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Introduzione
allo studio esegetico
del diritto romano
Terza edizione
© 2006 by CLUEB
Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
In copertina: Canaletto, Capriccio con rovine classiche, la Basilica di Vicenza, la Piramide di Caio
Cestio e l’Arco di Costantino, Collezione privata, olio su tela.
Lambertini, Renzo
Introduzione allo studio esegetico del diritto romano / Renzo Lambertini. – Bologna : CLUEB,
2006
191 p. ; 21 cm
(Lexis. Biblioteca di scienze umane)
ISBN 978-88-491-2643-3
CLUEB
Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
40126 Bologna - Via Marsala 31
Tel. 051 220736 - Fax 051 237758
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Finito di stampare nel mese di luglio 2006
da Legoprint - Lavis (TN)
INDICE
Capitolo I - LE FONTI
1. L’esegesi delle fonti del diritto romano. Fonti di produzione e fonti
di cognizione del diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
2. Altre classificazioni nell’ambito delle fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
4. Il Lapis Satricanus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
5. La palingenesi della legge delle XII tavole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
LE FONTI
SOMMARIO: 1. L’esegesi delle fonti del diritto romano. Fonti di produzione e fonti di
cognizione del diritto – 2. Altre classificazioni nell’ambito delle fonti.
che l’art. 1 delle Disposizioni sulla legge in generale – c.d. preleggi – pure classifica tra
le fonti del diritto. Si tratta di una norma che nasce dal comportamento dei consociati
in determinati settori dell’attività umana, e che si caratterizza per la contemporanea
presenza di due elementi: uno oggettivo, cioè la prassi durevole e uniforme tenuta in
ordine a un particolare ambito di rapporti; ed uno soggettivo, ovvero la persuasione,
così facendo, di ottemperare a un comando giuridico (opinio iuris ac necessitatis). La
consuetudine è quindi norma non scritta; ne deriva che una raccolta di usi, elemento
estraneo alla fonte, può considerarsi mezzo di conoscenza della medesima. Ritengo
tuttavia che la costruzione teorica adottata per la legge possa valere, in linea di princi-
pio, anche per la norma consuetudinaria. L’uso, per esistere, ha sempre bisogno, si è
detto, di una pratica costante, che non può venire accantonata se non a prezzo della
sua scomparsa; a differenza della legge, che non può essere abrogata dalla desuetudine
(art. 15 delle citate preleggi), e che mantiene quindi la propria vincolatività malgrado
l’eventuale inosservanza da parte dei consociati. Può pertanto affermarsi che la prima-
ria fonte di cognizione dell’uso è l’uso stesso, e in particolare la consapevolezza del suo
esistere e dei suoi contenuti facente capo ai soggetti che lo praticano. Si tratterà di una
fonte di cognizione non scritta, ma nel concetto di cognizione il requisito della scrittu-
ra non è necessariamente implicato. La coscienza del suo esistere è mezzo di conoscen-
za a disposizione anche di quei consociati che, non avendo mai operato in quel deter-
minato campo, ne sono contingentemente all’oscuro.
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3 La vigenza in Europa del diritto romano nella sua sistemazione finale giustinianea
(Corpus Iuris) è cessata definitivamente solo nel 1900, allorché anche l’Impero germa-
nico si è dato una propria codificazione (Bürgerliches Gesetzbuch, in sigla BGB = Codi-
ce civile). Vedi anche infra, cap. XI.3.
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4 Se il brano di un giurista, ad es. del II secolo d.C., che tratta dell’istituto x è inse-
rito in una compilazione realizzata ad es. nel VI secolo, come il Digesto di Giustiniano
(su cui ampiamente infra, cap. VIII.4), si tratta di stabilire se il frammento è genuino,
cioè tale e quale uscì dalla penna del giureconsulto, ed in tal caso può essere utilizzato
per la ricostruzione dell’istituto in parola nel II secolo; ovvero se è stato alterato in mo-
do sostanziale dall’autore della compilazione, e allora varrà semmai a testimoniare sui
caratteri dell’istituto nel VI secolo. Ma può anche capitare che il rimaneggiamento sia
dovuto a un glossatore ad es. del IV secolo, e che quindi il compilatore si sia trovato
fra le mani un testo già alterato e non abbia fatto che riprodurlo. In tal caso il dato
spurio, o insiticio, potrebbe testimoniare di una modifica che l’istituto ha subìto in
epoca intermedia, tra quella dell’autore classico e quella del compilatore. È spesso as-
sai difficile tuttavia determinare l’epoca di una glossa: dati più sicuri si possono ricava-
re, una volta individuata con sicurezza, dall’interpolazione, ovvero dal volontario inter-
vento del compilatore. Sul problema delle interpolazioni, in particolare nel Digesto di
Giustiniano, vedi infra, cap. VIII.13.
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5 Dalla fusione di questo dato con il testo del senatoconsulto riportato da Ulpiano
contemporanee e successive
tecniche e atecniche
7 Benché d’acchito possa apparire strano, anche il momento iniziale dell’arco stori-
co qui considerato è in più o meno larga misura frutto di convenzione. Poiché infatti il
diritto romano delle origini è di natura consuetudinaria (vedi infra cap. III.2), esso va
ritenuto in misura rilevante preesistente alla civitas: in questa ottica il diritto di Roma è
anteriore alla fondazione della città stessa.
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l’iscrizione latina più risalente (VII secolo a.C.). Una penetrante inda-
gine della Guarducci1, in cui sono state messe a profitto le più raffinate
tecniche scientifiche per individuare l’età dei reperti, ha però dimo-
strato che si tratta di un falso, fabbricato forse negli ultimi decenni del
secolo XIX2.
Per quanto concerne le fonti papirologiche, occorre delineare i ca-
ratteri principali delle quattro materie che ne costituiscono il supporto.
Il papiro è innanzitutto una pianta ombrelliforme (cyperus papyrus),
dal fusto a sezione triangolare, che può alzarsi fino a cinque metri d’al-
tezza. Il suo habitat ideale era il Delta del Nilo, zona umida e limaccio-
sa, in cui la pianta prosperava in enormi quantità. Geografi e naturali-
sti antichi la indicano presente anche in Etiopia, in Palestina, in Babi-
lonia. Ve ne sono tuttora alcune macchie in Sicilia, presso Siracusa. Se-
de per antonomasia del papiro è sempre stato tuttavia l’Egitto, che
aveva il monopolio sia del vegetale sia della carta che se ne ricavava. Le
fibre della pianta – adatta invero a una molteplicità di usi – furono in-
fatti utilizzate in larghissima misura, come si è detto, quale materiale
scrittorio. Il naturalista Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), in due celebri
luoghi della sua Naturalis Historia (13.74-77; 81-82), illustra il procedi-
mento seguito nella fabbricazione della carta. Le nozioni dell’antico
erudito sono state poi precisate dall’osservazione dei fogli papiracei
pervenutici a migliaia dal mondo greco-egizio in particolare. Il midollo
del fusto veniva sezionato in strisce nel senso della lunghezza e si for-
mava poi uno strato costituito da una serie di bande parallele sovrap-
poste un poco lungo i bordi. A questo strato se ne faceva aderire un al-
tro identico, ma in modo che le fibre del primo risultassero perpendi-
colari a quelle del secondo. Il foglio quindi veniva passato alla pressa e
fatto essiccare, la carta rifilata ai bordi e levigata. Per ottenere il corri-
spondente del nostro libro, cioè il rotolo (tÒmoj, volumen), si incollava-
no l’uno di seguito all’altro più fogli della stessa altezza e si avvolgeva il
Roma dell’Ottocento, in Atti Acc. dei Lincei, Scienze mor., stor., filol., VIII.24, pp.
413 ss.
2 L’autrice, nello scritto citato nella nota 1, non si limita a sostenere con vari argo-
menti la falsità della Fibula, ma indica anche i personaggi, alcuni ben noti, al cui ope-
rato sarebbe dovuto l’apocrifo: sul punto, in senso contrario, Guarino, in Labeo, 27,
1981, pp. 247 ss. Cfr. anche lo stesso Guarino, in Labeo, 38, 1992, pp. 55 ss.
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tuito cioè come i nostri volumi con fogli doppi piegati in quattro e cu-
citi sul lato sinistro rispetto a chi legge, in modo da formare sedicesimi
come quelli attuali. Se il codice è la forma libraria tipica della pergame-
na e il rotolo quella del papiro, ciò non significa tuttavia che sia scono-
sciuto il codice papiraceo, la cui introduzione si ritiene anzi più risa-
lente rispetto a quello di cartapecora. È certo comunque che la forma
del libro arrivata ai nostri giorni, il codice, ha finito col sostituire gra-
dualmente nella stessa età antica quella costituita dal rotolo.
Proprio il passaggio dal volumen al codex ha costituito il perno di
una famosa teoria sostenuta dal Wieacker nella sua opera Textstufen
klassischer Juristen, Göttingen 1960. Già in precedenza la c.d. critica
interpolazionistica (su cui infra, cap. VIII.13) aveva fatto registrare una
svolta nelle proprie persuasioni di fondo, credendo di individuare la
maggior parte delle alterazioni (soprattutto formali) dei testi classici
non più nell’intervento dei commissari giustinianei, bensì nelle varie ri-
pubblicazioni implicate dal largo uso dei medesimi materiali nelle
scuole e nelle sedi giudiziarie della prima età postclassica. Il Wieacker
in particolare ha ritenuto che la maggioranza delle alterazioni sia da ri-
collegare alla nuova forma del libro che si è imposta a partire dalla fine
del III secolo d.C. anche nel settore delle opere giurisprudenziali. La
forte domanda di opere della giurisprudenza classica, le cui tecniche
sono ormai un ricordo, la conseguente necessità di approntare più edi-
zioni delle opere stesse, e per di più munite di delucidazioni tali da
renderne perspicuo il contenuto in un’epoca di marcata involuzione
della cultura giuridica, avrebbero determinato una generale revisione
del materiale classico con le conseguenze che abbiamo indicato. La tesi
di fondo del Wieacker, per quanto acuta e ben elaborata, ha incontrato
non poche perplessità nella dottrina moderna.
Gli ostraka, come si è detto, sono cocci di terracotta, in origine
spesso prelevati dai rifiuti e utilizzati come supporto scrittorio graf-
fiandone il lato convesso. Dall’Egitto ce ne sono pervenuti a migliaia,
ma noti sono anche quelli romani del monte Testaccio, che ne costitui-
va, come si arguisce dal nome (testa = pentola, vaso), la sede di grandi
ammassi. La natura del materiale non consente scritti di notevole
estensione; gli ostraka contengono per lo più brevi note e quietanze re-
lative a tasse.
Le tavolette cerate, di largo uso in Roma, erano assicelle di legno
scavate su una faccia in maniera da lasciare in rilievo la cornice esterna.
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1 A una delle non rarissime rassegne contenute nelle fonti letterarie avremo occa-
ti, dai senatoconsulti, dai decreti dei principi, dall’autorità dei competen-
ti. (1) Il diritto pretorio è quello che i pretori hanno introdotto per con-
fermare o integrare o correggere il diritto civile per l’utilità pubblica. Es-
so è detto anche onorario: così chiamato dalla magistratura dei pretori».
pirio avrebbe invece rimesso insieme, dopo la cacciata dei re, i testo dei commentari ri-
tuali redatti da Numa Pompilio, già pubblicati da Anco Marcio su tavole lignee, poi
distrutte dal fuoco (cfr. pure Livio, 1.32.2). Della storicità delle leges regiae in generale
dubita, tra gli altri, il Carcopino, che pensa a una falsificazione operata nel I secolo
a.C., al fine di ricollegare il diritto romano ai princìpi della filosofia pitagorica, di cui
sarebbero evidenti le tracce nelle pene previste per le donne che bevono vino.
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3 Il Pais, seguendo una direttrice già tracciata dal Vico e dal Cornewall Lewis, riten-
ne che la legge delle XII tavole non fosse che il prodotto dell’elaborazione giuridica
svoltasi gradualmente sugli antichi mores quiritari nel IV secolo a.C., e condensata al-
l’epoca del censore Appio Claudio Cieco (312-304 a.C.) in una raccolta ufficiale. Il de-
cemvirato e le sue vicende sarebbero la duplicazione – fenomeno invero non infrequen-
te nel tessuto tradizionale (infra, cap. IV.2) – dell’episodio di Gneo Flavio, scriba del
predetto censore, che nel 304 a.C. sottrae ai pontefici e pubblica i formulari delle azioni
e il calendario: lo rivelerebbe tra l’altro la sospetta omonimia che lega il magistrato della
fine del IV secolo a.C. al leggendario capo del collegio legislativo. Il Lambert andò an-
cora oltre, radicalizzando la tesi del Pais, che, sebbene non persuasiva, risulta tuttavia
finemente elaborata e non priva di spunti fecondi. L’autore francese ha pensato a una
silloge di massime e proverbi tradizionali, operata da Sesto Elio Peto Cato (console nel
198 a.C.) utilizzando materiale consuetudinario, e a cui lo stesso giurista avrebbe appo-
sto il carisma dell’antica ascendenza decemvirale. Senza peraltro – ma questo sono i cri-
tici del Lambert a sottolinearlo – che nessuno, in un’epoca ormai tutt’altro che preisto-
rica, sia stato in grado o abbia pensato di smascherare un simile apocrifo.
4 Tali nozze furono rese lecite dalla lex Canuleia, forse del 445 a.C.
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5 Le leggi comiziali si dicono perciò anche rogatae. Di diversa natura sono le c.d.
leges datae, emanate da un magistrato su delega popolare, per lo più al fine di costitui-
re municipi o colonie.
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6 A proposito della sanzione, è interessante notare come non sempre le leggi che
vietavano determinati atti di diritto privato ne fossero fornite. Dal brano iniziale, pur-
troppo mutilo, dei Tituli ex corpore Ulpiani (pr. 1,2; A,182; sulla fonte infra, cap. VII.
8) si evince che le leges imperfectae ne risultavano del tutto sprovviste. Esse dunque
non disponevano né la nullità dell’atto inibito né alcun’altra conseguenza a carico del
trasgressore: legge di tale natura era, ad es., la Cincia in tema di donazioni (204 a.C.).
In altri casi, si tratta delle leges minus quam perfectae, l’atto illecito non veniva rescisso
ma si infliggeva una pena all’autore o al destinatario: cosi, ad es., la lex Furia in tema di
riduzione dei legati (200 a.C.?). Perfectae erano evidentemente le leges che commina-
vano l’annullamento dell’atto vietato: sul punto i Tituli presentano una lacuna, ma
esempi di tali leggi sono quasi certamente da individuarsi nella Fufia Caninia (2 a.C.) e
nella Aelia Sentia (4 d.C.), limitatrici delle manomissioni. Nessun esempio sembra infi-
ne annoverare la categoria, meramente teorico-congetturale e parametrata sulle tre
predette, delle leges plus quam perfectae, e cioè al tempo stesso rescindentes e afflittive.
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la loro partecipazione, ma che poi la lex Hortensia (287 a.C.; per pre-
cedenti segnalati dalla tradizione vedi infra, cap. IV.2) equiparò tali
statuizioni alle leggi comiziali, rendendole quindi vincolanti per tutto il
popolo. La presenza ininterrotta in Roma dei tribuni (a differenza dei
consoli, spesso impegnati in operazioni belliche), la maggiore agilità
dovuta alla struttura del concilium, le mutate condizioni di un rappor-
to di forza che ormai avrebbe visto prevalere nella stessa assemblea
centuriata l’elemento della piccola proprietà e del proletariato, non-
ché, infine, nell’ultimo secolo della repubblica, un clima politico malfi-
do che rendeva poco salutare la convocazione in campo di Marte del
popolo votante al completo, determinarono una netta preferenza ac-
cordata a questo genere di procedura. Nella pratica poi la denomina-
zione di lex attribuita anche a queste norme – si pensi alla legge Aqui-
lia sul danneggiamento (J.4.3.15; B,166) – ne fece sovente dimenticare
l’origine plebiscitaria. I plebisciti d’altronde erano del tutto strutturati
sulla falsariga delle leggi.
nenti del diritto romano nel suo complesso (così almeno sembra vada intesa l’espres-
sione ius civile, qui usata da Cicerone). Esse per l’oratore sono: le leggi, i senatoconsul-
ti, le sentenze giudiziali, l’auctoritas dei giuristi, gli editti dei magistrati, il costume,
l’equità.
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8 Per testo e commento dell’epigrafe cfr. Musca, in Labeo, 31, 1985, pp. 7 ss.
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9 Sul punto vedi Gimenez-Candela, in RIDA, 3.30, 1984, in particolare pp. 139 ss.
Secondo l’autrice, nel testo della lex Irnitana, oltre alle epistulae, il termine ricompren-
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derebbe anche (traduco) «decisioni verbali, prese dall’imperatore nel corso di una
conversazione più o meno ufficiale, ma che potevano avere l’effetto di una decisione
normativa ed essere pure l’oggetto di una propositio». Il che, a dire il vero, desta alcu-
ne perplessità.
10 Il praetor peregrinus ha giurisdizione nelle controversie tra cittadini e stranieri.
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tesi pressoché priva di seguito. Qualche propensione affiora in alcuni scritti del Can-
nata.
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riodo classico l’apice del suo rigoglio, e in definitiva può dirsi la fonte
che più a lungo delle altre procrastina la propria pur inevitabile
caduta12. Il periodo dell’anarchia militare seguito alla morte di Ales-
sandro Severo, che apre la strada al dominato, finisce col travolgerla.
Ma dalle opere dei giureconsulti classici, che custodiscono il ‘ius’ nella
nuova accezione del termine, non si potrà comunque prescindere: va-
stissimi settori in particolare del diritto privato, trovano la loro esclusi-
va regolamentazione in quel grande ‘serbatoio’ di esperienza giuridica
costituito dagli scritti degli interpreti. L’utilizzazione e la sistemazione
del ius costituisce anzi uno dei temi più affascinanti e dibattuti dell’età
postclassica e giustinianea.
È opportuno ora, per una migliore comprensione di quanto esposto
sopra e di altro che diremo in seguito, fornire alcune rapide nozioni sui
genera delle opere giurisprudenziali. In via di principio, sia pure con
qualche approssimazione, possono distinguersi opere di elaborazione
sistematica, di commento, di casistica, monografiche. Al primo tipo
appartengono il trattato di diritto civile di Quinto Mucio Scevola (II-I
secolo a.C.), in 18 libri; quello di Masurio Sabino (I secolo d.C.), in 3
libri; quello di Gaio Cassio Longino (I secolo d.C.), in almeno 10 libri.
Può pure ascriversi a questo settore la produzione legata alla didattica
elementare, che tuttavia concreta un genere minore; autori di Institu-
tiones sono Gaio (II secolo d.C.), Fiorentino (II secolo d.C.), Callistra-
to (II-III secolo d.C.), Paolo (II-III secolo d.C.), Ulpiano (II-III secolo
d.C.) e Marciano (III secolo d.C.). Le Istituzioni di Fiorentino e di
Marciano sono peraltro manuali ampi, rispettivamente in 12 e 16 libri,
per carattere e finalità diversi dagli altri, nel complesso assai più agili.
Due fondamentali archetipi per le opere di commento possono dir-
si i già citati libri di diritto civile da un lato, e gli editti magistratuali,
primo fra tutti quello del pretore urbano, dall’altro. Quantunque non
manchino opere ad Quintum Mucium e ex Cassio, è il trattato di Sabi-
no a costituire la base dei grandi commentari relativi a questa branca
del diritto, in particolare di Pomponio (II secolo d.C.), Paolo e Ulpia-
no. Le prime elaborazioni ispirate alla materia edittale sono di Servio
Sulpicio Rufo (I secolo a.C.) e Aulo Ofilio (I secolo a.C.), a cui è dovu-
al suo primo progetto di codificazione rimasto senza esito, impone ai commissari di in-
serire nel codice delle leges generales, che ha dichiarati scopi scientifici, anche quelle
non più in vigore in quanto cadute in desuetudine (quae mandata silentio in desuetudi-
nem abierunt). Orbene, poiché come vedremo (infra cap. VII.5) questo codice doveva
raccogliere tutte le leggi generali da Costantino in poi, si evince che le leggi cadute in
desuetudine di cui là si parla sono necessariamente leggi costantiniane e degli impera-
tori fino a Teodosio II. Quindi la costituzione in C.8.52(53).2, del 319, citata nel testo,
non si riferiva alla desuetudo intesa in senso proprio.
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una versione a un’altra o un autore a un altro. Ritengo che la tradizione sia viziata dagli
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elogi funebri e dalle false iscrizioni apposte alle statue, mentre ogni famiglia avoca a sé
con ingannevole menzogna la gloria di imprese e onori; certo di qui si confondono le
imprese dei singoli e la documentazione pubblica degli eventi. E non c’è alcuno scrit-
tore coevo sul quale ci si possa fondare con sufficiente sicurezza».
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2 Livio, 2.7.6: Regnum eum adfectare fama ferebat, quia nec collegam subrogaverat in
locum Bruti et aedificabat in summa Velia: ibi alto atque munito loco arcem inexpugnabi-
lem fieri (Correva voce che aspirasse al regno, poiché non aveva nominato un collega
in luogo di Bruto e faceva costruire sulla sommità della Velia: lì, in luogo elevato e di-
feso, sarebbe stata una rocca inespugnabile).
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3 Le leggi più risalenti erano in genere scritte su legno: cfr. Dionigi di Alicarnasso,
3.36 (in fine) cit.; Orazio, Ars poet., 399. Ma lo stesso Dionigi, 10.57.7, Diodoro Sicu-
lo, 12.26, e Livio, 3.57.10, affermano che le norme decemvirali furono impresse su ta-
vole di bronzo. Pomponio, in D.1.2.2.4, parla invece di tabulas eboreas. Si è proposto
in dottrina di correggere eboreas (= d’avorio) con roboreas (= di rovere), però, a dire il
vero, si tratta di emendamento solo congetturale.
4 Cipriano di Cartagine, Epist. ad Donatum, 10, parla di leggi delle XII tavole anco-
ra alla sua epoca (III secolo d.C.) pubblicamente esposte su tavole di bronzo. Sembra
però si tratti di mera raffigurazione retorica: nonostante la precisa coscienza dell’uomo
in ordine ai precetti giuridici (e morali) – intende dire il padre della Chiesa –, la tra-
sgressione e il peccato sono sempre di attualità (inter leges ipsas delinquitur, inter iura
peccatur).
5 Cicerone, De leg., 2.23.59.
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6 Per fare un esempio, il versetto (Tab. V. 3) Uti legassit super pecunia tutelave suae
rei, ita ius esto (Come [per testamento] avrà disposto sul patrimonio o la tutela del
suo, così sia giuridicamente fermo) è rinvenibile, sia pure con varianti, in Cicerone, De
inv., 2.50.148; Pomponio, 5 ad Quint. Mucium (D.50.16.120); Gaio, Inst. 2.224 (A,63);
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mente al fatto che le Istituzioni di Gaio, scoperte solo nel secolo XIX
(infra, cap. VI.8) e che pure citano con frequenza l’antico codice, ben
di rado hanno apportato dati nuovi; il che significa che quanto da tem-
po possediamo non può esser poco. Per taluni aspetti non è anzi azzar-
dato ritenere – e ciò non sembri un paradosso – che le nostre palinge-
nesi siano addirittura più ampie dell’originario tessuto normativo, per
l’indubbio fenomeno di concentrazione (supra par. 2) che si è verifica-
to intorno al codice decemvirale: gli antichi erano infatti propensi ad
attribuire alle XII tavole – significativamente chiamate da Livio,
3.34.6, ‘fonte di tutto il diritto pubblico e privato’ (fons omnis publici
privatique iuris)7 – non pochi istituti risalenti di origine incerta. È certo
peraltro che i brani che riportano testualmente i versetti li presentano
in un latino assai modernizzato nei vari passaggi della tradizione orale
e manoscritta, ma i precetti conservano, nella forma imperativa ed es-
senziale, «quasi estetica», come la definì il Bonfante, un segno stilistico
che li accomuna inconfondibilmente, isolandoli dalla restante prosa le-
gislativa in nostro possesso. In quelle cadenze ritmiche oggi tanto fami-
liari agli studiosi si può forse individuare una facilitazione fornita dal-
l’antico legislatore all’apprendimento mnemonico, in un contesto – co-
m’è notorio – di alfabetizzazione tutt’altro che sparsa.
Per una palingenesi corrente: FIRA I, 21 ss. (Riccobono)8.
Paolo, 59 ad edict. (D.50.16.53pr.); nei Tituli ex corpore Ulpiani, 11.14 (A,188); nelle
Istituzioni (2.22pr; B,93) e in una Novella (22.2pr.) di Giustiniano.
7 In realtà la legge delle XII Tavole non è esaustiva nel senso comune del termine,
lo è però nella misura in cui sono ricomprese nel testo della legge tutte le situazioni su-
scettibili di ottenere tutela in via giudiziale, attraverso una legis actio: cfr. Humbert, in
Humbert (a cura di), Le Dodici Tavole dai Decemviri agli Umanisti, Pavia 2005, p. 41.
8 Sempre nel I volume dei FIRA è reperibile (pp. 1 ss.) una raccolta delle c.d. leges
regiae: a tale fine i testi utilizzati sono prevalentemente di natura atecnica (Livio, Dio-
nigi, Tacito, Macrobio, ecc.). Sembra più appropriato parlare, appunto, di raccolta an-
ziché di palingenesi, come pur talora accade, perché qui manca – per ragioni oggettive
– ogni forma di ricostruzione, e i sette re fungono solo da polo magnetico per i brani
che ne menzionano variamente l’operato giuridico.
Capitolo V
FONTI DI COGNIZIONE
DEL DIRITTO PRECLASSICO
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SOMMARIO: 1. Linee generali – 2. Le Res gestae divi Augusti – 3. La Lex de imperio Ve-
spasiani – 4. Il Gnomon dell’Idios Logos – 5. Gli Apokrimata Severi – 6. La Constitu-
tio Antoniniana – 7. La palingenesi dell’editto perpetuo – 8. Le Istituzioni di Gaio.
riordinamento su basi nuove dello stesso assetto del principato, con re-
lativo sensibile accantonamento della fictio rei publicae. L’atto si quali-
fica più volte come lex – una volta come lex rogata –, ma probabilmen-
te si tratta di un senatoconsulto, il cui testo è stato poi versato nell’in-
volucro di una legge pubblica: lo stile è infatti tale da tradire in più
punti il ductus delle delibere dei patres.
Secondo la Sordi, Cola di Rienzo non avrebbe potuto valutare la
differenza tra l’uso del congiuntivo proprio dei senatoconsulti (utique
ei… liceat), che presuppone la consueta reggente ‘senatui placuit’ e
l’imperativo futuro (ei ne fraudi esto) caratteristico delle leges rogatae.
Eppure il tribuno – come si legge nella sua biografia scritta dall’Anoni-
mo Romano – «fece notare a più riprese ai suoi ascoltatori che la legge
era, insieme, emanazione del senato e del popolo». Su tali argomenti,
la citata studiosa induce la conoscenza da parte di Cola di una tavola
iniziale, a noi non pervenuta, indicante gli organi che diedero vita al-
l’atto. Il che parrebbe confermato da una testimonianza del giurista
Odofredo, il quale, anteriormente alla scoperta del nostro documento,
parrebbe aver visto nella basica lateranense una coppia di lapidi (et de
istis duabus tabulis aliquid est apud Lateranum Romae).
1 Allo stesso edicti perpetui suptilissimus conditor (cost. Tanta, 18) si deve l’aggiunta
di una clausola ulteriore in tema di bonorum possessio contra tabulas (c.d. nova clausula
Iuliani; cfr. D.37.8.3, Marcell. 9 dig.).
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cuni secoli più tardi (IX secolo d.C.), per fare posto al dettato del pa-
dre della Chiesa. Due frammenti separati di un foglio erano stati pub-
blicati decenni prima da Scipione Maffei, ma senza condurre alla sco-
perta dell’intero trattato. Le Istituzioni di Gaio, ancorché non se ne
possedesse il testo originale, non erano comunque quel che si dice un
oggetto misterioso: l’opera è infatti citata nelle costituzioni Imperato-
riam e Omnem di Giustiniano (infra, cap. VIII); i Digesta dello stesso
imperatore ne riportano alcuni frammenti; un altro lungo brano si
trova nella Mosaicarum et Romanarum legum Collatio (infra, cap.
VII.12); un compendio postclassico, la Gai Institutionum Epitome
(infra, cap. VII.9), ne riassume parte del contenuto; senza contare di-
verse fonti letterarie che citano il manuale (Prisciano, Boezio, Isidoro,
Pseudo Asconio, Diomede, Servio). Tutti questi dati nell’Ottocento
erano da gran tempo notori. Si comprende quindi come il Savigny,
subito messo al corrente dal Niebuhr, non abbia tardato a rendersi
conto dell’identità del testo abraso e del conseguente valore della sco-
perta2.
Al 1820 risale la prima edizione dell’opera, curata dal Goeschen,
ma a una sistemazione definitiva si giunse solo nel 1874, con l’apografo
dello Studemund, su cui si fondano tutte le edizioni moderne. Gli sfor-
zi degli interpreti – particolarmente proficui quelli del Bluhme – tesi a
far emergere la scriptura prior, avevano però sortito anche l’effetto di
guastare, per via dei reagenti impiegati, una sia pur piccola parte del
codex, rendendola di impossibile lettura. Per questo motivo, nonché
per il fatto che il palinsesto veronese mancava di tre pagine, può dirsi
che oggi disponiamo all’incirca degli 11/12 del manuale di Gaio. Due
reperti papirologici, pubblicati nel 1927 e nel 1933 (P. Oxy. XVII.2103
e PSI.X.1182: vedili, in ordine inverso, in FIRA II,195 ss. e 201 ss.),
hanno tuttavia permesso di colmare alcune importanti lacune relative
al III e IV commentario. Altre integrazioni, soprattutto quanto alla so-
stanza, sono possibili giovandosi dell’Epitome Gai, dei Tituli ex corpore
Ulpiani (infra, cap. VII.8) e delle Istituzioni di Giustiniano (infra, cap.
VIII.8).
veronese, che bene si inserisce nell’euforia generale degli ambienti scientifici dell’epo-
ca, vedi Guarino, in Labeo, 2, 1980, pp. 288 s.
69
3 Che Giavoleno Prisco si riferisca qui a Gaio Cassio Longino è acclarato da tre da-
ti: a) l’autore dei passi è un seguace della scuola sabiniana, b) i passi medesimi sono
tratti dall’opera ex Cassio (Longino), c) non è possibile che si alluda al Gaio delle Insti-
tutiones, che, come vedremo, opera circa un secolo dopo Giavoleno.
4 Poiché all’immaginazione non c’è fine, si è anche parlato di uno pseudonimo ma-
schile dietro cui si nasconderebbe una donna giurista, tradita, però, in un passo ripor-
tato dal Digesto, da una espressone di marca muliebre (!). Solo un po’ meno romanze-
sca è la congettura che vede in Gaio un romano, a un certo punto volontario esule a
Berito.
70
34, 1983 [pubbl. 1986], p. 90. È però anche vero che negli ultimi anni si assiste a una
significativa inversione di tendenza: cfr., assai di recente, Falcone, Appunti sul IV com-
mentario delle Istituzioni di Gaio, Torino 2003.
6 In proposito, scrive ancora il Casavola, in Gaio nel suo tempo (Atti del Simposio
romanistico), Napoli 1966, pp. 4-5: «Frequentissimi in altri scrittori, nelle Istituzioni di
Gaio non si troveranno mai una volta aio, arbitror, existimo, probo, non probo, puto, re-
spondi, sentio, mihi videtur, che di quella ideologia [dei giuristi creatori di diritto] so-
no i verbi espressivi. Nell’intero corpus gaiano la voce puto è adoperata soltanto quat-
tro volte e in contesti privi di ardimento: due volte nei libri ad ed. prov. (Pal. 228,
276/3), una volta nei libri de fideicomm. (392/2/pr.) e una nelle Res cottidianae (499)».
Capitolo VII
FONTI DI COGNIZIONE
DEL DIRITTO POSTCLASSICO
1 Come in seguito apparirà più chiaro, l’età del dominato si segnala in particolare
per un grande complesso di fonti di tradizione manoscritta. Non mancano però, ovvia-
mente, anche le testimonianze documentali. Tra queste ultime, sarà presentata, in coda
al capitolo (par. 21), una delle più significative: l’Edictum dioclezianeo de pretiis rerum
venalium.
74
dalle raccolte come leggi autonome: C.Th.1.4.3; C.1.14.2; C.1.14.3; C.1.19.7; C.1.22.5.
Di essi, il primo identifica la c.d. legge delle citazioni di cui ci occupiamo nel testo; il
secondo, il quarto e il quinto trattano dei rescritti e decreti; il terzo delle leges genera-
les.
3 Una costituzione di Costantino (C.Th.1.4.2, forse del 327) aveva da tempo rico-
nosciuto piena autorità all’intero corpus paolino, con una menzione a parte per le Sen-
tentiae (sul punto, infra, par. 7). La stessa legge delle citazioni, di cui ci occupiamo nel
testo, si conclude con queste parole: Pauli quoque sententiae semper valere praecipimus
(Stabiliamo anche che le sentenze di Paolo abbiano sempre valore). Non mi sembra
tuttavia che questi dati siano bastevoli a suffragare l’ipotesi del Kunkel, Linee di storia
giuridica romana (trad. it.), Napoli 1973, pp. 210 (fine) – 211 (inizio), circa una sorta di
superiorità attribuita alle Sententiae, ove fosse possibile citarle, su ogni altra opera.
76
nome Gregorio, già operante sotto l’imperatore Carino (283-284 d.C.) e poi mantenu-
to da Diocleziano prima come membro della cancelleria a libellis, poi come magister
dell’ufficio. Di tale personaggio è traccia in Panegyrici Latini 3.2 e 9, ma la sua identifi-
cazione con l’artefice della raccolta è frutto di una mera praesumptio.
78
Altri dati comuni alle due compilazioni, che in buona sostanza le ri-
velano partecipi di un medesimo destino, sono i seguenti. Entrambe
furono oggetto di edizioni ampliate successive, con ulteriori constitu-
tiones aggiunte al nucleo originario5. Ricevettero insieme – nel modo
che vedremo (infra, par. 5) – il crisma dell’ufficialità dall’imperatore
Teodosio II e furono largamente messe a profitto dai compilatori del
Codice giustinianeo. Infine, dato su cui torneremo, una significativa
corrente del pensiero giuridico postclassico inserisce i due Codices non
entro l’ambito concettuale delle leges, ma entro quello degli scritti che
tramandano il ius.
Edizioni: per il compendio visigotico dei due corpora vedi FIRA II,
653 ss. (Baviera); ricostruzione induttiva in Haenel, Corpus iuris ante-
iustiniani, II, Leipzig 1837; Krueger, Collectio librorum iuris anteiusti-
ninani, III, Berlin 1890.
5 Se dobbiamo credere a una notizia fornitaci da Sedulio, poeta cristiano del V se-
6 Il De Francisci, Storia del diritto romano, III.1, Milano 1943, p. 200 e n. 3, aderen-
do a un’ipotesi già prospettata dal Baudi di Vesme, non esclude l’esistenza di una costi-
tuzione oggi perduta che conferisca espresso valore legislativo alle due compilazioni.
82
7 Alcuni brani, leggibili in tali edizioni delle P.S. derivano dal c.d. Codex Vesontinus,
noto al Cuiacio (1522-1590) che lo cita nella sua opera, ma oggi irreperibile.
84
l’autore della nostra fonte si è servito dei due Codici privati – che pe-
raltro non cita – bisogna pure riconoscere che egli, con scelta del tutto
autonoma, ha modificato l’ordine dei frammenti finalizzandoli a un
proprio personale disegno, secondo un ductus stilistico-culturale già
proprio della grande giurisprudenza severiana. I giuristi citati sono Pa-
piniano, Paolo e Ulpiano. Sempre a proposito del ius compaiono, in
Frag. Vat. 90-93, brani di un’opera de interdictis in almeno quattro li-
bri, la cui paternità ha fatto e fa tuttora molto discutere: si è pensato a
Venuleio Saturnino, ad Arriano, agli stessi Paolo e Ulpiano, già qui
ampiamente rappresentati. Va anche detto che il D’Ors, ricontrollando
il manoscritto, ha appurato che in quei luoghi cruciali non si rinvengo-
no lacune, come invece segnalano tutte le edizioni critiche: dunque il
nome dell’autore anche in origine non era indicato e si tratterebbe per-
tanto di un’opera anonima, che, su simili basi, il Betancourt attribuisce
alla prima età postclassica (IV secolo). Quanto alle leges, le costituzioni
si identificano per la maggior parte in rescritti di Diocleziano e Massi-
miano; ma vi sono anche leggi costantiniane, nonché una constitutio,
assai più tarda (Frag. Vat. 37 = C.Th. 10.17.1 = C. 10.3.5), di Valenti-
niano Valente e Graziano, che, se non si ritiene aggiunta posteriormen-
te (Mommsen), impone come terminus post quem della compilazione
l’anno 372 d.C. Terminus ante quem è il 438, perché il Teodosiano vi
appare del tutto sconosciuto. Luogo di composizione è con ogni pro-
babilità l’Occidente: lo denotano le diverse costituzioni di Massimiano
che vi sono riportate, il mancato utilizzo, nel titolo sull’esenzione dalla
tutela, dell’opera specifica di Modestino de excusationibus, redatta in
lingua greca, la provenienza del codex, di cui già si è detto.
Edizione: FIRA 11,461 ss. (Baviera).
8 Il luogo in cui, in via abbastanza eccezionale, l’ignoto autore manifesta più chiaro
il proprio intento è Coll. 7.1 pr.: Quod si duodecim tabulae nocturnum furem quoquo
modo, diurnum autem si se audeat telo defendere, interfici iubent, scitote, iuris consulti,
quia Moyses prius hoc statuit, sicut lectio manifestat. Moyses dicit: etc. (Che se le dodici
tavole autorizzano a uccidere il ladro, di notte in ogni caso, di giorno invece se osi di-
fendersi con un’arma, sappiate, giureconsulti, che Mosé questo lo ha stabilito prima,
come il passo rende palese. Dice Mosé: ecc. [seguono la norma biblica e i testi giuridi-
ci romani]).
89
sposte dai sovrani di taluni regni barbarici sorti sopra le spoglie del-
l’antico impero, al fine di fornire una regolamentazione comune a tutti
i loro sudditi, di stirpe romana o germanica (principio della territoriali-
tà del diritto); ovvero di assicurare ai soli Romani una legge conforme
alla loro tradizione giuridica, provvedendo in tal caso per altra via allo
statuto per gli abitanti del regno di origine barbarica (principio della
personalità del diritto). Una compiuta distinzione tra le quattro raccol-
te sulla base dei due accennati criteri risulta però, alla stato delle ricer-
che, tutt’altro che agevole. Mentre infatti il carattere territoriale del-
l’Edictum Theodorici è provato dallo stesso tenore della fonte che, nel
preambolo, si rivolge a barbari Romanique, e il carattere personale del-
la Lex Romana Burgundionum emerge in buona misura dal dato di un
contemporaneo codice confezionato per i soli Borgognoni (Lex Bur-
gundionum), il carattere territoriale o personale delle due raccolte visi-
gotiche – Codex Eurici e Breviarium Alaricianum – è tuttora vivamente
discusso: il Garcia Gallo e il D’Ors, ad esempio, sostengono l’impron-
ta territoriale del diritto nel regno visigotico; altri autori, come il Levy
e il Kunkel, sono di parere opposto; mentre una terza corrente dottri-
naria non sembra in grado di sciogliere i propri dubbi. Ad avviso di
chi scrive, il Codice di Eurico si applicava insieme a Romani e Visigoti,
quello di Alarico invece alla sola componente romana; in questo senso
dunque sarà articolata la trattazione che segue.
Il Codex Euricianus è un corpus normativo, forse emanato in forma
di editto come il teodoriciano di cui infra, che reca il segno del sovrano
visigoto Eurico, stanziatosi col suo popolo nella Gallia occidentale e
nella Spagna. Già nel 475, Roma, conscia della potenza del re germani-
co, aveva di fatto rinunciato al governo di quei territori. L’anno dopo,
caduto l’Impero di Occidente, Eurico firma questo statuto officiale ma
non esaustivo, secondo il D’Ors sostituendosi al prefetto delle Gallie:
di qui la proposta – già in certa misura anticipata dello studioso spa-
gnolo – di chiamare la nostra fonte ‘Edictum Eurici regis’. Da quel po-
co che ci è pervenuto si evince nel Codex una traccia profonda del-
l’esperienza giuridica romana, solo in lieve misura volgarizzata da ele-
menti di matrice barbarica. Tra le fonti della compilazione sono rico-
noscibili i due Codici dioclezianei, il Teodosiano, le Gai Institutiones,
le Pauli Sententiae.
Edizione: D’Ors, El Codigo de Eurico. Edición, palingenesia, indices,
in Estud. Visig., II, Roma-Madrid 1960.
94
18. Cont.: ‘Edictum Theodorici’. Si tratta di uno dei testi più affasci-
nanti dell’Occidente barbarico, soprattutto per la molteplicità di sug-
gestioni che continua a suscitare in quanti – filologi, storici, giusroma-
nisti, studiosi del dritto intermedio – vi si accostino nel tentativo di pe-
netrarne il mistero di fondo.
Questo dettato normativo, riferibile a un sovrano germanico, fu
pubblicato per la prima volta dal Pithou nel 1579, sulla base di due co-
dices poi perduti. L’intitolazione e la formula finale dell’explicit recano
il segno di un Theodoricus (o Theodericus) rex, onde, sulla base pure di
ulteriori supporti, non si è dubitato per secoli che autore dell’Editto
fosse Teodorico il Grande, re ostrogoto della stirpe degli Amali, invia-
to in Italia dall’imperatore d’Oriente per eliminare Odoacre. Un sovra-
no, Teodorico, imbevuto di cultura romana, che – pur in una posizione
politica non priva di ambiguità – si considerava formalmente prefetto
al pretorio del basilèus di Costantinopoli (a un’emanazione magistra-
tuale allude infatti il termine edictum, che ricorre nel proemio e nel-
l’epilogo). In questo caso, che a me pare il più probabile – anche sulla
scorta di altri indizi, su cui infra –, la datazione dell’Editto va collocata
tra il 500 e il 526, ma più a ridosso del primo termine, perché in tale
fase si palesa lo sforzo di inquadrare in ordinata e pacifica convivenza
sociale l’elemento romano e quello barbarico, mentre l’‘ultimo’ Teodo-
rico su questo piano si involverà e, incline a scorgere insidie ovunque,
finirà con l’irrigidirsi in un atteggiamento sempre più ostile verso la no-
bilitas di Roma.
Senonché, nel primi anni cinquanta, il Rasi, con una concatenata se-
rie di studi, riuscì a scuotere con energia la communis opinio, revocan-
do in dubbio la predetta paternità della nostra fonte e aprendo, dal
canto suo, un vero e proprio ventaglio di alternative – non di rado, va
detto, poco più che estemporanee –: egli chiamò in causa, tra gli altri,
Teodato, Vitige, Totila, Odoacre; imperatori come Avito e Maioriano; e
giunse perfino a prospettare senza troppe perifrasi l’ipotesi di un falso
operato dal Pithou, facendo leva sull’attuale irreperibilità dei mano-
scritti (in base a un simile canone critico però anche la Consultatio –
supra, par. 13 – dovrebbe ritenersi un apocrifo). Una teoria che negli
ultimi decenni ha riscosso ampi consensi è quella del Vismara, che at-
tribuisce l’Editto a Teodorico II (m. 466), re dei Visigoti, con conse-
guente anticipazione cronologica e, pure inevitabile, spostamento logi-
stico nelle Gallie. Lo studioso in parola allinea una lunga serie di ragio-
95
dai responsi di Papiniano. Un amanuense evidentemente ritenne che questo brano, an-
ziché l’ultimo del Breviarium, fosse il primo della Lex Romana Burgundionum, trascrit-
ta subito dopo, onde intitolò quest’ultima ‘Papianus’. Gli errori dei librarii però si fer-
mano qui: l’omissione di due lettere nel nome del giureconsulto classico non è dovuta
a una loro ulteriore svista, come pure spesso si scrive, bensì alla corruzione del lin-
guaggio volgare. In altri testi si legge Papianus per Papinianus e, tra l’altro, la figlia del-
l’imperatore Avito, sposa del poeta Sidonio Apollinare (V secolo), porta il nome di Pa-
pianilla, come a dire una ‘Papiniana’… piccola piccola.
97
11 Di chiara matrice alariciana è, ad es., la frase finale di Brev. Int. a C. Th. 1.4.1 =
Int. a. C. Th. 1.4.3 (la c.d. legge delle citazioni): Sed ex his omnibus iuris consultoribus,
99
FONTI DI COGNIZIONE
DEL DIRITTO GIUSTINIANEO
per restarne poi unico detentore pochi mesi dopo (1° agosto), in segui-
to alla morte del parente. È di questi anni (524 o 525) il matrimonio
con Teodora, donna di oscuri precedenti, ma dotata di forte personali-
tà e sovente ispiratrice del marito sia nel campo politico sia in quello
legislativo. Non è possibile in questa sede seguire passo a passo la bio-
grafia di Giustiniano: basti accennare in alcuni rapidi tratti alla conce-
zione sempre grandiosa e universale che ha caratterizzato le direzioni
principali della sua opera. Da un lato la riconquista dei territori che
appartennero all’impero romano d’Occidente, nel disegno, invero con-
tro la storia, della generale riunificazione: di qui le vittoriose campa-
gne, in Africa contro i Vandali in Italia contro i Goti, condotte dai ge-
nerali Belisario e Narsete. Da un altro lato l’opera di codificazione, che
riunisce in sé quanto della tradizione giuridica romana si reputa degno
di sopravvivere nei secoli, in un sistema autosufficiente su cui fondare
il vivere civile della nuova grande realtà politica assicurata dalle armi.
E infine, nel campo religioso, ancora il fondamentale intento della pa-
ce tra ortodossi e monofisiti, terzo polo, in fondo, dell’articolata opera
di riunificazione.
Il primo disegno, quello della riconquista della pars Occidentis, ra-
pidissimo nella sua parvenza di realizzazione – non si può parlare in-
fatti di ricostituzione dell’impero romano d’Occidente, quanto piutto-
sto di annessione di Africa e Italia a quello d’Oriente –, è risultato, alla
resa dei conti, altrettanto effimero nella durata. Ne permane un tangi-
bile ricordo nelle architetture ravennati, e in particolare nelle spiritua-
lizzate figure di Giustiniano e Teodora della Basilica di S.Vitale. Il ter-
zo progetto, quello della pace religiosa, ha ricevuto nella storia il segno
immediato di un’identica sconfitta. Il secondo programma, qualunque
sia stato il suo peso pratico nell’età giustinianea, tema tuttora apertissi-
mo, ha lasciato oltre ogni possibile interpretazione riduttiva, una pietra
miliare nella storia civile e giuridica dell’Occidente.
La figura di Giustiniano, pur al centro di ultramillenaria attenzione
nella sua prismatica valenza (l’uomo, il sovrano, il legislatore, il teolo-
go, l’aedificator…), resta una delle più affascinanti e insondabili del-
l’intera vicenda storica. Né l’‘enigma’ si stempera, ma acquista semmai
ulteriori implicazioni alla luce degli studi più recenti che hanno cerca-
to di focalizzare il ‘Giustiniano uomo del suo tempo’, spostando pure,
in parte, l’angolo visuale dagli anni epici, o, per dirla con l’Honoré,
‘della speranza’, alla seconda fase cronologica, dal riflesso meno cosmi-
103
1 Giustiniano uomo del suo tempo è il trasparente titolo di un noto saggio dell’Ar-
chi (vedilo, tra altre ricerche di segno analogo, in Giustiniano legislatore, Bologna
1970, pp. 119 ss.). Alla tematica della normazione giustinianea ‘corrente’ è legato un
nucleo di studi, più recenti, del Bonini (cfr. in particolare Ricerche sulla legislazione
giustinianea dell’anno 535, Bologna 1976).
2 L’opera giuridica di Giustiniano tratteggiata nel terzo verso qui riprodotto è deli-
neata in modo quasi altrettanto rapido e efficace dal longobardo Paolo Diacono (VIII
secolo), Hist. Lang. 1.25, nel quadro di un ammirato ritratto del legislatore bizantino e
delle sue gesta.
104
3
La fonte è presentata del Beneschewitz, in ZSS, 24, 1903, pp. 409 s.
105
dalla norma di Valentiniano III e Teodosio II. Una recente tesi, soste-
nuta dalla Russo Ruggeri – che pensa tra l’altro a una collocazione cro-
nologica un po’ diversa da quella prospettata dal Rotondi (per esem-
pio, la prima decisio [C.4.28.7] sarebbe databile al 21 luglio 530) –, in-
serisce le decisiones in una logica di lavori transitori, non finalizzati
dunque alla successiva redazione dei Digesta, ma, visto che quello della
grande emendatio appariva d’acchito un parto lungo e difficile (stando
alla costituzione Tanta, 12, si dubitava di portarlo a termine in un de-
cennio), tesi a risolvere nel frattempo una serie di problemi che, a be-
neficio della pratica forense, si riteneva opportuno sottrarre al mecca-
nismo puramente estrinseco della legge delle citazioni per affidarli, in-
vece, a criteri più equi e razionali.
È comunque sicuro che i nostri interventi decisori vennero raccolti
in una collezione, da ritenersi ufficiale, che li isolò dalla restante nor-
mativa giustinianea extra Codicem. Lo si ricava in particolare dalla cita-
ta costituzione Cordi, che toglie vigenza alla raccolta (par. 5); dalla
Glossa Torinese alle Istituzioni imperiali, 241 (sicut libro L Constitutio-
num invenies – come troverai nel libro [si noti] delle 50 costituzioni);
da una notizia, da ritenersi a mio avviso inoppugnabile, fornita dalla
Cronaca di Marcellino Comite, cancelliere di Giustiniano, che parla di
un codex … orbi promulgatus nel 531 – ricordiamo che il primo è del
529, il secondo del 534 –; infine, aggiungerei, dallo stesso numero di
50 – significativamente uguale a quello dei libri dei Digesta –, che si
colora di più precisa valenza se riferito a una serie di norme isolate, an-
che materialmente, in un nucleo conchiuso5.
Allo stato delle fonti appare invece poco produttivo cimentarsi an-
cora nella ricerca di tutti i cinquanta item normativi sparsi ora nel tes-
5 A giudizio dello Zwalve, in Subseciva Groningana, I, Groningen 1984, pp. 133 ss.;
suto del secondo Codice (molti, invero, sono già identificati), anche
perché, a tacere d’altro, non è affatto sicura la presenza del ricordo di
ciascuno di essi nel dettato delle Istituzioni imperiali.
(…)
6 ’Ex Óswn ¢rca∂wn kaπ t§wn Øp’ aÙt§wn genom◊nwn bibl∂wn sÚgkeitai tÕ parÕn
t§wn digeston h”toi to§u pandekto§u to§u eÙsebest£tou basil◊wj ’Ioustiniano§u sÚntagma
(letteralmente: ‘Da quali antichi [autori] nonché libri da essi nati consta la presente
opera dei digesti o pandette del piissimo imperatore Giustiniano’). Il brano non è trat-
to dalla D/edwken (par. 20), ma si rivela, in parte e con qualche variante, la versione del
parallelo passo della Tanta, citato sopra nel testo.
114
7 Quantunque, almeno per gli antecessores Doroteo e Anatolio, si sia pure ipotizza-
to un temporaneo ‘congedo’; forse non a torto, visto che una continua spola tra la ca-
pitale e Beirut doveva presentarsi poco agevole.
115
contempo, scritti brevi possono venir prima di altri più estesi. Quindi,
per stilare il suo inventario sistematico, l’indiceuta avrà dovuto scom-
binare gli elenchi in suo possesso eventualmente compilati secondo
l’ordine del Bluhme. Tuttavia, quando si tratta di opere di uguale auto-
re e di uguale mole, i criteri dell’Indice fiorentino non intervengono a
innovare rispetto alle pezze d’appoggio da cui esso eventualmente at-
tinge, e l’ordine presente in queste può essere conservato. Ebbene, il
Rotondi ha dimostrato che in questi casi, le opere dello stesso autore,
della stessa mole e della stessa massa, si susseguono nell’Index – per
evidente forza inerziale – nel medesimo ordine teorizzato dal Bluhme
nelle sue tavole. È, se mai ve ne fosse bisogno, la prova definitiva, lega-
ta a un documento esterno ai Digesta: le masse bluhmiane sono ricono-
scibili anche nell’Index Florentinus, che pure segue criteri difformi.
Tutti gli altri enunciati della teoria dei Bluhme, indipendentemente
dal grado di probabilità che si voglia loro attribuire, sono ex necesse
congetturali, e non si allude solo alle sottocommissioni e ai loro movi-
menti, ma alla stessa divisione delle opere nelle tre masse, che l’autore
tedesco attribuisce ai commissari giustinianei. Ora, le masse indiscuti-
bilmente esistono, ma che siano di paternità (lato sensu) giustinianea –
e non, in ipotesi, frutto di una tradizione anteriore – è dato, a ben
guardare, indimostrabile.
8 Strano, a livello di curiosità, il Iustini patris ‘mei’ in J.2.12.4 (B, 70); non sembra
esservi infatti sottesa una ratio precisa: in J.2.7.3 (B, 59), lo zio adottante è (… adegua-
tamente) chiamato pater noster. Il che può deporre, forse, per un diretto intervento di
Giustiniano: cfr. sul punto Lambertini, Singulare maiestatis, in Scritti Bonfiglio, Milano
2004, pp. 257 ss.
122
9 Il rilievo peraltro appare erroneo: cfr. J. 4.10.2; B, 187, che contiene un rinvio a J.
Inscriptiones
Subscriptiones
colare direttiva storica. Nel secondo senso ha finito col presupporre una
sorta di costruzione geometrica facente capo alla giurisprudenza classi-
ca: un sistema fondato sulla mera deduzione, esente da antinomie e
mende logiche, e in grado, per ciò stesso, di far quadrare sempre i pro-
pri conti. Quest’ultimo aspetto, unito a una preparazione filologica non
sempre irreprensibile, costituisce forse l’appunto più immediato che si
può muovere al metodo critico in parola, il quale tuttavia non merita
certo di essere rinnegato dall’indirizzo scientifico più recente.
Oggi si tende ad attribuire i contrasti nel pensiero giurisprudenziale
non tanto all’intervento dei compilatori giustinianei, cioè alle interpolazio-
ni, quanto piuttosto alla diversa sensibilità e alle peculiari vedute dei giuri-
sti classici, di cui si analizzano con nuovo o rinnovato interesse la personali-
tà, i condizionamenti sociali, i rapporti col potere, in un’indagine ‘totaliz-
zante’ del fenomeno giuridico, che tuttavia non sempre evita il rischio, a di-
re il vero, di contrapporre ai giuristi romani ‘tra loro gemelli’ del preceden-
te metodo critico, un’infungibilità dei medesimi un po’ troppo marcata.
Un criterio sicuro per individuare l’interpolazione è costituita dal
confronto fra un testo contenuto nelle Pandette e lo stesso testo perve-
nutoci attraverso una collezione anteriore. Apriamo a questo proposito
una parentesi esemplificativa che ci servirà anche ai fini di quanto dire-
mo in seguito, nel corso del paragrafo. Su due colonne parallele sono
riprodotti un frammento paolino conservato nei Fragmenta Vaticana e
il medesimo brano nella redazione di cui ai Digesta.
Qui a muliere sine tutoris auctoritate (…) qui sine tutoris auctoritate a pu-
sciens rem mancipi emit vel falso tuto- pillo emit, vel falso tutore auctore,
re auctore quem sciit non esse, non vi- quem scit tutorem non esse, non vide-
detur bona fide emisse; itaque et vete- tur bona fide emere, ut et Sabinus
res putant et Sabinus et Cassius scri- scripsit. ([…] chi compra da un pu-
bunt. (Chi consapevolmente compra pillo senza l’autorizzazione del tutore
da una donna una cosa màncipi senza o con l’autorizzazione di un falso tu-
l’autorizzazione del tutore, o con tore, che egli sa non essere il tutore,
l’autorizzazione di un falso tutore, non appare comprare in buona fede,
che egli sa non essere il tutore, non come anche Sabino ha scritto).
appare aver comprato in buona fede;
e così ritengono anche gli antichi e
scrivono Sabino e Cassio).
133
Non si menziona più, nel brano compilato nel Digesto, il caso di ac-
quisto dalla donna sui iuris sotto tutela, perché la tutela muliebre è isti-
tuto da tempo scomparso; né esiste più, in diritto giustinianeo, la di-
stinzione tra cose mancipi e nec mancipi (cfr. C. 7.31.1; Giustiniano, a.
531). Ricordiamo per incidens che in età classica la donna aveva biso-
gno dell’autorizzazione del tutore solo per alienare le prime (Gai. 2.80;
A, 41): ciò spiega compiutamente il caso prospettato da Paolo. Tale ca-
sus è, nel Digesto, sostituito da quello, analogo, degli acquisti da un
pupillo (impubere sui ius), perché la tutela su questa categoria di sog-
getti sopravvive. Immutato risulta, tuttavia, il senso generale: se acqui-
sto da un pupillo senza l’autorizzazione del tutore, ovvero con l’inter-
vento di chi so non essere il vero tutore, acquisto in mala fede. E tale
principio vale sia per il diritto classico sia per il diritto giustinianeo. È
omessa, per brevità, la menzione finale dei giuristi repubblicani (vete-
res), e, dei due scolarchi del I secolo, si conserva il ricordo del solo Sa-
bino. Per concludere, il brano sembra a prima vista profondamente
modificato dai compilatori del VI secolo, ma in realtà – sul piano della
sostanza – non contiene nulla di nuovo: lo si è solo adeguato alla situa-
zione corrente, perché non sembrava opportuno, in un’opera tra l’altro
con efficacia normativa, riferirsi a istituti scomparsi.
Il metodo presentato, del confronto testuale, può tuttavia (purtrop-
po) usarsi assai di rado, perché presuppone un dato di fondo – quello
della duplice provenienza – che non sembra esagerato definire eccezio-
nale, quanto meno nel campo del ius. Gli altri criteri per isolare le in-
terpolazioni, che furono teorizzati nel passato, sono in genere o non
del tutto tranquillanti o palesemente infidi. Tale è ad esempio il crite-
rio formale, che in definitiva sottende un ideale del giurista classico
che scrive in modo semplice, chiaro, elegante; e che finisce quindi col
sospettare di ogni segno stilistico difforme. Ora, non c’è dubbio che il
latino dei bizantini sia alquanto diverso da quello, ad esempio, dei ro-
mani del II secolo, ma siamo pur sempre di fronte a indizi piuttosto la-
bili, che spesso non tengono conto delle peculiarità stilistiche, talora
anche occasionali, di un dato autore, e, perché no, di sue eventuali ca-
dute di tono. Ma il discorso relativo alla diagnosi delle interpolazioni
finisce comunque con l’essere profondamente connaturato alla perso-
nale esperienza esegetica di un determinato studioso.
La mia attuale convinzione può sintetizzarsi in una frase prima facie
un po’ anodina: nel Digesto, io credo, le interpolazioni sono molte e
134
Il sine iussu principis, che lascia aperta alla donna una possibilità di
adoptio, è chiaramente frutto di interpolazione. Ulpiano non avrebbe
potuto esprimersi in tal guisa, perché – per quanto concerne l’età clas-
sica – l’impossibilità per la donna di essere soggetto attivo di adozione
è regula iuris indiscutibile e fissata da testi sicuri e concordi, tra cui ba-
sti riportare qui Gai. 1.104 (A,16, trad. Nardi):
Feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne quidem naturales li-
beros in potestate habent.
(Le femmine non possono adottare in alcun modo, perché non hanno
in potestà neanche i figli naturali).
Si veda inoltre: Tit. Ulp. 8.8a; Gai Ep. 1.5.2, J.1.11.10 (B,23) prima
parte. La breccia fu aperta da Diocleziano e Massimiano, i quali con-
sentirono in una fattispecie concreta che una donna, Sira, adottasse in
solacium amissorum filiorum, cioè per compensare la perdita dei figli
suoi defunti (C. 8.47[48].5, del 291). La norma, nata come grazioso ri-
medio ad personam, nel diritto giustinianeo muta sensibilmente la pro-
pria valenza: pure con il supporto dell’incisiva riforma dell’istituto del-
l’adoptio voluta da Giustiniano e benché non dimentica dei limiti indi-
cati dal rescritto del III secolo (donna che aveva figli e li ha perduti),
essa finisce col soccorrere anche altre madri orbate della prole, e i
compilatori in D. 5.2.29.3 inseriscono quel sine iussu principis che ade-
gua il testo di Ulpiano alla nuova situazione (le Institutiones imperiali,
1.11.10 [B,23] seconda parte, parlano in proposito di indulgentia prin-
cipis). Ma, a riprova di quanto detto sopra in generale, si tratta di inter-
polazione fondamentalmente palese, la cui diagnosi è suffragata da un
nucleo di univoche basi testuali, e che, come tale, non richiede una
lunga e elucubrata dimostrazione.
Capitolo IX
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138
A)
Plinio, Ep. X. 19, 20
TRAIANUS PLINIO.
l. Nihil opus est, mi Secunde carissime, ad continendas custodias plu-
res commilitones converti. Perseveramus in ea consuetudine, quae isti
provinciae est, ut per publicos servos custodiantur. 2. Etenim, ut fideliter
hoc faciant in tua severitate ac diligentia positum est. In primis enim, si-
cut scribis, verendum est, ne, si permisceantur servis publicis milites, mu-
tua inter se fiducia neglegentiores sint. Sed et illud haereat nobis, quam
paucissimos a signis avocandos esse.
Traiano a Plinio.
1. Non c’è affatto bisogno, mio carissimo Secondo, di spostare più
soldati alla guardia delle carceri. Persistiamo nell’usanza, propria di co-
desta provincia, che siano sorvegliate da servi pubblici. 2. Giacché che
lo facciano coscienziosamente dipende dal tuo rigore e dal tuo zelo. In-
fatti si deve particolarmente aver paura, come scrivi, che, se ai servi
pubblici si mescolino soldati, risultino più trascurati per via del recipro-
co affidamento. Ma teniamo fermo anche il principio per cui dalle inse-
gne [= dal servizio] bisogna stornarne il minor numero possibile).
B)
D. 48. 3.12 pr. (Call. 5 de cogn.)
Cons. 9. 13
Imp. Constantinus A. ad Maximum praefect. urb. (Inter cetera et ad
locum): Pactiones eas valere volumus, si cum legibus consentiant, et reli-
qua. Dat. VI non. Febr. Romae Sabino et Rufino conss.
(L’imperatore Costantino Augusto a Massimo prefetto alla città.
[Tra altro e in argomento] Vogliamo che valgano quelle pattuizioni che
sono in consonanza con le leggi, eccetera. Emanata il sesto giorno pri-
ma delle none di febbraio a Roma, essendo consoli Sabino e Rufino
(31 gennaio 316).
147
Post alia (all’inizio) e et cetera (alla fine) sono formule assai ricor-
renti anche nel Codice Teodosiano. Nel Codice giustinianeo invece
queste indicazioni non compaiono mai: ciò tuttavia non deve far crede-
re che le constitutiones figurino qui integre; da un semplice confronto
testuale è infatti facile appurare che i compilatori giustinianei, ripren-
dendo una costituzione del Codice Teodosiano nell’esatta parte offerta
in tale fonte, si sono limitati a togliere le avvertenze che invece i com-
missari di Teodosio II avevano sul punto fornito. Non è neppure infre-
quente che Triboniano e compagni, di una legge tratta dal Teodosiano
e qui già ridotta (con relativa segnalazione), ripropongano un brano
ancor più esiguo: ebbene, pure in questa circostanza nessuna formula
compilatoria compare nel nuovo Codice. E noi, tra l’altro, sappiamo
che Giustiniano aveva ordinato ai commissari nominati per il primo
Codice di eliminare le praefationes delle leggi e di resecare supervacua,
ossia eliminare il superfluo (Haec quae necessario, 2; Summa rei publi-
cae, 1), ponendosi, in tal senso, sulla stessa falsariga tracciata in prece-
denza da Teodosio (C. Th. 1.1.5).
Infine, dato su cui pure già abbiamo posto l’accento (supra, cap.
VIII.11), un semplice confronto tra il testo, ampio e articolato, delle
Novelle giustinianee e quello delle costituzioni, anche dello stesso Giu-
stiniano, conservate nel Codice rivela i tagli e le riduzioni, non di rado
significativi, operati in quest’ultima compilazione.
novum, con la restante parte delle Pandette (libri 39-50); IV) il Codex, con i
primi 9 libri dell’omonima compilazione giustinianea; V) il Volumen, con gli
ultimi 3 libri del Codice, le Novelle, nel testo dell’Authenticum, e le Istituzio-
ni. Quest’ultimo tomo è poi destinato a dare accoglienza anche a fonti diver-
se, come i Libri Feudorum e il Trattato di Costanza (Pax Constantiae), che si-
gla la pace tra Federico Barbarossa e la Lega Lombarda (1183).
Vediamo ora un esempio, tratto dal corpus accursiano, della tecnica lette-
raria dei Glossatori.
Breve premessa: l’azione Publiciana, introdotta dal pretore nel I secolo a.
C., permette (tra l’altro) a chi, in buona fede e in base a un titolo idoneo a tra-
sferirne la proprietà, abbia ricevuto il possesso di un bene da chi non ne era
proprietario e in seguito detto possesso abbia perduto, di recuperarlo contro
l’attuale possessore, ancorché non sia ancora decorso il tempo necessario per
l’usucapione (caso nel quale della Publiciana non avrebbe bisogno, perché,
ormai reso dominus, ossia proprietario per diritto civile, potrebbe esperire
l’azione di rivendica). Lo spiega Ulpiano (16 ad ed.) in D.6.2.1 pr.: Ait praetor:
‘Si quis id, quod traditur ex iusta causa a non domino et nondum usucaptum pe-
tet, iudicium dabo’ (Dice il pretore: ‘Se uno pretenderà ciò che ha ricevuto in
base a una giusta causa da un non proprietario non avendolo ancora usucapi-
to, gli darò azione’). Questo, dunque, il passo del Digesto. Nella Glossa Ma-
gna (cito dal Digestum vetus dell’edizione lionese, apud Hugonem a Porta, del
1560) troviamo, apposta all’espressione ‘ex iusta causa’ il seguente apparato di
chiose: gl. s ex iusta causa] et utroque habente animum transferendi dominium:
alias enim non competeret haec actio: ut infra eodem, l. quaecumque § j. Azo.
Et infra, de act. et obl. l. in omnibus. Accursius. (glossa s [ogni glossa è con-
trassegnata, in successione, da una lettera dell’alfabeto] a ‘ex iusta causa’]: e
avendo entrambi l’intenzione di trasferire la proprietà [scilicet di detto bene]:
ché altrimenti questa azione non spetterebbe: come [puoi vedere] più sotto
nel medesimo luogo [ossia in questo stesso titolo del Digesto] alla legge [così i
Glossatori chiamano i frammenti del Digesto] ‘quaecumque’, paragrafo 1.
Azone. E [puoi vedere anche] più oltre [nel titolo] De actionibus et obligatio-
nibus [così nell’edizione della Vulgata, nelle nostre attuali i due sostantivi ap-
paiono in ordine inverso: De obligationibus et actionibus], alla legge ‘in omni-
bus.’ Accursio). Il giurista Azone, autore della prima glossa, specifica che oc-
corre anche la comune volontà del dante e dell’avente causa di trasferire/ac-
quistare la proprietà del bene, e cita in proposito la ‘legge’ che, nello stesso ti-
tolo del Digesto, incomincia con la parola quaecumque [ossia, per noi, nelle
attuali edizioni critiche, D.6.2.13.1, un testo di Gaio (7 ad edictum provincia-
le)], che difatti supporta il dato. Accursio conserva la paternità della prima
glossa e alla chiosa di Azone aggiunge di suo un ulteriore luogo testuale a sup-
porto, che è più lontano, e cioè D.44.7.57 (Pomponio, 7 ad Quintum
154
come diritto vivo, fu detta mos italicus (costume italico) e il metodo in-
terpretativo e euristico dei suoi seguaci è scandito in un celebre distico
del XVI secolo nella successione di otto concatenate operazioni.
Nel periodo tra il XVII e la fine del XVIII secolo si fa strada un fe-
nomeno destinato a influenzare in modo incisivo l’esperienza giuridica
europea e a porsi come una delle radici delle codificazioni nazionali. Si
tratta del moderno Giusnaturalismo (moderno, in quanto la riflessione
sul diritto naturale ha radici addirittura presocratiche), che trova origi-
ne nel pensiero filosofico e si fonda sul presupposto di un’etica natura-
le e razionale al contempo a cui quella sociale e il diritto positivo deb-
bono uniformarsi. Esso non rinnega la recezione – molto alta appare
158
Il Code Civil, promulgato con la Legge 30 ventoso dell’anno XII (21 mar-
zo 1804), che all’art. 7 abroga nei settori regolati dal Codice “le leggi romane,
le ordinanze, i costumi generali locali, gli statuti, i regolamenti”, è diviso in
una concisa introduzione e successivi tre libri – I Delle persone, II Della pro-
prietà (e dei diritti reali), III Dei diversi modi con cui si acquista la proprietà
(ossia del diritto ereditario e del diritto delle obbligazioni; il Codice conosce
infatti il contratto con effetti reali, poi passato al Codice unitario italiano del
1865 e di qui a quello vigente, del 1942) – e consta di 2281 articoli. Esso si
presenta fortemente permeato dei principi rivoluzionari di legalità e di ugua-
glianza e come tale libero da ogni gerarchia legata al censo, con immunità e
privilegi connessi. La radice giusnaturalistica è esplicitata in un’affermazione,
divenuta famosissima, del Progetto al Codice: “Esiste un diritto universale e
immutabile, fonte di tutte le leggi positive; esso non è che la ragione naturale
che governa tutti gli uomini”.
L’ABGB, che pure ha riscontrato una sua estesa vigenza e che per
quanto concerne l’Italia, dopo il Congresso di Vienna (1815), ha sosti-
tuito nel Regno Lombardo Veneto il Codice napoleonico, è frutto di
un lungo lavoro di progettazione incominciato con l’illuminata impera-
trice Maria Teresa. L’ultima fase è diretta dal von Zeiller, professore di
diritto naturale di formazione kantiana, che sarà anche un autorevole
commentatore del codice medesimo. Più che l’aspirazione alla comple-
tezza (si tratta in definitiva di un testo agile), preponderante, nel meto-
160
Il BGB è diviso in cinque libri: I Parte generale (qui la disciplina del nego-
zio giuridico), II Diritto delle obbligazioni, III Diritti reali, IV Diritto di fami-
glia, V Diritto ereditario, e consta di 2385 paragrafi. È un codice di alto livello,
a scapito forse dell’aspetto di una più immediata fruibilità. Di rilievo è stata
anche la sua influenza sui codici successivi. Il recente Codice civile greco, per
esempio, vi ha trovato decisiva ispirazione. Per concludere con l’Italia, si può
dire che mentre il Codice del 1865 appare una diretta filiazione del Code
Civil, quello vigente è debitore in eguale misura anche al modello tedesco.
– il ruolo del giurista è finora rimasto nell’ombra. Non solo, tale feno-
meno venato di funzionalismo tecnocratico, ha contribuito non poco
alla crisi profonda e preoccupante in cui versa attualmente proprio la
figura del giurista.
Non si può seriamente pensare di rendere attuale il diritto romano:
è già dubbia l’incidenza normativa del Digesto in età giustinianea allor-
ché, quasi millecinquecento anni or sono, venne alla luce a Costantino-
poli; non meno discusso da parte degli studiosi è il grado di intensità
dello stesso fenomeno con riferimento al diritto comune (si va dall’im-
magine di un diritto vigente a quella di un mero seppur altissimo mo-
dello). Un’operazione di questa natura non appare in alcun modo pra-
ticabile, e lo è a maiori se riferita alla mentalità di uno storico.
D’alta parte non va nemmeno dimenticato che la grande maggioran-
za dei Paesi del mondo è legata al modello giuridico europeo romanisti-
co, e che quindi il modello giuridico anglosassone è, in fondo, il meno
diffuso. Sintomatico il caso della Cina, lo Stato più popoloso del piane-
ta e votato – nelle previsioni – a una crescita economica esponenziale,
che sta lavorando a un codice civile di marcata ispirazione romanistica.
Si tratta, a sommesso avviso di chi scrive – ma poi, per vero, non so-
lo suo, bensì anche di studiosi di tutt’altra autorevolezza – di recupera-
re la funzione ineliminabile del giurista, se non addirittura, anche que-
sto si è detto, di rifondare la stessa scienza giuridica.
In tale compito – magari destinato al fallimento, ma chi può dirlo in
anticipo? e comunque non sta qui il punto – il giusromanista può gio-
care un ruolo rilevante. Lo studio scientifico del diritto romano acco-
sta ai valori di una scienza giuridica che, in certa misura, prescinde da
coordinate temporali per l’ultravalenza di un complesso normativo e
sapienziale che sopravvive per secoli allo Stato che lo ha espresso; e
contemporaneamente, e per ciò stesso, supera anche la categoria spa-
ziale, facendo sì che in epoca di ius commune i giuristi europei si capi-
scano tutti tra loro perché, pur soggetti nelle rispettive nazioni a nor-
me specifiche diverse, partecipi di una comune scienza fondata sui me-
desimi libri, così come oggi – ricorro anch’io a una felice e usitata simi-
litudine di Wolfgang Kunkel – un italiano e uno spagnolo si intendono
a vicenda perché parlano lingue derivanti dall’unico ceppo latino. È
questa lingua culturale che va recuperata in Europa, tanto più in
un’epoca in cui soluzioni formali precostituite appaiono sempre meno
idonee alla composizione dei grandi conflitti di interessi.
164
VOCABOLARI
I vocabolari forniscono tutti i luoghi della fonte o del gruppo di fonti a cui
sono dedicati, ove ricorrono le singole parole: ad es., actio, beneficium, ecc. Ci
occupiamo qui in breve di quelli in forma libraria, ancorché eventualmente
realizzati con l’ausilio dell’informatica: per le banche-dati elettroniche vedi in-
fra.
Vocabularium Iurisprudentiae Romanae (= VIR); edito a Berlino a partire
dal 1903 a cura di diversi studiosi tedeschi e ora completo: per quanto riguar-
da i nomi propri, qui non considerati, è segnalato un progetto relativo a
un’appendice. Si riferisce ai seguenti testi: Gai Institutiones, Pauli Sententiae,
Tituli ex corpore Ulpiani, Fragmenta Vaticana, Collatio, Consultatio (delle tre
raccolte miste è considerata solo la parte relativa al ius), Digesta Iustiniani.
Quando si tratta di fonti pregiustinianee, la citazione dei luoghi ricorre secon-
do l’usuale criterio filologico: ad es., Gai. I.195 (commentario e paragrafo del-
le Istituzioni di Gaio); allorché invece ci si riferisce al Digesto il modus citandi
cambia: compare, abbreviato, il nome del giurista, seguito da due numeri, il
secondo dei quali, a sua volta, può essere contrassegnato in alto da una lineet-
ta. Es.: Ulp. 21,22; Marcian. 865,30. Si fa riferimento all’editio maior del
Mommsen, in due tomi. Il primo numero indica la pagina di quell’edizione, il
secondo la riga. L’assenza o la presenza della lineetta sul secondo numero, in-
dicano rispettivamente che si tratta del primo o del secondo tomo. Non oc-
corre tuttavia avere a disposizione l’editio maior in parola per usare il VIR re-
lativamente alle Pandette: a partire dalla XV editio minor del Digesto sono in-
fatti indicate a margine le corrispondenze con l’edizione maggiore; inoltre, nel
I volume del VIR, si trova in apertura una tavola di corrispondenze tra i luo-
ghi dell’editio maior e i passi del Digesto.
Mezzo ausiliario recentemente predisposto di particolare utilità alla ricer-
ca incentrata sui testi giurisprudenziali restituiti dai Digesta giustinianei è la
166
REPERTORI BIBLIOGRAFICI
Un cenno a parte meritano gli indici delle interpolazioni. Essi sono legati a
un canone della metodologia romanistica oggi assai poco diffuso se non addi-
rittura respinto (supra, cap. VIII.13). Si tratta però in ogni caso di risultati con
cui, nelle singole ricerche, occorre confrontarsi, magari – come spesso accade
– per respingerli, e che quindi un’indagine scientifica non deve preterire. Per
il Digesto: Index interpolationum quae in Iustiniani Digestis inesse dicuntur, I,
II, III, Supplementum, Weimar 1929-1935. Per il Codice: Index interpolatio-
num quae in Iustiniani Codice inesse dicuntur, Köln-Wien 1969.
Tra i repertori generali, gli unici di cui ci occupiamo in questa sede, segna-
168
BIA 2000
FIURIS
Si tratta di una banca dati bibliografica su CD-Rom che fa capo alla rivista
Gnomon (Kritische Zeitschrift für die gesamte klassische Altertumswissenschaft)
specializzata nelle antichità classiche (filologia classica, storia antica ed archeo-
logia). Tale archivio contiene schede bibliografiche di monografie, miscellanee,
articoli di riviste, recensioni e note personali ricavate dallo spoglio di oltre 250
periodici internazionali. Più di 10.000 registrazioni sono relative alle annate
1994-98. Di questo Database esiste anche una versione on-line (www.gno-
mon.ku-eichstaett.de/Gnomon/en/Gnomon.html), che contiene però solo il
15% dei dati contenuti nel CD-Rom, ma è aggiornata con cadenza settimanale.
TOCS-IN
(TABLES OF CONTENTS OF JOURNALS OF INTEREST TO CLASSICISTS)
A) Fonti giuridiche
recente edizione (TLG E) è apparsa nel febbraio del 2000. Dall’aprile del
2001, il TLG è consultabile anche on-line. La versione web consente di acce-
dere ai testi di oltre 12.000 opere di circa 3.700 autori.
Si tratta della versione elettronica a testo pieno della prima edizione della
monumentale Patrologia Latina in 221 volumi di J. P. Migne. Tale opera (ora
racchiusa in 4 CD-Rom completi di apparato critico, indici e illustrazioni)
comprende le opere dei Padri della Chiesa dalle origini (Tertulliano e Minu-
cio Felice) fino alla morte del papa Innocenzo III.
B) Fonti epigrafiche
C) Fonti papirologiche
D) Monografie digitalizzate
ritto privato romano (I); 7) Trattati e opere generali di diritto privato romano
(II). Finora è stato pubblicato soltanto il primo CD-Rom, contenente le se-
guenti opere: F.F. ABBOTT, A History and Description of Roman Political Insti-
tutions (1911); G. BAVIERA, Lezioni di storia del diritto romano I-III (1914-
1925); A. BOUCHÉ LECLERQ, Manuel des institutions romaines (1886); E. CO-
STA, Storia del diritto romano pubblico (1920); P.F. GIRARD, Histoire de l’organi-
sation judiciaire des Romains (1901); K.W. GOETTLING, Geschichte der römi-
schen Staatsverfassung (1840); E. HERZOG, Geschichte und System der römi-
schen Staatsverfassung I-II (1884-1891); L. HOMO, Les institutions politiques
romaines de la cité à l’état (1927); O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte I
(1885); L. LANGE, Römische Altertumer I-III (1876-1879); O. LENEL, Römische
Rechtsgeschichte (1915); J. MARQUARDT, L’administration romaine I-II (1889-
1892); J.B. MISPOULET, Les institutions politiques des Romains I-II (1882-
1883); T. MOMMSEN, Römischen Staatsrechts I-III (1887-1888); T. MOMMSEN,
Abriss des römischen Staatsrechts (1907); J. RUBINO, Über den Entwicklun-
gsgang der römischen Verfassung bis zum Hohenpunkte der Republik (1839); E.
SERAFINI, Il diritto pubblico romano I (1896); H. SIBER, Römisches Recht in
Grundzugen für die Vorlesung I (1925); P. WILLEMS, Le droit public romain
(1910).
SITI INTERNET
DEDICATI AL DIRITTO ROMANO E AI DIRITTI DELL’ANTICHITÀ
per la ricostruzione delle basi del diritto privato europeo, si confrontino: C.A.
Cannata - A. Gambaro, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea4, II,
Torino 1989; G. Wesenberg - G. Wesener, Storia del diritto privato in Europa
(trad. it.), Padova 1999; L. Solidoro Maruotti, La tradizione romanistica nel di-
ritto europeo, I. Dal crollo dell’Impero romano d’Occidente alla formazione del-
lo ‘ius commune’, Torino 2001; II, Dalla crisi dello ‘ius commune’ alle codifica-
zioni moderne, Torino 2003.
SIGLE E ABBREVIAZIONI
TAVOLA CRONOLOGICA
Il prontuario che segue tiene conto dei dati cronologici salienti esposti nella
precedente trattazione o ivi strettamente implicati
Era precristiana
Era volgare
INDICE ANALITICO