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conseguenza che la famiglia prendeva il nome di familia communi iure: i nuclei, o per
ragioni economiche o per ragioni di gestione delle esigenze aziendali familiari o per
molteplici altri motivi, decidevano di rimanere come famiglia unica.
La parentela
Si distinguevano i parenti:
in linea retta, cioè tra ascendenti e discendenti (genitori e figli, nonni e nipoti);
in linea collaterale (fratelli e sorelle, zio e nipote, cugini).
La parentela nell’esperienza giuridica romana rilevava sino al settimo grado.
Tornando all’origine di Roma, nell’età più antica, la parentela che rilevava dal punto di vista
giuridico era solo quella per linea maschile. Quindi, gli impedimenti sussistevano in ragione della
presenza di un vincolo di parentela per linea maschile (rapporti agnatizi). Non rilevava il vincolo
cognatizio (la parentela per linea femminile).
Progressivamente, nel tempo, acquisterà importanza anche il vincolo di parentela per linea
femminile. Ad esempio, sia in presenza della parentela in linea maschile sia di quella femminile non
si applicavano le regole stringenti della Lex Cincia de donis et muneribus che vietavano le
donazioni tra coniugi. Inoltre, nel caso in cui occorreva scegliere un tutore per un pupillo, si inizierà
a preferire una persona legata da un vincolo di parentela per linea femminile, anziché un estraneo.
La parentela per linea femminile tarderà ad acquisire rilevanza dal punto di vista giuridico
nell’ambito della successione perché in tal caso il patrimonio sarebbe stato diviso in presenza di
vincoli parentelari per linea femminile.
Sarà il pretore, in età repubblicana, ad iniziare ad inserire nell’editto interventi che agevolano nella
successione il rapporto parentale per linea femminile.
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Fino a quando, in età imperiale, due senatoconsulti (provvedimenti) orfiziano e tertulliano
regolamenteranno la successione per linea femminile.
Da ultimo, nel VI sec., con Giustiniano viene eliminata la distinzione tra parenti per linea maschile
e parenti per linea femminile.
Quindi, tutti i parenti verranno contrassegnati dal vincolo di cognazione, cioè saranno tutti cognati
(non c’entra nulla con la cognazione dell’adfinitas).
I gradi di parentela
Come si calcolano i gradi di parentela?
1. Il calcolo della parentela in linea retta viene eseguito computando le generazioni. Quindi,
tra padre e figlio c’è un rapporto di parentela in linea retta di primo grado. Il rapporto di
parentela tra nonno e nipote è in linea retta di secondo grado. Il rapporto di parentela tra
bisnonno e nipote è in linea retta di terzo grado.
2. Il calcolo del grado di parentela tra parenti in linea collaterale si esegue calcolando il
numero delle generazioni sino a risalire al comune capostipite per poi riscendere al parente
considerato. Quindi, nel caso di fratelli e sorelle, si risale al padre per riscendere al fratello.
È un parente di secondo grado. Nel caso del rapporto tra zio e nipote, si risale al padre, al
nonno e si riscende allo zio. Quindi è una parentela di terzo grado. Nel caso di rapporto tra
cugini, si risale al padre e al nonno e si riscende allo zio e al cugino. Quindi, è una parentela
di quarto grado.
La filiazione.
Nell’ambito dei rapporti nella famiglia, il padre esercita sui figli la patria potestas.
La filiazione è il rapporto che intercorre tra genitori e persone procreate. Se i figli non sono nati
nell’ambito di un matrimonio giusto e legittimo, essi avranno uno status diverso rispetto a quelli
nati in un matrimonio giusto e legittimo.
Individuiamo le figure distinte di figli:
1. Figli legittimi: sono quelli nati all’interno di un vincolo realizzatosi attraverso la
formalizzazione di un matrimonio giusto e legittimo.
2. Figli naturali: sono quelli nati all’interno di un’unione stabile che però non ha fondamento
in un matrimonio giusto e legittimo.
3. Figli adulterini: sono quelli nati in occasione del fatto che una donna genera un figlio a
seguito di un rapporto intrattenuto in costanza di matrimonio con un uomo diverso rispetto
al proprio coniuge.
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4. Figli incestuosi: sono quelli nati a seguito di una relazione tra persone legate tra loro o da
un rapporto di parentela o da un rapporto di adfinitas cioè con un parente del coniuge.
5. Figli adottivi: dà luogo alla nascita di vincoli di parentela di natura civilistica.
Il pater familias esercita la patria potestas sui figli legittimi e su quelli adottati.
Nel corso dei secoli, ritroviamo la patria potestas anche se svuotata del suo contenuto originario,
fino alla legge di riforma del diritto di famiglia (L.151/1975) in cui la patria potestà viene sostituita
con la potestà genitoriale, quest’ultima a sua volta sostituita dalla responsabilità genitoriale con la
L.156/2013. I genitori sono responsabili nei confronti dei figli del loro mantenimento, educazione,
istruzione, assistenza morale e sono tenuti a tutelare i rapporti dei figli con i parenti, in particolare
con i nonni. I figli, a loro volta, sono obbligati nei confronti dei genitori a rispettarli e a contribuire
al loro mantenimento in relazione alle loro sostanze e al loro reddito.
Inoltre, in età moderna, è stata eliminata la distinzione tra figli legittimi e quelli naturali che sono
equiparati.
Anche nell’esperienza romana, il potere potestativo del padre si svuota del suo contenuto nel corso
dei secoli.
Nell’esperienza giuridica romana si verifica una distinzione tra padre naturale e pater familias. Il
padre naturale non coincide sempre con il pater familias. Le due figure coincidono quando il padre
naturale che ha generato il figlio è sui iuris.
I figli
In diritto romano, con il termine di figli o liberi s’intendono i discendenti di qualunque grado.
Quindi ci si riferisce sia ai figli sia ai nipoti. Nell’esperienza giuridica romana, i figli potevano
essere:
1. Filii legitimi o iusti: sono quelli nati nei 182 giorni dalla formalizzazione del vincolo
matrimoniale o quelli nati nei 300 giorni successivi dallo scioglimento del vincolo. Questi:
a. portavano il nomen paterno (attuale cognome);
b. non potevano testimoniare contro i genitori né intentare azioni infamanti;
c. tra genitori e figli legittimi nascevano specifici rapporti di natura successoria;
d. tra genitori e figli si instaurava un obbligo reciproco agli alimenti in caso di
necessità.
2. Filii spuri o vulgo concepti: sono quelli nati da un rapporto vietato, cioè una relazione
sanzionata dall’ordinamento romano. Erano certamente uomini liberi ma rivestivano lo
status giuridico della madre al momento della nascita.
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3. Figli naturali: non erano il frutto di una relazione vietata dal diritto ma erano figli nati
all’interno di un’unione di fatto, ad esempio un rapporto di concubinato. Nascevano da un
rapporto stabile non formalizzato con il matrimonio.
Con il tempo, in età imperiale, essi acquistano diritti di natura successoria. I figli avranno la
possibilità di succedere al padre naturale:
in presenza di figli legittimi nati da un precedente o successivo matrimonio regolare:
vale a dire che il padre poteva concludere delle nozze dopo la nascita del figlio,
oppure aver già concluso delle nozze e tenere una concubina. In questo caso, i figli
naturali parteciperanno di 1/12 (un’oncia) delle sostanze paterne;
In assenza di figli legittimi, i figli naturali partecipavano in 3/16 (3 once) delle
sostanze paterne.
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La questione della triplice vendita era conseguenza del fatto che nell’esperienza giuridica
romana, sin dal tempo delle XII Tavole del V sec. a.C. (445 a.C.), era stato fatto divieto al
padre di operare più di tre vendite del figlio. Quindi, aveva il diritto di alienare la propria
prole per non più di tre volte. Alla terza vendita, il magistrato poteva far uscire il figlio dalla
famiglia d’origine.
Tuttavia, in età tardo antica e giustinianea, l’adozione non sarà formalizzata più attraverso
la triplice vendita ma attraverso il ricorso al magistrato o al notaio per la formalizzazione
del rapporto di adozione. Giustiniano, in ragione del principio “Adoptio naturam imitatur”
stabilirà che l’adozione era possibile solo quando ci fosse una differenza di età di almeno 18
anni tra adottante e adottato e vietava l’adozione nel caso di evirati in ragione del fatto che
l’adozione era immagine speculare del rapporto naturale.
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dell’obbligazione rimasta inadempiuta da parte del figlio o dello schiavo salvo nelle ipotesi
riconosciute dal pretore ai terzi di actiones adiecticiae qualitatis:
1. Actio exercitoria: semmai il padre di famiglia avesse preposto all’esercizio di un’attività
armatoriale il proprio figlio o il proprio schiavo e il figlio o lo schiavo fossero stati
inadempienti, il soggetto terzo avrebbe potuto rivolgere la richiesta di esatto adempimento
della prestazione elusa dal figlio o dallo schiavo al padre (se l’obbligazione è stata contratta
dal figlio) o al padrone (se l’obbligazione è stata contratta dallo schiavo)
2. Actio institoria: quando il padre o il padrone avesse preposto all’esercizio di un’attività
imprenditoriale il figlio o lo schiavo e questi fosse risultato inadempiente, il soggetto terzo
avrebbe potuto pretendere l’esecuzione della prestazione nei confronti del padre o padrone.
3. Actio tributoria: viene da tribuere (distinguere, dividere). In questo caso ci si rivolgeva al
padre o al padrone perché distribuisse imparzialmente il patrimonio dato in gestione al
figlio o allo schiavo tra più creditori. Quando nell’amministrazione di un patrimonio
concesso dal padre al figlio o allo schiavo, il figlio e lo schiavo contraevano una
molteplicità di obbligazioni, i creditori avrebbero potuto rivolgere l’azione tributoria al
padre o padrone per ottenere in proporzione dei crediti o a soddisfazione dei loro crediti se
il patrimonio era sufficiente, l’adempimento dell’obbligazione.
4. Actio quod iussu: il terzo avrebbe potuto pretendere l’adempimento di un’obbligazione dal
pater familias quando il figlio o lo schiavo avesse contratto l’obbligazione con il terzo su
specifica indicazione da parte del pater familias e il figlio e lo schiavo fossero stati
inadempienti.
5. Actio de peculio: il peculio era un patrimonio costruito dal padre e dato in amministrazione
al figlio. Se il padre concedeva al figlio il peculio, il figlio lo amministrava secondo le
puntuali indicazioni del padre il quale rimaneva comunque titolare del cespite patrimoniale.
Se nell’amministrazione del peculio, il figlio avesse contratto delle obbligazioni poi
inadempiute, il terzo poteva chiedere giudizialmente al padre l’esatto adempimento
dell’obbligazione assunta dal figlio.
6. Actio de in rem verso: è un’azione residuale: nel caso in cui non ci fosse stata l’attività
armatoriale né l’essere preposto alla gestione di un’attività imprenditoriale, né un comando
da parte del padre a compiere un negozio giuridico, né l’amministrazione del peculio, il
soggetto terzo poteva esperire un’azione residuale in cui poteva chiedere l’adempimento
della prestazione al padre in ragione dell’ingiustificato arricchimento affinché il padre
potesse corrispondere il minimo della prestazione in ragione del fatto che sarebbe stato
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ingiustificato l’arricchimento che proveniva dall’obbligazione rimasta inadempiuta da parte
del figlio.
In buona sostanza, il pater familias risponde delle obbligazioni proprie, non risponde delle
obbligazioni degli altri componenti del nucleo familiare.
Il peculio
Per quanto riguarda il peculio, nell’esperienza giuridica romana, ad iniziare con Adriano e poi con
Costantino si introducono:
Il peculio castrense con Adriano, una forma particolare di peculio. Era un patrimonio messo
insieme dal figlio attraverso gli acquisti fatti durante la carriera militare (in castris). Veniva
amministrato con maggiore autonomia da parte del figlio che poteva disporne anche mortis
causa.
Il peculio quasi castrense con Costantino. Era un patrimonio messo insieme dal figlio con i
proventi derivanti sia dallo svolgimento di uffici pubblici che solitamente erano gratuiti ma
che potevano comportare acquisizioni, sia con gli acquisti fatti dal figlio quando ricopriva
cariche ecclesiastiche sia con i proventi derivanti dall’esercizio delle arti liberali, anche
queste gratuite. Veniva amministrato con maggiore autonomia da parte del figlio che poteva
disporne anche mortis causa.
Il figlio, oltre ai beni paterni, disponeva anche dei bona adventicia, cioè i beni che costituivano il
patrimonio della madre. Oltre ai beni materni, sempre per linea femminile, il figlio era titolare dei
bona materna generis, cioè dei beni provenienti dalla parentela per linea femminile che tuttavia
venivano goduti dal pater familias vita natural durante.
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4. Quando il padre si fosse macchiato di un grave crimine che riguardava la famiglia (es.
matrimonio incestuoso tra padre e figlia);
5. Quando il padre avesse avviato i figli alla prostituzione;
6. Quando il padre rinunciava volontariamente al suo potere potestativo attraverso
l’emancipazione del figlio.
a. In età classica, l’emancipazione si formalizzava mediante la triplice vendita: il padre
vendeva per tre volte il figlio ad una persona di fiducia che a sua volta lo manomette
per tre volte. Dopo la terza vendita, il figlio tornava sotto il mancipium del padre.
Operando la manomissione, il padre emancipava il figlio che diventava soggetto sui
iuris.
b. Nel 500 d.C. (VI sec. d.C.) l’imperatore Anastasio aveva previsto che per
l’emancipazione del figlio occorreva il rescritto del principe: si avanzava una
richiesta motivata all’imperatore il quale con un suo provvedimento imperiale, il
rescritto, emancipava il figlio.
c. Da ultimo, Giustiniano, nel VI sec. d.C., introdusse come forma di emancipazione
del figlio l’emancipazione per tabulas cioè il magistrato o il notaio redigeva una
tabula in cui si trascriveva l’emancipazione del figlio. Occorreva, inoltre, se il figlio
non era più da emancipare il consenso del figlio stesso.
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Lezione 3 del 19 settembre 2019
La nascita della schiavitù
La schiavitù non è un istituto tipicamente romano. In origine, i patrizi, per lo svolgimento dei lavori
pesanti, si avvalevano della collaborazione fattiva dei clientes, mentre i plebei costituivano famiglie
allargate e ponevano in essere le attività necessarie per la vita familiare avvalendosi dei singoli
componenti della famiglia. Solo a seguito delle guerre di espansione di Roma e della creazione di
un varco sul Mediterraneo, le vittorie hanno comportato la possibilità di riportare uomini in Roma,
con uno stato diverso da quello di uomini liberi, cioè uno stato servile. Nascerà di conseguenza la
schiavitù.
La dominica potestas
La dominica potestas è il potere che il pater familias esercita sullo schiavo.
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Oltre alla manumissio inter amicos, se ne aggiunsero altre sempre più scevre da formalismi.
In particolare, le due forme diffuse e semplici di manomissione dello schiavo sono:
a. Manumissio per mensam: il pater familias, dominus dello schiavo, in occasione di
un banchetto, manifestava verbalmente alla presenza dei convitati la sua formale
volontà di liberare un proprio schiavo.
b. Manumissio ad epistulam: il pater familias indirizza una lettera ad un amico in cui
si indicava il nominativo dello schiavo che si intendeva di fatto liberare, il quale,
attraverso questa manifestazione contenuta nella lettera, acquistava lo status
giuridico di uomo libero.
3. Nell’età tardo-antica, qualunque manifestazione di volontà del dominus era sostanzialmente
idonea a liberare uno schiavo e renderlo liberto. In età giustinianea, acconsentire a che uno
schiavo partecipasse semplicemente al funerale del padrone vestito da uomo libero
comportava la liberazione dello schiavo anche quando non è stata volontà del defunto o dei
suoi eredi.
4. Con il cristianesimo, poi, la Chiesa acquista un potere anche in questo ambito e si
riconoscerà al vescovo la possibilità di manomettere lo schiavo: manumissio in sacrosantis
ecclesiis.
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Lo status di liberto
Lo schiavo liberato in liberto acquista uno status giuridico distinto rispetto all’uomo nato libero
(ingenuo).
a. In primo luogo, al liberto non viene riconosciuto il libero accesso alle cariche pubbliche,
così come le donne le quali non potevano esercitare neanche le arti liberali. [Testo
consigliato da Sandirocco. Scritti ultimi in ricordo di Giovanna Mancini. Contributo di
Sandirocco: Donne avvocato in Roma Antica]
b. I liberti vengono riuniti in un numero di tribù inferiore rispetto agli uomini liberi, e
considerando che si votava per tribù, il voto dei liberti aveva un peso inferiore e non era in
grado di determinare delle linee di indirizzo politico.
c. Inoltre, le donne libere (ingenue) dopo la nascita del terzo figlio, acquistavano il cosiddetto
ius liberorum (diritto in ragione dei figli) in virtù del quale non erano più sottoposte a tutela.
Diversamente, le liberte, solo dopo il quarto figlio si sottraevano alla tutela dell’agnatus
proximus.
d. L’assenza di coniubum per le liberte e le figlie di liberte le quali non potevano sposare
senatori, figli di senatori e discendenti di senatori.
Il vincolo di patronato
Diversamente dall’ingenuo, il liberto è legato da un vincolo di patronato al patrono, cioè il
padrone che lo ha liberato. Questo obbligo di patronato consisteva in:
a. un obbligo quotidiano di saluto;
b. l’obbligo di seguire il patrono nel foro in occasione delle uscite ufficiali del patrono;
c. qualora il patrono se si fosse candidato alle elezioni per ricoprire un ruolo politico
all’interno dell’Urbe, il liberto sarebbe stato tenuto a fare la campagna elettorale per il
patrono;
d. obbligo reciproco agli alimenti;
e. il patrono succedeva ab intestato (per legge) al liberto, cioè acquisiva un diritto ereditario
sui beni del liberto.
In realtà, il vincolo di patronato non esisteva in caso di manumissio testamenti perchè lo schiavo
diventava liberto solo dopo la morte del padrone per cui rimaneva in assenza di patrono. Il liberto,
in questo caso, prende il nome di liberto orcino.
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Giustiniano eliminò la categoria dei liberti con l’effetto che lo schiavo liberato acquistava uno
status giuridico pari a quello dell’uomo nato libero.
Il vincolo matrimoniale
Ci sono due teorie:
1. Secondo la teoria dominante, il matrimonio romano si distingueva in matrimonio:
a. Cum manu. La donna passava dal potere potestativo del padre al potere potestativo
del marito. Il passaggio avveniva attraverso:
I. Confarreatio. Le nozze si formalizzavano alla presenza del flamen dialis
(pontefice) e di dieci testimoni. I nubendi manifestavano la loro volontà di
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essere marito e moglie e nell’occasione spezzavano una focaccia di farro a
simboleggiare la volontà di vita insieme. Il corteo accompagnava la donna
alla casa coniugale dove l’aspettava il marito che la sollevava da terra e la
introduceva al suo interno.
II. Coemptio. Consisteva in un finto negozio, una mancipatio (negozio giuridico
con il quale si trasferiva la proprietà di un bene da una persona all’altra)
rivisitata, la donna passava dal potere potestativo del padre o alla manus
maritalis (potere potestativo) del marito. Se il marito fosse stato alieni iuris,
la donna sarebbe passata al potere potestativo del suocero (padre del marito)
come nipote.
III. Usus. Richiama l’usucapione: la donna che avesse convissuto con il marito
ininterrottamente per 12 mesi, senza che si fosse formalizzata la coemptio,
vedeva passare il potere potestativo su di lei dal padre al marito o al suocero
in caso il marito era alieni iuris.
b. Sine manu. Non vi era il passaggio del potere potestativo sulla donna da un soggetto
all’altro. Si verificava quando non si ricorreva né alla confarreatio, né alla coemptio,
né si era perfezionato l’usus perché la donna si era allontanata per tre notti
consecutive dalla casa familiare per impedire il passaggio del potere potestativo dal
padre della sposa al marito di lei.
A Roma, era in uso che il pater familias spesso frapponesse ostacoli al matrimonio
perché comportava l’uscita della donna dalla famiglia di origine e con lei anche parte
del patrimonio seguiva la donna e il padre perdeva qualsiasi diritto successorio su
quel patrimonio. Per ovviare a questo problema, si faceva allontanare la donna per
tre notti dalla casa del marito in modo che la donna e il patrimonio rimanessero
formalmente nella famiglia di origine.
2. Secondo altra parte della Romanistica (in primis Volterra) si ritiene che il matrimonio fosse
uno solo e cioè quello che si formalizzava solo ed esclusivamente attraverso la
manifestazione del consenso (l’affectio maritalis) cioè la volontà del marito e della moglie
di essere coniugi. Quindi, confarreatio, coemptio e usus non erano forme di matrimonio ma
erano forme di conventio in manu per consentire il passaggio del potere sulla donna dal
padre di lei al marito.
Fino all’età classica, si riteneva che l’affectio maritalis doveva perdurare per tutta la durata
del vincolo altrimenti il matrimonio si sarebbe sciolto. Invece, con il cristianesimo occorreva
solo il consenso e non era richiesto il perdurare della volontà per salvaguardare il vincolo.
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Requisiti per un matrimonio giusto e legittimo
1. Conubium: è la possibilità effettiva di sposarsi che attiene alla capacità di unirsi in
matrimonio e procreare.
a. Per i sabiniani, una corrente giurisprudenziale, occorreva che di volta in volta i
nubendi fossero soggetti ad un ispectio corporis per accertare la maturità
psicofisiche ai fini della formalizzazione delle nozze
b. Per i proculiani, un’altra corrente giurisprudenziale, stabiliva che non era necessario
l’ispectio corporis bensì un requisito giuridico per le nozze:
1. Età superiore a 14 anni per gli uomini
2. Età superiore a 12 anni per le donne
Inoltre, gli schiavi non potevano formalizzare nozze legittime ma unioni di contubernio,
così come gli evirati.
Anche i militari non potevano formalizzare nozze legittime fino al III sec. d.C. fino a quando
l’imperatore Settimio Severo non eliminerà questo divieto.
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a. L’imperatore Augusto, con la Lex Iulia et Papia (fusione della Lex Iulia de maritandis
ordinibus e della Lex Papia Poppea Nuptialis) stabilisce che:
1. Il vincolo matrimoniale deve avvenire tra persone nei rispettivi limiti di età: le
donne tra i 20 e 50 anni con uomini tra i 25 e i 60 anni. Ciò vale anche in ipotesi di
persone divorziate o vedove che contraggono nuove nozze.
2. Il cosiddetto tempus lugendi, il periodo di tempo che doveva essere rispettato dalla
vedova prima di concludere nuove nozze (10 mesi). In questo modo si voleva evitare
la commixtio sanguinis, cioè il rischio di incertezza della paternità della prole. La
donna che non avesse rispettato il disposto sarebbe stata accusata di infamia
(letteralmente: cattiva reputazione) che era la conseguenza o di chi si macchiava di
un crimine (furto, rapina o iniuria) o di chi non rispettava il tempus lugendi o di chi
svolgeva un mestiere legato alle arti sceniche e di gladiatore.
Anche chi l’uomo che contraeva le nozze con chi non aveva rispettato il tempus
lugendi andava incontro a sanzioni di carattere patrimoniale: non poteva partecipare
delle sostanze della donna, quindi più di 1/3 della dote e delle sostanze.
3. Per agevolare la nascita della prole, sono state introdotte sanzioni per:
i. celibi: uomini non sposati
ii. orbi: persone sposate ma senza figli
Le sanzioni consistevano in limitazioni di carattere ereditario (impossibilità di
succedere per testamento) e in un regime fiscale più gravoso.
In età costantiniana (IV sec. d.C.) Costantino modificherà radicalmente e in parte abrogherà
la lex Iulia et Papia.
Giustiniano, nel VI sec., abolirà definitivamente questa legge e statuirà che la donna non
solo rimasta vedova ma anche quella divorziata avrebbe dovuto attendere 12 mesi prima di
concludere nuove nozze giuste e legittime. Il tempus lugendi viene dunque esteso. In caso di
violazione, la conseguenza per la donna sarebbe stata l’infamia a cui si aggiungeva
l’impossibilità di:
succedere per testamento
di ricevere mortis causa
Tuttavia, avrebbe potuto succedere soltanto per eredità legittima ma solo da parenti entro il
terzo grado.
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In Roma ricorreva l’uso degli sponsali cioè l’assunzione dell’impegno da parte dei nubendi a
formalizzare il futuro vincolo matrimoniale. In buona sostanza, pertanto, prima di concludere le
nozze, si era soliti formalizzare l’impegno a concludere le nozze con delle stipulationes che
avvenivano attraverso il ricorso al negozio della sponsio (da qui il termine sponsali). Le
stipulationes comportavano:
1. da un lato, il futuro marito si impegnava a prendere la donna in moglie;
2. dall’altro lato, il padre della donna si impegnava a concedere la figlia in sposa.
Nell’età delle origini, le stipulationes creavano dei vincoli. Le fonti indirettamente ce ne danno
contezza anche se in modo non preciso. In età classica, invece, queste obbligazioni non creavano
particolari conseguenze nel caso in cui non fossero rispettate. In età tardo-classica e tardo-antica,
questi impegni torneranno a creare dei vincoli. Infatti, con l’imperatore Graziano (367-373 d.C.) si
statuirà che durante la sponsio si versavano le arrae sponsaliciae a garanzia della promessa: si
versava una somma di denaro (come una caparra contrattuale). Chi non rispettava la promessa
perdeva le arrae ma con una differenza:
1. Se a non concludere le nozze fosse stata la sposa o la famiglia della sposa, la sposa avrebbe
dovuto restituire il quadruplo delle arrae;
2. Se le nozze non si concludevano per colpa del marito, la famiglia della donna avrebbe
trattenuto le arrae e il marito le avrebbe perse.
3. Qualora il matrimonio non fosse stato concluso e la donna aveva età inferiore ai 10 anni, la
donna perdeva le arrae nel simplum;
In età giustinianea, se la mancata conclusione delle nozze fosse stata addebitata dalla donna, le
arrae da restituire dalla donna non erano più nella misura del quadruplo ma nel duplum.
In ogni caso, non si perdevano le arrae nel caso in cui il matrimonio non si fosse concluso e la
ragione era da addebitare al fatto che l’altra parte avesse:
tenuto una condotta immorale;
preso i voti o dichiarato la volontà di farlo;
dimostrato la volontà di una piena castità;
dimostrato impotenza (vale solo per l’uomo)
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a. Capitis deminutio maxima: quando si cade prigionieri del nemico e si perde la
libertà. Qualora, il soggetto avesse riacquistato la libertà, riacquistava
automaticamente tutti i suoi diritti tranne le situazioni di fatto (possesso e
matrimonio). Quindi, nel possesso occorreva rientrare nella disponibilità della cosa,
mentre nel matrimonio occorreva manifestare nuovamente l’affectio maritalis. In età
giustinianea, non bastava la prigionia a sciogliere il vincolo ma occorreva che il
prigioniero rimanesse tale per cinque anni. Solo decorsi i cinque anni dall’inizio
della prigionia si scioglieva il vincolo matrimoniale.
b. Capitis deminutio media: la perdita della cittadinanza comportava automaticamente
la perdita del coniubum. Questo vale per l’età antica e l’età repubblicana. Solo in età
classica, la perdita della cittadinanza non determinava più la perdita del conubium e
di conseguenza non comportava lo scioglimento del vincolo matrimoniale.
c. Parentela superveniens: è la parentela sopravvenuta in costanza di matrimonio che
determinava lo scioglimento del vincolo matrimoniale. Si verificava ad esempio
nell’ipotesi di adozione, quando il pater familias adotta la nuora o il genero. I
nubendi, quindi, diventano parenti in linea collaterale di secondo grado (fratelli).
Nell’età giustinianea, però lo scioglimento del matrimonio si verificava solo quando
l’adozione era plena avveniva in linea retta (esempio precedente)
d. Divorzio: il matrimonio si formalizzava con l’affectio maritalis, cioè la volontà di
essere marito e moglie. Fino in età classica, l’affectio maritalis doveva perdurare per
tutta la durata del matrimonio con la conseguenza che il divorzio si verificava nel
momento in cui veniva meno l’affectio maritalis. Però, il matrimonio poteva essere
anche cum manu (quindi alla manifestazione dell’affectio maritalis si
accompagnava la confarreatio, coemptio o usus): in tal caso, per lo scioglimento del
vincolo non bastava il venir meno dell’affectio maritalis, ma occorreva formalizzare
un atto uguale e contrario a quello che aveva determinato la conventio in manu (il
passaggio del potere potestativo dal padre al marito), con l’effetto che se il passaggio
fosse avvenuto con:
i. Confarreatio: ci sarebbe stata una cerimonia uguale e contraria per ottenere
il divorzio (diffareatio);
ii. Coemptio: occorreva una re-mancipatio che ritrasferiva la titolarità del
potere sulla donna dal marito al padre;
iii. Usus: occorreva un non usus, cioè un allontanamento volontario dalla casa
coniugale.
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Nell’età delle origini, qualunque causa era idonea per sciogliere il vincolo
matrimoniale (anche un motivo futile). Le cose cambiano con Augusto (con una
legislazione che tende alla moralizzazione dei costumi) che vede nello scioglimento
del vincolo un’ipotesi contraria ai mores maiorum e sanzionerà pecuniariamente il
coniuge che avesse scelto immotivatamente di divorziare. La diffusione del
cristianesimo, secondo i cui principi il matrimonio era indissolubile, porteranno
l’imperatore cristiano Costantino a statuire che che il divorzio era possibile solo:
per mutuo consenso
oppure unilateralmente:
o l’uomo poteva divorziare legittimamente se la moglie fosse:
adultera
mezzana
avvelenatrice (avesse praticato le arti magiche)
o la donna poteva divorziare legittimamente se il marito fosse stato
condannato:
per omicidio
per violazione di sepolcri
per magia
Nel VI sec., Giustiniano aggiungerà altre giuste cause di divorzio.
Per l’uomo se la moglie:
o Avesse partecipato a banchetti con estranei;
o Avesse frequentato i bagni pubblici;
o Avesse frequentato il teatro senza il consenso del coniuge;
Per la donna se il marito:
o Avesse tentato di avviarla alla prostituzione;
o Avesse tenuto con sè una concubina;
o Avesse falsamente accusato la moglie di adulterio.
In ogni caso, sia il marito sia la moglie potevano chiedere il divorzio se il coniuge
avesse attentato alla vita:
Del coniuge
Dell’imperatore
Tutte queste sono ipotesi di divorzio ex iusta causa.
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A queste ipotesi, Giustiniano aggiungerà le ipotesi di divorzio per bona gratia, cioè
per fatti o circostanze non imputabili al partner, cioè indipendentemente dalla
volontà del coniuge, quando il coniuge:
1. avesse mostrato impotenza nei primi 36 mesi dalla formalizzazione del
vincolo;
2. avesse fatto voto di castità;
3. fosse fatto prigioniero. Decorso il quinquennio di prigionia, attraverso il
libellum repudi il coniuge poteva richiedere lo scioglimento del vincolo
matrimoniale.
La dote
Dote: è la formale dazione o promessa di beni che viene fatta in occasione del matrimonio per far
fronte alle esigenze proprie della famiglia. I romani dicevano “Ad onera matrimoni ferenda”.
A seconda se la dote veniva materialmente consegnata oppure soltanto promessa si distingueva tra:
1. Dotis datio: è la dote consegnata. Si formalizzava attraverso il negozio della traditio o della
mancipatio;
2. Dotis promissio o dictio: è la dote promessa. Si formalizzava attraverso la stipulatio, cioè la
promessa di consegnare i beni.
La dote era costituita per soddisfare le esigenze della famiglia, quindi, se il matrimonio si scioglie,
la dote non ha più senso di esistere e quindi torna indietro a chi ha costituito il cespite dotale.
A seconda di chi costituiva la dote, essa poteva essere:
1. Dos profecticia: era costituita dal pater familias;
2. Dos adventicia: era costituita da soggetto terzo attenente al nucleo familiare;
3. Dos recepticia: era costituita da un soggetto terzo che indicava se stesso come colui al quale
sarebbe dovuta tornare la dote in caso di scioglimento del vincolo matrimoniale.
La dote, al momento della formalizzazione del vincolo matrimoniale, veniva stimata cioè
determinata nel suo ammontare precipuo. In ragione di questa circostanza si distingueva:
1. Dotis aestimatio venditionis causa: il patrimonio dotale veniva determinato nel suo valore:
a. Nel suo complesso;
b. Nei singoli beni che componevano la dote
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In questo caso, si verificava un vero e proprio trasferimento di proprietà del patrimonio
dotale nel suo complesso e dei singoli beni dal padre della donna al marito o al di lui pater
familias.
La stima serviva perché, nel caso di scioglimento del vincolo matrimoniale, dovendo la dote
ritornare al padre della donna, era stato determinato l’importo che sarebbe stato consegnato
al padre perché i beni erano entrati ormai nella disponibilità della famiglia del marito. Il
padre della donna non rientrava in possesso dei beni del patrimonio dotale ma del loro esatto
e puntuale valore.
2. Dotis aestimatio taxationis causa: si determinava il valore del cespite dotale ma non
avveniva il trasferimento dei beni: i beni venivano amministrati dal marito e in caso di
scioglimento del vincolo, tornavano indietro o al padre della sposa o al soggetto terzo che
avesse costituito la dote (nel caso di dos recepticia). La stima serviva perché nell’ipotesi di
lungo matrimonio, qualora fosse venuto meno qualche bene, il marito avrebbe dovuto
restituire al suocero l’esatto ammontare del valore dei beni, così come concordato al
momento della stima.
Il marito deve amministrare il patrimonio dotale e indirizzarlo alle esigenze della famiglia. Il marito
rispondeva dell’amministrazione dei beni per:
Dolo
Colpa grave (negligenza, imprudenza e imperizia)
Colpa lieve
Il patrimonio dotale è oggetto di interesse da parte del legislatore.
1. In età classica, l’imperatore Augusto stabilisce che gli appezzamenti di terreno del territorio
italico destinati in dote non potevano essere venduti in costanza di matrimonio. Il marito,
quindi, su quei terreni non poteva:
a. né venderli;
b. né costituire ius in re aliena (diritti reali di godimento: usufrutto, uso, abitazione,
servitù prediali)
Se il marito avesse violato il divieto, la donna, al momento dello scioglimento del vincolo
matrimoniale, avrebbe potuto impugnare l’atto e chiederne l’annullamento.
2. In età tardo-antica, quando non ci sarà più la distinzione tra fondi italici e fondi provinciali,
nessun terreno portato in dote poteva essere oggetto di vendita e su nessun terreno poteva
essere costituito uno ius in re aliena.
3. Con Giustiniano, il regime diventò ancora più severo tanto da stabilire che l’eventuale
alienazione dei fondi dotali non sarebbe stata più annullabile ma l’atto sarebbe stato nullo. È
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irrilevante l’eventuale consenso prestato dalla moglie all’atto di alienazione del fondo
dotale.
Le Pauli Sententiae
Le Pauli Sententiae sono una raccolta con uno scopo pratico (venivano utilizzate nella prassi dei
tribunali) con la struttura tipica dei Digesta. È una raccolta che risale al III sec. d.C. ed è stata
composta nella parte occidentale dell’impero. Non è pervenuta direttamente fino a noi ma abbiamo
contezza del contenuto perché sono stati citati dei passi all’interno di:
1. Lex Romana Wisigothorum
2. Collatio Legum mosaicarum et romanarum
3. Consultatio veteris cuiusdam iureconsulti
4. Fragmenta Vaticana
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5. Digesto
Sono state fatte alterazioni di quest’opera, nel V-VI sec. d.C., sia in Oriente da parte dei bizantini
sia in Occidente da parte dei visigoti.
I Codici pre-giustinianei.
I codici sono delle raccolte di costituzioni imperiali.
1. Codex Gregorianus: è un codice privato. Non ne conosciamo l’autore (un certo Gregorio o
Gregoriano) ed è stato elaborato nel III sec. d.C. (291-292 d.C.). è diviso in 15 libri,
suddivisi a loro volta in titoli ed è stato elaborato a Nicomedia, ad Oriente dell’Impero.
Questo codice è una raccolta di rescritti imperiali di diritto privato. Il più risalente dei
rescritti contenuti all’interno del Codice è probabilmente appartenente all’imperatore
Adriano. La struttura del Codice è quella del Digesto.
2. Codex Ermogenianus: (293-294 d.C.) è una raccolta privata. Non ne conosciamo l’autore
(un tale Ermogene o Ermogeniano che è anche l’autore di un’epitome iuris). Il Codice
Ermogeniano è un’integrazione in un solo libro dei quindici libri del Codice Gregoriano.
Contiene rescritti dell’imperatore Diocleziano.
Entrambi i codici (gregoriano ed ermogeniano) sono stati successivamente integrati con le
costituzioni degli imperatori:
Diocleziano (che vanno dal 295 al 304)
Costantino e Licinio
Valentiano e Valente
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Entrambi i codici (gregoriano ed ermogeniano) non sono giunti fino a noi ma ne fanno menzione
raccolte miste di iura et leges (Fragmenta Vaticana, Collatio Legum e Consultatio) e sono
documentati nel Corpus Iuris Civilis.
3. Codex Theodosianus: è la prima raccolta ufficiale di costituzioni imperiali perché è opera
dell’imperatore Teodosio II. Egli aveva in mente un progetto molto ambizioso che avrebbe
voluto mettere insieme da un lato le costituzioni imperiali e dall’altro gli scritti
giurisprudenziali. L’incarico per la realizzazione di questo primo progetto viene affidato ad
una commissione di otto elementi (sette funzionari imperiali e un maestro di diritto) Questo
progetto ambizioso non fu portato a compimento perché:
1. I tempi non erano ancora sufficientemente maturi. Infatti, non esistevano raccolte di
questa tipologia che fossero d’aiuto;
2. Perché otto membri erano pochi per un progetto così ambizioso.
Successivamente, nel 435 d.C. Teodosio II ritorna sul progetto ma con un’idea meno
velleitaria e un progetto più contenuto e al contempo conferisce l’incarico ad una
commissione di sedici membri che avrebbero dovuto redigere una raccolta contenente solo
le costituzioni imperiali.
Il codice teodosiano viene pubblicato:
15 febbraio del 438 ad Oriente
il 1° gennaio del 439 ad Occidente
Il Codice Teodosiano viene pubblicato in sedici libri che contengono costituzioni imperiali
che partono dall’imperatore Costantino (IV sec. d.C.). La struttura del Codice è quella del
Digesto.
Il Codice è giunto sino a noi attraverso manoscritti di tradizione occidentale e raccolti a loro
volta:
nel manoscritto vaticano che mette insieme i Libri dal nono al sedicesimo;
e nel manoscritto parigino che riporta i Libri dal sesto all’ottavo.
Il manoscritto della biblioteca di Torino è andato distrutto con l’incendio della Biblioteca nel
1904.
L’edizione che noi leggiamo del Codice Teodosiano è quella del Mommsen.
Teodosio II elaborerà le Novellae Constitutiones le quali sono successive al Codice
Teodosiano e sono contenute in manoscritti di tradizione occidentale: ne abbiamo contezza
con la Lex Romana Wisigothorum.
Un’ultima annotazione al codice Teodosiano è rappresentata dalle Costituzioni
Sirmondiane: sono 16 costituzioni imperiali che disciplinano la materia ecclesiastica (la più
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antica risale al 333 d.C. e la più recente è del 425 d.C.). Si chiamano Sirmondiane perché
sono state messe insieme da un certo Sirmon nel 1631. Queste costituzioni sono pubblicate
in calce al Codice Teodosiano nell’edizione del Mommsen.
Raccolte di leges e di iura
Ci sono raccolte di leggi (costituzioni imperiali) e di iura (scritti dei giuristi) elaborate nella parte
occidentale dell’impero da giuristi:
1. Fragmenta Vaticana: è una raccolta elaborata nel V sec. d.C. e il materiale normativo e
giurisprudenziale è diviso in titoli. Questa raccolta è contenuta in un palinsesto scoperto da
Angelo Mai nel 1821 e custodito nella Biblioteca Vaticana. Dal punto di vista cronologico,
la raccolta è anteriore rispetto al Codice teodosiano ed è successiva a Costantino anche se
contiene costituzioni più antiche rispetto a quelle di Costantino. Infatti, la costituzione più
antica accolta all’interno dei Fragmenta Vaticana è una costituzione di Severo e Caracalla
del 205 d.C.
I Fragmenta Vaticana sono una raccolta mista, quindi accolgono anche frammenti dei
giuristi Papiniano, Paolo e Ulpiano nonché frammenti dello scritto De Interdictiis, un’opera
di un giurista ignoto.
2. Collatio Legum mosaicarum et romanarum (conosciuta anche come Lex Dei): è conosciuta
attraverso differenti manoscritti: un manoscritto custodito nella Biblioteca di Berlino, uno a
Vienna e un altro ancora nella Biblioteca di Vercelli. È un’opera che è stata elaborata del
302 d.C. (sotto Diocleziano) ed è stata realizzata da uno studente di diritto, quindi non una
persona esperta (ne è prova la semplicità e la linearità dell’opera), studente ebreo perché
all’interno della raccolta c’è il tentativo ripetuto di dimostrare la superiorità del diritto
biblico rispetto a quello romano. La Collatio contiene gli scritti di tutti i giuristi romani
(Papiniano, Paolo, Ulpiano, Gaio e Modestino) nonché le costituzioni imperiali come
contenute nel Codice gregoriano e nel Codice ermogeniano. La raccolta non è giunta fino a
noi ma abbiamo solo sedici titoli del primo libro il quale riguarda la materia penale e
criminale. Il professore Francesco Lucrezi ha approfondito la Collatio Legum.
3. Consultatio veteris cuisdam iureconsulti: la denominazione di questa raccolta è dovuta al
suo primo editore, Cuiacio che la pubblicò per la prima volta nel 1577. Si tratta di un lungo
parere che un giurista fornisce ad un avvocato che lo interroga e gli chiede delucidazioni su
alcune questioni giuridiche. La peculiarità è che l’esperto offre risposte che sono il frutto
dell’utilizzo del materiale giuridico come contenuto nei codici gregoriano, ermogeniano e
teodosiano nonché nelle Pauli Sententiae (che sono giunte fino a noi proprio grazie alla
Consultatio)
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Compilazioni romano-barbariche
1. Editto di Teodorico (493-526 d.C.). Zenone, imperatore d’Oriente proclama re d’Italia
Teodorico re dei Goti. Teodorico ci teneva a precisare di essere stato investito dell’incarico
di imperatore da parte di Zenone. La raccolta si articola in complessivi 154 articoli. Era
materiale normativo e giurisprudenziale che avrebbe avuto lo scopo di regolamentare i
rapporti giuridici tra Romani e Goti. Teodorico raccoglie materiale:
a. normativo (in particolare, costituzioni imperiali così come contenute all’interno dei
codici gregoriano, ermogeniano, teodosiano e delle novelle post-teodosiane)
b. giurisprudenziale nelle Pauli Sententiae.
Per le materie e le questioni non regolamentate all’interno dell’editto, Goti e Romani
avrebbero dovuto riferirsi alla propria legislazione.
2. Lex Romana Wisigothorum (506 d.C.) detta anche Breviarium Alaricianum: venne
promulgata dal re visigoto Alarico II. Questa legge era stata confezionata da prudentes
romani, da un’assemblea di vescovi e di notabili romani riuntisi a Tolosa. Il materiale era
ripreso:
a. Le leggi: dai tre codici (gregoriano, ermogeniano e teodosiano);
b. Il materiale giursprudenziale dalle Pauli Sententiae, dall’Epitome Gaii, dai
responsa del giurista Papiniano.
Ogni costituzione, al suo interno, è seguita da un’interpretatio per garantire maggiore
utilizzabilità pratica nel tribunale. Rimane in vigore:
c. ad Occidente dell’Impero fino al re Reccesvindo (649-672 d.C.).
d. Nel territorio franco, dove non si estese il Corpus Iuris Civilis, la Lex Romana
Wisigothorum rimase in vigore fino al XII sec.
3. Lex Romana Burgundiorum (516 d.C.) è divisa in 46 titoli. Per lungo tempo è stata detta
anche Papianus perché seguiva a chiusura la Lex Romana Wisigothorum la quale si
chiudeva con i responsa di Papiniano (noto anche come Papianus) e si pensava che la Lex
Romana Burgundiorum riprendesse dalla fine della Lex Romana wisigothorum. È del re
burgundo Gundobado che riprende come materiale:
a. Leggi come contenute nei tre codici (gregoriano, ermogeniano e teodosiano)
b. Scritti giurisprudenziali: le Pauli Sententiae i responsa di Papiniano e le Epitome
Gaii.
Per la Lex Romana Wisighotorum e la Lex Romana Burgundiorum valeva il principio di
territorialità per cui:
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Lex Romana Wisighotorum si applicava ai soli romani che vivevano nel Regno dei
Visigoti
Lex Romana Burgundiorum si applicava ai soli romani che vivevano nel Regno dei
Burgundi.
Giustiniano
Flavio Pietro Sabazio Giustiniano nasce nel 482 d.C. a Tauresium un paese nell’alta valle del
Bardar (l’attuale Skopje) tra l’Illiria e la Macedonia. Egli probabilmente avrebbe finito per svolgere
l’attività del contadino come suo padre se la “fortuna non gli avesse arriso” (come dice Procopio di
Cesarea) nella persona dello zio materno Giustino. Apparteneva ad una famiglia romana o illirico
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romanizzata. Questo ci lascia comprendere il particolare interesse di Giustiniano per la cultura
latina e per la giurisprudenza d’età classica.
Giustino
Come ci testimonia Procopio di Cesarea, Giustino aveva lasciato il suo luogo d’origine Nis assieme
a due compagni, Zimarco e Ditibisto (di costoro non abbiamo più notizie successivamente da parte
dello storico Procopio di Cesarea) per arrivare a Costantinopoli nel 470. I tre entrano nei ranghi più
bassi della guardia imperiale. Giustino cominciò a distinguersi nel tempo acquisendo esperienza
all’interno dell’esercito imperiale nelle guerre contro gli Isauri, i Persiani (nemici storici dei
Romani che avevano attentato alla stabilità dell’Impero) e contro il generale Vitaliano riportando
numerosi successi. Giustino non era un uomo di cultura e non aveva istruzione (infatti firmava con
uno stampino). In realtà non viene specificato se per mancanza di cultura si deve intendere che
fosse analfabeta oppure non fosse molto colto. Alla morte di Anastasio I, i successi di Giustino gli
valsero l’invidia dell’aristocrazia.
Ricordiamo che Giustino era nato nella Dacia meridionale dove si parlava latino e si professava il
cristianesimo secondo i canoni del concilio di Calcedonia del 451.
Quando arriva con i compagni a Costantinopoli, Giustino trova il cuore dell’Impero:
Costantinopoli:
1. era la sede dell’imperatore;
2. era la sede del Senato Romano d’Oriente;
3. aveva una gigantesca amministrazione palatina;
4. era la sede del patriarca il quale, poiché si trovava nella stessa città dell’Imperatore, pretese
e ottenne la sostanziale equiparazione con il pontefice;
5. era coinvolta nel dibattito relativo alla giusta fede (secondo quali canoni si doveva
professare il cristianesimo) e nel 500 si arriva a schierarsi per la professione del
cristianesimo secondo i canoni del Concilio di Calcedonia del 451.
Invece, l’imperatore Anastasio I professava il monofisismo e ciò gli metterà a rischio il trono nel
512 ma nonostante ciò rimase al trono fino alla morte sopraggiunta nel 518 d.C.
Nel 500, all’interno del territorio dell’impero, oltre al cristianesimo esistevano oltre al monofisismo,
anche l’ebraismo e il paganesimo.
Dal punto di vista urbanistico, Costantinopoli aveva quadruplicato le dimensioni e Costantinopoli
era situata in un punto nevralgico perché s’incrociavano le vie del commercio.
Costantino portò a Costantinopoli reliquie di santi e monumenti per non farle invidiare Roma alla
quale era equiparata dal punto di vista giuridico. A Costantinopoli, infatti, mancava solo il glorioso
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passato di Roma. Gli imperatori, dunque, iniziano a vivere nel Palazzo imperiale che era di difficile
accesso anche alle cariche più elevate.
L’imperatore compariva al pubblico solo in occasione di eventi religiosi, quali messe e processioni.
Importante all’interno di questo contesto storico è l’ippodromo dove vi erano corse e giuochi. Al
suo interno c’era una loggia riservata all’imperatore collegata al Palazzo Imperiale. Nell’ippodromo
c’era il contatto tra sovrano e il popolo e l’imperatore prendeva decisioni politiche in materia di
esecuzioni e concessione di grazia. Nell’ippodromo, l’imperatore sonda gli umori del popolo.
Dal V sec. gli imperatori non lasciano più Costantinopoli e i tumulti in città potevano destabilizzare
il governo dell’Impero. Ad esempio, dopo la rivolta di Nika, causata da incendi in città (anche del
Palazzo del Prefectus Urbi), Giustiniano fece ricostruire la città distrutta avvelendosi della
collaborazione di Isidoro di Mileto e di Antemio che realizzarono le chiese di Santa Sofia, chiesa di
Sant’Irene, chiesa dei santi Sergio e Bacco e altre novantasei chiese dedicate al culto mariano e
costruirono anche orfanotrofi e ospedali. Antiochia e Iustiniana I furono le due città costruite da
Giustiniano ma queste due città persero ben presto rilevanza.
Questo è il contesto sociale che troviamo quando, nel 518 d.C., con la morte dell’imperatore
Anastasio I si pone il problema della successione al governo dell’impero. Giustino, che si era
distinto all’interno della guardia imperiale, approfitta della situazione e con l’aiuto di alti profili
dell’esercito, eliminando i parenti prossimi di Anastasio (tranne i nipoti dell’imperatore: Ipazio e
Probo), diventa imperatore. Giustino, sentendo la necessità di avere degli eredi al governo
dell’impero, aveva chiamato a Costantinopoli i due nipoti Giustiniano e Germano dal momento che
non aveva avuto figli da sua moglie Eufemia, una liberta. Giustino cerca di formare i nipoti
seguendo le loro inclinazioni:
1. Germano entra nella guardia imperiale e diventa magister militum della Tracia;
2. Giustiniano studia nelle scuole palatine dove otterrà un’infarinatura di diritto.
Procopio ci dice che ben presto Giustino inizia ad avere problemi legati salute fisica e psichica.
Quindi, questo ci lascia intendere che le norme sono il frutto delle scelte di Giustiniano già dal 520-
521.
All’inizio, Giustiniano era comes domesticorum (guardia di palazzo) poi divenne magister militum
aequum presentalis, in seguito patrizio. Divenne console nel 521 e nobilissimus (in previsione della
proclamazione prima come correggente il 1° aprile del 527 e successivamente come imperatore il
1° agosto 527 in seguito alla morte di Giustino all’età di 77 anni.)
Non abbiamo rappresentazioni univoche sulla figura di Giustiniano.
Addirittura, Procopio di Cesarea, in due opere distinte, delineando due profili opposti di Giustiniano
a pochi anni di distanza.
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1. Nel 550, negli Historia Arcana (o Aneddota o Storie Segrete) Procopio descrive Giustiniano
e la Corte Imperiale e parla dell’imperatore come di un corrotto, di nessuna cultura e
sensibilità, intesa nell’accezione di sensibilità culturale, politica, ecc… In buona sostanza,
descrive la Corte come luogo di corruzione. Quest’opera era destinata alla diffusione nei
circoli di fronda (di aperta opposizione) del governo dell’impero.
2. Nel 554, Procopio rappresenta Giustiniano come “un uomo saggio, pio e dalle molteplici
virtù” nel De Aedificiis, un panegirico commissionato dall’imperatore Giustiniano.
Le due immagini della personalità di Giustiniano non aderiscono completamente al vero. Le reali
capacità di Giustiniano si rinvengono nella riorganizzazione normativa nel Corpus Iuris Civilis,
nella riorganizzazione dell’Impero, nel raggiungimento di un equilibrio religioso e nella scelta dei
suoi collaboratori.
Teodora
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Dopo la scoperta degli Aneddota di Procopio nel XVII sec., la sua figura torna centrale suscitando
attrazione e ripugnanza.
Resta fedele al marito Giustiniano sin dal momento in l’ha incontrato. Era la seconda di tre figlie di
Acacio, domatore di orsi nell’ippodromo. Egli aveva lavorato per i Verdi (Verdi e Azzurri erano
partiti politici. Tuttavia, Cameron afferma che erano due tifoserie contrapposte che creavano molti
problemi alla stabilità dell’impero). La madre di Teodora, invece, era ai margini della società
un’attrice e recitava nel mimo. Il mimo era contestato dai moralisti perché le attrici erano anche
prostitute. Anche Comiso e Teodora, le due figlie, erano attrici.
Teodora aveva avuto un figlio, una figlia e diversi aborti prima di sposare Giustiniano. Tra le altre
cose, era stata anche l’amante di Ecebalo, il governatore dell’Africa settentrionale, protagonista di
spese folli per colpa della stessa Teodora. Ad un certo punto, per preservare il suo potere, Ecebalo
scaccia Teodora, la quale nel viaggio di ritorno verso Costantinopoli si ferma a Alessandria d’Egitto
dove incontra Timoteo, vescovo di Alessandria di Egitto e si converte al monofisismo. A
Costantinopoli torna ad essere di nuovo attrice nel mimo e conosce Giustiniano per il tramite di
Antonina, amica e moglie di Belisario.
Teodora si distingue per:
1. una scelta di politica interna che salva Giustiniano;
2. per alcune scelte normative.
Eufemia ostacola la frequentazione tra i Giustiniano e Teodora fino a quando non morì. Con la sua
morte, nel 520-523, Giustiniano costrinse lo zio Giustino ad eliminare il divieto di nozze tra ex
attrici e senatori. Con la Novella 117 del 542 Giustiniano ribadisce l’eliminazione del divieto.
Teodora ha aiutato le ex prostitute sia offrendo loro assistenza sia economicamente. Il suo prestigio
cresce dopo la rivolta di Nika del gennaio 532.
Lezione 8 del 2 ottobre 2019
Il contesto storico
Bisanzio è la cerniera tra il mondo antico e il mondo moderno, tra Oriente ed Occidente e tra la
cultura greca e la struttura romana e la fede cristiana. Tra il IV e il VI sec. la società bizantina, e nel
complesso il mondo politico, culturale ed economico, si trova a fronteggiare guerre non solo di
conquista ma anche guerre di difesa con i Persiani, le epidemie, il problema della successione
dell’imperatori la cui scelta dipende dagli eserciti (mancava una stabilità politica ed economica) e lo
sviluppo inaspettato di Costantinopoli dal punto di vista urbanistico.
In questo contesto, la stabilità di Costantinopoli era messa a dura prova dalle rivolte nell’ippodromo
che era collegato con il Palazzo imperiale. Nell’ippodromo, nel 531-532, i Verdi e gli Azzurri, le
due fazioni contrapposte, si scontrano già da anni ma la situazione era precipitata. Il praefectus urbi
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non decide di adottare alcuna soluzione salomonica: i più facinorosi delle due fazioni sarebbero stati
incarcerati e i profili più pericolosi sarebbero stati condannati alla pena capitale. I due capofazione
sono stati imprigionati e condannati a morte. Azzurri e Verdi chiedono la grazia per i due
condannati a morte, ma la grazia non viene concessa dal praefectus urbi. Per questo motivo, nasce
un’insurrezione e viene incendiato il Palazzo del praefectus urbi e le due fazioni chiedono e
ottengono la destituzione del:
Prefetto del pretorio: Giovanni di Cappadocia colpevole di aver inasprito il regime fiscale
Quaestor sacri palatii: Triboniano perché era considerato un uomo avido
I due vengono destituiti dall’imperatore e ciò rende nota la debolezza dell’imperatore tanto che le
richieste da parte delle due fazioni diventano sempre più pesanti e si arriva alla destituzione dello
stesso imperatore a favore di Probo e Ipazio, nipoti di Anastasio I. Pare che Giustiniano, a questo
punto, voleva partire ma Teodora aveva invitato, per il tramite del marito, Narsete, Belisario e
Mundo ad uscire dal palazzo imperiale e recarsi davanti alla folla che si stava avvicinando per
incendiare il Palazzo. Belisario e Mundo dovevano bloccare le entrate e le uscite dell’ippodromo
mentre Narsete, facendo ricorso alla sua capacità dialettica, avrebbe dovuto tentare di convincere gli
azzurri a desistere.
Narsete e Mundo, insieme all’esercito imperiale trucidarono circa 30.000 persone. La situazione è
stata riportata sotto controllo, ma dal 532 al 547 vennero sospesi gli incontri nell’ippodromo di
Costantinopoli.
Tra l’altro, vengono istituite anche due figure di controllo:
Nov. 13 del 535 istituì il pretor plebis
Nov.80 del 539 istituì il quaesito
La rivolta di Nika si chiama così perché nika (che vuol dire “Vinci”) era il grido ripetutamente
lanciato negli scontri all’interno dell’ippodromo per incitare i contendenti.
Teodora non interviene solo nella rivolta di Nika. Infatti, la destituzione di Papa Silverio è stata
decisa da Teodora, la quale approfittando della sua amicizia con Antonina, moglie di Belisario
(succube della moglie) che era stato inviato a Roma per destituire il Papa. Si dice che Teodora
appoggiò Silverio nell’ascesa al papato e il Papa le aveva promesso appoggio e tutela per i
monofisiti, cosa che il Papa non fece. In realtà Silverio si era macchiato di alto tradimento: aveva
tradito gli Ostrogoti.
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Il presidente è un tale Giovanni (all’inizio si credeva che fosse Giovanni di Cappadocia ma
in realtà era un anziano funzionario imperiale).
Triboniano, che non era ancora molto conosciuto, era il sesto della lista
Cinque alti funzionari imperiali
Un maestro della scuola di diritto di Costantinopoli: Teofilo
Due avvocati del foro di Costantinopoli: Dioscuro e Presentino
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2. il papiro OXI scoperto nel 1814 che riporta l’indice delle rubricae dei titoli e le iscrizioni
delle relative costituzioni contenute dagli indici dei Titoli da 11 a 16;
3. un altro papiro che accoglie frammenti minimi del Libro XII;
4. il papiro Florentino che riporta le costituzioni del secondo Codice.
All’interno del primo Codice troviamo nell’ubicazione C.I. 1.15 troviamo riportato il testo della
Legge delle Citazioni del 426 di Teodosio II e Valentiniano III. Quindi, nel 529 era ancora in vigore
la Legge delle Citazioni.
Nel secondo Codice, nella stessa sede materiae C.I. 1.17 troviamo:
1. La Constitutio Deo Auctore: dà inizio al lavoro dei Digesta
2. La Constitutio Tanta o (dedochen): pubblica il lavoro dei Digesta.
Nel 534, nel Secondo Codice, non troviamo più la Legge delle Citazioni. Quindi, non valevano le
tecniche e le limitazioni della Legge del Citazioni.
La Constitutio Summa Rei Publicae si conclude con un invito al prefetto del pretorio:
1. di predisporre l’invio immediato nelle parti dell’impero dei vari esemplari del Novus
Codex Iustiniani muniti di sottoscrizioni imperiali;
2. di non utilizzare costituzioni contenute all’interno degli scritti giurisprudenziali
diversamente da come aveva predisposto Teodosio il secolo precedente. Si può richiamare
la giurisprudenza solo se non contrasta con il Codex che in generale ha valenza suppletiva
ed accessoria.
Digesta
Prende inizio con la Constitutio Deo Auctore del 15 dicembre 530 indirizzata a Triboniano che ha
scelto i 17 componenti della commissione incaricata di risistemare gli scritti giurisprudenziali. La
scelta era poi stata ratificata dall’imperatore. Triboniano elabora un piano di massima dell’opera
come lascia trasparire la Constitutio Deo Auctore. C’è stato un tentativo di fare un lavoro simile da
parte di Teodosio II nel 429 ma che non era stato portato a termine. È nuova la mole dell’opera
programmatica. Due sono gli obiettivi:
1. Riportare all’attualità il sistema passato adattando gli scritti della giurisprudenza del
passato alle esigenze eventualmente modificate nel VI sec. attraverso le interpolazioni del
testo. Il rispetto del passato emerge dalla struttura dell’opera: Il Digesto riporta
puntualmente per ogni tema (matrimonio, contratto, ecc…) il nome del giurista e l’opera
dalla quale è stato ripreso il frammento che chiarisce la soluzione pratica ad un problema.
Non è stato fatto un discorso unitario del tema con richiami generali agli autori.
2. La Constitutio Deo Auctore dà, oltre a indicazioni generali, anche prescrizioni sulle
modalità operative. Fornisce indicazioni su:
a. la scelta materiale delle fonti da usare nel Digesto;
b. l’utilizzo del materiale;
c. quale struttura dare all’opera.
L’imperatore Giustiniano, nella Constitutio Deo Auctore chiarisce che si dovevano considerare solo
gli scritti dei soli giuristi muniti con lo ius publicae respondendi. Cos’è? In età classica, gli
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imperatori, per tenere sotto controllo l’attività giurisprudenziale, riconoscevano la possibilità di dare
responsi vincolanti per le parti del processo solo a determinati giuristi scelti dall’imperatore. Nella
Constitutio Deo Auctore è previsto ciò, ma poi nei Digesta ci sono scritti di Elio Gallo, Alfeno Varo
e altri giuristi non muniti dello ius publicae respondendi. Ciò avviene perché, questi giuristi, per
motivi temporali, non potevano disporre di questo riconoscimento. Perché allora sono stati inseriti?
Non è stata una svista e, qualora fosse stata una svista, è improbabile che Giustiniano non sia
intervenuto per correggere la violazione.
Quindi, quando Giustiniano, nella Constitutio Deo Auctore, invita la commissione a riprendere solo
gli scritti dei giuristi muniti dello ius publicae respondendi, non intende riferirsi all’accezione
classica di ius publicae respondendi ma fa riferimento a quei giuristi più seguiti e più importanti,
citati dai giuristi contemporanei e anche da quelli successivi. Quindi, nel Digesto ci sono altri
giuristi oltre a quelli della Legge delle Citazioni in vigore fino alla prima edizione del Codex
Iustiniani. Inoltre, all’interno dei Digesta, non c’è più il divieto (in vigore da Costantino a
Valentiniano III) di usare le note che circolavano di Ulpiano, Paolo e Marciano a Papiniano.
Gli scritti dei giuristi, per il solo fatto di essere inseriti nei Digesta, perdono il loro valore intrinseco
e autonomo per assumere valore di volontà imperiale, cioè forza e valore di legge, proprio in
quanto sono contenuti nel Digesto, frutto della volontà dell’imperatore
Nel Deo Auctore si chiarisce che si doveva evitare di:
1. raccogliere materiale contrastante con il dettato delle costituzioni imperiali accolte nel
Novus Codex Iustiniani;
2. citare consuetudini deroganti;
3. riportare leggi cadute in desuetudine.
Era possibile utilizzare scritti di giuristi che facevano rinvio:
1. a prassi in uso nei tribunali;
2. a consuetudini in uso a Roma e a Costantinopoli.
Tutti gli scritti dei giuristi sono raccolti in cinquanta libri, a loro volta suddivisi in titoli disposti
secondo l’editto perpetuo del pretore.
Nel Deo Auctore, al fine di evitare nuove confusioni, (visto che si era appena operato il riordino
della giursprudenza), si vieteranno sia le operazioni di sigla sia le abbreviazioni. Al contrario, era
però possibile:
1. redigere degli indici;
2. tradurre letteralmente i testi latini accolti nel Digesto in greco (lingua corrente dell’Impero);
3. riportare a margine dei passi paralleli.
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Constitutio Tanta o Dedochen
Il Digesto viene pubblicato con una costituzione bilingue: Constitutio Tanta o (dedochen)
del 16 dicembre 533 e indirizzata al senato e a tutto il popolo dell’impero.
Fornisce un resoconto sull’opera intrapresa, ci notizia del materiale che è stato esaminato dalla
commissione e specifica i criteri seguiti dai commissari.
Dispone l’entrata in vigore del Digesto per il 30 dicembre 533, con una breve vacatio legis che si
spiega con l’ansia riformatrice di Giustiniano. Il 30 dicembre 533 entra in vigore anche il manuale
delle Istituzioni di Giustiniano. Il 16 dicembre 533 viene pubblicata anche la Constitutio Omnem
che riguarda la riforma di studi di diritto.
I cinquanta libri del Digesto si aprono con la Constitutio Deo Auctore, seguita dalla Constitutio
Omnem e dalla Constitutio Tanta o (dedochen) e l’indice degli autori richiamati dai
giuristi.
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Il lavoro è stato portato a compimento in 36 mesi (15/01/530-16/12/533) sebbene noi apprendiamo
da Giustiniano che era stato preventivato un lavoro che avrebbe impegnato la commissione per
almeno dieci anni. Quindi i lavori hanno impiegato solo 1/3 del tempo preventivato anche se ci si
sarebbe aspettato un tempo più dilatato rispetto ai dieci anni previsti vista la mole di lavoro.
La questione è singolare e di difficile soluzione se si considera che in questo lasso di tempo, tra il
530 e il 533, vi sono stati diversi accadimenti che riguardano direttamente o indirettamente la
risistemazione del materiale normativo e che mal si conciliano con la realizzazione di una raccolta
di tale qualità che invece richiede molto tempo:
Nel 530 sono state pubblicate le Quinquiaginta Decisiones che hanno tenuto impegnato
l’imperatore.
I commissari erano singolarmente impiegati nei rispettivi settori. Ognuno dei diciassette
membri della Commissione era impegnati o come funzionari imperiali nelle cancellerie
imperiali o come avvocati nel foro di Costantinopoli o come maestri di diritto nelle scuole di
diritto.
Ci sono fatti che riguardano anche l’assetto politico. Nel gennaio 532 c’è la rivolta di Nika.
L’imperatore Giustiniano stava per lasciare l’impero ed è difficile pensare che in questo
frangente così drammatico i commissari abbiano continuato a redigere il Digesto in modo
indisturbato. Inoltre, Triboniano era stato destituito dalla carica di quaestor sacri palatii (ma
non dalla presidenza della Commissione dei Digesta).
Quindi, è plausibile che i lavori della Commissione si siano interrotti più volte nel tempo,
soprattutto nei periodi più concitati, e quindi i tempi si sono ulteriormente assottigliati.
Quindi, si è cercato di dare contezza di come sia stato possibile concludere i lavori in un tempo così
breve e in concomitanza con le circostanze appena riferite.
1. In primo luogo, si è osservato che probabilmente il Digesto è stato preceduto da un’attività
preparatoria da parte di Triboniano che aveva elaborato, prima della Constitutio Deo
Auctore una raccolta degli scritti diritto privato e di altre materie e la scelta sia delle opere
sia degli autori da mettere a frutto nel Digesto.
2. Importante, inoltre, è stata l’esperienza di Triboniano e dei maestri di diritto di
Costantinopoli e di Berito.
Tutto questo, da solo, però non giustifica tempi così ridotti per la realizzazione del lavoro.
Probabilmente, dunque, per accelerare il lavoro sono state previste due fasi:
1. Una prima fase in cui si è operata la lettura degli scritti e lo spoglio delle opere.
2. Una seconda fase in cui si è operata un’interpolazione dei testi del giurista preso in
considerazione per adattarli alle modificate esigenze del tempo.
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Inoltre, con una certa attendibilità, la Commissione non ha lavorato né in costante seduta plenaria
né tantomeno singolarmente perché il lavoro sarebbe stato parcellizzato e sarebbe stato difficile
coordinare il lavoro di tutti. Quindi, è possibile che si sia operato attraverso delle sottocommissioni
che periodicamente si riunivano in seduta plenaria per le operazioni di coordinamento dell’attività
di raccolta e via via portarla avanti.
In questo modo si accorciavano notevolmente i tempi.
In ogni caso, per spiegare la così breve durata dei lavori si è ricorsi alla teoria delle masse
bloomiane: Bloom ritiene che il lavoro sia stato realizzato in tempi brevi in ragione del fatto che i
commissari abbiano lavorato materiale giurisprudenziale già precedentemente raccolto in diverse
masse:
1. Massa sabiniana che fa riferimento ai Libri Ad Sabinum
2. Massa edittale che fa riferimento ai Libri Ad Edictum
3. Massa Papinianea che fa riferimento ai Responsa di Papiniano
I commissari hanno usato anche tredici opere, per complessivi 118 libri, per redigere l’appendice
del Digesto.
Le Istituzioni
Raccolte le costituzioni imperiali con il Codice (529) e raccolto il materiale giurisprudenziale nel
Digesto (533), occorreva preparare coloro che intraprendevano studi giuridici sulla base del nuovo
assetto normativo e giurisprudenziale operato con la pubblicazione del Corpus Iuris Civilis.
Le Istituzioni si compongono di quattro libri indirizzati alla cupida legum iuventus (gli studenti del
primo anno) e acquistano forza e valore di legge.
Con la Constitutio Imperatoriam Maiestatem del 21 novembre 533 viene pubblicato il manuale. Al
suo interno ci sono indicazioni sui commissari che l’ha composto:
1. Il presidente è Triboniano;
2. Ci sono due maestri di diritto;
a. Teofilo della scuola di diritto di Costantinopoli
b. Doroteo della scuola di diritto di Berito
Da un’attenta lettura dei quattro libri, si osserva che:
1. Il primo, il secondo e l’ultima parte del quarto libro (4.18) si contraddistinguono per
un’uniformità di stile.
a. Sono caratterizzati da uno stile di scrittura ridondante, aulico e ampolloso;
b. Quando si tratta di fare un riferimento ad un giurista, il giurista citato è quasi sempre
Ulpiano;
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c. I singoli istituti contenuti in questi libri sono spesso esposti facendo richiamo ai
precedenti storici (come quell’istituto era disciplinato nel passato e come si è evoluto
nel tempo)
d. Ci sono lusinghiere menzioni di Triboniano da parte di Giustiniano (circostanza non
frequente negli altri libri)
2. Il terzo e quarto libro (4.1-17) si caratterizzano:
a. Per uno stile lineare, asciutto e conciso;
b. Quando si richiama uno giurista è quasi sempre Paolo;
c. C’è un richiamo alle costituzioni imperiali che invece manca negli altri libri
Quest’analisi è il frutto di uno studio attento: evidentemente i due maestri, Teofilo e Doroteo, hanno
elaborato due libri a testa ma ci si chiede chi abbia elaborato la prima parte e chi la seconda.
Sappiamo che Teofilo è stato anche autore di una parafrasi. Quindi, si può azzardare nel dire, sulla
base dello stile della parafrasi, che egli ha elaborato il terzo e quarto libro. Mentre il primo e il
secondo libro sono stati elaborati da Doroteo.
Le fonti messe a frutto da parte dei commissari sono:
1. Le Istituzioni di Gaio
2. Il manuale delle Istituzioni di Marciano, Florentino, Ulpiano e Paolo;
3. Le Res Quotidianae attribuito a Gaio
4. I Digesta (il materiale era quello che era stato assemblato e usato per la sua elaborazione)
5. Costituzioni raccolte e pubblicate dal Codice del 529. Ciò ci permette di avere maggiore
contezza del Codex Iustiniani che non è mai giunto a noi.
La struttura dell’opera
Le Istituzioni sono diverse dai Digesta dove gli scritti dei giuristi compaiono al suo interno con
l’indicazione del giurista, l’opera da cui si estrapola il frammento e il contenuto del frammento.
Tutto ciò avviene nel pieno rispetto della classicità, anche se si cerca di adattare gli scritti alle
esigenze attuali.
Il manuale delle Istituzioni, invece, si presenta come un discorso ininterrotto dell’imperatore
Giustiniano indirizzato agli studenti in cui si spiegano tutti gli istituti.
Il manuale delle Istituzioni si caratterizza per un proemio (che manca nelle Istituzioni di Gaio) in
cui il legislatore Giustiniano descrive i presupposti e la finalità dell’opera.
Un’altra caratteristica è che l’ultimo libro (4.18) contiene nozioni di diritto penale che mancano
completamente nelle Istituzioni di Gaio che, invece, dà una trattazione di carattere essenzialmente
civilistico. Quindi, probabilmente, l’imperatore prende spunto dai manuali di Paolo e Marciano.
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Inoltre, molte materie sono state trattate in modo diverso rispetto a come sono state trattate in età
classica nelle Istituzioni di Gaio perché ci sono stati cambiamenti sostanziali nel corso dei secoli. In
particolare:
1. Diritti delle persone: nella manomissione degli schiavi, in età giustinianea si elimina la
distinzione tra ingenui e uomini liberi (liberti).
2. Diritti reali: scompare la mancipatio
3. In ambito processuale: dal processo per legis actiones dell’età delle origini, si passa in età
repubblicana al processo formulare. In età imperiale, la giurisdizione viene gestita in prima
persona dall’imperatore e il processo passa da essere accusatorio ad inquisitorio e si ricorre
alla cognitio extra ordinem. Nelle Istituzioni di Giustiniano, dunque, viene disciplinato il
processo come cognitio extra ordinem.
La Constitutio Imperatoria
La Constitutio Imperatoriam pubblica le Istituzioni il 21 novembre 533 ed entra in vigore il 29
dicembre 533. Notiamo che, diversamente da quello che abbiamo osservato:
1. Codex Iustiniani che presenta la Constitutio Haec Quae Necessario (528) che dà inizio ai
lavori e la Constitutio Summa Rei Publicae che pubblica il lavoro;
2. Digesto che presenta la Constitutio Deo Auctore che dà inizio ai lavori e la Constitutio
Tanta e Dedochen che pubblicano il lavoro.
La Constitutio Imperatoria non prevede un provvedimento legislativo, una costituzione che
conferisce l’incarico. Probabilmente, è credibile che il legislatore ha sopperito a all’assenza di
questo provvedimento attraverso una circolare imperiale. In luogo della legge, il disposto è stato
anticipato da un ordine di servizio con anche un possibile richiamo alla Constitutio Haec Quae
Necessario che indicava delle modalità operative a cui Triboniano, Teofilo e Doroteo avrebbero
dovuto attenersi.
Constitutio Omnem
L’imperatore, dunque, disponeva:
1. Codice con cui aveva risistemato il materiale normativo;
2. Digesto con cui aveva risistemato gli scritti giurisprudenziali;
3. Le istituzioni, un manuale su cui ci si preparava sulla base delle riforme normative e
giurisprudenziali.
Tuttavia, nell’ambito del riordino del sistema giuridico, occorreva una legge di riforma del percorso
di studi giuridici. Per questo motivo è stata pubblicata la Constitutio Omnem il 16 dicembre 533, la
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quale era indirizzata ad otto professori di diritto. Occorreva, dunque, modificare i programmi delle
scuole di diritto. Si dispone:
1. La chiusura dei centri di studio di Alessandria e Cesarea. Quindi rimangono aperte le
scuole di Roma, Costantinopoli e Berito.
2. Gli anni di studio vengono portati da quattro a cinque anni, come già accadeva a Berito.
3. Cambia il programma di studio delle scuole di diritto:
a. Primo anno: si insegna il diritto privato e si studiano:
i. Tutti e quattro libri delle Istituzioni;
ii. Quattro libri del Digesto
b. Secondo anno: si studia il primo libro sull’istituto della dote e sulla successione (in
particolare testamento e legato). Inoltre, al corpo docente era rimessa la scelta
dell’argomento tra:
i. De Iudiciis: sul processo
ii. De Rebus: sulle cose
c. Terzo anno: si studia la terza parte del Digesto e la materia non approfondita nel
secondo anno:
i. Se nel secondo anno si è studiato il De Iudiciis, nel terzo si studia il De
Rebus;
ii. Se nel secondo anno si è studiato il De Rebus, nel terzo si studia il De
Iudiciis;
d. Quarto anno: si studia la quarta e la quinta parte del Digesto.
e. Quinto anno: si studiano le ultime due parti del Digesto e il Codice
Si nota che c’è un primo approccio manualistico del primo e poi si passa ad uno studio più specifico
nell’ultimo anno.
All’interno della Constitutio Omnem è inserita anche la denominazione degli studenti:
a. Gli studenti del primo anno si chiamano iustiniani novi (e non più dupondi)
b. Gli studenti del secondo anno si chiamano edictales;
c. Gli studenti del terzo anno si chiamano papinianisti;
d. Gli studenti del quarto anno si chiamano liute;
e. Gli studenti del quinto anno si chiamano prolite;
La Constitutio Omnem stabilisce che dovevano essere vietati e sanzionati quei ludi indignos et
peximos perpetrati alle matricole del primo anno (gli iscritti al primo anno erano costantemente
oggetto di condotte particolarmente gravi). Inoltre, dispone che a vigilare sulla condotta degli
studenti doveva essere:
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Il praefectus urbi di Costantinopoli per la scuola di diritto di Costantinopoli.
Governatore della Fenicia congiuntamente al Vescovo e ai maestri di diritto per la scuola di
diritto di Berito.
Constitutio Cordi
Il 16 novembre 534 viene pubblicato il Codex Repetitae Praelectionis che entra in vigore il 29
dicembre 534. La commissione era presieduta da Triboniano, era composta dal maestro di diritto di
Berito (Doroteo), e dai tre avvocati del foro di Costantinopoli (Mena, Giovanni e Costantino).
Si trattava di scegliere tra:
1. integrare il codice già esistente (Novus Codex Iustiniani)
2. rimettersi a lavoro e rielaborare un nuovo codice. Questa opzione è quella che poi venne
realmente seguita, in ragione del fatto che rimettere le mani sul codice già esistente avrebbe
potuto comportare dei problemi di ordine del materiale e quindi ingenerare di nuovo una
confusione sul materiale che era stato già riordinato. Si ritenne corretto di redigere una
nuova raccolta ricorrendo alla stessa modalità usata per la stesura del primo Codice:
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naturalmente si accolgono le costituzioni già accolte nel primo Codice, ma anche quelle
accolte:
a. nel Codice Teodosiano (di diritto pubblico)
b. nel Codice Gregoriano (di diritto penale)
c. nel Codice Ermogeniano (di diritto privato)
In buona sostanza, si riapre la via ad un percorso di riordino a circa cinque anni di distanza
dal Novus Codex Iustiniani.
Nonché, vengono inserite nel nuovo Codice anche le Quinquiaginta decisiones.
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Tutte le disposizioni acquistavano forza e valore di legge per il fatto di essere accolte nel Codice.
Notiamo come, anche con riferimento al Codice, è assente una costituzione iniziale. Evidentemente
si fa richiamo, per quanto riguarda i criteri operativi, alla Constitutio Haec Quae Necessario che ha
dato il via alla prima raccolta delle costituzioni imperiali.
Nella Constitutio Cordi, inoltre, l'imperatore precisa come con l'entrata in vigore del Codice in
seconda edizione, era stato posto un punto fermo con il passato:
era stato riorganizzato tutto il materiale normativo e giurisprudenziale;
si era proceduto all'elaborazione di un testo per la formazione nei corsi di diritto;
si era riorganizzato il percorso degli studi di diritto.
Per il presente e per il futuro, Giustiniano puntualizza che, in presenza di questioni e problemi che
non potevano essere risolti facendo ricorso alle costituzioni stesse, il legislatore sarebbe intervenuto
con nuove leggi: le Novellae Constitutiones. Inoltre, l'imperatore ci dà contezza del fatto che queste
nuove leggi sarebbero state accolte poi in una raccolta ufficiale, ma questo non è mai accaduto.
In realtà delle Novellae Constitutiones ci sono giunte solo raccolte private e, in particolare, raccolte
di novelle scritte in lingua latina e raccolte di novelle scritta in lingua greca.
1. Authenticum è una raccolta di 134 constitutiones elaborate nel 556 che mette insieme
provvedimenti scritti in lingua latina e provvedimenti integrali (cioè, così come usciti dalla
cancelleria imperiale). Non è stata elaborata dall'imperatore.
a. I primi 120 provvedimenti sono in ordine cronologico.
Inoltre, si è posto il problema riguardo all'autenticità della raccolta medesima, problema
risolto nel XIII secolo da Irnerio, fondatore della scuola di Bologna. Si è chiarito che questa
raccolta, insieme al Corpus (Codice, Digesto, Istituzioni) è stata trasportata da Oriente a
Occidente su richiesta del Papa Vigilio affinché il Corpus fosse utilizzato nella parte
occidentale dell'Impero. Quindi, il corpus è stato trasmesso con la Pragmatica Sanctio Pro
Petitione Vigilii.
2. Epitome Iuliani: è una raccolta privata realizzata da un tale Giuliano nel 555. Si tratta di
provvedimenti normativi che accolgono solo il contenuto essenziale del disposto. Sono 124
novelle in epitomi e sono disposte:
a. dall'1 al 39 per materia;
b. le successive in ordine cronologico.
Sia l'Authenticum sia l'Epitome Iuliani sono raccolte elaborate ad Oriente ma ad uso e consumo
dell'Occidente o comunque delle province di lingua latinofona.
Ci sono anche raccolte di novelle in lingua greca. Ricordiamo:
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1. La collezione di 168 novelle in lingua greca elaborate nel 575. Abbiamo contezza di questa
collezione perché sono state custodite in due manoscritti:
a. Manoscritto Laurenziano custodito nella biblioteca di Firenze
b. Manoscritto di Marciano custodito nella biblioteca di Venezia.
Delle 168 novelle: 158 appartengono a Giustiniano, 4 a Giustino II, 3 a Tiberio II e 3 sono
provvedimenti del prefetto del pretorio. Ci sono due novelle duplicate:
la novella 32 indirizzata al Governatore della Tracia
la novella 34 indirizzata al Governatore della Nesia (?)
Sono state raccolte novelle in lingua greca anche sotto forma di epitome:
1. epitome di Teodoro di Ermopoli
2. epitome di Atanasio di Emesa che raccoglie 153 novelle ed Atanasio tenta di dare un
ordine sistematico articolandole in 22 titoli accompagnati da rubricae.
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Il Processo Penale
Leggi da pag.9 a pag.76 della “Giustizia Penale in Roma Antica” che riguardano la giustizia in
Roma arcaica in cui le liti si risolvono nei processi familiari e in età repubblicana nelle corti
comiziali.
Le corti di Giustizia
In età imperiale, il principato non sovverte le forme di giustizia del periodo repubblicano.
Rimangono le istituzioni repubblicane con una base ordinaria e più solida:
1. Lex Iulia Iudiciorum Publicorum et Privatorum (In. 4.30: Gaio ci dà contezza di questa
legge che non è giunta fino a noi): in questa legge si statuisce che i processi devono
svolgersi in modo uguale dinanzi alla Corte Permanente. Non ci sono più tanti diversi
processi quante erano le corti presenti. Gaio ci dà contezza che all’interno della legge erano
ben disciplinati i passaggi del processo:
a. La legittimazione all’accusa
b. I rapporti tra le parti
c. I requisiti per essere giudice
La procedura viene semplificata perché non ci sono più tanti atti distinti che introducono il
procedimento, come nel passato (infatti, il processo iniziava con la divinatio, la postulatio o
con la nominis delatio). Il procedimento si introduce con il Libellus Inscriptionis redatto
dall’accusatore e depositato nell’ufficio di Presidenza della Corte (come ci informa D.
48.2.3).
Alcune Corti continuano a funzionare come nel passato, ai tempi di Cesare e Silla. In
particolare:
a. Corte de sicariis et beneficiis che si occupa degli omicidi con il pugnale o con
sostanze venefiche.
b. Corte de falsi che giudicava sul crimine di falso
c. Corte de repetundis che si occupava delle malversazioni perpetrate dai governatori
delle province a danno dei cittadini della provincia dell’Impero Romano.
In altri casi, invece, Augusto interviene dando un nuovo assetto al sistema, con alcune leggi:
a. Lex Iulia de maiestate che si occupava del crimine di lesa maestà che prevedeva in
caso di crimini contro l’imperatore:
i. Per il colpevole, l’interdictio aqua et igni leche consiste sostanzialmente alla
deportatio. Consisteva nell’esilio, la perdita del patrimonio e della
cittadinanza.
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ii. Per l’accusatore, invece, era previsto un premio (1/4 del patrimonio del
soggetto condannato)
b. Lex Iulia de ambitu che sanziona e punisce la corruzione elettorale con sanzioni
distinte per:
i. corruzione semplice (senza violenza): con 100.000 sesterzi di multa e cinque
anni di interdizione dalle cariche pubbliche;
ii. corruzione con violenza che comportava l’esilio, la perdita della
cittadinanza e la confisca del patrimonio.
c. Lex Iulia de peculato che sanziona il peculato (sottrazione di beni e denaro
pubblico) con una pena quantificata nel quadruplo del sottratto.
d. Lex Iulia de vi publica et privata comportava la responsabilità per violenza:
i. Pubblica: magistrato che abusando del suo potere (imperium), fa uccidere o
torturare in sede processuale un cittadino senza tener conto della provocatio
interposta al suo potere.
ii. Privata
Era necessario ricostruire di volta in volta se fosse violenza pubblica o privata.
e. Lex Iulia de adulteriis: per la prima volta si punisce l’adulterio con una pena
pubblica davanti alla corte pubblica. In precedenza, nel passato c’era un processo
domestico e nei casi più gravi ed eclatanti c’era un processo di tipo comiziale che
coinvolgeva il marito e il padre della donna. Il crimine era perseguito quando:
i. C’era un rapporto extraconiugale tra donna e un uomo che non è il marito;
ii. La donna era vergine
Si escludevano dall’applicazione di questa legge le donne di basso rango (prostitute)
che non venivano perseguite per il crimine. In caso di flagranza di reato, rimane la
possibilità per:
Il padre di uccidere la figlia e l’adultero
Il marito di uccidere solo l’adultero se di bassa estrazione sociale, non il
coniuge.
Al di fuori delle ipotesi di flagranza di reato, sempre al padre e al marito veniva
riconosciuta un’accusa privilegiata contro gli adulteri nei primi 60 giorni dalla
consumazione dell’adulterio. Decorsi i 60 giorni, l’accusa era riconosciuta a
qualunque altro cittadino.
Le sanzioni per chi si fosse macchiato del crimine di adulterio durante il periodo di
Augusto erano di carattere personale ed afflittivo:
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a. Relegatio in insulam: esilio degli adulteri in due isole diverse;
b. Confisca:
i. ½ del patrimonio dell’uomo
ii. ½ della dote della donna
iii. 1/3 del patrimonio della donna
L’imperatore Augusto non interferirà nelle attività delle Corti di Giustizia salvo che per il voto di
Minerva. Nel caso in cui ci fosse stata la condanna da parte della giuria per un solo voto superiore
ai voti dati per l’assoluzione, l’imperatore poteva dare il proprio voto aggiungendolo a chi aveva
votato per l’assoluzione, garantendo con la parità l’assoluzione dell’imputato.
Augusto, però, non fece sostanzialmente ricorso al voto di Minerva. A tal proposito, studia pagg.
85-86-87.
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essere, in quanto senatori, esclusi dalla giudicatura, cioè dalle corte competenti a giudicare
sulle questioni inerenti alla cura delle acque.
c. Plinio il Giovane nel suo epistolario con l’imperatore Traiano, ci notizia di una sanzione
che era stata inflitta ad un senatore che si era sottratto ai propri impegni giudiziari.
Queste testimonianze ci lasciano intendere che, ancora in età augustea, gli albi dei giurati erano
composti da appartenenti all’ordine senatorio.
Augusto porta come novità rispetto al passato il fatto che, diversamente dall’età repubblicana in cui
i pretori redigono gli albi, avoca a sé l’elaborazione dell’albo e stabilisce che l’albo è perpetuo
(cioè non modifica l’elenco salvo le necessarie modifiche dettate:
dalla morte dei componenti
dalla sostituzione per coloro che erano stati radiati perchè non avevano dato la prova di
buon ufficio cioè non si erano impegnati correttamente nello svolgimento delle funzioni.
Lo scopo di Augusto è quello di creare un albo di professionisti perché la professionalità si acquista
con l’esperienza e rimanere nell’albo e partecipare negli anni all’attività delle corti di giustizia come
giudice avrebbe comportato l’acquisto di una professionalità che mancava in chi, durante l’età
repubblicana, esercitava la carica durante l’anno di carica del pretore.
Inoltre, Augusto tenta di sottrarre i giudici da ogni forma di legame con le vicende politiche
affinchè, una volta inserito, il giudice non debba risentire dei cambiamenti legati a scelte specifiche
della politica.
L’ufficio di giudice non era molto ambito perché si puntava ad entrare negli uffici imperiali perciò
Augusto interviene abbassando l’età per diventare giudici dai 30 ai 25 anni e concedendo una serie
di benefici:
Un anno di vacanza
La sospensione delle cause nel periodo novembre-dicembre
S’inserisce una quarta decuria composta dai cittadini che avevano un censo di più di duecentomila
sesterzi. Caligola introduce un’altra decuria, mentre Claudio abbassa l’età per diventare giudici dai
25 ai 24 anni. Questi interventi dimostrano la difficoltà nel creare una categoria professionale di
giudici. A questo si deve aggiungere la difficoltà di creare un sistema straordinario perché le corti di
giustizia erano inadeguate alla nuova realtà giurisdizionale. L’imperatore si era accorto dei limiti
delle corti di giustizia:
a. Era pericoloso lasciare ai privati cittadini il potere di giudicare crimini che potevano
coinvolgere profili alti dell’impero e addirittura l’imperatore nel caso di lesa maestà;
b. L’albo era nel numero dei componenti troppo ampio per poter consentire una rapida
selezione dei giuristi e quindi un processo celere.
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c. Le modalità attraverso le quali si componevano le giurie precludevano un accurato
controllo;
d. Spesso le parti coinvolte ricusavano i giudici ottenendo una scelta personale dei giudici.
Dunque, era pericoloso continuare con le Corti. L’imperatore Augusto decide di occuparsi in prima
persona dei crimini in primis di natura politica e poi via via di tutti i procedimenti.
Le corti di giustizia cedono il passo ad un nuovo sistema di accertamento dei fatti con l’affidamento
diretto delle funzioni giurisdizionali all’imperatore e ai suoi funzionari perché l’imperatore non
poteva svolgere tutto da solo.
Il processo, quindi, diventa inquisitorio senza il bisogno di un’accusa: i funzionari iniziano la causa
anche con la notizia di un delatore (un informatore, non un accusatore). Si passa dalle corti di
giustizia alla cognitio extra ordinem, il tribunale del principe. All’inizio, in età imperiale a svolgere
la funzione giurisdizione oltre all’imperatore e ai suoi funzionari, c’è anche il Senato sotto la guida
dei consoli. Già dal tempo di Augusto, ogni privato cittadino, in virtù di una legge del 30 a.C.,
avrebbe potuto avocare a sé il giudizio relativo alle vittime di fatti criminosi. Ce ne dà contezza
Cassio Dione.
Dopo Augusto, diventa frequente da parte degli imperatori svolgere funzioni giurisdizionali sia nel
foro, sia in altri luoghi pubblici, sia all’interno del Palazzo imperiale. Addirittura, per i processi nei
confronti di coloro che avevano manifestato opposizione al regime, i processi avvenivano nei
cubicoli, nelle segrete delle stanze imperiale per evitare che i fatti divenissero diffusi e spingessero
all’emulazione.
L’imperatore si serve di consilia principi: un insieme di uomini di fiducia scelti dall’imperatore che
appartengono all’ordine equestre e a quello senatorio. Francesco Amarelli dedicato lo studio e
l’approfondimento dei consilia principi in un volume.
Con Adriano il consilium principi diventa permanente e i suoi membri vennero retribuiti.
Il consilium aveva funzioni consultive per cui l’imperatore ascoltava i pareri formulati dal consiglio
verbalmente oppure in forma scritta ma quando decideva non era vincolato al parere formulato dalla
maggioranza.
Il processo di fronte al principe è completamente svincolato da obblighi procedurali. Il principe
avoca a sé il giudizio sui crimini di:
a. Lesa maestà;
b. Violazioni della disciplina militare;
c. Processi contro i maghi, gli astrologi e gli indovini che con le loro azioni avrebbero potuto
mettere in pericolo la stabilità del governo dell’impero attraverso la credulità popolare;
d. Poi per omicidio e violenza.
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Nello svolgimento dell’attività istruttoria, il principe poteva aggiungere anche nuovi capi di
imputazione e prevedere, alla chiusura del processo, l’applicazione di pene diverse dalle quelle
statuite dalle costituzioni imperiali. Ad esempio, nel caso di lesa maestà, in luogo della pena
dell’interdictio (esilio perpetuo, perdita della cittadinanza e perdita del patrimonio) il legislatore
poteva prevedere la pena di morte.
L’imperatore giudicava per i crimini commessi nell’ambito dei confini dell’impero, in primo grado
e solitamente in sede d’appello avverso le sentenze di primo grado pronunciate dai governatori delle
province (quindi funzionari imperiali) per crimini commessi in Italia e nelle province.
In appello, istruita la causa, l’imperatore poteva:
1. O cassare e rimettere al giudice perché venisse rielaborata la decisione;
2. O entrare nel merito e modificare la decisione;
3. O rigettare l’appello. In questo caso, la sentenza di primo grado diveniva definitiva.
Praefectus urbi
Il praefectus urbi aveva il compito a Roma e a Costantinopoli di mantenere l’ordine nella capitale e
garantire l’esercizio del potere imperiale in tutto l’impero. Abbiamo parlato di questa figura nella
rivolta di Nika del 532. L’ordine pubblico cittadino, infatti, significava equilibrio nell’esercizio del
potere.
Con l’imperatore Tiberio, il praefectus urbi diventa un funzionario stabile con funzioni
giurisdizionali: ha competenza a decidere su tutto quello che riguardava l’ordine pubblico. In
particolare, giudica sulla partecipazione in associazioni non autorizzate e sulle attività fraudolente
degli argentari (banchieri) che potevano creare problematiche di ordine pubblico.
Egli giudica in materia penale in particolare a Roma ed entro le 100 miglia dall’Urbe e appartiene
all’ordo senatorio. Invece, i processi politici a Roma a carico di persone di alto rango erano
giudicati direttamente dall’imperatore.
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dell’imperatore: era vice sacra. Pronunciava sentenze in appello su decisione assunte dai
governatori provinciali.
Già nel III sec. d.C., con i Severi, le funzioni giurisdizionali del prefetto del pretorio prevalgono
sulle funzioni militari.
Praefectus Vigilum
Accanto al praefectus urbi, c’era il praefectus vigilum. Egli appartiene al rango equestre e
giudicava in concorrenza con il praefectus urbi in materia di giurisdizione criminale cittadina. Già
con Augusto, al preafectus vigilum vengono attribuite specifiche funzioni per quanto riguarda gli
incendi in città. Augusto, infatti, crea un corpo di settemila uomini scelti con a capo il praefectum
vigilum per risolvere il problema dei frequentissimi incendi dolosi in città. Dal punto di vista delle
funzioni giurisdizionali, il praefectum vigilum decide:
sugli incendi dolosi;
sui furti perpetrati nelle ore notturne a partire dall’imperatore Adriano.
Naturalmente per i processi più importanti, la competenza rimaneva del praefectus urbi.
Praefectus annone
Appartiene al rango equestre e aveva:
1. funzioni amministrative (amministrazione in materia alimentare di approvvigionamento
dei beni prima necessità, in primis del grano);
2. funzioni giurisdizionali in materia di:
a. frode degli alimenti di prima necessità;
b. condotte colpose nel trasporto dei beni di prima necessità con conseguente
pregiudizio per la collettività;
c. mancata corrispondenza delle forniture al peso dichiarato.
Tribunale Senatorio
Nello stesso contesto (I sec.), svolge funzioni giurisdizionali anche tribunale senatorio, il quale
opera insieme alla giurisdizione dell’imperatore e a quella dei suoi funzionari.
In età repubblicana, il senato adottava un senatus consultum ultimum contro il nemico pubblico
(contro chi avesse messo in pericolo l’assetto istituzionale) e dava funzioni straordinarie ai consoli.
In questo modo il senato sospendeva le garanzie costituzionali. Quindi, per un lasso di tempo, il
controllo assoluto era rimesso nelle mani dei consoli.
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Attraverso questo atto, il senato non svolge funzioni giurisdizionali ma solo una funzione politica di
repressione criminale. Solo durante I secolo, il senato assume una funzione propriamente
giurisdizionale: può istruire e chiudere procedimenti di natura giudiziaria attraverso sentenze. Il
senato aveva cognizione per i crimini di:
a. Lesa maestà, quando l’imperatore non li avocava a sé;
b. Repetundae: in caso di malversazioni operate dai governatori delle province a danno dei
provinciali.
c. Omicidio, violenza, adulterio e falso (quando riguardavano persone appartenenti all’ordo
senatorio, non nel caso in cui i crimini fossero stati consumati da persone comune, nel qual
caso la competenza apparteneva o al prafectus urbi o al praefectus vigilum)
Con i Severi nel III sec. finisce l’attività giurisdizione del Senato che viene devoluta integralmente
ai funzionari imperiali.
Lo svolgimento del processo dinanzi al Senato
La procedura era quella di un dibattimento assembleare. Era la procedura propria dei processi
ordinari ma contraddistinta da una maggiore elasticità.
1. Il procedimento si apriva su iniziativa di un soggetto accusatore che avanzava al console
l’accusa attraverso:
a. Delatio
b. Postulatio
Il console, a sua volta, convocava il senato per deliberare sulla questione. Il senato giudicava
su:
a. Accusa (posizione accusatore e accusato)
b. Crimini
c. Persone coinvolte
Il senato, in fase giurisdizionale, era presieduto dal console o, quando ne aveva interesse,
dall’imperatore (il cui giudizio era vincolante).
Il processo iniziava con una relazione introduttiva da parte del presidente (console o
imperatore). La parola veniva data:
In primo luogo, all’accusa
Successivamente, all’avvocato della difesa.
Il tempo riconosciuto all’accusa era inferiore di 1/3 rispetto al tempo concesso per la difesa.
Ascoltate le parti si acquisivano mezzi istruttori: prove documentali, precostituite e
testimoniali.
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2. Chiusa la fase istruttoria, il presidente prendeva la parola invitando il consesso, attraverso i
singoli componenti, ad esprimere il proprio parere in ragione al proprio rango riguardo ai
fatti conosciuti nella fase giudiziale. Ai senatori, oltre all’indicazione della preferenza su
assoluzione e condanna, veniva richiesta anche l’indicazione della pena.
Quindi, il presidente, raccolte le prove e i pareri, rimetteva ai voti le proposte dei singoli
senatori.
3. La decisione assunta secondo i voti (senatoconsulto) aveva efficacia di provvedimento
giudiziario. Il senatoconsulto veniva redatto per iscritto a cura del Presidente e veniva
depositato nell’erario dove acquistava immediatamente forza esecutiva.
a. Salvo i casi in cui il provvedimento avesse previsto la pena di morte per quel
crimine. In quel caso, il provvedimento non diventava esecutivo se non fossero
decorsi 10 giorni dal deposito per consentire all’imperatore un visto di congruità,
salvo che il Senato non avesse adottato il provvedimento con l’Imperatore come
presidente.
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b. Tabelliones: sono elaborati confezionati dal notaio che vincolavano il giudice in
ragione di quanto il notaio asseriva nell’atto essere accaduto;
c. Chirografa: sono scritture private che, per avere rilevanza processuale, dovevano
essere sottoscritte da almeno tre testimoni.
2. Prove costituende in giudizio:
a. Testimonianza: i fatti a supporto delle proprie ragioni dovevano essere confermati
da almeno due testimoni;
b. Confessione: consisteva nel riconoscere la propria responsabilità da parte di colui
che era coinvolto nel processo per un’ipotesi di responsabilità;
c. Giuramento: la parte invitata a giurare, se avesse giurato sulla fondatezza della
pretesa, avrebbe ottenuto un esito favorevole del giudizio.
Le presunzioni non sono vere e proprie prove ma conseguenze che la legge o il giudice traevano da
un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato.
La sentenza della cognitio extra ordinem deve contenere indicazioni sulla condanna a:
1. Spese del giudizio;
2. Eventuale risarcimento dei danni in caso di lite temeraria.
La pronuncia era sottoposta ad impugnazione.
Nell’età tardo-antica, per le cause comune di minore importanza nelle province, la giurisdizione
spettava al defensor civitatis.
Per i profili più elevati (senatori, i militari ed ecclesiastici) coinvolti in crimini, il processo veniva
svolto in particolari corti.
In provincia, salvo le ipotesi devolute al defensor civitatis, la giurisdizione apparteneva al
governatore. La decisione poteva prevedere, oltre alla condanna, le pene:
1. Personali ed afflittive
2. Patrimoniali.
Il governatore non poteva disporre senza l’esplicita autorizzazione dell’imperatore:
1. La pena capitale;
2. La confisca integrale del patrimonio.
Il Governatore amministrava la giustizia avvalendosi di un apposito ufficium rappresentato da
funzionari subalterni. Considerando che il governatore non aveva specifiche cognizioni giuridiche,
egli era assistito durante i processi dagli adsessores (esperti di diritto che conoscevano norme e
orientamenti giurisprudenziali e che sedevano accanto al governatore in tribunale). Spesso, gli
adsessores ne approfittavano: svolgevano attività istruttoria e decidevano in prima persona. La
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circostanza sarà oggetto di un intervento legislativo di Zenone in cui si vieterà agli adsessores di
prendere decisioni al posto del governatore: la loro attività deve essere solo d’ausilio.
Prima di Zenone, i figli di Teodosio I, Arcadio e Onorio statuirono che nei cinquanta giorni
successivi al termine del mandato, i governatori dovevano rimanere in loco per rendere conto della
loro gestione della provincia, anche delle attività giurisdizionali.
Il governatore, per le cause che non poteva decidere in ragione del suo superlavoro, ricorreva ai
pedanei (letteralmente: assisi ai suoi piedi), i quali sedevano sugli scranni inferiori rispetto
all’imperatore su richiesta dell’imperatore, istruivano e concludevano i processi. Diocleziano
vieterà questa pratica salvo le ipotesi di eccezionale superlavoro mentre Giuliano l’Apostata la
ripristinerà.
La giustizia si amministrava nel Palatium, la residenza ufficiale del Governatore o in altre città nel
perimetro della provincia, tranne quella in cui aveva sede il palatium.
Le decisioni del defensor civitatis potevano essere impugnate davanti al governatore. Mentre, le
pronunce del governatore potevano essere impugnate dalla parte soccombente dinanzi al vicario.
Invece, le pronunce del vicario erano impugnate dinanzi al prefetto del pretorio.
Nell’ipotesi in cui, nelle province, le persone coinvolte in un crimine fossero state importanti per
rango d’appartenenza o per potere economico, poiché avrebbero potuto rappresentare un pericolo
per l’imparzialità della decisione del Governatore, si stabiliva che la cognizione delle loro cause era
sottratta al governatore è devoluta al vicario o al prefetto del pretorio.
In particolare, nelle province più grandi nelle dimensioni (Africa, Asia e Acacia), le pronunce rese
dal governatore, in ragione della loro importanza, erano impugnate direttamente dinanzi
all’imperatore. Questo avviene nel corso dei secoli fino al 440 quando Teodosio II stabilirà che le
pronunce dei governatori di Africa, Asia e Acacia dovevano essere impugnate eccezionalmente
direttamente alla giurisdizione congiunta del prefetto del pretorio della Corte e del quaestor sacri
palatii.
Le sentenze del prefetto del pretorio non erano impugnabili dinanzi all’imperatore perché il prefetto
del pretorio pronunciava le sue sentenze vice sacra, tenendo luogo dell’imperatore. Fermo restando
che si poteva ricorrere all’imperatore, non per un appello, ma per una supplicatio, qualora la
decisione fosse stata ritenuta palesemente ingiusta. L’imperatore rivalutava integralmente l’attività
svolta e svolgeva un’indagine precipua sugli elementi che venivano segnalati nella supplicatio quali
elementi tipici di una pronuncia sostanzialmente ingiusta e ritenendo fondata la doglianza, rimetteva
la causa al prefetto del pretorio perché, secondo specifiche indicazioni, potesse eliminare quanto
rendesse palesemente ingiusta la pronuncia sottoposta all’attenzione dell’imperatore.
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Nel Tardo-antico, nell’ambito della procedura straordinaria, vengono riformati alcuni crimini ed
introdotti altri nuovi.
Le pene
Per quanto riguarda le pene, nell’età tardo-antica, esse potevano configurarsi come:
A. Pene personali afflittive:
1. La pena capitale:
a. In età repubblicana, era caduta in disuso anche nelle ipotesi più gravi di
crimini.
b. Con il principato, per i crimini più gravi viene nuovamente prevista.
c. Con il dominato, la pena capitale tornerà a prevalere: con l’età tardo antica,
la previsione della pena capitale diventerà una previsione frequente in
ipotesi di crimini particolarmente efferati: ad esempio, in caso di:
matrimoni posti in essere in violazione del principio esogamico;
matrimoni misti cioè tra cittadini dell’impero e stranieri
La pena capitale, per le ipotesi di crimini particolarmente efferati commessi dagli
humiliores (persone di basso rango), si eseguiva attraverso:
a. la decapitazione;
b. la crocifissione;
c. la vivicombusione;
d. l’esposizione alle fere belve in arena;
La pena capitale, per le ipotesi di crimini particolarmente efferati commessi dagli
honostiores (persone di alto rango), si eseguiva attraverso la decapitazione con la
spada.
2. Condanna ai lavori coatti di opere pubbliche: il condannato, se sottoposto a pena
capitale, poteva essere impiegato alla realizzazione di un lavoro. La pena era
temporanea e il suo termine coincideva con il termine dei lavori.
3. Condanna ai lavori in miniera. La pena era perpetua. Di più antica risalenza, era
caratterizzata da:
a. Perdita della libertà;
b. Perdita della cittadinanza;
c. Confisca del patrimonio;
d. Scioglimento del vincolo matrimoniale
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4. Condanna ai combattimenti nel circo come gladiatori: era una possibile condanna
a morte perché la fine del gladiatore dipendeva dalle qualità e dalle capacità
agonistiche della persona condannata. Sicuramente con questa condanna, dal punto
di vista giuridico, c’è:
a. Perdita della libertà;
b. Perdita della cittadinanza;
c. Confisca del patrimonio;
d. Scioglimento del vincolo matrimoniale
5. Interdictio aqua et igni (sostituita nel tempo con la deportatio in insulam):
consisteva in una sorta di esilio del condannato. Era una pena meno grave. Era un
esilio solitamente perpetuo che si accompagnava alla:
d. Perdita della cittadinanza;
e. Confisca del patrimonio.
La deportatio era una pena sostanzialmente identica: c’era l’esilio perpetuo del
condannato, accompagnato dalla perdita della cittadinanza e dalla confisca del
patrimonio.
6. Relegatio in insulam: era un esilio, come la deportatio ma con una differenza: la
relegatio poteva essere temporanea o perpetua. Solitamente era temporanea e,
diversamente dalla deportatio, non comportava né la perdita della cittadinanza e
neppure la confisca del patrimonio
B. Sanzioni patrimoniali
1. Confisca del patrimonio che poteva essere:
a. Parziale;
b. Integrale.
2. Multe;
3. Privazione della dignità: si perdevano le cariche, il decurionato e c’era anche
l’interdizione dagli uffici. È una sanzione che studieremo con la novella 12 di
Giustiniano sull’incesto.
Le condizioni sociali (il ruolo nella società) del condannato diventano, nell’età tardo-antica, un
discrimine nell’applicazione della pena: per lo stesso crimine si applica una pena diversa a seconda
dei soggetti. In particolare, la pena per chi commetteva il reato veniva distinta a seconda del ruolo
che si rivestiva nella società:
1. Honestiores: erano i senatori, i cavalieri e i componenti dei consigli municipali (municipia).
Nel caso di pena capitale, veniva eseguita attraverso la decapitazione con la spada.
72
2. Humiliores: erano tutti gli altri.
I crimini
Per quanto riguarda i crimini, nel tardo-antico, alcuni cambiano connotazione, cioè si modificano
nella portata e nei contenuti:
1. Il crimine di lesa maestà:
a. Nel periodo repubblicano consisteva in un reato contro l’assetto istituzionale (contro
l’ordine costituito della repubblica), in un crimine contro la sicurezza dello stato.
b. Nel periodo imperiale, diventa un crimine contro la figura dell’imperatore: poteva
consistere in:
i. un’offesa alla persona dell’imperatore;
ii. un oltraggio alle statue e all’effigie dell’imperatore;
iii. pratica delle arti magiche, cioè la lettura e il tentare di conoscere il futuro
dell’impero e dell’imperatore. Ciò poteva creare instabilità nell’impero.
Vengono, inoltre, nuove figure di reato rispetto al passato:
1. vengono introdotte nuove figure di furto:
a. il furto commesso in ore notturne (fattispecie più grave rispetto al furto commesso in
ore diurne)
b. il furto commesso nei bagni pubblici (luogo esposto alla fede pubblica);
c. il furto eseguito con scasso o destrezza;
d. il furto delle mandrie (abigeato)
2. evasione dal carcere;
3. plagio;
4. riduzione in schiavitù di uomini liberi
La carcerazione
La detenzione non era disposta come misura sanzionatoria. Era solo una misura preventiva
(detenzione o carcerazione preventiva).
Il legislatore condanna l’uso abusivo del carcere (quando il carcere era usato per fini strettamente
punitivi) con ripetuti interventi accolti all’interno del Codex Theodosianus il quale conserva:
provvedimenti legislativi che si soffermano e sanciscono un trattamento più umano del
detenuto;
soprattutto disposizioni legislative che operano una tenace difesa contro gli abusi e la
crudeltà dei carcerieri.
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Nel tardo-antico, Costantino con un rescritto del 320, statuisce che:
1. I detenuti in attesa di giudizio, in carcerazione preventiva, non possono essere
immobilizzati in manette di ferro che premano sulle loro ossa e che arrechino loro fisico
pregiudizio.
2. I detenuti non possono essere legati con pesanti catene.
3. È vietato tenere chiusi i detenuti giorno e notte, per 24 ore ininterrottamente. Infatti, i
detenuti chiusi nelle celle debbono necessariamente ottenere un minimo di aria e di luce
(riconoscimento del diritto all’aria e alla luce).
4. Sotto custodia si debba rimanere per il tempo strettamente necessario all’accertamento del
crimine o all’attività istruttoria che precede l’accertamento.
Di stesso indirizzo del provvedimento adottato da Costantino nel 320, sono gli interventi legislativi
degli imperatori successivi, in particolare il disposto statuito dal provvedimento normativo a firma
di Graziano, Valentiniano I e Teodosio I del 380. Questo è contenuto nel C.Th. 9.2.3 Questo
disposto statuisce che:
1. Nessuna persona può essere messa in catene prima dell’accertamento della sua
colpevolezza.
2. L’accusatore, nell’ipotesi in cui non fosse stata accertata la colpa dell’accusato, avrebbe
subito la pena prevista per colui che era stato accusato ingiustamente.
3. Il processo, inoltre, doveva essere celere per evitare lunghi periodi di carcerazione
preventiva in costanza di giudizio.
4. L’addetto alle prigioni (cometariensis) doveva informare il giudice su:
numero delle persone detenute;
delitti imputati;
età delle persone tenute in catene.
Teodosio I e suo figlio Onorio, tornando in argomento di carcerazione preventiva e condotte
carceraria, disporranno:
1. un controllo diretto sul sistema e sul trattamento carcerario. In particolare, i governatori
delle province, avrebbero dovuto convocare ogni domenica i detenuti in carcerazione
preventiva per sapere:
a. come si svolgesse la carcerazione;
b. che non mancasse il vitto per i detenuti;
c. e per la dignità del carcerato, che questi utilizzassero i bagni pubblici sotto vigile
controllo per permettere loro la cura del corpo.
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I vescovi avrebbero dovuto sorvegliare sul regolare rispetto delle regole contenute nel C.Th.
9.3.7.
Questi ripetuti interventi legislativi sembrano dimostrare che, in realtà, questi interventi imperiali
non siano state effettivamente rispettati soprattutto nei confronti dei detenuti appartenenti alla classe
degli humiliores. Da qui nasce la necessità di intervenire ripetutamente.
L’incesto
Noi sappiamo che l’incesto è il rapporto tra persone legate da un vincolo di parentela e di affinità.
Nell’età delle origini, arcaica o quiritaria, l’incesto indicava una condotta contraria ai:
1. mores maiorum (costumi degli antichi padri)
2. fas (ordine divino)
Via via, si delinea l’idea che non necessariamente l’incesto coinvolge la sfera sessuale: era una
condotta incestuosa anche quella che si sostanziava nella partecipazione a specifiche feste o riti (ad
esempio quelli in favore della dea Bona) che si svolgevano una volta l’anno e che prevedeva la
partecipazione di sole donne. Se partecipava un uomo (attenzione: non c’è nulla di sessuale in
questa condotta) sarebbe stato incriminato per incesto.
Sempre in età antica, l’incesto era una condotta che coinvolgeva la sfera sessuale ed era commesso
dalle sacerdotesse di Vesta nelle ipotesi in cui violavano il voto di castità. Con l’effetto che,
violando il vincolo, le vestali sarebbero state condannate a morte con una modalità particolarmente
cruenta che aveva lo scopo di colpire l’immaginario collettivo: la vestale sarebbe stata chiusa in una
lettiga da una cortina di ferro e sarebbe stata condotta da un corteo preceduto dal pontefice massimo
nel campus scelus dove sarebbe stata realizzata una profonda buca al cui interno la vestale veniva
sepolta viva.
Il pontefice, dopo la sepoltura, avrebbe dovuto dare le spalle alla sepoltura e non rivolgersi più
indietro.
Le Vestali
Nel corpus sacerdotale romano, inteso nel suo complesso, troviamo un’unica figura femminile
(Vestali) che finisce con l’infrangere un monopolio rigidamente maschile, un corpo di sacerdoti al
maschile.
Sodalizi
C’erano quattro sodalizi, tutti al maschile, legati a particolari riti e feste:
1. Luperci: prendono il nome dalla celebrazione della festività romana dei Lupercaria (che
cadeva il 15 febbraio) quando venivano tributati onori solenni al dio Faunus Lupercus, dio
trapiantato dalla Grecia a Roma e a cui si affidavano i pastori e i mandriani.
2. Salii: erano votati al dio della guerra, Marte. Erano sacerdoti guerrieri perché indossavano
paramenti militari. Sovrintendevano una molteplicità di cerimonie legate direttamente o
indirettamente al culto della guerra. La ritualità prevedeva:
a. Ancilia: la percussione degli scudi;
b. Tripudium: la danza in tre tempi
c. Carmen saliare: un canto
3. Frates Arvales: depositari dei riti propiziatori per la fecondità e la produttività della terra.
Anche loro si esibivano sia con ritualità consistenti in danze tre tempi e intonavano il
carmine arvale.
4. Fetiales: erano i sacerdoti diplomatici, depositari di tutte quelle procedure connesse con
negoziati, stipula di trattati, formalizzazione di dichiarazioni di guerra. In buona sostanza,
non vi era alcun patto che non venisse ratificato senza il ricorso ai riti e alle preghiere dei
feziali rivolte a Giove affinchè l’atto acquisisse il carattere della sacralità e quindi
dell’infrangibilità.
Aruspici
Gli aruspici analizzavano le viscere degli animali sacrificati interpretando il futuro decorso degli
eventi di Roma. Si trattava di un rito di origine etrusca, tanto che per un lungo periodo di tempi, gli
aruspici etruschi venivano chiamati a Roma per essere consultati e da quello che dicevano
dipendevano le scelte politiche cruciali per Roma. Solo nel I sec. d.C., con l’imperatore Claudio
istituisce a Roma un collegio di 60 sacerdoti aruspici.
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sacrorum si svuota di contenuto: egli era depositario di culti antichi avvolti dal mistero che non
avevano un peso concreto nelle sorti e nella vita della città (sia dal punto di vista strettamente
religioso sia dal punto di vista politico). Infatti, la figura scompare e tutti i poteri sono acquisiti ed
esercitati dal pontefice massimo che si affermerà ben presto come la massima autorità religiosa.
Flamines
Il loro nome derivava:
dalla fiamma che i flamines accendevano sulle are per eseguire i sacrifici;
oppure dal filo rosso di lana che sormontava il loro copricapo.
Potevano essere:
1. minori: erano 12 ma non ne abbiamo molta contezza
2. maggiori: erano
a. flamen dialis si dedicava al culto di Giove;
b. flamen martialis si dedicava al culto di Giunone;
c. flamen quirinalis si dedicava al culto di Minerva.
I pontefici
Nell’ambito del sacerdozio, erano senza dubbio coloro che rappresentavano il più importante e
prestigioso corpo sacerdotale. In origine, i pontefici erano in numero di 9, numero successivamente
elevato a 16. Presiedevano e sovrintendevano riti pubblici e privati. In buona sostanza, erano
presenti in occasione di tutte le manifestazioni che riguardavano la vita della città e delle persone di
rango.
Augures
Erano votati ad interpretare il volo degli uccelli da cui traevano auspicia o auguria. Il loro segno
distintivo era un bastone ricurvo.
Il corpo era stato portato da 10 a 15 unità. Gli augures consultavano i libri sibillini: questi potevano
essere letti su ordine specifico del Senato, solo in occasione di eventi gravi ed esclusivamente per
dirimere questioni altrimenti non comprensibili neppure dai pontefici.
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Epulones
Era un collegio meno importante (inizialmente composto da 3 membri e successivamente portato a
7) con funzioni sostanzialmente tecniche: provvedevano alla preparazione dei banchetti. In
particolare, banchetti:
dedicati a Giove a cui partecipavano tutti i Romani;
sacri offerti in occasione dei giuochi pubblici.
Vestali
Erano sacerdotesse donne, simbolo di purezza e soprattutto di perpetuità dei valori romani. Per
questo motivo, violare il vincolo di castità significava violare simbolicamente i valori della
romanità. Tutto quello che le riguardava era simbolico e ieratico, sin dall’ingresso nel sacerdozio.
L’ingresso nell’ordine delle vestali avveniva tramite la captio virginis: la selezione era basata sulla
presenza di requisiti rigorosi che attenevano:
1. sia all’aspetto fisico;
2. sia all’appartenenza sociale (all’inizio solo le appartenenti alla classe patrizia potevano
diventare vestali)
3. sia all’etica;
4. sia all’ambito giuridico
Il pontefice massimo, che presiedeva il collegio dei pontefici, compiuta la scelta tra le giovani di età
compresa tra 6 e 10 anni, pronunciava le parole rituali con l’atto della formale consacrazione.
Quindi, il pontefice illustrava alle giovani prescelte o alla giovane prescelta i doveri (tra cui quello
di castità) e una molteplicità di privilegi, privilegi assolutamente ignoti alle altre donne, le donne
laiche. I previlegi derivavano dal nuovo status giuridico. In quel preciso momento, la vestale
lasciava la famiglia e si sottraeva al potere potestativo del padre ed entrava nell’Atrium Vestae
(luogo destinato al culto della dea Veste) vestendo l’abito sacerdotale.
I riti secondari
I riti secondari di pertinenza delle vergini vestali sono:
1. Ignis Vestae Renovatio: le Vestali dovevano rinnovare periodicamente il fuoco di Vesta.
Ciclicamente, nelle Calendae di marzo, il fuoco sacro sempre tenuto acceso all’interno del
tempio della Dea Vesta veniva rinnovato o:
a. Tramite lo sfregamento dell’albero di buon augurio, detti arbores felices (quercia,
leccio, sughero e faggio)
b. Tramite la rifrazione dei raggi solari utilizzando un vaso conico di rame (scalium)
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Semmai il fuoco si fosse spento per colpo di una vestale, questa veniva fustigata fino alla
morte.
2. Le Vestali preparavano la mola salsa (farro macinato) che si cospargeva sulle vittime
sacrificali. Era un composto indispensabile per tutti i sacrifici e prendeva corpo dalle vergini
vestali. Veniva preparata tre volte l’anno in occasione:
a. Delle Lupercali il 15 febbraio;
b. Della festa delle Vestali il 9 giugno;
c. Alle idi di settembre
3. Palilia: è un’antica festa pastorale-agricola dedicata alla divinità Pales che proteggeva le
greggi.
4. Il 21 aprile, le donne si recavano nell’Atrium Vestae a ritirare i simboli utili a purificare le
abitazioni e le stalle e le sacerdotesse consegnavano loro un suffumigio che consisteva in
ceneri di vitellino estratto dalla vacca gravida, mescolati con steli di fave e sangue di
cavallo.
Le Vestali
1. Provenivano almeno in origine dalle famiglie patrizie.
2. Si richiedeva che i genitori fossero in vita.
3. Venivano scelte tra 20 giovani di età compresa tra i 6 e i 10 anni.
4. Non dovevano avere malformazioni fisiche e non dovevano appartenere a famiglie in cui
qualche componente avesse cariche sacerdotali.
5. Una volta prescelte, attraverso la captio virginis, venivano sottratte al potere potestativo del
padre e entravano nell’Atrium Vestae.
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9. Dal punto di vista processuale, deponevano in giudizio senza l’obbligo di giuramento.
Apprendiamo da Gaio che, al raggiungimento della pubertà, i figli maschi cessavano di avere un
tutore. Mentre, le figlie femmine permanevano sotto tutela (dopo il matrimonio sotto la tutela del
marito), salvo lo ius liberorum dopo 3 figli per le donne libere (4 figli per le liberte). C’è solo
un’eccezione, quella delle Vestali, le quali quando diventavano sacerdotesse, perdevano la tutela.
Gaio, nel primo libro del Commentario (Gaii, Inst. 1.145) ci dà testimonianza del fatto che le
vestali potevano fare e ricevere per testamento. In realtà, ad un certo punto, questo diritto è stato
concesso alle donne in Roma entro certi limiti.
La peculiarità di questa testimonianza consiste che il privilegio dello ius testamenti faciundi
sarebbe stato sancito in epoca regia, in particolare a Numa Pompilio, quando era impensabile per le
donne fare e ricevere per testamento. Inoltre, lo ius testamenti faciundi sarebbe stato formalizzato
81
anche all’interno della Legge delle XII Tavole. Gaio, inoltre, aggiunge che ha appreso di questo
privilegio dai veteres (gli antichi giuristi).
Ci sono due possibili interpretazioni del termine “veteres”:
1. È stato osservato che Gaio, quando usa il termine veteres, lo fa per richiamare i soli
operatori del diritto della precedente epoca repubblicana (cioè l’età immediatamente
precedente a quella di Gaio). Quindi, questa notizia è stata data da operatori del diritto che
sono vissuti molti secoli dopo il provvedimento di Numa Pompilio e le XII Tavole. I
romanisti ritengono che Gaii, Inst. 1.145 si tratta di un’appendice apocrifa cronologicamente
posteriore, cioè non scritta da Gaio ed inserita quando già anche le donne laiche potevano
fare testamento. Magari per dare rilievo alle Vergini Vestali si faceva risalire questo potere
agli albori di Roma. Molti romanisti hanno osservato che il ricorso alla memoria delle XII
Tavole era una pratica consueta e diffusa nella mentalità romana per dimostrare
l’autorevolezza di una circostanza:
a. Le fonti annalistiche come Tito Livio fanno riferimento alle XII Tavole;
b. Nel Corpus Iuris Civilis, nelle XII Tavole si individua l’autorevolezza che animava i
giuristi di età tardo antica. Essi, spesso, per descrivere un istituto, richiamavano,
sebbene fossero consapevoli dell’evoluzione di quell’istituto, la tradizione scientifica
più che millenaria iniziata con le Duodecim Tabularum Leges.
2. Si può plausibilmente sostenere che il richiamo alle XII Tavole nel passo di Gaio sia
autentico e privo di alterazioni. Gaio, infatti, usando il vocabolo veteres potrebbe aver
indicato i maiores (cioè quelli veramente antichi).
A questo punto si apre l’interpretazione quindi si rinvia allo studio attento del libro delle Vergini
Vestali (da pag.43 alla fine).
L’incesto
In origine, l’incesto indicava la condotta delle vestali che violavano il loro voto di castità.
Successivamente assume una connotazione antigiuridica indicando il rapporto tra persone legate da
un vincolo di parentela. L’incesto si connota per il carattere di violazione del rapporto di familiarità
dei soggetti. In costanza di vincolo familiare, non è possibile intrattenere rapporti sessuali.
Dalla lettura delle fonti, apprendiamo che l’elemento sacrale continua ad essere presente sia nella
giurisprudenza sia nei disposti normativi. Il primo giurista che in qualche modo si allontana dalla
sacralità è Papiniano. Sebbene, dopo Papiniano, il richiamo all’elemento sacrale è costante anche
nella legge che disciplina una condotta dandone i connotati dell’antisacralità.
1. Nel 228, Alessandro Severo, parlando di incesto, ne delinea una condotta antisacrale.
82
2. Tra il 291-295, gli imperatori Diocleziano e Massimiano, occupandosi del crimen incesti,
parlano di pietas e pudor, che hanno poco a che vedere con una regolamentazione
strettamente giuridica.
3. Nella seconda metà del IV sec. Costanzo, figlio di Costantino, lascia affiorare il carattere
sacrale della condotta.
4. Sul finire del IV sec., Arcadio, figlio di Teodosio, parla di una macchia inespiabile tipici
del linguaggio sacrale.
5. Addirittura, nel V sec., Zenone, parla di incestum contagium, nefanda licentia e
turpissimum consortium termini che si addicono ad una condotta antisacrale.
6. Nel VI sec., Giustiniano parlando di incesto, ne parla come una condotta posta in essere
contro la legge di natura intesa come manifestazione del volere divino. Naturalmente, nel
tardo antico, l’incesto è prima di tutto una condotta contra mandata constitutiones (contro la
legge).
84
Fino all’età repubblicana, non si sa se e da quali legge fosse regolato l’incesto. Non era certamente
un reato autonomo: aveva una certa attinenza con lo stupro sebbene non sottostesse alla medesima
disciplina.
a. Lo stupro infatti rivestiva la figura dell’iniuria ed era perseguito con un actio iniurarium
concessa dal pretore in ragione dell’editto dell’attemptata pudicitia quindi con un processo
di tipo privato al di fuori del processo comiziale.
b. Invece, l’incesto, era un crimine pubblico perseguito con la pena capitale per effetto di una
legge (distrutta a seguito dell’incendio gallico del 390 a.C.) fixa in atrio libertati (lo
apprendiamo da Catone tramite Vesto).
In origine, la sanzione era sostanzialmente di tipo religioso. Solo, successivamente nel
tempo, diventa una sanzione giuridica con l’istituzione di quaestiones perpetuae. Ciò lascia
supporre che le sentenze fossero emesse sulla base di un disposto normativo. La pena
capitale in età imperiale non poteva essere applicata sulla base di un criterio casistico.
Occorreva la legge.
85
a. È poco credibile che la Lex Iulia abbia disciplinato la fattispecie incestuosa in
ragione del fatto che questa legge prevedeva per le ipotesi di adulterio l’applicazione
della pena personale afflittiva della relegatio in insulam.
Noi sappiamo, attraverso le fonti, che anche per l’incesto era statuita come sanzione
la relegatio in insulam.
Quindi, è stato osservato che la Lex Iulia non può essersi occupata oltre
dell’adulterio anche dell’incesto perché, se così fosse stato, il legislatore Augusto
avrebbe statuito due pene diverse per crimini differenti. Sono crimini che
coinvolgono la sfera sessuale, ma l’incesto era più grave dell’adulterio perché vi era
una violazione dei vincoli di sangue. Però, la circostanza può essere oggetto di
riflessione perché in verità, la relegatio in insulam si caratterizzava, in quanto esilio,
sia come pena temporanea sia come pena perpetua. Quindi, a chi sostiene che la Lex
Iulia non abbia disciplinato la fattispecie di incesto perché altrimenti avrebbe dovuto
predisporre due pene differenti, si può osservare che una stessa pena poteva essere
prevista per due crimini diversi perché poteva essere modulata in sede processuale
dal magistrato in ragione delle ipotesi specifiche.
b. Gran parte dei romanisti ritiene che questa legge non si sia occupata dell’incesto in
ragione del fatto che sappiamo che solo per il crimine dell’adulterio era prevista la
quaestio servorum in caput domini (se la Lex Iulia si fosse occupata anche di incesto,
la quaestio servorum sarebbe stata prevista anche per questa fattispecie):
i. Solo in occasione di un processo per adulterio si poteva ascoltare e torturare
gli schiavi domestici come testimoni.
Si è detto che se la legge avesse trattato anche dell’incesto, la legge non avrebbe
sottratto la quaestio alla fase istruttoria del processo.
Si può replicare a questa tesi asserendo che il legislatore Augusto potrebbe essere
stato spinto a disciplinare in maniera diversa la fase istruttoria di due crimini diversi
presenti nella stessa legge per via della natura dei due crimini. Se guardiamo alle due
fattispecie, ci accorgiamo che:
1. L’adulterio si consuma sempre clam (di nascosto). È difficile individuare nel
processo le prove per dimostrare la presenza del crimine di adulterio. Quindi,
era molto difficile istruire il processo, il quale poteva concludersi
probabilmente con l’assoluzione per assenza di prove. Quindi, è stata prevista
l’audizione dello schiavo domestico al fianco del padrone o della padrona per
tutta la giornata. Ma lo schiavo era timoroso di parlare per paura di ritorsioni,
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quindi non avrebbe reso facilmente la sua testimonianza contro il padrone o
la padrona. Per questo motivo, è stata prevista la quaestio nella fase istruttoria
del processo.
2. Per l’incesto non era prevista la quaestio perché, per sua natura, il più delle
volte, si consumava attraverso un matrimonio incestuoso. Quindi, non era
difficile trovare testimoni in sede processuale.
Quindi, non c’è ragione per cui si debba prevedere una stessa disciplina per la
fase istruttoria di due crimini differenti.
Per questa ragione, la quaestio non è dirimente per comprendere se l’incesto
fosse presente o meno nella Lex Iulia.
c. La prescrizione rappresenterebbe un ulteriore requisito in ragione del quale si può
escludere che Augusto si sia occupato anche dell’incesto. Sappiamo dalla Lex Iulia
che per l’incesto è prevista una prescrizione quinquennale. Diversamente,
apprendiamo che l’incesto è imprescrittibile. Perché il legislatore, occupandosi di
crimini sessuali, in una stessa legge avrebbe previsto due diversi regimi di
prescrizione? In realtà, l’incesto è un crimine più grave e quindi non può essere
soggetto a prescrizione.
Questo elemento, dunque, non supporta la tesi secondo la quale la legge non avrebbe
disciplinato la fattispecie di incesto.
C’è di più: il testo della Lex Iulia è andato perduto ma i giuristi, in particolare, ci testimoniano della
presenza del crimine di incesto nella Legge Iulia:
1. Ulpiano nel De Adulteriis e nel Ad Legem Iulia de Adulteriis;
2. Papiniano nel De Adulteriis e nel Liber Singularis de Adulteriis;
3. Marciano nelle Note al De Adulteriis di Papiniano
In particolare, Papiniano parlando della Lex Iulia, si preoccupa di chiarire le ipotesi di stupro con la
figlia della sorella: in questo caso, il termine stupro è usato come iperonimo di incesto. Lo stupro è
perpetrato con una persona con cui c’è un vincolo di sangue.
Papiniano, con Ulpiano, a proposito della Lex Iulia, chiarisce l’imprescrittibilità dell’azione
dell’incesto quando concorre con l’adulterio (cioè quando la donna, oltre che parente, è anche
sposata)
Paolo, parlando della legge, precisa il caso di un matrimonio con la madre dell’ex sposa (l’ex
suocera).
Nelle Pauli Sententiae, si testimonia che la Lex Iulia riferisce la pena prevista per l’incesto era
quella inflitta gli adulteri secondo quanto disciplinato dalla Lex Iulia.
87
Nel VI secolo, Giustiniano, attraverso Triboniano, ricorda e riferisce del sistema sanzionatorio
statuito della Lex Iulia, ricorda:
1. Lo stupro con un uomo (masculo) sarebbe stato punito con la decapitazione;
2. Se lo stupro fosse stato con vedova o vergine e per ipotesi incesto la sanzione era la
relegatio.
Anche Giustiniano diventa testimone che la Legge Giulia avrebbe potuto disciplinare anche
l’incesto.
L’incesto veniva punito con:
1. Relegatio in insulam;
2. Deportatio in insulam (quando c’è il concorso con l’adulterio)
90
Inoltre, Salvatore Pugliatti sottolinea la contrapposizione tra ius civile e ius gentium non solo con
riferimento dell’incesto ma ad altri istituti comuni a tutte le genti (ad esempio il matrimonio, la
dominica potestas e le manomissioni).
La differenza è che se l’incesto iure civili era oggetto di scusabilità e c’era il condono della pena,
per l’incesto iure gentium non c’era la scusabilità e non era possibile ottenere il condono della pena.
91
a. Incestum matrimoni iugendi causa: con incesto ne parla come matrimonio in cui
manca la causa.
Egli si sofferma sulla casistica (cioè sulle ipotesi di incesto):
1. Parentela in linea retta (genitori e figli; nonni e nipoti)
2. Parentela in linea collaterale (fratelli e sorelle; fratellastri e sorellastre; zia
materna/paterno e nipote; zio materno e nipote)
a. Manca zio paterno e nipote in ragione del fatto che c’era stato un
senatoconsulto claudiano del 49 d.C. aveva escluso la bilateralità del divieto
di matrimonio per consentire a Claudio di sposare la nipote Agrippina.
b. Mancano i cugini.
c. Mancano gli affini in linea retta (suocera e genero/suocero e nuora, patrigno e
figliastra, matrigna e figliastro)
d. Mancano gli affini in linea collaterale (cognati)
3. Intervenuta adozione salvo che non intervenga l’emancipazione (prima per mezzo
delle tre vendite, poi con il rescritto e infine con tabulas). L’emancipazione non
rileva in termini giuridici ai fini della parentela in linea retta (il fatto che il padre
emancipi la figlia adottata non determina la circostanza che il padre possa sposarsi
con la figlia).
L’intervenuta emancipazione non è di ostacolo a rapporti sessuali solo in caso di
rapporti in linea collaterale (la figlia adottata emancipata poteva sposare il figlio
naturale del padre adottante)
Gaio afferma che le conseguenze civili dell’incesto sono:
1. Confisca degli apporti nuziali (dote e donatio proter nuptias)
2. I figli sono illegittimi e, in quanto tali, perdono tutti gli apporti patrimoniali.
Possiamo sottolineare che con Gaio, Marcello e Papiniano (quindi in età classica) non compare il
matrimonio tra cugini come ipotesi di incesto. Questo divieto manca in Giustiniano ma viene
introdotto con un provvedimento di Teodosio I (387-392), provvedimento andato perduto.
92
Nei Responsa 4.15
Nelle Quaestiones 11.32
Papiniano
Rispetto a Paolo e Ulpiano, Papiniano dà un taglio e si preoccupa di disciplinare l’incesto in ambito
processuale. In particolare, si occupa di:
1. Accusa;
2. Legittimazione all’accusa;
3. Disponibilità dell’azione;
4. Estinzione e prescrizione dell’azione;
5. Regime probatorio.
L’aspetto casistico non è dettagliato in Papiniano (a differenza di Gaio). Papiniano si sofferma solo
su singoli casi particolari che riguardano il divieto di matrimonio tra:
1. Fratelli e sorelle;
2. Affini in linea retta;
3. Affini in linea collaterale.
È attento anche in tema di:
concorso di reati (incesto ed adulterio);
di regime sanzionatorio;
delle ipotesi di scusabilità (per le donne) e delle relative scriminanti.
Manca attenzione sullo status giuridico dei figli incestuosi.
Papiniano vive tra il II e il III sec. d.C. e viene giustiziato da Antonino Caracalla nel 212 d.C.
perché non ha giustificato in Senato il fratricidio perpetrato da Caracalla nei confronti del
fratellastro Geta.
L’azione per il crimen incesti poteva essere esperita e proseguita dopo la morte della donna:
Nei cinque anni per l’adulterio;
Senza limiti di tempo per l’incesto.
Inoltre, apprendiamo da Papiniano che l’adulterio si prescriveva in cinque anni e non era
prescrittibile quando concorreva con l’incesto. Non era il concorso di reati ad inasprire la pena, ma
è proprio la presenza dell’incesto a rendere il crimine imprescrittibile.
Quando si fosse proceduto per un’ipotesi di responsabilità per incesto bisognava procedere nei
confronti di entrambi i soggetti coinvolti nel crimine. L’azione è simultanea.
93
Al contrario, in caso di adulterio, si agisce prima nei confronti di uno e poi nei confronti dell’altro
soggetto coinvolto nel crimine. Apprendiamo questa circostanza anche da Giuliano, Ulpiano, Macro
e da leggi di Alessandro Severo del 224 e di Giustiniano nel 542.
Apprendiamo da Papiniano che la quaestio servorum in caput domini ricorre solo in caso di
adulterio e di concorso tra adulterio ed incesto.
Le nozze incestuose sono prive di causa con l’effetto la donna deve farsi restituire la dote. Nel caso
in cui la dote non fosse stata restituita spontaneamente, la donna poteva intentare la condictio certi
volta ad ottenere la tutela per un diritto negato. I figli sono illegittimi e quindi hanno lo status della
madre. Tuttavia, non sono esclusi dal decurionato perché le colpe dei padri non possono ricadere sui
figli.
In caso di concluse nozze incestuose, Papiniano disciplina un regime di responsabilità distinto per
l’uomo e per la donna (queste considerazioni sono accolte nel D. 48.5.39)
a. Nella prima sezione è prevista la punibilità della donna. Il giurista distingueva tra incesto:
1. Involontario: non c’è la volontà di trasgredire; c’è un errore. La donna rimane
impunita se dimostra l’errore:
i. Di fatto: la donna non conosce il vincolo di parentela;
ii. Di diritto: la donna non conosce la legge.
Nell’adulterio la donna viene sempre punita. L’incesto non punibile è solo quello
iure civili, non quello iure gentium.
2. Volontario: c’è la volontà di trasgredire.
b. Per quanto riguarda la punibilità dell’uomo, Papiniano sottolinea che la disciplina è ripresa
dagli interventi legislativi dei Frates Marco Aurelio e Lucio Vero (nel periodo di
coreggenza 161-169)
94
postulatio rei (processo) si fosse sciolto il vincolo matrimoniale, si sarebbe ottenuto il condono
della pena.
Papiniano dà un quadro sintetico per il II sec. d.C. dettando una regola iuris. In materia di incesto,
sono cause di scusabilità in presenza delle quali il diritto romano non irroga sanzioni:
1. Il sesso;
2. L’età;
3. La buona fede/l’errore;
4. Il divorzio;
5. Il ravvedimento prima della postulatio rei.
Papiniano non s’interessa alla natura e all’aspetto retributivo della pena.
Paolo
Paolo, nel III sec. d.C., si occupa della configurazione e della definizione in senso lato del crimine
e s’interessa meno (rispetto a Papiniano) alla terminologia e alle conseguenze penali del crimine.
Per Paolo, l’incesto è una relazione matrimoniale moribus prohibitur che può essere identificato in
un’accezione ampia sia come iure gentium sia come iure civili.
Secondo Paolo, in ogni caso è più grave l’incesto consumato tra parenti in linea retta (incesto di ius
gentium) mentre ritiene che sia meno grave l’incesto tra parenti in linea collaterale (incesto di ius
civile). Ciò viene chiarito nel D.23.2.68.
Nell’ultimo caso (incesto tra parenti in linea collaterale), se si formalizza un matrimonio, l’incesto
deve presumersi consumato palam (in buona fede) e dev’essere punito con una pena meno grave
rispetto ad una relazione occasionale temporanea (clam) in cui c’è la volontà di trasgredire di
nascosto.
Paolo evidenzia una differenza di genere. In caso di incestum palam:
La donna non viene punita;
L’uomo viene condannato con una relegatio con una durata più breve.
Anche Paolo sottolinea che non è possibile intrattenere rapporti sessuali in caso di adozione. Il
divieto di matrimonio si estingue con l’emancipazione in caso di rapporto di parentela in linea
collaterale.
Paolo, per quanto attiene al regime patrimoniale, non si discosta da Papiniano. Quindi, la dote
dev’essere restituita e nel caso di mancata restituzione, si può esperire una specifica azione.
Ulpiano
95
Ulpiano, nel III sec. d.C, si occupa di adulterio concentrandosi sull’aspetto dogmatico. Egli
prevede diverse tipologie di incesto:
a. Tra parenti in linea retta;
b. Tra parenti in linea collaterale (è tenuto fuori lo zio paterno);
c. Affini in linea retta (non si elencano i casi di rapporti tra cognati)
Il divieto permane dopo lo scioglimento del vincolo matrimoniale che ha fatto
sorgere l’affinità. Anche se si scioglie il vicolo con la moglie, l’uomo non può
sposare l’ex suocera.
Le conseguenze sono di carattere civilistico:
a. Il pater familias perde il potere potestativo;
b. I figli sono illegittimi con ogni consequenziale effetto: non hanno titolo a succedere al
padre.
Sollecitato dalla prassi, Ulpiano chiarisce che non sono unioni incestuose quelle unioni tra
l’arrogato e la moglie ripudiata dell’arrogante perché il preliminare ripudio della moglie fatto
dall’arrogante non fa sorgere alcun vincolo tra arrogato ed ex moglie dell’arrogante.
Ulpiano dice che non commette incesto il figlio naturale dell’adottante con la figlia della sorella
adottiva in ragione del fatto che la donna (la figlia della sorella adottiva) rimane sotto la potestà del
padre naturale perché tra la giovane e il fratello della madre non ci sono rapporti di
agnazione/cognazione.
Ulpiano afferma che tra l’adottato e la sorella dell’adottante (zia) non c’è incesto purché la sorella
dell’adottante non sia nata dallo stesso padre (sarà una sorella uterina).
All’attenzione del giurista, vengono sottoposti altri casi in cui Ulpiano afferma che sono incestuose:
a. Nozze del padre con la fidanzata o concubina del figlio;
b. Nozze del figlio con la concubina del padre;
c. Nozze tra l’ex marito e la figlia di secondo letto della moglie divorziata;
In questi casi, non c’è nella sostanza violazione di un vincolo di sangue o di affinità ma sono unioni
condannate per motivi etici e sociali. Ulpiano ci dà alcune indicazioni sull’aspetto processuale che
coinvolgono l’incesto:
a. L’azione è imprescrittibile;
b. Si prescrive in cinque anni l’azione per l’adulterio, lo stupro e il lenocinio.
c. Si prescrive in cinque anni l’azione di chi ha favoreggiato detti crimini (adulterio, lenocinio
e stupro):
Offrendo la propria abitazione;
Offrendo servizi;
96
d. L’accusa di incesto veniva formalizzata iure extranei, cioè da soggetti terzi (diversamente
dall’adulterio in cui c’era l’azione iure mariti vel patris.
Regime tardo-antico
A. Pauli Sententiae (sono dette anche Receptae Sententiae): si tratta di una raccolta elementare
che serviva soprattutto alla pratica. Aveva la struttura dei Digesta. Alla fine del III sec. d.C,
erano in uso sebbene siano sorti dubbi sulla loro autenticità. Questi dubbi sono stati fugati
perché le Pauli Sententiae sono state citate in una costituzione di Costantino (327-328 d.C.)
contenuta sia nel C.Th. 1.4.2 sia nella Legge delle Citazioni.
Non è giunta a noi, ma è pervenuta in modo frammentario attraverso la Lex Romana
Wisighotorum, la Lex Dei, la Consultatio Veteris e il Digesto.
Ricalca la trattazione dell’incesto che fa Paolo e i giuristi di età dei Severi anche se con delle
peculiarità:
1. La trattazione nelle Pauli Sententiae è di tipo penalistico;
2. Dal punto di vista casistico, le ipotesi di incesto sono le stesse d’età classica:
a. Parenti in linea retta;
b. Parenti in linea collaterale (rimane escluso zio paterno e nipote);
c. Affini in linea retta;
d. Per quanto riguarda l’incesto in caso di adozione:
i. L’adozione ostacola di principio i rapporti sessuali tra parenti;
ii. L’intervenuta capitis deminutio, irrilevante nella parentela in linea
retta, diventa essenziale per la parentela in linea collaterale e gli
affini. In caso di capitis deminutio si liberalizza il vincolo.
e. Si aggiunge il divieto tra zio materno con figlia della sorella o la di lei figlia
(nipote e pronipote) per ragioni di età perché è eccessivo lo scarto d’età. In
età classica ad ostacolare questa tipologia di vincolo era la consanguineità.
3. Le Pauli Sententiae trattano soprattutto delle conseguenze penali e della pena in
caso di incesto, diversamente dagli scritti omologhi di Paolo e Ulpiano che, in età
classica, si erano soffermati sull’aspetto civilistico dell’incesto.
4. In caso di incesto, sono incestuosi tutti i vincoli iure civili (anche quelli in linea retta.
Fattispecie che era considerata da Paolo come di ius gentium) perché da Augusto in
97
poi si era normata la fattispecie di incesto. Ed anche l’incesto tra persone legate da
uno stretto vincolo di sangue era stato statuito dal diritto di Roma.
5. Quanto al genere (uomo-donna), le Pauli Sententiae finiscono con l’esasperare i
concetti classici di Paolo e Papiniano circa la punibilità, prevedendo la punibilità per
l’uomo e l’impunità per la donna. I due sessi si trovano in una situazione di disparità.
Si parla di:
a. pro sexus discraetione: è il ruolo subalterno della donna a scusarla per via
della sua ignorantia iuris (scusabilità che potrebbe dipendere nella sola
responsabilità dell’uomo nel prendere l’iniziativa. L’iniziativa è dell’uomo,
quindi la responsabilità è la sua.
La pena è quella della relegatio in insulam. Lo ritroviamo nelle P.S. 2.19.5.
Nelle P.S. 2.26.14-15, si dice che la pena è la deportatio, perché il giurista parla
di concorso tra incesto e adulterio. In caso di concorso, infatti, l’uomo è punito
con la deportatio mentre la donna è punita con la relegatio.
B. Tituli ex corpore Ulpiani: presenta un taglio civile e ci sono minori novità rispetto a quanto
contenuto nelle Pauli Sententiae. Gli impedimenti sono quelli d’età classica (parenti in linea
retta, parenti in linea collaterale, affini in linea retta) anche se nella trattazione si avverte un
senso di riprovazione delle coscienze sociali per le unioni tra cognati. Le conseguenze sono
di stampo civilistico:
Il matrimonio è inesistente;
Il padre perde la patria potestas;
I figli sono illegittimi e non acquistano diritti ereditari.
Interventi legislativi
Alessandro Severo, nel 228 d.C., sottolinea la riprovazione morale delle unioni incestuose.
Dall’altro lato, Diocleziano e Massimiano motivano i loro interventi legislativi (291-295) con
ragioni giuridiche. Le leggi sono contenute nella Collatio Legum e nella compilazione di
Giustiniano. In queste disposizioni è anche presente l’elemento religioso (pudor, ecc..)
Da decenni, era stata elaborata la Constitutio Antoniana (212) che estende la cittadinanza romana a
tutti gli abitanti dell’Impero. L’effetto è che è stata estesa la legislazione a tutto l’Impero, anche ad
Oriente, dove vi erano usi e costumi diversi in materia soprattutto per quanto attiene il matrimonio:
esso si basava sul principio endogamico (era permesso il matrimonio tra cognati e tra cugini).
Il legislatore, dunque, deve rinforzare i capisaldi romani, in primis la famiglia: il matrimonio
romano, per essere giusto e legittimo, dev’essere:
Monogamico;
Etnogamico;
Fondato sul consenso.
L’unità della famiglia avrebbe infatti garantito anche l’unità dell’impero.
A questo obiettivo mirano i provvedimenti di Diocleziano e Massimiano allo scorcio del III sec.
d.C.
I loro provvedimenti sono dettati da esigenze pratiche: quella di salvaguardare la romanità, perché
l’Impero si era ampliato ed aveva inglobato popolazioni con una cultura e una mentalità diversa
dalla mentalità romana.
Il legislatore romano desiderava:
1. Che gli abitanti delle province si adeguassero alle regole del diritto romano. Lo scopo del
legislatore è quello di adeguare i diritti provinciali al diritto romano;
2. Estendere, entro i confini dell’Impero, il modello del matrimonio giusto e legittimo;
Nei provvedimenti legislativi si mostra il pugno di ferro prevedendo sanzioni penali. Al contempo,
il legislatore doveva prendere atto del fatto che i popoli ad Oriente avevano un retaggio culturale
inveterato: quindi per alcune forme di incesto è stata prevista la grazia e la remissione della pena
sotto condizione. In quest’ottica si inseriscono:
99
A. Provvedimento di Diocleziano e Massimiano del 291. Elaborato in luogo imprecisato, è
indirizzato a Flavio Flaviano. Prevede un condono per l’ipotesi di matrimonio contratto per
errore. Si prevede la remissione della pena a condizione dell’immediato divorzio al
momento della conoscenza dell’errore. L’errore non esclude l’errore ma condona la pena.
Si richiama a quando, nel Digesto, Papiniano si era occupato della responsabilità dell’uomo
e della donna in caso di errore:
Tra zia materno e nipote (minore di età);
Tra matrigna e figliastra (maggiore di età)
Lo scioglimento del vincolo era rimesso all’iniziativa personale. Invece, con il
provvedimento del 291, lo scioglimento è imposto dalla legge.
Non è ben precisato quale tipo di errore rileva: di fatto o di diritto? Non è necessario
puntualizzare perché con molta probabilità rilevava l’errore di diritto. Infatti, l’errore di
fatto era già giustificato, per l’uomo e per la donna, già negli scorsi secoli.
B. Provvedimento del 295. Questo provvedimento legislativo viene emanato da Diocleziano e
Massimiano quando Roma era coinvolta in una guerra contro i Persiani. Perché sono
intervenuti a tutela del matrimonio esogamico in un momento così delicato per Roma?
a. Da un lato, occorreva salvare Roma dagli attacchi esterni dei Persiani;
b. Dall’altro, occorreva salvaguardare la romanità dalle spinte disgregatrici della
cultura orientale.
Questo provvedimento è più ampio e più importante di quello del 291: è un’organica e
puntuale regolamentazione del crimen incesti nel Tardo-Antico. Rappresenta, inoltre, un
punto di riferimento sia per la compilazione giustinianea sia per la produzione novellare di
Giustiniano in materia di incesto. Nel provvedimento, si ribadiscono gli impedimenti tra
parenti in linea retta e il legislatore, per non dimenticare nulla, richiama tutti gli impedimenti
presenti nei provvedimenti antiquo iure statuiti, con l’effetto che, nel 295, non essendo
individuato il divieto di matrimonio tra cognati, esso è ancora permesso.
Questo provvedimento legislativo è contenuto:
1. nella Collatio Legum
2. e nel C.I. 5.4.17 con una differenza: in questa ubicazione troviamo riportato anche il
divieto di vincolo tra zio paterno e nipote, un divieto oggetto di interpolazione da
parte di Triboniano e dei compilatori. Quest’aggiunta avviene perchè dopo il
provvedimento del 295 interverranno ulteriori disposizioni legislative:
342 di Costanzo II, figlio di Costantino
386 di Arcadio, figlio di Teodosio I.
100
476-477 di Zenone
Sul tavolo, quindi, i compilatori trovano il provvedimento del 295 (che non prevede
il divieto di vincolo tra zio paterno e nipote) e provvedimenti successivi al 295 (che
avevano introdotto la bilateralità del divieto zio materno-paterno e nipote). Quindi,
ciò sarà tenuto in conto dai compilatori giustinianei che si adeguano all’evoluzione
della fattispecie.
Il provvedimento si compone di due norme:
1. Statuisce il principio secondo il quale il matrimonio è unico e dev’essere
esogomico di tipo romano.
2. A seconda se il matrimonio sia stato formalizzato prima o dopo il 295:
a. Statuisce un’ipotesi di condono per le unioni incestuose fino al 30
aprile 295 (giorno di entrata in vigore del provvedimento). Pertanto,
il legislatore prevede una sanatoria per tutti i matrimoni dal 212 al 295
formalizzati ad Oriente, entro i confini dell’Impero. La sanatoria è
dettata da motivi politici.
Per i matrimoni formalizzati prima del 295 “viene concessa la vita”.
Si tratta di una perifrasi per indicare che non viene comminata la pena
capitale. Ma noi sappiamo che in caso di incesto non veniva
comminata la pena capitale. Allora, come si giustifica questa
perifrasi? Nel 295, il legislatore, quando parla di “concessione della
vita”, si riferisce alla non applicazione della relegatio (l’esilio, che
comportava l’allontanamento della persona dal luogo dove ha sempre
vissuto e dai suoi affetti: si trattava, dunque, della morte civile del
soggetto). Se si dovesse dare alla perifrasi il significato di non
applicazione della pena capitale, il precetto sarebbe decontestualizzato
perché non si inserisce nell’ambito del contesto normativo e
giurisprudenziale dell’epoca classica e post-classica.
Per il resto, il provvedimento del 295 ben si cala nel contesto perché
ribadisce le conseguenze civili del crimen incesti (figli illegittimi con
ogni consequenziale effetto negativo in relazione ai loro diritti
successori)
b. Per i matrimoni incestuosi formalizzati dal 1° maggio 295, il
legislatore non indica esplicitamente le sanzioni: parla attraverso una
perifrasi. Afferma che per questi matrimoni ci sarebbe stata
101
“l’applicazione della grave pena”. Ci si riferisce alla relegatio in
insulam. Per il resto, le conseguenze civilistiche sono l’illegittimità
della parola e l’assenza di ogni specifico diritto di carattere
successorio.
Il legislatore omette di specificare una differente disciplina di genere
(uomo e donna). Non statuendo un differente regime, uomo e donna
sarebbero stati giudicati allo stesso modo. La donna non può
esprimere la sua inferiorità. Sul punto si può osservare che, quando il
legislatore ha inteso uniformare la disciplina, lo chiarisce
puntualmente. Quindi è probabile che si debba richiamare alle regole
generali dell’ordinamento giuridico romano. Quindi, la donna con
ragionevole probabilità avrebbe potuto addurre le regole generali della
buona fede e dell’ignorantia per le quali è previsto un diverso
trattamento.
Contesto storico
Diocleziano prende il potere in un momento di instabilità politica in cui il potere è legittimato
dall’esercito (anarchia militare). Egli proveniva dalle fila dell’esercito ed era consapevole
dell’importanza di essere nelle grazie dell’esercito. Tuttavia, sapeva anche che se non fosse stato
più supportato dall’esercito avrebbe perso il potere. Quindi, il suo potere dipendeva dall’esercito.
Diocleziano instaura una tetrarchia (governo a quattro). Mantiene per sé il governo dalla parte
orientale dell’Impero e lascia a Massimiano il governo dell’Occidente. Distinguendo le due parti del
governo dell’Impero, se uno dei due imperatori fosse caduto in disgrazia, ci sarebbe stato l’altro
imperatore che avrebbe retto la situazione. Matura anche l’idea che alla figura dell’imperatore
(augusti) si doveva accostare la figura di un cesare.
Ad Oriente:
Diocleziano era augusto;
Galerio era cesare;
Ad Occidente:
Massimiano era augusto;
Costanzo Cloro (padre di Costantino il Grande) era cesare
102
Decorsi 20 anni di governo, gli augusti avrebbero abdicato e diventano augusti i cesari che
avrebbero nominati, a loro volta, i nuovi cesari.
In particolare, ad Occidente viene nominato:
Costantino come augusto
Massenzio come cesare
Ad Oriente viene nominato:
Licinio come augusto
Massimino Daia come cesare.
Possiamo dire che Costantino è figlio della tetrarchia, anche se con lui termina questo sistema
poiché, eliminati i due cesari e l’augusto Licinio, nel 325, diventa unico imperatore e ripartisce il
territorio in quattro prefetture (Italia, Illirico, Gallia e Oriente).
I figli di Costantino (Costantino II, Costante e Costanzo II) governano alla morte del padre. I primi
due muoiono e l’ultimo, Costanzo II, va al trono. Egli interviene in materia d’incesto con due leggi
che si soffermano sulla casistica.
1. Il primo provvedimento è del 342 ed è di portata generale. In realtà, però, il provvedimento
è rivolto alla popolazione della Fenicia, ad Oriente dell’Impero, che avevano influssi
endogamici:
a. in parte per via loro cultura;
b. in parte per il contatto con barbari al confine i quali praticavano unioni endogamiche.
Vieta il matrimonio tra zio paterno e nipote e, in questo modo, si ridà titolarità alla
bilateralità del divieto che per lungo tempo questo divieto era stato eliminato (dal
senatoconsulto claudiano del 49 d.C.), salvo essere stato reintrodotto, anche se per un breve
periodo, da Nerva (lo apprendiamo da Cassio Dione).
Notiamo una specifica differenza di genere per quanto riguarda il regime sanzionatorio: il
disposto normativo del 342 prevede:
Solo per l’uomo la capitalis sententia. La lotta all’incesto raggiunge nel IV sec.
l’apice, prevedendo la pena capitale (non c’è più la relegatio) equiparando l’incesto
ad altri crimini (ratto a scopo di matrimonio).
La donna era impunita pro sexus discraetione (in ragione del sesso).
Con Diocleziano, invece, c’era una differenza di genere? Nel disposto normativo di
Diocleziano, non è espressamente prevista ma comunque è presente la differenza di genere
perché, di regola, la donna non è punita per la sua infirmitas, salvo per le ipotesi di incesto
iure gentium.
103
Il provvedimento non si dice nulla sulle conseguenze civili del crimine perché è stato
chiarito che il matrimonio si scioglie per cause naturali (morte del coniuge condannato a
morte)
2. Il secondo provvedimento è una costituzione del 355. Si considera l’incesto dal lato della
sorte dei figli. In particolare, si occupa del divieto di matrimonio tra affini in linea
collaterale (cognati) mai oggetto d’attenzione del legislatore, salvo che nell’Epitome Gaii
del V sec. d.C.
I matrimoni tra cognati passano da una condizione di legalità ad una condizione di asserita e
formale antigiuridicità. Il provvedimento, tuttavia, non statuisce:
nullità delle nozze;
sanzioni personali e afflittive;
sanzioni patrimoniali;
Le conseguenze negative, invece, riguardano i figli:
Perdita della patria potestas;
Illegittimità della prole con ogni conseguenza negativa in ambito successorio.
Nel periodo che va dalla fine del III d.C. alla seconda metà del IV sec., la lotta all’incesto raggiunge
l’apice. Successivamente, ci sarà una legislazione più moderata dell’incesto.
Il rigore della legislazione ci viene testimoniato anche dalla tendenza di escludere il crimen incesti
dalle indulgenze ossia amnistie concesse durante festività civili e religiose perché insieme
all’adulterio e omicidio è un crimine odioso.
Nel 322 Costantino, in occasione della nascita di un nipote, concede l’amnistia generale salvo per
chi si fosse macchiato di:
veneficio
omicidio
adulterio
Ad Occidente, Graziano nel 381 e Valentiniano II nel 385 concedono, in occasione delle festività
pasquali, un’amnistia generale, salvo per chi si fosse macchiato del crimen incesti. Queste
disposizioni non saranno seguite in futuro da Onorio che, in Occidente, interviene con due amnistie
generali (nel 405 e 410) senza escludere i colpevoli di incesto. Nel V sec. d.C. il rigore nel
combattere l’incesto viene superato, a partire da Teodosio I.
Teodosio I (379-395), padre di Onorio e Arcadio, è un generale valoroso nella guerra contro i Goti.
Diventa Imperatore dell’Oriente nel 383, dopo la morte di Graziano. Riconoscerà il credo di
Calcedonia (cristianesimo) contro paganesimo e arianesimo. Con l’editto di Tessalonica riconosce il
cristianesimo come religione di Stato.
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A. Nel novembre 387, Teodosio I con un provvedimento ribadisce il divieto di matrimonio tra
affini in linea collaterale (cognati), oggetto di regolamentazione nel provvedimento del 355
di Costanzo II. Il divieto permane anche se si fosse sciolto il matrimonio che aveva dato
luogo all’affinità.
Nel disposto normativo non sono previste sanzioni. Probabilmente è l’effetto di
un’interpolazione da parte dei compilatori di Giustiniano.
B. Nel 392, Teodosio I interviene con un nuovo provvedimento che si occupa delle esimenti:
ogni relazione instaurata contro le previsioni delle leggi imperiali (unioni vietate, tra cui
l’incesto) può essere oggetto di esimenti. Il provvedimento non introduce nuovi divieti. I
matrimoni vietati sono quelli contratti contra legem e per ottenere l’esenzione dalle sanzioni
occorreva divorziare. La sanzione consisteva nell’esilio, confisca del patrimonio e perdita
della cittadinanza. Le scriminanti per cui si poteva divorziare dovevano essere:
a. L’errore di fatto caduto su circostanze serie e non futili (error acrissimus)
b. Aetatis
i. In caso di senilità, occorreva il divorzio;
ii. In caso di giovane età, occorreva il divorzio al raggiungimento della
maggiore età.
Si riprende il provvedimento di Diocleziano. I due provvedimenti sono accomunati da:
1. divorzio per andare esenti da pena;
2. condono della pena;
Le differenze tra i due provvedimenti sono su:
1. errore
a. In Diocleziano non si precisa la qualità dell’errore (errore di diritto)
b. In questo provvedimento è indicato l’errore di fatto.
Il provvedimento del 392 statuisce una pari responsabilità per l’uomo e per la donna senza una
differenza di genere per i soggetti coinvolti nel crimine.
C’è un altro provvedimento, andato perduto, di Teodosio (emesso tra 387 e 392) ma trasmessoci da
Arcadio nel 396 e Onorio nel 409.
Vengono vietate le nozze tra parenti in linea collaterali di quarto grado (cugini). È il primo
provvedimento che tratta di questo divieto e viene ripreso anche nell’Epitome Gaii. La sanzione
consisteva nella deportatio (esilio perpetuo, perdita della cittadinanza e confisca del patrimonio)
Il provvedimento prevedeva la possibilità per i cugini che avevano contratto matrimonio di
avanzare una supplica all’imperatore, il quale, con un resciptum principis, riconosceva il
matrimonio (per via della presenza dei figli e per la lunga durata del matrimonio.)
105
Lezione 21 del 31 ottobre 2019
Arcadio prende il potere nella parte orientale dell’Impero a 11 anni (verrà assistito prima da Rufino
e poi da Eutropio. Fondamentale è la presenza di Eudossia). Adotta provvedimenti normativa in
materia di incesto:
A. Nel dicembre 396, Arcadio interviene con un provvedimento normativo nel quale dispone
il divieto di matrimonio:
a. parenti in linea collaterale:
i. zio materno/paterno e nipote
ii. cugini (parenti di quarto grado), Secondo quanto apprendiamo
dall’annalistica (Tito Livio, Cicerone e Plutarco), il divieto di matrimonio tra
cugini sussisteva dall’età arcaica fino al III sec. a.C.
b. Affini in linea collaterale
i. Moglie del fratello morto o divorziato (divieto ripreso dal provvedimento di
Costanzo II nel 355)
Non sono previste sanzioni personali afflittive né sanzioni patrimoniali, salvo la confisca
della dote (le conseguenze per chi viola il disposto normativo riguardano diritti reciproci
della coppia).
Si fa attenzione anche alla prole illegittima, nata dall’unione incestuosa. Il matrimonio è
inesistente anche se si richiede divorzio di fatto al fine di allontanare materialmente i
coniugi tra loro. I coniugi iniusti vengono esclusi dalla possibilità di:
trasmettere mortis causa (per testamento o ab intestato)
trasmettere per donazione
né tra loro nè nei confronti dei figli incestuosi.
Colui che si fosse macchiato del crimine, può trasmettere mortis causa:
ai figli legittimi (nati da un precedente o successivo matrimonio giusto e legittimo);
agli ascendenti;
ai collaterali (fratelli)
purché non abbiano agevolato il crimine di incesto. Il disposto normativo equipara l’uomo
e la donna che subiscono la stessa sanzione. Dunque, si esclude la distinzione tra i sessi.
La legge vale anche per il passato con l’effetto che si applica anche alle coppie incestuose
che hanno contratto il vincolo violando i vecchi precetti normativi.
B. A giugno del 405, Arcadio elabora un provvedimento normativo per regolare ad Oriente il
matrimonio tra parenti in linea collaterale (in particolare si occupa del vincolo tra cugini. Si
106
elimina il divieto del matrimonio tra cugini ed introduce un nuovo regime giuridico per i
contraenti:
riconoscimento di legittimità del vincolo
riconoscimento di figli incestuosi
riconoscimento di diritti successori
Si eliminano le pene previste precedentemente formalizzate nel provvedimento del 396.
Nel 395, ad Occidente prende il potere Onorio (395-423). Nel 409, Onorio elabora un
provvedimento di natura speciale nel contesto di una legge generale in materia di matrimonio tra
parenti in linea collaterale.
Questo disposto abolisce la prassi delle dispense che negli anni erano state emesse in favore
matrimoni vietati che, pur violando le leggi di Roma, tendevano ad ottenere la legittimazione;
sebbene la legge non espliciti il divieto di dispense per i matrimoni incestuosi. In particolare, nel
disposto si vietano i matrimoni tra cugini, anche se ad Oriente era permesso.
Onorio riconduce in una situazione di illegittimità i vincoli che negli anni erano stati regolarizzati.
La previsione sanzionatoria è per:
Uomo: esilio perpetuo, confisca del patrimonio e capitis deminutio media.
Donna: non si fa riferimento.
Non c’è equiparazione delle pene tra uomo e donna.
Le conseguenze civili sono la perdita della patria potestas con l’effetto che nascono i figli
incestuosi.
Il matrimonio tra cugini può essere, rispetto ad altre ipotesi incestuose, oggetto di formale
supplicatio (istanza motivata indirizzata al principe) volta ad ottenere una dispensa imperiale di
riconoscimento del vincolo.
Questi interventi legislativi finiscono col produrre:
Un caso di divaricazione legislativa in materia di matrimonio incestuoso (in particolare tra
cugini) Oriente e Occidente:
o In occidente è vietato;
o In oriente è permesso.
Un caso di doppio regime in Occidente. Tutte le dispense per i matrimoni illegittimi sono
vietate ad eccezione della dispensa concessa solo per i matrimoni tra cugini.
Teodosio II, figlio di Arcadio, argina le invasioni degli Unni, tutela l’Impero dai Persiani e lo
ricordiamo come autore del Codice Teodosiano.
107
Nel maggio 415, Teodosio II interviene in materia di matrimoni ribadendo il divieto tra affini in
linea collaterale (fratello e sorella della moglie morta o divorziata). Egli, qualifica questo tipo di
unioni come contubernio con effetti di carattere civilistico:
Perdita della patria potestas;
Illegittimità dei figli con l’incapacità a succedere.
In materia di incesto, interviene da ultimo Zenone Isaurico (474-491) governerà ad Oriente
dell’Impero alla morte di Leone I. Per mano di Basilisco l’usurpatore perde per un anno il potere.
Basilisco interviene sull’incesto e Zenone riprende l’argomento.
1. Nel 475, Zenone interviene al fine di salvaguardare della romanità, perché consentire questo
tipo di unioni significava sovvertire i valori della romanità. Dietro all’intervento di Zenone,
si cela un intento chiarificatore dei dubbi nei processi. Occupandosi di ipotesi di matrimonio
tra affini in linea collaterale, Zenone statuisce che il matrimonio con la cognata è nullo
anche se il vincolo che aveva dato luogo all’affinità (il primo matrimonio giusto e legittimo
con la moglie del fratello) fosse stato semplicemente ratificato ma non consumato. La
mancata consumazione del primo matrimonio non equivaleva alla sua inesistenza, quindi era
di formale ostacolo al nuovo vincolo matrimoniale. Quindi, Zenone nel 475, abroga le
precedenti dispense che profilavano come legittime le nozze tra cognati quando il primo
vincolo non fosse stato consumato.
Il disposto, pertanto, stabilisce le sanzioni previste dall’antico diritto (antiquo iure) di
Costanzo II nel 355, Teodosio I nel 387 e Arcadio nel 396.
2. Dopo la riconquista del potere, tra il 476 e il 477, Zenone interviene perché Basilisco,
nell’anno di interregno, per ingraziarsi il popolo, aveva elargito dispense a tutti i richiedenti,
regolarizzando le nozze incestuose tra parenti in linea collaterale ed affini in linea
collaterale.
Zenone, ripreso il potere, conferma il divieto di nozze tra parenti in linea collaterale e affini
in linea collaterale. Nessuna sanzione è contenuta perché, a parere di Zenone, l’illegittimità
della concessione di Basilisco determina di per se stessa la nullità del matrimonio e la
risoluzione del vincolo matrimoniale.
3. Ultimo provvedimento tra 486 e il 489 (prima della morte avvenuta 491. A Zenone succede
una vecchia guardia di palazzo, Anastasio I). Il provvedimento è diretto al prefetto del
pretorio Basilio contro il matrimonio formalizzato tra parenti in linea collaterale e in
particolare tra zio paterno/materno e nipote. Si stabilisce che per il futuro non sarebbe stata
concessa dispensa e quelle concesse erano nulle. Non ci sono specifiche disposizioni sulle
108
pene personali afflittive perché la legislazione vuole sanzionare attraverso sanzioni
civilistiche o patrimoniali. È l’ultimo provvedimento del Tardo-Antico.
Anastasio I non interviene in materia di incesto. Giustino I torna ad occuparsi di matrimonio ed
incesto.
Una costituzione di Giustino I (tra il 520 e il 523) è diretta a Demostene (prefetto del pretorio che
torna in carica nel settembre-ottobre 529 come prefetto del pretorio) ed è contenuto nel C.I 5.4.23.
(Nel C.I. 5.4.17. c’è la Costituzione di Diocleziano.)
Il provvedimento normativo si colloca in età giustinianea (in cui si sente la suggestione di
Giustiniano). In realtà, il provvedimento è stato materialmente confezionato dallo stesso
Giustiniano. Esso elimina il divieto di matrimonio tra:
senatori e donne sceniche che avevano lasciato la professione;
persone inter pares honestate (appartenenti a classi diverse)
In questo modo, si dà legittimità ai figli e ai loro diritti successori.
In questo contesto di licenze matrimoniali, il disposto normativo accoglie la previsione del formale
divieto delle nozze incestuose. Nel contesto delle dispense, s’inserisce la formale condanna delle
unioni incestuose.
110
confisca della donatio propter nuptias e i relativi frutti per la donna salvo che la l’error iuris
e occorreva inoltre un immediato scioglimento del vincolo matrimoniale.
Confisca integrale dei beni dei coniugi incestuosi in favore del FISCO se mancavano:
figli legittimi;
ascendenti non in vita;
successori legittimi.
Le conseguenze civilistiche del reato d’incesto sono:
matrimonio inesistente
figli illegittimi
perdita della patria potestas
Il coniuge non può donare o trasmettere per eredità nei confronti dei figli incestuosi, ma solo nei
confronti dei figli legittimi (a condizione che non abbiano collaborato nella realizzazione del
crimine) e in loro assenza, gli ascendenti e in loro assenza gli stretti congiunti.
Dal punto di vista processuale, il crimine è imprescrittibile e l’azione è simultanea.
La donna incestuosa è accusata iure extranei e la quaestio servorum in caput domini riguarda solo
l’adulterio salvo nel caso di concorso con l’incesto.
111
da ragioni di carattere strettamente fiscale perché viene sempre prevista come sanzione
patrimoniale per le unioni incestuose la confisca (l’obiettivo sarebbe quello di rimpinguare
le casse dell’erario).
dalla necessità di sistemare la branca privatistica familiare nell’ottica della legislazione
novellare;
dalla necessità di operare una riforma amministrativa periferica con provvedimenti che
avrebbero risistemato la materia familiare.
Giustino II con la Novella 2 del 566 ritornerà in materia di incesto. Dal 542 al 566 non ci sono stati
provvedimenti legislativi in materia di incesto perché il problema dell’incesto era stato arginato
completamente attraverso i ripetuti interventi di Giustiniano. In realtà, si voleva che l’incesto
venisse consumato di nascosto (incesto sommerso). Giustiniano vuole raggiungere degli obiettivi
attraverso la legislazione novellare sull’incesto:
1. uniformare la disciplina in tutto l’Impero;
2. sanare particolarismi abnormi;
3. ridefinire in modo appropriato lo status giuridico dei figli incestuosi;
4. regolare il diritto dei figli incestuosi in modo diverso rispetto al passato.
La produzione legislativa è il frutto di diversi componenti:
A. Componente di carattere culturale: tensioni religiose ed etiche ispirano la legislazione:
religiosa: il cristianesimo avversava questa tipologia di unioni;
etica: perché il matrimonio è stato sempre esogamico.
Ciò spinge Giustiniano ad intervenire con novelle anche se la materia era stata già regolata
nel Corpus Iuris.
B. Componente sociologica: le relazioni incestuose sono disonorevoli non solo per la prole ma
anche per tutto il nucleo familiare. Infatti, sono relazioni caratterizzate dalla lussuria e da
una sessualità smodata.
C. Componente giuridica: le unioni incestuose sono contrarie alla legge (oltre che al diritto
naturale).
Giustiniano, con la legislazione novellare, interviene per difendere il matrimonio romano contro i
diritti allogeni bizantini colpendo l’incesto con misure civili, patrimoniali e personali afflittive.
112
giustifica la portata generale della Novella. La casistica viene omessa perché è già presente nelle
Istituzioni. La novella si occupa:
dello status giuridico della prole;
della fine del matrimonio di chi si macchia del crimine.
La novella distingue le ipotesi di matrimonio incestuoso:
A. Dopo l’entrata in vigore della legge:
a. in assenza di figli legittimi:
i. viene confiscato il patrimonio e la dote.
ii. Uomo e donna vengono puniti allo stesso modo a meno che non intervenga
per la donna l’error iuris (mancata conoscenza della Novella 12). In
particolare, se l’uomo è honestiores perde la carica civile eventualmente
rivestita e viene esiliato.
b. Se l’uomo ha figli legittimi, nati da precedenti o successive nozze giuste e legittime,
non c’è la confisca de patrimonio. Il pater perde la patria potestas e i figli vengono
emancipati patris poena e acquistano i diritti ereditari. C’è l’obbligo agli alimenti
solo per i figli legittimi. I figli incestuosi non partecipano delle sostanze paterne e
della dote.
B. Situazioni in essere alla data di entrata in vigore della legge : il disposto prevede un regime
transitorio di due anni (535-537) che riguarda tre ordini di problemi:
a. Natura giuridica dell’unione: il vincolo è inesistente ma è comunque previsto
l’allontanamento di fatto dei coniugi.
i. I coniugi sono impuniti se prima del 535 c’è stato l’allontanamento di fatto.
ii. Se l’allontanamento di fatto fosse avvenuto tra il 535 e il 537 (durante il
regime transitorio), ci sarebbe stata solo una riduzione della pena.
iii. Se l’allontanamento non ci fosse stato:
1. Per gli honestiores era disposto la confisca del patrimonio e della dote
oltre alla confisca dei beni, alla perdita della carica eventualmente
rivestita e all’esilio.
2. Per gli humiliores erano previste pene corporali.
b. Posizione giuridica dei soggetti di fronte alla pena
I. Impunità se il matrimonio si fosse sciolto prima della legge
II. Riduzione della pena se il matrimonio si fosse sciolto durante il regime
transitorio:
1. Per l’uomo era prevista la confisca di ¼ del patrimonio.
113
2. La donna conserva i beni e la dote.
3. I figli non perdono i diritti ereditari.
III. Se c’è il mancato scioglimento nel vincolo dopo il 537:
1. L’uomo, oltre alla perdita della carica, l’esilio e la confisca del
patrimonio, perde la dote.
2. I figli illegittimi perdono i diritti ereditari sui beni paterni e ogni
aspettativa sulla dote materna.
Lo scioglimento del vincolo matrimoniale durante il regime transitorio comporta una
salvaguardia dei diritti dei figli incestuosi. Se ci sono anche figli legittimi:
a. ¼ del patrimonio viene devoluto al fisco;
b. ¼ del patrimonio viene devoluto ai figli incestuoso;
c. i restanti 2/4 del patrimonio viene devoluto ai figli legittimi.
Il mancato scioglimento del matrimonio nel biennio, comporta che i figli illegittimi
perdono i diritti ereditari sui beni paterni e ogni aspettativa sulla dote materna.
I figli legittimi prendono ¾ del patrimonio, il restante ¼ del patrimonio e la dote
finiscono nelle mani del fisco. I figli hanno l’obbligo di alimenti nei confronti del
padre. Se, invece, mancano i figli, sia il patrimonio sia la dote sono devoluti al fisco.
Con la Novella 12, Giustiniano abroga la confisca dei beni del padre nel loro complesso che non
perde il suo patrimonio a condizione che ci siano figli legittimi, i quali acquistano in nome del fisco.
Quindi, quando si dice che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, s’intendono solo i figli
legittimi.
La novella 12 assolve più una funzione repressiva che una funzione preventiva. La sanzione
disposta dal provvedimento novellare abbraccia conseguenze di:
natura amministrativa: perdita della carica eventualmente ricoperta;
natura patrimoniale: confisca totale o parziale dei beni;
pena personale ed afflittiva: L’imperatore ci parla di:
o exoria (una forma di allontanamento), ma non viene precisata quale forma di esilio
(deportatio, relegatio o semplice allontamento dal domicilio?). Vale solo per gli
honestiores.
o somatos echismòs per gli humiliores, si parla di vere e proprie mutilazioni (non
semplici verberatio). In realtà non è contemplata la pena capitale per gli humiliores e
per gli honestiores, come invece avveniva nel passato. Tuttavia, si passa ad una
legislazione di maggiore rigore determinato dall’influenza del Governatore e dallo
spirito del ritorno al mos maiorum e al fas.
114
Con la novella 12 si assiste ad un progressivo passaggio dalla compilazione (più tollerante) alla
produzione novellare (più severa) anche se:
a. il regime transitorio delinea elementi di una certa indulgenza;
b. non si prevede la pena capitale, a cui era ricorso in passato Costanzo II.
L’uomo e la donna vengono sanzionati allo stesso modo (in linea di principio non c’è il pro sexus
discreatione), ma per la donna era prevista l’esimente dell’error iuris.
Le relazioni extraconiugali
La Lex Iulia de adulteriis coercendis rimane in vigore fino alla riforma di Giustiniano che ne innova
radicalmente il regime. Giustiniano, nell’adulterio non fa valere il pro sexus discreatione: cioè non
valgono più per la donna le eccezioni, le scuse o le attenuanti. La pena per l’adulterio è la relegatio
in insulam, aggravata dalla deportatio nel caso di concorso con l’incesto. Nelle ipotesi di flagranza,
il padre, che avesse la figlia in potestà e avesse scoperto il crimine nella casa familiare, avrebbe
potuto uccidere la figlia a condizione che avesse ucciso anche il complice. Se uno dei due fosse
sopravvissuto, anche contro la volontà del padre, il padre sarebbe stato responsabile ex Lex
Cornelia de sicariis dell’81 a.C. che aveva ridisegnato la fattispecie di omicidio distinguendo tra:
sica: omicidio semplice con il pugnale;
veneficiis: omicidio perpetrato facendo ricorso a sostanze venefiche;
Il padre era condannato all’esilio perpetuo accompagnato dall’interdictio aqua et igni. Se il padre si
fosse macchiato di parricidio, sarebbe stato condannato alla pena del sacco (abolita in età
repubblicana ed introdotta da Augusto).
118
Per quanto riguarda l’adulterio, sia la giurisprudenza sia i disposti normativi prevedevano come
sanzione, l’esilio, la perdita di ½ della dote e di 1/3 del patrimonio della donna. Come ha statuito
Diocleziano; l reato non si estingue con il successivo matrimonio tra gli adulteri (non vale il
matrimonio riparatore).
Papiniano ci riporta la circostanza che se l’uomo violenta la donna sposata, senza la partecipazione
della donna, si esclude la responsabilità della donna così come quando la donna è meretrice. In
questi due casi non vi è adulterio. Nel post-classico la Lex Iulia viene riformata in merito a due
aspetti: la legittimazione all’accusa di adulterio e la repressione del crimine.
Costantino, nel 326, punisce l’adulterio dell’albergatrice (domina) quando commette adulterio
nell’esercizio della sua attività di albergatrice e distingue dall’adulterio commesso:
dalla padrona della taverna cauconica: non può sottrarsi alla pena
l’inserviente non viene punita in ragione dell’aviditas della sua condizione sociale.
Costantino, allo scopo di evitare abusi e falsi, abilita all’accusa di adulterio solo i parenti stretti (in
primis il coniuge), escludendo gli estranei dall’accusa.
Costanzo II acuisce le pene per gli adulteri stabilendo anche limitazioni di carattere processuale a
tutela di chi riporta una condanna facendo divieto d’appello quando questo è palesemente
ingiustificato o meramente dilatorio.
La pena è la relegatio in insulam, che è rimasta fino a Maggiorano il quale nel 459 punirà
l’adulterio per l’uomo commutando la pena nella deportatio.
L’incesto nella legislazione romano barbarica è previsto in:
1. Edictum Teodorici: stabilisce che per l’adulterio è prevista la pena di morte per gli autori
dell’adulterio e anche per i complici che istigano alla fattispecie criminale o offrono
l’abitazione.
2. Lex Romana Burgundiorum: riserva al marito che coglie la moglie in flagrante il potere di
ucciderla.
Giustiniano riforma la Lex Iulia e nella produzione novellare la donna non è impunita, anzi,
assistiamo ad un progressivo inasprimento della pena che da patrimoniali diventano personali
afflittive (nel 536, 546, 556).
1. La Novella del 536 afferma che l’adulterio della donna è punito con il ripudio (perdita della
dote e della donatio ante nuptias)
2. La Novella del 546: l’adulterio della donna è incluso nelle giuste cause di divorzio (perdita
di dote e donatio ante nuptias e sottrazione del suo patrimonio di 1/3 del valore dotale che
confluisce:
in assenza di figli, al marito.
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in presenza di figli, ai figli nati nel matrimonio.
1. Nel 556, l’adulterio è punito in modo più grave con la pena personale afflittiva con la
rasatura dei capelli, perché venisse denunciato il crimine dinanzi agli occhi di tutti e
detenuta per 24 mesi in un monastero lasciando al marito la scelta di riprendersi la moglie
nel biennio. Nel caso, non avviene, la donna rimaneva a vita nel monastero e avrebbe perso
il patrimonio che sarebbe andato:
1/3 al monastero
2/3 ai figli nati durante il patrimonio
In mancanza di figli legittimi, le proporzioni si invertivano:
2/3 al monastero
1/3 agli ascendenti o discendenti diversi dai figli
Se fossero mancati, il patrimonio sarebbe stato devoluto interamente al monastero.
Se l’adultera avesse contratto le nozze con il complice, la donna sarebbe stata internata a vita
nel monastero, senza il periodo del 24 mesi in cui il marito poteva riprendersela, dopo essere
stata percossa e aver perso il patrimonio (che seguiva le regole generali previste poco sopra).
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II. La descrizione del rapporto tra l’imperatrice Marina Severa, moglie di Valentiniano I, e
Giustina;
III. La descrizione delle seconde nozze tra Valentiniano I e Giustina, avvenute senza il
precedente ripudio di Marina Severa. Questo è l’aspetto più interessante perché c’è la
descrizione della legge sulla bigamia.
Socrate scolastico si sofferma sulle vicende familiari della famiglia imperiale, in particolare
all’epoca di Valentiniano II. Valentiniano II era nato da Giustina (era dunque il figlio di un’unione
bigama). Giustina era la figlia di Giusto, magistrato del Piceno. Egli aveva avuto in sogno la
porpora imperiale ed aveva raccontato il suo sogno. Egli venne fatto uccidere da Costanzo II per
evitare l’insorgere di problemi di successioni. Giustina, rimasta orfana, inizia a frequentare
l’imperatrice nei bagni pubblici. Valentiniano I, su indicazione della moglie, sposa Giustina senza
allontanare Severa che già gli aveva dato un figlio, Graziano. Dall’unione con Giustina,
Valentiniano ebbe tre figlie e Valentiniano il Giovane. Valentiniano I fa promulgare una legge che
consente le nozze bigame, in aperta collisione con il principio monogamico alla base del
matrimonio giusto e legittimo.
Dopo una breve parentesi di Giuliano l’Apostata inizia la dinastia dei Valentiniani che sostituì la
discendenza dell’imperatore Costantino. Salito al trono, Valentiniano I resse le sorti dell’Impero a
occidente proclamando come augusto ad Oriente Valente e nominando Graziano (a soli 8 anni)
come augusto nella parte occidentale dell’impero. Come ci riferisce Ammiano Marcellino nelle Res
Gestae (26.5-26.5.1), si viola l’antica tradizione con queste nomine. Questo perché probabilmente
Valentiniano era caduto in uno stato di prostrazione mentale.
La legge di Valentiniano I del 370 avrebbe infranto il principio monogamico a favore di una
bigamia legalizzata serbando un diverso trattamento giuridico tra uomo e donna, riconoscendo solo
all’uomo la possibilità di avere due mogli legittime. Si voleva soddisfare un interesse personale
(quello di sposare Giustina) piuttosto che un interesse di morale familiare. Ci sono state accurate
analisi su questa testimonianza che resta ancora oggi meritevole di attenzione. Anche Cassio Dioro
ci riferisce della legge di Valentiniano in tre distinti passaggi dell’Historia ecclesiastica scolastica:
I. Nascita di Valentiniano II;
II. Frequentazione tra Marina Severa e Giustina;
III. Promulgazione della legge.
Anche Nicefalo Callisto riporta la legge di Valentiniano sulla scia del racconto di Socrate (che
viene considerata fons fontium). Quando Socrate rappresenta i fatti, aveva conosciuto questi fatti
nella famiglia di Valentiniano. Dalle nozze tra Valentiniano e Giustina nascono Giusta, Greta e
Galla e il figlio Valentiniano II.
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Ci sono delle argomentazioni a ragione e a torto della fondatezza del racconto:
A sostegno della fondatezza del racconto possiamo dire che quando scrive, al potere c’era
Teodosio, genero di Valentiniano I, quindi frutto di un rapporto bigamo. Se fosse stata
vietata la bigamia, l’imperatore non sarebbe stato legittimato al potere.
A sostegno della non fondatezza del racconto si può affermare che il cardinale Baronio, nel
1539, usa parole di fuoco contro Socrate scolastico. Afferma che doveva essere soffocata
l’infamia che Valentiniano avesse avuto due mogli ed avesse promulgato una simile legge.
Non si è mai usciti dall’empasse perché vi erano continui contrasti sulla fonte. Si è cercato di uscire
dal binario fondatezza/infondatezza ma bisogna vedere da soli la ricostruzione del libro.
I matrimoni misti
Anche in questo caso si contrappongono il mondo romano e il mondo barbaro. I contatti tra cultura
e mentalità romane e cultura e mentalità barbare comportano conseguenze sul piano pubblicistico e
sul piano privatistico. A riguardo dei matrimoni misti tra romani e barbari, importante è una legge
di Valentiniano I e Valente del 28 maggio 373 che sancisce il divieto di matrimonio tra provinciali
con gentili o barbari. Sulla datazione di questo disposto normativo, considerando che manca la
subscriptio, non è stato molto agevole stabilire con rigore l’anno di approvazione del disposto
normativo.
Parte della romanistica ritiene che il provvedimento risalga al 370 (stesso anno
dell’emanazione della presunta legge sulla bigamia). Gotofredo, sulla scorta delle Res
Gestae di Ammiano Marcellino, ricollega la ratio legis all’insediamento degli Alemanni
nella pianura del Po costringendo l’imperatore ad adottare una disciplina restrittiva sui
matrimoni sempre più frequenti tra romani e donne barbare.
Altra parte della romanistica propende per la datazione del provvedimento per il 373 in
considerazione del perdurare del pericolo alamannico e per l’esigenza di contrastare le
tensioni straniere lungo il confine renano.
Questo provvedimento è contenuto nel C. Th. 3.14.1 e formalizza un divieto assoluto di vincolo
legato a connotazioni di tipo etnico.
Il provvedimento non viene ripreso nel Codex Repetitae Praelectionis ma all’interno della Lex
Romana Wisigothorum. L’interpretatio visigota della legge segnala alcune peculiarità rispetto alla
versione originale:
a. la sostituzione di nullus provincialium con nullus romanorum (romano deve intendersi come
abitante dell’impero)
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b. l’eliminazione del divieto di nozze con i gentili (contadini e soldati). Non c’è più la
distinzione tra barbari e gentili. La locuzione barbaro diventa lemma sufficiente ad
evidenziare il dettato generale della norma;
Si vogliono vietare le unioni tra i romani e tutti gli stranieri (dove per barbaro s’intende lo straniero)
ma, richiamando genericamente “qualunque gente”, formalizza la portata generale della legge da
valere per i romani che vivevano nel regno dei Visigoti e per tutti i visigoti con i quali in romani
non avrebbero potuto unirsi in giuste e legittime nozze.
Erano proprio le popolazioni germaniche, i visigoti, che usavano il termine barbari per distinguersi
dai Romani ma non nell’accezione dispregiativa. Progressivamente il termine barbaro assunse
all’interno dell’impero un’accezione dispregiativa per le crescenti pressioni e per il pericolo di
contaminazione con i principi e per il pericolo di contaminazioni con i principi su cui si fondava la
romanità e dunque il matrimonio romano. Si vuole arginare l’incontro con il diverso per tutelare i
propri principi e valori.
Per il resto, vedere sul libro.
Il concubinato
È l’unione con una donna sposata. Analizzeremo il rapporto tra le fonti ecclesiastiche e il diritto
romano. Sul punto è importante il Canone 17 del Concilio di Toledo del 400. Questo canone
sembrerebbe in controtendenza rispetto al diritto romano e alla posizione dei padri della Chiesa.
Occorre ricostruire la genesi dell’unione di concubinato.
Il diritto biblico/ebraico considera la concubina, la quale assume un ruolo diverso rispetto alla:
moglie a cui è subalterna;
schiava alla quale è superiore.
Il rapporto di concubinato si può sciogliere più facilmente. Il diritto ebraico permette le unioni di
concubinato purché siano finalizzate alla procreazione e quindi non si tratti di un rapporto basato
sull’unione carnale e di piacere. Quindi, le unioni di concubinato si accostano al matrimonio
romano e si basano su un principio diverso, quello poligamico.
Il concubinato non era un’unione che caratterizzava solo i patriarchi ma anche le masse popolari.
Nell’esperienza biblica si ammette il concubinato per via del riconoscimento della poligamia dovuto
a ragioni di carattere economico e procreativo:
le concubine sono meno costose rispetto alle mogli e desta minori contrasti rispetto alla
moglie;
si tengono quando la moglie è sterile;
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s’instaura per ragione del censo, quando per ragioni economiche non è possibile il
matrimonio.
Il diritto romano distingue tra:
a. honor matrimoni e affectio maritalis sono presenti nel matrimonio e assenti nel concubinato;
b. animi destinatio diversa nel concubinato
Il concubinato è un rapporto stabile. Augusto non configura il concubinato in modo esplicito ma
con la Lex Iulia traghetta questa situazione di fatto nell’alveo della liceità. Augusto definisce le
categorie di donne con le quali si poteva intrattenere rapporti solo di concubinato:
schiave;
liberte;
mezzane;
adultere;
condannate in processi pubblici;
prostitute;
donne obscuro loco nate (attrici, gladiatori, tavernieri e donne di età superiore ai 50 anni)
I rapporti di concubinato erano diffusi in tutti i tessuti della società romana. D’altronde, anche gli
imperatori hanno avuto rapporti di concubinato senza che ciò generasse scandalo: Vespasiano ha
intrattenuto una relazione con Tonia, mentre Marco Aurelio ha intrattenuto un rapporto di
concubinato con Fabiola.
La giurisprudenza tollera questi rapporti ma non li regolamenta né in senso positivo né in senso
negativo, li lascia in un cono d’ombra.
Il cristianesimo tenta, in virtù del rapporto di reciproca influenza tra Stato e religione, di arginare le
unioni di concubinato dando solo al matrimonio i crismi dell’ufficialità e il carattere di unione
stabile. Ad un certo punto, diventa interesse anche dell’imperatore regolamentare la fattispecie.
Costantino interviene con quattro costituzioni:
1. Una costituzione del 326 (contenuta nel C.I. 5.26.1) che stabilisce che non è concessa
nessuna licenza agli uomini sposati di avere una concubina;
2. Tre costituzioni del 336 (contenute nel C.Th. 4.6.1, C.Th. 4.6.2, C.Th. 4.6.3)
a. La prima costituzione non ci è pervenuta;
b. Della seconda costituzione ci è pervenuta una parte residuale che condanna le unioni
di concubinato;
c. La terza costituzione vieta ogni forma di elargizione per le concubine o per i figli
nati dal rapporto di concubinato. Qualora ciò fosse avvenuto, era prevista la
restituzione di quanto elargito ai figli legittimi, e in loro assenza agli ascendenti o ai
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fratelli e alle sorelle. In loro assenza, i beni sarebbero stati confiscati. Il soggetto che
avesse operato tali elargizioni veniva sottoposto a tortura e al versamento di 4 volte
l’elargito.
Il genitore non poteva legittimare i figli avuti dalla concubina (per mezzo di un
rescritto o attraverso l’adozione). Chi l’avesse fatto, veniva colpito da infamia e dalla
capitis deminutio media.
Nel 391, Valentiniano, Valente e Graziano modificano la legislazione sul concubinato. Prevedono:
L’elargizione di un’oncia delle sostanze paterne ai figli incestuosi, in presenza di figli
legittimi;
L’elargizione di tre once delle sostanze paterne ai figli incestuosi, in assenza di figli
legittimi.
Nel 397, Arcadio e Onorio ritornano alla legislazione di Costantino.
Alla fine del IV sec, gli imperatori assumono una posizione di condanna nei confronti del
concubinato. Nel corso dei secoli, anche i padri della Chiesa hanno condannato il concubinato.
Ambrogio equipara il concubinato all’adulterio;
Agostino ritiene il concubinato come contrario alla legge di Dio;
San Girolamo ritiene che il concubinato sia fornicazione.
Callisto e Gregorio Magno condannano il concubinato.
Il canone 17 del 400 prevede che:
chi è sposato non può tenere una concubina;
chi non è sposato, può tenere una concubina a fini procreativi (si liberalizza ciò che lo Stato
ha condannato).
In realtà, il canone 17 è specifico della realtà del tempo e prende atto che ci sono donne uguali ad
altre donne agli occhi di Dio ma nonostante questo, per la legge, ci sono donne inferiori ad altre per
via della loro povertà o per altre ragioni. Per questa ragione, non consente le unioni di concubinato.
La Chiesa non ha ancora la forza di imporre un matrimonio parallelo; per questo motivo deve
arrendersi alla legge dello stato.
Giustiniano, nel C.I. 7.15.3.2, stabilisce che si può avere una moglie o una concubina. Tuttavia, nel
rapporto di concubinato si deve rispettare una cultura ultra-millenaria di:
a. limiti di età (gli stessi limiti d’età previsti per il matrimonio giusto e legittimo);
b. principio monogamico;
c. principio esogamico.
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