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ROMANO
CAPACITÀ DI AGIRE
E’ la capacità riconosciuta dal diritto di compiere degli atti e tenere dei comportamenti
che producono degli effetti riconosciuti dal diritto.
La capacità di agire è la capacità di rendere attivi i propri diritti.
E’ l’attitudine a compiere manifestazioni di volontà che siano idonee a modificare la propria
situazione giuridica.
Nel diritto romano ne erano titolari anche le persone prive della capacità giuridica, come
schiavi, stranieri ed alieni iuris, purché non si trovassero in una delle situazioni per le
quali l’ordinamento ne disponeva una limitazione come: impubertà, sesso femminile,
infermità mentale e prodigalità.
Parallelamente, un soggetto libero, cittadino e sui iuris, e quindi dotato di piena capacità
giuridica, versando in una di queste quattro situazioni, vedeva la propria capacità di agire
limitata e necessitava dell’assistenza di un tutore o curatore per compiere atti giuridici relativi
al proprio patrimonio. Tale assistenza non occorreva invece per chi non avesse la capacità
giuridica, poiché i suoi atti non producevano effetti in capo a lui bensì nella sfera
patrimoniale dell’avente potestà: il padrone, se si trattava di uno schiavo, il pater, nel caso
di un figlio soggetto alla patria potestas.
LA PERSONA UMANA
La persona umana è al tempo stesso un centro di imputazione di interessi concreti presi
in considerazione dal diritto.
L’ordinamento prende in considerazione la persona umana in quanto centro di interessi.
Un centro di interessi concreti riconosciuti dal diritto è anche motore di azioni dirette al
soddisfacimento di questi interessi → l’uomo è soggetto attivo del diritto.
Ogni essere umano ha, in quanto tale, la personalità giuridica → è una persona che
l’ordinamento prende in considerazione.
Tutti gli esseri umani hanno la stessa personalità giuridica,sin dalla nascita.
La persona è come attore e destinatario del mondo giuridico.
Nell'antica Roma perosna era una nozione più ampia, la soggettività giuridica era
riconosciuta solo a persone di sesso maschile che si trovavano in determinate situazioni.
PERSONALITÀ’ GIURIDICA
La personalità giuridica vuol dire essere titolari di diritti e di doveri. La personalità giuridica
è l’attitudine riconosciuta dal diritto a diventare soggetti di diritti e di doveri.
Personalità giuridica equivale a capacità giuridica.
DIRITTO E PERSONA
Non esiste un diritto/una facoltà senza la persona titolare e senza destinatario dell’azione o
del dovere implicato in quel diritto → in questo senso la persona è il soggetto attivo.
CAPACITÀ E POTERE
Per capacità si intende l’attitudine a diventare titolare di diritti e doveri → situazione
astratta
Per potere si intende la facoltà di esercitare in concreto determinati diritti e facoltà →
situazione concreta
I TRIA STATUS
I trias status erano le condizioni che facevano variare la capacità giuridica:
status libertatis → liberi ≠ schiavi.
status civitatis → cittadini romani ≠ stranieri
persona sui iuris → bisogna essere un pater familias per avere capacità giuridica ≠ persone
non autonome come il filius familias e la mulier in manu
Questi sono i requisiti della capacità giuridica per il diritto romano.
Essi non erano immodificabili, si poteva verificare un loro mutamento: capitis deminutio→
- massima> un individuo perdeva la libertà e la cittadinanza;
- media> un individuo perdeva la cittadinanza ma non la libertà
- minima> un individuo passava da sui iuris a alieni iuris
L'istituto del diritto di postliminio permetteva al Romano, caduto in prigionia dei nemici, di
riacquistare il suo precedente status una volta rientrato in patria.
STATUS LIBERTATIS
I manuali istituzionali gaiano e giustinianeo definiscono lo status come la somma divisione
tra le persone che si distinguono in liberi e schiavi.
Colpisce l’inclusione sul piano giuridico dei servi nel concetto di persona, dato che gli stessi
costituiscono anche una categoria di cose (res) e, come tali, suscettibili di atti di disposizione
patrimoniale.
Si rivela così, l’ambiguità della loro posizione all’interno del diritto: da un lato, persone dotate
di una propria capacità di agire e, dall’altro, cose oggetto di proprietà (dominium) del
padrone che li poteva vendere, donare, dare in pegno, lasciare in legato e così via.
Tale condizione è considerata come un istituto proprio del diritto comune a tutte le genti (ius
gentium), ma contraria al diritto naturale, secondo il quale tutti gli uomini nascono liberi;
essa può dipendere dalla nascita da madre schiava o dalla successiva riduzione in servitù
per cause previste dallo stesso ius gentium, come la prigionia di guerra, o dal diritto proprio
della comunità di appartenenza.
Nell’ambito delle persone libere, si dà importanza alla differenza tra chi è nato già in
possesso di tale status, detto “ingenuo” e chi invece lo ha ottenuto in seguito, il “liberto”.
Tale differenza è un indice sicuro di mobilità sociale, per cui gli schiavi non erano destinati a
restare tali per sempre, ma potevano ricevere la libertà dai loro padroni.
Il passaggio dalla condizione servile a quella di libero si rifletteva anche sul nome: mentre gli
schiavi erano indicati con uno solo, i liberti assumevano i tre nomi dei nati liberi: nome e
gentilizio (praenomen et nomen) del patrono, cui si aggiunge il cognome (cognomen) e/o un
agnome (agnomen), consistente o solo nell’antico nome servile oppure nell’aggiunta anche
del gentilizio o cognome del patrono con la desinenza “iano”.
Fin dal V secolo a.C., le tre più antiche forme di manomissione o affrancamento dalla
schiavitù attribuivano sia la libertà che la piena cittadinanza romana.
Le tre più antiche forme, che le Istituzioni di Gaio pongono sullo stesso piano e definiscono
iustae ac legitimae (conformi al diritto e legittime), sono:
1. la manomissione “con la bacchetta” (manumissio vindicta)→
la manumissio vindicta si modellava su una delle più risalenti azioni utilizzata nel
processo privato arcaico al fine di affermare giudizialmente la proprietà su cose o il
potere su persone.
In origine, davanti al tribunale del magistrato (in iure) un soggetto sui iuris
affermava, d’accordo con il padrone (il dominus), la libertà dello schiavo assumendo
le funzioni di adsertor libertatis (assertore della libertà) e lo toccava con una
bacchetta (la vindicta, appunto). Il padrone non replicava ed il magistrato dichiarava
la condizione di uomo libero dello schiavo, che così acquistava anche la cittadinanza.
Ad un certo momento il procedimento si semplifica ed è sufficiente la presenza in
iure del solo padrone, il quale, toccando il servo con la bacchetta, pronunciava una
formula solenne con cui lo dichiarava libero e la funzione del magistrato si limitava a
prenderne atto.
2. la manomissione nel testamento (manumissio testamento) →
la manumissio testamento era disposta dal testatore mediante l’uso di una precisa
formula.
La liberazione poteva essere stabilita senza condizioni (pura) oppure sottoposta a
condizioni: in quest’ultimo caso, il servo liberato nel testamento sotto condizione
prendeva il nome di “statulibero” (statuliber) e godeva della libertà solo con
l’adempimento della condizione.
3. la manomissione fatta nel censimento (manumissio censu)→
la manumissio censu infine si realizzava con l’iscrizione dello schiavo nelle liste
del censo (eseguito, in età repubblicana, dai censori ogni cinque anni) da parte del
padrone, che lo rendeva in tal modo libero e cittadino.
Il forte aumento del numero di schiavi nel corso del II e del I secolo a.C. porta ad un
aumento delle manomissioni ed all’introduzione di forme più semplici e rapide, come
quella inter amicos (fatta con dichiarazione agli amici) e quella per epistulam (mediante
lettera).
Parallelamente, sotto Augusto, prevalgono i timori di un’eccessiva alterazione della
compagine sociale dovuta al gran numero di neocittadini di origine servile, che inducono ad
approvare alcuni interventi limitativi della libertà di manumissione dei padroni.
→ legge Fufia Caninia del 2 a.C., con cui si stabiliva un numero massimo di schiavi che si
potevano manomettere per testamento, proporzionandolo a quelli posseduti dal testatore.
→Nel 4 d.C. viene approvata la legge Aelia Sentia, che vietava le manomissioni in frode
ai creditori e regolava quelle compiute in favore di schiavi colpiti da pene infamanti,
equiparandoli agli stranieri arresisi, e di schiavi minori di 30 anni da parte di padroni
minori di 20, attribuendo agli stessi lo status non di cittadini, ma di Latini Aeliani, a meno
che, nel secondo caso, non si fossero osservate certe modalità.
→la lex Iunia Norbana, approvata sotto Tiberio nel 19 d.C., ma in linea con la politica
augustea, riconosceva lo status di Latini Iuniani, e non di cittadini, agli schiavi manomessi
in forme solenni.
Si distinguono in Gaio tre generi di liberti:
1. quelli divenuti cittadini romani
2. quelli divenuti Latini
3. quelli annoverati tra gli stranieri dediticii→ erano gli abitanti di città straniere che, dopo
aver combattuto il popolo romano, erano state vinte e si erano arrese, erano privi di civitas e
pertanto erano tenuti ad osservare sempre il ius gentium.
Tali categorie, pur sopravvivendo alla costituzione Antoniniana del 212 d.C. , decadono
profondamente già sul finire del III secolo d.C.
La grande suddivisione delle persone tra schiavi e liberi permane anche nel diritto
giustinianeo, pur considerandosi la schiavitù come un istituto del ius gentium contra
naturam; si ampliano però i tipi di manomissione, manifestando un evidente favore
dell’ordinamento giuridico per la libertà, aventi ad oggetto l’accertamento dello stato di
schiavo.
STATUS CIVITATIS
La differenza tra cittadini e stranieri in tema di capacità di diritto privato era importante in
epoca arcaica, mentre viene progressivamente meno durante la tarda Repubblica ed il
Principato.
Nella più antica città esistevano, infatti, alcuni istituti giuridici riservati ai cittadini, da cui gli
stranieri erano esclusi, quelli del:
1. ius Quiritium (il diritto dei Quiriti)→ vi rientrava la più risalente forma di proprietà privata.
2. ius civile→ inteso come diritto proprio dei soli cittadini
Comprende ad esempio: la “mancipazione” (mancipatio), l’usucapione (modo di
acquisto della proprietà di una cosa o di altro diritto reale di godimento su di essa,
mediante il possesso della cosa stessa per un periodo di tempo stabilito dalla legge)
ed il contratto di sponsio (antico contratto verbale, con il quale era possibile
assumere obbligazioni di qualsiasi contenuto mediante la pronuncia di determinate
parole)
Gli stranieri non si trovavano tutti in una identica condizione, configurandosi al loro interno
varie categorie.
I più privilegiati erano i federati→ mediante i singoli trattati (foedus) potevano essere
riconosciuti determinati diritti nella sfera dei rapporti privati con i Romani.
L’incapacità dipendente dallo status civitatis si attenua agli inizi del II secolo a.C. a seguito
dell’espansione imperialistica di Roma dopo le guerre puniche e dello sviluppo del ius
gentium,
Nel 212 la costituzione Antoniniana, emanata dall’imperatore Antonino Caracalla, estende lo
status di cittadino a tutti gli abitanti dell’Impero.
PATRIA POTESTAS
Era riconosciuta solo ai maschi puberi, cittadini romani e sui iuris (non avevano a capo
un Pater Familias).
Ne erano escluse le donne per cui le donne non possono essere a capo di un gruppo
famigliare.
Si esplicava la patria potestas sui figli naturali e legittimi, sui figli adottivi e sulle mogli.
Il pater famiglia aveva:
1. ius vitae ac necis→ diritto di vita e di morte sui sottoposti. Era il diritto del padre di
uccidere il figlio. Questo diritto si esplicava nell’età arcaica.
Con il tempo venne fortemente limitato, come in età imperiale. Limitandola a tal
punto che non viene più esercitata.
2. ius noxae dandi → diritto di dare a nossa i figli. Se il figlio aveva commesso
un’azione dalla quale ne erano derivati danni a terzi, il padre doveva o intervenire a
riparare il danno causato o poteva anche non risarcire il danno e dare il figlio a
nossa, ovvero dare il proprio figlio a favore di altri al fine che egli stesso ripari il suo
danno.
3. ius vendendi→ diritto di vendere i figli. E’ la scelta del padre di vendere il figlio ad un
terzo. Dopo aver venduto il filius per tre volte consecutivamente, questo diventava
libero ed acquista la patria potestas. Costantino e Giustiniano lo limitarono.
4. ius exponendi→ diritto di esporre i figli. Nell’antica roma il padre poteva decidere di
non riconoscere il figlio, lo esponeva ovvero abbandonava.
I: LE COSE
LA CLASSIFICAZIONE DELLE ISTITUZIONE DI GIUSTINIANO
In apertura del secondo libro delle istituzioni di Giustiniano è esposta una
classificazione delle cose sotto il profilo della loro appartenenza a essa.
Si apre con la bipartizione tra:
1. cose compresi nel nostro patrimonio;
2. cose al di fuori del nostro patrimonio.
Segue un ulteriore ripartizione fra:
1. cose comuni a tutti per diritto naturale→ le cose comuni a tutti sono l’aria, l’acqua
corrente, il mare ed il lido del mare, la cui estensione si misura in base al limite
raggiunto dalle onde nella stagione invernale.
A nessuno può essere impedito l’accesso al lido del mare ed il suo uso.
2. cose pubbliche→ le cose pubbliche si possono distinguere in cose “destinate all’uso
pubblico” e in cose pubbliche “patrimoniali”.
Una tale distinzione si ricava agevolmente dai dati del Digesto e delle Istituzioni
giustinianee, che fanno rientrare nella prima categoria i fiumi ed i porti, attribuendo a
tutti un diritto di pesca in essi, le cose appartenenti ad una comunità cittadina, come
stadi e teatri. Con riguardo alle cose di una collettività, si precisa che la stessa ne ha
la proprietà e non i singoli che la compongono.
3. cose di una collettività
4. cose di nessuno→ le cose di nessuno vengono a racchiudere quelle “di diritto
divino”, suddivise in:
● sacre (sacrae, come templi, santuari, boschi)
● religiose (religiosae, come i luoghi di sepoltura)
● sante (sanctae, come le porte e le mura della città).
5. cose di proprietà dei singoli→ le cose dei singoli sono quelle suscettibili di proprietà
privata individuale.
Mettendo a confronto le due classificazioni si potrebbe dunque concludere che: le cose
comuni a tutti, le cose di nessuno e le cose destinate gli usi pubblici facciano parte di quelle
cose extra patrimoniali→ non possono formare in alcun modo oggetto di rapporti
giuridici patrimoniali e di esse non si può trasmettere la proprietà.
Mentre si annoverano tra quelle in patrimonio tanto le cose di proprietà privata
individuale quanto le cose patrimoniali pubbliche, anche se diverso è il soggetto che ne
può disporre.
Accanto alla bipartizione tra cose extra patrimonium e in patrimonio, le fonti ne conservano
un’altra prospettata soprattutto in tema di compravendita: quella fra “cose in commercio” (res
in commercio), ossia suscettibili di “commercio giuridico e quindi passibili di alienazione
(trasferimento di proprietà o di diritti), e “cose fuori dal commercio” (extra commercium), che,
come tali, ne sono escluse. Fra queste ultime vanno ovviamente comprese tutte le
categorie di cose extra patrimonium.
III: LA PROPRIETA’
ORIGINI E SITUAZIONE NEL DIRITTO ARCAICO
All’epoca dei gruppi gentili, prima della fondazione di Roma e per un certo periodo anche
successivamente, si può già intuire l’esistenza di un diritto di appartenenza delle cose,
che assumeva due forme:
1. collettiva→ la prima era di tutto il gruppo gentilizio e riguardava sicuramente la terra
dove esso viveva e probabilmente le greggi degli animali domestici più legati
all’economia pastorale di quell’epoca.
2. individuale→ un’appartenenza individuale dei singoli componenti del gruppo relativa
ad attrezzi da lavoro, armi, oggetti personali quotidiani ed animali da cortile.
La fondazione della città introduce una nuova forma di appartenenza, quella pubblica, che
si aggiunge alle altre due.
Da allora la collettiva e gentilizia comincia a decadere e a trasformarsi, secondo
un’evoluzione, il cui andamento è difficile da cogliere, mentre lentamente cresce il ruolo
della privata, alla quale si affianca la pubblica, spettante alla civitas→ la nuova comunità. Al
primo monarca e mitico fondatore di Roma, Romolo, è fatta risalire la forma più antica di
proprietà privata del suolo, derivante dall’assegnazione ad ogni cittadino (maschio e sui
iuris, naturalmente) di lotti da due iugeri (bina iugera), chiamati heredium (terra che va in
eredità), per indicare che si trattava di una porzione di terreno destinata alla successione
ereditaria, e quindi trasmissibile agli eredi. Considerata l’esiguità delle sue superficie, la
maggior parte delle terre restava ancora di proprietà delle antiche genti o della comunità
cittadina.
Sempre in epoca monarchica, nasce la distinzione fra res mancipi e res nec mancipi,
collegata al potere chiamato mancipium, che il pater familias esercitava su alcune categorie
di persone e su determinate cose, qualificate appunto mancipi e considerate le più
importanti sul piano economico (fondi, schiavi, animali da sola e da lavoro e servitù prediali
rustiche).
Il potere di disposizione del pater esisteva per entrambe, ma per le prime il mancipium era
trasmissibile, tra vivi (inter vivos), solo facendo uso dello specifico negozio della
“mancipazione” (mancipatio), il cui rituale comportava la pronuncia di determinate parole,
l’impiego di un pezzo di bronzo da porre una bilancia e la presenza di cinque testimoni.
Per le altre, invece, la trasmissione non richiedeva alcun atto formale.
Una tappa significativa verso la formazione di un concetto più preciso di proprietà privata
pubblica la troviamo all’inizio dell’era repubblicana quando si contrappongono:
1. le terre pubbliche→ denominate ager publicus, perché ne era proprietario tutto il
popolo.
Una parte delle terre pubbliche, incrementate dalle conquiste militari, anziché essere
lasciate alla comunità, si era preferito, non senza notevoli lotte politiche e sociali,
distribuirle ai cittadini soprattutto della classe plebea e quindi la comunità cittadina
nel suo insieme
2. terre in proprietà dei privati→ designate normalmente con il termine “terra divisa e
assegnata che ne evoca le origini”.
Da un lato, infatti, le vecchie terre collettive erano state a poco a poco divise ed
assegnate in proprietà ai singoli capifamiglia (patres familias) componenti delle genti
stesse;
Nello stesso arco temporale, si definisce la separazione tra le categorie della proprietà e del
possesso.
Le terre pubbliche erano, infatti, suscettibili di occupazione e sfruttamento da parte di
cittadini in origine membri della sola classe patrizia. Sul piano giuridico il loro rapporto su
quella terra non si qualificava come un diritto di proprietà, bensì come un “possesso”
(possessio) dell’ager publicus, distinguendosi con chiarezza la proprietà di esso che era di
tutta la comunità, del possesso, esercitato dal singolo cittadino, in cui era comunque
implicita l’idea della sua utilizzazione.
Sia il proprietario che il possessore potevano usare e disporre della terra, trasmettendola
con atto tra vivi o in via ereditaria.
Esisteva però una differenza sotto un duplice punto di vista: il possesso veniva meno nel
momento in cui non si esercitava, a differenza della proprietà, dove il proprietario restava
tale anche senza esercitarne il diritto, e poi la proprietà era tutelata nei confronti dei terzi in
un modo più o meno ed assoluto rispetto al possesso.
Nel V secolo a.C. valeva un’apposita “azione di legge”, sorta probabilmente in età
monarchica e prevista dalle XII Tavole, chiamata sacramenti in rem, di cui solo il
proprietario poteva far uso contro chiunque possedesse una sua cosa al fine di recuperarla.
Le Istituzioni di Gaio ci informano che con essa si poteva rivendicare non solo la proprietà
dei fondi, ma anche di una qualunque altra cosa, mobile o immobile, mancipi o nec mancipi.
Il possesso delle terre pubbliche non era tutelato con quest’azione, ma con altri rimedi,
di cui, però, conosciamo il nome e sappiamo qualcosa di certo solo con riferimento al
periodo tra III e II secolo a.C. Si tratta probabilmente dei precedenti storici dei successivi
interdetti possessori creati dal pretore e chiamati “interdetti per trattenere il possesso” e
“interdetti per recuperare il possesso”.
LA COMPROPRIETA’
Si parla di comproprietà o condominio quando più soggetti sono riconosciuti come proprietari
di una stessa cosa.
Il “condominio indiviso” si formava automaticamente sul patrimonio ereditato tra i sui
heredes alla morte del pater. Gaio precisa che in un’epoca successiva era stata ammessa
la costituzione di tale condominio anche fra estranei indipendentemente dal decesso
dell’avente potestà. Sua caratteristica peculiare era l’assenza dell’idea di quota, per cui
qualunque condomino si riteneva proprietario del tutto.
Dal tipo arcaico si passa, attraverso un procedimento storico, le cui tappe ci sfuggono, alla
nozione matura di comproprietà tutta incentrata sull’idea di quota intesa come una porzione
ideale sul bene indiviso spettante a ciascun condomino, di cui lo stesso poteva liberamente
disporre.
Per contro, qualora un condomino avesse voluto disporre per intero delle cose in
comunione, doveva ottenere il consenso degli altri, altrimenti ognuno avrebbe potuto
bloccare con il proprio veto (ius prohibendi) l’atto dispositivo.La comproprietà poteva essere
costituita volontariamente, o quando due persone acquistavano insieme un bene, oppure
incidentalmente, come nella coeredità o nel legato congiunto o nella confusione. La
situazione di condominio volontario risultava da uno o più atti traslativi posti in essere dai
condomini: mancipatio o in iure cessio per le res nec màncipi.
Per ogni situazione di comproprietà vale, inoltre, con riferimento alle quote, il “diritto di
accrescimento” per rinuncia volontaria di un condomino e la possibilità di rivendicare pro
parte il possesso della cosa comune, esercitando in misura corrispondente l’azione di
rivendica.
L’usufrutto difendeva il proprio diritto erga omnes, con un’azione in rem chiamata nelle fonti
in due modi: “rivendica dell’usufrutto” o “azione confessoria”, in contrapposizione all’azione
negatoria con cui il proprietario nega l’esistenza dell’usufrutto. Sono affini all’usufrutto due
altre figure di diritti reali di godimento, le cui caratteristiche sono praticamente le stesse,
sopravvivendo ancora nel nostro Codice civile: l’uso (usus) e l’abitazione (habitatio). Le
differenze tra uso ed usufrutto erano essenzialmente tre.
→il titolare del diritto di uso (detto usuario) poteva solo utilizzare la cosa, ma non trarne i frutti, ad
eccezione di quelli per la necessità quotidiane
→non poteva cedere ad altri l’esercizio del diritto di uso; inoltre, mentre l’usufrutto, in presenza di
più usufruttuari, era divisibile in quote, l’uso si considerava indivisibile
→oggetto del diritto reale di abitazione era quello di abitare in una casa o edificio. Questo diritto
rappresenta una delle tante possibilità, accanto all’usufrutto o ad un contratto di locazione di cosa o di
comodato, che l’ordinamento giuridico offriva a chi intendeva permettere ad altri di vivere in una sua
abitazione.
LE SERVITU’ PREDIALI
Possiamo definire le servitù prediali volontarie come il diritto reale che ha il proprietario di
un fondo, detto fondo dominante, di sfruttare un’utilità che deriva a tale fondo da quello
di un altro proprietario, detto perciò fondo servente. Quindi, affinchè sussistesse una
servitù prediale, occorrevano come presupposti che i due fondi appartenessero a due
persone diverse, che vi fosse una utilità oggettiva del fondo dominante sul fondo servente,
ed infine che i due fondi fossero vicini, anche se non necessariamente confinanti.
In riferimento al primo presupposto, i giuristi romani hanno elaborato la massima: nemini (o
nulli) res sua servit, la cui traduzione non letterale è “nessuno può esercitare una servitù
su una cosa propria”. Essa, come è evidente, significa che una servitù prediale poteva
costituirsi solo tra fondi di proprietari diversi e conseguentemente, se, per qualunque motivo,
la proprietà del fondo dominante e del fondo servente si fossero cumulate nella stessa
persona, la servitù si sarebbe estinta.
Gli altri due presupposti sono collegati: l’utilità doveva essere oggettiva e riguardare i fondi,
non i loro proprietari. Proprio perché l’utilità dipendeva dallo stato dei luoghi, occorreva la
vicinanza dei due fondi. Inoltre, a causa della natura oggettiva dell’utilità tra fondi, non si
ammise che una servitù prediale potesse formare oggetto di usufrutto, in quanto tale diritto,
essendo legato alla persona dell’usufruttuario, si sarebbe estinto con la sua morte.
Le servitù prediali sono tipiche, nel senso che dovevano necessariamente corrispondere
ai tipi man mano previsti dall’ordinamento giuridico. Fin dall’epoca arcaica, all’interno di
essi, si distinguevano le servitù prediali rustiche, relative ai fondi situati in campagna, e le
servitù prediali urbane, concernenti gli edifici posti in città. I tipi più antichi di servitù prediali
rustiche sono le servitù di passaggio→le tre servitù di passaggio attribuivano al proprietario del fondo
dominante il diritto di passare nel fondo servente.
● via
● iter e actus
● servitù di acquedotto (aquaeductus).
Quando si costituiva l’iter, egli poteva passare a piedi o a cavallo nel fondo servente,
mentre, nel caso dell’actus (conduzione), poteva condurre il proprio bestiame o un carro
attraverso il fondo servente. La via, invece, era una servitù di passaggio comprensiva delle
altre due. Successivamente l’actus venne ad includere anche l’inter e ad identificarsi
progressivamente con la via. La servitù di acquedotto, per contro, serviva al proprietario del
fondo dominante per far passare nel fondo servente l’acqua che gli era utile, derivandola, ad
esempio, da un fiume pubblico.
Le servitù prediali rustiche più risalenti non erano concepite come diritti, bensì come cose
rientranti fra le res màncipi.
A queste più antiche si sono aggiunte, con il tempo, altri tipi di servitù rustiche, come quella
di attingere l’acqua dal fondo servente, di far pascolare i propri animali in esso o di poterne
estrarre la sabbia. Tra le servitù urbane, alcuni dei tipi più diffusi erano quella di stillicidio, di
non sopraelevazione, di non offuscamento delle luci del vicino, di parete comune e di
immissione di fumo.
Il fatto che le servitù prediali rispondessero al principio di tipicità non significa però che in
ciascun tipo non si potessero inserire elementi convenzionali: se Tizio, per esempio,
proprietario del fondo servente, avesse voluto concordare con Caio, proprietario del fondo
dominante, i giorni e le ore per far passare il suo gregge, si sarebbe inserita nello schema
della servitù una specifica clausola chiamata “modo” (modus), un termine che qui indica non
un “onere”, come nel testamento e nella donazione, bensì una “misura” nell’esercizio della
servitù. La sua funzione era importante in quanto clausola volta ad adattare il tipo alle
esigenze concrete dei proprietari dei fondi.
Le servitù prediali si distinguevano in:
1. servitù “positive”→quelle in cui il proprietario del fondo dominante aveva diritto di
compiere un’attività nel fondo servente ed il proprietario di quest’ultimo doveva tollerarla. Di
regola, tutte le servitù prediali rustiche erano positive.
2. servitù “negative”→si parla di servitù prediali negative, vuol dire che il proprietario del
fondo servente doveva astenersi dal compiere un’attività su di esso. Normalmente, erano le
servitù prediali urbane a presentarsi come negative, perché, ad esempio, il proprietario del
fondo servente non poteva chiudere le luci del fondo dominante.
La differenza tra servitù positive e negative veniva espressa dai giuristi medievali con
un’altra massima: servitus in faciendo consistere nequit, letteralmente “la servitù non può
consistere in un fare”. Tale affermazione è formulata dal punto di vista del proprietario del
fondo servente: egli, infatti, non avrebbe mai potuto essere costretto ad un’attività di fare, in
quanto doveva o tollerare quella del proprietario del fondo dominante (servitù positive) o
assumere un comportamento di astensione ( servitù negative).
Altra caratteristica era data dall’indivisibilità delle servitù prediali, racchiusa nella massima le
servitù non si possono dividere (servitutes dividi non possunt), per cui, nell’ipotesi di più
proprietari del fondo dominante o servente, non si sarebbero mai potute costituire servitù per
quote, ma solo per l’intero.
I modi di costituzione erano in gran parte gli stessi che abbiamo visto per l’usufrutto; in più
troviamo la mancipatio e l’usucapione fin tanto che le più antiche servitù rustiche sono state
annoverate tra le res màncipi.
Anche nei modi di estinzione delle servitù prediali si riscontrano analogie con l’usufrutto: si
estinguevano, infatti, per coincidenza tra i due proprietari (denominata “confusione”) e per
“non uso” (non usus, prescrizione). In riferimento a quest’ultimo, va rilevato che per le servitù
prediali negative, in quanto il loro esercizio non era apparente, il termine per calcolare il
periodo di non uso decorreva dal giorno in cui si fosse verificato un fatto impeditivo di tale
esercizio. Ad essi possiamo aggiungere la cessazione del rapporto di utilità oggettiva tra i
fondi dovuto a mutamento dei luoghi o altro, mentre la morte del proprietario del fondo
dominante o del servente non era causa di estinzione, subentrando gli eredi dal lato attivo o
passivo della servitù. La difesa, al pari di quella dell’usufrutto, si realizzava con un’azione in
rem, denominata “rivendica della servitù” o “azione confessoria”.
LA SUPERFICIE
Il punto di partenza per comprendere il diritto reale di superficie è il principio dell’accessione:
superficies solo cedit, per cui tutto ciò che si trovava sopra un suolo, e in modo particolare
una costruzione, apparteneva al proprietario del suolo.
Sul piano pratico si è posta l’esigenza di attribuire il godimento dell’edificio (la superficie)
ad una persona diversa dal proprietario del suolo.
Per soddisfarla, i primi strumenti sono probabilmente stati il contratto di locazione –
conduzione, in caso di cessione temporanea del godimento della costruzione, e di
compravendita, quando la cessione era perpetua, dietro pagamento di un corrispettivo in
denaro, periodico, nel primo caso, una volta per tutte, nel secondo. È chiaro che con questi
strumenti il superficiario, in quanto titolare del godimento della costruzione, era tutelato solo
nei confronti della controparte contrattuale - locatore o venditore – senza però beneficiare di
una protezione più ampia.
Questa si realizza grazie all’intervento del pretore, prima nei rapporti di carattere
amministrativo, quando i censori concedevano in perpetuo o per periodi molto lunghi il suolo
pubblico a privati perché questi o vi costruissero edifici dove esercitare le proprie attività
economiche o utilizzassero edifici già realizzati.
In entrambi i casi la proprietà degli edifici già realizzati era e restava pubblica, ma il pretore
tutelava il superficiario con un apposito interdetto, previsto nell’editto e chiamato “interdetto
per fruire di un luogo pubblico”. Attraverso tale rimedio chi avesse avuto in concessione dal
censore una porzione di suolo pubblico per realizzare un edificio oppure un edificio già
realizzato su di esso, avrebbe potuto far valere il proprio diritto di godimento nei confronti di
qualunque terzo (erga omnes).
Anche nei rapporti tra privati il pretore crea un interdetto dagli effetti analoghi. Si tratta
dell’interdetto relativo alle superfici, che chi godeva delle costruzioni sul suolo altrui (il
superficiario) avrebbe potuto richiedere contro chiunque turbasse l’esercizio del suo diritto.
Successivamente sempre il pretore rafforza la protezione del diritto di superficie
introducendo un’azione chiamata azione reale relativa alla superficie (actio in rem de
superficie), con cui si trasformava tale diritto in diritto reale. Infatti, il superficiario avrebbe
così potuto difendere o recuperare il godimento della costruzione contro chiunque glielo
avesse contestato o sottratto (erga omnes).
Il suo contenuto comprende il riconoscimento al superficiario di tutte le facoltà spettanti al
proprietario sull’edificio ricevuto in godimento: vendere il suo diritto a terzi, darlo in pegno,
costituirlo in usufrutto; in cambio doveva versare un canone annuo in denaro, detto “solario”
(solarium), da cui però il proprietario poteva esonerarlo al momento della costituzione della
superficie.
Oggi il vigente Codice civile italiano, nel titolo dedicato alla superficie, tratta in realtà un
istituto diverso da quello romano appena descritto, in quanto identifica il diritto di
superficie con la proprietà superficiaria: il suo titolare diventa, infatti, proprietario della
costruzione che realizzerà sul suolo o sottosuolo altrui oppure acquista la proprietà di una
“costruzione già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo”, mentre
nell’ordinamento romano, la superficie è diritto reale su cosa altrui, che non modifica affatto
sul piano giuridico il diritto di proprietà sulla costruzione, il quale resta in capo al proprietario
del suolo, secondo il principio dell’accessione.
V: IL POSSESSO
NOZIONI E CARATTERI
Facciamo ora riferimento alla nozione di possesso, che si viene configurando alla fine del
periodo arcaico e giunge fino alla Compilazione di Giustiniano, trasmettendosi da lì alla
tradizione giuridica successiva.
Anche il possesso non è sorto come una categoria unitaria, ma si sono qualificate come tali
una serie di situazioni diverse, il cui elemento comune era l’esercizio di fatto di un potere su
qualcosa (possesso rei).
Escludendo quello delle terre pubbliche, legato al più antico assetto fondiario e trasformatosi
in proprietà privata nel corso del I secolo a.C., per le altre situazioni si sono individuati i due
elementi caratterizzanti del possesso, che hanno permesso la costruzione di una sua
nozione generale: la disponibilità materiale di una cosa sulla quale esercitare il potere
e la volontà di tenere quella cosa come propria. Tutte le volte in cui mancava questo
secondo elemento, la disponibilità materiale della cosa non dava luogo a possesso, ma a
mera detenzione. Infatti, chiunque avesse potuto esercitare un diritto su di una cosa, in base
ad un titolo per cui sapeva che apparteneva ad altri, non si sarebbe trovato nella situazione
di possessore, ma di detentore della stessa.
La detenzione non si poteva trasformare in possesso con il solo mutamento di volontà
del detentore, ma era necessario l’intervento di un’altra persona come si sottolinea
nella massima: nessuno può mutare per se stesso la causa del possesso. Ad esempio,
l’usufruttuario di un fondo non poteva decidere ad un certo momento di diventarne il
possessore perché aveva l’intenzione di tenerlo come proprio, ma affinchè ciò avvenisse,
occorreva un atto del nudo proprietario che glielo vendeva o donava.
Vi erano però delle situazioni teoricamente inquadrabili nella detenzione per mancanza
dell’animus possidendi, che l’ordinamento romano qualifica come possesso, al fine di
permettere al detentore una più forte protezione mediante gli interdetti possessori. Le fonti
parlano in tali casi di possessio ad interdicta. I più importanti erano quelli del creditore
pignoratizio, del sequestratario e del precarista.
La condizione del precarista derivava da un istituto molto antico, il precarium, risalente ai
rapporti tra gruppi gentilizi e clienti, in base al quale il proprietario (qui chiamato precario
dans) concedeva il godimento di un fondo gratuitamente al precarista (il precario
accipiens), che avrebbe però dovuto restituirglielo a semplice richiesta. Ed è proprio
l’instabilità della situazione di quest’ultimo a giustificare il nome dell’istituto. Il precarista, pur
disponendo degli interdetti possessori per tutelare il proprio godimento, non li poteva però
far valere contro il concedente, il quale aveva facoltà di recuperare in ogni momento il fondo
con un apposito interdetto o addirittura in via di autotutela.
Nella visione della giurisprudenza romana, inoltre, l’elemento del corpore possidere si
considerava presente anche quando il possesso di una cosa non fosse stato continuativo,
purchè la stessa non venisse occupata da altri, come era per i pascoli stagionali invernali o
estivi; allo stesso modo si riteneva sussistere tale persona alieni iuris, o anche in capo al
pupillo o all’infermo di mente, quando possedesse il suo tutore o curatore. Va ricordato
inoltre che il possessore di buona fede acquistava la proprietà dei frutti percepiti e consumati
prima dell’istituzione della lite di petizione di eredità o di rivendicazione della proprietà.
Oltre alla possessio rei, dove il possessore esercitava di fatto un diritto corrispondente
sostanzialmente a quello di proprietà, i giuristi parlano anche di quasi possesso in
riferimento all’esercizio del diritto di usufrutto o di una servitù prediale, con possibilità di far
uso di interdetti analoghi a quelli possessori. Ed è proprio sulla base di questi precedenti che
nel diritto giustinianeo si sono gettate le fondamenta per la costruzione anche della categoria
del “possesso di un diritto” in rapporto ai diritti reali.
LA NOZIONE DI CONTRATTO
La prima categoria di fonti delle obbligazioni è il contratto. Il termine contratto (contractus)
probabilmente entra nell’uso dapprima come forma verbale e poi come sostantivo.
Un altro elemento da sottolineare è l’anteriorità di singole figure contrattuali rispetto alla
nozione generale, dovuta al fatto che essa si è giunti per astrazione da esse.
Il tentativo più risalente di definire che cosa fosse un contratto si ha verso la fine del I secolo
a.C., nell’età di Augusto, quando il giurista Antistio Labeone ci ha offerto una prima
spiegazione di “ciò che si è contratto” partendo dalla forma verbale. Secondo il suo parere,
il contratto era un’obbligazione a carico dell’una o dell’altra parte, mettendo così in luce
come requisito essenziale la generazione di obbligazioni corrispettive, in quanto
collegate funzionalmente. Si tratta di una definizione di contratto più limitata, perché, se un
atto non avesse fatto nascere obbligazioni corrispettive, non avrebbe avuto natura
contrattuale. Coerentemente il giurista non pone fra i contratti, ma solo negli atti giuridici il
mutuo e la stipulazione (stipulatio), dai quali derivano obbligazioni solo a carico di un
contraente, il mutuatario o il promittente.
Questa definizione non ha però successo. Alla fine del I secolo d.C., ad essa se ne
contrappone un’altra, che sarà destinata a prevalere, dovuta al giurista Sesto Pedio, per il
quale “non ci può essere nessun contratto e nessuna obbligazione che non abbia in
sé una convenzione”. In essa, riportata anche in questo caso da Ulpiano, si evidenzia il
carattere fondamentale del requisito della convenzione (la conventio) intesa come accordo
tra le parti. In circa un secolo, pertanto, si afferma la concezione per cui l’elemento
indispensabile di tutti i contratti, e quindi della stessa categoria generale, era la convenzione,
con la conseguenza di ritenere tali anche il mutuo e la stipulazione.
L’affermazione di Sesto Pedio è alla base di quelle elaborate da altri giuristi successivi e
giunte fino a noi. Si tratta, in particolare, di Gaio e di Ulpiano. Il primo, pur non offrendo una
definizione di contratto, sembra accogliere quella di Pedio quando dice a proposito del
pagamento di indebito, che chi ha pagato una somma non dovuta vuole più sciogliere un
rapporto obbligatorio, che contrarlo. Una tale precisazione presuppone come requisito
determinante di un contratto la volontà dei contraenti. Ulpiano aderisce all’opinione di Sesto
Pedio perché è lui a riferirla ed approvarla.
Questa è anche la definizione di contratto presente nella legislazione di Giustiniano.
Secondo la sua definizione, “il contratto è l’accordo ed il consenso di due o più persone su
una stessa cosa” confermando così la centralità dell’accordo e del consenso dei contraenti
su un certo assetto di interessi.
Questa linea di pensiero si radica talmente da percorrere tutto il diritto intermedio e
travasarsi nelle moderne codificazioni civili, come il Code civil francese (art. 1101) ed il
nostro vigente Codice (art. 1321), che identificano il contratto con un accordo, senza però
risolvere un’ambiguità. Infatti, limitandoci al Codice italiano, per quanto basta, costituendo (ai
sensi dell’art. 1325) uno dei requisiti essenziali per l’esistenza di un contratto, che deve
ricorrere insieme alla causa, all’oggetto possibile, lecito e determinato o determinabile ed
alla forme, ove richiesta ai fini della sussistenza del contratto stesso (ad substantiam).
Inoltre la nostra definizione codicistica attribuisce al contratto la finalità sia di costituire che di
regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, mentre nell’esperienza romana se
ne evidenzia la sola funzione di far nascere rapporti obbligatori, lasciando in ombra
quelle di modificarli o estinguerli.
LA LIBERTÀ CONTRATTUALE
I giuristi, muovendo dalla convenzione, intesa come l’accordo di volontà o consenso di due o più
persone, osservano come essa potesse sfociare:
→in un contratto tipico;
→in un contratto innominato non corrispondente ad uno dei tipi previsti dall’ordinamento;
→in un semplice patto diverso sia dai contratti tipici che dai contratti innominati.
In primo ed immediato rilievo agli occhi di un giurista attuale è, che nell’esperienza giuridica
romana, accordo di volontà non era sinonimo di contratto, perché lo ritroviamo anche nei
patti non identificabili con contratti tipici o innominati. In secondo luogo, quella che in termini
moderni potremmo oggi definire l’autonomia contrattuale si esplicava nel diritto romano a
questi tre livelli: le parti, al fine di regolare i propri interessi, avrebbero potuto scegliere di
concludere un contratto tipico o innominato o ancora un semplice accordo non inquadrabile
in una figura contrattuale.
Il diritto arcaico era caratterizzato da una situazione di rigida tipicità contrattuale, che
circoscriveva la libertà dei contraenti alla mera scelta della figura contrattuale prevista
dall’ordinamento per i fini cui tendevano. L’introduzione della possibilità, prima [verso la
fine del II secolo a.C.], di porre in essere patti diversi dai contratti tipici per assumere
comunque impegni giuridicamente vincolanti e, poi [con la fine del I secolo d.C.], anche
di dar vita a contratti innominati, da cui scaturiscono successivamente nuove figure
di contratto, aprono decisamente la strada verso il riconoscimento del principio della
libertà contrattuale. Malgrado ciò, neppure nel diritto giustinianeo si può dire che esso abbia
trovato una piena e completa attuazione.
→Classificazione dei contratti tipici
1.Contratti reali, verbali, letterali e consensuali→ una prima classificazione è quella proposta
dalle Istituzioni di Gaio, ripresa poi da quelle di Giustiniano, subito dopo aver elencato le fonti delle
obbligazioni. Nessuna delle due opere sente il bisogno di spiegare che cosa sia un contratto, ma passa
direttamente a distinguere tra varie categorie di contratti, sotto il profilo delle obbligazioni che
generano: si afferma, infatti, che esse si contraevano con la consegna di una cosa o con
l’uso di certe forme verbali o scritte oppure con il consenso; da ci si fa discendere una
suddivisione tra contratti reali (re), verbali (verbis), letterali (litteris) e consensuali
(consensu), che rappresentavano le quattro fondamentali delle figure contrattuali
tipiche.
I contratti reali necessitavano della consegna di una cosa (res) per essere perfezionati, in
quanto, se essa mancava, pur in presenza del consenso, il contratto non veniva ad
esistenza. I contratti verbali richiedevano l’impiego di certe forme verbali ed i letterali di
una determinata forma scritta, mentre solo nei contratti consensuali era il consenso
l’unico elemento necessario e sufficiente ai fini della formazione del contratto.
2.Contratti unilaterali, imperfettamente bilaterali e sinallagmatici→ all’interno delle
categorie di contratti tipici, si possono operare ulteriori classificazioni desumibili dalle nostre
fonti. La prima [che esiste ancora oggi] è quella tra contratti unilaterali, bilaterali ed
imperfettamente bilaterali. Naturalmente la suddivisione non fa riferimento alle parti di un
contratto ma alle obbligazioni che ne derivano a carico dei contraenti.
LA FIDUCIA
È un contratto reale, in forza del quale un soggetto, detto fiduciante, trasmette ad un altro,
detto fiduciario, la proprietà di una o più cose, affinché le trattenga presso di sé per un
determinato tempo e poi le restituisca nei termini convenuti. In realtà, le Istituzioni di Gaio
non qualificano la fiducia come un contratto né, tanto meno, la collocano fra i contratti reali,
ma parlano di una mancipatio o un’in iure cessio fiduciaria con due applicazioni: la fiducia
cum amico e la fiducia cum creditore; il negozio fiduciario si realizza, pertanto, con un
atto formale, destinato a trasmettere la proprietà di qualcosa dal fiduciante al fiduciario,
accompagnato da un “patto di fiducia” che sottolinea l’impegno di quest’ultimo a
ritrasmetterla nei termini convenuti.
→Nella fiducia cum amico il fiduciario doveva custodire e conservare la cosa e, decorso il
tempo stabilito, ritrasmetterla al fiduciante. Il fiduciario, dunque, pur essendo divenuto
proprietario, svolgeva sulla cosa sostanzialmente un’attività di custodia e conservazione per
conto del fiduciante.
→La fiducia cum creditore, invece, assolveva una funzione di garanzia: il fiduciante era
debitore del fiduciario e la cosa trasmessa rappresentava la garanzia dell’adempimento
dell’obbligazione. Quindi se questa fosse stata adempiuta, il fiduciario avrebbe dovuto
ritrasferirla al fiduciante; diversamente, ne sarebbe restato definitivamente il proprietario.
Se il fiduciario non restituiva la cosa quando avrebbe dovuto, il fiduciante aveva contro di lui
l’azione nascente dal contratto che rientrava tra le azioni di buona fede; ma, se aveva
sopportato spese di custodia e manutenzione o sofferto danni in dipendenza della proprietà
della cosa, aveva diritto al loro rimborso o risarcimento da parte del fiduciante, potendo
avvalersi, ove necessario, dell’eccezione di dolo e di un diritto di ritenzione, come il
possessore nell’azione di rivendica à emerge così il carattere di contratti imperfettamente
bilaterale della fiducia
IL DEPOSITO
È un contratto reale bilaterale imperfetto [o imperfettamente bilaterale], in forza del quale
un soggetto, detto depositante o deponente, consegna una cosa mobile ad un altro
soggetto, detto depositario, affinché questi la custodisca a titolo gratuito e poi la restituisca a
richiesta del depositante o nel termine pattuito.
Oggetto→ potevano esserne soltanto una o più cose mobili e l’obbligazione del depositario
era quella di custodirle senza usarle e restituirle al depositante. Naturalmente il carattere
imperfettamente bilaterale del contratto faceva sì che il depositante fosse obbligato a
rimborsare le spese e/o risarcire i danni al depositario in relazione alla custodia della cosa
depositata.
Se durante il deposito questa fosse danneggiata, il depositario sarebbe stato responsabile
verso il depositante per un particolare tipo di furto chiamato “furto di uso”. Qualora la
restituzione fosse stata impossibile per perimento della cosa depositata [distruzione o
furto], il depositario era tenuto a pagarne il valore semplice (in simplum), ma, nei depositi
conclusi in stato di necessità dovuta ad eventi bellici o calamità naturali [il c.d. deposito
necessario], il pagamento saliva al doppio del suo valore.
Ma la sua responsabilità sorgeva solo quando la mancata restituzione fosse dipesa da
dolo, perché non aveva voluto intenzionalmente compierla; nel caso in cui fosse causata da
colpa→ il depositario non era invece responsabile, a meno che non avesse specificamente
pattuito una tale estensione. Ci era in connessione con il carattere gratuito del contratto e la
buona fede oggettiva che ne era alla base: poiché il depositario non riceveva un corrispettivo
per la sua attività di custodia, questa non poteva neppure essere aggravata oltre il dolo.
Nell’editto pretorio erano previste due azioni di deposito:
1. quella del depositante contro il depositario nel caso di mancata restituzione della cosa o di suo
danneggiamento→ directa
2. quella del depositario contro il depositante che non gli avesse rimborsato le spese o risarcito i
danni→ contraria
Le fonti romane le chiamano entrambe actio depositi.
All’interno della figura ordinaria di deposito si sono venuti a differenziare due particolari tipi: il
sequestro e il deposito irregolare.
● Nel sequestro era data da custodire ad un terzo, il sequestratario, una cosa mobile,
oggetto di una controversia giudiziaria, designata come res controversa. Egli
doveva custodirla e restituirla solo a chi fosse risultato esserne il titolare all’esito del
processo. Infine, mentre il depositario era detentore della cosa, perché sapeva che
non era sua, il sequestratario veniva, invece, considerato come possessore, per
rendere più stabile la sua situazione e fornirgli gli stessi strumenti di difesa previsti
per il possessore [gli interdetti possessori].
● Il deposito irregolare deve il suo nome ai giuristi del XV secolo, i quali volevano
così sottolineare il suo principale elemento differenziatore rispetto al deposito
ordinario: il carattere fungibile delle cose che ne erano oggetto. La “irregolarità” era,
dunque, data dal fatto che le cose mobili depositate erano fungibili, consistendo
normalmente in somme di denaro. E la conseguenza era che il depositario ne
diveniva proprietario, le poteva usare con obbligo di restituire al depositante, a
richiesta o nel termine convenuto, altrettante dello stesso genere e qualità.
● Nelle fonti giuridiche romane si attesta l’impiego di questa figura contrattuale nei
rapporti con un banchiere o un prestatore ad interesse e tra i giuristi non tutti la
inquadrano nel “tipo” del deposito, preferendo invece ricondurla a quello del
mutuo. Nel diritto romano sussisteva, per , un’importante differenza tra le due figure:
il mutuo era un contratto tutelato da un’azione di stretto diritto, mentre il deposito si
basava sulla buona fede, questa diversità aveva rilevanza per la pattuizione degli
interessi: nel primo caso, era necessario concludere con il mutuatario una
stipulazione accessoria, nel secondo caso, si poteva convenire anche con un mero
patto, che permetteva al depositante di agire contro il depositario con l’azione di
deposito se non l’avesse pagati. Alcuni dati dalle fonti giuridiche sembrano introdurre
anche un’altra rilevante innovazione. Qualora, pur in assenza di un accordo sugli
interessi, il depositante avesse permesso al depositario di utilizzare il denaro
depositato, quest’ultimo, proprio per l’uso che ne potevo fare, sarebbe stato tenuto a
corrispondere al primo degli interessi nella misura del tasso legale, si possono
denominare come interessi derivanti dall’uso lecito del denaro altrui, corrispettivi del
vantaggio che derivava al depositario di poterlo utilizzare.
IL COMODATO
È un contratto reale imperfettamente bilaterali, in forza del quale un soggetto, detto
comodante, trasmette una cosa mobile o immobile ad un altro soggetto, detto comodatario, il
quale la pu utilizzare nel modo convenuto ed è tenuto a restituirla a richiesta del comodante
o nel termine stabilito, senza pagare alcun corrispettivo per il suo uso. Quindi le principali
differenze del comodato rispetto al deposito erano che il comodatario poteva utilizzare
la cosa ricevuta in comodato e che la stessa poteva essere sia una cosa mobile che
immobile.
L’etimologia stessa del termine comodato sottolinea che si trattava di qualcosa “dato a
vantaggio del comodatario”: commodum (vantaggio), datum (dato), per il cui impiego non
si doveva un corrispettivo: infatti, nel caso in cui un soggetto avesse dovuto pagarlo, non
saremmo più in presenza di un comodato bensì di una locazione. L’altro elemento che
distingueva il comodato dal contratto di locazione era il carattere reale, che il primo
aveva ed il secondo no, in quanto rientrava tra i contratti consensuali.
Le obbligazioni del comodatario erano quelle di usare la cosa nel modo stabilito, di
custodirla e poi di restituirla nei termini convenuti; se il comodatario l'avesse usata in modo
diverso, sarebbe stato responsabile di furto d’uso. Le eventuali obbligazioni del comodante
consistevano nel rimborso al comodatario delle spese e/o nel risarcimento dei danni
occasionati dalla cosa data in comodato. In caso di inadempimento, l’azione prevista
nell’editto era l’actio commodati, che, come si è detto per il deposito, poteva essere diretta,
se intentata dal comodante contro il comodatario, o contraria, ove fosse quest’ultimo ad
agire.
Circa i criteri di responsabilità valevano per il comodatario sia il dolo (dolus malus) che la
colpa (culpa) nel senso che egli rispondeva nei confronti del comodante per inadempimento
sia colposo che doloso delle proprie obbligazioni. Inoltre, a carico del comodatario
sussisteva un’obbligazione particolarmente gravosa circa la custodia della cosa ricevuta: si
trattava di un’obbligazione autonoma rispetto a quelle di usare la cosa e restituirla ed
implicava una responsabilità di tipo “oggettivo”, in quanto veniva chiamato a rispondere per
per il furto e danneggiamento della stessa, anche se non fossero dipesi dal suo dolo o
colpa. L’unico limite alla responsabilità che ne derivava era il perimento della cosa
per forza maggiore. Il rigore descritto cessa tra la fine del II e gli inizi del III secolo
d.C., quando la custodia si rapporto anch'essa ai criteri soggettivi del dolo e della
colpa. Mentre normalmente erano cose infungibili ed inconsumabili, destinate proprio per la
loro natura ad un uso ripetuto, a volte possiamo trovare anche cose fungibili, come il
denaro.
Un caso, di cui parlano le fonti era quello del comodato “a fini di pompa o ostentazione”, nel
quale il comodatario riceveva monete d’oro o d’argento, ad esempio, per fare vedere agli
invitati la propria ricchezza e poi restituiva.
IL PEGNO
Il pegno è un contratto in forza del quale il debitore pignorante o un terzo consegna una
cosa al creditore pignoratizio a garanzia di un debito. Quest’ultimo ne acquistava il possesso
ed era tenuto alla restituzione della cosa, nel caso in cui il debito fosse stato adempiuto à
funzione di garanzia (svolta dalla cosa in pegno)
→La compravendita
nel periodo arcaico la compravendita si realizzava mediante l’atto formale e solenne della
mancipatio. Tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. ad essa si sostituisce, all’esito di
un’evoluzione storica per noi ancora non del tutto chiarita, il contratto consensuale di emptio
venditio, che si perfezionava, in base a quanto dicono le nostre fonti, quando il venditore e
l’acquirente si accordavano sul prezzo da pagare per la cosa venduta.
In realtà, la sua definizione è più complessa: si tratta, infatti, di un contratto consensuale,
sinallagmatico o a prestazioni corrispettive, in forza del quale un soggetto, detto venditore, si
obbliga a trasmettere una cosa ad un altro soggetto, detto compratore o acquirente, a
garantirgliene il pacifico godimento ed a garantire l’assenza in essa di vizi occulti e, da parte
sua, il compratore o acquirente si obbliga a corrispondere al venditore una determinata
somma di denaro, che costituisce il prezzo. Dalla definizione appena esposta emergono i
due elementi oggettivi della compravendita: la cosa, che ne formava l’oggetto, chiamata
“merce” (merx) e la somma di denaro che rappresentava il prezzo (pretium).
→Merce (merx)
essa poteva consistere in cose corporali (res corporales) o incorporali (res incorporales),
ma, tra le prime, non tutte erano suscettibili di vendita, ma solo quelle “in commercio”, in
quanto possibile oggetto di atti di alienazione. Ne consegue che erano escluse le cose di
diritto divino (le res divini iuris) e le cose “destinate all’uso pubblico” mentre le cose
pubbliche “patrimoniali” [come fondi o schiavi pubblici] avrebbero potuto invece essere
vendute dall’ente pubblico che ne era il proprietario.
Anche cose future potevano formare oggetto di compravendita. Il diritto romano ne
configura due tipi:
1.compravendita di una cosa sperata (emptio rei speratae)
la prima era una compravendita condizionata, nel senso che il venditore avrebbe dovuto
consegnare la cosa futura e il compratore pagarne il prezzo, solo se e nella misura in cui
tale cosa fosse venuta ad esistenza. Era perciò una compravendita sottoposta a condizione
sospensiva.
Ad esempio, se io vendo il mio raccolto di uva a 300 sesterzi, il compratore mi pagherà il
prezzo solo qualora la mia vigna lo produca e nella quantità effettivamente prodotta, se sono
10, 3 mila sterzi, ma se non ne produco alcuno, il contratto resta privo di effetti e non mi sarà
dovuto nulla come prezzo
2.compravendita della speranza (emptio spei)
il secondo tipo era invece una compravendita aleatoria, caratterizzata cioè dal rischio (alea)
assunto dal compratore, il quale avrebbe comunque pagato il prezzo, anche se la cosa
futura non fosse giunta ad esistenza, nel diritto romano la troviamo applicata nei casi di
caccia e pesca.
Ad esempio, L’acquirente si obbligava a pagare un prezzo fissato in 1000 sesterzi per tutti
gli uccelli catturati dal venditore in un certo giorno, se ne avessi catturato un branco
l’acquirente avrebbe fatto un affare, perché li pagava molto meno che se gli avessi comprati
uno per uno, se per quel giorno il venditore non avesse preso alcun uccello, il compratore
gli avrebbe dovuto ugualmente corrispondere quella somma, non ricevendo in cambio nulla
La compravendita poteva avere oggetto anche una cosa determinata solo nel genere,
qualificandosi quindi “di cosa generica”. È un fenomeno che abbiamo già visto nella
stipulazione e che ricorreva anche nella compravendita consensuale: la cosa venduta era
individuata solo nel genere. In questi casi era necessario procedere ad una sua
specificazione, determinandola esattamente, affinché il venditore la potesse consegnare
poi al compratore. Un altro caso particolare era dato dalla compravendita di una cosa
altrui, anch’essa pienamente valida, salve le conseguenze a carico del venditore dovute
all’assunzione da parte sua della garanzia per evizione.
È interessante sottolineare che la disciplina del diritto romano su questi tre casi particolari si
è conservata anche nel vigente Codice civile italiano, che regolano separatamente la vendita
di cose future, la vendita di cose altrui ed i contratti che hanno per oggetto il trasferimento di
cose determinate solo nel genere.
Anche le cose incorporali avrebbero potuto essere contemplate dai contraenti. Nelle fonti
avviamo esempi di vendita di diritti reali, di crediti e di un’eredità.
Con riferimento ad un credito, la vendita ne realizzava una cessione, a seguito della quale al
precedente creditore si sostituiva un nuovo creditore. Normalmente il venditore doveva
garantire all’acquirente la semplice esistenza del credito, il credito vero (il verum nomen);
ma poteva garantire anche la solvibilità del debitore parlandosi allora di un buon credito
(bonum nomen), proprio per mettere in luce la “bontà” del credito dovuta alla situazione
patrimoniale dell’obbligato.
La compravendita di un’eredità presentava anch’essa delle particolarità già nel diritto
romano, tanto da meritare un titolo a sé nel Digesto, ed ancor oggi, nell’attuale Codice civile
italiano. Un primo elemento specifico era che si trasmetteva non una o più singole cose,
bensì un’universalità di cose, comprensiva di beni materiali e diritti; ma la caratteristica
maggiore consisteva nel fatto che alla vendita dell’eredità non seguiva la cessione
all’acquirente della qualità di erede, per cui il venditore conservava tale qualità. In origine,
l’atto di trasmissione all’acquirente era una in iure cessio, adattata alle circostanze e con un
regime particolare che determinava l’estinzione de i crediti ereditari per il cessionario. Con il
tramonto di tale atto, la compravendita consensuale instaura fra venditore ed acquirente la
stessa situazione esistente tra erede e fedecommissario a titolo universale prima del
senatoconsulto Trebelliano, per cui tutti gli acquisti, che fossero pervenuti al venditore in
rapporto all’eredità venduta, andavano trasmessi al suo acquirente e su di lui dovevano
anche gravare i relativi pesi, con obbligo di rimborso al venditore delle somme da lui
eventualmente pagate.
→Prezzo (pretium)
passando ora all’altro elemento oggettivo della compravendita, il prezzo (pretium), la
controversia più risalente, sollevata in seno alla giurisprudenza, è stata quella se dovesse
necessariamente consistere in una determinata somma di denaro o anche in una cosa
diversa. Bisogna giungere fino all’epoca di Augusto o poco oltre, per chiarire
definitivamente questo punto infatti:
- Sabiniani, richiamandosi alle origini, sostenevano che qualunque cosa avrebbe potuto
fungere da prezzo in una compravendita.
- Proculiani erano dell’avviso che solo una somma di denaro potesse avere tale funzione,
separando nettamente la compravendita dalla permuta (permutatio)
All’epoca in cui Gaio scriveva le Istituzioni [metà circa del II secolo d.C.] l’opinione dei
Proculiani era quella che aveva prevalso.
Altro punto di discussione era se il prezzo dovesse essere esattamente determinato già al
momento della conclusione del contratto oppure se bastasse che fosse solo
determinabile. Sul punto si registra un’evoluzione.
Fino al I secolo a.C. la risposta era negativa, in quanto il prezzo andava esattamente
determinato, ma poi alcuni giuristi cominciano ad ammettere la possibilità di attribuire alla
decisione di un terzo, scelto di comune accordo dai contraenti, la determinazione del
prezzo, da fissarsi in un momento successivo alla conclusione del contratto.
In seguito, probabilmente verso la fine del II secolo d.C., si pu ritenere pienamente
ammessa la compravendita conclusa con la clausola di rimettere ad un terzo la
determinazione del prezzo, in base a un duplice criterio stabilito dai contraenti: secondo la
valutazione di un uomo onesto (arbitrium boni viri) oppure secondo il suo mero arbitrio
(merum arbitrium). Nel primo caso, il terzo avrebbe dovuto indicarlo mediante un equo
apprezzamento, pena l’invalidità del contratto; nell’altro caso, il prescelto lo avrebbe fissato
secondo la propria personale decisione ed i contraenti ne sarebbero stati comunque
vincolanti.
Siccome tale sistema si doveva essere rivelato poco pratico, risultando sovente incerto il
criterio di determinazione deciso per il terzo, Giustiniano interviene a semplificarlo,
abolendo la distinzione ed introducendo il seguente regime: quando le parti concludevano la
compravendita rimettendo ad un terzo la fissazione del prezzo, la compravendita era valida
e sottoposta a condizione , cosicché, se il terzo lo avesse stabilito, la sua decisione sarebbe
stata vincolante per le parti [essendosi verificata la condizione]; se invece il terzo non
avesse potuto o voluto stabilirlo, la compravendita sarebbe stata inefficace. Nel nostro
Codice attuale, invece, si può quasi dire che siamo ritornati al sistema pregiustinianeo, in
quanto il terzo può essere chiamato a decidere secondo equo apprezzamento o il suo mero
arbitrio.
Sempre almeno dal II secolo d.C., si riconosceva valida una compravendita anche quando il
prezzo fosse determinato con riferimento ad una circostanza oggettiva, come si dice oggi,
per relationem (es: si aveva quando un fondo si vendesse ad un prezzo corrispondente al
denaro che l’acquirente aveva in quel momento nella sua cassaforte oppure in base al
prezzo del mercato della cosa nel giorno della vendita). Ciò che il diritto romano non
sembra aver ammesso era la possibilità di rimettere la fissazione del prezzo al mero
arbitrio del compratore: in tal caso, infatti, si parlava di “negozio imperfetto”.
Un’ultima problematica riguarda il “giusto prezzo”, vale a dire la possibilità di fissare
legalmente un prezzo vincolante per i contraenti. Fino all’età di Diocleziano [284 – 305 d.C.]
si è sempre applicato il principio per cui il prezzo era lasciato alla libera decisione delle parti,
dopo una o più o meno lunga fase di trattative; questo imperatore, di fronte ad una grave
situazione di crisi economica, tenta, invece, di imporre un prezzo legale massimo a tutte le
cose banali [nel senso di cose suscettibili di essere vendute] attraverso un suo editto,
ricordato come editto sui prezzi e pervenutoci attraverso varie epigrafi.
Nonostante la vigenza delle sue disposizioni sia stata breve, perché nessun si è conservata
nelle fonti giuridiche, nel Codice di Giustiniano sono rimaste due sue costituzioni, approvate
nel solco della stessa politica economica, dove si regola la questione del “giusto prezzo”
nelle compravendite di fondi. In esse si dispone che, se l’acquirente di un fondo,
consapevole dello stato di bisogno del venditore, l’avesse comprato ad un prezzo
minore della metà del suo valore, il venditore avrebbe potuto chiedere la rescissione del
contratto di compravendita, a meno che il compratore non avesse integrato il prezzo nella
parte mancante per arrivare almeno alla metà, riportando il contratto ad equità. La
violazione in tali casi del prezzo minimo legalmente previsto si sarebbe configurata per il
venditore in quella che, nel diritto intermedio, si chiamerà una “lesione oltre la metà” o
“enorme”.
→La caparra (arrha)
Il suo regime nel diritto romano viene costruito nel quadro della compravendita, dove si
delineano due tipi: la caparra confirmatoria (arrha confirmatoria) e la caparra penitenziale
(arrha poenitentialis). La prima era costituita dall’anticipazione di una parte del prezzo e
serviva a confermare l’avvenuta conclusione del contratto; la seconda, invece,
rappresentava la somma che avrebbero dovuto pagare i contraenti per recedere dal
contratto, di solito entro un dato termine.
Si è scelto perciò ̀ di dettare per entrambi un’identica disciplina: se era inadempiente o
voleva recedere dal contratto chi aveva ricevuto la caparra, la doveva restituire nel
doppio; qualora, invece, non avesse adempiuto o intendesse recedere la parte che aveva
dato la caparra, la perdeva. Questo regime si è tramandato fino agli ordinamenti moderni,
come quello italiano, che lo ha generalizzato a qualunque tipo di contratto.
→Le obbligazioni delle parti
dalla compravendita nascevano obbligazioni a carico di entrambe le parti contraenti: quella
dell’acquirente era di trasmettere la proprietà del prezzo al venditore, mentre su
quest’ultimo gravavano tre obbligazioni principali: consegnare al compratore la cosa che
formava oggetto di compravendita (tradere rem); garantirlo nel caso di evizione (praestare
evictionem) e garantire l’assenza di vizi occulti della cosa venduta.
1.Trasmettere la cosa (rem tradere)→ nella compravendita consensuale romana il venditore
non si obbligava a trasmettere la proprietà, dovendo semplicemente consegnare la cosa.
Quindi consegnare la cosa voleva dire trasferire il possesso e la disponibilità della stessa al
compratore: l’eventuale trasferimento della proprietà unitamente al possesso sarebbe stato
perciò irrilevante ai fini dell’adempimento dell’obbligazione.
Infatti, nella normalità dei casi, quando si trattava di res nec mancipi, la consegna della
cosa effettuata mediante traditio dal venditore che ne fosse il proprietario avrebbe avuto
anche effetti traslativi della proprietà. Lo stesso, però , non avveniva quando il venditore
consegnava una cosa non usa oppure una cosa che era sua, ma il cui atto di trasmissione
presentava un vizio formale. Da quanto detto emerge un dato fondamentale:
nell'esperienza del diritto romano, tranne una breve parentesi nell’età di Costantino la
compravendita ha sempre avuto e soltanto avuto effetti obbligatori, non assumendo mai il
carattere di contratto di contratti a effetti reali. Infatti, dalla sua conclusione nasceva
esclusivamente l’obbligazione del venditore di trasmettere la cosa all’acquirente ed il
passaggio del possesso [con eventuale trasferimento della proprietà], che rappresentava
l’adempimento di quell’obbligazione, richiede necessariamente un atto traslativo separato,
ancorché contestuale al perfezionamento del contratto: la tradizione o anche, se così
convenuto dalle parti, la mancipazione o la cessione in iure.
2. Garantire per l’evizione (evictionem praestare)→ strettamente connessa all’obbligazione
era quella di prestare la garanzia per l’evizione. L’evizione si aveva quando un terzo,
diverso dall’acquirente, intentava vittoriosamente una causa contro quest’ultimo, riuscendo a
provare di essere il proprietario della cosa venduta. Non bastava, quindi, che dicesse di
esserne il proprietario, doveva anche essere riconosciuto come tale all’esito di un
processo. L’evizione poteva anche essere parziale, se il diritto del terzo aveva ad oggetto
solo una parte della cosa oppure era un diritto reale limitato.
Le origini di tale garanzia risalgono alle XII Tavole che la ponevano in connessione con la
mancipazione (mancipatio) come forma più antica di vendita. Nel contratto consensuale la
garanzia del compratore si concretizzava, innanzitutto, nel dover assistere in giudizio
l’acquirente e nel sostenerne le ragioni. Se poi, nonostante quest’opera di assistenza,
avesse perso la causa, avrebbe dovuto risarcirgli i danni. La garanzia per evizione si
traduceva, pertanto, in due condotte: l’assistenza processuale prima ed il risarcimento dei
danni, qualora si fosse riconosciuto fondato il diritto del terzo.
Per lungo tempo tale garanzia era assunta dal venditore attraverso un contratto
accessorio alla compravendita, consistente, ancora una volta, in una stipulazione con
funzioni di garanzia, che poteva essere di due tipi: “stipulazione del doppio” (stipulatio
duplae) e “stipulazione che sia lecito avere” (stipulatio habère licère). Con la prima,
verificandosi l’evizione, il risarcimento dei danni dovuto dal venditore al compratore era pari
al doppio del prezzo ricevuto; questo tipo di stipulazione si utilizzava per le cose più
preziose oggetto di compravendita [res mancipi o anche gioielli, perle o preziosi in generale].
Il secondo tipo si impiegava per le cose meno preziose [ad esempio, gli animali non da
lavoro] ed il risarcimento, cui era tenuto il venditore, comprendeva la restituzione al
compratore del prezzo, maggiorato da una somma aggiuntiva eventualmente stabilita dal
giudice.
Alla luce di tale garanzia si comprende perché fosse ritenuta valida la vendita di una cosa
altrui. L’acquirente, infatti, era comunque tutelato: il rischio della sottrazione della cosa
comprata, in quanto appartenente ad un altro, era bilanciato dal risarcimento dei danni, nel
caso di evizione, con la restituzione del prezzo raddoppiato o maggiorato di una somma
ulteriore fissata dal giudice. Durante il I secolo d.C. , come si può notare già in Giavoleno, la
garanzia per evizione si considerava un elemento naturale del contratto. Le parti,
tuttavia, potevano concordemente rinunciarvi oppure ampliare o ridurre la garanzia. Una tale
evoluzione si può ritenere completata in età giustinianea.
Garanzia per i vizi occulti ed il regime previsto dagli edili curuli→ essendo la compravendita
un contratto fondato sulla buona fede, tutte le volte in cui il venditore sapeva che la cosa
venduta era affetta da un vizio non palese e non lo dichiarava al compratore, era
inadempiente al contratto e sorgeva a suo carico, una responsabilità per il risarcimento dei
danni, che si faceva valere con l’azione contrattuale (actio empti). Il termine “vizio” si riferiva
a vizi fisici e, nel caso di schiavi ed animali, anche psicologici. Questo sistema
presentava, però , dei limiti perché l’acquirente non risultava tutelato, qualora il venditore
avesse ignorato che la cosa venduta era affetta da un vizio occulto.
Ma tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C., si concretizza l’esigenza di tutelare il
compratore in misura più ampia, a prescindere dal fatto che il venditore sapesse o no del
vizio della cosa. Ci avviene sempre nell’ambito del diritto onorario (ius honorarium), ma,
questa volta, grazie agli edili curuli (qui era affidata la giurisdizione sulle transazioni
compiute nei mercati(cura annonae). Il regime da loro creato ha di mira in particolare le
vendita aventi ad oggetto due beni della massima importanza per l’economia dell’epoca: gli
schiavi e gli animali da traino e da lavoro.
Nel loro editto, gli edili prevedevano due azioni da esperire tutte le volte in cui lo schiavo o
l’animale presentasse vizi o malattie fisici non dichiarati dal venditore, risultando del tutto
irrilevante che lo stesso ne fosse a conoscenza o no: si poneva così, a suo carico, una
responsabilità più gravosa, di tipo “oggettivo”, perché indipendente da dolo o colpa.
Le azioni erano le redibitoria (actio redihibitoria) e l’estimatoria (actio aestimatoria o quanti
minoris). La prima veniva esercitata dal compratore al fine di risolvere la compravendita:
egli, infatti, in presenza di un vizio o malattia occulti manifestatisi dopo la compravendita,
chiedeva al venditore la restituzione del prezzo, rendendogli, a sua volta, lo schiavo o
l’animale “viziato”. La seconda azione non era finalizzata alla risoluzione del contratto, ma al
suo riequilibrio, poiché il compratore voleva ottenere la restituzione di quella parte del prezzo
corrispondente al diminuito valore della cosa venduta per la presenza del vizio. Diverso era
anche il termine per esercitare le due azioni: sei mesi per la prima, un anno, per la
seconda, decorrenti non dalla scoperta del vizio, ma dal momento in cui il compratore fosse
stato in grado di esercitare l’azione. Questo regime è stato successivamente esteso anche
all’ipotesi in cui il venditore avesse promesso la presenza di qualità nello schiavo o
nell’animale, rivelatesi poi inesistenti.
In età postclassica le due azioni ampliano progressivamente il proprio campo di
applicazione, giungendo a comprendere nella legislazione giustinianea, tutte le cose:
mobili, immobili o semoventi. Pure la garanzia per i vizi occulti e la mancanza della qualità
promesse viene a configurarsi gradualmente come un elemento naturale del contratto, che i
contraenti possono escludere, accrescere o ridurre. Entrambe le azioni sono passate
attraverso il diritto intermedio e sopravvivono ancora negli ordinamenti moderni.
→Il rischio del perimento della cosa
già il diritto romano avverte il bisogno di regolare la sopportazione del rischio nell’ipotesi di
perimento (venir meno dell’oggetto di un diritto o decesso per cause non naturali) della cosa
compravenduta dopo la conclusione del contratto e prima della consegna all’acquirente. Si
tratta naturalmente di un perimento non imputabile ai contraenti. Il perno su cui ruota è
che il rischio del perimento grava sul compratore, non stante la cosa non gli sia stata
trasmessa, a meno che il venditore non abbia specificamente assunto un’obbligazione di
custodia (es: supponiamo ad esempio, che tizio abbia venduto lo schiavo a Caio per un
certo prezzo e se sia obbligato a trasmetterglielo entro un mese.se prima di allora lo schiavo
sia deceduto di morte naturale, il rischio era a carico dell’acquirente, che doveva comunque
pagare il prezzo) Questa regola, chiaramente affermata nel diritto romano, ha esercitato una
certa influenza sul pensiero di alcune correnti giusnaturalistiche francesi, inducendole a
ritenere che il compratore sopportava il rischio perché, all’atto della conclusione della
vendita, era diventato, già con il consenso, proprietario della cosa, trovando così
applicazione il principio secondo il quale la perdita fortuita di una cosa ricade sul suo
proprietario.
→Clausole accessorie alla compravendita
all’interno del contratto di compravendita le parti potevano aggiungere ulteriori clausole
rispetto a quelle previste nel tipo contrattuale, al fine di regolare più adeguatamente il
proprio assetto di interessi. Esse si traducevano in patti aggiunti normalmente al momento
della conclusione del contratto e, fra di essi, tre risultano i più importanti:
1.la “legge commissoria” (lex commissoria) → si trattava di una clausola favorevole al
venditore, che produceva un effetto risolutivo sulla compravendita attraverso un
determinato meccanismo: il patto era sottoposto ad una condizione sospensiva (mancato
pagamento del prezzo alla scadenza del termine perentorio, che, quando si avverava, lo
rendiamo operativo con effetti risolutori sul contratto).
2.il “patto di migliore offerta entro un certo termine” (in diem addictio)→ il “patto di migliore
offerta entro un certo termine era frutto di un accordo tra venditore ed acquirente, per
cui, se entro un determinato termine un terzo avesse fatto una migliore offerta di prezzo, la
compravendita già conclusa si sarebbe risolta e la cosa oggetto della stessa sarebbe stata
aggiudicata a quel terzo miglior offerente. Anche questa clausola si inseriva
nell’interesse del venditore, avendo come finalità di conseguire un prezzo migliore rispetto
a quello già pagato, da intendersi non solo come prezzo migliore rispetto a quello già pagato
da intendersi non solo compre prezzo più alto, ma anche come migliori condizioni di prezzo.
Questa clausola rappresenta un’alternativa al sistema della vendita all’asta, detto nelle
fonti auctio o sub hasta [per il fatto che i prigionieri di guerra, venduti come schiavi al
miglior offerente, erano fatti passare sotto un’asta], la cui conclusione comportava un
procedimento: il venditore ricorreva ad un intermediario, il quale dava opportuna pubblicità
alla vendita e curava lo svolgimento di una gara fra i potenziali acquirenti, per scegliere
quello che avrebbe pagato il prezzo migliore. L’aggiudicatario prometteva il pagamento
all’intermediario, che provvedeva a soddisfare il venditore, a carico del quale era per posta
la spesa aggiuntiva del servizio realizzato dall’intermediario.
3.“patto di gradimento” (pactum discicentiae)→ con il “patto di gradimento” i contraenti
convenivano un periodo di prova, al termine del quale l’acquirente valutava se la cosa
comprata lo avesse soddisfatto, ridandola, se così non fosse stato, al venditore in cambio
della restituzione del prezzo. La clausola produceva perci effetti risolutivi, ma era inserita,
questa volta, nell’interesse del compratore.
Accanto ad esse, nelle fonti se ne incontrano altre due: il “patto per il riacquisto della
cosa venduta”, con il quale il riacquisto la cosa venduta a certe condizioni ed entro un dato
termine ed il patto con il quale si impegnava a preferire il venditore a tutti gli altri potenziali
acquirenti, nel caso in cui avesse voluto rivendere la cosa.
LA LOCAZIONE CONDUZIONE
Nello schema della locazione conduzione rientrano tre figure contrattuali, che, sulle orme
della tradizione romanistica, preferiamo definire e trattare separatamente.
1. locazione di una cosa [locatio conductio rei], mediante la quale il locatore
consegnava una cosa al conduttore, il quale la usava e ne traeva ai frutti per il
periodo di tempo convenuto, pagando al locatore un corrispettivo in denaro e
restituendogliela alla scadenza. Essa corrisponde, per usare una terminologia
moderna, alle nozioni dei nostri contratti di locazione e di affitto.
2. locazione conduzione di un’opera [locatio conductio operis], mediante la quale
il locatore consegnava una cosa al conduttore, il quale doveva realizzare un
risultato con riferimento ad essa, di regola entro un termine convenuto, ricevendo
in cambio un corrispettivo in denaro. Alla sua nozione si possono riportare, in via
generale, i nostri contratti di appalto, trasporto e d’opera.
3. locazione conduzione di attività lavorative [locatio conductio operarum],
mediante la quale il locatore metteva a disposizione del conduttore un certo
numero di giornate di lavoro per un periodo convenuto, ottenendone un
corrispettivo in denaro. Tale nozione equivale, nella sostanza, al nostro contratto
di lavoro subordinato.
In tutte e tre le figure si distinguono chiaramente come elementi oggettivi: la cosa o le
attività lavorative ed il corrispettivo in denaro. La cosa poteva essere corporale, sia
immobile che mobile, o anche incorporale→ un diritto, tra cui le fonti indicano alcuni diritti
reali, come l’usufrutto e la superficie, locati secondo lo schema della locazione di cosa. Il
corrispettivo in denaro era chiamato “mercede”.
→Locazione conduzione di una cosa (locatio conductio rei).
questa figura era finalizzata a mettere a disposizione del conduttore da parte del locatore
una cosa o un diritto in via temporanea, dietro il pagamento di una mercede [o canone]
mensile o annuale. Trattandosi di un contratto sinallagmatico o a prestazioni corrispettive, le
obbligazioni sorgevano a carico di entrambe le parti.
La prima obbligazione del locatore era quella di consegnare al conduttore la cosa o di
trasmettergli il diritto da utilizzare. Naturalmente, nei confronti della cosa locata, il conduttore
era un semplice detentore. La seconda obbligazione fondamentale del locatore consisteva
nel garantire al conduttore il pacifico godimento ed utilizzazione della cosa, quello che le
nostre fonti chiamano l’uti frui [usare e fruire della cosa]. Qualora fosse stato inadempiente,
il conduttore avrebbe avuto a disposizione contro di lui l’azione da conduzione per il
risarcimento dei danni.
Proprio in relazione alla seconda obbligazione si deve affrontare la questione delle
conseguenze che il locatore avrebbe dovuto sopportare nel caso in cui avesse venduto
l’edificio o il fondo agricolo dato in locazione. La vendita era valida, ma determinava
l’estinzione della locazione. Ma se il compratore, in quanto nuovo proprietario, poteva, in
termini moderni, risolvere il contratto di locazione e pretendere la restituzione della cosa
locata, il venditore, in quanto locatore, poiché si era obbligato verso il conduttore a
garantirgli il pacifico godimento della cosa, avrebbe dovuto risarcirgli il danno dovuti dalla
sua venuta meno.
Le obbligazioni principali del conduttore erano date dal pagamento della mercede, dalla
conservazione della cosa nello stato in cui l’aveva ricevuta e dalla sua restituzione alla
scadenza. Mancando il loro adempimento, sarebbe stato il locatore a disporre dell’azione da
locazione a fini risarcitori.
Nell’ipotesi di locazione di un fondo agricolo, solitamente la mercede si pagava per anno
e la durata del contratto era di cinque anni. Il conduttore si designava con il termine “colono”.
Inoltre, invece che in denaro, il canone poteva consistere in una parte del raccolto. In questa
locazione i giuristi si sono occupati ampiamente del problema di chi fosse chiamato a
sopportare il rischio della perdita del raccolto dovuta a forza maggiore o caso fortuito.
Secondo una distinzione risalente a Severio Sulpicio Rufo ed accolta ancora da Ulpiano, il
rischio di fenomeni dovuti ad una “forza alla quale non si pu resistere” gravava sul locatore,
che avrebbe dovuto esonerare il conduttore dal pagamento della mercede per quell’anno. Il
rischio di fenomeni non imputabili alle parti, ma inerenti alla coltivazione, restavano invece
a carico del conduttore, il quale era ugualmente tenuto a pagare.
Nella locazione di edifici o appartamenti, si preferiva designare il conduttore con il
termine “inquilino” ed il pagamento da parte sua della mercede, spesso indicata come
“pensione”, non avveniva su base annua, bensì mensile. Qui il regime delle cause di forza
maggiore è più semplice, nel senso che il rischio del loro accadimento si poneva a carico
del locatore con conseguente venuta meno dell’obbligazione di pagare il canone.
L’altra obbligazione del conduttore era quella di conservare la cosa ricevuta in locazione in
buono stato o, quanto meno, nello stato in cui gli era stata trasferita. Da qui nasce il
problema di come andassero ripartite le spese tra proprietario – locatore e conduttore ed il
criterio che si afferma è grosso modo quello di distinguere fra:
- spese di “ordinaria manutenzione” à erano a carico del conduttore, perché su di lui
gravava l’obbligo di mantenere la cosa locata in buono stato;
- “spese di straordinaria manutenzione” à sopportate dal locatore, in quanto tenuto a
garantire al conduttore il godimento della cosa locata.
Infine, se alla scadenza del termine il conduttore non restituiva la cosa, pur avendoglielo
richiesto il locatore, era responsabile per i danni; qualora, invece, il locatore non avesse
reclamato la restituzione, una volta scaduto il termine, ed il conduttore, a sua volta, non
l’avesse effettuata, si sarebbe verificato un rinnovo tacito del contratto di locazione per lo
stesso periodo.
→Locazione conduzione di un’opera (locatio conductio operis)
questa figura si caratterizzava per il fatto che il conduttore doveva realizzare un risultato in
rapporto alla cosa consegnatagli dal locatore. Siamo in presenza di quella che oggi si
chiama una obbligazione “di risultato”, che si considera adempiuta solo con il
raggiungimento dello stesso, occorrendo a tal fine la verifica ed approvazione del locatore. A
queste obbligazioni si contrappongono quelle “di mezzi”, dove non si richiede al debitore di
realizzare un risultato, bensì di impegnarsi secondo le modalità convenute.
Questa era la principale obbligazione del conduttore. Accanto ad essa sorgeva come
obbligazione accessoria quella di custodire la cosa o le cose ricevute sulle quali compiere il
risultato, con la conseguenza che, in caso di sottrazione o perimento delle stesse, sarebbe
sorta a carico del conduttore una responsabilità indipendente da ogni suo comportamento
doloso o colposo.
Da parte sua, il locatore aveva come obbligazioni principali quella di consegnare e mettere a
disposizione del conduttore la cosa o le cose, necessariamente corporali e di solito
infungibili, e quella di pagare la mercede, ossia il corrispettivo in denaro, per il risultato
raggiunto.
È nel settore del trasporto marittimo dove trova un’ampia diffusione il contratto di
locazione conduzione d’opera, con una ricca casistica trattata dalla giurisprudenza.
Il primo è preso in esame dal giurista Labeone e riguarda il trasporto di schiavi su una nave.
Tizio, proprietario di un certo numero di schiavi, conclude un contratto con Caio, il
comandante di una nave per trasportarli da un porto ad un altro. Durante il viaggio per mare
uno schiavo decede di morte naturale. La questione giuridica che si pone è se il proprietario
degli schiavi debba pagare al comandante della nave [o all’armatore] anche il corrispettivo in
denaro per lo schiavo morto. Labeone dà una decisa risposta negativa, in quanto per quello
schiavo non si è realizzato il risultato del trasporto al luogo d’arrivo. Paolo, riprendendo il
parere di labeone, osserva invece che occorre fare una distinzione, a seconda di quale
figura di locazione abbiano conclusi i contraenti:
- se si è trattato della locazione di tutta la nave di spazi interni a destra, dove farvi viaggiare
gli schiavi, erano locazione di cosa e di proprietà degli schiavi assumeva il ruolo di
conduttore, mentre il comandante della nave e quello del locatore. In tal caso, la morte dello
schiavo trasportato era irrilevante, non incidendo Sulla mercede che il conduttore e il
proprietario degli schiavi avrebbe comunque dovuto pagare in cambio dell’utilizzazione della
nave e gli spazi al suo interno.
- qualora invece, si sia conclusa una locazione di opera, Paolo è d’accordo con labeone,
dal momento che il risultato del trasporto non si è realizzato con riguardo allo schiavo morto
L’altro caso è quello in cui Tizio, proprietario di un certo numero di anfore, le fa trasportare
sulla nave di Caio, la cui capienza è di trecento anfore. Il quesito sottoposto al giurista,
sempre Labeone, è se il corrispettivo in denaro (nolo) che Tizio deve pagare a Caio vada
rapportato al numero di anfore effettivamente trasportate oppure a quelle corrispondenti alla
capienza della nave. La risposta anche questa volta è condizionata dalla figura di locazione
che i contraenti hanno voluto concludere.
Strettamente connesso al trasporto marittimo è il tema delle avarie, intese come danni
subiti dal carico a causa delle difficoltà della navigazione. In particolare, l’ordinamento
giuridico romano prende in considerazione l’ipotesi in cui fosse stato necessario gettare in
mare parte delle merci caricate, per permettere la continuazione della navigazione ed
impedire il naufragio. Se il sacrificio di una parte del carico consentiva la salvezza della
nave, che riusciva così ad entrare in porto, dal punto di vista giuridico si poneva il problema
di come ripartire i danni tra i proprietari delle merci caricate e poi gettate fuori bordo ed i
proprietari delle merci salvate grazie alla perdita delle altre. A tal fine si recepisce e adatta
una “normativa internazionale”, creata, probabilmente, da un insieme di consuetudini facenti
capo all’isola di Rodi. Essa, infatti, è tramandata con il nome di lex Rhodia de iactu dove il
termine lex [legge] non va inteso nel senso tecnico di provvedimento approvato da
un’assemblea popolare, bensì di regolamento e la locuzione de iactu sta ad indicare il getto
delle merci dalla nave in mare. Nel I secolo d.C. i proprietari delle merci lanciate in mare,
che nel contratto di trasporto erano i locatori, agivano con l’actio locati contro l’armatore o il
comandante della nave per il risarcimento dei danni; dopo aver pagato, l’armatore o il
comandante della nave aveva l’azione di regresso contro i proprietari delle merci salvate,
sotto forma di actio conducti, in quanto conduttore nel contratto di trasporto. Gli si
attribuiva, perciò , il potere non di trattenere le merci salvate, bensì di agire contro i loro
proprietari per ottenere la loro contribuzione al risarcimento dei locatori, le cui merci
erano gettate fuori bordo.
La procura era un atto unilaterale recettizio con il quale un soggetto, detto dominus,
affidava ad un altro soggetto libero, il procurator, l’amministrazione di tutti i suoi affari e di
tutto il suo patrimonio. Il termine dominus non sta qui ad indicare il “padrone”, bensì il
“titolare” del patrimonio o “l’interessato”, mentre il procuratore, essendogli conferiti i poteri di
amministrare l’intero patrimonio del dominus, veniva designato nelle fonti come
procuratore di tutte le cose o di tutti i beni (procurator omnium rerum o omnium
bonorum). Costui era quindi legittimato a porre in essere non un singolo atto, ma tutti quelli
che servivano per la gestione di quel patrimonio. La sua era una forma di rappresentanza
indiretta, perché tutti gli effetti degli atti compiuti con i terzi ricadevano nella sua sfera
giuridica e poi, con atto separato, li doveva trasferire in quella del titolare.
I rapporti giuridici tra dominus e procurator erano regolati da un’azione chiamata “azione di
gestione di affari altrui”, che poteva essere diretta, quando veniva esercitata dal dominus
contro il procurator nel caso in cui non gli avesse trasmesso i risultati della sua attività, e
contraria, se, viceversa, fosse stato il procuratore ad agire contro il titolare, che, ad esempio,
non avesse voluto rimborsargli le spese o risarcirgli i danni subiti nell’amministrazione del
patrimonio.
→Mandato
si tratta di un contratto consensuale imperfettamente bilaterale, in forza del quale un
soggetto, detto mandante, dava incarico a un altro soggetto, detto mandatario, di svolgere a
titolo gratuito un’attività, solitamente giuridica, per suo conto. Dal mandato discendeva
dunque una forma di rappresentanza indiretta, per cui il mandatario agiva in nome proprio e
per conto del mandante, con la conseguenza che avrebbe dovuto trasmettere a quest’ultimo
tutti gli effetti della sua attività ricadenti dapprima su di lui. La spendita del nome detta
anche contemplatio domini [indicazione del titolare dell’affare], risulta in generale
irrilevante proprio perché il mandatario agisce in nome proprio e per conto del mandante.
Il contratto era imperfettamente bilaterale, perché obbligato era sempre il mandatario, il
quale doveva eseguire l’incarico ricevuto nei modi e nei limiti stabiliti dal mandante. Per
quest’ultimo nasceva un’obbligazione solo in caso di spese o danni. L’oggetto dell’incarico
doveva essere lecito. Se invece il mandatario fosse andato oltre, perché, ad esempio, ha
comperato un fondo ad un importo maggiore a quello indicato dal mandante, l’atto compiuto
era valido, ma vincolava il solo mandatario, che non avrebbe potuto trasferirne gli effetti al
mandante né rivalersi contro di lui. Affinchè ciò avvenisse, era necessario che il mandante
ratificasse l’attività svolta dal mandatario oltre i limiti del mandato; tale ratifica nel linguaggio
giuridico latino si denominava ratihabitio ed era l’unico modo attraverso il quale il mandante
avrebbe potuto essere il destinatario finale dell’attività.
Anche se il mandato era gratuito, perché non era prevista una remunerazione per il
mandatario, il mandante sarebbe stato obbligato a tenerlo esente da spese o danni derivanti
dall’esecuzione dell’incarico. Conseguentemente, quando il mandatario non aveva eseguito
l’incarico o lo aveva eseguito in modo difforme, il mandante poteva agire contro di lui con
l’azione di mandato diretta, finalizzata al risarcimento dei danni, mentre, qualora il mandante
non avesse rimborsato le spese o risarcito i danni al mandatario, questi avrebbe esperito
contro di lui l’azione di mandato contraria.
Va svolta una breve riflessione sull’estinzione del mandato per revoca e per morte di una
delle parti, perché emerge un profilo più generale che caratterizza taluni rapporti obbligatori.
Infatti, qualora l’incarico non avesse ancora avuto inizio il mandante poteva revocarlo,
rendendo dal contratto, ed una tale facoltà sussisteva per gli eredi anche nel caso di morte
del mandante o del mandatario.
L’estinzione del mandato per morte di uno dei contraenti rappresentava un’eccezione alla
trasmissibilità in via ereditaria dei rapporti obbligatori e ci si spiega per il carattere
essenziale che ha la scelta di quella determinata persona.
→Mandato e gestione di affari altrui
quando aveva ad oggetto il compimento di uno specifico atto giuridico, si configurava come
un mandato speciale: ad es., il mandante dava incarico al mandatario di concludere una
compravendita o un mutuo o comunque un singolo atto. In seguito, probabilmente durante il
I secolo a.C., il mandato viene ad assumere anche carattere generale: si parlava allora di
mandato generale, con il quale, ad esempio, il mandante dava incarico al mandatario di
amministrare tutto il suo patrimonio o una branca di esso o ancora la contrattazione inerente
alla sua attività economica. In tal modo, il mandato generale si è progressivamente
sovrapposto alla procura, come atto che regolava i rapporti tra dominus e procurator
omnium rerum.
Le tappe di questo procedimento di graduale sostituzione sono difficili da ricostruire, dato lo
stato attuale delle fonti, ma il risultato finale è chiaro: da un lato, il mandato viene a
racchiudere in sé la procura, dall’altro, giungono a separarsi nitidamente mandato e gestione
di affari altrui, caratterizzata dalla mancanza dell’accordo di volontà, presente invece nel
mandato.
Una prima caratteristica che accomuna i contratti innominati era la loro natura
sinallagmatica, non potendo che essere a prestazioni corrispettive. Un secondo elemento
fondamentale era la presenza di una causa.
Se la sussistenza della causa era indispensabile nei contratti innominati romani, il suo
significato appare discusso, poiché le fonti non lo hanno precisato. Secondo l’interpretazione
data dai Glossatori ed ancor oggi prevalentemente seguita, la causa, alla quale fa
riferimento Aristone, consisteva nell’avvenuta prestazione da parte di uno dei contraenti con
la conseguenza che non bastava il solo accordo tra di loro per obbligarsi, ma occorreva
che uno avesse adempiuto affinchè anche l’altro lo dovesse fare. Quindi il concetto di
causa indicherebbe l’esecuzione di una delle prestazioni, da cui deriverebbe la necessità di
eseguire la controprestazione, avvicinando, da questo punto di vista, i contratti innominati a
quelli reali.
Ove una parte avesse adempiuto e l’altra invece non lo avesse fatto, chi aveva adempiuto
avrebbe potuto scegliere se chiedere alla controparte l’adempimento oppure domandare la
risoluzione del contratto, secondo il proprio interesse.
Qualora il contraente adempiente pretendesse la contro prestazione, disponeva di un’azione
che più nomi nelle fonti giuridiche. Se invece avesse voluto domandare la risoluzione del
contratto, la formula dell’azione sarebbe cambiata, a seconda della figura contrattuale.
Infatti, nelle due in cui la prima prestazione era un dare il contraente che aveva trasmesso
all’altro la proprietà di una cosa poteva richiederne la restituzione [e risolvere così il
contratto] con una condictio [azione di ripetizione], che qui prendeva il nome di condictio
causa data causa non secuta, nel senso di “azione per la restituzione di una cosa data in
proprietà, a cui non ha fatto seguito la controprestazione di trasmettere in proprietà un’altra
cosa”. Nelle altre due figure, siccome l’adempimento è consistito in un’attività di facere, di
cui non si poteva perciò chiedere la ripetizione, il contraente che aveva adempiuto avrebbe
potuto avvalersi solo dell’azione di dolo, quando l’inadempimento dell’altro fosse stato
internazionale
Grazie all’elaborazione sistematica della scienza giuridica intermedia, il nucleo del regime
romano è passato agli ordinamenti moderni, come quello italiano.
→Dolo (dolus malus)
si fa riferimento al dolo negoziale, perché commesso al fine di “viziare” la volontà di un’altra
persona e indurla a concludere un atto o un negozio. Le nostre fonti distinguono il vero e
proprio dolo, qualificato dolus malus, letteralmente “dolo malvagio”, che provocava
l’invalidità dell’atto o negozio, ed è un dolo “buono”, ammesso e chiamato perciò dolus
bonus. Quest’ultimo consisteva normalmente nell’esaltazione delle qualità di una cosa per
invogliare la controparte a concludere un contratto ed era tollerato al fine di favorire la
circolazione di beni e servizi.
→Dolus malus
si sostanziava in artifici o raggiri che un soggetto poneva in essere per ingannare un altro
soggetto, traendolo in errore e portandolo alla conclusione di un atto non voluto.
Concettualmente anche il dolo è causa di un errore della controparte, ma sul piano giuridico
viene disciplinato, già nel diritto romano, come vizio della volontà a sé stante.
Ulpiano ci tramanda due definizioni di dolo: la più antica è di Servio Sulpicio Rufo, secondo
il quale il dolo è “una certa macchinazione per ingannare un altro, che si ha quando una
cosa è simulata e in concreto ne è fatta un’altra.
La seconda definizione è attribuita ad Antistio Labeone, il quale, rilevando che il dolo può
sussistere anche senza simulazione, ne propone la più ampia definizione di “ogni furbizia,
inganno e macchinazione adibiti per circonvenire, ingannare e indurre in errore un altro”.
Nel diritto arcaico, non era riconosciuta rilevanza al dolo, per cui l’atto che ne era viziato
produceva ugualmente i suoi effetti, poiché si osservassero le formalità prescritte. Una prima
rilevanza è data dal pretore peregrino quando introduce le azioni di buona fede a tutela di
determinati contratti, come compravendita, locazione, mandato. In essi gli atteggiamenti
dolosi di una parte non erano compatibili con la buona fede che ne era il fondamento, con la
conseguenza che chi li avesse subiti poteva ottenere l’annullamento degli effetti del contratto
in due modi: opponendosi in sede processuale, con un’eccezione, alla richiesta di
adempimento avanzata dall’autore del dopo oppure esercitando l’azione contrattuale per
ottenere la restituzione di quanto dato o il risarcimento dei danni.
Tali rimedi non erano per sufficienti, perché non trovavano applicazione per gli atti ed i
rapporti contrattuali di stretto diritto, come mutuo e stipulatio; pertanto fu introdotto uno
specifico editto de dolo da Aquilio Gallo durante la sua pretura del 66 a.C., contenente
l’eccezione di dolo e l’azione di dolo.
Mediante l’eccezione, la parte che aveva subito il dolo respingeva in via giudiziale le pretese
di chi l’aveva commesso, ottenendo la liberazione dal vincolo assunto. Se fosse stato la
vittima del dolo a voler ottenere l’annullamento, avrebbe utilizzato l’actio de dolo, con la
quale puntava a far ristabilire dal giudice la situazione giuridica preesistente ove ciò non
fosse stato possibile, a far condannare l’autore del dolo al risarcimento dei danni.
Non esistono prove certe che, già nel diritto romano, fosse presente, sia pure in germe, la
distinzione tra dolo determinante e dolo incidente che si sviluppa a partire dai Glossatori ed
è accolta ancor oggi nel nostro Codice civile.
→Violenza morale (metus)
nelle fonti romane si denomina metus [letteralmente timore] o anche solo vis, cui i giuristi
intermedi aggiungono la qualifica di compulsiva, proprio per rimarcare che si tratta di
violenza morale e non fisica. Questo vizio della volontà consisteva nella minaccia di un
male grave e ingiusto rivolta ad un soggetto, ai suoi cari o ai suoi beni per indurlo a
concludere un certo atto.
L’evoluzione del metus è stata parallela a quella vista per il dolo. Il più antico
riconoscimento si ha nell’ambito delle azioni nascenti dai contratti di buona fede, in cui la
vittima della violenza poteva farla valere, in via di difesa o di attacco, contro chi traeva
vantaggio dal negozio viziato ed ottenerne l’annullamento.
L’azione, la cui denominazione completa era azione per l’atto che sarà stato compiuto
per timore di una violenza, concorreva in via alternativa con il rimedio della in integrum
restitutio e veniva esercitata da chi aveva subito la minaccia ai fini dell’annullamento
dell’atto, con conseguente ripristino della situazione giuridica precedente disposto dal
giudice. Si qualificava come un’azione in rem per sottolineare che la violenza poteva
provenire da chiunque avesse tratto vantaggio dal negozio viziato e non necessariamente
dal convenuto. Qualora, per , la vittima intentasse l’azione dopo un anno dal compimento
della violenza, allora l’ammontare della condanna scendeva dal quadruplo all’importo
semplice del risarcimento dei danni, previa valutazione di tutte le circostanze da parte del
pretore.
→ L’actio metus
è definita come azione penale e la condanna nel quadruplo è considerata comprensiva
sia della pena che del ristoro patrimoniale, in base sempre alle parole di Ulpiano. Si sarebbe
potuta anche impiegare contro gli eredi di chi si fosse approfittato dell’atto compiuto sotto
minaccia, ma in tal caso la condanna sarebbe stata nella sola misura del loro effettivo
arricchimento, in quanto la pena è personale ed intrasmissibile. Mediante l’eccezione, la
persona minacciata poteva difendersi dalle richieste giudiziali di compimento o di
esecuzione dell’atto viziato, opponendola alla controparte anche quando l’autore della
violenza fosse stata una persona diversa.
I QUASI CONTRATTI
Si tratta di un’invenzione giustinianea per racchiudere tutti gli atti leciti di natura non
contrattuale che generano obbligazioni.
Il loro elemento di unità è, infatti, dato dall’assenza del consenso fra le parti della relazione
obbligatoria, che impedisce a tali atti di essere qualificati come contratti.
Oltre i legati ad effetti obbligatori ed il pagamento di indebito, le Istituzioni giustinianee, vi
includono anche la tutela degli impuberi con riferimento alle reciproche obbligazioni tra
tutore e pupillo, ovviamente una volta terminata la tutela stessa e le situazioni di
comproprietà, quando non dipendano da un atto volontario dei condomini, come la coeredità
e la donazione di una stessa cosa a più persone.
Un ultimo caso riguarda l’arricchimento senza causa, da cui nasce l’obbligazione di
restituirlo a carico di chi l’abbia ottenuto.
Storicamente la prima forma è data dallo stesso pagamento di indebito, che comportava
un’attribuzione patrimoniale a favore di colui che l’avesse ricevuto, con conseguente sua
obbligazione restitutoria. Ad essa si aggiungono un insieme di situazioni, che le fonti
indicano con l’espressione ciò per cui “qualcuno” è diventato più ricco, dove si allude al
beneficiario di un arricchimento senza causa o ingiustificato.
Per configurarlo, era necessaria la trasmissione di una cosa in proprietà ad altri e l’assenza
di una causa che ne fosse il fondamento. L’obbligazione che nasceva in capo
all'accipiens era quella della restituzione.
CARATTERISTICHE GENERALI
Le obbligazioni da fatto illecito nella terminologia giustinianea sono i delitti e i quasi
delitti.
Esse presentavano delle proprie caratteristiche distintive, che i giuristi romani, abituati a
ragionare sul piano processuale, attribuiscono non tanto alle obbligazioni stesse, quanto alle
azioni penali che ne derivavano a favore del creditore.
Un primo punto importante da sottolineare è l’unitarietà del concetto di obbligazione offerto
dal diritto romano, capace di racchiudere in sé tanto le obbligazioni da atto lecito quanto le
obbligazioni da fatto illecito.
Nel diritto romano da un o quasi delitto nasceva, innanzitutto, l’obbligazione del suo autore
di pagare una somma a titolo di pena privata (poena) da corrispondere a chi l’avesse subito.
A tale obbligazione se ne poteva aggiungere un’altra diretta alla riparazione o al risarcimento
dei danni.
Questa caratteristica è designata dai moderni come cumulatività, perché il creditore (la
vittima), per far valere i propri diritti, avrebbe potuto esperire congiuntamente l’azione per
ottenere la pena e l’azione per le riparazioni e gli eventuali danni. A volte bastava un’unica
azione, che realizzava entrambe le funzioni ed era perciò detta mista.
Se l’illecito fosse stato commesso da più persone, tutte avrebbero dovuto corrispondere la
pena per intero e l’eventuale pagamento effettuato da uno non avrebbe liberato gli altri.
Una seconda caratteristica era l’intrasmissibilità passiva: l’obbligazione di pagare la pena
nascente da un illecito non poteva trasmettersi agli eredi dell’autore dell’illecito stesso.
Dal lato attivo, invece, alla probabile originaria intrasmissibilità subentra progressivamente la
regola opposta, cosicché agli eredi della vittima dell’illecito (il creditore) è data facoltà di
agire contro il suo autore (il debitore) per conseguire la pena pecuniaria.
Un’altra caratteristica era data dalla nossalità, così chiamata perché derivava dall’istituto
della noxae deditio, per cui, ove l’illecito fosse stato commesso da una persona alieni iuris
(figlio o schiavo) l’avente potestà avrebbe potuto consegnarla all’offeso, anziché pagare la
pena pecuniaria, sempre che non lo avesse saputo o non avesse potuto impedirlo.
Questa possibilità spettava al titolare della potestà nel momento in cui si esercitava l’azione
penale e non in quello in cui l’illecito era stato compiuto, perché la corrispondente
obbligazione seguiva la titolarità del potere.
Un’ultima caratteristica di queste obbligazioni e della relative azioni è legata al tempo:
quando ne era fonte un illecito previsto dallo ius civile, erano perpetue (salvo prescrizione),
mentre, se derivavano dal diritto onorario, l’azione penale per far valere il diritto del creditore
aveva carattere temporaneo e durava un anno.
Le quattro figure di delitto (delicta) trattate nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano sono:
furto, rapina, danneggiamento (damnum iniuria datum)e iniuria (atto ingiusto contro una
persona).
I SINGOLI DELITTI
Le XII Tavole non conoscono una categoria di furto, bensì più generi di esso:
1. furto manifesto (furtum manifestum) o in flagrante→ il ladro era considerato in
flagrante non solo quando si catturava all’atto di commettere il furto, ma anche dopo
averlo commesso, allorché si trovasse ancora nello stesso luogo o non avesse
ancora trasportata la cosa rubata nel luogo di destinazione.
La pena stabilita nelle XII Tavole per questo tipo di ladri era molto dura: se era un
libero, previa fustigazione, veniva aggiudicato dal magistrato al derubato, come si
faceva per il debitore insolvente.La finalità era che egli lo facesse lavorare presso di
sé ottenendo una soddisfazione patrimoniale per l’illecito subito.
Se il ladro era un servo altrui, veniva frustato ed ucciso.
Il rigore di queste pene è attenuato in seguito dal pretore, il quale, a prescindere
dallo status del ladro, le sostituisce con la condanna al quadruplo del valore della
cosa rubata.
Invece, nel caso in cui il ladro fosse colto in flagrante di notte o tentasse di difendersi
con un’arma per non essere preso, il derubato, dopo aver chiamato a testimonianza i
vicini, lo potevano uccidere impunemente.
2. furto non manifesto (furtum nec manifestum) o non in flagrante→ era definito per
esclusione, rientrandovi tutte le ipotesi in cui l’illecito non fosse qualificabile come
manifesto o non appartenesse alla altre tre figure speciali di furto. Per questo genere
di furto già le XII Tavole sancivano la pena del pagamento del doppio del valore della
cosa rubata, che si conserva anche nel diritto successivo, compreso quello
giustinianeo.
3. furto “di cosa ritrovata” (furtum conceptum)→ si aveva quando la cosa rubata fosse
scoperta a casa di qualcuno (non necessariamente il ladro) alla presenza di
testimoni.
4. furto “di cosa offerta” (furtum oblatum)→ era commesso allorché la cosa rubata
venisse offerta da qualcuno (anche qui non necessariamente il ladro) ad un’altra
persona affinché fosse poi ritrovata in casa sua.
5. furto “proibito” (furtum prohibitum)→ si configurava tutte le volte in cui una persona
rifiutasse senza un giustificato motivo la perquisizione della propria casa alla ricerca
della cosa rubata.
Nel furto “di cosa ritrovata” e nel furto “di cosa offerta” la pena per colui presso la cui
casa si era trovata la cosa rubata o per chi l’avesse ricevuta da altri era del triplo del
valore della stessa (poena tripli), mentre nel furto “proibito” il condannato dopo il
pagamento avrebbe potuto rivalersi per il rimborso contro colui che gliela aveva
offerta e in questo caso la pena era del quadruplo.
La quaestio lance licioque, traducibile come “ricerca compiuta con un piatto ed un panno
avvolto alla vita”→ prevedeva l’entrata del derubato nella casa di un altro con un piatto
(detto lanx) in mano e rivestito solo di un panno per coprire le parti intime (il lycium). Se
avesse trovato la cosa rubata, il furto sarebbe stato equiparato a quello manifesto con
irrogazione della relativa pena.
La pena era dunque pecuniaria per disposizione originaria nelle XII Tavole o per successivo
intervento pretorio, come abbiamo detto nel caso del furto manifesto. Ad eccezione di
quest’ultima ipotesi, in cui si riprendeva immediatamente la cosa sottratta, nelle altre il
derubato aveva a disposizione, oltre all’azione per conseguire l’ammontare della pena,
anche l’azione per recuperare la cosa o per ottenere il risarcimento dei danni, qualora il
ladro l’avesse distrutta; quella di rivendica, con cui il proprietario chiede la restituzione della
cosa a chi la possiede, o quella di restituzione, chiamata condictio ex causa furtiva, essendo
una delle tante applicazioni della condictio.
I requisiti del furto consistevano:
● nella sottrazione di una cosa mobile altrui, contro la volontà del proprietario o di chi
ne aveva assunto l’obbligazione di custodia;
● nell’intenzione del ladro di rubarla.
Le due grandi categorie del furto manifesto e non manifesto permangono nell’alveo
del diritto privato anche in epoca postclassica e giustinianea, ma nel frattempo si
verifica un progressivo passaggio da delitti a crimini di singole specie di furto: ad esempio il
furto di bestiame ed il furto con scasso.
RAPINA
La rapina viene inclusa tra i delitti del ius civile fonti di obbligazioni, in quanto ritenuta
anch’essa una specie di furto , dal quale si distingue perché implica la sottrazione o il
danneggiamento intenzionale e violento di una cosa altrui contro la volontà del
proprietario o di chi ne abbia la custodia.
La sua trattazione separata è dovuta al rafforzamento della tutela dei soggetti rapinati da
parte del pretore attraverso l’introduzione nell’editto di una specifica azione, definita azione
per i beni rapinati con violenza (actio bonorum vi raptorum), rivolta contro chi avesse
commesso la rapina. Il primo ad inserirla sarebbe stato Lucullo, durante la sua pretura del
76 a.C.
La pena prevista per il rapinatore, che si poteva conseguire attraverso l’esercizio dell’azione,
era pari al quadruplo del valore delle cose rapinate, uguale a quella stabilita per il furto
manifesto. Tale importo costituiva per tre quarti la pena pecuniaria e per un quarto il
risarcimento dei danni, giustificando così la natura mista dell’azione (penale e
reipersecutoria).
Se però l’azione fosse stata esperita dopo un anno, il rapinato avrebbe potuto ottenere
solo la somma equivalente al semplice valore di quanto sottrattogli con violenza. Il
rapinatore condannato era anche colpito da infamia.
IL DANNEGGIAMENTO
Il danneggiamento è previsto nelle XII Tavole solo per specifiche ipotesi inquadrate
nell’ambito dei crimini, come la distruzione del raccolto altrui o l’incendio della casa o dei
covoni di frumento di altri, per i quali era sancita le pena di morte.
Tra il codice decemvirale e l’approvazione della legge Aquilia, nel III secolo a.C., si ritiene
che i casi di danneggiamento rientrassero nella più ampia nozione di furto in quanto
ingerenze materiali su una cosa appartenente ad un altro, commesse contro la sua volontà.
Un dato sicuro è invece l’approvazione di tale legge, che si componeva di tre capitoli:
1. stabiliva che, se qualcuno avesse ucciso illegittimamente uno schiavo o una schiava
altrui oppure un animale a quattro zampe da gregge, avrebbe dovuto pagare al
padrone, a titolo di pena, una somma di denaro corrispondente al valore più
elevato avuto dallo schiavo o dall’animale nell’ultimo anno precedente.
2. il creditore aggiunto, il quale avesse in modo fraudolento rimesso al debitore con
accepti latio il suo debito, avrebbe dovuto corrispondere al creditore, a titolo di pena,
una somma pari all’ammontare del debito rimesso. In questo secondo capitolo si
considerava perciò come danneggiamento la rimessione dolosa di un debito.
3. si disponeva che , se qualcuno illegittimamente avesse ferito uno schiavo o una
schiava o un animale da gregge altrui oppure avesse commesso un danno su una
cosa di un altro (o su un animale non da gregge) mediante un’attività di rompere,
bruciare o infrangere, sarebbe stato tenuto al pagamento di una pena in denaro,
corrispondente al valore più alto avuto dallo schiavo, dall’animale o dalla cosa
rotta, bruciata o infranta, nell’ultimo mese precedente.
Il contenuto originario della legge Aquilia non prevedeva una figura generale di danno, bensì
tre specifiche ipotesi, di cui la prima e la seconda presentano dei contorni esattamente
definiti mentre la terza ha una portata più ampia.
Una volta approvata la legge, il pretore inserisce nel suo editto una corrispondente azione
con la quale il proprietario dello schiavo o animale ucciso o danneggiato oppure delle cose
rotte, bruciate o infrante poteva ottenere il pagamento della pena.
L’azione della legge Aquilia, che ha carattere penale, ma funzione risarcitoria, dal momento
che la somma di denaro indicata in ciascuno dei tre capitoli serviva non solo come pena per
l’autore del danneggiamento, obbligato a pagarla, ma anche come ristoro della perdita
patrimoniale subita dal soggetto leso.
Sul canovaccio rappresentato dai tre capitoli della legge Aquilia lavorano sia il pretore che
la giurisprudenza, al fine di estendere i casi di danneggiamento risarcibili.
Un primo risultato è la decadenza del capitolo secondo, perché il risarcimento dei danni
che il creditore può chiedere al creditore aggiunto può avvenire con l’azione da mandato, in
quanto i loro rapporti vengono ormai inquadrati in tale contratto.
Un secondo risultato è quello di ampliare il campo di applicazione del terzo capitolo:
come dice sempre Gaio, al concetto di “rompere” si riporta qualunque tipo di
danneggiamento (che non sia l’uccisione o il ferimento di uno schiavo o di un animale),
anche diverso da quello di rompere in senso stretto o bruciare o infrangere.
Un altro risultato di rilievo consiste nel comprendere nel valore più alto del servo ucciso, da
risarcire al padrone, qualunque altro danno o perdita che fosse conseguenza diretta
della sua morte.
Infine il risultato più importante si ha con il superamento della necessità che il danno
risarcibile fosse solo quello fisico causato dalla forza fisica dell’agente.
Per rimediare a tali situazioni interviene il pretore, riconoscendo nel suo editto al
danneggiato delle azioni in via utile base sulla legge Aquilia: actiones utiles legis Aquiliae, la
cui formula era un adattamento di quella dell’azione diretta nascente dalla legge Aquilia per
estenderla a quelle fattispecie dove non si era fatto uso della forma materiale.
Alla creazione di azioni utili si aggiunge poi quella di un’azione modellata sul fatto, per
consentire il risarcimento anche di quei danni non consistenti in una lesione fisica.
In ogni caso tutte queste estensioni dell’applicazione della legge Aquilia portano al
risarcimento di danni di carattere economico e patrimoniale, solo talvolta e indirettamente vi
si possono includere anche danni morali.
Oltre all’ampliamento dei tipi di danneggiamento risarcibili, l’altra direzione su cui operano
congiuntamente pretore e giurisprudenza riguarda il concetto di danno “ingiusto” e, come
tale, risarcibile.
Le nostre fonti precisano che è quello arrecato contra ius ed indicano che si debba sempre
qualificare così il danno dato con dolo o con colpa.
Nel primo caso, l’autore l’aveva commesso intenzionalmente, nel secondo, per
negligenza, imprudenza o imperizia.
Nella determinazione del concetto di colpa, ai fini della legge Aquilia, i giuristi sono molto
rigorosi: non solo obbliga al risarcimento il danno causato per colpa grave, ma anche quello
dovuto a colpa lieve o addirittura, come osserva Ulpiano, lievissima, ossia anche per la più
leggera forma di negligenza.
Conseguentemente l’ingiustizia del danno è esclusa quando sia stato commesso da
persone cui non si possano imputare né dolo né colpa oppure quando sussistano
circostanze di legittima difesa o di stato di necessità venendo così meno la
responsabilità dell’autore. E lo stesso accade, naturalmente, anche quando si verificano
eventi di forza maggiore.
SPECIE DI OBBLIGAZIONI
Il diritto romano elabora diverse specie di obbligazioni, soprattutto prendendo come punto
di partenza le due fonti della stipulazione e dei legati ad effetti obbligatori.
La trattazione, però, non si rivela condotta in modo organico, ma l’individuazione delle
specie e le normative particolari che le caratterizzano sono chiaramente delineate,
rappresentando la base storica dell’attuale regime giuridico.
Le obbligazioni si dividono in:
● Obbligazioni civili ed obbligazioni pretorie
● Obbligazioni civili ed obbligazioni naturali→ l’espressione “obbligazioni civili” non sta
ad indicare le obbligazioni riconosciuto dal diritto civile, ma le obbligazioni per le quali
l’ordinamento giuridico prevede la tutela del creditore mediante azione.
Ogni volta che l’obbligazione dà vita ad un’azione, siamo nel campo delle
obbligazioni civili. Nel caso invece delle obbligazioni naturali, non esiste un’azione
a tutela delle pretese del creditore, ma ciò che il debitore ha spontaneamente pagato
viene trattenuto dal creditore stesso. Il caso più antico in cui i giuristi parlano di
obbligazione naturale è quello dei rapporti obbligatori assunti, mediante un atto
lecito, da uno schiavo con capacità intellettiva verso il titolare della potestà oppure
verso un estraneo. Quando ad esempio, un institore, un comandante della nave o il
gestore di un’impresa all’interno di un peculio fosse stato uno schiavo ed avesse
assunto un’obbligazione nei confronti di un creditore estraneo, questa sua
obbligazione si qualificava come naturale e le conseguenze erano che, se non
avesse pagato, il creditore non avrebbe potuto agire contro di lui grazie alla
creazione delle azioni adiettizie, gli era possibile rivolgersi solo contro il padrone. Se
invece lo schiavo avesse adempiuto, al suo proprietario sarebbe stata negata la
possibilità di chiedere la restituzione di quanto dato.
Da tale configurazione originaria il concetto di obbligazione naturale si estende, nel
diritto giustinianeo, anche altre situazioni di volontario adempimento a doveri non
giuridici, ma aventi rilevanza morale o sociale, quali l’adempimento di
un’obbligazione contrattata da un impubere senza l’autorizzazione del tutore o la
prestazione di attività lavorative al patrono da parte del liberto.
● Obbligazioni solidali ed obbligazioni parziarie→ le prime si considerano considerate
sia nella forma della solidarietà elettiva parlando dell’esercizio collettivo di
un’impresa, sia nella forma della solidarietà cumulativa che caratterizza le
obbligazioni da delitto.
Quando invece si parla di obbligazioni parziarie, siamo in presenza di più debitori o
più creditori, ciascuno dei quali deve adempiere o ciascuno dei quali può pretendere
l’adempimento, solo nella misura della propria quota e non per l’intero.
La natura solidale o parziaria di un’obbligazione, al di fuori delle obbligazioni del
delitto, dipendeva dal tipo di rapporto obbligatorio.
Operano diversamente anche i modi di estinzione:
➔ in quelle solidali l’adempimento di uno dei debitori o verso uno dei creditori
estingueva il rapporto obbligatorio per tutti;
➔ in quelle parziarie ciascuno doveva adempiere o poteva richiedere
l’adempimento solo della parte corrispondente.
● Obbligazioni generiche→ si tratta di obbligazioni il cui oggetto era determinato solo in
riferimento al genere: ad esempio uno schiavo, un cavallo, un fondo, tra le cose
infungibili e vino, olio, grano tra quelle fungibili.
Caratteristica di quelle obbligazioni era che, per essere adempiute, avevano
bisogno di un ulteriore atto, compiuto di solito dal debitore ma eventualmente
riferibile anche al creditore: la specificazione, letteralmente l’individuazione della
cosa specifica all’interno del genere.
● Obbligazioni divisibili e indivisibili→ questa distinzione è relazionata all’oggetto
dell’obbligazione.
In linea generale, si consideravano divisibili tutte le obbligazioni che avessero ad
oggetto una prestazione di dare e indivisibili tutte quelle, il cui contenuto consistesse
in un fare o non fare, quando debitori e creditori fossero stati più di uno.
Mentre le obbligazioni divisibili potevano adempiersi parzialmente, ciò non valeva per
le indivisibili. La divisibilità, inoltre, non andava considerata solo in senso materiale,
bensì anche idealmente.
● Obbligazioni alternative→ sono quelle che hanno ad oggetto più di una prestazione,
ma per il loro adempimento è sufficiente l’esecuzione di una sola. I casi più
frequenti derivano da una stipulazione o da un legato a effetti obbligatori, in cui il
creditore o il tentatore lasciano la scelta al debitore di adempiere eseguendo una o
l’altra prestazione.
Se normalmente si rimetteva al debitore la scelta della prestazione da eseguire, nulla
vietava che fosse deferita al creditore o perfino ad un terzo. Una volta effettuata la
scelta, l’obbligazione da alternativa diventava semplice.
Prima di allora si ammetteva, nel caso di opzione attribuita al debitore, un suo diritto
di modificarla fino al momento dell’adempimento. Qualora, invece, dovesse scegliere
il creditore, la possibilità di cambiare permaneva fino al momento in cui avrebbe
esercitato l’azione contro il debitore inadempiente, perché, nella relativa formula,
andava precisato l’oggetto della sua pretesa.
Un fenomeno di concentrazione poteva accadere anche ove una delle due
prestazioni divenisse impossibile.
La regola, che si afferma progressivamente nel diritto romano, è questa:
1. se la scelta era del debitore→ l’obbligazione da alternativa si trasformava in
semplice con un solo oggetto della prestazione, quello ancora possibile. Se
l’impossibilità non fosse dovuta a lui, il debitore poteva decidere se
eseguire quella possibile o pagare la stima in denaro di quella impossibile.
2. se la scelta spettava al creditore→ qualora il carattere alternativo venisse meno
non per un fatto del debitore, si verificava la concentrazione. Altrimenti il creditore
avrebbe potuto chiedergli la prestazione rimasta oppure la stima in denaro di
ciò che era divenuto impossibile.
● Obbligazioni propter rem→ anche di questo tipo di obbligazioni si è già detto in relazione
all’azione di “allontanamento dell’acqua piovana” tra fondi sovrastanti e sottostanti,
all’obbligazione di risarcire i danni causati da animali domestici e alla caratteristica
della nossalità propria di tutte le azione da delitto.
La loro connotazione era quella di essere un rapporto obbligatorio ma, nello stesso
tempo, con elementi reali, in quanto la persona obbligata era chiunque si fosse
trovato ad avere la proprietà del fondo sovrastante o sottostante, dell’animale
domestico o del servo, spiegandosi così l’aggiunta unificante del termine propter rem
(letteralmente “a causa di una cosa”).
● Obbligazioni pecuniarie→ si tratta di obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro.
Nel diritto romano, con riguardo ad esse, trovava applicazione il principio
nominalistico→ per cui il debitore doveva pagare la somma indicata al momento della
costituzione dell’obbligazione, anche se si fosse nel frattempo svalutata.
Ad esempio, se per la locazione di un edificio il conduttore doveva pagare una
somma di cento sesterzi all’anno per dieci anni, secondo il principio nominalistico, la
sua obbligazione sarebbe sempre stata quella di pagare cento sesterzi, anche se
l’effettivo valore degli stessi si fosse ridotto a settanta o sessanta.
Per ovviare alle conseguenze del principio nominalistico, sul piano dei rapporti
privatistici, la soluzione generalmente adottata era di compensare la perdita di valore
della moneta con il pagamento degli interessi, utilizzando quegli strumenti, la
stipulazione accessoria al mutuo o un semplice patto nel deposito irregolare o
aperto.
NOZIONI GENERALI
Il processo civile è lo strumento predisposto da un ordinamento giuridico, per consentire al
titolare di un diritto o di un potere in ambito privatistico di chiedere ad un giudice di
riconoscerlo e dichiararlo, in quanto contestato da altri, e di intervenire eventualmente per
la sua attuazione concreta.
Di qui la fondamentale distinzione fra:
1. procedimento di cognizione→diretto alla valutazione dell’esistenza di tale diritto o
potere, mediante una sentenza che lo dichiari o lo costituisca,
2. procedimento di esecuzione→volto a rendere effettivo il diritto o potere dichiarato o
costituito.
Il processo è attivato da chi ha interesse al riconoscimento o all’esecuzione, che
prende il nome di “attore” o di “colui che agisce”, mentre il soggetto contro il quale si instaura
è detto “convenuto in giudizio” o più semplicemente “convenuto”.
L’attore, quindi, per dare inizio al procedimento, deve esercitare un’azione contro il
convenuto.
L’azione rappresenta l’esercizio di un diritto o di un potere sul piano processuale.
Lo svolgimento del processo è regolato in modo più preciso e dettagliato, man mano che si
passa dal diritto arcaico a quello giustinianeo. Termina sempre con la decisione definitiva di
un giudice contenuta in una sentenza, detta “giudicato” o “cosa giudicata” oppure con la
effettiva attuazione del diritto o potere, secondo modalità sempre dirette da un magistrato o
da un giudice.
Nell’arco del diritto romano si sono succeduti tre tipi di possesso civile (o privato):
1. arcaico→ retto da un sistema di azioni previste dalla legge, detto perciò per legis actiones;
2. del periodo classico o dell’età commerciale→ caratterizzato da una molteplicità di
formule scritte di azioni, introdotte dal pretore nel suo editto per i singoli rapporti giuridici, e
quindi chiamato “formulare” o per formulas;
3. del periodo postclassico e giustinianeo→ si connota per fondarsi su forme libere, ma
sempre scritte. La sua denominazione complessiva è cognitio extra ordinem, proprio per
sottolinearne la diversità dall’ordinamento dei giudizi formulari.
Nei primi due tipi la fase dell’impostazione del giudizio si svolgeva davanti al tribunale di
un magistrato, mentre la fase della presentazione delle prove avveniva di fronte ad un
giudice privato, il quale, in base ad esse, provvedeva ad emettere la sentenza.
Questa bipartizione non esiste più nell’ultimo tipo, dove le due fasi risultano unificate.
Infine, anche nel diritto romano si prevede la possibilità di seguire una strada alternativa al
processo civile per risolvere controversie di carattere patrimoniale: quella dell’arbitrato, in cui
la decisione, anziché essere rimessa ad un giudice, si devolve ad un arbitro scelto di
comune accordo dai litiganti, al cui lodo (sentenza) essi devono poi attenersi.
→I mezzi complementari
Nell’editto del pretore, oltre alle formule delle azioni ed alle eccezioni, erano contenuti anche
altri rimedi giurisdizionali, attraverso i quali si sarebbero potute prevenire o risolvere
controversie senza far luogo ad un processo ordinario. Tre, fra tali rimedi, meritano la nostra
attenzione: gli interdetti, le reintegrazioni in pristino stato e le immissioni nel possesso, tutti i
tre fondati sul potere di imperio, di cui era dotato il pretore, più che sulla sua funzione
giurisdizionale.
gli interdetti→ erano strumenti di tutela più rapidi ed immediati rispetto alle azioni, perché
consistevano nell’ordine di tenere un certo comportamento, dato dal pretore a qualcuno su
richiesta di un interessato. La loro maggiore efficacia e velocità dipendeva dal fatto che
normalmente il destinatario assumeva il comportamento intimatogli dal pretore, senza
ricorrere ad un processo.
I giuristi avevano proposto varie classificazioni degli interdetti. La più importante li
suddivideva in interdetti proibitori [interdicta prohibitoria], finalizzati a vietare una condotta;
interdetti restitutori [interdicta restitutoria], destinati a ripristinare una precedente situazione
di fatto; interdetti esibitori [interdicta exhibitoria], diretti ad esibire una cosa o una persona.
La rilevanza della distinzione riguardava non solo gli scopi degli interdetti, ma fosse rifiutato
di eseguire l’ordine pretorio. Questo procedimento, infatti, poteva essere con o senza il
pagamento di una penale in denaro a carico delle parti.
Negli interdetti restitutori ed esibitori, la via seguita normalmente era quella sine poena,
richiedendosi al pretore una formula con la nomina di un arbitro incaricato di decidere la
controversia; negli interdetti proibitori, al contrario, il richiedente ed il destinatario
dell’interdetto promettevano [con sponsio] separatamente di pagare la penale, qualora un
giudice avesse ritenuto infondata o la pretesa alla base dell’interdetto o l’immotivata
resistenza ad esso.
In base ad un’ultima classificazione, gli interdetti si ripartivano in semplici, quando una delle
parti fungeva da attore e l’altra da convenuto, quando le parti assumevano entrambi i ruoli.
le reintegrazioni in pristino stato (restitutiones in integrum)→ con tali strumenti il pretore
provvedeva a porre il richiedente nella medesima situazione giuridica che aveva prima del
compimento di un atto, mediante l’annullamento dello stesso. Le diverse ipotesi, nelle quali
si sarebbe potuta domandare la reintegrazione, erano previste nell’editto ed il pretore vi
provvedeva, previa una valutazione delle circostanze concrete. Nulla però gli avrebbe
vietato di disporla anche al di fuori di tali ipotesi, ove l’avesse ritenuta opportuna nel singolo
caso. Il meccanismo processuale per realizzare la restitutio era normalmente la
concessione di una specifica azione rescissoria anche se il magistrato era pienamente libero
di ricorrere ad altri mezzi.
le immissioni nel possesso (missiones in possessionem)→ erano strumenti di coazioni
disposti dal pretore contro chi avesse assunto atteggiamenti immotivati di resistenza sul
piano sia sostanziale che processuale, come rifiutarsi di concludere la promessa di danno
temuto, di comparire in tribunale nel giorno stabilito, di difendersi in giudizio o accettare la
sua istituzione oppure di pagare la condanna pecuniaria per inadempimento contrattuale.
O anche avevano finalità conservative di un patrimonio, come le immissioni che si facevano,
su richiesta dei legatari, per salvaguardare l’oggetto dei legati, o su richiesta dei legatari, per
salvaguardare l’oggetto dei legati o, su richiesta del curatore, per lasciare intatte le
aspettative patrimoniali di un concepito. Oltre che patrimoni interi, potevano avere ad
oggetto singoli beni. Malgrado la denominazione l’immesso acquistava la mera detenzione
del patrimonio o della cosa, non potendo perciò vanta un possesso ai fini dell’usucapione,
salvo specifici interventi pretori.