidatosi e moglie di Tiberio Claudio Nerone, che diede il suo consenso a questa unione
nonostante la ex moglie Livia avesse già un figlio da lui e ne aspettasse un altro. Ottaviano
rimarrà con Livia per il resto della sua vita. (NB anche quando Ottaviano sarà princeps e
imperator non bisogna riferirsi a Livia come imperatrice, nella concezione romana il termine
imperator ha un significato diverso dal nostro e che non si applica donne, escluse dal vertice del
potere).

Nel frattempo nel 38 si concluse il primo quinquennio del triumvirato. Nel 37 Antonio e Ottaviano
si trovarono a Taranto per rinnovarlo per altri cinque anni e stabilirono che Antonio avrebbe
dovuto dare a Ottaviano 120 navi per la sua guerra contro Pompeo e Ottaviano 20.000 legionari
ad Antonio per la sua guerra in Oriente.

Nel 36 Agrippa, amico fedele di Ottaviano, allestì una flotta e assunse il comando delle operazioni
contro Pompeo. Riuscì a sconfiggerlo a Milazzo e a Nauloco. Pompeo fuggì in Oriente e l’anno
successivo morì. Al termine del suo regno Augusto redasse le Res gestae divi Augusti: si tratta
del suo testamento politico, una sorta di memoriale in cui fa un riassunto parziale e tendenzioso
della sua vita e tra le alte cose si attribuisce la liberazione del mare dai pirati.
Lepido, che partecipava alle operazioni e aveva concorso alla sconfitta delle truppe pompeiane in
Sicilia con un esercito trasferito dall’Africa, rivendicò l’acquisizione dell’isola ai suoi domini
minacciando Ottaviano. Questi allora lo privò delle sue truppe e lo esiliò presso il Promontorio
Circeo, dove svolse solo la carica di pontefice massimo fino alla sua morte nel 12 a.C. Il
triumvirato perse definitivamente un membro e Ottaviano iniziava a essere sempre più potente:
nel 35 gli fu conferita la sacrosanctitas, prerogativa dei tribuni della plebe che lo rendeva
inviolabile. Qualche tempo prima ottenne anche che fosse stabilmente premesso al suo nome il
titolo di imperator, che divenne il suo praenomen.
Tra il 35 e il 34 Ottaviano inoltre si dedicò a un’impegnativa campagna contro gli Illiri, che
sconfisse ancora una volta grazie ai servigi di Marco Agrippa.

L’impresa di Antonio in Oriente


Dopo il successo di Filippi Antonio restò in Oriente, dove impostò una proficua rete di alleanze
con i sovrani locali e, anche grazie alle ingenti tassazioni, riuscì a mettere in piedi un forte
esercito per portare avanti la sua impresa contro i Parti (nonostante Ottaviano non gli avesse
mandato i legionari promessi a Taranto).
Tra il 39 e il 38 il luogotenente Ventidio Basso guidò una serie di campagne vittoriose ottenendo il
primo trionfo romano contro i Parti. Nonostante ciò tali campagne non portarono a nuove
acquisizioni territoriali e non riuscirono neppure a debellare la minaccia partica.
68

Nel 36 prese avvio la spedizione di Antonio in Armenia contro i Parti. Si giunse all’assedio di
Artaxata ma Antonio fu sconfitto e costretto alla resa. Nonostante avesse subito gravi perdite e
conquistato solo l’Armenia Antonio celebrò una sorta di trionfo ad Alessandria e fece coniare delle
monete con la legenda Armenia devicta, ovvero Armenia sottomessa.

La battaglia di Azio (31) e la vittoria di Ottaviano


In Oriente Antonio seppe governare con acume politico, si pose in dialogo con le élite e le
popolazioni locali e assunse alcuni dei loro costumi. La sua relazione con Cleopatra ebbe
importanti risvolti politici, non solo perché l’Egitto era un partner molto importante in virtù della sua
ricchezza, della sua flotta e della sua posizione geografica strategica, ma anche perché concorse
a creare tensioni sempre maggiori tra i due triumviri.
Nel 34 Antonio siglò la cosiddetta donazione di Alessandria, il suo testamento, con la quale
riconosceva i tre figli avuti da Cleopatra e attribuiva loro, a Cleopatra e a Cesarione (del quale era
stata confermata la paternità di Cesare) alcuni territori romani nell’area orientale riorganizzata da
Pompeo. Affermava inoltre di voler essere sepolto ad Alessandria. Ottaviano, spaventato dal
potere di Antonio e dal fatto che la sua posizione in quanto figlio adottivo di Cesare sarebbe
potuta risultare destabilizzata di fronte al figlio naturale Cesarione, strumentalizzò l’avvicinamento
ai costumi orientali di Antonio per denigrarlo, presentando le sue azioni come un tradimento del
mos maiorum frutto dell’infatuazione per Cleopatra. Nel 35 inoltre Antonio aveva rimandato in
Occidente Ottavia, moglie romana “legittima” e parente di Ottaviano, per poi ripudiarla nel 32.
Ottaviano rese Antonio oggetto di una propaganda diffamatoria che oscurò i suoi meriti (anche
nelle Res gestae le imprese vittoriose di Antonio sono cancellate, l’unico protagonista è Augusto).
Tale propaganda fece presa anche sull’opinione pubblica, che tra l’altro non vedeva di buon
occhio nemmeno il fatto che Cleopatra fosse regina.

Nel 32 l’intero Occidente giurò fedeltà a Ottaviano, che a partire da quell’anno non godeva più
della copertura istituzionale del triumvirato. Tale giuramento attribuiva a Ottaviano un mandato
pieno per la guerra contro Cleopatra. Ottaviano, in rispetto della sintassi bellica romana,
dichiarò guerra solo a Cleopatra, regina straniera, e non ad Antonio, suo compatriota: in questo
modo la guerra civile assumeva le sembianze di una guerra straniera.
Nel 31 ad Azio si consumò la battaglia finale, che secondo alcuni storici segnò l’inizio del
principato (per altri iniziò nel 27). Durante la battaglia Cesarione fu ucciso, Antonio e Cleopatra
riuscirono a scappare e poi si suicidarono. Nel 30 Alessandria fu conquistata e l’Egitto divenne
proprietà privata di Ottaviano, che esercitò quindi su di esso un controllo diretto.
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LA RINASCITA DI ROMA: IL PRINCIPATO AUGUSTEO


Dopo la battaglia di Azio Ottaviano ebbe campo libero: i suoi oppositori erano stati tolti dalla
scena politica e la popolazione era così stremata dalla crisi e dalle guerre da vedere la rinuncia
alla libertà politica e l’ascesa del principato come una necessità. L’assetto politico dello stato
venne infatti trasformato e, attraverso procedimenti cauti e avvenuti in tempi lunghi, fu inaugurata
una nuova modalità di governo.
Appena tornò a Roma dall’Oriente Ottaviano abrogò le norme emanate dal triumvirato e si
assicurò di non far sembrare il passaggio dalla res publica al potere di stampo monarchico troppo
brusco attraverso un’accurata politica propagandistica. Grazie al “potere delle immagini” riuscì ad
autorappresentarsi come pacificatore e rivitalizzatore del mos maiorum, legittimando il proprio
potere e giustificando la propria posizione nello stato, che concentrava nelle sue mani poteri che
la normativa prevedeva fossero ripartiti tra diversi magistrati, attraverso un consenso
generalizzato. In base a questa propaganda le sue azioni erano basate su: virtus, clementia,
iustitia e pietas (onori citati in uno scudo conferitogli dal senato).

Il principato fu un’attenta costruzione processuale nella quale sono riconoscibili più tappe:
 All’indomani dell’accordo di Brindisi si fece attribuire il titolo di imperator e la
sacrosanctitas
 Nel 32, momento in cui era vulnerabile perché era scaduto il potere da triumviro, fece
effettuare all’intero Occidente un patto di fedeltà verso di lui
 Nel 28 si fece nominare princeps, qualifica tradizionalmente attribuita al più eminente dei
senatori (il princeps senatus) che da questo momento verrà usato nel senso di princeps
assoluto, nel significato repubblicano di primo tra pari, ovvero di un primato generalizzato
alla Repubblica
Nel 27 il senato gli conferì l’appellativo di Augusto, titolo cultuale che rifletteva la sua
eccellenza e connetteva il suo primato nello stato alla sua auctoritas, conseguente a una
particolare predilezione divina. Ottaviano divenne quindi Imperator Caesar Divi filius
Augustus  imperator praenomen, Caesar nomen, Divi Filius patronimico, Augusto
cognomen.
Lo stesso anno Augusto compì un gesto di grande effetto propagandistico, la restitutio rei
publicae: restituì (formalmente) al senato e al popolo romano i poteri eccezionali che gli
erano stati conferiti nello scontro con Antonio e avviò la restaurazione delle istituzioni
repubblicane.
 Nel 2 a.C. ottenne il titolo di pater patriae, che definiva il suo ruolo nella salvezza dello
stato

I poteri di Augusto
Augusto mantenne in vita il consolato, che ricoprì lui stesso nel 43, nel 33 e ininterrottamente dal
31 al 23, anno in cui lo depose in conseguenza di una congiura ordita ai suoi danni proprio in
ragione del carattere autocratico del suo potere, attestato in primo luogo dall’assunzione reiterata
della magistratura più importante della carriera senatoria.
Nel 27 gli fu attribuito il potere proconsolare decennale sulle province non pacificate. In età
augustea le province vennero ripartite nel seguente modo:
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1) Province senatorie o pacatae: di più antica costituzione, ormai pacificate e profondamente


romanizzate, non era necessaria la presenza di legioni. Erano governate da proconsoli,
ovvero ex magistrati provvisti di imperium, ex-consoli o ex-pretori a seconda
dell’importanza della provincia
2) Province imperiali o non pacatae: di recente acquisizione, non ancora pacificate, era
necessaria la presenza di legioni. Venivano governate da legati di Augusto con poteri
propretorili ma era Augusto il titolare dell’imperium (Augusto il proconsole di queste
province, i legati quindi avranno al massimo poteri propretorili)
3) Province procuratorie: province di estensione limitata in cui erano stanziate solo truppe
ausiliarie (Giudea, Rezia, Norico, distretti alpini). Dopo un’iniziale fase prefettizia furono
governate da procuratori provenienti dal ceto equestre, processo che giunse a compimento
con Claudio
4) Egitto: provincia autonoma dotata di uno statuto particolare. Era governato dal prefetto
d’Egitto, uomo di fiducia del princeps appartenente al ceto equestre, integrato da Augusto
nei ranghi di amministrazione e burocrazia statale. I senatori potevano accedere in Egitto
solo previa autorizzazione del princeps.

A partire dal 23, anno in cui si dismise dal consolato, amministrò lo stato mediante la somma di tre
poteri principali + l’auctoritas:
1) Potestà tribunizia perpetua: dato che non era più console ma solo proconsole, aveva
bisogno di un incarico che evidenziasse il suo ruolo di princeps e gli desse potere civile sul
territorio italico. Assunse le prerogative riservate ai tribuni della plebe (diritto di veto,
iniziativa legislativa, facoltà di convocare il popolo e il senato, inviolabilità e opportunità di
instaurare un rapporto di patronato nei confronti della plebe). Il potere, conferito in forma
vitalizia, veniva rinnovato ogni anno e quindi la sua menzione nella titolatura imperiale
costituisce un elemento datante

2) Potere proconsolare superiore: estensione del comando provinciale eccezionale


attribuitogli nel 27, che diventa maius et infinitus

3) Pontificato massimo: si trattava della più prestigiosa carica religiosa, ricoperta da Lepido
fino all’anno della sua morte, nel 12. In quell’anno la assunse Augusto e attraverso essa fu
artefice di numerose riforme in ambito religioso.

La sopravvivenza delle istituzioni repubblicane


Nella progressiva definizione del suo potere Augusto applicò un criterio che gli consentì di
assumere e mantenere una posizione di primato e al tempo stesso rispettare formalmente i
fondamenti istituzionali repubblicani: scisse i poteri dalle cariche che tradizionalmente li
esprimevano, mantenendo in vita le magistrature ma svuotandole di gran parte delle loro
prerogative e le incentrandole su di sé. Malgrado l’apparente indipendenza le magistrature erano
quindi sottoposte al controllo del principe (NB: il principato in questa fase non divenne una
magistratura, succederà con la dinastia flavia)
71

 Senato: riportato a 600 membri e alzato il censo minimo per accedere alla curia. Il suo
ruolo fu ridimensionato in quanto perse i propri poteri tradizionali in ambito di politica estera
e finanziaria. Inoltre subì la concorrenza di due nuovi strumenti di governo e centri di potere
introdotti da Augusto: il consilium principis e la domus principis
 Questura: rimase la prima tappa della carriera senatoria ma il numero dei questori fu
ridotto nuovamente a 20
 Edilità e tribunato della plebe: 6 edili e 10 tribuni della plebe si occupavano di ordine
pubblico, organizzazione dei mercati e manutenzione degli edifici pubblici
 Pretura: numero pretori fissato a 10
 Consolato: coppia di consoli che entrava in carica a gennaio e dava il nome all’anno +
coppia di consoli che prendeva il loro posto a luglio
 Censura: decadde in quanto perché il principe ne assunse parte delle prerogative
attraverso la sovrintendenza dei costumi
 Assemblee popolari: comizi curiati diritto familiare (in particolare questioni inerenti ad
adozioni) + potere elettorale condiviso con comizi centuriati. Il ruolo delle assemblee
elettive divenne puramente formale, Augusto esercitava un’autorità indiscussa sulla plebe
urbana

Augusto seppe innestare nella classe dirigente tradizionale dei nuovi elementi: militari, cavalieri,
provinciali, liberti. Per tranquillizzare i ceti abbienti esercitò anche un’azione di tutela della
proprietà, risarcì con il proprio patrimonio coloro ai quali erano state requisite delle terre in favore
dei veterani e restituì gli schiavi fuggitivi ai legittimi padroni.

La carriera equestre
Molti dei sostenitori di Augusto appartenevano al ceto equestre. Per conciliare i loro interessi con
quelli dei provinciali, a lungo sfruttati dai pubblicani, si sperimentò un progressivo passaggio dal
sistema dell’appalto a quello della gestione diretta attraverso l’impiego di personale di stato
appositamente stipendiato: si trattava del primo nucleo di un apparato burocratico. Per
compensare i cavalieri del danno economico rappresentato dallo smantellamento del sistema delle
societas pubblicane Augusto reclutò i nuovi funzionari proprio tra gli equestri.
Si andò quindi strutturando una carriera equestre, parallela a quella senatoria e strutturata in tre
livelli successivi di incarichi:
1) Milizie equestri - ruolo di natura militare, periodo di almeno tre anni in cui il cavaliere
svolgeva funzioni di ufficiale nell’esercito (prefetto di una coorte ausiliaria, tribuno
angusticlavio in una legione, prefetto di un’ala di cavalleria ausiliaria)
2) Procuratele - ruolo di natura burocratica, incarichi gerarchizzati in base alle retribuzioni
annue. Il procurator poteva svolgere funzioni nella cancelleria imperiale, nella gestione
delle finanze imperiali, al governo di una provincia procuratoria
3) Prefetture - il cavalieri poteva assumere la prefettura della flotta attraccata a Miseno o a
Ravenna, dei vigili, dell’annona, d’Egitto o del pretorio.
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Le iniziative in favore della plebe e dei provinciali


Anche la plebe urbana aveva contribuito in larga misura al successo di Augusto; per
ricompensarla il princeps portò avanti una serie di iniziative: istituì delle commissioni senatorie
incaricate della sorveglianza degli acquedotti e della costruzione degli edifici pubblici, sia religiosi
sia civili; allestì spettacoli gladiatori, feste e giochi in numerose occasioni; predispose distribuzioni
di grano e di doni in denaro.
Augusto mise in atto un vasto programma di edilizia monumentale sia di pubblica utilità che
inteso all’abbellimento di Roma. L’urbanistica divenne lo strumento privilegiato per la celebrazione
del nuovo governo, in particolare un progetto nella zona del Campo Marzio:
 realizzazione del Foro di Augusto e del Tempio di Marte Ultore, tempio ex voto dopo la vittoria
di Filippi. La sua costruzione si colloca probabilmente tra il 30 e il 27, la consacrazione ufficiale nel
2. Inizialmente il tema centrale era l’ultio, la vendetta, nei confronti di Cesare; una volta mutata la
temperie politica il tema centrale passò dal ricordo delle guerre civili al ricordo delle guerre contro i
nemici esterni. In particolare si insisteva sulla vendetta rispetto alla sconfitta e all’onta subita nel 53
a causa dei Parti. A tale proposito Augusto a fini propagandistici dichiarò di essere riuscito a
sconfiggere i Parti in battaglia, quando in realtà la pace era stata frutto di un’operazione
diplomatica avviata nel 23. Le insegne furono rimpatriate a Roma e vennero custodite nel tempio,
nonostante ciò la soluzione di rinuncia alle armi di Augusto generò forti dissensi
 costruzione dell’Ara Pacis, altare celebrativo eretto nel 13, quando Augusto era di ritorno dalla
penisola Iberica e dalla Gallia; fu inaugurato nel 9. Si tratta del manifesto dell’ideologia imperiale, è
una celebrazione della pax Augustea
 Horologium Augusti e Mausoleo di Augusto
 Agrippa, braccio destro di Augusto a cui lui diede in sposa la figlia Giulia, fece costruire diversi
altri edifici nel Campo Marzio, tra questi le Terme e il Pantheon (dove ogni 21 aprile a mezzogiorno
il sole entra nell’oculus con un’inclinazione tale da creare un fascio di luce che centra
perfettamente il portale d’ingresso; a quell’ora esatta l’imperatore varcava la soglia del Pantheon e
tutto il suo corpo veniva immerso nella luce).

Per la plebe rustica venne varato un ampio piano di deduzioni coloniarie in Italia e nelle province.
Si avviò un capillare processo di urbanizzazione e di rilancio dell’agricoltura.
A favore dei liberti il princeps istituì i collegi dei seviri augustali, ovvero gli addetti al culto dei Lari
di Augusto, che si occupavano della promozione della sua immagine. Ai liberti fu affidato anche
l’ufficio di contabilità centrale.
Per quanto riguarda i provinciali, Augusto emanò diversi provvedimenti in loro favore:
 ai governatori vennero assegnati stipendi fissi e molto elevati
 si stabilì che i reati di concussione venissero giudicati da un’apposita corte di giustizia in
senato alla presenza di Augusto
 fu razionalizzata la riscossione delle imposte
 per agevolare le comunicazioni tra i governatori e Roma fu istituito un apposito servizio di
posta per l’amministrazione statale, detto cursus publicus. Inoltre si ampliò il sistema viario,
soprattutto nelle province, e se ne curò la manutenzione
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 in ogni provincia furono istituite delle assemblee periodiche


 venne concessa la cittadinanza ad personam a esponenti di alcune élite provinciali e si
assicurò loro l’accesso al senato

L’organizzazione finanziaria e territoriale


Oltre all’erario vennero istituite due nuove casse:
ERARIO ERARIO MILITARE FISCO
 Cassa tradizionale del  Istituito nel 6 d.C.  probabilmente la sua costruzione
popolo romano venne avviata già con Augusto
 pensato per garantire un
 formalmente premio di congedo ai soldati  cassa centrale nella quale
indipendente dal senato confluivano le entrate dei beni di
 alimentato dal gettito delle
pertinenza dell’imperatore: tasse
 vi confluivano i redditi imposte indirette che
delle province imperiali, beni
pertinenti al populus gravavano sui cittadini
testamentari, donativi, patrimonio
Romanus, in particolare romani (5% tassa
personale dell’imperatore  era
le imposte riscosse sull’eredità, 1% sulle vendite
complicato distinguere i redditi che
nelle province senatorie all’asta)
giungevano all’imperatore in quanto
privato da quelli che gli derivavano
in quanto titolare di imperium

A fini amministrativi Roma fu divisa in 14 distretti, ripartiti a loro volta in quartieri. L’Italia, che ormai
comprendeva anche la Gallia Cisalpina, fu divisa in 11 regioni con l’obiettivo primario di agevolare
le operazioni di censimento e di esazione fiscale, dato dal 6 d.C. le nuove tasse imposte agli
Italici per l’erario militare rappresentavano una voce importante nel bilancio dello stato.

La pace augustea?
Il periodo detto di “pace augustea” non corrispose affatto a un’età priva di guerre; al contrario la
pace civile, interna a Roma, era salvaguardata proprio da guerre esterne d’espansione:
o 35 – 33 campagne vs Illiri, guerra dalmatica
o 31 Azio
o 30 Egitto annesso
o 27 – 19 Spagne, debellate le ultime ribellioni di resistenza alla romanizzazione. Alle due
province di Spagna Citeriore e Ulteriore vennero sostituite le tre nuove province di
Tarraconense, Betica e Lusitania (oltre all’effimera Transduriana)
o 25 Alpi occidentali e Galazia. Estensione dell’egemonia nel Levante promossa preferibilmente
non attraverso annessioni dirette ma tramite impostazioni di rapporti clientelari con regni
indipendenti (Tracia e Cappadocia) o imposizioni di re filoromani (Armenia)
74

o 16 – 15 Alpi centrali e orientali


o 23 – 20 trattative con regno partico
o 14 – 9 Pannonia
o 12 – 7 regione renana della Germania, ottenuta la sottomissione effimera dei territori
compresi fino al fiume Elba
o 9 d.C. sconfitta di Teutoburgo, causò l’arretramento del confine dal fiume Elba al Reno (e dal
Danubio). Il capo dei Cherusci Arminio guidò una coalizione di tribù locali contro i Romani,
sconfitti e massacrati. Il territorio perduto fu brevemente riconquistato dai Romani ma il
confine rimase presso il Reno.

La propensione ad accogliere in pace coloro che si fossero dimostrati disponibili alla


sottomissione e, al contrario, a distruggere quanti avessero opposto resistenza al suo potere, fu
un tratto caratterizzante della politica augustea sia estera che interna, nella gestione del
dissenso. A causa del rigore nell’applicazione di strumenti sia preventivi che repressivi del
dissenso Tacito definì la pace augustea come una pace insanguinata. Allo stesso modo anche
Seneca nel I secolo mise in luce l’efferatezza di Augusto a fronte della sua autonarrazione
propagandistica di pacificatore.
Il dissenso augusteo è articolato in tre fasi:
1. Le prime manifestazioni eversive presero corpo nel 31 ad opera di conservatori
filorepubblicani che miravano all’uccisione di Ottaviano e a un effettivo ritorno alle
istituzioni repubblicane. Tra i congiurati c’era il figlio di Lepido
2. Dopo il 27 a.C. vennero allestite nuove congiure antiaugustee da parte degli integrati, cioè
coloro che avevano militato nelle file antiottaviane (prima con i repubblicani e poi con
Antonio) e col tempo avevano accettato il potere di Augusto credendo fosse una
monarchia moderata e non autocratica. Dopo aver capito che non era così iniziarono a
congiurare per eliminare il princeps (ad esempio ci provarono nel 23)
3. Alla fine del I secolo a.C. e all’inizio del I secolo d.C., quando il governo augusteo con
un’inversione di rotta si era assestato su una linea di maggior apertura nei confronti del
senato, pur senza mai mettere in discussione il primato del principe, il dissenso operò al
fine di sollecitare Augusto ad atteggiamenti più evidentemente autocratici, sul modello
antoniano e prima cesariano. L’opposizione maturò in questo caso in seno alla stessa
famiglia del principe e ne furono promotrici in primo luogo sua figlia Giulia Maggiore e sua
nipote Giulia Minore, ma anche gli eredi di Marco Antonio che Augusto aveva cresciuto
nella sua stessa casa, come Iullo Antonio.

L’opposizione antiaugustea non riuscì mai nei suoi intenti grazie al tempestivo intervento della
polizia segreta del principe e alla scarsa coesione interna dei dissenzienti. La storiografia risente
pesantemente della rilettura degli eventi promossa da Augusto attraverso la sua pubblicistica e, di
conseguenza, consegna una memoria degli eversori politici spesso inquinata dalla volontà di
salvaguardare l’immagine del principe. Ciò si traduce in un intuibile ridimensionamento
quantitativo del fenomeno oppositorio, ma anche in uno sforzo di delegittimazione della
sovversione.
Un altro aspetto importante che segnò il successo del regno di Augusto fu proprio la sua
longevità. Tacito scrisse che alla morte di Augusto nessuno si ricordava cosa fosse la libertas.

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