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ISTITUZIONI DI DIRITTO

ROMANO

CAPITOLO 1: LE PERSONE E LA FAMIGLIA


COLLOCAZIONE DEL DIRITTO DELLE PERSONE
Nelle Institutiones di Gaio e di Giustiniano l'esposizione delle nozioni elementari del diritto
privato si apre con il diritto delle persone.
Questa scelta è stata seguita anche dalle codificazioni moderne in ambito: europeo,
latinoamericano ed estremo orientale.
La funzione di capacità giuridica e capacità d’agire degli ordinamenti moderni, è analoga
nel diritto privato alla teoria degli status.

IL SOGGETTO DEL DIRITTO


Il soggetto giuridico deve avere capacità giuridica e capacità di agire.
● capacità giuridica → quando si parla di capacità giuridica si pensa all’essere umano.
L’ordinamento si rivolge all’essere umano, la persona umana in quanto tale a
prescindere dalla nazionalità, dal sesso, dal credo religioso, dall’età,..
Non è soltanto il soggetto preso in considerazione dal diritto come destinatario del
diritto, ma anche il soggetto attivo del diritto ovvero la ragione per cui la persona si
attiva per realizzare una data norma giuridica.

Nel diritto umano, dove per la soggettività giuridica influisce età, autonomia familiare,
cittadinanza, condizione socio-economica, integrità psichica e fisica.
A Roma la capacità giuridica era prevista per chi fosse stato libero, cittadino
romano e sui iuris (giuridicamente indipendente).
Ne erano privi quindi gli schiavi, gli stranieri e le persone alieni iuris (assoggettate al
potere altrui).
Nel corso del Principato (31 a.C. – 235 d.C.) prima si attenua in misura notevole e
poi, dopo l’emanazione della costituzione Antoniniana nel 212 d.C., viene meno la
necessità del requisito della cittadinanza e, allo stesso tempo, si riconosce in modo
progressivo la capacità giuridica delle persone sottoposte ad un potere altrui.

CAPACITÀ DI AGIRE
E’ la capacità riconosciuta dal diritto di compiere degli atti e tenere dei comportamenti
che producono degli effetti riconosciuti dal diritto.
La capacità di agire è la capacità di rendere attivi i propri diritti.
E’ l’attitudine a compiere manifestazioni di volontà che siano idonee a modificare la propria
situazione giuridica.
Nel diritto romano ne erano titolari anche le persone prive della capacità giuridica, come
schiavi, stranieri ed alieni iuris, purché non si trovassero in una delle situazioni per le
quali l’ordinamento ne disponeva una limitazione come: impubertà, sesso femminile,
infermità mentale e prodigalità.
Parallelamente, un soggetto libero, cittadino e sui iuris, e quindi dotato di piena capacità
giuridica, versando in una di queste quattro situazioni, vedeva la propria capacità di agire
limitata e necessitava dell’assistenza di un tutore o curatore per compiere atti giuridici relativi
al proprio patrimonio. Tale assistenza non occorreva invece per chi non avesse la capacità
giuridica, poiché i suoi atti non producevano effetti in capo a lui bensì nella sfera
patrimoniale dell’avente potestà: il padrone, se si trattava di uno schiavo, il pater, nel caso
di un figlio soggetto alla patria potestas.
LA PERSONA UMANA
La persona umana è al tempo stesso un centro di imputazione di interessi concreti presi
in considerazione dal diritto.
L’ordinamento prende in considerazione la persona umana in quanto centro di interessi.
Un centro di interessi concreti riconosciuti dal diritto è anche motore di azioni dirette al
soddisfacimento di questi interessi → l’uomo è soggetto attivo del diritto.
Ogni essere umano ha, in quanto tale, la personalità giuridica → è una persona che
l’ordinamento prende in considerazione.
Tutti gli esseri umani hanno la stessa personalità giuridica,sin dalla nascita.
La persona è come attore e destinatario del mondo giuridico.
Nell'antica Roma perosna era una nozione più ampia, la soggettività giuridica era
riconosciuta solo a persone di sesso maschile che si trovavano in determinate situazioni.

PERSONALITÀ’ GIURIDICA
La personalità giuridica vuol dire essere titolari di diritti e di doveri. La personalità giuridica
è l’attitudine riconosciuta dal diritto a diventare soggetti di diritti e di doveri.
Personalità giuridica equivale a capacità giuridica.

DIRITTO E PERSONA
Non esiste un diritto/una facoltà senza la persona titolare e senza destinatario dell’azione o
del dovere implicato in quel diritto → in questo senso la persona è il soggetto attivo.

PERSONA FISICA E PERSONA GIURIDICA


La capacità giuridica è l’attitudine ad essere titolari di diritti e di doveri.
La persona fisica è l’essere umano preso in considerazione dal diritto ed è destinatario di
norme attive o passive.
La persona fisica ha una capacità giuridica piena. L'incapacità giuridica viene dettata
dall’ordinamento.
La persona giuridica esiste come entità preso in considerazione dal diritto a prescindere
dalla persone che ci lavorano, che ne sono titolari o che la gestiscono.
Questa ha una capacità giuridica rispetto all’essere umano, ha una capacità giuridica
limitata.

Questo concetto non esisteva nell'antica Roma, ma esistevano delle aggregazioni ed
associazioni che venivano considerate portatori di interessi separati dalle persone che la
componevano.

CAPACITÀ E POTERE
Per capacità si intende l’attitudine a diventare titolare di diritti e doveri → situazione
astratta
Per potere si intende la facoltà di esercitare in concreto determinati diritti e facoltà →
situazione concreta

REQUISITI DELLA SOGGETTIVITÀ’ GIURIDICA NEL DIRITTO ROMANO


Nell’antica Roma, per avere soggettività giuridica, era necessario che l’essere umano
venisse all’esistenza con sembianze umane e non deforme.
Per essere considerati soggetti del diritto bisognava essere nati vivi e il nascituro doveva
avere sembianze umane. Il padre di famiglia aveva la prerogativa di riconoscere o non
riconoscere i propri figli, nel farlo il padre poteva rifiutare il bambino deforme (ostenta vel
monstra).
Nella società antica la diversità era un segno di sventura.
Le condizioni di nascita nell’Antica Roma condizionavano tutta l’esistenza della vita.

I TRIA STATUS
I trias status erano le condizioni che facevano variare la capacità giuridica:
status libertatis → liberi ≠ schiavi.
status civitatis → cittadini romani ≠ stranieri
persona sui iuris → bisogna essere un pater familias per avere capacità giuridica ≠ persone
non autonome come il filius familias e la mulier in manu
Questi sono i requisiti della capacità giuridica per il diritto romano.
Essi non erano immodificabili, si poteva verificare un loro mutamento: capitis deminutio→
- massima> un individuo perdeva la libertà e la cittadinanza;
- media> un individuo perdeva la cittadinanza ma non la libertà
- minima> un individuo passava da sui iuris a alieni iuris
L'istituto del diritto di postliminio permetteva al Romano, caduto in prigionia dei nemici, di
riacquistare il suo precedente status una volta rientrato in patria.

STATUS LIBERTATIS
I manuali istituzionali gaiano e giustinianeo definiscono lo status come la somma divisione
tra le persone che si distinguono in liberi e schiavi.
Colpisce l’inclusione sul piano giuridico dei servi nel concetto di persona, dato che gli stessi
costituiscono anche una categoria di cose (res) e, come tali, suscettibili di atti di disposizione
patrimoniale.
Si rivela così, l’ambiguità della loro posizione all’interno del diritto: da un lato, persone dotate
di una propria capacità di agire e, dall’altro, cose oggetto di proprietà (dominium) del
padrone che li poteva vendere, donare, dare in pegno, lasciare in legato e così via.
Tale condizione è considerata come un istituto proprio del diritto comune a tutte le genti (ius
gentium), ma contraria al diritto naturale, secondo il quale tutti gli uomini nascono liberi;
essa può dipendere dalla nascita da madre schiava o dalla successiva riduzione in servitù
per cause previste dallo stesso ius gentium, come la prigionia di guerra, o dal diritto proprio
della comunità di appartenenza.
Nell’ambito delle persone libere, si dà importanza alla differenza tra chi è nato già in
possesso di tale status, detto “ingenuo” e chi invece lo ha ottenuto in seguito, il “liberto”.
Tale differenza è un indice sicuro di mobilità sociale, per cui gli schiavi non erano destinati a
restare tali per sempre, ma potevano ricevere la libertà dai loro padroni.
Il passaggio dalla condizione servile a quella di libero si rifletteva anche sul nome: mentre gli
schiavi erano indicati con uno solo, i liberti assumevano i tre nomi dei nati liberi: nome e
gentilizio (praenomen et nomen) del patrono, cui si aggiunge il cognome (cognomen) e/o un
agnome (agnomen), consistente o solo nell’antico nome servile oppure nell’aggiunta anche
del gentilizio o cognome del patrono con la desinenza “iano”.
Fin dal V secolo a.C., le tre più antiche forme di manomissione o affrancamento dalla
schiavitù attribuivano sia la libertà che la piena cittadinanza romana.
Le tre più antiche forme, che le Istituzioni di Gaio pongono sullo stesso piano e definiscono
iustae ac legitimae (conformi al diritto e legittime), sono:
1. la manomissione “con la bacchetta” (manumissio vindicta)→
la manumissio vindicta si modellava su una delle più risalenti azioni utilizzata nel
processo privato arcaico al fine di affermare giudizialmente la proprietà su cose o il
potere su persone.
In origine, davanti al tribunale del magistrato (in iure) un soggetto sui iuris
affermava, d’accordo con il padrone (il dominus), la libertà dello schiavo assumendo
le funzioni di adsertor libertatis (assertore della libertà) e lo toccava con una
bacchetta (la vindicta, appunto). Il padrone non replicava ed il magistrato dichiarava
la condizione di uomo libero dello schiavo, che così acquistava anche la cittadinanza.
Ad un certo momento il procedimento si semplifica ed è sufficiente la presenza in
iure del solo padrone, il quale, toccando il servo con la bacchetta, pronunciava una
formula solenne con cui lo dichiarava libero e la funzione del magistrato si limitava a
prenderne atto.
2. la manomissione nel testamento (manumissio testamento) →
la manumissio testamento era disposta dal testatore mediante l’uso di una precisa
formula.
La liberazione poteva essere stabilita senza condizioni (pura) oppure sottoposta a
condizioni: in quest’ultimo caso, il servo liberato nel testamento sotto condizione
prendeva il nome di “statulibero” (statuliber) e godeva della libertà solo con
l’adempimento della condizione.
3. la manomissione fatta nel censimento (manumissio censu)→
la manumissio censu infine si realizzava con l’iscrizione dello schiavo nelle liste
del censo (eseguito, in età repubblicana, dai censori ogni cinque anni) da parte del
padrone, che lo rendeva in tal modo libero e cittadino.
Il forte aumento del numero di schiavi nel corso del II e del I secolo a.C. porta ad un
aumento delle manomissioni ed all’introduzione di forme più semplici e rapide, come
quella inter amicos (fatta con dichiarazione agli amici) e quella per epistulam (mediante
lettera).
Parallelamente, sotto Augusto, prevalgono i timori di un’eccessiva alterazione della
compagine sociale dovuta al gran numero di neocittadini di origine servile, che inducono ad
approvare alcuni interventi limitativi della libertà di manumissione dei padroni.
→ legge Fufia Caninia del 2 a.C., con cui si stabiliva un numero massimo di schiavi che si
potevano manomettere per testamento, proporzionandolo a quelli posseduti dal testatore.
→Nel 4 d.C. viene approvata la legge Aelia Sentia, che vietava le manomissioni in frode
ai creditori e regolava quelle compiute in favore di schiavi colpiti da pene infamanti,
equiparandoli agli stranieri arresisi, e di schiavi minori di 30 anni da parte di padroni
minori di 20, attribuendo agli stessi lo status non di cittadini, ma di Latini Aeliani, a meno
che, nel secondo caso, non si fossero osservate certe modalità.
→la lex Iunia Norbana, approvata sotto Tiberio nel 19 d.C., ma in linea con la politica
augustea, riconosceva lo status di Latini Iuniani, e non di cittadini, agli schiavi manomessi
in forme solenni.
Si distinguono in Gaio tre generi di liberti:
1. quelli divenuti cittadini romani
2. quelli divenuti Latini
3. quelli annoverati tra gli stranieri dediticii→ erano gli abitanti di città straniere che, dopo
aver combattuto il popolo romano, erano state vinte e si erano arrese, erano privi di civitas e
pertanto erano tenuti ad osservare sempre il ius gentium.
Tali categorie, pur sopravvivendo alla costituzione Antoniniana del 212 d.C. , decadono
profondamente già sul finire del III secolo d.C.
La grande suddivisione delle persone tra schiavi e liberi permane anche nel diritto
giustinianeo, pur considerandosi la schiavitù come un istituto del ius gentium contra
naturam; si ampliano però i tipi di manomissione, manifestando un evidente favore
dell’ordinamento giuridico per la libertà, aventi ad oggetto l’accertamento dello stato di
schiavo.

STATUS CIVITATIS
La differenza tra cittadini e stranieri in tema di capacità di diritto privato era importante in
epoca arcaica, mentre viene progressivamente meno durante la tarda Repubblica ed il
Principato.
Nella più antica città esistevano, infatti, alcuni istituti giuridici riservati ai cittadini, da cui gli
stranieri erano esclusi, quelli del:
1. ius Quiritium (il diritto dei Quiriti)→ vi rientrava la più risalente forma di proprietà privata.
2. ius civile→ inteso come diritto proprio dei soli cittadini
Comprende ad esempio: la “mancipazione” (mancipatio), l’usucapione (modo di
acquisto della proprietà di una cosa o di altro diritto reale di godimento su di essa,
mediante il possesso della cosa stessa per un periodo di tempo stabilito dalla legge)
ed il contratto di sponsio (antico contratto verbale, con il quale era possibile
assumere obbligazioni di qualsiasi contenuto mediante la pronuncia di determinate
parole)
Gli stranieri non si trovavano tutti in una identica condizione, configurandosi al loro interno
varie categorie.
I più privilegiati erano i federati→ mediante i singoli trattati (foedus) potevano essere
riconosciuti determinati diritti nella sfera dei rapporti privati con i Romani.
L’incapacità dipendente dallo status civitatis si attenua agli inizi del II secolo a.C. a seguito
dell’espansione imperialistica di Roma dopo le guerre puniche e dello sviluppo del ius
gentium,
Nel 212 la costituzione Antoniniana, emanata dall’imperatore Antonino Caracalla, estende lo
status di cittadino a tutti gli abitanti dell’Impero.

PERSONA SUI IURIS


Su di esso si fondano le basi del diritto di famiglia.
Alcune persone sono giuridicamente indipendenti e perciò sono indicate come sui iuris, altre,
in quanto sottoposte ad un potere altrui, vengono denominate alieni iuris o alieno iuri
subiectae.
La persona sui iuris è chiamata anche pater familias.
Pater familias fa riferimento solo ad una persona di sesso maschile. Nel caso di una donna,
si dice che è sui iuris, anche se raramente nelle fonti troviamo il termine mater familias, con
cui però si allude piuttosto alla moglie legittima e madre dei figli all’interno della “piccola
famiglia”, incentrata sulla figura del pater.
Questo tipo di famiglia, di marcato carattere patriarcale, era quella mononucleare →
composta dal pater, appunto, dalla moglie, dai figli legittimi, naturali e/o adottivi, dagli schiavi
e dalle persone in mancipio (venivano così definite le persone libere che si trovavano
sottoposte ad un pater familias, dal quale non discendevano, in aggiunta o in sostituzione
dei figli) o in causa mancipii.
Diversa era la nozione di “grande famiglia” che comprendeva sotto l’unico potere del pater
anche le famiglie (moglie e figli) dei figli maschi.
In età arcaica la città si componeva di gruppi familiari molto forti economicamente e
politicamente.
L'assemblea popolare più importante, ovvero il comizio centuriato, era organizzata in
modo che prevalessero i più ricchi.
All’interno di queste famiglie importanti la figura del Pater Familias era una figura
assimilabile a quella di un capo politico: aveva poteri sui suoi sottoposti. Era l’unico ad avere
la soggettività giuridica e la capacità giuridica piena.
Le situazioni di potere che si riconoscevano al peter erano:
1. patria potestas→ potere sui figli legittimi o i figli adottivi;
2. mancipium→ potere sui figli di altri padri che venivano venduti ad altri pater;
3. manus maritalis→ potere del marito sulla donna, oppure il potere del suocero sulla
nuora;
4. potestas dominica→ potere di cui è titolare, in quanto padrone, sugli schiavi.
Diversamente dall’uomo la donna sui iuris poteva essere titolare unicamente della potestas
dominica sui suoi servi, essendo esclusa sia dalla patria potestas che dal mancipium. Con
riferimento alla patria potestà, tale esclusione si è mantenuta per secoli.
Nel corso dell’evoluzione del diritto romano, questi quattro poteri del pater familias si
trasformano o addirittura scompaiono.
La manus ed il mancipium sono i primi a tramontare. Continuano sempre ad esistere la
patria potestas e la potestas dominica, ma entrambe subiscono notevoli attenuazioni del loro
contenuto: la prima perde molti dei connotati originari, ad anche la seconda riceve una serie
di limitazioni.

PATRIA POTESTAS
Era riconosciuta solo ai maschi puberi, cittadini romani e sui iuris (non avevano a capo
un Pater Familias).
Ne erano escluse le donne per cui le donne non possono essere a capo di un gruppo
famigliare.
Si esplicava la patria potestas sui figli naturali e legittimi, sui figli adottivi e sulle mogli.
Il pater famiglia aveva:
1. ius vitae ac necis→ diritto di vita e di morte sui sottoposti. Era il diritto del padre di
uccidere il figlio. Questo diritto si esplicava nell’età arcaica.
Con il tempo venne fortemente limitato, come in età imperiale. Limitandola a tal
punto che non viene più esercitata.
2. ius noxae dandi → diritto di dare a nossa i figli. Se il figlio aveva commesso
un’azione dalla quale ne erano derivati danni a terzi, il padre doveva o intervenire a
riparare il danno causato o poteva anche non risarcire il danno e dare il figlio a
nossa, ovvero dare il proprio figlio a favore di altri al fine che egli stesso ripari il suo
danno.
3. ius vendendi→ diritto di vendere i figli. E’ la scelta del padre di vendere il figlio ad un
terzo. Dopo aver venduto il filius per tre volte consecutivamente, questo diventava
libero ed acquista la patria potestas. Costantino e Giustiniano lo limitarono.
4. ius exponendi→ diritto di esporre i figli. Nell’antica roma il padre poteva decidere di
non riconoscere il figlio, lo esponeva ovvero abbandonava.

ESTINZIONE DELLA PATRIA POTESTAS


Il modo principale per acquisire la patria potestas era la morte del pater. I figli a loro volta
diventavano pater familias → sui iuris.
Le persone nate libere di sesso maschile si identificano con tre nomi:
1. il prenome (praenomen)→ proprio di ciascun individuo;
2. il nome (nomen)→ indicativo del gentilizio (stirpe) comune a tutti i componenti di una gente
(gens);
3. il cognome (cognomen)→ che contraddistingueva gli appartenenti ad una originaria
famiglia agnatizia.
Alle donne, invece, mancava il prenome, essendo di solito chiamate con il solo gentilizio al
femminile, fino all’età imperiale, e poi, molto spesso, anche con il cognome sempre
femminilizzato.
La trasmissione del gentilizio e del cognome avveniva, normalmente, a seguito della nascita
da matrimonio legittimo. I figli adottivi assumevano i nomi del padre adottivo con l’aggiunta di
un secondo cognome, detto “agnome”, terminante in “iano”, indicativo del proprio gentilizio
di origine.
La legislazione giustinianea riconosce pienamente agli individui (di condizione libera) la loro
scelta e modifica, purchè quest’ultima non abbia finalità̀ fraudolente.
Bisognerà poi attendere il Concilio di Trento per vedere un primo intervento regolatore in
questo settore ad opera della Chiesa, con l’introduzione dell’obbligo per i parroci di tenere
registri sulle nascite ed i matrimoni ed in seguito anche sulle morti, contribuendo così ad una
certa stabilizzazione ed ufficializzazione dell’onomastica.
Neppure le codificazioni ottocentesche affrontano sistematicamente l’argomento ed è merito
della sola legislazione del XX secolo di aver dettato una disciplina nel nome ed averlo
compreso tra i diritti della personalità e, in quanto tale, tutelabile in modo pieno ed assoluto a
livello giuridico.

CAPITOLO 5: COSE, PROPRIETA’, DIRITTI REALI MINORI


E DI POSSESSO

I: LE COSE
LA CLASSIFICAZIONE DELLE ISTITUZIONE DI GIUSTINIANO
In apertura del secondo libro delle istituzioni di Giustiniano è esposta una
classificazione delle cose sotto il profilo della loro appartenenza a essa.
Si apre con la bipartizione tra:
1. cose compresi nel nostro patrimonio;
2. cose al di fuori del nostro patrimonio.
Segue un ulteriore ripartizione fra:
1. cose comuni a tutti per diritto naturale→ le cose comuni a tutti sono l’aria, l’acqua
corrente, il mare ed il lido del mare, la cui estensione si misura in base al limite
raggiunto dalle onde nella stagione invernale.
A nessuno può essere impedito l’accesso al lido del mare ed il suo uso.
2. cose pubbliche→ le cose pubbliche si possono distinguere in cose “destinate all’uso
pubblico” e in cose pubbliche “patrimoniali”.
Una tale distinzione si ricava agevolmente dai dati del Digesto e delle Istituzioni
giustinianee, che fanno rientrare nella prima categoria i fiumi ed i porti, attribuendo a
tutti un diritto di pesca in essi, le cose appartenenti ad una comunità cittadina, come
stadi e teatri. Con riguardo alle cose di una collettività, si precisa che la stessa ne ha
la proprietà e non i singoli che la compongono.
3. cose di una collettività
4. cose di nessuno→ le cose di nessuno vengono a racchiudere quelle “di diritto
divino”, suddivise in:
● sacre (sacrae, come templi, santuari, boschi)
● religiose (religiosae, come i luoghi di sepoltura)
● sante (sanctae, come le porte e le mura della città).
5. cose di proprietà dei singoli→ le cose dei singoli sono quelle suscettibili di proprietà
privata individuale.
Mettendo a confronto le due classificazioni si potrebbe dunque concludere che: le cose
comuni a tutti, le cose di nessuno e le cose destinate gli usi pubblici facciano parte di quelle
cose extra patrimoniali→ non possono formare in alcun modo oggetto di rapporti
giuridici patrimoniali e di esse non si può trasmettere la proprietà.
Mentre si annoverano tra quelle in patrimonio tanto le cose di proprietà privata
individuale quanto le cose patrimoniali pubbliche, anche se diverso è il soggetto che ne
può disporre.
Accanto alla bipartizione tra cose extra patrimonium e in patrimonio, le fonti ne conservano
un’altra prospettata soprattutto in tema di compravendita: quella fra “cose in commercio” (res
in commercio), ossia suscettibili di “commercio giuridico e quindi passibili di alienazione
(trasferimento di proprietà o di diritti), e “cose fuori dal commercio” (extra commercium), che,
come tali, ne sono escluse. Fra queste ultime vanno ovviamente comprese tutte le
categorie di cose extra patrimonium.

CATEGORIE DI COSE PRIVATE


All’interno delle cose che possono essere oggetto di proprietà individuale emergono altre
suddivisioni, a volte basate sulla loro condizione giuridica, a volte sulle caratteristiche
intrinseche.
Le più importanti sono:
1. le res mancipi→ costituite da quattro categorie di cose, reputate allora più preziose
(pretiosiores):
● fondi rustici ed urbani (limitatamente a quelli posti in Italia);
● schiavi;
● animali da lavoro o trasporto;
● le più antiche servitù prediali rustiche, intese ancora in senso materiale come
res (cose) e non come diritti del proprietario del fondo dominante nei confronti
del fondo servente e res nec mancipi→ indica beni di importanza individuale non
connotati quindi da una preminente importanza sociale e valore economico
(Res mancipi e res nec mancipi è una distinzione molto antica. Le prime erano tutte
le altre cose rientravano fra quelle nec mancipi.
Tramonta in età postclassica e viene formalmente abolita con una costituzione di
Giustiniano del 531.)
2. le cose corporali (res corporales)→ le cose materiali, definite corporali nel senso che si
possono toccare (quae tangi possunt)e cose incorporali (res incorporale) →
immateriali, qualificate come incorporali (res incorporales), perché non si possono
toccare.
(Questa divisione, chiaramente delineata dalle Istituzioni di Gaio)
3. le cose immobili (res soli)→ suolo, edificio e cose mobili (mobiles).
Nel diritto arcaico, preclassico e classico questa suddivisione è conosciuta ma aveva
un ruolo pratico molto limitato.
Il criterio distintivo è che sono immobili il suolo e gli edifici ad esso inerenti e mobili
tutte le altre. L’importanza della separazione tra le due categorie cresce
parallelamente alla decadenza di quella tra res mancipi e res mancipi, divenendo
fondamentale nel diritto postclassico e giustinianeo per le formalità relative alla loro
vendita o donazione.
4. le cose fungibili e infungibili→ tali cose si caratterizzano, sul piano giuridico, per
essere prese in considerazione in rapporto al loro peso, misura o quantità e si
denominano fungibili perché, nell’adempimento delle obbligazioni, assumono una
funzione con riferimento al genere anziché alla cosa singola di esso.
Oltre al denaro, rientrano in questa categoria le derrate alimentari: vino, olio, grano,
frumento, che formano oggetto del contratto di mutuo non come singole monete o
chicchi di grano o gocce di olio o di vino, ma per la loro quantità, misura o peso.
5. le cose complesse→ le cose complesse sono indicate nella giurisprudenza romana con il
termine di corpora ex distantibus, il cui significato è quello di “cose corporali risultanti
da altre cose separate tra loro”, si tratta di cose formate da un insieme di altre non
unite materialmente tra loro, come possono essere il popolo, una legione o un
gregge.
Dal punto di vista giuridico, le cose complesse possono esigere prese in
considerazione nel loro insieme oppure nel loro singoli componenti.
6. le cose accessorie→ sono cose accessorie quelle destinate al servizio di una cosa
principale, MA non ne sono un elemento costitutivo, potendo comunque formare
oggetto di rapporti giuridici in modo autonomo.
Tra gli esempi più significativi l’insieme di beni strumentali adibiti alla coltivazione di
un fondo o alla manutenzione della casa, dei quali si frutti ((fructus) quelle cose
prodotte da altre cose, costituendone il reddito), possono essere:
● civili→i frutti civili rappresentano il corrispettivo per l’attribuzione ad altri del
godimento di una cosa o di un diritto, come avviene per il canone di locazione
di un fondo o un edificio o del diritto di usufrutto. Gli interessi maturati sul
denaro prestato solo a seguito di una lunga evoluzione sono assimilati, verso
la fine del II secolo d.C. ai frutti civili.
● naturali→i primi provengono da vegetali o animali con un processo di
distacco dalla cosa madre previsto per natura, la cui individualità si acquista
solo attraverso la separazione.

II: I DIRITTI REALI


NOZIONE, TIPI E CARATTERISTICHE
Nell’esperienza giuridica romana emerge con somma chiarezza la grande bipartizione
all’interno del diritto privato patrimoniale tra diritti reali (conferisce al titolare il potere
assoluto immediato su una cosa) e diritti di credito.
Essa viene però espressa non sul piano sostanziale, ma su quello processuale, attraverso
una netta separazione tra:
1. azioni in rem→ le azioni in rem sono quelle con cui qualcuno afferma di essere
proprietario di una cosa o di essere titolare di un diritto su di essa, come un usufrutto
o una servitù prediale. Qualora un soggetto possa esercitare un’azione in rem , vuol
dire che vanta la titolarità di un diritto reale.
2. azioni in personam→dice Gaio nelle sue Istituzioni che le azioni in personam sono
quelle spettanti al creditore contro chi sia obbligato verso di lui ad una certa
prestazione.
Già da questa bipartizione emerge una prima caratteristica fondamentale dei diritti reali: la
possibilità di farli valere erga omnes (verso tutti) da parte del loro titolare, contrariamente a
quanto avviene per le azioni in personam ed i sottostanti diritti di credito, che si possono
esercitare solo contro una o più persone esattamente determinate.
Tale caratteristica si sottolinea anche mettendo in luce il legame diretto fra titolare del diritto
e cosa oggetto dello stesso.
Accanto a questa caratteristica se ne profila un’altra ugualmente rilevante: i diritti reali si
fondano sul principio della tipicità→ possono esistere solo quelli previsti dall’ordinamento
giuridico, senza lasciare agli interessati la facoltà di creare figure atipiche o innominate,
come invece avviene per i contratti. Ciò non esclude che col tempo si riconoscano nuovi
diritti reali in aggiunta a quelli originari in dipendenza da mutati fattori economico – sociali.
Al loro interno si coglie chiaramente la differenza tra il più importante di essi, che è il diritto
di proprietà, e agli altri, per i quali si usa la dizione di “diritti reali minori” o “limitati”.
Elemento comune di questi ultimi è che si esercitano su una cosa altrui e non del titolare,
spiegando l’espressione iura in re aliena (diritti su cosa altrui), coniata dai giuristi intermedi
per designarli nel loro insieme.
Tra di esse, inoltre, si opera un'ulteriore distinzione:
1. diritti reali di godimento→ i primi sono l’usufrutto e le figure affini (uso ed abitazione), le
servitù prediali, lo ius in agro vectigali e l’enfiteusi e la superficie;
2. diritti reali di garanzia→ il pegno e l’ipoteca.
Occorre ricordare come sia la bipartizione tra diritti reali e diritti di credito, enunciata spesso
sotto forma di diritti soggettivi assoluti (fatti valere nei confronti di tutti) e diritti soggettivi
relativi (fatti valere nei confronti di una determinata persona), sia le peculiari caratteristiche
dei diritti reali appena esposte si siano trasmesse dal diritto romano a quello intermedio fino
a giungere agli ordinamenti moderni.

III: LA PROPRIETA’
ORIGINI E SITUAZIONE NEL DIRITTO ARCAICO
All’epoca dei gruppi gentili, prima della fondazione di Roma e per un certo periodo anche
successivamente, si può già intuire l’esistenza di un diritto di appartenenza delle cose,
che assumeva due forme:
1. collettiva→ la prima era di tutto il gruppo gentilizio e riguardava sicuramente la terra
dove esso viveva e probabilmente le greggi degli animali domestici più legati
all’economia pastorale di quell’epoca.
2. individuale→ un’appartenenza individuale dei singoli componenti del gruppo relativa
ad attrezzi da lavoro, armi, oggetti personali quotidiani ed animali da cortile.
La fondazione della città introduce una nuova forma di appartenenza, quella pubblica, che
si aggiunge alle altre due.
Da allora la collettiva e gentilizia comincia a decadere e a trasformarsi, secondo
un’evoluzione, il cui andamento è difficile da cogliere, mentre lentamente cresce il ruolo
della privata, alla quale si affianca la pubblica, spettante alla civitas→ la nuova comunità. Al
primo monarca e mitico fondatore di Roma, Romolo, è fatta risalire la forma più antica di
proprietà privata del suolo, derivante dall’assegnazione ad ogni cittadino (maschio e sui
iuris, naturalmente) di lotti da due iugeri (bina iugera), chiamati heredium (terra che va in
eredità), per indicare che si trattava di una porzione di terreno destinata alla successione
ereditaria, e quindi trasmissibile agli eredi. Considerata l’esiguità delle sue superficie, la
maggior parte delle terre restava ancora di proprietà delle antiche genti o della comunità
cittadina.
Sempre in epoca monarchica, nasce la distinzione fra res mancipi e res nec mancipi,
collegata al potere chiamato mancipium, che il pater familias esercitava su alcune categorie
di persone e su determinate cose, qualificate appunto mancipi e considerate le più
importanti sul piano economico (fondi, schiavi, animali da sola e da lavoro e servitù prediali
rustiche).
Il potere di disposizione del pater esisteva per entrambe, ma per le prime il mancipium era
trasmissibile, tra vivi (inter vivos), solo facendo uso dello specifico negozio della
“mancipazione” (mancipatio), il cui rituale comportava la pronuncia di determinate parole,
l’impiego di un pezzo di bronzo da porre una bilancia e la presenza di cinque testimoni.
Per le altre, invece, la trasmissione non richiedeva alcun atto formale.
Una tappa significativa verso la formazione di un concetto più preciso di proprietà privata
pubblica la troviamo all’inizio dell’era repubblicana quando si contrappongono:
1. le terre pubbliche→ denominate ager publicus, perché ne era proprietario tutto il
popolo.
Una parte delle terre pubbliche, incrementate dalle conquiste militari, anziché essere
lasciate alla comunità, si era preferito, non senza notevoli lotte politiche e sociali,
distribuirle ai cittadini soprattutto della classe plebea e quindi la comunità cittadina
nel suo insieme
2. terre in proprietà dei privati→ designate normalmente con il termine “terra divisa e
assegnata che ne evoca le origini”.
Da un lato, infatti, le vecchie terre collettive erano state a poco a poco divise ed
assegnate in proprietà ai singoli capifamiglia (patres familias) componenti delle genti
stesse;
Nello stesso arco temporale, si definisce la separazione tra le categorie della proprietà e del
possesso.
Le terre pubbliche erano, infatti, suscettibili di occupazione e sfruttamento da parte di
cittadini in origine membri della sola classe patrizia. Sul piano giuridico il loro rapporto su
quella terra non si qualificava come un diritto di proprietà, bensì come un “possesso”
(possessio) dell’ager publicus, distinguendosi con chiarezza la proprietà di esso che era di
tutta la comunità, del possesso, esercitato dal singolo cittadino, in cui era comunque
implicita l’idea della sua utilizzazione.
Sia il proprietario che il possessore potevano usare e disporre della terra, trasmettendola
con atto tra vivi o in via ereditaria.
Esisteva però una differenza sotto un duplice punto di vista: il possesso veniva meno nel
momento in cui non si esercitava, a differenza della proprietà, dove il proprietario restava
tale anche senza esercitarne il diritto, e poi la proprietà era tutelata nei confronti dei terzi in
un modo più o meno ed assoluto rispetto al possesso.
Nel V secolo a.C. valeva un’apposita “azione di legge”, sorta probabilmente in età
monarchica e prevista dalle XII Tavole, chiamata sacramenti in rem, di cui solo il
proprietario poteva far uso contro chiunque possedesse una sua cosa al fine di recuperarla.
Le Istituzioni di Gaio ci informano che con essa si poteva rivendicare non solo la proprietà
dei fondi, ma anche di una qualunque altra cosa, mobile o immobile, mancipi o nec mancipi.
Il possesso delle terre pubbliche non era tutelato con quest’azione, ma con altri rimedi,
di cui, però, conosciamo il nome e sappiamo qualcosa di certo solo con riferimento al
periodo tra III e II secolo a.C. Si tratta probabilmente dei precedenti storici dei successivi
interdetti possessori creati dal pretore e chiamati “interdetti per trattenere il possesso” e
“interdetti per recuperare il possesso”.

GLI SVILUPPI SUCCESSIVI


All’interno delle cose pubbliche sono presenti:
1. beni pubblici patrimoniali→ possono formare oggetto di un’assegnazione in proprietà
a privati o di una compravendita (ad esempio se la città di Roma o una colonia o un
municipio è proprietario di uno schiavo di terreni agricoli, può venderlo assegnarlo ad altri)→
rappresenta la radice storica di quella moderna dei beni pubblici patrimoniali
2. beni pubblici demaniali→ costituita da cose, come strade, teatri e basiliche destinate la
pubblica utilità e riservata alla proprietà di soggetti pubblici.
Tutela mediante interdetti popolari
Nel caso dei luoghi pubblici, fiumi pubblici era approntata una serie di interdetti popolari,
che qualunque cittadino avrebbe potuto attivare richiedendoli al pretore, qualora fosse stato
fatto e messo qualcosa che ne impedisce utilizzo pubblico, tali interdetti potevano essere
proibitori à vietare a chiunque un’attività che portasse ad un impedimento o deterioramento
del luogo pubblico o restitutorie à per imporne il ripristino e quindi la fruibilità per tutti,
qualora fosse stato alterato dall’attività altrui.
Lista orazione del regime imperiale il coinvolgimento dei cittadini nella tutela delle cose
destinate all’uso pubblico viene rapidamente meno e adesso si sostituiscono i funzionari
della burocrazia imperiale.

LA PROPRIETA’ PRIVATA: EVOLUZIONE E TIPI


All’epoca già delle XII Tavole o comunque in un lasso di tempo non molto successivo, si fa
strada una nuova terminologia per indicare il diritto di proprietà privata, anch’essa dalle
radici arcaiche, che dapprima si affianca a quelle più risalente ( il meum esse) e poi finisce
per sostituirla.
Si tratta di “dominio in base al diritto dei Quiriti” (dominium ex iure Quiritium) à fa riferimento
alla proprietà regolata da quella branca più antica del ius civile denominata ius
Quiritium (diritto dei Quiriti). L’espressione dominium ex iure Quiritium, permane nel
linguaggio giuridico romano per secoli fino alla codificazione di Giustiniano, quando cessa
anche formalmente la distinzione fra i precedenti tipi di proprietà privata.
Secondo un’evoluzione, le cui singole fasi ci sfuggono, tra il V ed il III secolo a.C., quando
si aggiungono le due altre figure che, in termini moderni, potremmo definire come:
1. proprietà pretoria → Gaio nelle sue Istituzioni osserva che, mentre in antico anche i Romani
– come tutti gli altri popoli – conoscevano un solo tipo di proprietà, quella civile, ai suoi
tempi invece ne esisteva anche un altro, tutelato dal pretore e denominato non con il
termine dominium, bensì con quello più generico di in bonis habere o in bonis esse,
letteralmente “avere tra i propri beni” o “essere nei propri beni”. Malgrado la diversità
terminologica, il suo contenuto è sostanzialmente identico a quello della proprietà
civile o quiritana.
2. proprietà provinciale→ con l’istituzione delle province, si ha un’ulteriore conferma che il
loro territorio, in quanto frutto di conquista, fosse di proprietà del popolo romano,
come era stato per l’antico ager publicus, e poi, a partire dalla riforma di Augusto nel
27 a.C. La situazione giuridica dei titolari dei fondi, sia rustici che urbani, situati in
esse non si poteva dunque costruire giuridicamente come dominio, preferendo
invece ricorrere alla locuzione “possesso o usufrutto”.
Il termine proprietas (proprietà) non è molto risalente, in quanto il suo primo impiego è in
relazione al diritto reale di usufrutto, dove si parla del dominus proprietatis (titolare della
proprietà) contrapposto al fructuarius (usufruttuario), collocandosi quindi fra III e II secolo
a.C.
Anche quando comincia a diffondersi, con esso si fa sempre e solo riferimento alla
proprietà civile ed il suo impiego resta comunque meno frequente rispetto a
“dominio”.
In età postclassica ed ancor più nella legislazione di Giustiniano, le diverse figure della
proprietà privata ora descritte si unificano.
Con Diocleziano (284 – 305) si elimina definitivamente la distinzione tra fondi italici e
provinciali e conseguentemente fra proprietà civile e provinciale, mentre nella grande
Compilazione viene assorbita nella medesima categoria anche la proprietà pretoria.
Se, da un lato, si ricompatta così la nozione di proprietà privata, dall’altro, la disciplina
dettata in materia di enfiteusi e di superficie pone le basi su cui il diritto intermedio introdurrà
una nuova bipartizione tra dominio diretto (dominium directum), spettante al
proprietario formale di un immobile, privo però del suo godimento, e dominio utile di
chi invece ce l’ha.

I MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETA’


Dopo l’elencazione delle categorie di cose, nei manuali istituzionali di Gaio e di Giustiniano
si passa alla trattazione dei modi di acquisto della proprietà, riferiti solo a quella privata.
Tradizionalmente, ma non è il diritto romano, si è soliti fare una distinzione tra i modi di
acquisto a titolo originario e modi di acquisto a titolo derivativo. I primi riguardano cose che
prima non avevano un proprietario o questi avevano intenzione di trasmettere ad altri, e
dunque, dove non c’è una relazione con un precedente proprietario; il secondo invece
implicano la volontà del precedente e del nuovo proprietario di trasmettere e ricevere la
proprietà della cosa
Modi di acquisto a titolo originario →la loro trattazione sistematica la troviamo nelle Istituzioni
e in ampi stralci delle Res cottidianae di Gaio, riportati nel Digesto e, in modo più completo, nelle
Istituzioni di Giustiniano, che rappresentano la sintesi dell’elaborazione giuridica precedente, con
l’aggiunta degli aggiornamenti più recenti.
L’ordine espositivo risulta però incentrato sulla descrizione dei singoli modi e non sulle
categorie generali cui essi si possono ricondurre:
1. occupazione (occupatio)→ significa divenire proprietario di una cosa, che
anteriormente non apparteneva a nessuno. Di solito si fa riferimento agli animali
cacciati o pescati, alle cose sottratte ai nemici o anche a quelle trovate sul lido del
mare, purché non gettate in mare da una nave per alleggerirla.
Quindi chiunque può “occuparle”, ossia prenderle ed acquistarne la proprietà.
All’interno dell’occupazione si può anche inquadrare l’invenzione di un tesoro,
intendendosi per tale una quantità di cose preziose, nascoste, di cui non si serba
memoria e quindi si ignora di chi ne sia il proprietario. Per esso le Istituzioni
giustinianee dispongono l’appartenenza all’inventore, qualora l’abbia ritrovato in un
proprio fondo o casualmente in un fondo sacro o religioso, mentre, ove il
ritrovamento sia avvenuto, sempre casualmente, in un fondo altrui, ne attribuiscono
la metà all’inventore e l’altra metà al proprietario del fondo, chiunque esso sia.
Si riconnette all’occupazione anche l’acquisto delle cose abbandonate dal
precedente proprietario.
2. specificazione (specifatio)→ si ha quando una persona (lo specificatore) da una
materia altrui realizza una cosa (species) nuova. Se lo fa, sapendo che la materia
non era sua, commette un furto e contro di lui il proprietario di essa può agire con le
relative azioni.
Qualora, invece, sia in buona fede perché ignora l’altruità della materia, si pone il
problema di chi sia il proprietario della cosa nuova.
Nel I secolo d.C. viene data una differente soluzione da Sabiniani e Proculeiani: i
primi attribuiscono il dominio sulla cosa specificata al proprietario della materia, il
quale deve, però, pagare allo specificatore la manodopera per la realizzazione della
cosa; i secondi la ritengono, invece, di proprietà dello specificatore, sul quale
incombe il dovere di pagare al proprietario il valore della materia.
Agli inizi del II secolo si fissa un regime definitivo, confermato da Giustiniano e
fondato su una soluzione intermedia. Se la materia, una volta trasformata, può
essere riportata al suo stato precedente, come un vaso d’oro o d’argento che si
possono rifondere, la nuova cosa appartiene al proprietario della materia stessa,
accettandosi la soluzione Sabiniana. Quando invece la materia non può più ritornare
a tale stato, come avviene per l’uva diventata vino, si considera prevalente la
posizione dello specificatore, che sarà quindi proprietario della nuova cosa.
Naturalmente, nel primo caso sarà il proprietario della materia a pagare la
manodopera, mentre nel secondo lo specificatore a pagare il valore della materia.
Infine, qualora lo specificatore sia in parte proprietario della materia, vale sempre la
soluzione che la species nuova gli appartenga, salvo sempre l’obbligo di pagare al
comproprietario il valore della sua parte.
3. accessione (accessio)→ sul piano concettuale, questo modo di acquisto della
proprietà consiste nell’unione fra le due cose appartenenti a diversi proprietari, una
principale e l’altra accessoria, con il risultato che, a seguito dell’unione, il proprietario
della prima diventa proprietario anche della seconda.
Nell’accessione si possono inquadrare tre fenomeni, trattati separatamente nelle
Istituzioni giustinianee: edificazione, piantagione, semina, l’accessione di cosa
mobile a cosa mobile e gli incrementi fluviali.
Il primo consiste nel costruire un edificio (inaedificatio) su un suolo altrui o nel
mettervi piante (plantatio) o nel seminarlo (satio), da cui discende che il proprietario
del suolo diviene anche proprietario dell’edificio, delle piante o del raccolto in forza
del principio ciò che è posto su un suolo accede ad esso (superficies solo cedit).
La disciplina di tale forma di accessione è piuttosto minuziosa e si può così
riassumere: se il costruttore edificava su un suolo proprio, ma con materiali altrui, pur
acquistando la proprietà dell’edificio, non acquistava anche quella dei materiali, che
restava al loro proprietario originario, ma in una situazione di quiescenza: qualora,
infatti, l’edificio fosse caduto in rovina, il suo diritto di proprietà sarebbe riemerso ed
egli avrebbe avuto diritto di rivendicarli. Se il costruttore edificava con materiali propri
su suolo altrui consapevolmente, perdeva in via definitiva la loro proprietà in favore
del proprietario del suolo e dell’edificio. Qualora invece lo avesse fatto in buona fede,
aveva diritto di ricevere dal proprietario del suolo e dell’edificio il pagamento dei
materiali e della manodopera per realizzare l’edificio stesso.
Più semplici si presentavano i casi della piantagione e della semina. Infatti, le piante
(ma solo quando hanno messo radici) ed il raccolto si acquistavano al proprietario
del suolo, il quale era però tenuto a pagarne il valore a chi abbia piantato o seminato.
Come esempi del secondo fenomeno (accessione di cosa mobile a cosa mobile) si
indicano quelli dell’inchiostro alle carte e membrane sulle quali si usa per scrivere,
delle stoffe e della tintura per colorarle, della tavola di legno e del dipinto che si
realizza su di essa. Al fine di stabilire l’acquisto della proprietà per accessione,
occorreva determinare quale fosse la cosa principale: nei nostri esempi si
consideravano tali, nell’ordine, le carte o membrane, le stoffe e la pittura, con la
conseguenza che il loro proprietario diveniva anche proprietario della cosa ritenuta
accessoria, salvo, come sempre, l’obbligo di pagarne il valore al precedente
proprietario.
A proposito degli incrementi fluviali, si regolano i casi dell’alluvione, dell’avulsione,
dell’isola nata in un fiume e dell’alveo abbandonato, che valgono quando un fondo
trovi nel fiume stesso un suo confine (ager arcifinius). L’alluvione (alluvio)
comportava l’incremento di un fondo mediante la terra che poco a poco il fiume vi
aggiungeva; il suo proprietario acquistava anche la proprietà di tale incremento.
L’avulsione (avulsio) determinava il distacco di una parte di terra da un fondo,
dovuto alla forza di un fiume, che la univa poi ad un altro fondo rivierasco
appartenente ad un diverso proprietario; questi ne diveniva il proprietario nel
momento in cui le piante della parte staccata avessero messo le radici nel fondo cui
si era unita. Un’isola nata in un fiume (insula in flumine nata), se fosse stata più
vicina ad una delle rive, sarebbe appartenuto al proprietario o ai proprietari dei fondi
rivieraschi verso di essa, che se la suddividevano per latitudine; se invece si trovava
nel mezzo, si ripartiva a metà fra i proprietari dei fondi rivieraschi dei due lati e,
quando questi fossero stati più per ciascuna riva, si suddivideva fra di loro sempre
per latitudine. L’alveo abbandonato (alveus derelictus) si aveva quando un fiume
modificava in modo naturale il proprio corso, con la conseguenza che i proprietari dei
fondi rivieraschi se lo riportavano a metà ed eventualmente secondo il criterio della
latitudine, come si è visto per l’isola fluviale.
Modi di acquisto a titolo derivativo→ nei modi di acquisto a titolo derivativo la proprietà
di una cosa è trasferita volontariamente da un soggetto ad un altro con uno specifico
atto traslativo. Va sottolineato che in diritto romano non si riconoscevano effetti reali (di
trasmissione della proprietà) al consenso prestato per la conclusione del contratto, come
detto a proposito della donazione; pertanto, non restava che ricorrere ad uno di questi atti
per effettuare il passaggio della proprietà. Infine, secondo un principio generale valido ancor
oggi, chi trasmette la proprietà su qualcosa deve esserne il proprietario.
1. mancipatio→ si trasferisce esclusivamente la proprietà di res mancipi. È un atto
che risponde ad un rigido rituale compiuto alla presenza di cinque testimoni, cittadini
romani e puberi, nato come forma più antica di compravendita, di cui conserva
evidenti tracce. Ad esso intervengono chi trasmette il potere sulla cosa, il venditore,
detto mancipio dans (colui che dà la cosa in mancipio), chi lo riceve, il compratore,
chiamato mancipio accipiens (colui che riceve la cosa in mancipio), ed un terzo
portatore di una bilancia (il libripens). Il ricevente pronunciava la formula: “dico che
questa cosa (ad. es. un schiavo) è mia in base al diritto dei quiriti e l’ho comprata
con questo bronzo e la bilancia bronzea” e poneva sulla bilancia una certa quantità di
bronzo, avente funzione di prezzo; il trasmittente invece taceva. La “cosa” trasmessa
doveva essere presente solo se si trattava di uno schiavo o un animale, per
consentirne immediatamente la presa di possesso da parte dell’accipiens. Il ruolo del
libripens era quello di accertare la corrispondenza del perso del bronzo messo sulla
bilancia con il prezzo pattuito dalle parti, che ci fa capire come questa forma
negoziale fosse sorta in un’epoca in cui il valore della moneta, fatta di bronzo, non
consisteva nella quantità, bensì nel suo peso. Le XII Tavole vi facevano riferimento in
una norma dove si riconosceva efficacia giuridica vincolante ed eventuali clausole
orali che le parti avessero voluto aggiungere. Dopo l’affermazione del contratto
consensuale di compravendita, nel III secolo a.C., la mancipatio perde la sua
funzione originaria, ma rimane come atto traslativo della proprietà sulle sole res
mancipi senza necessità di indicarne espressamente la causa; proprio per
sottolineare questa sua astrattezza Gaio, nelle sue Istituzioni. Infine, ad essa non si
potevano apporre elementi accidentali (condizioni e termini) facendola rientrare
nella categoria degli “atti legittimi”.
2. in iure cessio→ è un atto che si configura come un finto processo perché si svolge
davanti al tribunale di un magistrato (in iure), console, pretore o governatore di
provincia, con la partecipazione del vecchio proprietario (il cedente) e del nuovo (il
cessionario). Quest’ultimo, secondo la descrizione delle Istituzioni di Gaio, tenendo la
cosa, che può essere sia mancipi che nec mancipi, pronuncia la formula di
rivendicazione della stessa alla quale il cedente – siccome è d’accordo – non replica,
con la conseguenza che il magistrato dichiara il cessionario nuovo proprietario. La
cosa oggetto dell’atto era dunque condotta anch’essa in tribunale oppure, in caso di
immobili, se ne portava una parte in rappresentanza del tutto. Siamo in presenza di
un rituale processuale a finalità non contenziose, dal momento che le due parti
avevano già acconsentito sulla trasmissione della proprietà. Anche questo atto non
ammetteva condizioni o termini.
3. tradizione (traditio)→ è il modo di acquisto a titolo derivativo inter vivos più diffuso e
destinato a trionfare sugli altri due, caratterizzandosi per l’assenza di forme e
l’utilizzo nei rapporti con gli stranieri. Nata in tempi antichissimi per le sole res nec
màncipi, la tradizione consiste in un atto di consegna materiale della cosa, che, in
presenza di certi requisiti, produce effetti traslativi della proprietà su di essa. Dal III
secolo d.C. si sostituisce progressivamente alla mancipatio e in iure cessio. I
requisiti richiesti affinché si operi il trasferimento della proprietà implicano:
● che chi consegna, detto il tradente (tradens), sia il proprietario della cosa
consegnata, detto accipiente (accipiens);
● che sussistano la volontà del tradente di trasmettere la proprietà della cosa
consegnata e la volontà dell'eccipiente di riceverla;
● che sia presente una giusta causa alla base di questa consegna; la giusta
causa sta, infatti, ad indicare il rapporto giuridico a fondamento del passaggio
di proprietà.
→Casi di tradizione non materiale
La traditio richiedeva la consegna materiale della cosa, tanto è vero che si poteva
utilizzare per le cose corporali, ma non per quelle incorporali (diritti).
Questa necessità della consegna materiale subisce nel tempo alcune importanti
attenuazioni:
1. costituita dalla cosiddetta “consegna simbolica” o “consegna delle chiavi”,
espressioni entrambe di conio medievale, che si riferiscono però ad un tipo di
consegna già conosciuto dal diritto romano, in cui il tradente, anziché
consegnare le singole merci contenute in un magazzino, dava all’accipiente
le sue chiavi e la loro consegna sostituiva quella delle singole anfore.
2. consiste in una forma di consegna effettuata da lontano, denominata traditio
longa manu, letteralmente “consegna allungando la mano”, impiegata sia per
cose mobili che per fondi situati in campagna (rustici) o in città (urbani). La
loro consegna, infatti, poteva essere materiale o mediante semplice
indicazione.
3. è data dalla consegna in via breve, chiamata in epoca intermedia traditio
brevi manu. Essa aveva luogo quando l’accipiente era già nella disponibilità
materiale della cosa, di cui il tradente gli trasferiva la proprietà. Ad esempio,
l’inquilino di un appartamento, che lo compra, non ha bisogno che gli venga
consegnato, perché lo ha già a sua disposizione.
4. denominato nel diritto intermedio “costituto possessorio”, in cui, all’opposto di
quello appena visto, il proprietario di una cosa in suo possesso ne trasmette
la proprietà ad un’altra persona, conservandone però la disponibilità a titolo di
detenzione. Come quanto Tizio vive in un edificio di sua proprietà, che poi
vende a Caio, continuandoci però a vivere come inquilino.
4. usucapione (usucapio) e la prescrizione acquisitiva (praescriptio longi temporis)→
un altro modo di acquisto della proprietà è l’usucapione, che non si inquadra bene
nella classificazione tra quelli a titolo originario e quelli a titolo derivativo,
presentandosi piuttosto come una figura intermedia e a se stante.
Infatti, per certi versi sarebbe a titolo derivativo, considerando che spesso intercorre
una relazione con il precedente proprietario, il quale vuole trasmettere la cosa al
nuovo, ma non vi riesce per un vizio di forma. Per altri potrebbe anche essere a titolo
originario, mancando la volontà del precedente proprietario di trasmettere la
proprietà della cosa. Le finalità dell’usucapione sono di mettere fine a situazioni di
incertezza giuridica, trasformando il possesso di cose, prolungato nel tempo e
caratterizzato da certi requisiti, in diritto di proprietà.
Questo modo di acquisto è già previsto dalle XII Tavole, facendo parte del ius civile,
e quindi disponibile per i soli cittadini. I requisiti indispensabili all’usucapione sono
cinque:
● cosa usucapibile (res habilis)→ si deve trattare di una cosa suscettibile di
usucapione, e perciò di proprietà privata.
Per questo, ad esempio, non si potevano usucapire cose destinate all’uso
pubblico, cose sacre o religione o anche i fondi provinciali. In generale, si può
dire che sono escluse dall’usucapione tutte le cose fuori commercio
● titolo (titulus)→consiste nell’esistenza di un titolo o una giusta causa (iusta
causa) su cui si fondi l’acquisto del possesso. Questa può essere la
conclusione di una compravendita (pro emptore) o di una donazione (pro
donato), la presenza di un legato nel testamento (pro legato) o la costituzione
della dote (pro dote)
● buona fede (fides)→qui si tratta di quella soggettiva.
Il possessore della cosa deve credere di esserne divenuto proprietario,
ignorando che appartiene ad altri. Da ciò consegue che non si possano
usucapire né le cose rubate né quelle possedute con violenza. Il diritto
romano non richiede la buona fede per tutta la durata del possesso, bastando
che vi sia al momento iniziale del suo acquisto. Pertanto, se viene meno
successivamente, perché, ad esempio, il possessore apprende di avere una
cosa non propria e continua a possederla, la malafede che sopravviene non
impedisce l’usucapione
● possesso (possessio)→il requisito del possesso implica che ne ricorrano i suoi
elementi: il soggettivo, l’animus possidendi come intenzione del possessore
di tenere la cosa da proprietario, e l’oggettivo, dato dalla disponibilità
materiale della stessa e chiamato corpore possidere.
Non configura perciò un possesso la disponibilità che acquistano su una
cosa, ad es., il conduttore o il comodatario o l’usufruttuario, perché manca
loro l’elemento dell’animus. Se il possessore muore, il suo erede subentra nel
possesso, continuandolo senza interruzione e realizzando una successio
possessionis (successione nel possesso). Se invece il possessore trasmette
la cosa ad altri a titolo particolare (per vendita, donazione o legato), chi
l’acquista aggiunge il suo possesso a quello del precedente possessore,
verificandosi allora un’ accessio possessionis (aggiunta nel possesso). La
distinzione ha fini pratici, in quanto il neo - possessore a titolo particolare
deve essere in buona fede al momento dell’acquisto.
● tempo (tempus)→ ed infine il tempo per il quale si deve protrarre il possesso. Fino
all’età postclassica è molto breve, valendo ancora la norma contenuta nelle XII
Tavole: un anno per le cose mobili, due anni per le cose immobili. La ratio di
fondo, come è evidente, è di sanare le situazioni di incertezza sulla proprietà
delle cose in tempi rapidi. Solo con il IV secolo d.C. e poi le riforme di
Giustiniano cambieranno tali requisiti temporali
Dato che l’usucapione nasce come modo di acquisto della proprietà in uso
solo per i cittadini e si esclude per i fondi provinciali, sul finire del II secolo d.C.,
per questi viene introdotto il nuovo istituto della prescrizione di lungo tempo.
Quando il “proprietario” di un fondo provinciale avesse omesso di far valere il proprio
diritto nei confronti del possessore per giusta causa (e in buona fede), non avrebbe
potuto più farlo, qualora fossero trascorsi venti anni “tra assenti”, in quanto
proprietario e possessore risiedevano in località diverse, o dieci anni “tra presenti”,
perché dimoranti nella medesima località.
L’istituto operava sul piano processuale, valendo in via di eccezione contro la
pretesa processuale del proprietario. Il suo risultato, di conseguenza, era quello di
rendere il possesso stabile e definito, senza però trasformarlo in un diritto di
proprietà.
Usucapione e prescrizione di lungo tempo, almeno sul piano formale, operano
parallelamente ed in ambiti separati fino a Giustiniano. Tuttavia, alcune importanti
innovazioni sono introdotte da Costantino e Teodosio II.
Il primo crea ed affianca all’usucapione ed alla prescrizione di lungo tempo la figura
della “prescrizione di lunghissimo tempo”, mediante la quale il possessore da
quaranta anni di un poteva consolidare per sempre la propria situazione nei confronti
del proprietario, rimasto così a lungo inattivo.
Teodosio II, stabilendo che dopo 30 anni tutte le azioni si prescrivevano, riconosce
per la prima volta alla praescriptio longi temporis l’efficacia di far acquistare la
proprietà al possessore, se opposta al proprietario nel caso di sua inerzia per tale
periodo di tempo. Infine, la riforma di Giustiniano fonde i due istituti, dando vita ad un
regime alla base degli ordinamenti giuridici intermedi e moderni e spiegandoci anche
perché nel diritto civile di molti Paesi ancor oggi si preferisca parlare di “prescrizione
acquisitiva”, anziché di usucapione, come da noi.
Nella legislazione giustinianea, quest’ultimo termine è riservato alle sole cose mobili,
mentre per le cose immobili si adotta quello di prescrizione di lungo tempo. Entrambe
le figure determinano, quindi, l’acquisto della proprietà, ma con un diverso
decorso di tempo: tre anni, nel primo caso, e dieci anni tra presenti e venti anni tra
assenti, nel secondo. Per il resto, debbono sussistere gli altri requisiti sopra messi in
luce.
Si conferma infine la praescriptio longissimi temporis introdotta da Costantino, che
prescinde dalla giusta causa e dalla buona fede ed opera dopo trent’anni. La
disciplina giustinianea appena tracciata è sottesa storicamente a molte delle norme
vigenti contenute nel Codice civile italiano in tema di usucapione, a cominciare
dall’identità dei requisiti di possesso in buona fede e titolo.
Il nostro legislatore se ne è, però, in parte allontanato, quando ha introdotto la
distinzione tra usucapione ordinaria (in vent’anni) ed abbreviata (in dieci anni): la
prima valevole per tutti i beni, a prescindere da titolo e buona fede del possesso, la
seconda applicabile ai soli immobili ed universalità di mobili, ove ricorrano tali
requisiti, e quando ha previsto una specifica regolazione dell’acquisto in buona fede
dei beni mobili.
Altri modi di acquisto della proprietà
Facciamo qui riferimento alla confusione e commistione (confusio et commixtio),
all’aggiudicazione (adiudicatio) ed alla stima in denaro dell’oggetto della lite (litis aestimatio).
Tre modi di acquisto della proprietà anch’essi difficili da inquadrare nella bipartizione a titolo
originario/a titolo derivativo, tant’è vero che gli studiosi moderni non concordano sul punto. Il
terzo, inoltre, è legato a caratteristiche proprie del processo formulare, tramontando con la
fine di quest’ultimo durante il III secolo.
1. confusione→ si realizzava quando, per volontà dei proprietari o casualmente, due
materie dello stesso genere o di genere diverso si univano insieme, dando vita ad
una massa inscindibile che diveniva comune ai proprietari originari.
2. commistione→ si aveva solo quando volontariamente i proprietari individuali
mettevano insieme le proprie cose per renderle comuni, ma in questo caso il
complesso che così si formava era scindibile (si può separare).
3. aggiudicazione (adiudicatio)→ l’esito di quella clausola della formula dell’azione, chiamata
appunto adiudicatio, in cui il pretore attribuiva al giudice privato il potere di trasformare,
mediante la sua sentenza, una situazione di comproprietà in proprietà individuali.
4. stima in denaro all’oggetto della lite (litis aestimatio)→ deriva dalla condanna
necessariamente pecuniaria pronunciata in questo processo e dall’impossibilità di
costringere con la forza il convenuto condannato, possessore di una cosa, a
restituirla al proprietario.
Tale modo di acquisto consiste, pertanto, in una clausola, detta arbitraria o
restitutoria, contenuta nella parte della formula dove si investiva il giudice del potere
di condannare o assolvere il convenuto, per cui ove questi avesse dovuto restituire
una cosa e non volesse farlo, si fissava, con un giuramento dell’attore, un
ammontare in denaro della stessa, di solito superiore al suo effettivo valore, ma entro
un limite massimo: se il convenuto l’avesse pagato, ne sarebbe divenuto il
proprietario, subito per le res nec mancipi, decorso il tempo dell’usucapione per
quelle mancipi.
CONTENUTO E LIMITI DELLA PROPRIETA’. I RAPPORTI DI VICINANZA
Nelle fonti del diritto romano non è mai definito né il diritto di proprietà né il suo
contenuto, identificandosi l’uno e l’altro nella cosa oggetto di tale diritto. Le prime definizioni
cominciano a circolare in epoca medievale e fra di esse quella forse di maggior successo fa
consistere la proprietà nel “diritto di usare ed abusare della propria cosa”, riprendendo ed
integrando le parole con le quali il giurista Paolo definisce l’usufrutto.
Malgrado tale lacuna, dai dati giuridici delle fonti romane possiamo agevolmente desumere
quali siano i poteri riconosciuti al proprietario: di godere in modo pieno ed esclusivo della
cosa utilizzandola e traendone i frutti; di disporre di essa con atto inter vivos o mortis causa;
di abbandonarla o perfino distruggerla, salvo eventuali limiti. Inoltre, emerge come la
proprietà sia un diritto caratterizzato per la sua elasticità: può essere, infatti, compresso
fino ai minimi termini, come avviene nell’usufrutto, ma, una volta cessata la causa della
compressione, ritorna automaticamente nella sua pienezza.
Nonostante la sua ampiezza, il diritto del proprietario ha subito limitazioni fin dall’epoca più
antica del diritto romano. Come sempre, queste non hanno formato oggetto di un regime
generale, bensì si trovano sparpagliate qua e là nelle fonti. Non è un caso che non se ne
parli nei manuali istituzionali di Gaio e Giustiniano. Classificandole con occhi moderni, si può
dire che sono limitazioni dipendenti da motivi di pubblico interesse oppure – per la proprietà
fondiaria – dai rapporti di vicinanza con altri fondi. Alcune valgono sempre, altre solo in
determinati periodi storici.
→Limiti derivanti da motivi di pubblico interesse
quelli compresi in questo gruppo hanno carattere eterogeneo e sono uniti dalle finalità di
pubblico interesse che si intendono perseguire.
Già le XII Tavole vietavano la sepoltura o la cremazione dei morti nei fondi posti all’interno
delle mura della città. Alcuni senatoconsulti (Osidiano, Volusiano ed Aciliano), approvati tra il
I ed il II secolo d.C., vietavano la demolizione di edifici al fine di rivederne i materiali da
costruzione, per non rovinare il decoro architettonico delle città ed ingombrarle di rovine.
→Limiti derivanti dai rapporti di vicinanza tra fondi
questi limiti possono essere esaminati da due punti di vista.
Da un lato, infatti, essi costringono il proprietario di un fondo a limitare i suoi poteri
nell’interesse del fondo o dei fondi vicini; dall’altro, rappresentano anche degli strumenti di
difesa per il proprietario, il cui vicino non rispetti tali limiti. Quindi si tratta di rimedi che
possono essere presi in considerazione sotto il profilo sia della tutela della proprietà
fondiaria che dei rapporti di vicinanza.
Le XII Tavole imponevano il rispetto di uno spazio minimo di almeno 5 piedi (un metro e
mezzo circa) di distanza tra fondi tra fondi agricoli, chiamato “cammino di confine” e tra
edifici, detto invece “ambito” che non poteva essere né occupato né usucapito.
Tra i limiti si annoverano il:
- divieto di immissioni→proibisce al proprietario di un fondo di immettere qualcosa nel
fondo del vicino, a meno che non lo possa fare per l’esistenza di una servitù prediale
- divieto di atti di emulazione→ si afferma in modo definitivo solo in età giustinianea,
proibisce al proprietario di un fondo di fare qualcosa in esso al solo fine di nuocere ai
vicini. Oltre a questi rimedi ne possiamo ricordare altri quattro con finalità più
specifiche.
Oltre a questi rimedi ne possiamo ricordare altri quattro con finalità più specifiche:
1. è un’azione già conosciuta dalle XII Tavole e chiamata actio aquae pluviae arcendae,
il cui significato letterale è “azione per allontanare l’acqua piovana”; in origine essa
mirava ad impedire alterazioni del naturale scorrimento delle acque piovane tra fondi
vicini, realizzate dai proprietari mediante opere artificiali. Lo scopo di quest’azione
era perciò quello di costringere il proprietario che aveva compiuto il manufatto a
rimuoverlo, riportando i luoghi nello stato precedente per prevenire futuri danni; se
non lo avesse fatto, sarebbe stato tenuto al risarcimento dei danni verificatisi dopo
l’istituzione del processo. La sua particolarità è che si configurava come un’azione
in personam, in quanto, pur regolando i rapporti di vicinanza tra fondi e la difesa
della proprietà fondiaria di fronte ad attività svolte dal vicino, si fondava su un
rapporto obbligatorio, avente come oggetto quello di rimuovere la costruzione
artificiale d’ostacolo allo scorrimento naturale delle acque piovane e di riportare i
luoghi nel pristino stato. Questo rapporto si qualifica come obbligazione reale
(obligatio propter rem), dal momento che il suo adempimento gravava su tutti gli
eventuali nuovi proprietari del fondo, in cui il manufatto si era realizzato, sopportando
che l’attore lo eliminasse e ripristinasse i luoghi. È dunque un rapporto obbligatorio
con un elemento di realtà, poiché segue la cosa, collegandosi alla proprietà del
fondo sovrastante o sottostante. Il regime delle acque piovane, che si intende
disciplinare con tale azione, è frutto del diritto più antico, dove si rispecchiava la
morfologia dei luoghi dell’Italia centrale.
2. la cautio damni infecti, dove cautio significa “promessa” fatta assumere dal pretore e
damni infecti “di danno non ancora fatto”. Si tratta dunque di una “promessa di
risarcire un danno non ancora avvenuto”. Questa promessa doveva essere prestata
dal proprietario di un fondo dove si trovava un edificio, un albero o, più in generale,
un’altra cosa in condizioni tali da poter causare un danno al fondo del vicino ed ha ad
oggetto il risarcimento dei danni nel caso in cui di verifichino. Ad esempio, l’edificio o
l’albero sono pericolanti oppure una parte del fondo è in fase di smottamento e la
caduta dell’edificio o dell’albero o la frana possano arrecare un danno al fondo vicino.
Il pretore interveniva ad imporre la promessa su richiesta del proprietario che temeva
il danno o di chiunque ne avesse dovuto sopportare il rischio. Se era prestata,
quest’ultimo era sicuro del risarcimento. Qualora, invece, vi fosse stato un rifiuto a
prestarla, il pretore avrebbe concesso al richiedente l’immissione nel possesso del
fondo del renitente, grazie alla quale non solo si esercitava su di lui una pressione
non da poco, ma si potevano anche eventualmente adottare opportune misure di
sicurezza. Di fronte alla prolungata inerzia del proprietario che aveva subito
l’immissione, il vicino, divenuto possessore, avrebbe potuto chiedere una seconda
immissione, che, se concessa, rappresentava per lui una giusta causa di
usucapione.
3. la operis novi nuntiatio, conosciuto anch’esso dal nostro Codice civile con l’identico
nome di “denunzia di nuova opera”. Il suo campo di applicazione ricorreva, infatti,
allorchè il proprietario di un fondo stava realizzando su di esso una nuova
costruzione o manufatto oppure vi sottraeva qualcosa e, durante i lavori, il
proprietario di un fondo vicino gli intimava di non proseguirli, mediante una
dichiarazione formale e, forse, un gesto rituale. Le finalità per cui era fatta la
denunzia potevano essere quelle di tutelare il diritto di proibizione dell’opera, di
evitare un danno futuro o di tutelare gli interessi pubblici, ove il denunziato stesse
realizzando l’opera contro le norme urbanistiche o in luoghi sacri o religiosi o in fiumi
e rive pubbliche e non si volesse far uso degli appositi interdetti. Il denunziato (il
nuntiatus) non poteva ignorare l’intimazione, perché, se lo avesse fatto, continuando
l’opera, il denunziante (il nuntians) avrebbe potuto chiedere al pretore la
concessione di un apposito interdetto, chiamato dai giuristi intermedi interdictum
demolitorium (interdetto demolitorio), con il quale ottenere la demolizione di ciò che
si stava realizzando. Al denunziato si aprivano pertanto due possibilità. La prima era
di prestare davanti al pretore una promessa, chiamata “stipulazione sulla denunzia di
nuova opera”, di risarcire i danni, se, all’esito del procedimento attivato dal vicino,
fosse risultato che non aveva il diritto di realizzare l’opera. Il tal modo avrebbe potuto
continuarla e portarla a termine in attesa della definizione del procedimento sul suo
diritto di farla. La seconda possibilità implicava, invece, che il denunziato
domandasse al pretore di entrare subito nel merito, al fine di ottenere la remissione
della denunzia e completare l’opera.
4. è un interdetto creato dalla giurisdizione pretoria con un campo di applicazione molto
ampio e in parte sovrapposto a quello di altri mezzi a difesa della proprietà. Prendeva
il nome dalle prime parole della sua formula: interdetto che comincia con le parole
“poiché con violenza o clandestinamente” (interdictum quod vi aut clam)ed aveva
come oggetto le opere o attività che il suo destinatario stava realizzando con
violenza o di nascosto sul proprio fondo o su quello altrui. Si trattava di un rimedio
volto a risolvere questioni inerenti ai rapporti di vicinanza tra fondi, utilizzabile dal
proprietario che si riteneva danneggiato da opere o attività, compiute in modo
violento o clandestino, da un vicino o sul suo fondo o su un fondo altrui. L’opinione
più condivisibile è che questo interdetto abbia costituito un modo più rapido e dal
raggio d’azione più esteso per raggiungere gli stessi risultati delle azioni ora citate,
consistendo in un ordine diretto del pretore di far cessare l’esecuzione di tali opere o
attività pregiudizievoli per il fondo o i fondi vicini.

I MODI DI DIFESA DELLA PROPRIETA’


Esistono altri modi di difesa della proprietà, diversi a seconda del tipo di attacco.
Per quello più grave, consistente nell’essere stato privato del possesso, è prevista una
specifica azione chiamata rei vindicatio (azione di rivendicazione), che il proprietario
esercita contro il possessore per recuperare la propria cosa.
Nel tipo di processo più antico la rivendica si intentava mediante la legis actio sacramenti
in rem (azione della legge, fondata su un giuramento, per far valere un diritto di proprietà su
una cosa). Il suo svolgimento richiedeva un certo rituale: le due parti – chi dice di essere il
proprietario della cosa e chi ne ha il possesso – affermavano entrambe la proprietà sulla
cosa nel tribunale del magistrato pronunciando una determinata frase (dico che questa cosa
è mia in base al diritto dei quiriti), la afferravano e la toccavano con un’asticella
rappresentativa del potere, intrecciando poi le mani a simboleggiare l’originaria lotta armata
per il possesso di essa. Di fronte all’ordine rivolto dal magistrato ad entrambi di lasciare la
cosa, proprietario e possessore si sfidavano mediante il giuramento di pagare una certa
somma di denaro, nel caso in cui il proprio giuramento – e quindi indirettamente anche la
pretesa – fossero risultati non legittimi. In attesa della pronuncia del giudice, chiamato a
decidere su tale legittimità, la cosa si assegnava in possesso interinale ad una delle parti, di
solito a chi già la possedeva, il quale doveva offrire dei garanti per la restituzione al
proprietario della stessa e degli eventuali frutti, ove avesse perduto la lite. Nella sentenza il
giudice, esprimendosi sulla legittimità dei giuramenti, decideva anche sull’appartenenza
della cosa.
Nel processo formulare la rivendicazione ha una specifica formula chiamata formula
petitoria, dal latino petere nel senso di “chiedere in restituzione “, un’espressione ancor
oggi in uso. La sua introduzione è preceduta da quella di un’altra formula basata su una
“promessa pregiudiziale” (sponsio praeiudicialis), detta perciò agere in rem per
sponsionem, fatta prestare al convenuto ad avente ad oggetto una certa somma di denaro,
che lo stesso avrebbe dovuto corrispondere all’attore, se la pretesa di quest’ultimo si fosse
rivelata fondata. Il giudice decideva circa la proprietà della cosa indirettamente,
condannando o assolvendo il convenuto in ordine al pagamento della somma promessa
sulla base della fondatezza delle ragioni dell’attore. Questo secondo modo di agire, ricordato
ancora da Gaio, lascia però rapidamente il campo alla solo formula petitoria.
L’azione era esperita da chi affermava di essere proprietario della cosa, che era il solo a
dover provare il suo diritto; convenuto era il possessore della stessa e su di lui non
gravava alcuna incombenza probatoria della situazione di possesso. Gli vengono, però,
estesi gli stessi criteri applicati alla petizione di eredità: il possessore poteva essere di buona
o mala fede e a quest’ultimo si equiparavano anche le situazioni di chi avesse dolosamente
cessato di possedere e di chi si fosse offerto alla lite pur sapendo di non essere possessore,
con la conseguenza che in entrambe le ipotesi il convenuto, per quanto non effettivo
possessore, era condannato al pagamento di una somma equivalente al valore della cosa.
Con il passaggio dal processo formulare alla cognitio extra ordinem, il maggior
cambiamento in tema di rivendica è dato proprio dalla scomparsa del meccanismo della
clausola restitutoria o arbitraria e la sua sostituzione con la condanna in forma specifica, per
cui il possessore sconfitto in giudizio era costretto a restituire la cosa rivendicata al
proprietario, subendo, in caso contrario, l’esecuzione forzata, con eventuale impiego della
forza pubblica.
L’azione negatoria presupponeva l’affermazione, fatta da un terzo, di avere sulla cosa un
diritto di usufrutto o di servitù prediale. Il terzo non contestava il diritto di proprietà della cosa,
ma sosteneva di essere titolare di un diritto di godimento su di essa, per effetto del quale era
limitato il pieno esercizio delle facoltà di dominio. Ad esempio, avere su un fondo altrui una
servitù di passaggio oppure un usufrutto era fonte di gravi condizionamenti al diritto di
proprietà, privando il proprietario di una parte più o meno grande dei suoi poteri. Allora, se
questi avesse voluto opporsi all’affermazione del terzo, avrebbe dovuto ricorrere all’azione
negatoria per ottenere dal giudice la dichiarazione di libertà della cosa.
L’azione di regolamento dei confini vale solo per cose immobili, in particolare, i fondi rustici,
quando si tratta di delimitarne i confini. Si configura in due modi. Il primo riguarda una vera e
propria controversia relativa al confine fra due fondi, ad esempio, a chi appartenga una
porzione di terra. Questa è chiamata controversia de loco e l’azione di regolamento nei
confini, nel momento in cui determina l’appartenenza della porzione contesa, stabilisce
anche l’estensione del diritto di proprietà fondiaria. Il secondo modo riguarda una
controversia relativa al tracciato dei confini che manca o non si vede più. Si parla allora di
una controversia de fine, il cui scopo non è di sapere di chi sia una porzione di terreno, ma
di fissare o ripristinare la visibilità dei confini.

PERDITA’ DELLA PROPRIETA’


Facciamo qui riferimento a due fenomeni, quello in cui:
→il proprietario rinuncia volontariamente alla propria cosa
All’interno del primo rientrava l’abbandono intenzionale da parte del proprietario, per cui la
cosa abbandonata (res derelicta) diventava “cosa di nessuno” (res nulliùs), con la
conseguenza che chiunque se ne poteva impadronire acquistando la proprietà per
occupazione. Il problema di maggior rilievo era quello di provare l’effettiva volontà di
abbandono del proprietario: se ciò, a volte, riusciva facile soprattutto per le cose mobili, lo stesso
non avveniva per quelle immobili, per le quali le situazioni di incertezza si sarebbero potute sanare
solo con l’usucapione. Negli ordinamenti moderni è stata proprio la difficoltà di accertare l’intenzione
di rinuncia del proprietario che ha portato a dettare una disciplina piuttosto dettagliata per le cose
ritrovate (artt. 927 ss. c.c.it.).
→quello in cui è la pubblica autorità a privarlo del diritto di proprieta
La perdita della proprietà per intervento della pubblica autorità si verifica in vari casi.
Oltre a quello della sottrazione degli schiavi maltrattati e rifugiati presso le statue
dell’imperatore, ricordiamo la confisca dei beni, di solito applicata come pena accessoria ai
condannati per i crimini più gravi e l’espropriazione per pubblica utilità. In tutto l’arco del
diritto romano essa non si configura come un istituto autonomo ed unitario, ma se ne
trovano delle applicazioni particolari in materia di proprietà fondiaria. Una di queste, dove è
sicuramente attestata, era la costruzione di acquedotti nel periodo tra la fine della
Repubblica e l’età augustea: si parla allora di emptio ab invito (compra da chi non vuole),
una terminologia dalla quale possiamo desumere il suo inquadramento nel contratto di
compravendita ed il pagamento di un corrispettivo al proprietario costretto a vendere. Non
sempre, comunque, la pubblica autorità vi ricorreva: talora, infatti, preferiva la via
dell’acquisto volontario, con la conseguenza che, di fronte all’opposizione del proprietario,
rinunciava all’espropriazione.
Diversa appare invece la situazione in età postclassica e giustinianea, quando questo
istituto diviene di applicazione più comune: il caso più richiamato dalla legislazione imperiale
era quello dei fondi agricoli non coltivati (detti agri deserti), che venivano espropriati ai
proprietari inerti ed attribuiti a chi potesse farlo.

PROPRIETA’ PROVINCIALE E PROPRIETA’ PRETORIA. L’ACQUISTO A NON DOMINO


→Proprietà provinciale
Con l’espressione “proprietà provinciale” gli studiosi moderni si riferiscono al diritto dei
privati su fondi situati nelle province. Dopo il 27 a.C., le province furono divise tra quelle
lasciate al Popolo Romano ed amministrate dal senato attraverso “propri” governatori, le
province senatorie, e quelle attribuite a Cesare, cioè all’imperatore, denominate invece
province imperiali. Conseguentemente il proprietario formale del suolo era il Popolo
Romano o l’imperatore, ai quali andava pagata un’imposta da chi ne aveva il godimento, che
si denominava “stipendio” (stipendium) in quelle senatorie e “tributo” (tributum) in quelle
imperiali. Il titolare di un fondo provinciale non poteva perciò qualificarsi come proprietario ed
infatti la sua situazione è definita un “possesso ed usufrutto”; ma, ad eccezione del
pagamento dell’imposta, gli erano riconosciute tutte le altre facoltà che avevano i titolari
della proprietà “civile” o “quiritaria”, come il godimento del fondo, il potere di disposizione con
atto tra vivi o mortis causa ed i modi di difesa. La proprietà provinciale si fonde con quella
civile o quiritaria dopo la metà del III secolo d.C., quando viene definitivamente meno il
regime di esenzione fiscale dei fondi italici ed anch’essi sono assoggettati ad imposta.
→Proprietà pretoria
L’espressione “proprietà pretoria” è dovuta agli studiosi moderni, mentre le fonti romane, pur
contemplandola come un tipo di proprietà, preferiscono indicarla con i termini in bonis esse
o in bonis habère [essere nel patrimonio o avere nel patrimonio]. Si tratta in concreto di una
situazione di “possesso qualificato”, avente ad oggetto cose sia mobili che immobili, tutelata
dal pretore nell’ambito del diritto onorario. Le due ipotesi originarie alla base dell’intervento
pretorio si avevano quando un soggetto acquistava una cosa da chi non ne era il
proprietario oppure quando la cosa veniva trasmessa all’acquirente senza rispettare i
requisiti formali dell’atto di trasmissione. Nella prima ipotesi, l’acquirente non poteva
diventare proprietario, perché chi gli aveva trasmesso la cosa non era tale; nella seconda
ipotesi, l’acquirente non poteva diventare proprietario perché una res màncipi gli era stata
trasmessa con un atto di consegna, la traditio, anziché con una mancipatio, l’atto formale
appropriato per il trasferimento della sua proprietà.

In entrambe le ipotesi l’acquirente sarebbe diventato proprietario e titolare del dominium ex
iure Quiritium solo con il decorso del tempo dell’usucapione, ma fino a quel momento non
avrebbe potuto avvalersi dei mezzi di difesa della proprietà. Se Caio vendeva un suo
schiavo a Tizio ma glielo consegnava semplicemente in luogo di concludere una
mancipazione, ne conservava formalmente la proprietà ed avrebbe potuto rivendicarlo in
seguito come proprio anche nei confronti di Tizio. Per ovviare a situazioni come queste il
pretore ha introdotto nell’editto due strumenti specifici: un’azione ed una eccezione.
L’azione era chiamata “Azione Publiciana” (Actio Publiciana), in quanto il creatore sarebbe
stato un pretore chiamato Publicio, identificato con Q. Publicio, che aveva ricoperto la carica
nel 67 a.C. La sua funzione ed effetti erano gli stessi dell’azione di rivendica e per realizzarli
il pretore aveva escogitato uno strumento tecnico: quello di introdurre all’interno della
formula dell’azione una “finzione” (fictio), con la quale si considera il possessore che agisce
come già divenuto proprietario della cosa a seguito dell’usucapione. Se invece il possessore
in questa situazione doveva difendersi contro chi, rimasto formalmente proprietario per vizio
di forma dell’atto di trasmissione, avesse agito in rivendica contro di lui era predisposta
l’eccezione detta “della cosa venduta e consegnata”, grazie alla quale sarebbe stata respinta
la pretesa dell’attore.
La distinzione fra proprietà pretoria e proprietà civile o quiritaria tramonta in età postclassica,
nel IV secolo d.C., quando il diritto onorario confluisce in gran parte nel diritto civile e
decadono i più antichi negozi formali come la mancipazione.
Nel diritto antico e classico la breve durata del possesso ad usucapionem (due anni per gli
immobili, un anno per le cose mobili, comprese le eredità) sanava rapidamente la situazione
dell’acquirente di buona fede dotato di un titolo, derivante dall’aver ricevuto la cosa da chi
non ne era proprietario. Nel frattempo, la stabilità del possesso era garantita dai rimedi in
materia di proprietà pretoria. Nel diritto giustinianeo l’allungamento dei termini per usucapire
richiedeva più tempo all’acquirente a non domino, in buona fede e con titolo, per divenire
proprietario: dieci anni (fra presenti) o venti (fra assenti) per gli immobili, che scendevano a
tre anni per le cose mobili; intanto continuavano a valere per lui gli stessi rimedi di matrice
pretoria.

CENNI SULLE ORIGINI DELLA C.D. PROPRIETA’ INTELLETTUALE


Con il termine “proprietà intellettuale” intendiamo far qui riferimento a quello che negli
ordinamenti moderni si indica come diritto di autore (o copyright), con esclusione perciò di
tutto il campo delle invenzioni industriali e dei relativi brevetti.
I dati delle fonti, pur frammentari, permettono una prima conclusione sicura: manca una
normativa sul diritto d’autore e le poche notizie, che ne regolano certi aspetti, si ricavano
dall’analisi di istituti nati con finalità diverse.
Si delinea, invece, chiaramente la distinzione fra la paternità di un’opera e la sua
commercializzazione:
1. la prima non può essere ceduta ed è meritevole di una certa tutela→uno scrittore o un
artista, ad esempio, ha diritto di esserne riconosciuto come autore dell’opera di fronte a
pretese avanzate da altri o di lesioni arrecate a tale diritto.
Una forma indiretta di protezione della paternità di un’opera si realizzava mediante “l’azione
di atti ingiusti contro la persone”, esperibile anche tutte le volte in cui si arrecava,
intenzionalmente e senza una giustificazione, una lesione all’onore altrui. Di conseguenza,
ogni attacco o critica all’opera dell’ingegno, che potesse configurarsi come ingiuriosa nel
senso ora visto, avrebbe legittimato l’autore al suo esercizio.
Un riconoscimento indiretto della rilevanza della paternità di un’opera lo abbiamo visto in
materia di accessione, quando si trattava di stabilire chi fosse il proprietario di una tavola di
legno, su cui un altro soggetto – senza averne ovviamente ricevuto incarico – dipingeva un
quadro. Considerandosi come cosa principale il dipinto, la sua proprietà era attribuita al
pittore e non al proprietario del materiale, il quale avrebbe potuto solo pretendere il diritto al
rimborso del valore della tavola.
Più discussa è invece l’interpretazione degli studiosi moderni circa un altro caso di
accessione, nell’ottica moderna della protezione dei diritti di autore. Se un soggetto era il
proprietario di una pergamena o di un papiro ed un altro, con proprie lettere o proprio
inchiostro, vi avesse realizzato uno scritto, le fonti giuridiche offrono come soluzione univoca
che la proprietà dell’opera spettava al proprietario della materia e non al redattore dell’opera.
Di qui la conclusione che nel diritto romano non si configurava un’esigenza di
protezione del diritto di autore, emergendone i prodomi in certi casi (per i dipinti), ma
non per altri (per le opere letterarie).
A partire dai Glossatori, assistiamo ad una progressiva generalizzazione della soluzione
romana relativa alla tavola dipinta, che viene così a rappresentare il substrato storico della
disciplina moderna.
Sotto il profilo della commercializzazione, le principali informazioni ci provengono da fonti
non giuridiche. In esse sembra emergere una differenza di regime tra le opere letterarie e le
opere teatrali (commedie e tragedie). Per queste ultime si usavano due contratti: il primo era
una compravendita tra l’autore e l’impresario, con la quale il primo vendeva l’opera al
secondo per farla rappresentare. Le rappresentazioni avvenivano, di solito, in occasione di
feste e giochi solenni, organizzati, in età repubblicana, dagli edili e, nel Principato, dai
pretori. Il secondo contratto era una locazione tra magistrato ed impresario, in base al
quale, in cambio di un corrispettivo in denaro, quest’ultimo procedeva a mettere in scena
l’opera.

LA COMPROPRIETA’
Si parla di comproprietà o condominio quando più soggetti sono riconosciuti come proprietari
di una stessa cosa.
Il “condominio indiviso” si formava automaticamente sul patrimonio ereditato tra i sui
heredes alla morte del pater. Gaio precisa che in un’epoca successiva era stata ammessa
la costituzione di tale condominio anche fra estranei indipendentemente dal decesso
dell’avente potestà. Sua caratteristica peculiare era l’assenza dell’idea di quota, per cui
qualunque condomino si riteneva proprietario del tutto.
Dal tipo arcaico si passa, attraverso un procedimento storico, le cui tappe ci sfuggono, alla
nozione matura di comproprietà tutta incentrata sull’idea di quota intesa come una porzione
ideale sul bene indiviso spettante a ciascun condomino, di cui lo stesso poteva liberamente
disporre.
Per contro, qualora un condomino avesse voluto disporre per intero delle cose in
comunione, doveva ottenere il consenso degli altri, altrimenti ognuno avrebbe potuto
bloccare con il proprio veto (ius prohibendi) l’atto dispositivo.La comproprietà poteva essere
costituita volontariamente, o quando due persone acquistavano insieme un bene, oppure
incidentalmente, come nella coeredità o nel legato congiunto o nella confusione. La
situazione di condominio volontario risultava da uno o più atti traslativi posti in essere dai
condomini: mancipatio o in iure cessio per le res nec màncipi.
Per ogni situazione di comproprietà vale, inoltre, con riferimento alle quote, il “diritto di
accrescimento” per rinuncia volontaria di un condomino e la possibilità di rivendicare pro
parte il possesso della cosa comune, esercitando in misura corrispondente l’azione di
rivendica.

IV:I DIRITTI REALI MINORI DI GODIMENTO

L’USUFRUTTO E LE FIGURE AFFINI


La definizione dell’usufrutto si può ricavare da quella data dal giurista Paolo secondo cui
“l’usufrutto è il diritto di usare cose altrui e trarne i frutti, facendo salva la loro sostanza”.
Il termine “sostanza” allude qui alla struttura e destinazione economica della cosa. Tale
definizione è nella sua essenza ripresa anche dal vigente Codice civile italiano, quando
descrive il contenuto del diritto. Le origini dell’usufrutto sono da porre nell’ambito delle
successioni.
Della sua natura originaria l’usufrutto conserva una prima caratteristica: è un diritto statico e
non dinamico, volto alla conservazione delle cose che ne sono oggetto, perché non si
possono trasformare o modificare. Ad esempio, se Tizio dà in usufrutto un campo coltivato a
grano, l’usufruttario non può farne un uliveto o un pascolo per animali, ma lo deve lasciare
come un campo di grano. Si deve trattare, però, di cose fruttifere.
In tema di frutti percepiti, che diventavano di proprietà dell’usufruttuario, nella
giurisprudenza, fin dal II secolo a.C., era sorta la questione se il bambino nato da una
schiava data in usufrutto dovesse considerarsi “frutto”, spettando all’usufruttuario, in caso di
risposta affermativa, o al nudo proprietario, in caso di quella negativa. La soluzione prevalsa
era stata quella sostenuta da M. Giunio Bruto, secondo il quale il parto della schiava non
andava ritenuto un frutto perché un uomo non può considerarsi come tale, appartenendo
perciò al nudo proprietario della madre e non all’usufruttario. Le ragioni di tale soluzione
suscitano, come è immaginabile, una molteplicità di risposte da parte degli interpreti. Tra le
più plausibili appare quella legata al valore del giovane schiavo, che faceva propendere in
favore delle ragioni della proprietà rispetto a quelle dell’usufrutto.
La cosa oggetto di usufrutto doveva necessariamente essere suscettibile di un uso
ripetuto, il che aveva portato all’esclusione delle cose consumabili (come il denaro). Nel I
secolo d.C., tuttavia, un senato-consulto, di cui ignoriamo la paternità, aveva ammesso che
si potesse costituire l’usufrutto su un’eredità, anche se in essa era compreso del denaro o
altre cose consumabili. In tal caso, l’usufruttuario avrebbe potuto consumarle e, al termine
dell’usufrutto, avrebbe dovuto, previa prestazione di una stipulazione di garanzia, restituirne
l’equivalente (per il denaro) o il valore (per le altre cose consumabili). L’usufrutto di cose
consumabili fu qualificato come “quasi usufrutto”.
L’usufruttuario doveva esercitare i suoi poteri secondo il “giudizio di un uomo onesto”,
adottando cioè l’ordinaria diligenza di una persona di buon senso e facendo un utilizzo
adeguato delle cose senza abusarne. A tal fine, egli prestava una promessa di garanzia per
la loro restituzione e l’eventuale risarcimento dei danni, denominata cautio fructuaria.
Una seconda caratteristica dell’usufrutto era l’intrasmissibilità della sua titolarità nel
senso che all’usufruttuario non poteva subentrare un altro titolare del diritto. Quindi,
per esempio, la vedova, in favore della quale il testatore ha costituito un diritto di usufrutto,
era lei sola la titolare e non avrebbe potuto trasferirlo ad altri. Ciò non escludeva, però, che
l’esercizio del diritto di usufrutto fosse venduto o locato, come avviene anche oggi, in quanto
l’usufruttuario preferiva cederlo temporaneamente (con locazione) o per sempre (con
compravendita), in cambio di un corrispettivo in denaro; in tal caso, sarebbe stato il
conduttore o il compratore ad utilizzare la cosa e a trarne i frutti, senza modificarne struttura
e destinazione economica, ma, con il termine dell’usufrutto (per morte o scadenza), anche i
loro poteri sarebbero cessati. Naturalmente l’usufrutto non si poteva trasmettere nemmeno
in via ereditaria.
La terza caratteristica era data dal carattere temporaneo dell’usufrutto, la cui durata
massima coincideva con la vita dell’usufruttuario. Nulla vietava , tuttavia, di convenire
anche un termine più breve di durata, come cinque, dieci, quindici anni. La necessaria
temporaneità dipendeva dal contenuto di tale diritto, dal momento che la sua esistenza
limitava al massimo le facoltà del proprietario, per questo definito non a caso come “nudo
proprietario”.
In relazione alla temporaneità, i giuristi affrontavano anche il problema della durata
dell’usufrutto, quando l’usufruttuario fosse stato una colonia, un municipio, una città. Oggi
nel nostro ordinamento, il termine è sceso a trent’anni.
L’usufrutto si costituiva o mortis causa con un legato ad effetti reali oppure inter vivos con
in iure cessio. Accanto ad essi si poteva impiegare anche la “deduzione” dalla mancipatio
o dall’in iure cessio: con questi atti, infatti, il proprietario di una cosa avrebbe potuto
trasmettere ad altri la nuda proprietà della stessa, trattenendo per sé l’usufrutto.
Successivamente si aggiunge un altro modo di costituzione con un atto tra vivi di natura
contrattuale, denominato pactio et stipulatio. Ciò avviene dapprima per i fondi provinciali,
estendendosi nel IV secolo anche ai fondi italici e a tutte le altre cose mobili.
L’usufrutto si estingueva, oltre che con la morte dell’usufruttuario, anche con la
“consolidazione” (consolidatio), che si aveva quando nudo proprietario ed usufruttuario
coincidevano nella stessa persona, e con il “non uso”, ossia, per usare il linguaggio giuridico
moderno italiano, “per prescrizione”. Qui siamo in presenza di una prescrizione estintiva del
diritto, la cui durata è uguale a quella della prescrizione acquisitiva o usucapione. Infine,
l’usufrutto cessava per totale perimento della cosa.

L’usufrutto difendeva il proprio diritto erga omnes, con un’azione in rem chiamata nelle fonti
in due modi: “rivendica dell’usufrutto” o “azione confessoria”, in contrapposizione all’azione
negatoria con cui il proprietario nega l’esistenza dell’usufrutto. Sono affini all’usufrutto due
altre figure di diritti reali di godimento, le cui caratteristiche sono praticamente le stesse,
sopravvivendo ancora nel nostro Codice civile: l’uso (usus) e l’abitazione (habitatio). Le
differenze tra uso ed usufrutto erano essenzialmente tre.
→il titolare del diritto di uso (detto usuario) poteva solo utilizzare la cosa, ma non trarne i frutti, ad
eccezione di quelli per la necessità quotidiane
→non poteva cedere ad altri l’esercizio del diritto di uso; inoltre, mentre l’usufrutto, in presenza di
più usufruttuari, era divisibile in quote, l’uso si considerava indivisibile
→oggetto del diritto reale di abitazione era quello di abitare in una casa o edificio. Questo diritto
rappresenta una delle tante possibilità, accanto all’usufrutto o ad un contratto di locazione di cosa o di
comodato, che l’ordinamento giuridico offriva a chi intendeva permettere ad altri di vivere in una sua
abitazione.

LE SERVITU’ PREDIALI
Possiamo definire le servitù prediali volontarie come il diritto reale che ha il proprietario di
un fondo, detto fondo dominante, di sfruttare un’utilità che deriva a tale fondo da quello
di un altro proprietario, detto perciò fondo servente. Quindi, affinchè sussistesse una
servitù prediale, occorrevano come presupposti che i due fondi appartenessero a due
persone diverse, che vi fosse una utilità oggettiva del fondo dominante sul fondo servente,
ed infine che i due fondi fossero vicini, anche se non necessariamente confinanti.
In riferimento al primo presupposto, i giuristi romani hanno elaborato la massima: nemini (o
nulli) res sua servit, la cui traduzione non letterale è “nessuno può esercitare una servitù
su una cosa propria”. Essa, come è evidente, significa che una servitù prediale poteva
costituirsi solo tra fondi di proprietari diversi e conseguentemente, se, per qualunque motivo,
la proprietà del fondo dominante e del fondo servente si fossero cumulate nella stessa
persona, la servitù si sarebbe estinta.
Gli altri due presupposti sono collegati: l’utilità doveva essere oggettiva e riguardare i fondi,
non i loro proprietari. Proprio perché l’utilità dipendeva dallo stato dei luoghi, occorreva la
vicinanza dei due fondi. Inoltre, a causa della natura oggettiva dell’utilità tra fondi, non si
ammise che una servitù prediale potesse formare oggetto di usufrutto, in quanto tale diritto,
essendo legato alla persona dell’usufruttuario, si sarebbe estinto con la sua morte.
Le servitù prediali sono tipiche, nel senso che dovevano necessariamente corrispondere
ai tipi man mano previsti dall’ordinamento giuridico. Fin dall’epoca arcaica, all’interno di
essi, si distinguevano le servitù prediali rustiche, relative ai fondi situati in campagna, e le
servitù prediali urbane, concernenti gli edifici posti in città. I tipi più antichi di servitù prediali
rustiche sono le servitù di passaggio→le tre servitù di passaggio attribuivano al proprietario del fondo
dominante il diritto di passare nel fondo servente.
● via
● iter e actus
● servitù di acquedotto (aquaeductus).
Quando si costituiva l’iter, egli poteva passare a piedi o a cavallo nel fondo servente,
mentre, nel caso dell’actus (conduzione), poteva condurre il proprio bestiame o un carro
attraverso il fondo servente. La via, invece, era una servitù di passaggio comprensiva delle
altre due. Successivamente l’actus venne ad includere anche l’inter e ad identificarsi
progressivamente con la via. La servitù di acquedotto, per contro, serviva al proprietario del
fondo dominante per far passare nel fondo servente l’acqua che gli era utile, derivandola, ad
esempio, da un fiume pubblico.
Le servitù prediali rustiche più risalenti non erano concepite come diritti, bensì come cose
rientranti fra le res màncipi.
A queste più antiche si sono aggiunte, con il tempo, altri tipi di servitù rustiche, come quella
di attingere l’acqua dal fondo servente, di far pascolare i propri animali in esso o di poterne
estrarre la sabbia. Tra le servitù urbane, alcuni dei tipi più diffusi erano quella di stillicidio, di
non sopraelevazione, di non offuscamento delle luci del vicino, di parete comune e di
immissione di fumo.
Il fatto che le servitù prediali rispondessero al principio di tipicità non significa però che in
ciascun tipo non si potessero inserire elementi convenzionali: se Tizio, per esempio,
proprietario del fondo servente, avesse voluto concordare con Caio, proprietario del fondo
dominante, i giorni e le ore per far passare il suo gregge, si sarebbe inserita nello schema
della servitù una specifica clausola chiamata “modo” (modus), un termine che qui indica non
un “onere”, come nel testamento e nella donazione, bensì una “misura” nell’esercizio della
servitù. La sua funzione era importante in quanto clausola volta ad adattare il tipo alle
esigenze concrete dei proprietari dei fondi.
Le servitù prediali si distinguevano in:
1. servitù “positive”→quelle in cui il proprietario del fondo dominante aveva diritto di
compiere un’attività nel fondo servente ed il proprietario di quest’ultimo doveva tollerarla. Di
regola, tutte le servitù prediali rustiche erano positive.
2. servitù “negative”→si parla di servitù prediali negative, vuol dire che il proprietario del
fondo servente doveva astenersi dal compiere un’attività su di esso. Normalmente, erano le
servitù prediali urbane a presentarsi come negative, perché, ad esempio, il proprietario del
fondo servente non poteva chiudere le luci del fondo dominante.
La differenza tra servitù positive e negative veniva espressa dai giuristi medievali con
un’altra massima: servitus in faciendo consistere nequit, letteralmente “la servitù non può
consistere in un fare”. Tale affermazione è formulata dal punto di vista del proprietario del
fondo servente: egli, infatti, non avrebbe mai potuto essere costretto ad un’attività di fare, in
quanto doveva o tollerare quella del proprietario del fondo dominante (servitù positive) o
assumere un comportamento di astensione ( servitù negative).
Altra caratteristica era data dall’indivisibilità delle servitù prediali, racchiusa nella massima le
servitù non si possono dividere (servitutes dividi non possunt), per cui, nell’ipotesi di più
proprietari del fondo dominante o servente, non si sarebbero mai potute costituire servitù per
quote, ma solo per l’intero.
I modi di costituzione erano in gran parte gli stessi che abbiamo visto per l’usufrutto; in più
troviamo la mancipatio e l’usucapione fin tanto che le più antiche servitù rustiche sono state
annoverate tra le res màncipi.
Anche nei modi di estinzione delle servitù prediali si riscontrano analogie con l’usufrutto: si
estinguevano, infatti, per coincidenza tra i due proprietari (denominata “confusione”) e per
“non uso” (non usus, prescrizione). In riferimento a quest’ultimo, va rilevato che per le servitù
prediali negative, in quanto il loro esercizio non era apparente, il termine per calcolare il
periodo di non uso decorreva dal giorno in cui si fosse verificato un fatto impeditivo di tale
esercizio. Ad essi possiamo aggiungere la cessazione del rapporto di utilità oggettiva tra i
fondi dovuto a mutamento dei luoghi o altro, mentre la morte del proprietario del fondo
dominante o del servente non era causa di estinzione, subentrando gli eredi dal lato attivo o
passivo della servitù. La difesa, al pari di quella dell’usufrutto, si realizzava con un’azione in
rem, denominata “rivendica della servitù” o “azione confessoria”.

LA SUPERFICIE
Il punto di partenza per comprendere il diritto reale di superficie è il principio dell’accessione:
superficies solo cedit, per cui tutto ciò che si trovava sopra un suolo, e in modo particolare
una costruzione, apparteneva al proprietario del suolo.
Sul piano pratico si è posta l’esigenza di attribuire il godimento dell’edificio (la superficie)
ad una persona diversa dal proprietario del suolo.
Per soddisfarla, i primi strumenti sono probabilmente stati il contratto di locazione –
conduzione, in caso di cessione temporanea del godimento della costruzione, e di
compravendita, quando la cessione era perpetua, dietro pagamento di un corrispettivo in
denaro, periodico, nel primo caso, una volta per tutte, nel secondo. È chiaro che con questi
strumenti il superficiario, in quanto titolare del godimento della costruzione, era tutelato solo
nei confronti della controparte contrattuale - locatore o venditore – senza però beneficiare di
una protezione più ampia.
Questa si realizza grazie all’intervento del pretore, prima nei rapporti di carattere
amministrativo, quando i censori concedevano in perpetuo o per periodi molto lunghi il suolo
pubblico a privati perché questi o vi costruissero edifici dove esercitare le proprie attività
economiche o utilizzassero edifici già realizzati.
In entrambi i casi la proprietà degli edifici già realizzati era e restava pubblica, ma il pretore
tutelava il superficiario con un apposito interdetto, previsto nell’editto e chiamato “interdetto
per fruire di un luogo pubblico”. Attraverso tale rimedio chi avesse avuto in concessione dal
censore una porzione di suolo pubblico per realizzare un edificio oppure un edificio già
realizzato su di esso, avrebbe potuto far valere il proprio diritto di godimento nei confronti di
qualunque terzo (erga omnes).
Anche nei rapporti tra privati il pretore crea un interdetto dagli effetti analoghi. Si tratta
dell’interdetto relativo alle superfici, che chi godeva delle costruzioni sul suolo altrui (il
superficiario) avrebbe potuto richiedere contro chiunque turbasse l’esercizio del suo diritto.
Successivamente sempre il pretore rafforza la protezione del diritto di superficie
introducendo un’azione chiamata azione reale relativa alla superficie (actio in rem de
superficie), con cui si trasformava tale diritto in diritto reale. Infatti, il superficiario avrebbe
così potuto difendere o recuperare il godimento della costruzione contro chiunque glielo
avesse contestato o sottratto (erga omnes).
Il suo contenuto comprende il riconoscimento al superficiario di tutte le facoltà spettanti al
proprietario sull’edificio ricevuto in godimento: vendere il suo diritto a terzi, darlo in pegno,
costituirlo in usufrutto; in cambio doveva versare un canone annuo in denaro, detto “solario”
(solarium), da cui però il proprietario poteva esonerarlo al momento della costituzione della
superficie.
Oggi il vigente Codice civile italiano, nel titolo dedicato alla superficie, tratta in realtà un
istituto diverso da quello romano appena descritto, in quanto identifica il diritto di
superficie con la proprietà superficiaria: il suo titolare diventa, infatti, proprietario della
costruzione che realizzerà sul suolo o sottosuolo altrui oppure acquista la proprietà di una
“costruzione già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo”, mentre
nell’ordinamento romano, la superficie è diritto reale su cosa altrui, che non modifica affatto
sul piano giuridico il diritto di proprietà sulla costruzione, il quale resta in capo al proprietario
del suolo, secondo il principio dell’accessione.

LO IUS IN AGRO VECTIGALI E L’ENFITEUSI


Mentre il diritto reale di superficie si utilizzava normalmente in città con riguardo ai fondi
urbani, il diritto reale di enfiteusi è solo per i fondi rustici, in quanto implicava un obbligo
di coltivazione.
In precedenza, in ambito romano, esisteva un diritto in favore dei privati che avessero
ricevuto in concessione terre pubbliche coltivabili denominato diritto su un terreno (ius in
agro vectigali). Questo tipo di concessioni risaliva all’età repubblicana, quando erano fatte
dai censori sulle terre statali, mentre nel Principato riguardavano solo i terreni agricoli
appartenenti a colonie, municipi e città.
In origine, la loro durata era di cinque anni, in seguito si stabilirono termini più lunghi (fino a
cent’anni) o, a volte, anche un carattere perpetuo. Al concessionario erano attribuite tutte le
facoltà di godimento della terra e la possibilità di trasmettere il suo diritto con atto tra vivi o
per causa di morte, dietro corrispettivo di un canone periodico in denaro, detto appunto
“vettigale”. Questo diritto subisce un’evoluzione storica simile a quella della superficie.
Dapprima è tutelato da interdetti creati dal pretore; successivamente si eleva a diritto reale
attraverso la previsione nell’editto pretorio di una specifica azione in rem, denominata dalle
prime parole della sua formula si ager vectigalis petatur (se è richiesta la restituzione del
possesso di un terreno vettigale).
Nel corso del IV secolo d.C. si diffonde in tutte le regioni dell’Impero, partendo dalle province
orientali, un sistema di concessioni, in primo luogo, di terre pubbliche e della Chiesa, in
seguito anche private, di durata molto lunga o perpetue, dove il concessionario acquistava
un diritto qualificato come diritto perpetuo ( ius perpetuum) o diritto enfiteutico (ius
emphyteuticum), ma aveva l’obbligo di coltivarle e di pagare un canone. Da un punto di vista
giuridico, si dubitava se inquadrare tali concessioni nello schema della locazione o della
compravendita. Il diritto reale di enfiteusi si costituiva, quindi, mediante contratto, in cui il
proprietario della terra prendeva il nome di concedente ed il concessionario, in cui il
concessionario di enfiteuta.
Il regime dell’enfiteusi viene regolato in modo più completo nel diritto giustinianeo. Due gli
obblighi fondamentali imposti all’enfiteuta verso il concedente: il pagamento del canone
annuo e la coltivazione della terra per tutta la durata dell’enfiteusi, di solito molto estesa,
anche se non si prevedeva esplicitamente un termine minimo. La loro inosservanza (nel
caso del canone, il mancato pagamento per 3 anni) determinava l’estinzione del diritto.
L’enfiteuta diveniva, però, titolare di un diritto reale di godimento, che avrebbe potuto far
valere erga omnes, trasmettere per successione ereditaria e cedere agli altri con atto inter
vivos, ad esempio, con una compravendita. In tal caso, egli doveva comunicarlo al
concedente, affinchè questi volendolo, potesse esercitare il diritto di prelazione ed essere
preferito nell’acquisto, ponendo così fine all’enfiteusi per riunione con il dominio. Nell’ipotesi
di mancata comunicazione, il diritto dell’enfiteuta si estingueva.
Se il conducente non era, invece, interessato ad esercitare la prelazione nei due mesi
successivi, l’enfiteuta avrebbe dovuto pagargli una percentuale pari al 2% del prezzo,
chiamata “laudemio” (laudemium).
L’enfiteusi gode, inoltre, di molta fortuna nel diritto intermedio ed è alla base della scissione
della nozione di dominio: il diritto dell’enfiteuta è definito come “dominio utile” mentre quello
del proprietario come “dominio diretto”, una bipartizione fondata sul tipo di azione in rem
usata per far valere il proprio diritto, in via utile nel primo caso, in via diretta nel secondo.

V: IL POSSESSO
NOZIONI E CARATTERI
Facciamo ora riferimento alla nozione di possesso, che si viene configurando alla fine del
periodo arcaico e giunge fino alla Compilazione di Giustiniano, trasmettendosi da lì alla
tradizione giuridica successiva.
Anche il possesso non è sorto come una categoria unitaria, ma si sono qualificate come tali
una serie di situazioni diverse, il cui elemento comune era l’esercizio di fatto di un potere su
qualcosa (possesso rei).
Escludendo quello delle terre pubbliche, legato al più antico assetto fondiario e trasformatosi
in proprietà privata nel corso del I secolo a.C., per le altre situazioni si sono individuati i due
elementi caratterizzanti del possesso, che hanno permesso la costruzione di una sua
nozione generale: la disponibilità materiale di una cosa sulla quale esercitare il potere
e la volontà di tenere quella cosa come propria. Tutte le volte in cui mancava questo
secondo elemento, la disponibilità materiale della cosa non dava luogo a possesso, ma a
mera detenzione. Infatti, chiunque avesse potuto esercitare un diritto su di una cosa, in base
ad un titolo per cui sapeva che apparteneva ad altri, non si sarebbe trovato nella situazione
di possessore, ma di detentore della stessa.
La detenzione non si poteva trasformare in possesso con il solo mutamento di volontà
del detentore, ma era necessario l’intervento di un’altra persona come si sottolinea
nella massima: nessuno può mutare per se stesso la causa del possesso. Ad esempio,
l’usufruttuario di un fondo non poteva decidere ad un certo momento di diventarne il
possessore perché aveva l’intenzione di tenerlo come proprio, ma affinchè ciò avvenisse,
occorreva un atto del nudo proprietario che glielo vendeva o donava.
Vi erano però delle situazioni teoricamente inquadrabili nella detenzione per mancanza
dell’animus possidendi, che l’ordinamento romano qualifica come possesso, al fine di
permettere al detentore una più forte protezione mediante gli interdetti possessori. Le fonti
parlano in tali casi di possessio ad interdicta. I più importanti erano quelli del creditore
pignoratizio, del sequestratario e del precarista.
La condizione del precarista derivava da un istituto molto antico, il precarium, risalente ai
rapporti tra gruppi gentilizi e clienti, in base al quale il proprietario (qui chiamato precario
dans) concedeva il godimento di un fondo gratuitamente al precarista (il precario
accipiens), che avrebbe però dovuto restituirglielo a semplice richiesta. Ed è proprio
l’instabilità della situazione di quest’ultimo a giustificare il nome dell’istituto. Il precarista, pur
disponendo degli interdetti possessori per tutelare il proprio godimento, non li poteva però
far valere contro il concedente, il quale aveva facoltà di recuperare in ogni momento il fondo
con un apposito interdetto o addirittura in via di autotutela.
Nella visione della giurisprudenza romana, inoltre, l’elemento del corpore possidere si
considerava presente anche quando il possesso di una cosa non fosse stato continuativo,
purchè la stessa non venisse occupata da altri, come era per i pascoli stagionali invernali o
estivi; allo stesso modo si riteneva sussistere tale persona alieni iuris, o anche in capo al
pupillo o all’infermo di mente, quando possedesse il suo tutore o curatore. Va ricordato
inoltre che il possessore di buona fede acquistava la proprietà dei frutti percepiti e consumati
prima dell’istituzione della lite di petizione di eredità o di rivendicazione della proprietà.
Oltre alla possessio rei, dove il possessore esercitava di fatto un diritto corrispondente
sostanzialmente a quello di proprietà, i giuristi parlano anche di quasi possesso in
riferimento all’esercizio del diritto di usufrutto o di una servitù prediale, con possibilità di far
uso di interdetti analoghi a quelli possessori. Ed è proprio sulla base di questi precedenti che
nel diritto giustinianeo si sono gettate le fondamenta per la costruzione anche della categoria
del “possesso di un diritto” in rapporto ai diritti reali.

MODI DI DIFESA DEL POSSESSO


Al di fuori delle situazioni di possesso ad usucapionem, la cui tutela era maggiormente
garantita grazie ai rimedi stabili nell’editto per la “proprietà pretoria”, fin dal possesso arcaico
delle terre pubbliche i modi normali di difenderlo consistono in interdetti. Il loro vantaggio
rispetto alle azioni era di essere degli strumenti, che portavano ad una soluzione più
abbreviata delle controversie, perché attraverso di essi il pretore, su richiesta
dell’interessato, rivolgeva un ordine al destinatario, che, se ottemperato, evitava di ricorrere
ad processo ordinario.
Conosciamo tre categorie di interdetti possessori: per l’acquisto del possesso (interdicta
adipiscendae possessionis), per la manutenzione del possesso (interdicta retinendae
possessionis) e per il recupero del possesso (interdicta recuperandae possessionis).
Gli interdetti della prima categoria non si applicavano alla difesa del possesso, ma
servivano per ottenerlo.
Nella seconda categoria rientravano gli interdetti con i quali il possessore si opponeva a chi
gli avesse creato molestie o turbative nell’esercizio del possesso, anche se si fosse trattato
del proprietario della cosa posseduta. Questi interdetti erano proibitori, in quanto vietavano
una condotta, ed avevano un nome ed una formula diversi, a seconda che il possesso
avesse avuto ad oggetto cose immobili o mobili. Nel primo caso (cose immobili), si parlava
di interdetto che comincia con le parole “come possedete” (interdictum uti possidetis),
diretto a difendere la situazione dell’attuale possessore, il cui possesso non risultasse
illegittimo (iniustum); per le cose mobili, si prevedeva, invece, l’interdetto chiamato
interdetto che comincia con le parole “da una parte e dall’altra” (interdictum utrùbi), le
cui finalità erano di dar tutela a chi avesse posseduto la cosa, nei confronti della controparte,
per più tempo durante l’ultimo anno. Se però la sua situazione possessoria fosse stata
illegittima, in quanto “viziata” perché ottenuta con violenza (vi) o clandestinamente (clam) o a
titolo di precario (precario), la protezione sarebbe venuta meno: infatti il possessore sarebbe
stato tutelato dalle turbative solo se avesse posseduto “senza vizi”. I due interdetti,
nonostante assolvessero principalmente finalità conservatorie del possesso, permettevano,
in via indiretta, anche il suo recupero nei confronti del possessore illegittimo (per gli
immobili) o del possessore per un tempo minore (per le cose mobili). Essi furono unificati nel
diritto giustinianeo e rappresentano la radice storica dell’odierna “azione di manutenzione
del possesso”.
Infine la terza categoria racchiude gli interdetti finalizzati esclusivamente a far recuperare il
possesso sottratto da altri. Valevano solo per gli immobili ed avevano carattere restitutorio
perché volti a ripristinare la situazione di possesso. Erano anch’essi due e la loro differenza
si incentrava sul fatto che la sua sottrazione fosse avvenuta con violenza (vi) o con la forza
delle armi (vi armata). Se l’attuale possessore ne era stato spogliato in modo violento, ma
senza armi, lo poteva recuperare contro chi glielo aveva tolto mediante l’interdetto chiamato
interdetto che comincia con le parole “poiché con violenza” (interdictum unde vi), da
richiedere entro un anno dallo spoglio subito. È importante rilevare che, grazie alla
previsione di questo interdetto , il possessore, ancorchè di mala fede, non avrebbe potuto
essere privato del possesso con metodi illegali, fosse anche dal proprietario della cosa,
perché la via che quest’ultimo doveva seguire era quella dell’esercizio dell’azione di
rivendicazione. Qualora invece la privazione del possesso fosse stata effettuata mediante
l’intervento di uomini armati, era contemplato l’interdetto denominato interdetto sulla forza
armata (interdictum de vi armata) con cui il possessore otteneva sempre di recuperarlo,
anche quando il suo acquisto fosse stato violento, occulto o a titolo di precario.
Nel diritto giustinianeo anche questi due interdetti sono fusi ed al possessore, che fosse
stato spogliato del possesso in modo violento o occulto era sempre concessa la reintegra.

CAPITOLO VI: LE OBBLIGAZIONI

I: NOZIONE E FONTI DELLE OBBLIGAZIONI

I PIU’ ANTICHI RAPPORTI OBBLIGATORI


Anche il settore delle obbligazioni ha in origine uno stretto legame con la famiglia, che in
parte si riflette ancora nelle XII Tavole, nel caso sia di fatti illeciti che di atti negoziali
mettendo in luce le due grandi categorie di fonti delle obbligazioni: l’illecito privato e l’atto
negoziale.
Il collegamento con i fatti illeciti risale all’epoca in cui la società era organizzata per gruppi
gentilizi, nel caso in cui il componente un gruppo commettesse un delitto nei confronti del
componente di un altro gruppo: l’esito poteva essere o una guerra oppure la consegna
dell’autore del delitto al gruppo a cui apparteneva la persona offesa, che si vendicava su di
lui, evitando però lo scontro armato. Quando in seguito la società si à trasformata,
fondandosi sulle famiglie incentrate sulla figura del pater, è restata ancora traccia di questo
regime della vendetta in una norma delle XII Tavole, dove si prevedeva l’applicazione della
legge del taglione: in essa si diceva, infatti, che se qualcuno avesse occasionato una
lesione permanente ad un altro, avrebbe subito il taglione (talio esto), a meno che non
pattuisse con lui il pagamento di una pena in denaro à Quest’ultimo inciso è
importantissimo, perché significa che si stava in un momento di transazione del sistema
arcaico della vendetta a quello più moderno, in cui l’autore della lesione era solo obbligato al
pagamento di una somma di denaro a titolo di pena privata. Si trattava, dunque, di una
prima forma di vincolo obbligatorio in dipendenza dalla commissione di un fatto
illecito.
Un’altra figura originaria di obbligazione collegata alla famiglia e derivante da un atto
negoziale la conosciamo già perché discende dal nexum, quell’atto concluso, attraverso una
mancipazione, mediante il quale il debitore di una somma di denaro o di una quantità di
derrate si sottoponeva con la sua persona al potere del creditore e restava in una posizione
di soggezione personale.
In entrambi i casi esposti l’obbligazione consiste in un vincolo materiale sulla persona
del debitore: nella lesione fisica permanente egli ne risponde in base al taglione, nel
nexum (corrispondente nella sostanza ad un prestito di derrate o di denaro) si assoggetta al
creditore fino al pagamento. Quindi, il concetto di obbligazione nasce come un legame
materiale.
Sempre nelle XII Tavole, si fa cenno ad un terzo tipo di rapporti obbligatori arcaici, relativi
alle più antiche figure di garanti:
● praedes (praes, al singolare)→ garantissero che la parte soccombente con il
possesso della cosa controversa, assegnata nel caso del pretore, la restituisse. I
praedes garantivano che, durante una lite avente ad oggetto la proprietà di una
cosa, il possessore interinale, al quale la cosa stessa era stata assegnata dal
magistrato, la consegnasse a chi, all’esito del processo, ne sarebbe stato dichiarato
proprietario. Era dunque tale possessore a dover offrire i garanti, i quali, oltre alla
restituzione della cosa contesa, avrebbero dovuto assicurare anche quella dei frutti,
nel caso in cui si fosse trattato di una cosa fruttifera. Poiché la lite di proprietà si
incentrava sul giuramento di pagare una somma di denaro all’erario (la summa
sacramenti), qualora le proprie pretese si fossero rivelate infondate, entrambe le parti
processuali dovevano presentare dei garanti per il pagamento di tale somma
nell’ipotesi di soccombenza denominati prandes sacramenti.
● vades (vas, al singolare)→ i vades avevano, invece, la funzione di garantire la
presenza del convenuto (la persona contro la quale era intentata un’azione) davanti
al tribunale del magistrato nel giorno ed ora stabiliti per il processo.
Operanti tutte e due in ambito processuale, a dimostrazione dell’esistenza già dell’idea che
un soggetto poteva obbligarsi non solo per un debito proprio, come avveniva nel nexum ma
anche per un comportamento che doveva essere tenuto da altri. Anche per queste due
figure di obbligati l’opinione più probabile è che essi rispondessero con la propria persona,
se il garantito non avesse tenuto il comportamento dovuto.
Occorre però dire che, accanto ai tipi di rapporti obbligatori appena descritti, le stesse XII
Tavole ne conoscevano anche altri, dove il vincolo non era più materiale, bensì
giuridico à l’obbligazione imponeva al debitore una certa condotta, ma non la soggezione
della sua persona per ottenerla. È il caso di una delle figure più antiche di contratto, la
sponsio, da cui sorgeva per il debitore promittente un’obbligazione di dare, dare o non fare
verso il creditore.

LA NOZIONE EVOLUTIVA DI OBBLIGAZIONE. SOGGETTO ED OGGETTO.


L’elemento di novità rappresentato dal rapporto obbligatorio nascente dalla sponsio è alla
base dell’elaborazione del concetto “maturo” di obbligazione, destinato a valere per tutta la
durata successiva dell’esperienza giuridica romana. La sua formulazione è magistralmente
racchiusa nella definizione di obbligazione presente nelle Istituzioni di Giustiniano, ripresa,
con notevole probabilità, da un giurista anteriore, dove si riflette il suo carattere di vincolo
giuridico. In essa si dice: “L’obbligazione è un vincolo giuridico, dal quale siamo
necessariamente legati, per adempiere qualcosa secondo i diritti della nostra città”.
Da tale definizione possiamo trarre alcuni elementi generali dei rapporti obbligatori. La prima
parte evidenzia che i suoi soggetti sono determinanti: da un lato, il debitore o i debitori, i
quali devono tenere un certo comportamento; dall’altro, il creditore o i creditori
(creditor/creditores), i quali hanno il diritto di esigere tale comportamento. (ciò spiega perché
i diritti di credito nella dogmatica moderna si facciano rientrare tra i diritti soggettivi relativi),
la pretesa del creditore, infatti, non vale verso tutti i consociati ma solo nei confronti di quella
o quelle persone che a lui si sono obbligate.
Nel secondo lemma si sottolinea che il vincolo giuridico, in cui si traduce l’obbligazione,
impone al debitore di adempiere a qualcosa. Dalle Istituzioni di Gaio apprendiamo che si
distinguevano obbligazioni di dare, facere o non facere e praestare, il cui significato, da un
punto di vista tecnico – giuridico non corrispondeva a quello della lingua comune.
1. dare→comportava la trasmissione della proprietà di qualcosa, per cui il debitore
avrebbe dovuto compierne la consegna al creditore con effetti traslativi. Perciò,
espressioni come dare pecuniam, dare sevum o dare fundum obbligavano il
debitore a rendere il creditore proprietario del denaro, del servo o del fondo, per non
essere inadempiente.
2. facere→faceva riferimento a condotte consistenti nel realizzare qualcosa o
nell’astenersene o anche nel consegnare una cosa, senza però trasferirne la
proprietà, come nella locazione.
3. più lungo è il discorso relativo all’obbligazione di praestare→dal momento che questo
verbo aveva una pluralità di accezioni. Quella originaria era “star garante per “,
“assicurare” una prestazione contrattualmente dovuta da parte del debitore, con
contestuale sua assunzione del rischio dell’inadempimento. Diversa è invece
l’accezione di praestare in locuzioni come praestare actionem o praestare
actiones con cui si indicava, in via generale, la trasmissione di un diritto e del
relativo potere di azione da un soggetto ad un altro. Riferito più specificamente
all’oggetto di un’obbligazione, vuol dire che il debitore era obbligato a trasmettere le
azioni al creditore, trasferendogli anche i suoi diritti verso i terzi. Ciò avviene, ad
esempio, nel caso in cui il creditore voglia recuperare da altre cose depositate o date
in comodato dal debitore, che possano servire all’adempimento.
Il sintagma al fine di adempiere qualcosa (alicuius solvendae re gratia) della definizione
giustinianea introduce anche due ulteriori aspetti relativi al contenuto di un rapporto
obbligatorio. Il primo è la sua patrimonialità. Infatti, la prestazione doveva essere sempre
suscettibile di valutazione patrimoniale. Non bisogna confondere il termine obbligo e
obbligazione, l’obbligazione nasce da specifiche cause ed ha contenuto patrimoniale, a
differenza di un obbligo che allude ad un dovere di comportamento, che può anche non
essere patrimoniale.L’altro aspetto connesso al contenuto di un’obbligazione è l’interesse
del creditore al suo adempimento; questo in origine comportava che dovesse
necessariamente avvenire nei confronti del creditore, escludendosi così la possibilità di
effettuarlo verso soggetti diversi à Detta rigidità si attenua, a partire dalla metà del II secolo
d.C., quando grazie al meccanismo della stipulazione di una penale in denaro, si ammette
che la prestazione possa eseguirsi nei confronti di un terzo.
Malgrado normalmente l’interesse del creditore sia di carattere patrimoniale, tuttavia anche
nel diritto romano, abbiamo alcuni casi in cui si dà rilevanza ad interessi non
patrimoniali. Ciò accadeva sempre mediante lo strumento di una penale in denaro, che il
debitore avrebbe dovuto pagare, qualora non avesse tenuto la condotta corrispondente
all’interesse non patrimoniale del creditore. La penale formava oggetto di una stipulazione,
in cui non era rilevante l’interesse sottostante alla promessa del debitore, oppure di una
semplice clausola inserita all’interno di un contratto di buona fede. (degli esempi si hanno quando
il venditore di una schiava si faceva promettere dall’acquirente il pagamento di una somma, nel caso in cui
l’avesse manomessa o fatta prostituire)
Infine, il lemma conclusivo della definizione “secondo i diritti della nostra città” evidenzia,
come al solito la duplicità di ordinamenti (o piani ordinamentali) che caratterizzava anche il
settore delle obbligazioni. Infatti, alcune erano nate nell’ambito del ius civile e prendevano il
nome di oblitiones, altre erano un prodotto del ius honorarium e venivano designate con
la circonlocuzione actione tenéri. Dal punto di vista sostanziale, non c’era differenza e la
diversa denominazione serviva soltanto per sottolinearne la differente origine.

FONTI DELLE OBBLIGAZIONI


Il testo più antico nel diritto romano ad esporre le fonti delle obbligazioni sono le
Istituzioni di Gaio. Secondo questo testo, ogni obbligazione nasceva o da contratto o da
delitto. La classificazione era, però, percepita come insufficiente dal giurista, il quale, poco
dopo averla enunciata, ne sottolineava i limiti in riferimento ad un atto che non riusciva a
collocare in nessuna di queste due categorie. Si tratta del pagamento di indebito, che era sì
fonte di obbligazioni, ma diversa dal contratto, in quanto si configurava allorchè un soggetto,
credendo erroneamente di essere debitore, adempieva verso un altro, a sua volta, convinto
altrettanto erroneamente di essere il creditore. L’errore sull’esistenza del rapporto
obbligatorio doveva perciò essere comune ad entrambe le parti, altrimenti chi si riteneva
debitore avrebbe compiuto una donazione ed il preteso creditore un furto. Da questa figura
sorgeva, di conseguenza, l’obbligazione per quest’ultimo di restituire quanto ricevuto; se non
lo avesse fatto, la parte adempiente avrebbe potuto agire a tal fine nei suoi confronti con
un’azione di ripetizione chiamata condictio indebiti.
Gaio era perfettamente consapevole che il pagamento di indebito non era inquadrabile né
tra i fatti illeciti né tra i contratti, perché chi aveva dato una somma o una cosa non dovuta
non aveva nessuna intenzione di concludere un contatto, bensì di sciogliere un vincolo
obbligatorio. Tuttavia, da questa sua constatazione non fa discendere l’ovvia conseguenza
dell’esistenza di una terza categoria di fonti di obbligazione diversa dal contratto e dal delitto.
Al contrario, per semplificare la sua esposizione a fini didattici, finisce con il trattare
l’obbligazione sorta dal pagamento di indebito come quella derivante dal mutuo.
In seguito Gaio sul punto avrebbe modificato la propria posizione in una successiva versione
del suo manuale istituzionale, conosciuta con il nome di Res cottidianae o Aurea (Cose
quotidiane o Regole d’oro). Qui in tema di fonti delle obbligazioni, effettua una tripartizione,
secondo cui le obbligazioni nascenti da contratto o da delitto o da varie figure di cause.
Questa terza categoria non era però omogenea ma rappresentava un contenitore generale
in cui erano compresi tanto alcuni atti leciti non contrattuali, come pagamento di indebito e
gestione di affari altrui, quanto una serie di figure di illeciti di derivazione pretoria, come ciò
che è stata versato o gettato (l’effusum vel deiectum), consistente nel far cadere dei liquidi
o degli oggetti solidi da case e danneggiare persone o cose che passano sotto, ed il furto o
danneggiamento commesso su una nave o in un albergo.
Oltre a Gaio, anche altri giuristi dovevano aver elaborato proprie classificazioni delle fonti
delle obbligazioni. Un esempio ci è dato da quella di Erennio Modestino dove si dice che le
obbligazioni potevano sorgere da un contratto reale (re, dalla consegna di una cosa), da un
contratto che sia insieme reale e verbale (re et verbis, dalla consegna di una cosa e
dall’uso di certe parole), da un contratto verbale (verbis, dall’uso di certe parole), da un
contratto consensuale (consensu, dal mero consenso), da un comportamento necessario
(necessitate) o illecito (ex peccato), oppure dalla legge (ex lege) o dal diritto onorario
(iure honorario).
Tuttavia, quando i compilatori di Giustiniano si trovano a doverne scegliere uno, preferiscono
quello delle Res cottidianae di Gaio, ma perfezionato elaborando una classificazione,
esposta nelle Istituzioni, che ha avuto un grandissimo successo fino alle codificazioni, che
ha avuto un grandissimo successo fino alle codificazioni moderne del XIX secolo, come
possiamo vedere dalla sua adozione da parte del Codice civile francese e del Codice civile
italiano del 1965. In base ad essa le obbligazioni nascenti da contratto (ex contractu) o da
quasi contratto (quasi ex contractu), da delitto (ex maleficio) o da quasi delitto (quasi ex
maleficio).
Si tratta di una quadripartizione che utilizzava le due macro categorie originarie (contratto e
fatto illecito) e suddivideva quella eterogenea delle varie figure di cause nelle due categorie
dei quasi contratti e quasi delitti. La differenza tra contratti e quasi contratti è abbastanza
semplice, perché questi ultimi raccolgono tutti gli atti leciti privi di natura contrattuale in
quanto manca il consenso tra le parti. La differenza tra delitti e quasi delitti non dipende,
invece, dalla diversità della loro natura (sono entrambi fatti illeciti), bensì dall’origine: le
Istituzioni di Giustiniano ci suggeriscono che i compilatori intendevano per delitti certi fatti
illeciti previsti dal ius civile: furtum (furto), rapina, iniuria (atto ingiusto contro una persona) e
damnum iniuria datum (danno ingiusto); mentre tra i quasi delitti si indicavano illeciti
introdotti dal pretore.

II:I CONTRATTI E GLI ATTI LECITI NON CONTRATTUALI (QUASI CONTRATTI)

LA NOZIONE DI CONTRATTO
La prima categoria di fonti delle obbligazioni è il contratto. Il termine contratto (contractus)
probabilmente entra nell’uso dapprima come forma verbale e poi come sostantivo.
Un altro elemento da sottolineare è l’anteriorità di singole figure contrattuali rispetto alla
nozione generale, dovuta al fatto che essa si è giunti per astrazione da esse.
Il tentativo più risalente di definire che cosa fosse un contratto si ha verso la fine del I secolo
a.C., nell’età di Augusto, quando il giurista Antistio Labeone ci ha offerto una prima
spiegazione di “ciò che si è contratto” partendo dalla forma verbale. Secondo il suo parere,
il contratto era un’obbligazione a carico dell’una o dell’altra parte, mettendo così in luce
come requisito essenziale la generazione di obbligazioni corrispettive, in quanto
collegate funzionalmente. Si tratta di una definizione di contratto più limitata, perché, se un
atto non avesse fatto nascere obbligazioni corrispettive, non avrebbe avuto natura
contrattuale. Coerentemente il giurista non pone fra i contratti, ma solo negli atti giuridici il
mutuo e la stipulazione (stipulatio), dai quali derivano obbligazioni solo a carico di un
contraente, il mutuatario o il promittente.
Questa definizione non ha però successo. Alla fine del I secolo d.C., ad essa se ne
contrappone un’altra, che sarà destinata a prevalere, dovuta al giurista Sesto Pedio, per il
quale “non ci può essere nessun contratto e nessuna obbligazione che non abbia in
sé una convenzione”. In essa, riportata anche in questo caso da Ulpiano, si evidenzia il
carattere fondamentale del requisito della convenzione (la conventio) intesa come accordo
tra le parti. In circa un secolo, pertanto, si afferma la concezione per cui l’elemento
indispensabile di tutti i contratti, e quindi della stessa categoria generale, era la convenzione,
con la conseguenza di ritenere tali anche il mutuo e la stipulazione.
L’affermazione di Sesto Pedio è alla base di quelle elaborate da altri giuristi successivi e
giunte fino a noi. Si tratta, in particolare, di Gaio e di Ulpiano. Il primo, pur non offrendo una
definizione di contratto, sembra accogliere quella di Pedio quando dice a proposito del
pagamento di indebito, che chi ha pagato una somma non dovuta vuole più sciogliere un
rapporto obbligatorio, che contrarlo. Una tale precisazione presuppone come requisito
determinante di un contratto la volontà dei contraenti. Ulpiano aderisce all’opinione di Sesto
Pedio perché è lui a riferirla ed approvarla.
Questa è anche la definizione di contratto presente nella legislazione di Giustiniano.
Secondo la sua definizione, “il contratto è l’accordo ed il consenso di due o più persone su
una stessa cosa” confermando così la centralità dell’accordo e del consenso dei contraenti
su un certo assetto di interessi.
Questa linea di pensiero si radica talmente da percorrere tutto il diritto intermedio e
travasarsi nelle moderne codificazioni civili, come il Code civil francese (art. 1101) ed il
nostro vigente Codice (art. 1321), che identificano il contratto con un accordo, senza però
risolvere un’ambiguità. Infatti, limitandoci al Codice italiano, per quanto basta, costituendo (ai
sensi dell’art. 1325) uno dei requisiti essenziali per l’esistenza di un contratto, che deve
ricorrere insieme alla causa, all’oggetto possibile, lecito e determinato o determinabile ed
alla forme, ove richiesta ai fini della sussistenza del contratto stesso (ad substantiam).
Inoltre la nostra definizione codicistica attribuisce al contratto la finalità sia di costituire che di
regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, mentre nell’esperienza romana se
ne evidenzia la sola funzione di far nascere rapporti obbligatori, lasciando in ombra
quelle di modificarli o estinguerli.

LA LIBERTÀ CONTRATTUALE
I giuristi, muovendo dalla convenzione, intesa come l’accordo di volontà o consenso di due o più
persone, osservano come essa potesse sfociare:
→in un contratto tipico;
→in un contratto innominato non corrispondente ad uno dei tipi previsti dall’ordinamento;
→in un semplice patto diverso sia dai contratti tipici che dai contratti innominati.
In primo ed immediato rilievo agli occhi di un giurista attuale è, che nell’esperienza giuridica
romana, accordo di volontà non era sinonimo di contratto, perché lo ritroviamo anche nei
patti non identificabili con contratti tipici o innominati. In secondo luogo, quella che in termini
moderni potremmo oggi definire l’autonomia contrattuale si esplicava nel diritto romano a
questi tre livelli: le parti, al fine di regolare i propri interessi, avrebbero potuto scegliere di
concludere un contratto tipico o innominato o ancora un semplice accordo non inquadrabile
in una figura contrattuale.
Il diritto arcaico era caratterizzato da una situazione di rigida tipicità contrattuale, che
circoscriveva la libertà dei contraenti alla mera scelta della figura contrattuale prevista
dall’ordinamento per i fini cui tendevano. L’introduzione della possibilità, prima [verso la
fine del II secolo a.C.], di porre in essere patti diversi dai contratti tipici per assumere
comunque impegni giuridicamente vincolanti e, poi [con la fine del I secolo d.C.], anche
di dar vita a contratti innominati, da cui scaturiscono successivamente nuove figure
di contratto, aprono decisamente la strada verso il riconoscimento del principio della
libertà contrattuale. Malgrado ciò, neppure nel diritto giustinianeo si può dire che esso abbia
trovato una piena e completa attuazione.
→Classificazione dei contratti tipici
1.Contratti reali, verbali, letterali e consensuali→ una prima classificazione è quella proposta
dalle Istituzioni di Gaio, ripresa poi da quelle di Giustiniano, subito dopo aver elencato le fonti delle
obbligazioni. Nessuna delle due opere sente il bisogno di spiegare che cosa sia un contratto, ma passa
direttamente a distinguere tra varie categorie di contratti, sotto il profilo delle obbligazioni che
generano: si afferma, infatti, che esse si contraevano con la consegna di una cosa o con
l’uso di certe forme verbali o scritte oppure con il consenso; da ci si fa discendere una
suddivisione tra contratti reali (re), verbali (verbis), letterali (litteris) e consensuali
(consensu), che rappresentavano le quattro fondamentali delle figure contrattuali
tipiche.
I contratti reali necessitavano della consegna di una cosa (res) per essere perfezionati, in
quanto, se essa mancava, pur in presenza del consenso, il contratto non veniva ad
esistenza. I contratti verbali richiedevano l’impiego di certe forme verbali ed i letterali di
una determinata forma scritta, mentre solo nei contratti consensuali era il consenso
l’unico elemento necessario e sufficiente ai fini della formazione del contratto.
2.Contratti unilaterali, imperfettamente bilaterali e sinallagmatici→ all’interno delle
categorie di contratti tipici, si possono operare ulteriori classificazioni desumibili dalle nostre
fonti. La prima [che esiste ancora oggi] è quella tra contratti unilaterali, bilaterali ed
imperfettamente bilaterali. Naturalmente la suddivisione non fa riferimento alle parti di un
contratto ma alle obbligazioni che ne derivano a carico dei contraenti.

- Nei contratti unilaterali l’obbligazione nasce solo in capo a uno dei


contraenti, il debitore. I classici esempi sono il mutuo e la stipulatio, dove,
rispettivamente, obbligato è il solo mutuatario o promittente.
- I contratti bilaterali o sinallagmatici o a prestazioni corrispettive sono,
invece, quelli dove le obbligazioni sorgono per entrambi i contraenti: tutti e
due, infatti, sono gravati da un’obbligazione l’uno nei confronti dell’altro, così
come ciascuno è creditore verso l’altro. Ad esempio, la compravendita è un
tipico contratto a prestazioni corrispettive o sinallagmatiche in quanto il
venditore è obbligato a consegnare una cosa ed il compratore a pagarne il
prezzo.
- Nei contratti imperfettamente bilaterali esiste sempre l’obbligazione a
carico di uno dei contraenti, mentre per l’altro può nascere oppure no, e
quando nasce, è di solito un’obbligazione di risarcimento dei danni o di
rimborso delle spese alla controparte. v Contratti da cui sorgono azioni di
buona fede e contratti da cui sorgono azioni di stretto diritto. Questa
classificazione viene enunciata con riferimento al carattere delle azioni
derivanti dal contratto e solo in seguito si estende anche ai contratti, portando
alla distinzione tra contratti di buona fede e contratti di stretto diritto. Infatti,
come era proprio del modo di ragionare dei giuristi romani, la separazione fra
le due categorie non si esprime da un punto di vista sostanziale, ma
processuale. Da qui la differenza tra “azioni di buona fede” (bonae fidei
iudicia), che tutelano le ragioni dei contraenti ed “azioni di stretto diritto”
(iudicia stricti iuris), previste per mutuo e stipulatio. La buona fede
soggettiva sussiste in tutte quelle situazioni in cui un soggetto crede di non
ledere diritti altrui, ma di esserne egli stesso il titolare. La buona fede
oggettiva fa invece riferimento a quelle regole di lealtà, correttezza ed
onestà, che devono caratterizzare i rapporti tra due contraenti o due soggetti
di una relazione giuridica.

I CONTRATTI REALI. IL MUTUO E LE SUE VARIE CONFIGURAZIONI


Nei contratti reali Gaio comprende il solo mutuo (mutuum o mutui datio), accostando ad
esso, il pagamento di indebito. Le Istituzioni giustinianee, seguendo il Gaio delle Res
cottidianae vi aggiungono altre tre figure: deposito (depositum), comodato (commodatum
o datio ad utendum) e pegno (pignus datum), ed i moderni anche la fiducia (fiducia). Tutti
questi contratti hanno come elemento comune la necessità della trasmissione di una cosa
da un contraente all’altro, che, nel mutuo e nella fiducia, doveva anche comportare il
trasferimento della proprietà al mutuatario e fiduciario, nel deposito e nel comodato, il
mero passaggio della detenzione e, nel pegno, il trapasso del possesso.
Il mutuo (mutuum o mutui datio)→ si può definire come un contratto reale in forza del quale un
soggetto, detto mutuante, trasmette la proprietà ad un altro soggetto, detto mutuatario, di
una determinata quantità di denaro o di cose fungibili, obbligando quest’ultimo a restituire
altrettante cose dello stesso genere e qualità entro il termine convenuto dalle parti o, in
assenza, a richiesta del mutuante.
Già dalla definizione risulta che il mutuo poteva avere ad oggetto solo denaro o altre cose
fungibili, di cui il mutuante era proprietario e che trasmetteva in proprietà al mutuatario. Il
mutuatario non avrebbe mai potuto esonerarsi dall’obbligazione di adempiere, adducendo
come giustificazione il perimento delle somme o cose da restituire per causa a lui non
imputabile delle somme o cose da restituire per causa a lui non imputabile, dovendo
sopportare il relativo rischio, secondo il principio res perit domino, per cui la perdita casuale
di una cosa grava sul suo proprietario. Inoltre, sempre con riguardo all’oggetto del mutuo, va
segnalata un’evoluzione rispetto alla figura originaria.
Se il futuro mutuante fosse stato momentaneamente privo del denaro che gli era stato
chiesto in prestito, avrebbe potuto consegnare al mutuatario una cosa infungibile, affinchè
la vendesse e trattenesse presso di sé il prezzo a titolo di mutuo.
Gli elementi nuovi erano due: l’oggetto, consistente quando si era concluso il contratto, in
una cosa infungibile consegnata al mutuatario, che solo con la vendita si sarebbe convertita
in una somma di denaro, e la consegna di quest’ultima non da parte del mutuante, bensì dal
terzo acquirente. Questa particolare figura di mutuo si trova denominata, talvolta, come
conractus mohatrae, una parola di provenienza araba, che ci dimostra la sua applicazione
nella ricca prassi degli affari e commerci internazionali in ambito mediterraneo, successiva al
III secolo a.C.. Nel caso in cui il mutuatario non avesse restituito la quantità di denaro o di
derrate ricevuta in prestito, il mutuante avrebbe potuto esperire contro di lui due azioni, a
seconda delle cose oggetto del mutuo: per somme di denaro, l’azione per la restituzione di
una somma di denaro certa data in prestito (actio certae creditae pecuniae); per le cose
fungibili diverse dal denaro, l’azione per la restituzione di una quantità certa di cose
fungibili, chiamata anche condictio triticaria in quanto diretta alla restituzione della stessa
quantità determinata di cereali o derrate prestata. Nel I secolo d.C. un senato-consulto detto
Macedoniano introduce un divieto di concludere mutui con i figli in potestà a meno che il
pater non lo avesse consentito o non ne avesse tratto un vantaggio.
Mutuo di scopo→ normalmente per il mutuante è del tutto indifferente l’uso che il mutuatario
farà delle cose prese in prestito. A volte, per , nei mutui in denaro, assume rilevanza lo
scopo, per cui le somme prestate vanno necessariamente indirizzate ad una certa finalità.
Nel diritto romano abbiamo due casi sicuri in cui viene data rilevanza alla destinazione
delle somme prestate: il “mutuo per riparare la nave” ed il “mutuo per comprare le
merci da rivendere”, dove lo scopo serve per permettere al mutuante di far valere
l’eventuale responsabilità dell’armatore o del preponente.
Più documentato è il primo. Infatti, nel caso in cui un comandante della nave (il magister
navis) avesse preso in mutuo una somma di denaro, il mutuante avrebbe potuto agire
contro l’armatore per la mancata restituzione, solo qualora fosse esistito un
collegamento tra l’esercizio di un’impresa di navigazione (exercitio navis) e le somme prese
in prestito. Al riguardo emergono due posizioni tra i giuristi:

1) La prima, apparentemente maggioritaria, era sostenuta da Ofilio, Pedio ed


Ulpiano, secondo i quali, nel momento in cui si concludeva il mutuo con il
comandante, questi doveva dichiarare se intendesse usare la somma per la
riparazione della nave a fini di navigazione. Se la dichiarazione fosse fatta, la
mancata restituzione avrebbe consentito al creditore di chiamare a rispondere
l’armatore; diversamente, in assenza di tale dichiarazione, lo stesso avrebbe
potuto solo agire contro il comandante della nave, qualora fosse stato una
persona libera non soggetta a potestà.
2) La seconda posizione era rappresentata da Salvio Giuliano e dal suo allievo
Cecilio Africano, i quali ritenevano che, per far valere la responsabilità
dell’armatore, non bastasse la sola dichiarazione del comandante all’atto del
mutuo, ma occorresse anche l’ulteriore requisito di una situazione oggettiva
per cui la nave doveva essere riparata; si ponevano quindi in capo al mutuante
gli oneri aggiuntivi di verificare le effettive condizioni della stessa e di
proporzionare in rapporto a ci la somma data in prestito.

Analoghi requisiti [effettiva necessità dell’acquisto e proporzionalità delle somme concesse]


erano enunciati dai due giuristi anche in riferimento ai mutui contratti da un institore
nell’ambito di un’impresa commerciale.
Foenus nauticum→ letteralmente questa espressione indica un “prestito di denaro ad interesse per la
navigazione”, sostanzialmente equivalente ad un “prestito marittimo”. Prima ancora di un contratto
era un’operazione commerciale, che si svolgeva nel modo seguente: il creditore finanziava un
armatore o un comandante di una nave, affinchè compiesse un viaggio per mare di sola andata o di
andata e ritorno; il soggetto finanziato avrebbe restituito la somma ricevuta con gli interessi pattuiti,
solo se il viaggio fosse terminato felicemente e la nave rientrata salva nel porto. I rischi della
navigazione erano pertanto sopportati dal finanziatore, il quale, in caso di naufragio
della nave, non avrebbe ottenuto nulla in restituzione. Ma la sopportazione del rischio
faceva sì che il finanziatore percepisse interessi più elevati rispetto al tasso massimo
del 12%. Malgrado le evidenti diversità rispetto al mutuo, la funzione di prestito finalizzato
alla navigazione, assolta dal foenus nauticum, permette di ricondurlo a questo contratto,
nel cui schema, peraltro, finiscono per inquadrarlo anche alcuni giuristi romani

LA STIPULAZIONE DEGLI INTERESSI CONVENZIONALI


Diversamente dall’attuale ordinamento italiano, dove il mutuo si presume oneroso, salvo
patto contrario, per cui una somma presa in prestito va restituita sempre con gli interessi, a
meno che i contraenti non abbiano deciso altrimenti, nel diritto romano la situazione è
capovolta: il mutuo sorge come un contratto che si presume gratuito, salvo espressa
pattuizione degli interessi, che avveniva, normalmente, con un diverso ed apposito contratto
accessorio al mutuo detto stipulazione degli interessi (stipulatio usurarum).
Nel diritto romano, quindi, affinchè un prestito fosse fruttifero [in quanto il creditore, oltre alla
restituzione del capitale, voleva anche il pagamento di certi interessi], era necessario
concludere due contratti: il mutuo, avente ad oggetto il capitale (detto sors) ed una
stipulatio avente oggetto gli interessi (le usurae, appunto).
Questa situazione si modifica solo per alcune specifiche ipotesi: agli inizi del III secolo, nei
mutui in derrate, una costituzione di Alessandro Severo del 223 d.C. ha ammesso che gli
interessi, anziché essere compresi in una stipulazione accessoria, potessero formare
oggetto di un semplice patto aggiunto (pactum) al contratto di mutuo. E lo stesso fu
disposto quando il mutuante non era una persona fisica, bensì una comunità cittadina,
secondo quanto ci rivela una testimonianza del giurista Paolo.
In ordine agli interessi nei prestiti di denaro, il problema più delicato è quello del limite
massimo del loro tasso.
Secondo lo storico Tacito, già le XII Tavole avrebbero stabilito un tasso massimo di
interesse pari a 1/12, il foenus unciarium, dove foenus indica l’interesse ed unciarium la
misura massima di un’uncia, cioè l’8,33 %. La testimonianza di Tacito, tuttavia, non dice se
questo tasso fosse su base annuale o mensile.
Un altro storico, invece, Tito Livio, attribuisce questa disposizione non alle XII Tavole, ma ad
un plebiscito Duilio Menenio del 357 a.C. à Le tue nozioni non vanno, per ,
necessariamente vissute come contraddittorie, in quanto il plebiscito potrebbe aver
riaffermato la disposizione aggirata.
Sempre secondo il racconto di Livio, nel corso del IV secolo a.C., un successivo plebiscito
del 347 a.C. avrebbe ridotto il tasso massimo alla metà [4,16%] e poi un ultimo plebiscito del
342 a.C. avrebbe addirittura sancito un divieto di prestito ad interesse.
Successivamente, fino al I secolo a.C. abbiamo solo informazioni frammentarie. Un’altra
serie di provvedimenti in materia è ricordata nel periodo delle guerre civili e della crisi
dell’ordinamento repubblicano, diretti principalmente a stabilizzare il tasso massimo degli
interessi convenzionali entro il limite delle usurae centesimae, così chiamate in quanto
l’interesse mensile era dell’1%, corrispondente perci al 12% annuo.
La disciplina in materia di interessi convenzionali si integra con l’introduzione di due ulteriori
divieti, che sono stati poi ripresi anche in età giustinianea:
→il divieto di interessi, il cui ammontare superi quello del capitale (usurae supra duplum) à
significa che la loro somma totale non poteva essere maggiore del capitale
→il divieto di interessi sugli interessi (usurae usurarum) è finalizzato a reprimere il fenomeno
dell’anatocismo, un termine di origine greca in uso ancor oggi nel linguaggio economico e
giuridico per indicare gli interessi prodotti da altri interessi. Attualmente si parla di due
tipi di anatocismo:
- l’anatocismo c.d. composto o congiunto, che si realizza imputando al
capitale originario gli interessi scaduti e non pagati con la conseguenza di
aumentare la somma iniziale e di generare su di essa la nascita di altri
interessi; tizio dà in prestito a Caio una somma di 1000 sesterzi da
restituire in due anni al tasso di interesse il 10% annuo. Gaio non paga gli
interessi, il loro ammontare accresce il capitale iniziale di 1000 sesterzi e
quindi, Caio dovrà il 10% di interessi non più sulla somma di 1000, bensì
su quella di 1100
- l’anatocismo c.d. separato, che si ha quando gli interessi scaduti non si
aggiungono al capitale originario, ma da essi derivano altri interessi. I 100
sesterzi di interessi scaduti, invece di essere imputati al capitale, sono
considerati nuovamente come fonte di nuovi interessi

Il regime complessivo appena tracciato viene sensibilmente riformato da Giustiniano con


una costituzione del 528, in cui, innanzitutto, si stabiliva un tasso massimo degli interessi
convenzionali differente, a seconda della categoria o classe sociale del mutuante.
→per i senatori e chi apparteneva all’ordine senatorio, questa misura era fissata al 4%;
→per i banchieri, imprenditori ed uomini d’affari, all’8%
→per i finanziatori di prestiti finalizzati alla navigazione marittima o per chi concedeva mutui
in derrate, al 12%; in tutti gli altri casi, al di fuori di queste tre specifiche previsioni, il tasso
massimo era pari al 6%.
È poi confermato il divieto di pattuire interessi eccedenti l’ammontare del capitale e si
inaspriscono le disposizioni sulle usurae usurarum, vietando qualsiasi forma di anatocismo.
Nel caso in cui il debitore avesse pagato interessi in misura superiore al tasso massimo di
interesse previsto dalla legge, erano possibili due soluzioni. La prima è che gli interessi
pagati in eccedenza fossero imputati al capitale, ove questo non fosse stato ancora
restituito. La seconda soluzione si ha quando gli interessi in più pagati non si potevano più
imputare al capitale, perché era stato già tutto restituito; in tal caso, il debitore ne avrebbe
potuto chiedere la ripetizione.

LA FIDUCIA
È un contratto reale, in forza del quale un soggetto, detto fiduciante, trasmette ad un altro,
detto fiduciario, la proprietà di una o più cose, affinché le trattenga presso di sé per un
determinato tempo e poi le restituisca nei termini convenuti. In realtà, le Istituzioni di Gaio
non qualificano la fiducia come un contratto né, tanto meno, la collocano fra i contratti reali,
ma parlano di una mancipatio o un’in iure cessio fiduciaria con due applicazioni: la fiducia
cum amico e la fiducia cum creditore; il negozio fiduciario si realizza, pertanto, con un
atto formale, destinato a trasmettere la proprietà di qualcosa dal fiduciante al fiduciario,
accompagnato da un “patto di fiducia” che sottolinea l’impegno di quest’ultimo a
ritrasmetterla nei termini convenuti.
→Nella fiducia cum amico il fiduciario doveva custodire e conservare la cosa e, decorso il
tempo stabilito, ritrasmetterla al fiduciante. Il fiduciario, dunque, pur essendo divenuto
proprietario, svolgeva sulla cosa sostanzialmente un’attività di custodia e conservazione per
conto del fiduciante.
→La fiducia cum creditore, invece, assolveva una funzione di garanzia: il fiduciante era
debitore del fiduciario e la cosa trasmessa rappresentava la garanzia dell’adempimento
dell’obbligazione. Quindi se questa fosse stata adempiuta, il fiduciario avrebbe dovuto
ritrasferirla al fiduciante; diversamente, ne sarebbe restato definitivamente il proprietario.
Se il fiduciario non restituiva la cosa quando avrebbe dovuto, il fiduciante aveva contro di lui
l’azione nascente dal contratto che rientrava tra le azioni di buona fede; ma, se aveva
sopportato spese di custodia e manutenzione o sofferto danni in dipendenza della proprietà
della cosa, aveva diritto al loro rimborso o risarcimento da parte del fiduciante, potendo
avvalersi, ove necessario, dell’eccezione di dolo e di un diritto di ritenzione, come il
possessore nell’azione di rivendica à emerge così il carattere di contratti imperfettamente
bilaterale della fiducia

IL DEPOSITO
È un contratto reale bilaterale imperfetto [o imperfettamente bilaterale], in forza del quale
un soggetto, detto depositante o deponente, consegna una cosa mobile ad un altro
soggetto, detto depositario, affinché questi la custodisca a titolo gratuito e poi la restituisca a
richiesta del depositante o nel termine pattuito.
Oggetto→ potevano esserne soltanto una o più cose mobili e l’obbligazione del depositario
era quella di custodirle senza usarle e restituirle al depositante. Naturalmente il carattere
imperfettamente bilaterale del contratto faceva sì che il depositante fosse obbligato a
rimborsare le spese e/o risarcire i danni al depositario in relazione alla custodia della cosa
depositata.
Se durante il deposito questa fosse danneggiata, il depositario sarebbe stato responsabile
verso il depositante per un particolare tipo di furto chiamato “furto di uso”. Qualora la
restituzione fosse stata impossibile per perimento della cosa depositata [distruzione o
furto], il depositario era tenuto a pagarne il valore semplice (in simplum), ma, nei depositi
conclusi in stato di necessità dovuta ad eventi bellici o calamità naturali [il c.d. deposito
necessario], il pagamento saliva al doppio del suo valore.
Ma la sua responsabilità sorgeva solo quando la mancata restituzione fosse dipesa da
dolo, perché non aveva voluto intenzionalmente compierla; nel caso in cui fosse causata da
colpa→ il depositario non era invece responsabile, a meno che non avesse specificamente
pattuito una tale estensione. Ci era in connessione con il carattere gratuito del contratto e la
buona fede oggettiva che ne era alla base: poiché il depositario non riceveva un corrispettivo
per la sua attività di custodia, questa non poteva neppure essere aggravata oltre il dolo.
Nell’editto pretorio erano previste due azioni di deposito:
1. quella del depositante contro il depositario nel caso di mancata restituzione della cosa o di suo
danneggiamento→ directa
2. quella del depositario contro il depositante che non gli avesse rimborsato le spese o risarcito i
danni→ contraria
Le fonti romane le chiamano entrambe actio depositi.
All’interno della figura ordinaria di deposito si sono venuti a differenziare due particolari tipi: il
sequestro e il deposito irregolare.
● Nel sequestro era data da custodire ad un terzo, il sequestratario, una cosa mobile,
oggetto di una controversia giudiziaria, designata come res controversa. Egli
doveva custodirla e restituirla solo a chi fosse risultato esserne il titolare all’esito del
processo. Infine, mentre il depositario era detentore della cosa, perché sapeva che
non era sua, il sequestratario veniva, invece, considerato come possessore, per
rendere più stabile la sua situazione e fornirgli gli stessi strumenti di difesa previsti
per il possessore [gli interdetti possessori].
● Il deposito irregolare deve il suo nome ai giuristi del XV secolo, i quali volevano
così sottolineare il suo principale elemento differenziatore rispetto al deposito
ordinario: il carattere fungibile delle cose che ne erano oggetto. La “irregolarità” era,
dunque, data dal fatto che le cose mobili depositate erano fungibili, consistendo
normalmente in somme di denaro. E la conseguenza era che il depositario ne
diveniva proprietario, le poteva usare con obbligo di restituire al depositante, a
richiesta o nel termine convenuto, altrettante dello stesso genere e qualità.
● Nelle fonti giuridiche romane si attesta l’impiego di questa figura contrattuale nei
rapporti con un banchiere o un prestatore ad interesse e tra i giuristi non tutti la
inquadrano nel “tipo” del deposito, preferendo invece ricondurla a quello del
mutuo. Nel diritto romano sussisteva, per , un’importante differenza tra le due figure:
il mutuo era un contratto tutelato da un’azione di stretto diritto, mentre il deposito si
basava sulla buona fede, questa diversità aveva rilevanza per la pattuizione degli
interessi: nel primo caso, era necessario concludere con il mutuatario una
stipulazione accessoria, nel secondo caso, si poteva convenire anche con un mero
patto, che permetteva al depositante di agire contro il depositario con l’azione di
deposito se non l’avesse pagati. Alcuni dati dalle fonti giuridiche sembrano introdurre
anche un’altra rilevante innovazione. Qualora, pur in assenza di un accordo sugli
interessi, il depositante avesse permesso al depositario di utilizzare il denaro
depositato, quest’ultimo, proprio per l’uso che ne potevo fare, sarebbe stato tenuto a
corrispondere al primo degli interessi nella misura del tasso legale, si possono
denominare come interessi derivanti dall’uso lecito del denaro altrui, corrispettivi del
vantaggio che derivava al depositario di poterlo utilizzare.

IL COMODATO
È un contratto reale imperfettamente bilaterali, in forza del quale un soggetto, detto
comodante, trasmette una cosa mobile o immobile ad un altro soggetto, detto comodatario, il
quale la pu utilizzare nel modo convenuto ed è tenuto a restituirla a richiesta del comodante
o nel termine stabilito, senza pagare alcun corrispettivo per il suo uso. Quindi le principali
differenze del comodato rispetto al deposito erano che il comodatario poteva utilizzare
la cosa ricevuta in comodato e che la stessa poteva essere sia una cosa mobile che
immobile.
L’etimologia stessa del termine comodato sottolinea che si trattava di qualcosa “dato a
vantaggio del comodatario”: commodum (vantaggio), datum (dato), per il cui impiego non
si doveva un corrispettivo: infatti, nel caso in cui un soggetto avesse dovuto pagarlo, non
saremmo più in presenza di un comodato bensì di una locazione. L’altro elemento che
distingueva il comodato dal contratto di locazione era il carattere reale, che il primo
aveva ed il secondo no, in quanto rientrava tra i contratti consensuali.
Le obbligazioni del comodatario erano quelle di usare la cosa nel modo stabilito, di
custodirla e poi di restituirla nei termini convenuti; se il comodatario l'avesse usata in modo
diverso, sarebbe stato responsabile di furto d’uso. Le eventuali obbligazioni del comodante
consistevano nel rimborso al comodatario delle spese e/o nel risarcimento dei danni
occasionati dalla cosa data in comodato. In caso di inadempimento, l’azione prevista
nell’editto era l’actio commodati, che, come si è detto per il deposito, poteva essere diretta,
se intentata dal comodante contro il comodatario, o contraria, ove fosse quest’ultimo ad
agire.
Circa i criteri di responsabilità valevano per il comodatario sia il dolo (dolus malus) che la
colpa (culpa) nel senso che egli rispondeva nei confronti del comodante per inadempimento
sia colposo che doloso delle proprie obbligazioni. Inoltre, a carico del comodatario
sussisteva un’obbligazione particolarmente gravosa circa la custodia della cosa ricevuta: si
trattava di un’obbligazione autonoma rispetto a quelle di usare la cosa e restituirla ed
implicava una responsabilità di tipo “oggettivo”, in quanto veniva chiamato a rispondere per
per il furto e danneggiamento della stessa, anche se non fossero dipesi dal suo dolo o
colpa. L’unico limite alla responsabilità che ne derivava era il perimento della cosa
per forza maggiore. Il rigore descritto cessa tra la fine del II e gli inizi del III secolo
d.C., quando la custodia si rapporto anch'essa ai criteri soggettivi del dolo e della
colpa. Mentre normalmente erano cose infungibili ed inconsumabili, destinate proprio per la
loro natura ad un uso ripetuto, a volte possiamo trovare anche cose fungibili, come il
denaro.
Un caso, di cui parlano le fonti era quello del comodato “a fini di pompa o ostentazione”, nel
quale il comodatario riceveva monete d’oro o d’argento, ad esempio, per fare vedere agli
invitati la propria ricchezza e poi restituiva.

IL PEGNO
Il pegno è un contratto in forza del quale il debitore pignorante o un terzo consegna una
cosa al creditore pignoratizio a garanzia di un debito. Quest’ultimo ne acquistava il possesso
ed era tenuto alla restituzione della cosa, nel caso in cui il debito fosse stato adempiuto à
funzione di garanzia (svolta dalla cosa in pegno)

I CONTRATTI VERBALI. LA SPONSIO/STIPULATIO


Le Istituzioni di Gaio menzionano tre tipi di contratti verbali: la sponsio/stipulatio in cui si
esaurisce pressochè integralmente la trattazione dell’argomento, la dotis dictio come modo
di costituzione della dote da parte della donna stessa o di un suo debitore e la promessa
giurata del liberto di prestare giornate lavorative al patrono. Di essi merita un’attenta analisi
solo il primo tipo, la sponsio/stipulatio, in quanto sul suo regime si sono formate molte
regole della categoria generale del contratto trasmesse agli ordinamenti moderni.
→Caratteri generali
la stipulatio è un contratto in forza del quale un soggetto, lo stipulante, rivolge una
domanda avente ad oggetto una prestazione ad un altro soggetto, il promittente, il quale
risponde a questa domanda in modo congruo ed immediato. Si tratta di una figura
contrattuale tipica che per , come si vede dalla definizione stessa, si poteva adattare a
tutte le finalità, poiché, attraverso di essa, i contraenti erano in grado di regolare
qualsiasi assetto di interessi fra loro. Il suo carattere generale originario si riflette ancora
nel linguaggio giuridico moderno. Il tipo più antico di stipulazione era la sponsio, di cui
parlano già le XII Tavole, che si differenzia dalle stipulazioni nate successivamente per due
elementi: l’uso del verbo prometto (spondeo) nella domanda e nella risposta e l’impiego
riservato ai soli cittadini romani in quanto contratto sorto nell’ambito del ius civile.
Sul piano sostanziale, ai fini della conclusione di una stipulatio non bastava l’accordo fra i
contraenti, ma lo stesso si doveva racchiudere in una domanda e in una risposta. Le due
parti dovevano perciò essere presenti.
Lo stipulante era colui che si faceva promettere qualcosa, e dunque assumeva la veste di
creditore, il promittente era chi prometteva e dunque il debitore. La domanda e la
conseguente risposta potevano avere ad oggetto una qualsiasi prestazione: dalla stipulatio,
infatti, era possibile far nascere un’obbligazione di dare [nel senso di trasmettere la proprietà
di qualcosa] anche di facere, non facere e praestare.
Pertanto, nonostante la stipulatio corrispondesse ad un tipo contrattuale, diversamente
dagli altri tipi, avrebbe potuto avere un qualunque contenuto. Mentre quello del mutuo
era il prestito di una somma di denaro o cose fungibili, del deposito una cosa mobile data da
custodire, della compravendita lo scambio di una cosa contro un prezzo, la stipulazione era
utilizzabile come contratto alternativo a tutti questi per raggiungere i medesimi risultati.
La stipulatio [insieme al mutuo] era un contratto da cui nasceva un’obbligazione solo a
carico del promittente [è un contratto unilaterale]; in caso di suo inadempimento, lo
stipulante aveva a disposizione un’azione “di stretto diritto”, che, se oggetto della
stipulazione era una cosa esattamente determinata (certa res), prendeva il nome di
“azione da stipulazione” (actio ex stipulatu), indicata anche come “azione di ripetizione di
una cosa determinata” (condictio certae rei).
Quando invece la stipulatio riguardava una cosa non esattamente determinata, o perché
indicata solo nel genere o perché costituita da un’attività di fare o non fare, l’azione di cui lo
stipulante disponeva, era la sola “azione da stipulazione di un incerto” (actio ex stipulatu
incerti).
→Classificazioni delle stipulationes
data l’ampia gamma di possibili impieghi, i giuristi romani hanno formulato alcune
classificazioni all’interno delle stipulazioni. Tra di esse, una che ha goduto di notevole
successo è stata quella, di probabile origine sabiniana, che distingueva le stipulationes in
dando e in faciendo: le prime producevano a carico del promittente un’obbligazione di
dare in senso tecnico, cioè di trasmettere allo stipulante la proprietà di qualcosa, mentre
tutte le altre, nelle quali l’obbligazione non fosse quella di trasmettere la proprietà,
rientravano nella seconda categoria.
Un’altra è quella esposta da Paolo che le suddivideva a seconda che fossero sottoposte
ad: un termine o ad una condizione sospensiva (condicionalis) oppure avessero ad oggetto
una prestazione alternativa (modus obligationis) o si aggiungesse un costipulante per la
medesima prestazione o per una prestazione differente (accessio in obligatione).
Un’ulteriore classificazione, presente nelle Istituzioni di Gaio, separa dalle altre le
stipulazioni che avevano funzioni di garanzia e che, con una terminologia moderna, siamo
soliti indicare come “stipulazioni passivamente accessorie”, nelle quali il promittente si
obbligava verso il creditore non per una propria prestazione, ma per una altrui.

→Requisiti dell’oggetto di una stipulatio


è con riferimento alla stipulazione che i giuristi romani hanno elaborato i requisiti
dell’oggetto del contratto, individuandone tre: possibilità, liceità e determinatezza o
determinabilità.
o La possibilità doveva essere sia materiale che giuridica: non si potevano,
quindi, promettere cose inesistenti in natura (schiavo morto) , né cose
escluse dal commercio giuridico, pur se esistenti in natura, come quelle
destinate agli usi pubblici.
o La liceità discendeva dal fatto che non poteva formare oggetto della
stipulazione un’attività illecita, come l’uccisione di un’altra persona o il
compimento di un sacrilegio.
o Infine, l’ultimo requisito implicava che l’oggetto fosse già esattamente
individuato o destinato ad esserlo in un momento successivo, essendo
determinato, al momento della conclusione del contratto, il solo genere. In
questo secondo caso, occorreva una successiva operazione, detta
specificazione (specificatio), ma in un senso diverso dal modo di acquisto
della proprietà , mediante la quale, all’interno del genere (genus), si
individuava esattamente la cosa, oggetto della stipulazione, ai fini
dell’adempimento.
→Problema della causa
la stipulatio è un contratto astratto, in cui non si vede la causa, intesa sia come
scopo perseguito dai contraenti che come funzione rivestita dal contratto. Nel diritto
arcaico, siccome la forma prevaleva sulla sostanza e l’aspetto formale era l’unico che
contava, poteva accadere che, rispettate le forme, la stipulatio fosse valida anche in
assenza di una causa (intesa sia come scopo perseguito dai contraenti che come
funzione rivestita dal contratto). A partire dal I secolo a.C., invece, richiesta la sua
esistenza e liceità.
→Stipulationes a favore di un terzo o aventi ad oggetto il fatto di un terzo
nel contratto a favore di un terzo, il destinatario finale della prestazione è una
persona diversa dai contraenti, indicata per da uno di loro; un contratto ha ad
oggetto la prestazione di un terzo o, come si dice anche, il fatto di un terzo, quando
un soggetto diverso dai contraenti, ma da loro individuato, deve eseguirla. à In
entrambi i casi si tratta del superamento del principio per cui un contratto produce
effetti solo tra chi lo ha concluso, essendo, invece, coinvolte terze persone: il
creditore a favore del quale si deve eseguire la prestazione [il contratto a favore di
terzo] e il debitore diverso dai contraenti tenuto a compiere la prestazione [il contratto
avente ad oggetto o il fatto di un terzo].
→Evoluzione successiva fino all’età giustinianea
il rigido formalismo del contratto si attenua con il tempo. Il punto di arrivo della perdita
di importanza delle forme si ha nel 472 d.C. a Costantinopoli, nell’Impero d’Oriente,
allorché, con una costituzione dell’imperatore Leone, si dichiarava la validità di tutte
le stipulazioni a prescindere dalle parole impiegate, dandosi rilievo esclusivo al
consenso ed all’incontro di volontà tra le parti presenti. Tuttavia, la fedeltà alla figura
contrattuale classica emergente in tutto il regime previsto dalle Istituzioni
e dal Digesto hanno impedito che si arrivasse a tanto, relegando, nella sostanza,
l’innovazione di Leone in una posizione secondaria. Infine va segnalato che,
soprattutto nella prassi delle province orientali successiva alla costituzione
Antoniniana [212 d.C.], il documento probatorio dell’avvenuta stipulatio tendeva a
sostituirsi all’effettiva pronuncia delle parole, con il risultato di una progressiva
trasformazione di questo contratto da orale a scritto

I CONTRATTI LETTERALI O NOMINA TRANSSCRIPTICIA


Sono caratterizzati dal fatto che, per formarsi, oltre al consenso tra le parti, occorreva
anche l’uso di certe forme scritte.
Quel poco che sappiamo dei contratti letterali lo troviamo nelle Istituzioni di Gaio. Ne
esistevano due tipi, denominati entrambi traducibili come “crediti assunti attraverso una
determinata forma scritta” (nomina transscripticia), e riportati in un libro contabile,
composto da fogli dove si registravano le entrate e le uscite à situazione patrimoniale. Tale
libro, tenuto personalmente dal pater familias o da un suo schiavo, conteneva un sistema
di scritturazione, che, pur non configurando quello della partita doppia [inventato solo nel XV
secolo dal frate Luca Pacioli], offriva comunque un quadro esauriente della situazione
patrimoniale. Le forme precise in cui si scrivevano i contratti letterali ci sono ignote.
Il primo tipo era la transscriptio a re in personam, che possiamo definire come un
contratto, in forza del quale due soggetti, già legati tra di loro da un altro vincolo
contrattuale, lo trasformavano in un nuovo vincolo mediante l’annotazione secondo certe
modalità.
Anche qui un ruolo importante doveva aver giocato la maggiore facilità di provare l’esistenza
del vincolo obbligatorio; in tal modo, comunque, si realizzava anche una novazione
oggettiva, a seguito della quale il precedente rapporto obbligatorio, che aveva come causa
la compravendita, si estingueva, subentrando al suo posto uno nuovo avente come causa la
registrazione nel codice. Il secondo tipo era la transscriptio a personam in personam, un
contratto con cui, attraverso una determinata annotazione, si modificava una delle parti di un
rapporto obbligatorio già esistente in precedenza.
Siccome la somma di denaro, dovuta dal debitore e registrata per iscritto, in entrambi i tipi di
contratto letterale, era sempre determinata, il creditore, in caso di inadempimento, aveva
contro di lui un’azione stricti iuris: la condictio nella forma di “azione per la restituzione di
una somma certa di denaro”.
Gaio termina la sua trattazione, informandosi della progressiva apertura dei contratti letterali
romani anche gli stranieri e di come questi ultimi fossero già soliti obbligarsi per iscritto con
documenti chiamati chirografari e Singrafi, nei quali passava che il debitore dichiararsi
dovere del denaro al creditore.

I CONTRATTI CONSENSUALI. LA COMPRAVENDITA


I quattro tipi di contratti consensuali sono: compravendita (emptio venditio), locazione
conduzione (locatio conductio), società (societas) e mandato (mandatum). Li accomuna il
fatto che si concludevano – e facevano quindi nascere le obbligazioni – per effetto del
semplice consenso manifestato dai contraenti, a prescindere da come si manifestasse:
esplicitamente, di persona con lettera oppure attraverso il Nunzio o messaggero, o anche
tacitamente attraverso comportamenti concludenti.
Diversamente dagli altri tipi contrattuali, i contratti consensuali potevano intercorrere anche
tra assenti, infine rappresentano il prototipo di contratti fondati sulla buona fede oggettiva
à tutte le azioni nascenti da essi si configurano come azioni di buona fede (iudicia bonae
fidei).

→La compravendita
nel periodo arcaico la compravendita si realizzava mediante l’atto formale e solenne della
mancipatio. Tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. ad essa si sostituisce, all’esito di
un’evoluzione storica per noi ancora non del tutto chiarita, il contratto consensuale di emptio
venditio, che si perfezionava, in base a quanto dicono le nostre fonti, quando il venditore e
l’acquirente si accordavano sul prezzo da pagare per la cosa venduta.
In realtà, la sua definizione è più complessa: si tratta, infatti, di un contratto consensuale,
sinallagmatico o a prestazioni corrispettive, in forza del quale un soggetto, detto venditore, si
obbliga a trasmettere una cosa ad un altro soggetto, detto compratore o acquirente, a
garantirgliene il pacifico godimento ed a garantire l’assenza in essa di vizi occulti e, da parte
sua, il compratore o acquirente si obbliga a corrispondere al venditore una determinata
somma di denaro, che costituisce il prezzo. Dalla definizione appena esposta emergono i
due elementi oggettivi della compravendita: la cosa, che ne formava l’oggetto, chiamata
“merce” (merx) e la somma di denaro che rappresentava il prezzo (pretium).
→Merce (merx)
essa poteva consistere in cose corporali (res corporales) o incorporali (res incorporales),
ma, tra le prime, non tutte erano suscettibili di vendita, ma solo quelle “in commercio”, in
quanto possibile oggetto di atti di alienazione. Ne consegue che erano escluse le cose di
diritto divino (le res divini iuris) e le cose “destinate all’uso pubblico” mentre le cose
pubbliche “patrimoniali” [come fondi o schiavi pubblici] avrebbero potuto invece essere
vendute dall’ente pubblico che ne era il proprietario.
Anche cose future potevano formare oggetto di compravendita. Il diritto romano ne
configura due tipi:
1.compravendita di una cosa sperata (emptio rei speratae)
la prima era una compravendita condizionata, nel senso che il venditore avrebbe dovuto
consegnare la cosa futura e il compratore pagarne il prezzo, solo se e nella misura in cui
tale cosa fosse venuta ad esistenza. Era perciò una compravendita sottoposta a condizione
sospensiva.
Ad esempio, se io vendo il mio raccolto di uva a 300 sesterzi, il compratore mi pagherà il
prezzo solo qualora la mia vigna lo produca e nella quantità effettivamente prodotta, se sono
10, 3 mila sterzi, ma se non ne produco alcuno, il contratto resta privo di effetti e non mi sarà
dovuto nulla come prezzo
2.compravendita della speranza (emptio spei)
il secondo tipo era invece una compravendita aleatoria, caratterizzata cioè dal rischio (alea)
assunto dal compratore, il quale avrebbe comunque pagato il prezzo, anche se la cosa
futura non fosse giunta ad esistenza, nel diritto romano la troviamo applicata nei casi di
caccia e pesca.
Ad esempio, L’acquirente si obbligava a pagare un prezzo fissato in 1000 sesterzi per tutti
gli uccelli catturati dal venditore in un certo giorno, se ne avessi catturato un branco
l’acquirente avrebbe fatto un affare, perché li pagava molto meno che se gli avessi comprati
uno per uno, se per quel giorno il venditore non avesse preso alcun uccello, il compratore
gli avrebbe dovuto ugualmente corrispondere quella somma, non ricevendo in cambio nulla
La compravendita poteva avere oggetto anche una cosa determinata solo nel genere,
qualificandosi quindi “di cosa generica”. È un fenomeno che abbiamo già visto nella
stipulazione e che ricorreva anche nella compravendita consensuale: la cosa venduta era
individuata solo nel genere. In questi casi era necessario procedere ad una sua
specificazione, determinandola esattamente, affinché il venditore la potesse consegnare
poi al compratore. Un altro caso particolare era dato dalla compravendita di una cosa
altrui, anch’essa pienamente valida, salve le conseguenze a carico del venditore dovute
all’assunzione da parte sua della garanzia per evizione.

È interessante sottolineare che la disciplina del diritto romano su questi tre casi particolari si
è conservata anche nel vigente Codice civile italiano, che regolano separatamente la vendita
di cose future, la vendita di cose altrui ed i contratti che hanno per oggetto il trasferimento di
cose determinate solo nel genere.
Anche le cose incorporali avrebbero potuto essere contemplate dai contraenti. Nelle fonti
avviamo esempi di vendita di diritti reali, di crediti e di un’eredità.
Con riferimento ad un credito, la vendita ne realizzava una cessione, a seguito della quale al
precedente creditore si sostituiva un nuovo creditore. Normalmente il venditore doveva
garantire all’acquirente la semplice esistenza del credito, il credito vero (il verum nomen);
ma poteva garantire anche la solvibilità del debitore parlandosi allora di un buon credito
(bonum nomen), proprio per mettere in luce la “bontà” del credito dovuta alla situazione
patrimoniale dell’obbligato.
La compravendita di un’eredità presentava anch’essa delle particolarità già nel diritto
romano, tanto da meritare un titolo a sé nel Digesto, ed ancor oggi, nell’attuale Codice civile
italiano. Un primo elemento specifico era che si trasmetteva non una o più singole cose,
bensì un’universalità di cose, comprensiva di beni materiali e diritti; ma la caratteristica
maggiore consisteva nel fatto che alla vendita dell’eredità non seguiva la cessione
all’acquirente della qualità di erede, per cui il venditore conservava tale qualità. In origine,
l’atto di trasmissione all’acquirente era una in iure cessio, adattata alle circostanze e con un
regime particolare che determinava l’estinzione de i crediti ereditari per il cessionario. Con il
tramonto di tale atto, la compravendita consensuale instaura fra venditore ed acquirente la
stessa situazione esistente tra erede e fedecommissario a titolo universale prima del
senatoconsulto Trebelliano, per cui tutti gli acquisti, che fossero pervenuti al venditore in
rapporto all’eredità venduta, andavano trasmessi al suo acquirente e su di lui dovevano
anche gravare i relativi pesi, con obbligo di rimborso al venditore delle somme da lui
eventualmente pagate.
→Prezzo (pretium)
passando ora all’altro elemento oggettivo della compravendita, il prezzo (pretium), la
controversia più risalente, sollevata in seno alla giurisprudenza, è stata quella se dovesse
necessariamente consistere in una determinata somma di denaro o anche in una cosa
diversa. Bisogna giungere fino all’epoca di Augusto o poco oltre, per chiarire
definitivamente questo punto infatti:
- Sabiniani, richiamandosi alle origini, sostenevano che qualunque cosa avrebbe potuto
fungere da prezzo in una compravendita.
- Proculiani erano dell’avviso che solo una somma di denaro potesse avere tale funzione,
separando nettamente la compravendita dalla permuta (permutatio)
All’epoca in cui Gaio scriveva le Istituzioni [metà circa del II secolo d.C.] l’opinione dei
Proculiani era quella che aveva prevalso.
Altro punto di discussione era se il prezzo dovesse essere esattamente determinato già al
momento della conclusione del contratto oppure se bastasse che fosse solo
determinabile. Sul punto si registra un’evoluzione.
Fino al I secolo a.C. la risposta era negativa, in quanto il prezzo andava esattamente
determinato, ma poi alcuni giuristi cominciano ad ammettere la possibilità di attribuire alla
decisione di un terzo, scelto di comune accordo dai contraenti, la determinazione del
prezzo, da fissarsi in un momento successivo alla conclusione del contratto.
In seguito, probabilmente verso la fine del II secolo d.C., si pu ritenere pienamente
ammessa la compravendita conclusa con la clausola di rimettere ad un terzo la
determinazione del prezzo, in base a un duplice criterio stabilito dai contraenti: secondo la
valutazione di un uomo onesto (arbitrium boni viri) oppure secondo il suo mero arbitrio
(merum arbitrium). Nel primo caso, il terzo avrebbe dovuto indicarlo mediante un equo
apprezzamento, pena l’invalidità del contratto; nell’altro caso, il prescelto lo avrebbe fissato
secondo la propria personale decisione ed i contraenti ne sarebbero stati comunque
vincolanti.
Siccome tale sistema si doveva essere rivelato poco pratico, risultando sovente incerto il
criterio di determinazione deciso per il terzo, Giustiniano interviene a semplificarlo,
abolendo la distinzione ed introducendo il seguente regime: quando le parti concludevano la
compravendita rimettendo ad un terzo la fissazione del prezzo, la compravendita era valida
e sottoposta a condizione , cosicché, se il terzo lo avesse stabilito, la sua decisione sarebbe
stata vincolante per le parti [essendosi verificata la condizione]; se invece il terzo non
avesse potuto o voluto stabilirlo, la compravendita sarebbe stata inefficace. Nel nostro
Codice attuale, invece, si può quasi dire che siamo ritornati al sistema pregiustinianeo, in
quanto il terzo può essere chiamato a decidere secondo equo apprezzamento o il suo mero
arbitrio.
Sempre almeno dal II secolo d.C., si riconosceva valida una compravendita anche quando il
prezzo fosse determinato con riferimento ad una circostanza oggettiva, come si dice oggi,
per relationem (es: si aveva quando un fondo si vendesse ad un prezzo corrispondente al
denaro che l’acquirente aveva in quel momento nella sua cassaforte oppure in base al
prezzo del mercato della cosa nel giorno della vendita). Ciò che il diritto romano non
sembra aver ammesso era la possibilità di rimettere la fissazione del prezzo al mero
arbitrio del compratore: in tal caso, infatti, si parlava di “negozio imperfetto”.
Un’ultima problematica riguarda il “giusto prezzo”, vale a dire la possibilità di fissare
legalmente un prezzo vincolante per i contraenti. Fino all’età di Diocleziano [284 – 305 d.C.]
si è sempre applicato il principio per cui il prezzo era lasciato alla libera decisione delle parti,
dopo una o più o meno lunga fase di trattative; questo imperatore, di fronte ad una grave
situazione di crisi economica, tenta, invece, di imporre un prezzo legale massimo a tutte le
cose banali [nel senso di cose suscettibili di essere vendute] attraverso un suo editto,
ricordato come editto sui prezzi e pervenutoci attraverso varie epigrafi.
Nonostante la vigenza delle sue disposizioni sia stata breve, perché nessun si è conservata
nelle fonti giuridiche, nel Codice di Giustiniano sono rimaste due sue costituzioni, approvate
nel solco della stessa politica economica, dove si regola la questione del “giusto prezzo”
nelle compravendite di fondi. In esse si dispone che, se l’acquirente di un fondo,
consapevole dello stato di bisogno del venditore, l’avesse comprato ad un prezzo
minore della metà del suo valore, il venditore avrebbe potuto chiedere la rescissione del
contratto di compravendita, a meno che il compratore non avesse integrato il prezzo nella
parte mancante per arrivare almeno alla metà, riportando il contratto ad equità. La
violazione in tali casi del prezzo minimo legalmente previsto si sarebbe configurata per il
venditore in quella che, nel diritto intermedio, si chiamerà una “lesione oltre la metà” o
“enorme”.
→La caparra (arrha)
Il suo regime nel diritto romano viene costruito nel quadro della compravendita, dove si
delineano due tipi: la caparra confirmatoria (arrha confirmatoria) e la caparra penitenziale
(arrha poenitentialis). La prima era costituita dall’anticipazione di una parte del prezzo e
serviva a confermare l’avvenuta conclusione del contratto; la seconda, invece,
rappresentava la somma che avrebbero dovuto pagare i contraenti per recedere dal
contratto, di solito entro un dato termine.
Si è scelto perciò ̀ di dettare per entrambi un’identica disciplina: se era inadempiente o
voleva recedere dal contratto chi aveva ricevuto la caparra, la doveva restituire nel
doppio; qualora, invece, non avesse adempiuto o intendesse recedere la parte che aveva
dato la caparra, la perdeva. Questo regime si è tramandato fino agli ordinamenti moderni,
come quello italiano, che lo ha generalizzato a qualunque tipo di contratto.
→Le obbligazioni delle parti
dalla compravendita nascevano obbligazioni a carico di entrambe le parti contraenti: quella
dell’acquirente era di trasmettere la proprietà del prezzo al venditore, mentre su
quest’ultimo gravavano tre obbligazioni principali: consegnare al compratore la cosa che
formava oggetto di compravendita (tradere rem); garantirlo nel caso di evizione (praestare
evictionem) e garantire l’assenza di vizi occulti della cosa venduta.
1.Trasmettere la cosa (rem tradere)→ nella compravendita consensuale romana il venditore
non si obbligava a trasmettere la proprietà, dovendo semplicemente consegnare la cosa.
Quindi consegnare la cosa voleva dire trasferire il possesso e la disponibilità della stessa al
compratore: l’eventuale trasferimento della proprietà unitamente al possesso sarebbe stato
perciò irrilevante ai fini dell’adempimento dell’obbligazione.
Infatti, nella normalità dei casi, quando si trattava di res nec mancipi, la consegna della
cosa effettuata mediante traditio dal venditore che ne fosse il proprietario avrebbe avuto
anche effetti traslativi della proprietà. Lo stesso, però , non avveniva quando il venditore
consegnava una cosa non usa oppure una cosa che era sua, ma il cui atto di trasmissione
presentava un vizio formale. Da quanto detto emerge un dato fondamentale:
nell'esperienza del diritto romano, tranne una breve parentesi nell’età di Costantino la
compravendita ha sempre avuto e soltanto avuto effetti obbligatori, non assumendo mai il
carattere di contratto di contratti a effetti reali. Infatti, dalla sua conclusione nasceva
esclusivamente l’obbligazione del venditore di trasmettere la cosa all’acquirente ed il
passaggio del possesso [con eventuale trasferimento della proprietà], che rappresentava
l’adempimento di quell’obbligazione, richiede necessariamente un atto traslativo separato,
ancorché contestuale al perfezionamento del contratto: la tradizione o anche, se così
convenuto dalle parti, la mancipazione o la cessione in iure.
2. Garantire per l’evizione (evictionem praestare)→ strettamente connessa all’obbligazione
era quella di prestare la garanzia per l’evizione. L’evizione si aveva quando un terzo,
diverso dall’acquirente, intentava vittoriosamente una causa contro quest’ultimo, riuscendo a
provare di essere il proprietario della cosa venduta. Non bastava, quindi, che dicesse di
esserne il proprietario, doveva anche essere riconosciuto come tale all’esito di un
processo. L’evizione poteva anche essere parziale, se il diritto del terzo aveva ad oggetto
solo una parte della cosa oppure era un diritto reale limitato.
Le origini di tale garanzia risalgono alle XII Tavole che la ponevano in connessione con la
mancipazione (mancipatio) come forma più antica di vendita. Nel contratto consensuale la
garanzia del compratore si concretizzava, innanzitutto, nel dover assistere in giudizio
l’acquirente e nel sostenerne le ragioni. Se poi, nonostante quest’opera di assistenza,
avesse perso la causa, avrebbe dovuto risarcirgli i danni. La garanzia per evizione si
traduceva, pertanto, in due condotte: l’assistenza processuale prima ed il risarcimento dei
danni, qualora si fosse riconosciuto fondato il diritto del terzo.
Per lungo tempo tale garanzia era assunta dal venditore attraverso un contratto
accessorio alla compravendita, consistente, ancora una volta, in una stipulazione con
funzioni di garanzia, che poteva essere di due tipi: “stipulazione del doppio” (stipulatio
duplae) e “stipulazione che sia lecito avere” (stipulatio habère licère). Con la prima,
verificandosi l’evizione, il risarcimento dei danni dovuto dal venditore al compratore era pari
al doppio del prezzo ricevuto; questo tipo di stipulazione si utilizzava per le cose più
preziose oggetto di compravendita [res mancipi o anche gioielli, perle o preziosi in generale].
Il secondo tipo si impiegava per le cose meno preziose [ad esempio, gli animali non da
lavoro] ed il risarcimento, cui era tenuto il venditore, comprendeva la restituzione al
compratore del prezzo, maggiorato da una somma aggiuntiva eventualmente stabilita dal
giudice.
Alla luce di tale garanzia si comprende perché fosse ritenuta valida la vendita di una cosa
altrui. L’acquirente, infatti, era comunque tutelato: il rischio della sottrazione della cosa
comprata, in quanto appartenente ad un altro, era bilanciato dal risarcimento dei danni, nel
caso di evizione, con la restituzione del prezzo raddoppiato o maggiorato di una somma
ulteriore fissata dal giudice. Durante il I secolo d.C. , come si può notare già in Giavoleno, la
garanzia per evizione si considerava un elemento naturale del contratto. Le parti,
tuttavia, potevano concordemente rinunciarvi oppure ampliare o ridurre la garanzia. Una tale
evoluzione si può ritenere completata in età giustinianea.
Garanzia per i vizi occulti ed il regime previsto dagli edili curuli→ essendo la compravendita
un contratto fondato sulla buona fede, tutte le volte in cui il venditore sapeva che la cosa
venduta era affetta da un vizio non palese e non lo dichiarava al compratore, era
inadempiente al contratto e sorgeva a suo carico, una responsabilità per il risarcimento dei
danni, che si faceva valere con l’azione contrattuale (actio empti). Il termine “vizio” si riferiva
a vizi fisici e, nel caso di schiavi ed animali, anche psicologici. Questo sistema
presentava, però , dei limiti perché l’acquirente non risultava tutelato, qualora il venditore
avesse ignorato che la cosa venduta era affetta da un vizio occulto.
Ma tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C., si concretizza l’esigenza di tutelare il
compratore in misura più ampia, a prescindere dal fatto che il venditore sapesse o no del
vizio della cosa. Ci avviene sempre nell’ambito del diritto onorario (ius honorarium), ma,
questa volta, grazie agli edili curuli (qui era affidata la giurisdizione sulle transazioni
compiute nei mercati(cura annonae). Il regime da loro creato ha di mira in particolare le
vendita aventi ad oggetto due beni della massima importanza per l’economia dell’epoca: gli
schiavi e gli animali da traino e da lavoro.
Nel loro editto, gli edili prevedevano due azioni da esperire tutte le volte in cui lo schiavo o
l’animale presentasse vizi o malattie fisici non dichiarati dal venditore, risultando del tutto
irrilevante che lo stesso ne fosse a conoscenza o no: si poneva così, a suo carico, una
responsabilità più gravosa, di tipo “oggettivo”, perché indipendente da dolo o colpa.
Le azioni erano le redibitoria (actio redihibitoria) e l’estimatoria (actio aestimatoria o quanti
minoris). La prima veniva esercitata dal compratore al fine di risolvere la compravendita:
egli, infatti, in presenza di un vizio o malattia occulti manifestatisi dopo la compravendita,
chiedeva al venditore la restituzione del prezzo, rendendogli, a sua volta, lo schiavo o
l’animale “viziato”. La seconda azione non era finalizzata alla risoluzione del contratto, ma al
suo riequilibrio, poiché il compratore voleva ottenere la restituzione di quella parte del prezzo
corrispondente al diminuito valore della cosa venduta per la presenza del vizio. Diverso era
anche il termine per esercitare le due azioni: sei mesi per la prima, un anno, per la
seconda, decorrenti non dalla scoperta del vizio, ma dal momento in cui il compratore fosse
stato in grado di esercitare l’azione. Questo regime è stato successivamente esteso anche
all’ipotesi in cui il venditore avesse promesso la presenza di qualità nello schiavo o
nell’animale, rivelatesi poi inesistenti.
In età postclassica le due azioni ampliano progressivamente il proprio campo di
applicazione, giungendo a comprendere nella legislazione giustinianea, tutte le cose:
mobili, immobili o semoventi. Pure la garanzia per i vizi occulti e la mancanza della qualità
promesse viene a configurarsi gradualmente come un elemento naturale del contratto, che i
contraenti possono escludere, accrescere o ridurre. Entrambe le azioni sono passate
attraverso il diritto intermedio e sopravvivono ancora negli ordinamenti moderni.
→Il rischio del perimento della cosa
già il diritto romano avverte il bisogno di regolare la sopportazione del rischio nell’ipotesi di
perimento (venir meno dell’oggetto di un diritto o decesso per cause non naturali) della cosa
compravenduta dopo la conclusione del contratto e prima della consegna all’acquirente. Si
tratta naturalmente di un perimento non imputabile ai contraenti. Il perno su cui ruota è
che il rischio del perimento grava sul compratore, non stante la cosa non gli sia stata
trasmessa, a meno che il venditore non abbia specificamente assunto un’obbligazione di
custodia (es: supponiamo ad esempio, che tizio abbia venduto lo schiavo a Caio per un
certo prezzo e se sia obbligato a trasmetterglielo entro un mese.se prima di allora lo schiavo
sia deceduto di morte naturale, il rischio era a carico dell’acquirente, che doveva comunque
pagare il prezzo) Questa regola, chiaramente affermata nel diritto romano, ha esercitato una
certa influenza sul pensiero di alcune correnti giusnaturalistiche francesi, inducendole a
ritenere che il compratore sopportava il rischio perché, all’atto della conclusione della
vendita, era diventato, già con il consenso, proprietario della cosa, trovando così
applicazione il principio secondo il quale la perdita fortuita di una cosa ricade sul suo
proprietario.
→Clausole accessorie alla compravendita
all’interno del contratto di compravendita le parti potevano aggiungere ulteriori clausole
rispetto a quelle previste nel tipo contrattuale, al fine di regolare più adeguatamente il
proprio assetto di interessi. Esse si traducevano in patti aggiunti normalmente al momento
della conclusione del contratto e, fra di essi, tre risultano i più importanti:
1.la “legge commissoria” (lex commissoria) → si trattava di una clausola favorevole al
venditore, che produceva un effetto risolutivo sulla compravendita attraverso un
determinato meccanismo: il patto era sottoposto ad una condizione sospensiva (mancato
pagamento del prezzo alla scadenza del termine perentorio, che, quando si avverava, lo
rendiamo operativo con effetti risolutori sul contratto).
2.il “patto di migliore offerta entro un certo termine” (in diem addictio)→ il “patto di migliore
offerta entro un certo termine era frutto di un accordo tra venditore ed acquirente, per
cui, se entro un determinato termine un terzo avesse fatto una migliore offerta di prezzo, la
compravendita già conclusa si sarebbe risolta e la cosa oggetto della stessa sarebbe stata
aggiudicata a quel terzo miglior offerente. Anche questa clausola si inseriva
nell’interesse del venditore, avendo come finalità di conseguire un prezzo migliore rispetto
a quello già pagato, da intendersi non solo come prezzo migliore rispetto a quello già pagato
da intendersi non solo compre prezzo più alto, ma anche come migliori condizioni di prezzo.
Questa clausola rappresenta un’alternativa al sistema della vendita all’asta, detto nelle
fonti auctio o sub hasta [per il fatto che i prigionieri di guerra, venduti come schiavi al
miglior offerente, erano fatti passare sotto un’asta], la cui conclusione comportava un
procedimento: il venditore ricorreva ad un intermediario, il quale dava opportuna pubblicità
alla vendita e curava lo svolgimento di una gara fra i potenziali acquirenti, per scegliere
quello che avrebbe pagato il prezzo migliore. L’aggiudicatario prometteva il pagamento
all’intermediario, che provvedeva a soddisfare il venditore, a carico del quale era per posta
la spesa aggiuntiva del servizio realizzato dall’intermediario.
3.“patto di gradimento” (pactum discicentiae)→ con il “patto di gradimento” i contraenti
convenivano un periodo di prova, al termine del quale l’acquirente valutava se la cosa
comprata lo avesse soddisfatto, ridandola, se così non fosse stato, al venditore in cambio
della restituzione del prezzo. La clausola produceva perci effetti risolutivi, ma era inserita,
questa volta, nell’interesse del compratore.

Accanto ad esse, nelle fonti se ne incontrano altre due: il “patto per il riacquisto della
cosa venduta”, con il quale il riacquisto la cosa venduta a certe condizioni ed entro un dato
termine ed il patto con il quale si impegnava a preferire il venditore a tutti gli altri potenziali
acquirenti, nel caso in cui avesse voluto rivendere la cosa.

LA LOCAZIONE CONDUZIONE
Nello schema della locazione conduzione rientrano tre figure contrattuali, che, sulle orme
della tradizione romanistica, preferiamo definire e trattare separatamente.
1. locazione di una cosa [locatio conductio rei], mediante la quale il locatore
consegnava una cosa al conduttore, il quale la usava e ne traeva ai frutti per il
periodo di tempo convenuto, pagando al locatore un corrispettivo in denaro e
restituendogliela alla scadenza. Essa corrisponde, per usare una terminologia
moderna, alle nozioni dei nostri contratti di locazione e di affitto.
2. locazione conduzione di un’opera [locatio conductio operis], mediante la quale
il locatore consegnava una cosa al conduttore, il quale doveva realizzare un
risultato con riferimento ad essa, di regola entro un termine convenuto, ricevendo
in cambio un corrispettivo in denaro. Alla sua nozione si possono riportare, in via
generale, i nostri contratti di appalto, trasporto e d’opera.
3. locazione conduzione di attività lavorative [locatio conductio operarum],
mediante la quale il locatore metteva a disposizione del conduttore un certo
numero di giornate di lavoro per un periodo convenuto, ottenendone un
corrispettivo in denaro. Tale nozione equivale, nella sostanza, al nostro contratto
di lavoro subordinato.
In tutte e tre le figure si distinguono chiaramente come elementi oggettivi: la cosa o le
attività lavorative ed il corrispettivo in denaro. La cosa poteva essere corporale, sia
immobile che mobile, o anche incorporale→ un diritto, tra cui le fonti indicano alcuni diritti
reali, come l’usufrutto e la superficie, locati secondo lo schema della locazione di cosa. Il
corrispettivo in denaro era chiamato “mercede”.
→Locazione conduzione di una cosa (locatio conductio rei).
questa figura era finalizzata a mettere a disposizione del conduttore da parte del locatore
una cosa o un diritto in via temporanea, dietro il pagamento di una mercede [o canone]
mensile o annuale. Trattandosi di un contratto sinallagmatico o a prestazioni corrispettive, le
obbligazioni sorgevano a carico di entrambe le parti.
La prima obbligazione del locatore era quella di consegnare al conduttore la cosa o di
trasmettergli il diritto da utilizzare. Naturalmente, nei confronti della cosa locata, il conduttore
era un semplice detentore. La seconda obbligazione fondamentale del locatore consisteva
nel garantire al conduttore il pacifico godimento ed utilizzazione della cosa, quello che le
nostre fonti chiamano l’uti frui [usare e fruire della cosa]. Qualora fosse stato inadempiente,
il conduttore avrebbe avuto a disposizione contro di lui l’azione da conduzione per il
risarcimento dei danni.
Proprio in relazione alla seconda obbligazione si deve affrontare la questione delle
conseguenze che il locatore avrebbe dovuto sopportare nel caso in cui avesse venduto
l’edificio o il fondo agricolo dato in locazione. La vendita era valida, ma determinava
l’estinzione della locazione. Ma se il compratore, in quanto nuovo proprietario, poteva, in
termini moderni, risolvere il contratto di locazione e pretendere la restituzione della cosa
locata, il venditore, in quanto locatore, poiché si era obbligato verso il conduttore a
garantirgli il pacifico godimento della cosa, avrebbe dovuto risarcirgli il danno dovuti dalla
sua venuta meno.
Le obbligazioni principali del conduttore erano date dal pagamento della mercede, dalla
conservazione della cosa nello stato in cui l’aveva ricevuta e dalla sua restituzione alla
scadenza. Mancando il loro adempimento, sarebbe stato il locatore a disporre dell’azione da
locazione a fini risarcitori.
Nell’ipotesi di locazione di un fondo agricolo, solitamente la mercede si pagava per anno
e la durata del contratto era di cinque anni. Il conduttore si designava con il termine “colono”.
Inoltre, invece che in denaro, il canone poteva consistere in una parte del raccolto. In questa
locazione i giuristi si sono occupati ampiamente del problema di chi fosse chiamato a
sopportare il rischio della perdita del raccolto dovuta a forza maggiore o caso fortuito.
Secondo una distinzione risalente a Severio Sulpicio Rufo ed accolta ancora da Ulpiano, il
rischio di fenomeni dovuti ad una “forza alla quale non si pu resistere” gravava sul locatore,
che avrebbe dovuto esonerare il conduttore dal pagamento della mercede per quell’anno. Il
rischio di fenomeni non imputabili alle parti, ma inerenti alla coltivazione, restavano invece
a carico del conduttore, il quale era ugualmente tenuto a pagare.
Nella locazione di edifici o appartamenti, si preferiva designare il conduttore con il
termine “inquilino” ed il pagamento da parte sua della mercede, spesso indicata come
“pensione”, non avveniva su base annua, bensì mensile. Qui il regime delle cause di forza
maggiore è più semplice, nel senso che il rischio del loro accadimento si poneva a carico
del locatore con conseguente venuta meno dell’obbligazione di pagare il canone.
L’altra obbligazione del conduttore era quella di conservare la cosa ricevuta in locazione in
buono stato o, quanto meno, nello stato in cui gli era stata trasferita. Da qui nasce il
problema di come andassero ripartite le spese tra proprietario – locatore e conduttore ed il
criterio che si afferma è grosso modo quello di distinguere fra:
- spese di “ordinaria manutenzione” à erano a carico del conduttore, perché su di lui
gravava l’obbligo di mantenere la cosa locata in buono stato;
- “spese di straordinaria manutenzione” à sopportate dal locatore, in quanto tenuto a
garantire al conduttore il godimento della cosa locata.
Infine, se alla scadenza del termine il conduttore non restituiva la cosa, pur avendoglielo
richiesto il locatore, era responsabile per i danni; qualora, invece, il locatore non avesse
reclamato la restituzione, una volta scaduto il termine, ed il conduttore, a sua volta, non
l’avesse effettuata, si sarebbe verificato un rinnovo tacito del contratto di locazione per lo
stesso periodo.
→Locazione conduzione di un’opera (locatio conductio operis)
questa figura si caratterizzava per il fatto che il conduttore doveva realizzare un risultato in
rapporto alla cosa consegnatagli dal locatore. Siamo in presenza di quella che oggi si
chiama una obbligazione “di risultato”, che si considera adempiuta solo con il
raggiungimento dello stesso, occorrendo a tal fine la verifica ed approvazione del locatore. A
queste obbligazioni si contrappongono quelle “di mezzi”, dove non si richiede al debitore di
realizzare un risultato, bensì di impegnarsi secondo le modalità convenute.
Questa era la principale obbligazione del conduttore. Accanto ad essa sorgeva come
obbligazione accessoria quella di custodire la cosa o le cose ricevute sulle quali compiere il
risultato, con la conseguenza che, in caso di sottrazione o perimento delle stesse, sarebbe
sorta a carico del conduttore una responsabilità indipendente da ogni suo comportamento
doloso o colposo.
Da parte sua, il locatore aveva come obbligazioni principali quella di consegnare e mettere a
disposizione del conduttore la cosa o le cose, necessariamente corporali e di solito
infungibili, e quella di pagare la mercede, ossia il corrispettivo in denaro, per il risultato
raggiunto.
È nel settore del trasporto marittimo dove trova un’ampia diffusione il contratto di
locazione conduzione d’opera, con una ricca casistica trattata dalla giurisprudenza.
Il primo è preso in esame dal giurista Labeone e riguarda il trasporto di schiavi su una nave.
Tizio, proprietario di un certo numero di schiavi, conclude un contratto con Caio, il
comandante di una nave per trasportarli da un porto ad un altro. Durante il viaggio per mare
uno schiavo decede di morte naturale. La questione giuridica che si pone è se il proprietario
degli schiavi debba pagare al comandante della nave [o all’armatore] anche il corrispettivo in
denaro per lo schiavo morto. Labeone dà una decisa risposta negativa, in quanto per quello
schiavo non si è realizzato il risultato del trasporto al luogo d’arrivo. Paolo, riprendendo il
parere di labeone, osserva invece che occorre fare una distinzione, a seconda di quale
figura di locazione abbiano conclusi i contraenti:
- se si è trattato della locazione di tutta la nave di spazi interni a destra, dove farvi viaggiare
gli schiavi, erano locazione di cosa e di proprietà degli schiavi assumeva il ruolo di
conduttore, mentre il comandante della nave e quello del locatore. In tal caso, la morte dello
schiavo trasportato era irrilevante, non incidendo Sulla mercede che il conduttore e il
proprietario degli schiavi avrebbe comunque dovuto pagare in cambio dell’utilizzazione della
nave e gli spazi al suo interno.
- qualora invece, si sia conclusa una locazione di opera, Paolo è d’accordo con labeone,
dal momento che il risultato del trasporto non si è realizzato con riguardo allo schiavo morto
L’altro caso è quello in cui Tizio, proprietario di un certo numero di anfore, le fa trasportare
sulla nave di Caio, la cui capienza è di trecento anfore. Il quesito sottoposto al giurista,
sempre Labeone, è se il corrispettivo in denaro (nolo) che Tizio deve pagare a Caio vada
rapportato al numero di anfore effettivamente trasportate oppure a quelle corrispondenti alla
capienza della nave. La risposta anche questa volta è condizionata dalla figura di locazione
che i contraenti hanno voluto concludere.
Strettamente connesso al trasporto marittimo è il tema delle avarie, intese come danni
subiti dal carico a causa delle difficoltà della navigazione. In particolare, l’ordinamento
giuridico romano prende in considerazione l’ipotesi in cui fosse stato necessario gettare in
mare parte delle merci caricate, per permettere la continuazione della navigazione ed
impedire il naufragio. Se il sacrificio di una parte del carico consentiva la salvezza della
nave, che riusciva così ad entrare in porto, dal punto di vista giuridico si poneva il problema
di come ripartire i danni tra i proprietari delle merci caricate e poi gettate fuori bordo ed i
proprietari delle merci salvate grazie alla perdita delle altre. A tal fine si recepisce e adatta
una “normativa internazionale”, creata, probabilmente, da un insieme di consuetudini facenti
capo all’isola di Rodi. Essa, infatti, è tramandata con il nome di lex Rhodia de iactu dove il
termine lex [legge] non va inteso nel senso tecnico di provvedimento approvato da
un’assemblea popolare, bensì di regolamento e la locuzione de iactu sta ad indicare il getto
delle merci dalla nave in mare. Nel I secolo d.C. i proprietari delle merci lanciate in mare,
che nel contratto di trasporto erano i locatori, agivano con l’actio locati contro l’armatore o il
comandante della nave per il risarcimento dei danni; dopo aver pagato, l’armatore o il
comandante della nave aveva l’azione di regresso contro i proprietari delle merci salvate,
sotto forma di actio conducti, in quanto conduttore nel contratto di trasporto. Gli si
attribuiva, perciò , il potere non di trattenere le merci salvate, bensì di agire contro i loro
proprietari per ottenere la loro contribuzione al risarcimento dei locatori, le cui merci
erano gettate fuori bordo.

→Locazione conduzione di giornate di lavoro (locatio conductio operarum)


quest’ultima figura ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative calcolate in giornate,
dette operae. Qui locatore era la persona che metteva a disposizione la propria forza di
lavoro per il numero di giorni concordati e conduttore chi la utilizzava. L’obbligazione del
locatore non era perci mirata ad ottenere un certo risultato. In un testo il giurista Paolo offre
un’interessante soluzione su una questione di rilievo: nel caso in cui il locatore, quindi il
lavoratore, dopo la conclusione del contratto, non avesse potuto prestare l’attività per un
impedimento a lui non imputabili [come potrebbe essere una malattia], avrebbe avuto diritto
ugualmente al pagamento della mercede pattuita. Il lavoratore libero, che metteva a
disposizione la propria attività lavorativa in cambio di un corrispettivo in denaro, era anche
chiamato con il termine mercennarius, il cui significato era più neutro del moderno, in
quanto designava semplicemente il prestatore di lavoro per una mercede (merces).
Doveva, pertanto , trattarsi di attività lavorative manuali, in quanto le relazioni tra gli
esercenti delle arti liverali. Se il cliente non glielo avesse pagato, dal I secolo d.C., essi
avrebbero potuto rivolgersi ad un giudice attraverso una specifica cognizione processuale
diversa dal processo formulare.
→Contratti “misti” fra compravendita e locazione
le Istituzioni di Gaio, dedicano un certo spazio ad alcuni contratti per i quali i giuristi avevano
discusso se inquadrarli nella compravendita o nella locazione o invece ritenerli come figure
“miste”. Ne ricordiamo qui due:
1. aveva ad oggetto la consegna di schiavi gladiatori per combattere nell’arena, con la
clausola che il ricevente, dopo il combattimento, avrebbe pagato per ogni schiavo
restituito integro la somma di venti denari e per ogni schiavo ucciso o mutilato la
somma di mille denari. Nei confronti degli schiavi restituiti integri, si considerava
conclusa una locazione; invece, nei confronti di quelli morti o mutilati, si reputava
contratta una compravendita.
2. riguardava la realizzazione di un anello d’oro di una certa forma e peso da parte di
un orefice, che aveva utilizzato materiale proprio e ricevuto come corrispettivo una
somma di duecento denari. Un eminente giurista sabiniano, Cassio Longino, lo
definiva come un contratto misto: una compravendita avente ad oggetto la materia
[l’oro] ed una locazione d’opera avente per oggetto l’attività dell’orefice

IL MANDATO ED IL FENOMENO DELLA RAPPRESENTANZA


La trattazione dell’ultimo dei contratti consensuali, il mandato (mandatum) ci offre
l’opportunità di affrontare anche il fenomeno della rappresentanza diversa da quella legale
dei tutori e dei curatori.
→Le diverse figure di rappresentanti precedenti a Giustiniano
nel diritto arcaico esisteva certamente una forma di rappresentanza volontaria: quella
realizzata dalle persone sottoposte a potestà. Essa era per nata con un limite: tutti gli
acquisti effettuati tramite la loro attività nazionale venivano ad incrementare direttamente il
patrimonio dell’avente potestà, che poteva perciò essere solo migliorato, ma non peggiorato.
Nella fase storica successiva [III – II secolo a.C.] la rappresentanza organica dei soggetti a
potestà si perfeziona con la creazione delle azioni adiettizie e se ne afferma una seconda
specie: quella dell’attore o sindaco che agivano come rappresentanti diretti di un municipio o
di una colonia.
Con l’estensione dei traffici commerciali dopo le guerre puniche, sorge la necessità di
realizzare nuove forme di rappresentanza volontaria. Abbiamo così la nascita della procura
e del mandato.

La procura era un atto unilaterale recettizio con il quale un soggetto, detto dominus,
affidava ad un altro soggetto libero, il procurator, l’amministrazione di tutti i suoi affari e di
tutto il suo patrimonio. Il termine dominus non sta qui ad indicare il “padrone”, bensì il
“titolare” del patrimonio o “l’interessato”, mentre il procuratore, essendogli conferiti i poteri di
amministrare l’intero patrimonio del dominus, veniva designato nelle fonti come
procuratore di tutte le cose o di tutti i beni (procurator omnium rerum o omnium
bonorum). Costui era quindi legittimato a porre in essere non un singolo atto, ma tutti quelli
che servivano per la gestione di quel patrimonio. La sua era una forma di rappresentanza
indiretta, perché tutti gli effetti degli atti compiuti con i terzi ricadevano nella sua sfera
giuridica e poi, con atto separato, li doveva trasferire in quella del titolare.
I rapporti giuridici tra dominus e procurator erano regolati da un’azione chiamata “azione di
gestione di affari altrui”, che poteva essere diretta, quando veniva esercitata dal dominus
contro il procurator nel caso in cui non gli avesse trasmesso i risultati della sua attività, e
contraria, se, viceversa, fosse stato il procuratore ad agire contro il titolare, che, ad esempio,
non avesse voluto rimborsargli le spese o risarcirgli i danni subiti nell’amministrazione del
patrimonio.
→Mandato
si tratta di un contratto consensuale imperfettamente bilaterale, in forza del quale un
soggetto, detto mandante, dava incarico a un altro soggetto, detto mandatario, di svolgere a
titolo gratuito un’attività, solitamente giuridica, per suo conto. Dal mandato discendeva
dunque una forma di rappresentanza indiretta, per cui il mandatario agiva in nome proprio e
per conto del mandante, con la conseguenza che avrebbe dovuto trasmettere a quest’ultimo
tutti gli effetti della sua attività ricadenti dapprima su di lui. La spendita del nome detta
anche contemplatio domini [indicazione del titolare dell’affare], risulta in generale
irrilevante proprio perché il mandatario agisce in nome proprio e per conto del mandante.
Il contratto era imperfettamente bilaterale, perché obbligato era sempre il mandatario, il
quale doveva eseguire l’incarico ricevuto nei modi e nei limiti stabiliti dal mandante. Per
quest’ultimo nasceva un’obbligazione solo in caso di spese o danni. L’oggetto dell’incarico
doveva essere lecito. Se invece il mandatario fosse andato oltre, perché, ad esempio, ha
comperato un fondo ad un importo maggiore a quello indicato dal mandante, l’atto compiuto
era valido, ma vincolava il solo mandatario, che non avrebbe potuto trasferirne gli effetti al
mandante né rivalersi contro di lui. Affinchè ciò avvenisse, era necessario che il mandante
ratificasse l’attività svolta dal mandatario oltre i limiti del mandato; tale ratifica nel linguaggio
giuridico latino si denominava ratihabitio ed era l’unico modo attraverso il quale il mandante
avrebbe potuto essere il destinatario finale dell’attività.
Anche se il mandato era gratuito, perché non era prevista una remunerazione per il
mandatario, il mandante sarebbe stato obbligato a tenerlo esente da spese o danni derivanti
dall’esecuzione dell’incarico. Conseguentemente, quando il mandatario non aveva eseguito
l’incarico o lo aveva eseguito in modo difforme, il mandante poteva agire contro di lui con
l’azione di mandato diretta, finalizzata al risarcimento dei danni, mentre, qualora il mandante
non avesse rimborsato le spese o risarcito i danni al mandatario, questi avrebbe esperito
contro di lui l’azione di mandato contraria.
Va svolta una breve riflessione sull’estinzione del mandato per revoca e per morte di una
delle parti, perché emerge un profilo più generale che caratterizza taluni rapporti obbligatori.
Infatti, qualora l’incarico non avesse ancora avuto inizio il mandante poteva revocarlo,
rendendo dal contratto, ed una tale facoltà sussisteva per gli eredi anche nel caso di morte
del mandante o del mandatario.

L’estinzione del mandato per morte di uno dei contraenti rappresentava un’eccezione alla
trasmissibilità in via ereditaria dei rapporti obbligatori e ci si spiega per il carattere
essenziale che ha la scelta di quella determinata persona.
→Mandato e gestione di affari altrui
quando aveva ad oggetto il compimento di uno specifico atto giuridico, si configurava come
un mandato speciale: ad es., il mandante dava incarico al mandatario di concludere una
compravendita o un mutuo o comunque un singolo atto. In seguito, probabilmente durante il
I secolo a.C., il mandato viene ad assumere anche carattere generale: si parlava allora di
mandato generale, con il quale, ad esempio, il mandante dava incarico al mandatario di
amministrare tutto il suo patrimonio o una branca di esso o ancora la contrattazione inerente
alla sua attività economica. In tal modo, il mandato generale si è progressivamente
sovrapposto alla procura, come atto che regolava i rapporti tra dominus e procurator
omnium rerum.
Le tappe di questo procedimento di graduale sostituzione sono difficili da ricostruire, dato lo
stato attuale delle fonti, ma il risultato finale è chiaro: da un lato, il mandato viene a
racchiudere in sé la procura, dall’altro, giungono a separarsi nitidamente mandato e gestione
di affari altrui, caratterizzata dalla mancanza dell’accordo di volontà, presente invece nel
mandato.

LA ROTTURA DEL PRINCIPIO DELLA TIPICITÀ CONTRATTUALE: I CONTRATTI INNOMINATI


Per capire come siano sorti i contratti innominati è fondamentale un lungo frammento di
Ulpiano, dove si riprende un parere di Aristone, secondo il quale una convenzione, intesa
naturalmente come un accordo di volontà , anche quando non corrispondeva ad un contratto
tipico, ma presentava una causa, dava comunque vita ad un contratto, privo di un nome,
idoneo per a generare obbligazioni. La denominazione di contratti innominati e l’inclusione
in una categoria unitaria è opera del giurista bizantino Stefano, coevo di Giustiniano.
Partendo dal parere di Aristone, si sono individuate quattro figure di contratto innominato,
designate tutte con delle forme verbali.
1. ti do affinché tu dia (do ut des), dove uno dei contraenti trasferisce all’altro la
proprietà di una cosa, affinché questi, a sua volta, gli trasferisca la proprietà di
un’altra cosa
2. ti do affinché tu faccia (do ut facias), dove un contraente trasmette la proprietà
di una cosa, affinché l’altro esegua un’altra attività diversa dal dare.
3. faccio affinchè tu dia (facio ut des), dove un contraente esegue una certa
attività affinché l’altro gli trasmetta la proprietà di qualcosa.
4. faccio affinché tu faccia (facio ut facias), dove un contraente compie una certa
attività affinché l’altro compia, a sua volta, un'altra attività, in entrambi i casi
diversa dal dare.

Una prima caratteristica che accomuna i contratti innominati era la loro natura
sinallagmatica, non potendo che essere a prestazioni corrispettive. Un secondo elemento
fondamentale era la presenza di una causa.
Se la sussistenza della causa era indispensabile nei contratti innominati romani, il suo
significato appare discusso, poiché le fonti non lo hanno precisato. Secondo l’interpretazione
data dai Glossatori ed ancor oggi prevalentemente seguita, la causa, alla quale fa
riferimento Aristone, consisteva nell’avvenuta prestazione da parte di uno dei contraenti con
la conseguenza che non bastava il solo accordo tra di loro per obbligarsi, ma occorreva
che uno avesse adempiuto affinchè anche l’altro lo dovesse fare. Quindi il concetto di
causa indicherebbe l’esecuzione di una delle prestazioni, da cui deriverebbe la necessità di
eseguire la controprestazione, avvicinando, da questo punto di vista, i contratti innominati a
quelli reali.
Ove una parte avesse adempiuto e l’altra invece non lo avesse fatto, chi aveva adempiuto
avrebbe potuto scegliere se chiedere alla controparte l’adempimento oppure domandare la
risoluzione del contratto, secondo il proprio interesse.
Qualora il contraente adempiente pretendesse la contro prestazione, disponeva di un’azione
che più nomi nelle fonti giuridiche. Se invece avesse voluto domandare la risoluzione del
contratto, la formula dell’azione sarebbe cambiata, a seconda della figura contrattuale.
Infatti, nelle due in cui la prima prestazione era un dare il contraente che aveva trasmesso
all’altro la proprietà di una cosa poteva richiederne la restituzione [e risolvere così il
contratto] con una condictio [azione di ripetizione], che qui prendeva il nome di condictio
causa data causa non secuta, nel senso di “azione per la restituzione di una cosa data in
proprietà, a cui non ha fatto seguito la controprestazione di trasmettere in proprietà un’altra
cosa”. Nelle altre due figure, siccome l’adempimento è consistito in un’attività di facere, di
cui non si poteva perciò chiedere la ripetizione, il contraente che aveva adempiuto avrebbe
potuto avvalersi solo dell’azione di dolo, quando l’inadempimento dell’altro fosse stato
internazionale

LE NUOVE FIGURE DI CONTRATTO


Dai contratti innominati appena descritti vengono gradualmente a formarsi nuovi tipi
contrattuali, con un proprio nome e disciplina.
→La permuta
la permuta si delinea dal primo contratto innominato e, quando viene ad acquistare la
propria autonomia, presenta due elementi che la differenziano nettamente dalla
compravendita: lo scambio di cosa contro cosa e la necessità che entrambe le parti
trasmettano la proprietà delle cose scambiate. Nello scambio fra cose non era tuttavia
escluso che si potesse anche aggiungere un’eventuale differenza in denaro.
(un'obbligazione nasceva dunque solo nel caso chi avendo ricevuto una cosa fosse tenuto a
darne un'altra secondo quanto convenuto)
→ Il contratto estimatorio (aestimatum)
è un’altra figura che si tipicizza in base ad un contratto innominato, il do ut des o il do ut
facias, e rappresenta la base storica del moderno contratto estimatorio. In essa un
contraente trasmetteva una cosa stimata in denaro all’altro, il quale, entro un termine
stabilito, o la vendeva e ne pagava a chi gliela aveva data il prezzo corrispondente alla
stima oppure, se non fosse riuscito a venderla, gliela avrebbe restituito. Colui che
consegnava la cosa aveva il vantaggio di ricevere l’equivalente della stima, nel caso di sua
vendita, mentre chi la riceveva cercava di venderla ad un prezzo più alto, mirando a lucrare
la differenza, e, se non ci fosse riusciti, gli sarebbe bastato restituire la cosa.
-Si tratta di un contratto particolarmente adatto alle esigenze commerciali, con rischi
limitati a carico dei contraenti.
→Il precario (precarium)
nel diritto giustinianeo si trasforma in contratto innominato anche il precario, consistente
nella concessione in godimento gratuito ad altri di un bene immobile, revocabile per semplice
richiesta.
→La transazione (transactio)
essa consiste in un contratto, mediante il quale le parti, attraverso reciproche concessioni o
rinunce, prevenivano una possibile lite giudiziaria [un processo] tra di loro o ponevano
termine ad una lite già instaurata tra di loro, per prima che fosse decisa in via definitiva.
Anche la trasazione era una causa sottostante ad una pluralità di atti.
Nel I secolo a.C. il giurista Aquilio Gallo inventa una specifica stipulazione, che le nostre
fonti ricordano appunto come stipulazione aquiliana (stipulatio Aquiliana), facilmente
utilizzabile anche per realizzare una prospettate o si sarebbero potute prospettare
controversie in relazione a tali rapporti, gli stessi venivano trasfusi in un’unica stipulazione,
con la quale si riducevano ad un solo rapporto obbligatorio, quello nascente dalla
stipulazione, avente ad oggetto una somma di denaro.

I NUDI PATTI E I C.D. PATTI PRETORI O VESTITI


→Nudi patti
la conventio in quanto accordo di volontà non era solo alla base dei contratti tipici e di quelli
innominati, ma anche dei patti (pacta). Nell’esercizio della propria autonomia, infatti, i
contraenti potevano fare la scelta tra un contratto tipico o uno innominato, adattandolo, a
seconda delle circostanze, alle proprie esigenze concrete; in alternativa potevano, per ,
regolare il proprio assetto di interessi mediante un nudo patto (pactum nudum), non
corrispondente cioè ad una figura contrattuale.
Un nudo patto faceva nascere semplici impegni di condotta, non configurabili per come
obbligazioni. Ulpiano lo definisce come “volontà e consenso di due o più persone su una
stessa cosa”.
Per i nudi patti lo strumento previsto per farne rispettare il contenuto non era un’azione,
perché non davano vita ad obbligazioni, bensì un’eccezione, chiamata “eccezione di patto
convenuto”. Questa realtà viene indicata dai giuristi romani e poi da quelli medievali con
l’espressione i nudi patti partoriscono un’eccezione e non un’azione (nuda pacta pariunt
exceptionem, non actionem).
→Altri significati del termine patto
nel linguaggio giusprivatistico romano, alla parola patto vengono attribuiti anche ulteriori
significati, che sottintendono per sempre l’accordo di volontà di due o più parti.
1. Uno è quello di “clausola aggiuntiva di un contratto”, come la lex commissoria o il
pactum displicentiae nella compravendita. I giuristi precisano che nei contratti
tutelati da azioni di buona fede [come la compravendita, la locazione, la società], il
patto aggiunto al momento della conclusione del contratto si riteneva incorporato in
esso, diventandone una clausola da cui discendeva una vera e propria
obbligazione. Per i contratti di stretto diritto, invece, i patti aggiunti in tale momento
si configurano sempre come nudi patti e sono quindi inidonei a generare
obbligazioni. I patti convenuti ad un certo intervallo di tempo dalla conclusione del
contratto assumevano invece sempre il carattere di nudi patti e, in quanto tali, tutelati
solo con eccezioni, senza che rilevasse la distinzione tra contratti di buona fede e di
stretto diritto.
2. Un altro significato di patto è quello di “negozio costitutivo di un diritto reale”. Tra gli
esempi più importanti, nelle fonti del diritto classico, troviamo il patto di ipoteca
(conventio pignoris) e le pattuizioni e stipulazioni (pactiones et stipulationes) per
costituire su fondi provinciali l’usufrutto e le servitù prediali. Nell’età postclassica si
affiancano ad essi altri patti, detti patti legittimi (pacta legittima), perché introdotti da
costituzioni imperiali (leges), diretti alla costituzione di una dote (pactum dotis) o alla
effettuazione di una donazione (pactum donationis).
3. Infine, un ulteriore significato di patto è quello di accordo per modificare o
estinguere un rapporto obbligatorio. Se, infatti, il contratto era indispensabile per
crearlo, bastava un semplice patto per la sua modifica ed estinzione.

→Patti pretori o vestiti


Secondo un procedimento analogo a quello visto per i contratti innominati, anche alcuni tipi
di nudi patti si tramutano in figure contrattuali per intervento del pretore, il quale concede a
loro tutela non più una semplice eccezione, bensì una vera e propria azione. In tal modo si
riconosceva al patto la capacità di far nascere un rapporto obbligatorio, indicato dalle fonti
con il termine actione teneri per rimarcarne appunto l’origine pretoria. Per questo i
medioevali li qualificano come “patti pretori”, facendoli rientrare insieme ai “patti legittimi”
nella categoria dei “patti vestiti” (pacta vestita), contrapposta ai “patti nudi” (nuda pacta),
dove la veste è rappresentata dalla forma contrattuale che gli proviene dall’azione introdotta
dal pretore o dalle costituzioni imperiali.
Il primo che ricordiamo è il constitutum debiti propri o alieni, detto anche pecunia
constituta, che potremmo definire come la promessa di pagare entro un termine perentorio
un debito proprio o altrui. Chiaramente qui la promessa non è contenuta in una stipulatio,
ma è libera da forme. Quando si trattava di un debito proprio, la pattuizione era con il
creditore, che concedeva al debitore una dilazione nel pagamento; nel caso di constitutum
debiti alieni, invece, colui che prometteva di pagare svolgeva la funzione di garante
personale. In entrambe le ipotesi, il debito doveva avere ad oggetto una determinata somma
di denaro o quantità di cose fungibili.
Poi, un altro gruppo di patti che “si contrattualizza” è quello dei recepta, così chiamati in
quanto nell’editto pretorio ricorrevano i termini receptum e recepticia per qualificare,
rispettivamente, questo tipo di patti e l’azione per farne valere il contenuto.
- Il primo è quello con cui tre categorie di imprenditori – armatori di navi (nautae), titolari di
albergo (caupones) e di stazioni di cambio con annessa locanda (stabularii) – si obbligavano
a restituire sane e salve le cose dei propri clienti portate nella nave, nell’albergo o nella
stazione di cambio. Il suo nome è receptum nautarium, cauponum et stabuloriorum. Se
fossero periti [perché distrutti o rubati] oppure danneggiati, il titolare dell’attività
imprenditoriale era recepticia. Da sottolineare che la sua responsabilità per la mancata
restituzione si valutava non sulla base dei criteri soggettivi del dolo o della colpa, bensì in
modo “oggettivo” e sussisteva anche quando il furto o il danno fossero stati commessi da un
dipendente dall’imprenditore o da un altro cliente o da un autore ignoto.
- Abbiamo poi un secondo patto, qualificato come receptum, consistente nella promessa di
un banchiere di pagare un debito di un proprio cliente rivolta al creditore del cliente stesso.
Sulla base di una notizia contenuta nella Parafrasi di Teofilo alle Istituzioni giustinianee,
dove si dice che queste promesse fossero fatte da un banchiere, i moderni lo denominano
receptum argentarii. Si tratta, in sostanza, di una garanzia bancaria rientrante fra le
garanzie personali e caratterizzata da una sua autonomia rispetto all’obbligazione principale.
- Il terzo ed ultimo tipo era il receptum arbitri, con il quale un arbitro, scelto dalle parti sulla
base di un loro accordo [detto compromesso, compromissum], al fine di risolvere una
controversia in via alternativa al processo ordinario, si impegnava verso le stesse ad
emettere il lodo (sentenztia) nei termini pattuiti. Qualora non lo avesse fatto, sarebbe
intervenuto il pretore per costringerlo.

LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO E LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE


I quattro contratti consensuale [compravendita, locazione conduzione, società e mandato], in
quanto si perfezionavano con il solo consenso comunque manifestato, erano gli unici che
potevano essere conclusi tra persone lontane, mediante lettera o messaggero. Lo stesso
valeva anche per quelle convenzioni che sfociavano in nudi patti, anziché in contratti.
Manca, però , l’elaborazione di una teoria su come si dovesse formare il consenso tra parti
assenti e ritenere così concluso il contratto, lasciando aperta la strada a soluzioni valide
caso per caso. Solo con riguardo al contratto verbale della stipulatio, che pur esigeva la
presenza dei contraenti al momento perfezionativo, si era manifestata per lungo tempo
l’imprescindibile necessità di una esatta corrispondenza tra il tenore della domanda ed il
contenuto della risposta.
È questo il quadro su cui ha operato la scienza giuridica medievale e moderna, che,
soprattutto per impulso del grande giurista giusnaturalista Ugo Grozio [1583 - 1645], è
riuscita gradualmente a costruire il regime della proposta ed accettazione nella formazione
del consenso, specie tra assenti, per ogni tipo contrattuale, costituendo la base dell’attuale
normativa in materia.
Circa la fase delle trattative precontrattuali, il diritto romano non delinea una disciplina
organica dei doveri ad esse inerenti, né una categoria generale di responsabilità per la loro
rottura o per il mancato raggiungimento di un contratto valido ed efficace.
Un primo esplicito “dovere precontrattuale di informazione” può essere individuato nella
particolare forma di responsabilità, imposta ai venditori all'editto degli edili curuli, per i vizi
occulti di schiavi o animali compravenduti nei mercati, o per mancanza in essi delle qualità
promesse. Queste clausole edittali erano particolarmente rigorose, in quanto dalla violazione
dei doveri da esse prescritti discendeva una responsabilità di tipo “oggettivo” a carico del
venditore.
Inoltre, i giuristi romani, nel risolvere la fattispecie concrete, hanno preso in considerazione i
comportamenti intenzionali, assunti nelle trattative e tesi ad affermazioni menzognere o a
reticenze capaci di produrre un inganno sulla determinazione della volontà della controparte.

LE PATOLOGIE DELL' ACCORDO DI VOLONTÀ


Il diritto romano non produce elaborazioni teoriche sulla non corrispondenza tra la volontà
e la sua manifestazione e sulla nascita di un consenso “viziato”, ma le relative problematiche
sono conosciute e vengono puntualmente affrontate e risolte in relazione a casi concreti. Un
primo sforzo di dare un certo ordine alla materia si denota solo nella codificazione
giustinianea.
● Riserva mentale e simulazione→ seguendo le concettualizzazioni moderne,
osserviamo, innanzitutto, che nessuna rilevanza era data al fenomeno qualificato
dalla scienza giuridica medievale come riserva mentale, consistente nella
dichiarazione di una volontà che in effetti non esisteva, ma la cui assenza era tenuta
segreta dall’autore della dichiarazione.
Un’ipotesi ben più importante di divergenza tra la volontà e la sua dichiarazione si ha
nella simulazione, che ricorre quando si finge l’esistenza di un accordo per porre in
essere un atto o un negozio, mentre in realtà le parti non intendono realizzarne
alcuno o intendono realizzarne uno diverso da quello apparentemente concluso. In
quest’ultimo caso si parla di un atto o negozio simulato e di un atto o negozio
dissimulato. La simulazione viene configurata come istituto unitario solo a partire
dalla scienza giuridica intermedia, che sfrutta una serie di appigli presenti nelle fonti
romane, fornendo le basi alla regolamentazione moderna.
Fino a Diocleziano [284 – 305] i casi riconducibili alla simulazione assoluta e a quella
relativa erano trattati allo stesso modo e portavano alla medesima conseguenza
dell’invalidità̀ dell’atto simulato e di quelli che ne dipendevano.
Con riguardo al fenomeno della simulazione relativa, i casi trattati riguardavano
contratti di vendita, locazione e società che nascondevano una donazione: nei primi
due, ci avveniva quando il corrispettivo in denaro era simbolico o inesistente,
mentre, nell’ultimo, quando uno dei soci permetteva all’altro di parteciparvi senza
effettuare apporti, in soluzione implicava sia l’invalidità del contratto simulato che
l’impossibilità di configurare una donazione.
Sempre in età dioclezianea si consolida anche un analogo indirizzo in rapporto a
fattispecie, frequenti nelle provincie orientali, in cui un documento attestava la
conclusione di un atto o negozio diverso da quello effettivamente voluto. Il problema
era divenuto rilevante dopo l’applicazione del diritto romano a tutti gli abitanti
dell’Impero seguita all’estensione della cittadinanza nel 212, in quanto negli
ordinamenti di quelle province spesso i documenti, anziché avere finalità probatorie,
servivano per la conclusione di atti o negozi.
● Vizi della volontà→ a partire dalla tradizione giuridica intermedia sono chiamati vizi
della volontà: errore, dolo e violenza morale. Con tale locuzione si intende rimarcare
che la dichiarazione fatta dal contraente corrisponde alla sua volontà, ma che
quest’ultima si è formata non correttamente, risultando appunto viziata. La
conseguenza era l’invalidità del contratto, senza teorizzare, da parte delle nostre
fonti, tra nullità [quando il negozio non si considera mai venuto in essere] ed
annullabilità [quando il negozio è venuto in essere, benchè viziato, e produce i suoi
effetti fino alla sentenza che li annulla].
- Errore→ nel diritto romano non rileva la differenza tra errore nella
dichiarazione o errore ostativo ed errore vizio della volontà: il primo determina
una divergenza tra dichiarazione e volontà e dipende, ad esempio, da un
fraintendimento, una svista o una cattiva comprensione di una dichiarazione o
di un comportamento altrui, mentre il secondo non incide sulla dichiarazione,
che effettivamente corrisponde alla volontà, ma fa sì che quest’ultima non sia
conforme ai veri intenti del soggetto. La mancata distinzione nelle fonti
romane ha una sua razionalità, dovuta alla difficoltà di capire quando si fosse
in presenza dell’uno o dell’altro tipo di errore.
Emerge invece la differenza tra errore di diritto ed errore di fatto, il primo era
inescusabile in quanto non si poteva addurre come giustificazione la non
conoscenza dell’ordinamento giuridico. Nell’esperienza romana questa regola
subisce un’attenuazione solo per i minori di venticinque anni, per i militari e, in
alcuni casi, per le donne e per le persone grandemente ignoranti (i rustici)
attraverso rimedi creati dal pretore.
L’errore di fatto, per determinare l’invalidità del contratto o dell’atto, doveva
essere scusabile ed essenziale. Scusabile significa che non doveva trattarsi
di un errore grossolano, che qualunque persona di buon senso avrebbe
potuto riconoscere e dunque non dovuto a supina ignoranza o cassa
negligenza, mentre l’essenzialità va valutata in supporto al tipo di errore.
La scienza giuridica fin da epoca medioevale ha elaborato varie tipologie di
errore, attribuendo a ciascuna di esse una diversa rilevanza ai fini
dell’invalidità del contratto.
- Un primo tipo era l’error in negotio, che si aveva quando le parti sbagliavano
sull’atto da compiere. Si trattava di un errore rilevante, che determinava la
sua invalidità.
- Un secondo tipo era l’error in persona, configurabile quando si equivocava
nell’individuazione della controparte o del destinatario dell’atto oppure in una
sua qualità determinante. La rilevanza di esso variava a seconda dei casi: per
esempio sussisteva nel mandato. L’errore sul nome di una persona non
produceva effetti invalidanti, purchè si capisse in concreto verso chi fosse
diretta la volontà di chi compiva l’atto.
- Poi si parlava di un terzo tipo: l’error in corpore, che colpiva l’oggetto del
contratto o dell’atto ed era sempre rilevante ai fini dell’invalidità dello stesso.
- Un quarto tipo era l’error in substantia, relativo ad una qualità essenziale
dell’oggetto del contratto o dell’atto, come quando il compratore credeva di
comperare una botte di vino, che invece conteneva aceto. Era ritenuto
rilevante ed aveva come conseguenza l’invalidità. Quando atteneva alla
materia di cui si componeva un oggetto si qualificava come error in materia
e produceva anch’esso l’invalidità. Non aveva effetti, invece, l’error in
qualitate, concernente una qualità non essenziale, da valutare alla stregua
della volontà delle parti.
- Un quinto tipo era l’error in quantitate, relativo alla quantità di un elemento
oggettivo del contratto o dell’atto e determinava solitamente la sua validità per
la quantità minore.
- Infine abbiamo l’error in causa che si riferiva ai motivi o circostanze di fatto
per cui si compiva un atto, risultando irrilevante per la validità dello stesso.

Grazie all’elaborazione sistematica della scienza giuridica intermedia, il nucleo del regime
romano è passato agli ordinamenti moderni, come quello italiano.
→Dolo (dolus malus)
si fa riferimento al dolo negoziale, perché commesso al fine di “viziare” la volontà di un’altra
persona e indurla a concludere un atto o un negozio. Le nostre fonti distinguono il vero e
proprio dolo, qualificato dolus malus, letteralmente “dolo malvagio”, che provocava
l’invalidità dell’atto o negozio, ed è un dolo “buono”, ammesso e chiamato perciò dolus
bonus. Quest’ultimo consisteva normalmente nell’esaltazione delle qualità di una cosa per
invogliare la controparte a concludere un contratto ed era tollerato al fine di favorire la
circolazione di beni e servizi.
→Dolus malus
si sostanziava in artifici o raggiri che un soggetto poneva in essere per ingannare un altro
soggetto, traendolo in errore e portandolo alla conclusione di un atto non voluto.
Concettualmente anche il dolo è causa di un errore della controparte, ma sul piano giuridico
viene disciplinato, già nel diritto romano, come vizio della volontà a sé stante.
Ulpiano ci tramanda due definizioni di dolo: la più antica è di Servio Sulpicio Rufo, secondo
il quale il dolo è “una certa macchinazione per ingannare un altro, che si ha quando una
cosa è simulata e in concreto ne è fatta un’altra.
La seconda definizione è attribuita ad Antistio Labeone, il quale, rilevando che il dolo può
sussistere anche senza simulazione, ne propone la più ampia definizione di “ogni furbizia,
inganno e macchinazione adibiti per circonvenire, ingannare e indurre in errore un altro”.
Nel diritto arcaico, non era riconosciuta rilevanza al dolo, per cui l’atto che ne era viziato
produceva ugualmente i suoi effetti, poiché si osservassero le formalità prescritte. Una prima
rilevanza è data dal pretore peregrino quando introduce le azioni di buona fede a tutela di
determinati contratti, come compravendita, locazione, mandato. In essi gli atteggiamenti
dolosi di una parte non erano compatibili con la buona fede che ne era il fondamento, con la
conseguenza che chi li avesse subiti poteva ottenere l’annullamento degli effetti del contratto
in due modi: opponendosi in sede processuale, con un’eccezione, alla richiesta di
adempimento avanzata dall’autore del dopo oppure esercitando l’azione contrattuale per
ottenere la restituzione di quanto dato o il risarcimento dei danni.
Tali rimedi non erano per sufficienti, perché non trovavano applicazione per gli atti ed i
rapporti contrattuali di stretto diritto, come mutuo e stipulatio; pertanto fu introdotto uno
specifico editto de dolo da Aquilio Gallo durante la sua pretura del 66 a.C., contenente
l’eccezione di dolo e l’azione di dolo.

Mediante l’eccezione, la parte che aveva subito il dolo respingeva in via giudiziale le pretese
di chi l’aveva commesso, ottenendo la liberazione dal vincolo assunto. Se fosse stato la
vittima del dolo a voler ottenere l’annullamento, avrebbe utilizzato l’actio de dolo, con la
quale puntava a far ristabilire dal giudice la situazione giuridica preesistente ove ciò non
fosse stato possibile, a far condannare l’autore del dolo al risarcimento dei danni.
Non esistono prove certe che, già nel diritto romano, fosse presente, sia pure in germe, la
distinzione tra dolo determinante e dolo incidente che si sviluppa a partire dai Glossatori ed
è accolta ancor oggi nel nostro Codice civile.
→Violenza morale (metus)
nelle fonti romane si denomina metus [letteralmente timore] o anche solo vis, cui i giuristi
intermedi aggiungono la qualifica di compulsiva, proprio per rimarcare che si tratta di
violenza morale e non fisica. Questo vizio della volontà consisteva nella minaccia di un
male grave e ingiusto rivolta ad un soggetto, ai suoi cari o ai suoi beni per indurlo a
concludere un certo atto.
L’evoluzione del metus è stata parallela a quella vista per il dolo. Il più antico
riconoscimento si ha nell’ambito delle azioni nascenti dai contratti di buona fede, in cui la
vittima della violenza poteva farla valere, in via di difesa o di attacco, contro chi traeva
vantaggio dal negozio viziato ed ottenerne l’annullamento.
L’azione, la cui denominazione completa era azione per l’atto che sarà stato compiuto
per timore di una violenza, concorreva in via alternativa con il rimedio della in integrum
restitutio e veniva esercitata da chi aveva subito la minaccia ai fini dell’annullamento
dell’atto, con conseguente ripristino della situazione giuridica precedente disposto dal
giudice. Si qualificava come un’azione in rem per sottolineare che la violenza poteva
provenire da chiunque avesse tratto vantaggio dal negozio viziato e non necessariamente
dal convenuto. Qualora, per , la vittima intentasse l’azione dopo un anno dal compimento
della violenza, allora l’ammontare della condanna scendeva dal quadruplo all’importo
semplice del risarcimento dei danni, previa valutazione di tutte le circostanze da parte del
pretore.
→ L’actio metus
è definita come azione penale e la condanna nel quadruplo è considerata comprensiva
sia della pena che del ristoro patrimoniale, in base sempre alle parole di Ulpiano. Si sarebbe
potuta anche impiegare contro gli eredi di chi si fosse approfittato dell’atto compiuto sotto
minaccia, ma in tal caso la condanna sarebbe stata nella sola misura del loro effettivo
arricchimento, in quanto la pena è personale ed intrasmissibile. Mediante l’eccezione, la
persona minacciata poteva difendersi dalle richieste giudiziali di compimento o di
esecuzione dell’atto viziato, opponendola alla controparte anche quando l’autore della
violenza fosse stata una persona diversa.

L'INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO


L’interpretazione negoziale da parte dei giuristi avveniva normalmente in sede di responso,
in relazione a fattispecie concrete, ma i criteri indicati tendevano poi ad assumere la portata
di canoni più generali.
Un ruolo primario era riconosciuto all’interpretazione soggettiva diretta a comprendere ciò
che le parti avevano in concreto voluto. Siccome occorreva ricostruirne il consenso
attraverso le dichiarazioni fatte, andavano, in primo luogo, applicati criteri linguistici e
logici, ma, quando la lettera del contratto restava oscura o ambigua, si dava prevalenza alla
volontà effettiva sulla base della sua verosimiglianza in forza di criteri ispirati a quanto
avviene comunemente.
L’interpretazione soggettiva non era per la sola a valere, venendo integrata, se necessario,
dal ricorso ad alcuni parametri generali, quali la buona fede, l’aequitas e l’humanitas, e
dall’impiego di altri criteri di tipo “oggettivo”.
La buona fede, non mirava a stravolgere la volontà dei contraenti, attingendo da elementi
esterni ad essa, bensì a darne un’interpretazione, nel modo più aderente possibile, a quanto
voluto concretamente, alla luce di quei rapporti di correttezza, lealtà, onestà, che li
vincolavano reciprocamente.
Le regole di interpretazione oggettiva si sono formulate perché un contratto ha un significato
non solo per quanto voluto dalle parti, ma anche per il ruolo in concreto, che il diritto gli
attribuisce.
Fra di esse vi era quella per cui, in una stipulatio, le clausole ambigue andavano
interpretate in senso sfavorevole al creditore, cui incombeva l’onere della chiarezza
dichiarativa; e lo stesso avveniva in riferimento al venditore o al locatore per le clausole
oscure o poco chiare inserite in una compravendita o in una locazione.
Un altro criterio oggettivo di interpretazione era quello del richiamo agli usi e costumi
generali oppure del luogo di conclusione del contratto, applicato soprattutto ai contratti
fondati sulla buona fede; due ulteriori criteri concernevano la necessità di
un’interpretazione dell’atto nel suo complesso, senza slegare le clausole le une dalle
altre ed il carattere non lesivo per gli interessi delle parti che avevano le espressioni
esemplificatrici o esplicative introdotte nel contratto.
Si delinea, infine, il principio di conservazione del negozio che viene dapprima adottato in
molti singoli pareri ed è poi generalizzato come criterio sussidiario valevole per tutti gli atti.

GLI ELEMENTI ACCIDENTALI

L’ADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI E L'ESECUZIONE DEL CONTRATTO


Il modo normale di esecuzione di un contratto si realizza mediante l’adempimento delle
obbligazioni.
Nella terminologia giuridica latina esso si indica con i termini solutio o solvere,
corrispondenti letteralmente a “scioglimento” e “sciogliere”, richiamando la natura originaria
dell’obbligazione come vincolo materiale sulla persona del debitore.
La forma più antica è l’adempimento con il bronzo e la bilancia (solutio per aes et libram),
un atto rituale, che doveva essere necessariamente compiuto dal debitore per liberarsi,
allorché il vincolo obbligatorio fosse, a sua volta, derivato da un atto compiuto con le
medesime modalità, come il nexum. In questi casi, quindi, l’eventuale adempimento senza
l’atto rituale non sarebbe stato sufficiente.
Requisiti per l’adempimento:
A partire dal III secolo a.C. si vengono progressivamente a definire certi requisiti soggettivi
ed oggettivi che dovevano sussistere per ritenere effettuato l’adempimento.
Oltre al debitore, anche un terzo poteva adempiere in suo luogo al creditore, se
quest’ultimo non fosse stato contrario.
Infatti, mentre non rileva l’opposizione del debitore, ha importanza quella del creditore tutte
le volte che abbia uno specifico interesse all’adempimento personale da parte del debitore
stesso.
Qualora il creditore lo avesse voluto, l’adempimento avrebbe potuto essere rivolto anche a
persona diversa da lui indicata. Nelle obbligazioni nascenti da stipulazione troviamo due
figure di creditore “aggiunto”: adstipulator e adiectus solutionis causa.
Nel primo caso, abbiamo due stipulazioni dal contenuto identico: la prima tra debitore e
creditore e la seconda, con lo stesso oggetto, tra debitore ed adstipulator designato dal
creditore. Il debitore poteva scegliere nei confronti di chi adempiere.
Nel secondo caso, non abbiamo due stipulazioni, bensì una sola, intercorrente tra debitore e
creditore, in cui quest’ultimo gli faceva promettere di adempiere verso di lui o verso un’altra
persona che gli indicava: l’adiectus solutionis causa.
Riguardo ai requisiti oggettivi il debitore è tenuto all’esecuzione esatta dell’oggetto
dell’obbligazione assunta; qualora desideri adempiere con una prestazione differente.
Si parla allora di “dazione in proprietà di qualcosa ai fini dell’adempimento”; nel linguaggio
giuridico moderno si preferisce dire “prestazione in luogo dell’adempimento”.
Il luogo dell’adempimento ed il termine erano quelli convenuti dalle parti al momento della
conclusione del contratto o risultanti dalle circostanze o dal tipo di prestazione. Se il luogo
non si poteva determinare in base a questi elementi, si riteneva che fosse quello del
domicilio del debitore. Il creditore avrebbe potuto esprimere una specificazione per chiedere
l'adempimento in un luogo diverso, ma allora Il debitore avrebbe potuto ottenere una
riduzione dell'imposta da pagare, ove tale luogo di essere educato scomodo.
È connessa ai requisiti oggettivi dell’adempimento anche l’imputazione del pagamento, la cui
disciplina risulta da una serie di testi giurisprudenziali raccolti nel Digesto e si riflette ancor
oggi, attraverso il filtro del diritto intermedio, nell’art. 1193 del nostro Codice civile.
Ad essa si ricorreva quando uno stesso debitore avesse più debiti in denaro nei confronti di
uno stesso creditore ed effettuasse un pagamento senza dichiarare a quale debito andasse
imputato. In tal caso, il pagamento era da imputare innanzitutto, al debito scaduto prima di
quelli non scaduti, onde evitare la maturazione di interessi e le eventuali conseguenze
dell’inadempimento. Se poi erano scaduti più debiti o tutti, il pagamento si doveva riferire
prima al più gravoso. Se invece i debiti scaduti erano gravosi in misura uguale, si applicava
il criterio della precedenza temporale, per cui si pagavano prima quelli più antichi. Qualora
i debiti fossero in un’identica situazione, il pagamento sarebbe andato a scomputo parziale
e proporzionale di tutti.
L’esecuzione di buona fede:
In alcuni casi affrontati nelle fonti giurisprudenziali romane viene richiamata la buona fede
come parametro con il quale valutare l’adempimento di obbligazioni corrispettive dei
contraenti, con la funzione di garantire la stabilità del sinallagma tra di esse. Con il termine
sinallagma si indica il rapporto tra le obbligazioni delle parti nei contratti a prestazioni
corrispettive detti appunto sinallagmatici.
Sempre in collegamento con l’esecuzione di un contratto, i giuristi romani attribuiscono alla
buona fede anche una funzione integrativa della volontà delle parti.
Questo vuol dire che, se nell’assetto complessivo di interessi risultante dal contratto vi siano
punti lacunosi o non contemplati, necessari però alla sua attuazione, questi possono essere
colmati per mezzo della buona fede, imponendo eventualmente anche doveri accessori ai
contraenti.
Mutamento delle circostanze e rischio dell’impossibilità sopravvenuta:
Si tratta di un problema complesso anche oggi, che fa riferimento all’esecuzione del
contratto in caso di sopravvenienza di eventi successivi alla sua conclusione e non
previsti dai contraenti, destinati a modificarne in modo significativo il contenuto
originario.
Si parla di impossibilità sopravvenuta, perché, da un lato, si sottolinea che interviene
quando il contratto è stato stipulato e, dall’altro, la si distingue dall’impossibilità originaria
della prestazione, che impedisce la nascita stessa dell’obbligazione.
Un’obbligazione avente ad oggetto cose impossibili è nulla
La circostanza sopravvenuta , che occasiona l’impossibilità dell'adempimento, dipende
normalmente da un evento di forza maggiore o da un caso fortuito.
Quando non era contemplato dai contraenti, valeva la regola, per cui il debitore era liberato
dalla sua obbligazione.
Ma questa regola non operava sempre: a volte, per il regime proprio al tipo contrattuale il
rischio di un evento sopravvenuto, riconducibile alla forza maggiore o al caso fortuito, non
comportava la liberazione del debitore, ma produceva effetti pregiudizievoli a suo carico.
La circostanza sopravvenuta, che portava all’impossibilità della prestazione, poteva essere
contemplata già dai contraenti stessi, i quali si accordavano per rivedere le condizioni
contrattuali originarie oppure convenivano delle conseguenze diverse da quelle disposte
dall’ordinamento per quel tipo di contratto o ancora si rimettevano agli usi della regione o
della provincia dove il contratto si era concluso.
Ulteriore rimedio, infine, era rappresentato, nei contratti sinallagmatici, dal riequilibrio della
situazione contrattuale attraverso il criterio della buona fede oggettiva, come si è visto in
tema di esecuzione della prestazione.
Mora del creditore:
Il creditore, che rifiuti senza motivo l’offerta di adempimento del debitore, si viene a trovare
in mora.
Chiaramente, poiché parliamo del creditore, non poteva configurarsi una responsabilità a
suo carico, ma da tale situazione derivavano alcuni vantaggi per il debitore.
Il primo era che, se si trattava di un’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, il
debitore poteva depositarla presso un edificio pubblico e da quel momento non avrebbe
dovuto pagare eventuali interessi per il ritardo nell’adempimento.
Un secondo vantaggio era connesso al rischio di perimento per caso fortuito della cosa
oggetto dell’obbligazione, che sarebbe ricaduto in ogni caso sul creditore in mora.
LA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE
Anche nel diritto romano l’inadempimento o l’inesatto adempimento dell’obbligazione
assunta da parte del debitore è fonte di responsabilità a suo carico.
Si parla allora di una responsabilità contrattuale o responsabilità per inadempimento, che
opera in realtà non solo per le obbligazioni nascenti da contratto, ma anche per quelle
derivanti da un atto lecito non contrattuale.
La mora del debitore:
Un primo tipo di inadempimento, meno grave e sanabile, è dato dalla mora del debitore,
che si ha quando questi sia in ritardo nell’adempimento.
La mora sorge o a seguito di una intimazione ad adempiere da parte del creditore oppure
quando c’è un termine per l’adempimento, che scade senza che sia stato effettuato.
Quando è necessaria l’intimazione, si parla di mora ex persona, per indicare che quest’atto
è compiuto dal creditore. Se invece la costituzione in mora dipende dalla scadenza di un
termine, si usa l’espressione mora ex re, vale a dire che dipende da una certa situazione.
Circa gli effetti della mora, essi dapprima valgono per i soli contratti fondati sulla buona
fede. Nelle azioni che ne discendono, infatti, la mora determina una serie di obbligazioni
aggiuntive a carico del debitore: quella di pagare gli interessi moratori sulle somme da
corrispondere e di trasmettere anche i frutti nel periodo in cui è in mora.
Se il debitore vuole sanare tale situazione dovrà eseguire non solo l’obbligazione originaria,
ma anche queste due obbligazioni aggiuntive.
Nella compilazione di Giustiniano esse sono estese a tutti i contratti e quasi contratti,
facendoci comprendere perché siano state recepite anche dagli ordinamenti moderni.
Un altro importante effetto della mora è “il perpetuarsi dell’obbligazione”, in riferimento a
quale parte debba sopportare il rischio di una perdita fortuita di una cosa determinata da
consegnare in adempimento dell’obbligazione.
L'unica possibilità di liberarsi se aveva se il genitore fosse riuscito a provare che la cosa
sarebbe ugualmente verità anche consegnargliela tempestivamente.
L’inadempimento:
La forma più grave di responsabilità contrattuale, che si ha quando il debitore in via
definitiva non adempie o adempie in modo inesatto l’obbligazione. La responsabilità
derivante dall’inadempimento si traduce nel risarcimento dei danni al creditore,
trasformandosi così in un’obbligazione nuova rispetto a quella originaria.
→Imputabilità al debitore.
Il primo passo per accettare la responsabilità del debitore è di verificare se
l’inadempimento sia a lui imputabile. È certamente così se dipende da dolo o colpa, che
sono criteri di natura soggettiva di valutazione del suo comportamento.
Nel primo caso, il debitore non adempie intenzionalmente, mentre, nel secondo, per
negligenza, imprudenza o imperizia.
Diversamente dal dolo, la colpa è suscettibile di gradazione. Una prima si ha fra colpa
lieve e colpa grave. Quest’ultima viene definita come quella grave forma di negligenza per
cui il debitore non ha previsto quella determinata conseguenza del suo comportamento, che
tutti gli altri avrebbero invece previsto.
Un’altra gradazione, che si faceva all’interno della colpa in una diversa prospettiva è quella
tra colpa in astratto e colpa in concreto, due espressioni formulate dai giuristi medievali sulla
base delle fonti romane. La colpa in astratto fa riferimento ad un modello ideale di
comportamento diligente, rappresentato da quello del “buon padre di famiglia”, inteso come
un uomo normale di buon senso. La colpa in concreto ha invece come parametro il
comportamento che normalmente ha quel determinato debitore nel gestire le proprie cose.
Accanto ai criteri di imputazione soggettivi ne troviamo anche alcuni oggettivi, che
operano solo per determinate obbligazioni, dove il debitore era considerato responsabile
per inadempimento anche se non fosse occasionato da suo dolo o colpa. Si parla allora
nelle fonti di una responsabilità senza colpa.
Un criterio oggettivo lo vediamo per l’obbligazione di custodia della cosa ricevuta gravante
sul comodatario e su tintori e sarti nelle locazioni d’opera aventi ad oggetto le vesti da pulire
o confezionare. Quando la cosa comodata o le vesti erano sottratte o perse, essi ne
rispondevano al proprietario anche se ciò fosse avvenuto a prescindere da una loro colpa; la
responsabilità veniva meno solo in caso di forza maggiore.
Un criterio oggettivo vale anche per l’obbligazione di armatori, albergatori o titolari di una
stazione di campo di restituire integre le cose ricevute dai propri clienti in connessione
all’attività imprenditoriale esercitata. Per questo essi erano responsabili anche per le attività
degli ausiliari impiegati nell’impresa.
La questione della responsabilità contrattuale per fatto degli ausiliari era normalmente
risolta ricorrendo al criterio della colpa: si presumeva, infatti, colposa la condotta di chi
avesse scelto di avvalersi di persone incapaci nell’adempimento delle obbligazioni da lui
assunte.
I criteri della colpa e della responsabilità per custodia potevano essere ampliati, ridotti o
addirittura esclusi dalla volontà delle parti, mentre non era ammesso il patto di non
rispondere per dolo, con cui il creditore rinunciava a far valere la responsabilità del
debitore dolosamente inadempiente.
Se l’inadempimento era dovuto a forza maggiore o a caso fortuito, allora non era imputabile
al debitore, a meno che, il tipo di contratto concluso non gli imponesse si sopportarne il
rischio.
→Risarcimento dei danni.
Accertato che effettivamente il debitore è responsabile per non aver adempiuto, occorre
fissare la somma di denaro da corrispondere al creditore a titolo di risarcimento dei
danni.
Nei contratti difesi da un’azione di stretto diritto, in cui la pretesa del creditore che agiva era
esattamente determinata, il criterio di calcolo del risarcimento dei danni veniva commisurato
al valore dell’oggetto dell’obbligazione al momento dell’istituzione della lite, espresso con le
parole a quanto l’oggetto dell’obbligazione vale (quanti ea res est).
Quando, invece, il verbo “essere” era coniugato al passato o al futuro, il momento di
riferimento per il calcolo era, nell’ordine, anteriore all’istituzione della lite, di solito identificato
con la nascita dell’obbligazione, o quello successivo dell’emanazione della sentenza.
Per gli altri contratti di stretto diritto dove la determinazione mancava, il criterio era quello
dell’interesse del creditore all’adempimento dell’obbligazione, designato con il termine id
quod interest, calcolato sempre con riferimento, nei vari casi, al momento dell’istituzione
della lite, della sentenza o della costituzione dell’obbligazione.
Il calcolo di tale interesse era maggiormente elastico, con la progressiva definizione di
una serie di criteri. Il primo era quello di accertare se vi fosse una relazione causale
immediata e diretta tra inadempimento del debitore e danni sofferti dal creditore. A
temperare una sua rigida applicazione se ne delimita l’ambito a quelli strettamente attinenti
all’oggetto della prestazione.

Un ulteriore criterio era di includere nell’interesse risarcibile il danno emergente ed il lucro


cessante espressioni che indicavano, non soltanto le perdite effettivamente subite dal
creditore in dipendenza del mancato adempimento. ma anche i mancati guadagni futuri.
→Danni non patrimoniali.
Oltre a quelli patrimoniali, i dati delle fonti giuridiche ci presentano casi in cui, in materia di
obbligazioni contrattuali e quasi contrattuali di buona fede, si ammetteva il risarcimento di
danni non patrimoniali.
→Ammontare della responsabilità del debitore ed eventuali limiti.
Il debitore, riconosciuto responsabile dell’inadempimento e condannato al risarcimento dei
danni, doveva soddisfare il creditore con tutto il suo patrimonio presente e futuro,
vincolando così a tal fine anche i beni che vi sarebbero successivamente entrati.
Nell’esperienza romana si sono già incontrate due attenuazioni: la presenza di un peculio
profettizio gestito da una persona in potestà, il cui valore rappresentava il limite della
responsabilità del titolare di quest’ultima, ed il beneficio di competenza, connesso al
contratto di società ed alla costituzione della dote, per cui il socio o il marito condannati,
rispettivamente, con l’actio pro socio o l’actio rei uxoriae rispondevano con i beni
presenti, ma non futuri.
In alcuni tipi di contratti, fondati sulla buona fede, la condanna del debitore inadempiente
aveva come conseguenza anche l’applicazione dell’ulteriore sanzione dell’infamia, in base
alle previsioni introdotte dal prestatore nel suo editto.
→Procedimento esecutivo.
Quando il debitore inadempiente è condannato con sentenza al risarcimento dei danni,
non significa necessariamente che il creditore sia in concreto soddisfatto.
La condanna pone in capo al debitore l’obbligazione di pagare al creditore la somma stabilita
dal giudice, ma può accadere che non lo faccia o perché non vuole o perché non può; in
entrambi i casi si deve far luogo ad un altro processo, il processo esecutivo, finalizzato
all’attuazione della sentenza.
Dopo la sua pronuncia, veniva lasciato al debitore per ottemperare un arco di tempo di
trenta giorni, detti “giorni legali”, decorsi inutilmente i quali il creditore avviava il processo
esecutivo contro di lui, mediante un’azione che anche oggi, nella procedura civile, viene
chiamata actio iudicati, perché tendente a far applicare il giudicato, inteso come contenuto
di una sentenza non più modificabile.
Nel processo formulare romano era previsto che, se il debitore condannato fosse stato
chiamato in giudizio con quest’azione ed avesse resistito immotivatamente, si sarebbe
raddoppiato l'ammontare della sua condanna.
Dopo l’esercizio dell’actio iudicati, se il condannato continuava ad essere inadempiente,
si passava alla fase dell’esecuzione personale o patrimoniale.
esecuzione personale→ Il creditore si soddisfaceva sulla persona del debitore, prendendolo,
portando la casa sua e facendo lavorare per ottenere il risarcimento dei danni.
esecuzione patrimoniale→ il patrimonio del debitore serviva a risarcire il creditore rimasto
insoddisfatto anche dopo la condanna.
Questa si divideva in: bonorum venditio, bonorum distractio e assegnazione al creditore
1. bonorum venditio→ prevedeva la vendita in blocco di tutti i beni del debitore
condannato. Il suo procedimento era consensuale, aperto ad altri o a tutti i creditori
dell’ insolvente, posti in posizione di parità.
La gestione dei beni da vendere era incaricata ad un apposito curatore.
Tutte le fasi prevedevano un'opportuna pubblicità con affissioni dei punti più frequenti
della città.
La tappa finale era lo svolgimento dell'asta e l'aggiudicazione complessiva dei
beni del debitore insolvente al miglior offerente.
2. bonorum distractio→ è un sistema nuovo e più flessibile, che in origine voleva solo
per alcuni casi, ma che in seguito, nel periodo postclassico, ha finito con il sostituirsi
completamente a quello più antico.
Fa riferimento alla vendita dei singoli beni.
Un curatore nominato dal magistrato gestiva l'asta. Vendeva ad uno ad uno i soli
beni dell' insolvente necessari a coprire l'ammontare della somma non pagata.
3. assegnazione al creditore→ la vendita all'incanto era ritenuta la via preferenziale,
ove fosse andata deserta per mancanza di acquirenti, il creditore o i creditori
precedenti potevano chiedere all'imperatore l'assegnazione in proprietà dell'intero
patrimonio dell' insolvente o dei singoli beni equivalenti ai crediti insoddisfatti.

GLI ATTI IN FRODE AI CREDITORI


Collegato alla problematica della responsabilità contrattuale è anche il regime introdotto
per contrastare gli atti di disposizione patrimoniale compiuti in modo fraudolento dal
debitore insolvente per diminuire la consistenza dei propri beni.
Tale regime sorge nell’ambito del diritto onorario, che prevede tre rimedi: il diniego
dell’azione, il reintegro della situazione giuridica precedente all’atto fraudolento e l’interdetto
fraudatorio.
→diniego dell’azione
Si applicava quando l’insolvente, in vista del procedimento esecutivo a suo carico, avesse
intenzionalmente accresciuto il proprio passivo, assumendo una serie di obbligazioni che ne
riducevano il patrimonio, e consisteva nel negare, da parte del pretore, l’azione ai suoi
creditori che intendessero far valere le loro pretese.
→revoca
E’ indirizzata al debitore che otteneva, sempre su disposizione del pretore, la revoca dei suoi
atti fraudolenti, ripristinando la situazione anteriore ad essi, ciò avveniva normalmente
allorché il debitore vendeva dei beni o rimetteva dei debiti.
→interdetto fraudatario
Era concesso al creditore o ai creditori contro il terzo in favore del quale l’atto era stato
compiuto, per ricostituire lo stato patrimoniale anteriore del debitore.
I presupposti richiesti per ricorrere a tali rimedi sono tre: il danno oggettivamente arrecato
alle aspettative dei creditori a causa della diminuzione patrimoniale, l’intenzione fraudolenta
del debitore (consilium fraudis) e la conoscenza, anche implicita di tale intenzione da parte
del destinatario dell’atto.
LEGGE ELIA SENZIA: dichiarava nulle le manomissioni di schiavi fatte in frode ai creditori.
AZIONE PAULIANA: Il reintegro della situazione precedente e l'interdetto feudatario sono
Fusi in un'unica azione a disposizione dei creditori frodati

I QUASI CONTRATTI
Si tratta di un’invenzione giustinianea per racchiudere tutti gli atti leciti di natura non
contrattuale che generano obbligazioni.
Il loro elemento di unità è, infatti, dato dall’assenza del consenso fra le parti della relazione
obbligatoria, che impedisce a tali atti di essere qualificati come contratti.
Oltre i legati ad effetti obbligatori ed il pagamento di indebito, le Istituzioni giustinianee, vi
includono anche la tutela degli impuberi con riferimento alle reciproche obbligazioni tra
tutore e pupillo, ovviamente una volta terminata la tutela stessa e le situazioni di
comproprietà, quando non dipendano da un atto volontario dei condomini, come la coeredità
e la donazione di una stessa cosa a più persone.
Un ultimo caso riguarda l’arricchimento senza causa, da cui nasce l’obbligazione di
restituirlo a carico di chi l’abbia ottenuto.
Storicamente la prima forma è data dallo stesso pagamento di indebito, che comportava
un’attribuzione patrimoniale a favore di colui che l’avesse ricevuto, con conseguente sua
obbligazione restitutoria. Ad essa si aggiungono un insieme di situazioni, che le fonti
indicano con l’espressione ciò per cui “qualcuno” è diventato più ricco, dove si allude al
beneficiario di un arricchimento senza causa o ingiustificato.
Per configurarlo, era necessaria la trasmissione di una cosa in proprietà ad altri e l’assenza
di una causa che ne fosse il fondamento. L’obbligazione che nasceva in capo
all'accipiens era quella della restituzione.

III: LE OBBLIGAZIONI DA FATTO ILLECITO

CARATTERISTICHE GENERALI
Le obbligazioni da fatto illecito nella terminologia giustinianea sono i delitti e i quasi
delitti.
Esse presentavano delle proprie caratteristiche distintive, che i giuristi romani, abituati a
ragionare sul piano processuale, attribuiscono non tanto alle obbligazioni stesse, quanto alle
azioni penali che ne derivavano a favore del creditore.
Un primo punto importante da sottolineare è l’unitarietà del concetto di obbligazione offerto
dal diritto romano, capace di racchiudere in sé tanto le obbligazioni da atto lecito quanto le
obbligazioni da fatto illecito.
Nel diritto romano da un o quasi delitto nasceva, innanzitutto, l’obbligazione del suo autore
di pagare una somma a titolo di pena privata (poena) da corrispondere a chi l’avesse subito.
A tale obbligazione se ne poteva aggiungere un’altra diretta alla riparazione o al risarcimento
dei danni.
Questa caratteristica è designata dai moderni come cumulatività, perché il creditore (la
vittima), per far valere i propri diritti, avrebbe potuto esperire congiuntamente l’azione per
ottenere la pena e l’azione per le riparazioni e gli eventuali danni. A volte bastava un’unica
azione, che realizzava entrambe le funzioni ed era perciò detta mista.
Se l’illecito fosse stato commesso da più persone, tutte avrebbero dovuto corrispondere la
pena per intero e l’eventuale pagamento effettuato da uno non avrebbe liberato gli altri.
Una seconda caratteristica era l’intrasmissibilità passiva: l’obbligazione di pagare la pena
nascente da un illecito non poteva trasmettersi agli eredi dell’autore dell’illecito stesso.
Dal lato attivo, invece, alla probabile originaria intrasmissibilità subentra progressivamente la
regola opposta, cosicché agli eredi della vittima dell’illecito (il creditore) è data facoltà di
agire contro il suo autore (il debitore) per conseguire la pena pecuniaria.
Un’altra caratteristica era data dalla nossalità, così chiamata perché derivava dall’istituto
della noxae deditio, per cui, ove l’illecito fosse stato commesso da una persona alieni iuris
(figlio o schiavo) l’avente potestà avrebbe potuto consegnarla all’offeso, anziché pagare la
pena pecuniaria, sempre che non lo avesse saputo o non avesse potuto impedirlo.
Questa possibilità spettava al titolare della potestà nel momento in cui si esercitava l’azione
penale e non in quello in cui l’illecito era stato compiuto, perché la corrispondente
obbligazione seguiva la titolarità del potere.
Un’ultima caratteristica di queste obbligazioni e della relative azioni è legata al tempo:
quando ne era fonte un illecito previsto dallo ius civile, erano perpetue (salvo prescrizione),
mentre, se derivavano dal diritto onorario, l’azione penale per far valere il diritto del creditore
aveva carattere temporaneo e durava un anno.
Le quattro figure di delitto (delicta) trattate nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano sono:
furto, rapina, danneggiamento (damnum iniuria datum)e iniuria (atto ingiusto contro una
persona).

I SINGOLI DELITTI
Le XII Tavole non conoscono una categoria di furto, bensì più generi di esso:
1. furto manifesto (furtum manifestum) o in flagrante→ il ladro era considerato in
flagrante non solo quando si catturava all’atto di commettere il furto, ma anche dopo
averlo commesso, allorché si trovasse ancora nello stesso luogo o non avesse
ancora trasportata la cosa rubata nel luogo di destinazione.
La pena stabilita nelle XII Tavole per questo tipo di ladri era molto dura: se era un
libero, previa fustigazione, veniva aggiudicato dal magistrato al derubato, come si
faceva per il debitore insolvente.La finalità era che egli lo facesse lavorare presso di
sé ottenendo una soddisfazione patrimoniale per l’illecito subito.
Se il ladro era un servo altrui, veniva frustato ed ucciso.
Il rigore di queste pene è attenuato in seguito dal pretore, il quale, a prescindere
dallo status del ladro, le sostituisce con la condanna al quadruplo del valore della
cosa rubata.
Invece, nel caso in cui il ladro fosse colto in flagrante di notte o tentasse di difendersi
con un’arma per non essere preso, il derubato, dopo aver chiamato a testimonianza i
vicini, lo potevano uccidere impunemente.
2. furto non manifesto (furtum nec manifestum) o non in flagrante→ era definito per
esclusione, rientrandovi tutte le ipotesi in cui l’illecito non fosse qualificabile come
manifesto o non appartenesse alla altre tre figure speciali di furto. Per questo genere
di furto già le XII Tavole sancivano la pena del pagamento del doppio del valore della
cosa rubata, che si conserva anche nel diritto successivo, compreso quello
giustinianeo.
3. furto “di cosa ritrovata” (furtum conceptum)→ si aveva quando la cosa rubata fosse
scoperta a casa di qualcuno (non necessariamente il ladro) alla presenza di
testimoni.
4. furto “di cosa offerta” (furtum oblatum)→ era commesso allorché la cosa rubata
venisse offerta da qualcuno (anche qui non necessariamente il ladro) ad un’altra
persona affinché fosse poi ritrovata in casa sua.
5. furto “proibito” (furtum prohibitum)→ si configurava tutte le volte in cui una persona
rifiutasse senza un giustificato motivo la perquisizione della propria casa alla ricerca
della cosa rubata.
Nel furto “di cosa ritrovata” e nel furto “di cosa offerta” la pena per colui presso la cui
casa si era trovata la cosa rubata o per chi l’avesse ricevuta da altri era del triplo del
valore della stessa (poena tripli), mentre nel furto “proibito” il condannato dopo il
pagamento avrebbe potuto rivalersi per il rimborso contro colui che gliela aveva
offerta e in questo caso la pena era del quadruplo.
La quaestio lance licioque, traducibile come “ricerca compiuta con un piatto ed un panno
avvolto alla vita”→ prevedeva l’entrata del derubato nella casa di un altro con un piatto
(detto lanx) in mano e rivestito solo di un panno per coprire le parti intime (il lycium). Se
avesse trovato la cosa rubata, il furto sarebbe stato equiparato a quello manifesto con
irrogazione della relativa pena.
La pena era dunque pecuniaria per disposizione originaria nelle XII Tavole o per successivo
intervento pretorio, come abbiamo detto nel caso del furto manifesto. Ad eccezione di
quest’ultima ipotesi, in cui si riprendeva immediatamente la cosa sottratta, nelle altre il
derubato aveva a disposizione, oltre all’azione per conseguire l’ammontare della pena,
anche l’azione per recuperare la cosa o per ottenere il risarcimento dei danni, qualora il
ladro l’avesse distrutta; quella di rivendica, con cui il proprietario chiede la restituzione della
cosa a chi la possiede, o quella di restituzione, chiamata condictio ex causa furtiva, essendo
una delle tante applicazioni della condictio.
I requisiti del furto consistevano:
● nella sottrazione di una cosa mobile altrui, contro la volontà del proprietario o di chi
ne aveva assunto l’obbligazione di custodia;
● nell’intenzione del ladro di rubarla.
Le due grandi categorie del furto manifesto e non manifesto permangono nell’alveo
del diritto privato anche in epoca postclassica e giustinianea, ma nel frattempo si
verifica un progressivo passaggio da delitti a crimini di singole specie di furto: ad esempio il
furto di bestiame ed il furto con scasso.
RAPINA
La rapina viene inclusa tra i delitti del ius civile fonti di obbligazioni, in quanto ritenuta
anch’essa una specie di furto , dal quale si distingue perché implica la sottrazione o il
danneggiamento intenzionale e violento di una cosa altrui contro la volontà del
proprietario o di chi ne abbia la custodia.
La sua trattazione separata è dovuta al rafforzamento della tutela dei soggetti rapinati da
parte del pretore attraverso l’introduzione nell’editto di una specifica azione, definita azione
per i beni rapinati con violenza (actio bonorum vi raptorum), rivolta contro chi avesse
commesso la rapina. Il primo ad inserirla sarebbe stato Lucullo, durante la sua pretura del
76 a.C.
La pena prevista per il rapinatore, che si poteva conseguire attraverso l’esercizio dell’azione,
era pari al quadruplo del valore delle cose rapinate, uguale a quella stabilita per il furto
manifesto. Tale importo costituiva per tre quarti la pena pecuniaria e per un quarto il
risarcimento dei danni, giustificando così la natura mista dell’azione (penale e
reipersecutoria).
Se però l’azione fosse stata esperita dopo un anno, il rapinato avrebbe potuto ottenere
solo la somma equivalente al semplice valore di quanto sottrattogli con violenza. Il
rapinatore condannato era anche colpito da infamia.

IL DANNEGGIAMENTO
Il danneggiamento è previsto nelle XII Tavole solo per specifiche ipotesi inquadrate
nell’ambito dei crimini, come la distruzione del raccolto altrui o l’incendio della casa o dei
covoni di frumento di altri, per i quali era sancita le pena di morte.
Tra il codice decemvirale e l’approvazione della legge Aquilia, nel III secolo a.C., si ritiene
che i casi di danneggiamento rientrassero nella più ampia nozione di furto in quanto
ingerenze materiali su una cosa appartenente ad un altro, commesse contro la sua volontà.
Un dato sicuro è invece l’approvazione di tale legge, che si componeva di tre capitoli:
1. stabiliva che, se qualcuno avesse ucciso illegittimamente uno schiavo o una schiava
altrui oppure un animale a quattro zampe da gregge, avrebbe dovuto pagare al
padrone, a titolo di pena, una somma di denaro corrispondente al valore più
elevato avuto dallo schiavo o dall’animale nell’ultimo anno precedente.
2. il creditore aggiunto, il quale avesse in modo fraudolento rimesso al debitore con
accepti latio il suo debito, avrebbe dovuto corrispondere al creditore, a titolo di pena,
una somma pari all’ammontare del debito rimesso. In questo secondo capitolo si
considerava perciò come danneggiamento la rimessione dolosa di un debito.
3. si disponeva che , se qualcuno illegittimamente avesse ferito uno schiavo o una
schiava o un animale da gregge altrui oppure avesse commesso un danno su una
cosa di un altro (o su un animale non da gregge) mediante un’attività di rompere,
bruciare o infrangere, sarebbe stato tenuto al pagamento di una pena in denaro,
corrispondente al valore più alto avuto dallo schiavo, dall’animale o dalla cosa
rotta, bruciata o infranta, nell’ultimo mese precedente.
Il contenuto originario della legge Aquilia non prevedeva una figura generale di danno, bensì
tre specifiche ipotesi, di cui la prima e la seconda presentano dei contorni esattamente
definiti mentre la terza ha una portata più ampia.
Una volta approvata la legge, il pretore inserisce nel suo editto una corrispondente azione
con la quale il proprietario dello schiavo o animale ucciso o danneggiato oppure delle cose
rotte, bruciate o infrante poteva ottenere il pagamento della pena.
L’azione della legge Aquilia, che ha carattere penale, ma funzione risarcitoria, dal momento
che la somma di denaro indicata in ciascuno dei tre capitoli serviva non solo come pena per
l’autore del danneggiamento, obbligato a pagarla, ma anche come ristoro della perdita
patrimoniale subita dal soggetto leso.
Sul canovaccio rappresentato dai tre capitoli della legge Aquilia lavorano sia il pretore che
la giurisprudenza, al fine di estendere i casi di danneggiamento risarcibili.
Un primo risultato è la decadenza del capitolo secondo, perché il risarcimento dei danni
che il creditore può chiedere al creditore aggiunto può avvenire con l’azione da mandato, in
quanto i loro rapporti vengono ormai inquadrati in tale contratto.
Un secondo risultato è quello di ampliare il campo di applicazione del terzo capitolo:
come dice sempre Gaio, al concetto di “rompere” si riporta qualunque tipo di
danneggiamento (che non sia l’uccisione o il ferimento di uno schiavo o di un animale),
anche diverso da quello di rompere in senso stretto o bruciare o infrangere.
Un altro risultato di rilievo consiste nel comprendere nel valore più alto del servo ucciso, da
risarcire al padrone, qualunque altro danno o perdita che fosse conseguenza diretta
della sua morte.
Infine il risultato più importante si ha con il superamento della necessità che il danno
risarcibile fosse solo quello fisico causato dalla forza fisica dell’agente.
Per rimediare a tali situazioni interviene il pretore, riconoscendo nel suo editto al
danneggiato delle azioni in via utile base sulla legge Aquilia: actiones utiles legis Aquiliae, la
cui formula era un adattamento di quella dell’azione diretta nascente dalla legge Aquilia per
estenderla a quelle fattispecie dove non si era fatto uso della forma materiale.
Alla creazione di azioni utili si aggiunge poi quella di un’azione modellata sul fatto, per
consentire il risarcimento anche di quei danni non consistenti in una lesione fisica.
In ogni caso tutte queste estensioni dell’applicazione della legge Aquilia portano al
risarcimento di danni di carattere economico e patrimoniale, solo talvolta e indirettamente vi
si possono includere anche danni morali.
Oltre all’ampliamento dei tipi di danneggiamento risarcibili, l’altra direzione su cui operano
congiuntamente pretore e giurisprudenza riguarda il concetto di danno “ingiusto” e, come
tale, risarcibile.
Le nostre fonti precisano che è quello arrecato contra ius ed indicano che si debba sempre
qualificare così il danno dato con dolo o con colpa.
Nel primo caso, l’autore l’aveva commesso intenzionalmente, nel secondo, per
negligenza, imprudenza o imperizia.
Nella determinazione del concetto di colpa, ai fini della legge Aquilia, i giuristi sono molto
rigorosi: non solo obbliga al risarcimento il danno causato per colpa grave, ma anche quello
dovuto a colpa lieve o addirittura, come osserva Ulpiano, lievissima, ossia anche per la più
leggera forma di negligenza.
Conseguentemente l’ingiustizia del danno è esclusa quando sia stato commesso da
persone cui non si possano imputare né dolo né colpa oppure quando sussistano
circostanze di legittima difesa o di stato di necessità venendo così meno la
responsabilità dell’autore. E lo stesso accade, naturalmente, anche quando si verificano
eventi di forza maggiore.

L’ATTO INGIUSTO CONTRO LA PERSONA


Il termine latino iniuria ha un significato più ampio del corrispondente italiano “ingiuria”, in
quanto fa riferimento non solo a quelle che oggi chiameremmo lesioni all’onore, ma anche
al ferimento e altre lesioni fisiche di una persona, commesse, le une e le altre, in modo
contrario al diritto.
Nelle XII Tavole esistevano alcune ipotesi tipiche di iniuria, intesa su un piano puramente
materiale. La più grave era il membrum ruptum (membro rotto): consistente nella lesione
permanente di un organo compiuta da un soggetto a danno di un altro. La pena per essa,
come già detto, era quella del taglione, a meno che non intervenisse una composizione
pecuniaria. In caso di accordo per il pagamento di una pena pecuniaria sostitutiva, non si
procedeva all’applicazione del taglione.
Il secondo tipo di iniuria era l’os fractum (osso fratturato o rottura di un osso). In questo caso
si faceva riferimento ad una lesione fisica di carattere non permanente, per la quale le XII
Tavole prevedevano una pena fissa consistente in una somma di denaro che l’autore
della lesione doveva al soggetto leso di trecento assi, se si trattava di una persona libera,
di centocinquanta assi, qualora fosse stato uno schiavo, da corrispondere naturalmente al
suo padrone.
Vi erano poi tutte le altre forme minori di lesione fisica, definite con l’espressione generale di
iniuriae, per le quali era stabilito il pagamento all’offeso, a titolo di pena, di una somma fissa
molto lieve di venticinque assi. A questo proposito c’è un aneddoto, raccontato nell’opera
Notti Attiche di Aulo Gellio, che dimostra l’inadeguatezza del sistema sanzionatorio
decemvirale

Un certo cavaliere, Lucio Verazio, andava in giro a Roma con un proprio schiavo che
portava un sacchetto di monete. Queste servivano per pagare la pena di venticinque assi a
tutte le persone che egli, considerandole antipatiche, schiaffeggiava per strada→ siccome
tale pena aveva ormai un valore irrisorio, qualunque benestante avrebbe potuto permettersi
di pagarla, dando libero sfogo ai propri stati d’animo.
Questo aneddoto, sempre nel racconto di Aulo Gellio, viene messo in relazione con il
successivo intervento del pretore, il quale introduce nell’editto un’azione generale per tutti i
casi di iniuria, chiamata azione per la stima in denaro degli atti ingiusti contro una persona
(actio iniuriarum aestimatoria). Non si prevedeva una pena fissa per l’iniuria ad una
persona, ma questa andava calcolata volta per volta, a seconda della situazione concreta,
rapportandola al tipo di offesa, alla qualità della persona che l’ha subita, al luogo dove si è
commessa, alle spese mediche sopportate ed alla perdita della capacità lavorativa.
La determinazione della pena era fatta dal giudice secondo un equo apprezzamento, solo in
caso di iniuria grave (valutata dal pretore in base alle modalità, al luogo, alla persona offesa
e alla parte ferita), si inseriva nella formula un “ammontare minimo” della pena, che il giudice
rispettava nella sua pronuncia di condanna.
Nel calcolo della pena ne restano invece fuori le menomazioni ed i danni estetici che non
influiscono su aspetti patrimoniali e, più in generale, i danni morali, con la motivazione che
il corpo di una persona libera non può essere suscettibile di una stima in denaro.
Un altro portato fondamentale dell’intervento pretorio è l’astensione del concetto di iniuria
dalla sfera puramente fisica a quella morale, per tutelare l’onore e la dignità della persona,
ponendo le basi di un’evoluzione concettuale e terminologica, che ha come sbocco l’odierna
nozione di ingiuria.
Nella visione del pretore e della giurisprudenza le lesioni a tali valori potevano avvenire in
una pluralità di modi, alcuni immediatamente evidenti anche per noi, altri più lontani dalla
nostra mentalità. Tra i primi rientrano gli insulti e le parole e gli scritti ingiuriosi, mentre
all’interno dei secondi troviamo le lesioni (anche fisiche) arrecate ad uno schiavo altrui o le
offese alla moglie o ai figli in potestà, che si consideravano altrettante iniuriae nei confronti
del padrone o del marito o titolare della potestà.
Nel corso del I secolo a.C. si vengono a distaccare alcuni specifici tipi di offese, che
transitano dal diritto privato al diritto pubblico, assumendo così il carattere di crimini.
Sono l’aggressione mediante percosse o bastonate e l’ingresso con violenza nella casa
altrui. Lo stesso avviene per la diffamazione verbale o scritta, alla quale un sentoconsulto
del Principato estende le prescrizioni della legge Cornelia, mentre per gli attentati alla
“pudicizia”, commessi nei confronti di donne libere di condizione sociale elevata o di giovani
liberi sotto i diciassette anni si istituiscono procedimenti straordinari con cui si comminavano
la pena di morte o la deportazione in un’isola.
L’esito di questa progressiva attrazione nel campo del diritto pubblico si coglie nelle
Istituzioni di Giustiniano, dove si afferma che il soggetto leso da un qualunque tipo di iniuria
aveva la scelta se procedere secondo il regime civile o quello penale.

IL DANNO CAUSATO DA ANIMALI DOMESTICI E I QUASI DELITTI


→L’actio de pauperie.
Tra i fatti illeciti generatori di obbligazioni, previsti dal ius civile, vale la pena ricordare, per gli
interessanti profili di attualità, il danneggiamento già conosciuto dalle XII Tavole con la
denominazione di pauperies, che di per sé significa “povertà” , ma nel linguaggio giuridico
assume il significato tecnico di “danno causato da un animale domestico”.
L’azione a disposizione del soggetto danneggiato è perciò chiamata actio de pauperie e per
poterla esercitare devono sussistere determinati requisiti.
Prima di tutto doveva essere un danno provocato da un animale quadrupede da lavoro o da
gregge. Il danno non doveva dipendere dall’intervento di terze persone, che avessero in
qualche modo spaventato, stuzzicato o molestato l’animale, perché in tal caso il danneggiato
avrebbe potuto agire direttamente contro di esse con l’azione nascente dalla legge Aquilia.
L’animale doveva quindi aver commesso il danno per sua inclinazione naturale: ad
esempio, un cavallo abituato a scalciare o un bue solito ad incornare.
Infine, deve trattarsi di un animale domestico perché gli animali che, una volta fuggiti, sono
senza padrone e la loro natura selvaggia ne giustifica gli eventuali danneggiamenti.
Ricorrendo tali requisiti, il padrone dell’animale domestico, chiamato in giudizio per il
risarcimento dei danni, si trova di fronte ad una scelta:
1. pagare la pena pecuniaria, commisurata al danno commesso
2. consegnare l’animale alla persona danneggiata.
La scelta se pagare la pena pecuniaria o consegnare l’animale non era una scelta che
gravava su chi fosse stato il padrone al momento della commissione del danno, ma su chi lo
fosse al momento dell’esercizio dell’azione ed infatti l’obbligazione di risarcire il danno
seguiva il diritto di proprietà sull’animale, configurandosi come un’obbligazione propter rem.
→I quasi delitti.
Tra le molteplici figure di illeciti introdotti dalla giurisdizione pretoria, accenniamo solo alle
figure più importanti. Poiché il pretore operava sul piano dei rimedi processuali, nelle fonti
romane se ne fa normalmente riferimento indicando le azioni previste per ciascuno.
● Azione per ciò che è stato versato o gettato (actio de effusis val deiectis)→ serviva a
sanzionare un illecito consistente nel versare o gettare qualcosa da un edificio, che,
cadendo in una pubblica via, avesse occasionato un danno.
L’editto pretorio la prevedeva per tre diverse fattispecie:
1. l’uccisione di un uomo libero→ per la quale a carico dell’abitante dell’edificio
era stabilita una pena fissa di cinquantamila sesterzi e l’azione contro di lui
si configurava come “un azione popolare”, che un qualsiasi cittadino avrebbe
potuto intentare entro un anno ed ottenere per sé il pagamento della pena
pecuniaria. In tal modo, di fronte alla morte di un passante, chiunque era
legittimato a far valere l’interesse collettivo di poter camminare nelle vie
pubbliche in piena sicurezza. Lo strumento dell’azione popolare era pertanto
destinato a tutelare quello che oggi si chiamerebbe un interesse diffuso. In
presenza di più cittadini disposti ad esercitare l’azione, era data preferenza ai
parenti più stretti della persona uccisa.
2. il ferimento di una persona libera→ mediante l’azione, otteneva, a titolo di
pena, dall’abitante dell’edificio non una somma di denaro fissa, ma
variabile in base ad un equo apprezzamento. La pena quindi andava
calcolata caso per caso in rapporto, ad esempio, come osserva Gaio, alle
spese mediche ed alla diminuzione della capacità lavorativa presente o
futura.
3. il versamento di liquidi o il lancio di oggetti da un edificio→ qualora avesse
causato un danno di tipo diverso da quello dell’uccisione o ferimento di un
uomo libero, avrebbe obbligato l’abitante a pagare a titolo di pena al
proprietario una somma pari al doppio del valore della cosa distrutta o
danneggiata o dell’animale o schiavo ucciso o ferito.
Il pretore pone a carico dell’abitante della casa, da cui si era prodotto il
versamento o la caduta, una responsabilità di tipo oggettivo indipendente dal
suo dolo o colpa e non solo per fatto proprio, ma anche per il fatto di altre
persone che rientrassero nella sua sfera di controllo, come i membri della
famiglia soggetti a potestà, gli ospiti, gli alunni.
Ove l’abitante fosse riuscito a provare che l’autore del lancio dell’oggetto o
del versamento del liquido fosse stato un suo schiavo, avrebbe potuto evitare
il pagamento della pena, consegnandolo al soggetto leso o al proprietario del
bene patrimoniale distrutto o danneggiato.
● Azione di ciò che è stato appoggiato o lasciato in sospeso (Actio de posito vel
suspenso)→nasce da un illecito che si verifica quando l’abitante di un edificio poggia
o sospende qualcosa sulle parti sporgenti di esso, che possa cadere in una pubblica
via ed arrecare un danno. Qui il fatto illecito non consiste nell’essersi verificato il
danno, bensì nel mero pericolo che si possa verificare→ è dunque la potenzialità
di un danno futuro ad essere considerata di per sé un illecito.
Anche in questo caso l’intervento pretorio è dovuto all’esigenza di tutelare un
interesse diffuso. Per questo quasi delitto è prevista un’azione popolare, esperibile
perciò da qualunque cittadino, contro l’abitante, che sarà obbligato a pagare a titolo
di pena all’attore una somma fissa di 10.000 sesterzi.
● Azione di furto modellata sul fatto contro gli armatori, gli albergatori ed i titolari di
stazioni di cambio con annessa locanda (Actio furti in factum e actio damni in factum
adversus nautas, caupones et stabularios)→ si tratta di due azioni introdotte dal
pretore, al fine di reprimere un furto o risarcire un danno subito dalle cose portate dai
passeggeri sulla nave, nell’albergo o nella stazione di cambio; per questo i legittimati
passivi erano i titolari delle rispettive attività.
Le due azioni sono dunque previste per ipotesi qualificate di furto o di danno, al di
fuori delle figure generali, e si caratterizzano anch’esse per essere fondate su una
responsabilità di tipo oggettivo, operante pure quando l’illecito fosse stato commesso
dagli ausiliari del titolare.
La pena era stabilita nella misura del doppio del valore delle cose rubate o
danneggiate. Queste due azioni penali pretorie si potevano esercitare anche
quando restasse ignoto l’autore del furto o del danno. Se però costui fosse stato
scoperto e si fosse trattato di un dipendente dell’impresa, in favore del derubato o
danneggiato concorreva in via alternativa anche l’ordinaria azione di furto o di danno
ex lege Aquilia contro il ladro o danneggiatore. All’imprenditore condannato era però
concessa l’azione di regresso contro il proprio dipendente per la restituzione di
quanto pagato.
● Azione di sepolcro violato (actio sepulchri violati)→ questa azione era concessa dal
pretore contro chi, con dolo, avesse violato un sepolcro altrui per una qualunque
ragione.
Legittimati attivi erano, in primo luogo, i soggetti interessati→i titolari del diritto ad
utilizzare il sepolcro, i quali avrebbero ottenuto la condanna del violatore al
pagamento di una pena determinata dal giudice secondo un equo apprezzamento.
In assenza di diretti interessati, l’azione poteva essere esercitata da qualunque
cittadino, configurandosi così come azione popolare, ed allora la pena pecuniaria era
determinata in una somma fissa di centomila sesterzi da corrispondere al
cittadino attore. Nel caso in cui volessero assumere questo ruolo più cittadini, il
pretore avrebbe scelto lui il più idoneo.
● Il giudice che fa propria la lite (iudex qui litem suam facit)→ in origine l’autore
dell’illecito poteva essere solo il giudice privato scelto dal pretore con il consenso
delle parti per pronunciare una sentenza con cui decidere una causa civile.
Esso si configurava quando costui avesse violato norme procedurale, ad esempio,
non comparendo in giudizio nel giorno stabilito dal magistrato (salvo un valido motivo
di giustificazione per differire), non pronunciando la sentenza o pronunciandola
senza osservare, in più o in meno, l’esatto ammontare della condanna o l’importo
massimo della stessa stabiliti nella formula predisposta dal pretore e dalle parti.
A partire dalla metà del II secolo d.C. costituisce un’illecita condotta dal giudice, che
integra questo quasi delitto, anche quella di emettere una sentenza in frode alla
legge e con dolo, motivato dalla scarsa sua obiettività verso le parti o dal suo spirito
abietto, subendo quale sanzione a suo carico il pagamento di una pena pecuniaria
pari all’effettivo valore della pretesa frustrata.
Alla decisione dolosa del giudice si equipara ben presto anche quella colposa. Se
non era possibile determinare l’effettivo valore dell’oggetto della lite, si procedeva ad
una valutazione in via equitativa della somma da pagare, rimessa alla decisione
di chi era chiamato a giudicare sulla condotta del giudice.
In età postclassica e giustinianea cambia profondamente la figura del giudice, che
non è più un privato cittadino, scelto dalle parti e dal magistrato, bensì un funzionario
alle dipendenze dell’imperatore che esercita le attività giurisdizionali insieme a quelle
amministrative.
In questa mutata cornice istituzionale si atteggia in modo diverso anche la
responsabilità del giudice, come risulta dal quadro che ci offre il Corpus iuris civilis di
Giustiniano. Da un lato si trovano ancora le disposizioni penali private anteriori
appena esaminate, a dimostrazione del persistere della loro vigenza; dall’altro, la
condotta dolosa o colposa del giudice che avesse arrecato pregiudizio ad una o
entrambe le parti→ si configura ormai come un crimine, determinando l’applicazione
di sanzioni penali pubbliche a suo carico, oltreché obbligarlo al risarcimento dei
danni.

IL SISTEMA ROMANO DELLA RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE O AQUILIANA


E’ possibile tracciare un breve quadro complessivo del sistema romano della
responsabilità extracontrattuale e delle sue conseguenze.
Si tratta di un sistema essenzialmente fondato su azioni tipiche, che imponevano all’autore
dell’illecito il pagamento di una somma di denaro quale pena per averlo compiuto, ma nello
stesso tempo anche la funzione di ristoro patrimoniale della vittima. Ciò non esclude che
quest’ultima, accanto alle azioni penali, potesse anche disporre di azioni “reipersecutorie”
per il recupero delle cose o il risarcimento dei danni.
La responsabilità anche in materia extracontrattuale sorgeva quando l’illecito fosse
imputabile al debitore e provocasse, secondo un nesso causale diretto, la lesione del
creditore.
I criteri di responsabilità, che si sono messi in luce, erano di tipo soggettivo (dolo e colpa)
oppure oggettivi, operanti, in quest’ultimo caso, non solo per fatto proprio dell’obbligato, ma
anche per fatto di una persona rientrante nella sua sfera di controllo. L’imputabilità veniva
meno, naturalmente, in presenza di eventi di forza maggiore o di una causa di
giustificazione, come lo stato di necessità o la legittima difesa.
Alle azioni nascenti dal diritto civile per certe figure di delitto, la giurisdizione pretoria ne
aggiunge altre per nuove figure. Oltre ad esse, però, tutte le volte in cui vi fosse stato un
pregiudizio patrimoniale causato intenzionalmente, ma non riconducibile ad alcuna delle
azioni civili o pretorie (ed alle sottostanti figure di delitto o quasi delitto), si sarebbe
comunque potuti ricorrere ad un’ultima risorsa: l’azione di dolo. La casistica
giurisprudenziale ne estende l’applicazione ai danni causati da false informazioni fornite di
proposito.
Nel diritto giustinianeo il quadro ora esposto subisce delle importanti trasformazioni.
Intanto, si configurano come crimini alcuni delitti o quasi delitti o fattispecie qualificate prima
rientranti in figure generali di delitto con la conseguenza di lasciare nella sfera del diritto
privato essenzialmente gli illeciti consistenti in un danneggiamento, poi assistiamo al
progressivo consolidamento di una figura generale di danno ingiusto mediante la dilatazione
dell’applicazione della legge Aquilia.
Un altro problema più specifico ricollegato alla sola figura del danneggiamento ex lege
Aquilia riguarda la possibilità che a chiedere il risarcimento, sulla base delle disposizioni
dei capitoli primo e terzo della legge, fosse non solo il proprietario dello schiavo,
animale o cosa uccisi o danneggiati, ma anche chi avesse, rispetto ad essi, un diritto
di credito.
La questione in tali termini non si è posta nell’esperienza giuridica romana, dove si
rinvengono invece testimonianze che rivelano una sfera di tutela della legge Aquilia estesa
ad ambedue le categorie di diritti. Al riguardo bastano due osservazioni:
1. il contenuto originario di questa legge accomunava nella protezione sia il diritto di
proprietà che i diritti di credito, a dimostrazione che era suscettibile di risarcimento la
lesione di entrambi;
2. anche dopo la caduta in desuetudine del capitolo secondo della legge, il pretore ed i
giuristi, attraverso la concessione di azioni modellate sul fatto e in via utile, basate
sempre su tale legge, riescono a tutelare anche il diritto di credito del soggetto
danneggiato.
Resta infine un ultimo punto: la possibilità di risarcimento del danno non patrimoniale
dipendente da un atto illecito. Occorre premettere che il diritto romano riflette un insieme
di valori insiti nella società delle sue varie epoche storiche, che non coincidono
necessariamente con quelli attuali.
I casi più evidenti sono quelli dell’azione nascente da un atto ingiusto contro la persona,
dove si stimava, ai fini dell’ammontare della pena, anche il danno causato all’onere di chi
agiva per le ingiurie subite personalmente o dai membri della sua famiglia; l’azione per ciò
che è stato versato o gettato, laddove fosse stato ferito un uomo libero in quanto nella
valutazione equitativa si includevano anche eventuali danni non patrimoniali benchè il punto
fosse controverso; l’azione di sepolcro violato, la cui pena, fissata dal giudice secondo equo
apprezzamento, quando ad agire fosse stato un titolare del diritto al sepolcro prendeva in
considerazione. Per cui il corpo di un uomo non era valutabile in termini di denaro, ed ancor
più dall’affermazione di Ulpiano, secondo la quale nessuno si può considerare proprietario
delle proprie membra, formulata proprio in sede di commento all’editto contenente l’azione
nascente da tale legge e volta ad evitare assimilazioni con la proprietà di schiavi, animali,
quadrupedi e cose.
Infine, un ultimo esempio è dato dall’estensione in via utile dell’azione di corruzione di un
servo, la cui pena, pari al doppio del valore dello schiavo corrotto, era comminata anche a
colui che avesse corrotto moralmente un figlio in potestà. Mentre nella sua applicazione
ordinaria la pena ha un riflesso patrimoniale perché diminuisce il valore dello schiavo,
l’adattamento dell’azione in via utile per corruzione di un figlio implica una pena dove al
carattere afflittivo si aggiunge il ristoro pecuniario per una forma di danno morale, che
colpisce la figura del pater familias, in quanto il figlio non è suscettibile di valutazione
economica.

IV: REGIME GENERALE

SPECIE DI OBBLIGAZIONI
Il diritto romano elabora diverse specie di obbligazioni, soprattutto prendendo come punto
di partenza le due fonti della stipulazione e dei legati ad effetti obbligatori.
La trattazione, però, non si rivela condotta in modo organico, ma l’individuazione delle
specie e le normative particolari che le caratterizzano sono chiaramente delineate,
rappresentando la base storica dell’attuale regime giuridico.
Le obbligazioni si dividono in:
● Obbligazioni civili ed obbligazioni pretorie
● Obbligazioni civili ed obbligazioni naturali→ l’espressione “obbligazioni civili” non sta
ad indicare le obbligazioni riconosciuto dal diritto civile, ma le obbligazioni per le quali
l’ordinamento giuridico prevede la tutela del creditore mediante azione.
Ogni volta che l’obbligazione dà vita ad un’azione, siamo nel campo delle
obbligazioni civili. Nel caso invece delle obbligazioni naturali, non esiste un’azione
a tutela delle pretese del creditore, ma ciò che il debitore ha spontaneamente pagato
viene trattenuto dal creditore stesso. Il caso più antico in cui i giuristi parlano di
obbligazione naturale è quello dei rapporti obbligatori assunti, mediante un atto
lecito, da uno schiavo con capacità intellettiva verso il titolare della potestà oppure
verso un estraneo. Quando ad esempio, un institore, un comandante della nave o il
gestore di un’impresa all’interno di un peculio fosse stato uno schiavo ed avesse
assunto un’obbligazione nei confronti di un creditore estraneo, questa sua
obbligazione si qualificava come naturale e le conseguenze erano che, se non
avesse pagato, il creditore non avrebbe potuto agire contro di lui grazie alla
creazione delle azioni adiettizie, gli era possibile rivolgersi solo contro il padrone. Se
invece lo schiavo avesse adempiuto, al suo proprietario sarebbe stata negata la
possibilità di chiedere la restituzione di quanto dato.
Da tale configurazione originaria il concetto di obbligazione naturale si estende, nel
diritto giustinianeo, anche altre situazioni di volontario adempimento a doveri non
giuridici, ma aventi rilevanza morale o sociale, quali l’adempimento di
un’obbligazione contrattata da un impubere senza l’autorizzazione del tutore o la
prestazione di attività lavorative al patrono da parte del liberto.
● Obbligazioni solidali ed obbligazioni parziarie→ le prime si considerano considerate
sia nella forma della solidarietà elettiva parlando dell’esercizio collettivo di
un’impresa, sia nella forma della solidarietà cumulativa che caratterizza le
obbligazioni da delitto.
Quando invece si parla di obbligazioni parziarie, siamo in presenza di più debitori o
più creditori, ciascuno dei quali deve adempiere o ciascuno dei quali può pretendere
l’adempimento, solo nella misura della propria quota e non per l’intero.
La natura solidale o parziaria di un’obbligazione, al di fuori delle obbligazioni del
delitto, dipendeva dal tipo di rapporto obbligatorio.
Operano diversamente anche i modi di estinzione:
➔ in quelle solidali l’adempimento di uno dei debitori o verso uno dei creditori
estingueva il rapporto obbligatorio per tutti;
➔ in quelle parziarie ciascuno doveva adempiere o poteva richiedere
l’adempimento solo della parte corrispondente.
● Obbligazioni generiche→ si tratta di obbligazioni il cui oggetto era determinato solo in
riferimento al genere: ad esempio uno schiavo, un cavallo, un fondo, tra le cose
infungibili e vino, olio, grano tra quelle fungibili.
Caratteristica di quelle obbligazioni era che, per essere adempiute, avevano
bisogno di un ulteriore atto, compiuto di solito dal debitore ma eventualmente
riferibile anche al creditore: la specificazione, letteralmente l’individuazione della
cosa specifica all’interno del genere.
● Obbligazioni divisibili e indivisibili→ questa distinzione è relazionata all’oggetto
dell’obbligazione.
In linea generale, si consideravano divisibili tutte le obbligazioni che avessero ad
oggetto una prestazione di dare e indivisibili tutte quelle, il cui contenuto consistesse
in un fare o non fare, quando debitori e creditori fossero stati più di uno.
Mentre le obbligazioni divisibili potevano adempiersi parzialmente, ciò non valeva per
le indivisibili. La divisibilità, inoltre, non andava considerata solo in senso materiale,
bensì anche idealmente.
● Obbligazioni alternative→ sono quelle che hanno ad oggetto più di una prestazione,
ma per il loro adempimento è sufficiente l’esecuzione di una sola. I casi più
frequenti derivano da una stipulazione o da un legato a effetti obbligatori, in cui il
creditore o il tentatore lasciano la scelta al debitore di adempiere eseguendo una o
l’altra prestazione.
Se normalmente si rimetteva al debitore la scelta della prestazione da eseguire, nulla
vietava che fosse deferita al creditore o perfino ad un terzo. Una volta effettuata la
scelta, l’obbligazione da alternativa diventava semplice.
Prima di allora si ammetteva, nel caso di opzione attribuita al debitore, un suo diritto
di modificarla fino al momento dell’adempimento. Qualora, invece, dovesse scegliere
il creditore, la possibilità di cambiare permaneva fino al momento in cui avrebbe
esercitato l’azione contro il debitore inadempiente, perché, nella relativa formula,
andava precisato l’oggetto della sua pretesa.
Un fenomeno di concentrazione poteva accadere anche ove una delle due
prestazioni divenisse impossibile.
La regola, che si afferma progressivamente nel diritto romano, è questa:
1. se la scelta era del debitore→ l’obbligazione da alternativa si trasformava in
semplice con un solo oggetto della prestazione, quello ancora possibile. Se
l’impossibilità non fosse dovuta a lui, il debitore poteva decidere se
eseguire quella possibile o pagare la stima in denaro di quella impossibile.
2. se la scelta spettava al creditore→ qualora il carattere alternativo venisse meno
non per un fatto del debitore, si verificava la concentrazione. Altrimenti il creditore
avrebbe potuto chiedergli la prestazione rimasta oppure la stima in denaro di
ciò che era divenuto impossibile.
● Obbligazioni propter rem→ anche di questo tipo di obbligazioni si è già detto in relazione
all’azione di “allontanamento dell’acqua piovana” tra fondi sovrastanti e sottostanti,
all’obbligazione di risarcire i danni causati da animali domestici e alla caratteristica
della nossalità propria di tutte le azione da delitto.
La loro connotazione era quella di essere un rapporto obbligatorio ma, nello stesso
tempo, con elementi reali, in quanto la persona obbligata era chiunque si fosse
trovato ad avere la proprietà del fondo sovrastante o sottostante, dell’animale
domestico o del servo, spiegandosi così l’aggiunta unificante del termine propter rem
(letteralmente “a causa di una cosa”).
● Obbligazioni pecuniarie→ si tratta di obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro.
Nel diritto romano, con riguardo ad esse, trovava applicazione il principio
nominalistico→ per cui il debitore doveva pagare la somma indicata al momento della
costituzione dell’obbligazione, anche se si fosse nel frattempo svalutata.
Ad esempio, se per la locazione di un edificio il conduttore doveva pagare una
somma di cento sesterzi all’anno per dieci anni, secondo il principio nominalistico, la
sua obbligazione sarebbe sempre stata quella di pagare cento sesterzi, anche se
l’effettivo valore degli stessi si fosse ridotto a settanta o sessanta.
Per ovviare alle conseguenze del principio nominalistico, sul piano dei rapporti
privatistici, la soluzione generalmente adottata era di compensare la perdita di valore
della moneta con il pagamento degli interessi, utilizzando quegli strumenti, la
stipulazione accessoria al mutuo o un semplice patto nel deposito irregolare o
aperto.

TRASMISSIONE DELLE OBBLIGAZIONI


Un rapporto obbligatorio dopo che è nato prima di essere estinto, può essere trasmesso
ad altri, con conseguente cambiamento del creditore o del debitore.
Nel primo caso, si è soliti parlare di cessione del credito, nel secondo di trasmissione
dell’obbligazione.
Questo fenomeno, nel diritto romano arcaico, era possibile solo per via di successione
ereditaria, dal lato sia attivo che passivo. Tuttavia, al più tardi nel II secolo a.C., si pone il
problema di trasmettere le obbligazioni anche tra vivi, che si risolve essenzialmente in
due modi:
● sostanziale→ uso del meccanismo della delegazione
● processuale→ si fonda sulla figura del rappresentante processuale “nel proprio interesse”,
denominato tecnicamente cognitor o procurator in rem suam.
Per quanto riguarda la delegazione in essa il cedente è il vecchio creditore, il
cessionario è il nuovo creditore ed il ceduto è il debitore.
Le tre parti dovevano essere d’accordo sulla cessione: il creditore originario, il delegante
(dava disposizione al proprio debitore, il delegato, di promettere con stipulazione
l’adempimento dell’obbligazione verso il nuovo creditore, il delegatario).
Concludendo tale stipulazione il delegato diventava debitore di un nuovo creditore, il
delegatario, al quale prometteva dunque l’adempimento. Nelle fonti si parla appunto di
delegazione di promettere (delegatio promittendi), qualificata dai moderni “attiva”, proprio
perché riferita alla cessione di credito. Lo stesso meccanismo si poteva utilizzare anche per
trasmettere l’obbligazione dal lato passivo ed allora al termine di delegatio promittendi si fa
l’aggiunta di “passiva”. In tal caso, ferma restando la necessità di un accordo delle tre parti
implicate, il delegante è il debitore originario, il delegato il nuovo debitore, mentre il
delegatario è il creditore.
Inoltre, si distingueva chiaramente tra una delegazione di promettere, con cui si realizzava la
sostituzione del creditore o del debitore di un rapporto obbligatorio, ed una semplice
delegazione di dare, in cui la sostituzione non aveva luogo all'assunzione dell’obbligazione,
bensì nel solo adempimento della stessa.
La delegazione realizza il passaggio dell’obbligazione sul piano pratico, mentre sul piano
giuridico si operava una novazione soggettiva, che estingueva la vecchia obbligazione e
sostituiva ad essa una nuova con un diverso soggetto.
Anche il meccanismo del rappresentante processuale necessitava dell’accordo di tutte e tre
le parti: le due originarie e quella che subentrava.
Dal lato attivo, il creditore nominava come proprio rappresentante il nuovo creditore e lo
incaricava di esercitare contro il debitore l’azione nascente dal rapporto obbligatorio per
ottenerne l’adempimento. Come si vede, il vecchio creditore è chi nomina il
rappresentante, quest’ultimo sarà il nuovo creditore, mentre il convenuto è il debitore.
A questo punto, in giudizio davanti al magistrato, si concludeva tra il rappresentante ed il
debitore l’atto processuale della “istituzione della lite”, a seguito del quale il debitore
convenuto avrebbe dovuto adempiere all’obbligazione nei confronti non più del creditore
originario, bensì del rappresentante processuale. Quindi il debitore, anche volendo, non
poteva più, dopo aver concluso la litis contestatio, effettuare la prestazione verso il creditore
originario, ma doveva farlo nei confronti del nuovo creditore, realizzandosi così la cessione
di un credito.
Da un lato passivo, il debitore originario nominava come rappresentante processuale il
nuovo debitore, il quale era convenuto in giudizio dal creditore che agiva contro di lui e, una
volta che si era conclusa la luis contestatio tra il nuovo debitore e il creditore, l’adempimento
dell’obbligazione doveva essere fatto nei confronti di quest’ultimo.
Non conosciamo le ragioni per cui sarebbe stato preferibile scegliere la strada della
delegazione anziché quella della rappresentanza processuale comunque, tra I e II secolo
d.C., questi meccanismi risultano eccessivamente complessi e si avverte la necessità di un
loro snellimento.
Si afferma così, sul piano sostanziale, la possibilità di trasmettere direttamente un
credito tra cedente (vecchio creditore) e cessionario (nuovo creditore), mediante una
pluralità di atti di natura contrattuale o quasi contrattuale dove si prescindeva
totalmente dalla volontà del debitore ceduto.
Quest’ultimo doveva essere informato, perché, se avesse ignorato la cessione, non gli si
sarebbe potuto impedire di adempiere nei confronti del suo creditore originario, né gli
sarebbe potuta imputare alcuna colpa. Ed allora, per evitare ciò, diventava indispensabile
che l’atto di cessione del credito fosse accompagnato da una comunicazione a lui, che le
nostre fonti spesso chiamano denuntiatio.
Anche il sistema processuale si semplifica ed alla rappresentanza si sostituisce l’impiego di
azioni in via utile, con le quali il nuovo debitore era chiamato in giudizio o il nuovo creditore
agiva adattando la formula dell’azione nascente dal rapporto obbligatorio originario alla
nuova situazione.
Tra il V e il VI secolo d.C. vengono approvati alcuni divieti di cessione di crediti
particolarmente svantaggiosi per il cedente. Quello più noto risale all’imperatore
Anastasio, che proibiva al cessionario di esigere dal debitore ceduto una somma maggiore
di quella pagata al cedente per farsi cedere il credito.

MODI DI ESTINZIONE DELLE OBBLIGAZIONI DIVERSI DALL’ADEMPIMENTO


Nelle trattazioni manualistiche di Gaio e Giustiniano si elencano i più importanti modi di
estinzione delle obbligazioni, subito dopo l’esposizione di quelle da atto lecito e prima di
quelle nascenti da illecito.
Tra gli studiosi di diritto romano si tende a racchiuderli in due grandi categorie sulla base
del loro modus operandi:
1. quelli di diritto (ipso iure)→ sono caratterizzati per il fatto che le obbligazioni si
estinguono “in modo automatico”, quando ricorrono le circostanze previste
dall’ordinamento;
2. quelli in forza di un’eccezione (ope exceptionis)→ tale risultato si raggiunge paralizzando
con un’eccezione processuale l’eventuale azione del creditore diretta a far valere il
proprio diritto.
Infine alcuni dei modi di estinzione come l’adempimento, la rimessione e la confusione, sono
comuni a tutti i tipi di obbligazioni a prescindere dalla loro fonte.
Altri riguardano solo certe categorie: la compensazione vale per le obbligazioni
contrattuale e da atto lecito, mentre la morte estingue le obbligazioni da pagare la pena
prevista per un fatto illecito.
● Adempimento (solutio)→ è il modo fisiologico di estinzione delle obbligazioni, è
comune a tutti i tipi e rientra nella categoria di quelli che operano ipso iure.
● Novazione (novatio)→ in origine, per realizzare una novazione si richiedeva come
requisito che l’obbligazione avesse ad oggetto la stessa prestazione ma con
qualcosa di nuovo.
Proprio con riferimento all’elemento di novità, si distinguono una novazione
soggettiva ed una oggettiva: nella prima, cambiano il creditore o il debitore, nella
seconda cambia o la causa dell’obbligazione o un elemento accidentale una
garanzia personale.
Tra II e III secolo d.C., diviene però essenziale la presenza di un ulteriore elemento,
di carattere volontaristico, chiamato volontà di novare (animus novandi): la sua
mancanza, infatti, impediva il verificarsi della novazione. Con la sua progressiva
affermazione, cade il requisito della necessaria identità di prestazione tra vecchia e
nuova obbligazione, rimettendosi alla sola esplicita volontà delle parti la decisione di
concludere la novazione, la determinazione dell’elemento nuovo e l’eventuale
osservanza di requisiti di forma. Le garanzie reali e personali, se non rinnovate,
cessavano e si interrompeva anche il corso degli interessi.
● Confusione (confusio)→ questo modo di estinzione delle obbligazioni si ha quando
vengono a coincidere le posizioni di debitore e frequente era quello delle successioni
ereditarie. Nel momento in cui compie l’accettazione, infatti, il rapporto
obbligatorio si estingue perché in Caio si cumulano la qualità di creditore e
debitore. Anche la confusione estingue le obbligazioni ipso iure.
● Remissione del debito (remissio debiti)→ consiste nella rinuncia volontaria da parte del
creditore al suo credito, con conseguente rinuncia a chiedere l’adempimento, che va
però manifestata in modo chiaro. A tal fine si potevano utilizzare una pluralità di atti.
Il primo atto formale è il pagamento con il bronzo e la bilancia, che in diritto antico
era l’unico modo per poter estinguere un’obbligazione nascente dal nexum.
Il secondo atto formale è l’acceptilatio, un termine che si potrebbe tradurre, non
letteralmente, con “dichiarazione solenne di accettazione”.
Anche in questo caso la sua origine è quella di atto di estinzione di
un’obbligazione nascente da stipulazione, dove il promittente chiedeva allo
stipulante di riconoscere l’avvenuto adempimento e lo stipulante rispondeva
affermativamente. Ben presto viene meno questa sua funzione, sostituendosi con
quella di una dichiarazione di accettazione di un adempimento che effettivamente
non c’è stato. Qualora si volesse impiegare questo atto di remissione per debiti non
derivanti da stipulazione, si doveva prima concludere quest’ultima, novando il debito
precedente, e poi procedere alla pronuncia di una determinata frase.
Ed è infine l’atto non formale, comunemente usato a fini di remissione, era il patto di
non chiedere la prestazione, quando creditore e debitore avessero concordato di non
apporvi un termine
● Compensazione (compensatio)→ in linea generale, il concetto di compensazione
implica che tra due soggetti esistano rapporti di debito e di credito reciproci, che si
estinguono nella misura in cui concorrono.
Diversamente dalle moderne codificazioni, in cui la compensazione è un modo
generale di estinzione delle obbligazioni, in origine il diritto romano l’ammetteva
esclusivamente in singoli casi e solo dalla fine del II secolo d.C. si generalizza,
estendendosi anche al di fuori di essi.
Il primo si aveva quando i rapporti obbligatori che si compensavano erano protetti da
un’azione di buona fede. In tali contratti era proprio l’elemento della buona fede che
determinava la compensazione delle reciproche pretese in sede processuale,
mediante la sentenza pronunciata dal giudice.
Il secondo caso riguardava l’azione che poteva intentare un banchiere contro il
proprio cliente era intercorsi rapporti di debito e credito reciproci, come avveniva nei
conti bancari, dove si registravano le partite di dare ed avere espresse in denaro e
derivanti da una serie di negozi conclusi tra cliente e banchiere. Laddove
quest’ultimo avesse voluto agire in giudizio contro il primo, avrebbe dovuto in via
preliminare effettuare la compensazione delle somme di dare ed avere e poi
determinare esattamente l’importo da richiedere nella sua pretesa.
Le Istituzioni di Gaio ci indicano che l’obbligo di compensare gravava soltanto sul
banchiere e non sul cliente, e che, se il banchiere e non sul cliente, e che, se il
banchiere nel calcolo si fosse sbagliato anche di una sola moneta in più, avrebbe
perso la lite per eccesso della pretesa.
Il terzo caso originariamente previsto si collegava all’esecuzione patrimoniale, in
quanto faceva riferimento all’acquirente in blocco dei beni di tutto il patrimonio del
debitore insolvente che subisce l’esecuzione patrimoniale, divenendone il
successore a titolo universale. Se costui si fosse trovato ad avere dei rapporti
reciproci di debito e credito con eventuali debitori dell’insolvente nel caso in cui
avesse voluto chiamarli in giudizio, doveva operare la compensazione, che qui
prende il nome tecnico di “deduzione”.
Al suo interno si distinguono una compensazione legale ed una giudiziale: la prima
operava automaticamente, a condizione che si trattasse di crediti reciproci, esigibili e
liquidi o di pronta liquidità (ossia espressi in denaro o facilmente traducibili in esso);
in tutti gli altri casi, la compensazione era giudiziale, perché effettuata dal giudice
nella sua sentenza. Le due forme, filtrate ed affinate dal diritto intermedio, sono
transitate anche negli ordinamenti moderni.
● Altri modi di estinzione→ la morte del debitore estingue unicamente le obbligazioni
contrattuali legate all’intuitus personae, cioè alla scelta di un preciso debitore, come,
per esempio, nel mandato o nella locazione di opera, e le obbligazioni da delitto, in
riferimento al pagamento della pena in denaro intrasmissibile agli eredi del debitore.
Le obbligazioni si estinguono anche per impossibilità sopravvenuta della prestazione
quando non sia imputabile al debitore, salvo quanto abbiamo detto in precedenza
circa la mora ed il mutamento delle circostanze.
Determina l’estinzione di un’ obbligazione anche il c.d. “concorso di cause”. Ci sono,
quindi, due cause per le quali lo schiavo andava trasmesso a Tizio: una era il legato
(quindi un atto mortis causa a titolo oneroso). L’adempimento di una delle
obbligazioni estingueva anche l’altra.
Tale soluzione si modifica agli inizi del II secolo d.C., con Giuliano, che la ritiene
insoddisfacente e troppo vantaggiosa per il debitore. Sulla base del suo pensiero, si
dispone che, le due cause siano entrambe lucrative (ossia a titolo gratuito per il
creditore) mentre, se una delle cause sia a titolo oneroso per il creditore questo,
oltre a ricevere lo schiavo in forza del legato, dovrà ricevere dall’erede anche la
restituzione del prezzo pagato per ottenerlo.

LE GARANZIE DELLE OBBLIGAZIONI


Distinguiamo le due grandi categorie delle garanzie personali e delle garanzie reali delle
obbligazioni.
Le prime si hanno quando una persona diversa dal debitore garantisce con il proprio
patrimonio l’adempimento dell’obbligazione si aggiunge a quella principale. Nelle garanzie
reali, invece, vi sono cose che sono costituite in garanzia per l’adempimento di
un’obbligazione, cosicchè, se il debitore non adempie, il creditore può rivalersi su di esse.
Tra queste ultime rientrano il pegno e l’ipoteca mentre, tra le garanzie personali le
stipulazioni passivamente accessorie, il mandato di credito ed alcuni patti pretori.
● le garanzie personali→ qui troviamo quattro forme di garanzie personali, due
contrattuali e due pattizie.
Le prime sono:
1. le stipulazioni con funzione di garanzia, dette dai moderni “stipulazioni
passivamente accessorie”: la sponsio, la fidepromissio e la fideiussio;
2. il mandato di credito o mandato qualificato, denominato nelle fonti mandatum
credendae pecuniae, letteralmente “mandato di dare a mutuo del denaro”.
Le due garanzie pattizie sono riconosciute nell’ambito del diritto pretorio che le tutela
con apposite azioni.
● le garanzie reali (pegno ed ipoteca)→ in esse la cosa costituita in garanzia forma
oggetto di un diritto reale del creditore, che gli permette di recuperarla da chiunque
l’abbia al fine di soddisfarsi su di essa in caso di inadempimento.
Accanto al pegno e all’ipoteca convenzionali, perché conclusi volontariamente, il
diritto romano conosce anche pegni ed ipoteche legali ed ipoteche tacite.
I primi sono previsti dall’ordinamento giuridico e le parti non possono rinunciarci. Le
ipoteche tacite, invece, benché anch’esse contemplate dall’ordinamento giuridico,
sono suscettibili di rinuncia da parte del beneficiario.
● il pegno→ si costituiva con un contratto reale, mediante il quale un soggetto detto
pignorante, che può essere il debitore o un terzo, consegnava una cosa destinata a
fungere da garanzia, ad un altro soggetto detto creditore pignoratizio, il quale
acquistava su di essa un diritto reale fino all’adempimento dell’obbligazione garantita.
Nel pegno il possesso della cosa andava al creditore e questo spiega perché tale
diritto avesse normalmente ad oggetto cose mobili oppure diritti, quali un credito
o un usufrutto.

CAPITOLO 7: IL PROCESSO PRIVATO E LA TUTELA DEI DIRITTI

NOZIONI GENERALI
Il processo civile è lo strumento predisposto da un ordinamento giuridico, per consentire al
titolare di un diritto o di un potere in ambito privatistico di chiedere ad un giudice di
riconoscerlo e dichiararlo, in quanto contestato da altri, e di intervenire eventualmente per
la sua attuazione concreta.
Di qui la fondamentale distinzione fra:
1. procedimento di cognizione→diretto alla valutazione dell’esistenza di tale diritto o
potere, mediante una sentenza che lo dichiari o lo costituisca,
2. procedimento di esecuzione→volto a rendere effettivo il diritto o potere dichiarato o
costituito.
Il processo è attivato da chi ha interesse al riconoscimento o all’esecuzione, che
prende il nome di “attore” o di “colui che agisce”, mentre il soggetto contro il quale si instaura
è detto “convenuto in giudizio” o più semplicemente “convenuto”.
L’attore, quindi, per dare inizio al procedimento, deve esercitare un’azione contro il
convenuto.
L’azione rappresenta l’esercizio di un diritto o di un potere sul piano processuale.
Lo svolgimento del processo è regolato in modo più preciso e dettagliato, man mano che si
passa dal diritto arcaico a quello giustinianeo. Termina sempre con la decisione definitiva di
un giudice contenuta in una sentenza, detta “giudicato” o “cosa giudicata” oppure con la
effettiva attuazione del diritto o potere, secondo modalità sempre dirette da un magistrato o
da un giudice.
Nell’arco del diritto romano si sono succeduti tre tipi di possesso civile (o privato):
1. arcaico→ retto da un sistema di azioni previste dalla legge, detto perciò per legis actiones;
2. del periodo classico o dell’età commerciale→ caratterizzato da una molteplicità di
formule scritte di azioni, introdotte dal pretore nel suo editto per i singoli rapporti giuridici, e
quindi chiamato “formulare” o per formulas;
3. del periodo postclassico e giustinianeo→ si connota per fondarsi su forme libere, ma
sempre scritte. La sua denominazione complessiva è cognitio extra ordinem, proprio per
sottolinearne la diversità dall’ordinamento dei giudizi formulari.
Nei primi due tipi la fase dell’impostazione del giudizio si svolgeva davanti al tribunale di
un magistrato, mentre la fase della presentazione delle prove avveniva di fronte ad un
giudice privato, il quale, in base ad esse, provvedeva ad emettere la sentenza.
Questa bipartizione non esiste più nell’ultimo tipo, dove le due fasi risultano unificate.
Infine, anche nel diritto romano si prevede la possibilità di seguire una strada alternativa al
processo civile per risolvere controversie di carattere patrimoniale: quella dell’arbitrato, in cui
la decisione, anziché essere rimessa ad un giudice, si devolve ad un arbitro scelto di
comune accordo dai litiganti, al cui lodo (sentenza) essi devono poi attenersi.

IL PROCESSO ARCAICO (PER LEGIS ACTIONES)


Il processo privato arcaico si svolgeva attraverso l’esercizio di azioni regolate dalla legge
delle XII Tavole e da altre leggi successive fino al III secolo a.C..
La nostra fonte di conoscenza fondamentale su di esso è data dal quarto libro delle
Istituzioni gaiane.
Le legis actiones sono solo cinque. Tre di queste azioni sono definite dichiarative (legis actio
sacramenti, iudicis postulatio e condictio), perché il loro fine era quello di accertare in via
giudiziale la fondatezza della pretesa di chi agiva; due invece erano esecutive (manus
iniectio e pignoris capio). Il loro elemento comune era la ritualità e l’estremo rigore
formale, per cui il mancato rispetto di un gesto o di una parola portava alla perdita della lite.
Le più antiche (già esistenti in età monarchica) si chiamavano “azione prevista dalla legge
fondata su un giuramento” (legis actio sacramenti) e “azione prevista dalla legge mediante
l’imposizione della mano” (legis actio per manus iniectionem). La prima, di natura
dichiarativa, aveva carattere generale e poteva essere in rem, quando aveva ad oggetto
l’affermazione della proprietà, di un diritto reale o di un potere su una persona, oppure in
personam, se avesse riguardato un rapporto obbligatorio.
La seconda azione, di carattere esecutivo, si utilizzava normalmente quando il convenuto,
condannato nella sentenza a pagare una somma di denaro, non lo avesse fatto nei trenta
giorni successivi. In tale eventualità, l’attore vittorioso avrebbe potuto trascinarlo con la forza
davanti al tribunale, dove pronunciava determinate parole.
Se il convenuto non avesse presentato un garante, disposto a contestare l’affermazione
dell’attore e ad assumere su di sé il relativo processo, sarebbe stato aggiudicato dal
magistrato all’attore stesso, il quale lo avrebbe potuto portare a casa ed incatenare,
utilizzandolo come forza lavoro. Il suo stato di soggezione durava sessanta giorni, durante i
quali il creditore avrebbe però dovuto esporlo a tre mercati consecutivi, al fine di trovare chi
lo riscattasse o comprasse; decorso inutilmente tale termine, le XII Tavole gli permettevano,
volendolo, di ucciderlo, anche se oggi si ritiene che potesse tenerlo presso di sé in uno stato
di soggezione permanente, ma sempre come uomo libero.
Delle rimanenti azioni, le due dichiarative costituiscono un’innovazione rispetto alla
sacramenti in personam: una era l’azione prevista dalla legge mediante richiesta di un
giudice (legis actio per iudici postulationem), si impiegava, secondo una disposizione delle
XII Tavole, in riferimento ai debiti in denaro nascenti dal contratto di sponsio e si era poi
estesa alle divisioni di cose in comunione; e l’altra, l'azione prevista dalla legge di ripetizione
intimando “al convenuto di comparire in giudizio” (legis actio per condictionem), regolata
dalle due leggi Silia e Calpurnia, aveva come campo specifico di applicazione quello dei
debiti aventi ad oggetto una somma certa di denaro o una cosa determinata.
Quella esecutiva, denominata azione prevista dalla legge attraverso l’apprensione di una
cosa in pegno (legis actio per pignoris capionem), era invece esperibile solo per particolari
controversie nascenti da rapporti connessi al diritto sacro o – in termini moderni – al diritto
amministrativo.
Sul procedimento di cognizione, cui davano vita queste azioni, sappiamo dalle XII Tavole
che aveva inizio con la chiamata in giudizio (in ius vocatio) del convenuto, mediante parole
solenni dette dall’attore. Le due parti dovevano essere entrambe presenti in tribunale davanti
al magistrato e lì andavano correttamente compiuti i gesti e pronunciate le espressioni
stabilite per l’azione esercitata. Il magistrato ne verificava la regolarità e la fase innanzi a lui,
nel quale si invitavano i testimoni a ricordare quanto era avvenuto, e con la scelta di un
privato cittadino cui affidare la funzione di giudice. La scelta avveniva di comune accordo tra
le parti ed il magistrato lo investiva del potere di emettere la sentenza.
Si apriva così la seconda fase del processo (apud iudicem), nella quale le parti dovevano
comparire davanti al giudice nel giorno fissato, entro mezzogiorno, pena la perdita della lite.
Egli presiedeva all’assunzione delle prove e pronunciava infine con sentenza la propria
decisione, che costituiva il “giudicato” con cui si risolveva in via definitiva la controversia.

IL PROCESSO FORMULARE (PER FORMULAS)


L’istituzione del pretore peregrino nel 242 a.C., in aggiunte al pretore urbano, incide
profondamente sul processo civile, portando al declino di quello arcaico in favore di un tipo
nuovo.
Infatti, al contrario dell’antico processo delle legis actiones, limitare nel numero,
rigorosamente formali e perciò immodificabili, nell’attività giurisdizionale del pretore
peregrino, esercitata tra cittadini e stranieri, era lasciato ampio spazio alla predisposizione
di nuovi strumenti processuali idonei ad adeguare l’ordinamento giuridico ai profondi
mutamenti economico-sociali intervenuti nel mondo romano con la fine del III secolo a.C..
Nasce così la procedura formulare, basata su tante formule di azione quanti erano i rapporti
giuridici da tutelare, dando vita in tal modo a molti degli istituti più dinamici del diritto privato.
Fino alla legge Ebuzia (approvata probabilmente intorno al 120 a.C.) nel tribunale del
pretore urbano si litigava secondo il vecchio processo, mentre nel tribunale del pretore
peregrino cittadini e stranieri impostavano le proprie controversie in base a quello nuovo.
Con tale legge cade la barriera che impediva ai cittadini di usare nelle liti fra di loro il
processo formulare, pur conservandosi l’alternativa volontaria di ricorrere ancora al sistema
arcaico. Gli editti del pretore urbano e del pretore peregrino cominciano così ad uniformarsi
sempre più, giungendo infine ad identificarsi a seguito di due leggi Giulie sui processi privati,
presentate da Augusto nel 17 a.C., probabilmente una per Roma e l’altra per colonie e
municipi, con le quali si imponeva in via generale il nuovo tipo di processo.
→Le formule
Con tale espressione si fa riferimento, come si diceva, alle formule scritte delle azioni
contenute nell’editto del pretore (prima solo peregrino e poi anche urbano). Esse erano
redatte in modo generale ed astratto, corrispondendo ciascuna ad un diverso e specifico
rapporto giuridico [tipicità delle formule]. Il loro numero era però indeterminato, in quanto
se ne potevano creare sempre delle nuove, in base alle esigenze concrete via via
emergenti, sia all’inizio dell’anno in carica sia durante l’esercizio della stessa mediante editti
di carattere contingente.
Nonostante la loro tipicità, già i giuristi romani avevano isolato all’interno della pluralità di
formula alcune clausole comuni e ricorrenti, che avevano definito “parti delle formule”, di cui
le principali erano:
- nomina del giudice [iudicis datio], fatta dal pretore, di solito su accordo delle parti, che si
poneva in aperta;
- intentio, dove era racchiusa la pretesa fatta valere dall’attore mediante l’esercizio
dell’azione, che poteva essere esattamente determinata oppure indeterminata nel suo
ammontare;
- demonstratio, dove si indicavano le circostanze di fatto e di diritto sulle quali si fondava la
pretesa [intentio] dell’attore, tutte le volte in cui la stessa fosse stata indeterminata;
- “clausola condannatoria” [condemnatio]con la quale il pretore investiva il giudice del
potere di pronunciare la sentenza di condanna o assoluzione del convenuto; anch’essa
poteva essere certa se conteneva una somma esatta di denaro o incerta con o senza la
fissazione di un limite all’importo della condanna;
- “clausola aggiudicatoria” [adiudicatio] è presente solo nelle formule delle azioni divisorie,
dove era conferito al giudice il potere di trasformare una comproprietà in tante proprietà
individuali e di regolamento dei confini;
- eccezione [exceptio], comprendente la difesa del convenuto nei confronti della pretesa
dell’attore, formulata come condizione negativa della condanna, cosicché il giudice avrebbe
potuto condannare solo nel caso in cui la circostanza opposta dal convenuto non fosse stata
provata. Le eccezioni potevano fondarsi sul ius civile o provenire dalla giurisdizione del
pretore; in tal caso, o erano già predisposte nell’editto oppure il pretore le concedeva casa
per caso, previa cognizione delle circostanze concrete. Inoltre si distinguevano in perentorie
o dilatorie a seconda che se ne potesse chiedere sempre l’inserimento nella formula oppure
solo in rapporto a certe circostanze di tempo o a situazioni personali dell’attore. Se l’attore
avesse voluto contestare il contenuto dell’eccezione, gli era data facoltà di opporgli una
“replica”, alla quale, a sua volta, il convenuto avrebbe potuto contrapporre una duplicatio.
Non tutte queste clausole comparivano sempre nelle formule. Quelle normalmente presenti
erano la nomina del giudice, la pretesa dell’attore e la clausola condannatoria, quest’ultima,
però, poteva mancare, come succedeva nelle azioni “pregiudiziali”, quali “quanto sia la dote”
o “se sia liberto”, dove il giudice era chiamato a compiere un semplice accertamento
preliminare rispetto ad un successivo eventuale processo.
Sempre i giuristi romani propongono anche diverse classificazioni delle formule [e quindi
delle azioni] sulla base di categorie più ampie che sono:
1. azioni [o formule] reali [in rem] e personali [in personam],che esprime in chiave
processuale la separazione fra diritti reali e diritti di credito, in termini moderni, fra diritti
soggettivi assoluti e relativi; ad essa si riconducono anche quelle azioni che presentano
entrambe le caratteristiche, come quelle di divisione di un’eredità o di una cosa in
comunione;
2. azioni di buona fede [iudicia o formulae bonae fidei] ed azioni di stretto diritto
[iudicia o formulae stricti iuris], da cui nasce sul piano sostanziale l’analoga distinzione
tra i relativi contratti; nei giudizi instaurati con le azioni del primo tipo, poiché il vincolo che
legava le parti si fondava sulla buona fede [oggettiva], al giudice era lasciata ampia libertà di
valutare le loro ragioni, tenendo eventualmente conto di comportamenti dolosi o minatori e di
una possibile compensazione delle reciproche pretese;
3. azioni penali [actiones poenales], reipersecutorie [actiones reipersecutoriae] e
miste [mixtae], volte ad ottenere, rispettivamente, la condanna al pagamento delle pena
pecuniaria, la condanna alle restituzioni, riparazioni e risarcimenti o la condanna al
pagamento di somme comprensive di entrambi gli aspetti, in dipendenza dall’aver
commesso un illecito;
4. azioni ed interdetti popolari [actiones populares, interdicta popularia],finalizzati a
tutelare cose destinate all’uso pubblico, o interessi diffusi, come quello della sicurezza dei
luoghi cittadini di passaggio o del rispetto dei sepolcri.
È importante richiamarne altre due, soprattutto perché ci illuminano sul modo di operare del
pretore e sulla sua capacità di adattare i rimedi processuali alle situazioni concrete.
Innanzitutto, quella tra formule (azioni) in ius e formule (azioni) in factum: le prime
fondate su rapporti già riconosciuti dal diritto, le seconde modellate su circostanze di fatto
prive di rilevanza giuridica prima della creazione dell’azione. Abbiamo visto due importanti
esempi nei contratti di deposito e comodato dove concorrono entrambi i tipi.
Poi, quella che distingue le azioni indirette (directae) ed utili (utiles). Queste ultime si
chiamano così, perché la formula base dell’azione [quella diretta, appunto] veniva adattata
con meccanismi introdotti dal pretore, al fine di ricomprendere casi e situazioni, che
altrimenti ne sarebbero rimasti esclusi. Tra di essi ricordiamo: le finzioni giuridiche, come
quando nella formula si dà per realizzato un certo evento non ancora avvenuto e le
trasposizioni di soggetto, che si incontrano allorché nella pretesa dell’attore si indica una
persona [ad esempio, il rappresentato] e nella clausola condannatoria un’altra [il
rappresentante processuale], oppure allorchè nella intentio si nomina la persona in potestà
che ha agito e nella condemnatio l’avente potestà.
Infine, si parlava di azioni infamanti, quando la condanna nei relativi giudizi implicava
l’applicazione della sanzione accessoria dell’infamia. Sul piano degli effetti, essa comportava, in
campo privatistico, alcune forme di incapacità, quali l’impossibilità di farsi rappresentare o
rappresentare altri in un processo, di fungere da testimone e di esperire azioni o interdetti popolari.
→Il procedimento
Anche nel processo formulare permangono le due fasi di trattazione di una causa: quella nel
tribunale del magistrato [in iure] e quella dinanzi al giudice privato [apud iudicem].
In iure→ L’attore chiamava in giudizio il convenuto con lo stesso atto visto nel processo più antico
[la in ius vocatio] ed il convenuto doveva seguirlo subito oppure prestava una promessa di
garanzia [detta vadimonio] di comparire davanti al pretore nel giorno stabilito, pena il
pagamento di una somma di denaro. Qui le parti dovevano essere presenti personalmente o
tramite rappresentante e la discussione si svolgeva in forma orale. L’attore esponeva le sue
pretese, indicava la formula dell’editto, a suo giudizio, più confacente e la richiedeva; il
convenuto avanzava le due difese, contestando eventualmente l’indicazione dell’attore. Il
pretore, sentite le ragioni di entrambe le parti, concedeva la formula richiesta oppure ne
assegnava un’altra da cui ritenuta più idonea. Se invece, all’esito della discussione, il pretore
ravvisava una palese infondatezza della pretesa dell’attore, gli negava l’azione.
Nella formula così data l’attore aggiungeva tutti gli elementi del caso ed il convenuto faceva
comprendere le eventuali eccezioni, infine il pretore vi premetteva la nomina del giudice, che
investiva del potere di giudicare. Una volta completata, si era fissato il contraddittorio [il
contenuto concreto della lite] e la formula, sempre in presenza del pretore, era letta
dall’attore al convenuto, che l’accettava. Tale atto costituiva la “istituzione della lite”, che,
delimitandone esattamente l’oggetto, poneva termine alla fase del procedimento in iure.
I suoi effetti principali erano tre:
1.devolutivo, perché la causa passava alla fase davanti al giudice;
2. preclusivo, dal momento che la stessa lite non si sarebbe potuta riproporre una seconda
volta in seguito;
3. conservativo, in quanto il giudice avrebbe dovuto decidere, tenendo conto della
situazione esistente fra le parti in quel momento.
L’intera fase in iure era dominata dai principi dell’oralità e della speditezza.
Il procedimento non poteva avere luogo in contumacia, occorrendo la presenza del
convenuto. Se questi si fosse intenzionalmente sottratto alla chiamato in giudizio (latitans) o,
ricevutala, non avesse seguito subito l’attore né prestato un vadimonio oppure se,
comparendo, non si fosse difeso o si fosse rifiutato di accettare l’istituzione della lite, l’editto
pretorio prevedeva delle sanzioni contro di lui, che variavano, a seconda che si trattasse di
azioni reali oppure personali. Nelle prime, gli veniva sottratto il possesso della cosa e si
invertiva a suo sfavore l’onere della prova, costringendolo a dimostrare il proprio diritto; nelle
azioni personali si disponeva contro di lui l’esecuzione patrimoniale che è stato esposto in
tema di debitore insolvente.
Attore e convenuto, se non volevano presenziare personalmente, potevano farsi sostituire
nel processo dai propri rappresentanti. Le due figure sono il cognitor, nominato in iure dalla
parte interessata con una formula esplicita, ed il procuratore alla lite, investito di tale
funzione senza forme ed anche in assenza o ignoranza della controparte. Erano comunque
previste delle cautele, per essere sicuri che gli esiti del procedimento ricadessero nella sfera
giuridica dei rappresentati. Queste differivano, a seconda se la rappresentanza riguardasse
l’attore o il convenuto; nel primo caso, sia nelle azioni reali che in quelle personali, il
procurator doveva prestare una stipulazione di garanzia che il rappresentato ratificasse il
suo operato, chiamata, questa volta, “cauzione che sarà adempiuto il giudicato”, solo che,
nel caso del procuratore, incombeva su di lui prestarla, diversamente, in presenza di un
cognitor, sarebbe stato il rappresentato a doverlo fare.
Oltre che per rifiuto dell’azione, il procedimento si sarebbe esaurito nella fase in iure di
fronte ad una confessione da parte del convenuto, in quanto la stessa era equiparata al
giudicato, o ad un giuramento decisorio. La prima possibilità, in realtà, evitava la seconda
fase del procedimento unicamente quando l’attore avesse esercitato un’azione personale e
la sua pretesa avesse avuto ad oggetto somme determinate di denaro; nelle altre ipotesi,
c’era il passaggio della causa al giudice, ma solo per valutarne l’oggetto in termini pecuniari.
Il giuramento si ammetteva solo su disposizione del pretore e produceva come effetto di
risolvere la lite, quando veniva prestato dalla parte cui era stato chiesto di giurare.
Occorre analizzare più da vicino l’effetto preclusivo della litis contestatio.
Da Gaio apprendiamo che, sulla base di alcuni elementi procedurali fissati dalla lex Iulia, si
tenevano distinti i “giudizi legittimi” dai “giudizi racchiusi nel potere di imperio del magistrato”:
i primi erano celebrati a Roma o entro un miglio, tra cittadini romani e di fronte ad un giudice
unico, la cui sentenza doveva essere pronunciata entro un anno e sei mesi, pena
l’estinzione del giudizio; gli altri erano tutti quelli che non presentavano tali elementi, in cui la
sentenza andava emessa prima della scadenza della carica del magistrato, davanti al quale
si erano instaurati. E proprio in riferimento a questi due tipi il giurista prende in esame gli
effetti preclusivi della litis contestatio.
Nei giudizi legittimi nascenti da un’azione personale, tale atto processuale estingueva
automaticamente il precedente vincolo obbligatorio tra le parti e lo trasformava in un nuovo
vincolo, a carico del convenuto, di accettazione del procedimento e di pagamento
dell’eventuale condanna disposta nella sentenza. Per effetto della litis contestatio,
l’impossibilità di riproporre la medesima controversia contro il debitore per l’identica
obbligazione. Nei giudizi legittimi nascenti da un’azione reale ed in tutti i giudizi imperio
continentia lo stesso risultato si raggiungeva soltanto in forza di una specifica eccezione,
chiamata “di cosa giudicata o dedotta in giudizio”, che, opposta dal convenuto assolto,
avrebbe precluso all’attore sconfitto la possibilità di agire nuovamente, realizzando così la
definitiva estinzione del rapporto giuridico esistenze in precedenza fra loro.
Se l’attore voleva evitare l’effetto preclusivo doveva far aggiungere nella formula dell’azione
un’apposita clausola, per delimitare l’oggetto della lite ad un aspetto preciso del rapporto
controverso riservandosi così la facoltà di poter agire anche in seguito su altri. Questa
clausola era la “prescrizione in favore dell’attore”. Gaio ce ne parla per le liti aventi ad
oggetto obbligazioni a prestazioni periodiche (come il pagamento del prezzo a rate o del
canone annuale o mensile di locazione o la prestazione di giornate lavorative) e per quelle
inerenti a clausole aggiuntive ad una compravendita, quando l’attore desiderasse contestare
solo alcune delle prestazioni o la singola clausola e lasciare integre eventuali furute pretese.
Apud iudicem→ Questa fase si celebrava davanti ad un giudice singolo o ad un collegio
giudicante (i recuperatori) ed era caratterizzata dall’assunzione delle prove, che avveniva
pubblicamente, di solito attraverso l’opera di oratori in funzione di avvocati.
Non esisteva un regime legale sul valore dei mezzi probatori e la loro efficacia era pertanto
pienamente rimessa alla discrezionalità del giudice. Al termine dell’istruzione probatoria, il
giudice emetteva la sentenza, che poteva essere di assoluzione del convenuto, respingendo
la pretesa dell’attore, oppure di condanna al pagamento di una somma di denaro.
Caratteristica del processo formulare era la natura esclusivamente pecuniaria della sentenza
di condanna.
Quando il convenuto avesse dovuto restituire cose determinate, era la natura
esclusivamente pecuniaria della sentenza di condanna prevista nella formula una clausola,
detta arbitraria o restitutoria, con cui sarebbe stato invitato a farlo, fissandosi, in caso
contrario, una stima pecuniaria dell’oggetto della lite, che sarebbe stato obbligato a pagare.
Il giudice nella pronuncia non doveva errare sull’importo esatto della condanna, altrimenti
avrebbe commesso l’illecito di “far propria la lite”. Allo stesso modo, avrebbe dovuto
respingere la pretesa dell’attore tutte le volte in cui in una intentio certa avesse demandato
più di quanto avesse diritto.
Questo fenomeno, tecnicamente, prendeva il nome di pluris petittio e si poteva
manifestare in quattro modi: richiedendo quantità non dovute prima della scadenza dei
termini, o in un luogo diverso o senza osservare le condizioni concordate in un’obbligazione
alternativa o generica contratta con stipulazione. Le conseguenze erano la perdita della lite
per l’attore.
Un ultimo punto da analizzare riguarda la possibilità per il convenuto di essere assolto, se
avesse soddisfatto la pretesa dell’attore nell’arco di tempo tra la litis contestatio e la
pronuncia del giudice
Nel processo formulare la sentenza del giudice costituiva il giudicato o cosa giudicata, non
potendo essere appellata. Solo con Augusto e l’instaurazione del Principato si è introdotta
questa possibilità.
L’operatività del principio della “cosa giudicata” era anticipato al momento dell’atto
conclusivo della fase in iure, anziché della pronuncia della sentenza. Sul piano pratico,
questo principio vietava di esercitare due volte un’azione per una stessa situazione.
L’identità di situazioni ricorreva, in linea generale, quando fossero uguali le parti processuali,
la richiesta ed i fondamenti della stessa.
Decorsi inutilmente trenta giorni dalla sentenza di condanna, essendo la stessa pecuniaria,
il condannato era soggetto al procedimento esecutivo.

→I mezzi complementari
Nell’editto del pretore, oltre alle formule delle azioni ed alle eccezioni, erano contenuti anche
altri rimedi giurisdizionali, attraverso i quali si sarebbero potute prevenire o risolvere
controversie senza far luogo ad un processo ordinario. Tre, fra tali rimedi, meritano la nostra
attenzione: gli interdetti, le reintegrazioni in pristino stato e le immissioni nel possesso, tutti i
tre fondati sul potere di imperio, di cui era dotato il pretore, più che sulla sua funzione
giurisdizionale.
gli interdetti→ erano strumenti di tutela più rapidi ed immediati rispetto alle azioni, perché
consistevano nell’ordine di tenere un certo comportamento, dato dal pretore a qualcuno su
richiesta di un interessato. La loro maggiore efficacia e velocità dipendeva dal fatto che
normalmente il destinatario assumeva il comportamento intimatogli dal pretore, senza
ricorrere ad un processo.
I giuristi avevano proposto varie classificazioni degli interdetti. La più importante li
suddivideva in interdetti proibitori [interdicta prohibitoria], finalizzati a vietare una condotta;
interdetti restitutori [interdicta restitutoria], destinati a ripristinare una precedente situazione
di fatto; interdetti esibitori [interdicta exhibitoria], diretti ad esibire una cosa o una persona.
La rilevanza della distinzione riguardava non solo gli scopi degli interdetti, ma fosse rifiutato
di eseguire l’ordine pretorio. Questo procedimento, infatti, poteva essere con o senza il
pagamento di una penale in denaro a carico delle parti.
Negli interdetti restitutori ed esibitori, la via seguita normalmente era quella sine poena,
richiedendosi al pretore una formula con la nomina di un arbitro incaricato di decidere la
controversia; negli interdetti proibitori, al contrario, il richiedente ed il destinatario
dell’interdetto promettevano [con sponsio] separatamente di pagare la penale, qualora un
giudice avesse ritenuto infondata o la pretesa alla base dell’interdetto o l’immotivata
resistenza ad esso.
In base ad un’ultima classificazione, gli interdetti si ripartivano in semplici, quando una delle
parti fungeva da attore e l’altra da convenuto, quando le parti assumevano entrambi i ruoli.
le reintegrazioni in pristino stato (restitutiones in integrum)→ con tali strumenti il pretore
provvedeva a porre il richiedente nella medesima situazione giuridica che aveva prima del
compimento di un atto, mediante l’annullamento dello stesso. Le diverse ipotesi, nelle quali
si sarebbe potuta domandare la reintegrazione, erano previste nell’editto ed il pretore vi
provvedeva, previa una valutazione delle circostanze concrete. Nulla però gli avrebbe
vietato di disporla anche al di fuori di tali ipotesi, ove l’avesse ritenuta opportuna nel singolo
caso. Il meccanismo processuale per realizzare la restitutio era normalmente la
concessione di una specifica azione rescissoria anche se il magistrato era pienamente libero
di ricorrere ad altri mezzi.
le immissioni nel possesso (missiones in possessionem)→ erano strumenti di coazioni
disposti dal pretore contro chi avesse assunto atteggiamenti immotivati di resistenza sul
piano sia sostanziale che processuale, come rifiutarsi di concludere la promessa di danno
temuto, di comparire in tribunale nel giorno stabilito, di difendersi in giudizio o accettare la
sua istituzione oppure di pagare la condanna pecuniaria per inadempimento contrattuale.
O anche avevano finalità conservative di un patrimonio, come le immissioni che si facevano,
su richiesta dei legatari, per salvaguardare l’oggetto dei legati, o su richiesta dei legatari, per
salvaguardare l’oggetto dei legati o, su richiesta del curatore, per lasciare intatte le
aspettative patrimoniali di un concepito. Oltre che patrimoni interi, potevano avere ad
oggetto singoli beni. Malgrado la denominazione l’immesso acquistava la mera detenzione
del patrimonio o della cosa, non potendo perciò vanta un possesso ai fini dell’usucapione,
salvo specifici interventi pretori.

I PROCEDIMENTI COGNITORI (COGNITIONES EXTRA ORDINEM)


La loro genesi si colloca nell’età di Augusto in relazione alla tutela giurisdizionale dei
fedecommessi e dei codicilli. Non nasce però come un sistema processuale generale
destinato a sostituire in blocco il processo formulare, ma come un tipo di procedimento
applicabile a singole materie non contemplate nell’editto del pretore.
Per esse, infatti, anziché sollecitare quest’ultimo a prevedere una nuova formula, il potere
imperiale preferisce introdurre una specifica e diversa forma processuale. Proprio perché
questi procedimenti si istituiscono al di fuori dell’ordinamento del processo formulare,
ricevono il nome di cognitiones extra ordinem o extraordinariae.
Due altri fattori contribuiscono al suo definitivo consolidamento: l’applicazione generalizzata
nelle province e l’intervento istituzionalizzato dell’imperatore come giudice di appello, che
non poteva certo esplicarsi mediante il processo ordinario.
Durante il III secolo d.C. il sistema formulare, ormai limitato alla sola città di Roma, tramonta
e, quando la costituzione dei figli di Costantino [Costante e Costanzo] del 342 d.C., lo
abolisce anche formalmente, qualificandolo come una “insidia causata dalla rete delle parole”,
non fa che prendere atto della realtà esistente.
→Caratteri generali
Pur nascendo le varie cognitiones in momenti diversi e per materie differenti, è possibile
cogliere alcuni elementi comuni.
In primo luogo, l’assenza di una bipartizione del processo nelle fasi dinanzi al magistrato e
presso il giudice. Tutta la causa si svolgeva di fronte ad un unico giudice o ad un suo
delegato, entrambi funzionari dell’apparato amministrativo imperiale. Con la scomparsa della
figura del giudice privato cittadino, sono pertanto attribuite ad un organo pubblico le due
fondamentali funzioni dell’assunzione delle prove e della pronuncia della sentenza. E
l’intervento pubblico connota l’intero procedimento.
Il carattere orale del processo formulare viene sostituito dalla forma scritta, che debbono
osservare tutti gli atti processuali, e le parti non sono più vincolate allo schema tipico della
formula, potendo esprimere liberamente le proprie ragioni. Viene però meno l’immediatezza,
con un aggravio dei tempi, perché pretese, difese e, più in generale, deduzioni dell’attore e
del convenuto vanno sempre racchiuse in documenti, che i giudici devono esaminare, e le
loro stesse decisioni vanno redatte per iscritto.
L’appellabilità delle sentenza fa sì che si costituisca un complesso apparato giudiziario
strutturato in modo piramidale, perché l’esame della sentenza appellata non spetta al
giudice che l’ha pronunciata, ma ad un giudice di grado superiore. Con l’appello si ha un
riconoscimento per le parti processuali di un diritto ad un “doppio grado di giudizio”. Al vertice
della piramide si trova il tribunale dell’imperatore, cui sentenza è definitiva.
→Procedimento
L’atto introduttivo di chi esercitava l’azione era la chiamata in giudizio del convenuto, che
però non si configurava più come puramente privato, richiedendo invece l’interposizione
della pubblica autorità, la quale provvedeva a render noto l’atto di citazione al convenuto con
l’intimazione di comparire all’udienza prevista.
Non era più necessario che le parti fossero presenti in giudizio, personalmente o per mezzo
di propri rappresentanti, in quanto il procedimento si sarebbe potuto celebrare anche in loro
contumacia, purchè fossero state avvertite, nei modi opportuni, della sua instaurazione.
Quando comparivano, precisavano le proprie richieste ed opposizioni, contenute nei
rispettivi livelli, fissandosi cos’ il contraddittorio. L’esposizione dell’attore e le repliche del
convenuto avvenivano nella prima udienza e costituivano la “istituzione del giudizio”.
Si passava poi all’esame delle eventuali questioni pregiudiziali, che potevano risolversi
anche con sentenze provvisorie, chiamate interlocutiones, quindi alla presentazione delle
prove. La loro valutazione non era più rimessa al libero apprezzamento del giudice, ma
veniva regolata a livello legale. Ad esempio, i documenti hanno una diversa efficacia, a
seconda che siano atti pubblici, atti notarili o scritture private; la prova documentale prevale
su quella testimoniale.
Quando il giudice emetteva la sentenza, questa non era più necessariamente di condanna
pecuniaria, ma imponeva al convenuto sconfitto il comportamento richiesto dall’attore: nel
caso in cui avesse dovuto restituire una cosa, la sua resistenza ingiustificata si sarebbe
superata con l’intervento della forza pubblica, che gli sottraeva la cosa e la consegnava
all’attore.
Negli altri casi, l’inottemperanza alla sentenza faceva scattare il procedimento esecutivo,
che però, in luogo di coinvolgere l’intero patrimonio, poteva riguardare anche singoli beni
assegnati a titolo di pegno ricavato. Solo quando non era più appellabile la sentenza andava
considerata definitiva e costituiva il giudicato, non potendosi più riproporre la stessa
controversia in seguito.

ECCEZIONE DI DOLO GENERALE (EXCEPTIO DOLI GENERALIS) ED ABUSO


DELL’ESERCIZIO DEI DIRITTI SUL PIANO PROCESSUALE
Nella concezione dei Romani, chiunque esercitasse un’azione per far valere un proprio
diritto, lo avrebbe fatto in modo pienamente legittimo, senza che il suo comportamento
fosse da considerarsi né come un dolo né come una “violenza”.
In presenza di determinate circostanze, l’esercizio di tale diritto si rivelava contrario alla
buona fede oggettiva, assumendo perciò una connotazione dolosa, e che in tali casi il
convenuto avrebbe potuto opporre a chi agiva l’eccezione di dolo c.d. generale.
Il riferimento non era solo al dolo commesso dall’attore al momento della conclusione di un
atto ma anche a quello che si sarebbe potuto configurare in un momento successivo con
l’esercizio dell’azione.

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