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V - PERSONE E FAMIGLIA

§ 75 - Premesse
Il diritto delle persone è una delle 3 parti (personae, res e actiones) in cui le Istituzioni di Gaio (e poi le
Istituzioni giustinianee) articolano l’esposizione del diritto privato.

La dottrina moderna pone alla base di ogni discorso sul diritto delle persone la capacità giuridica (=
idoneità ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive) e la capacità di agire (= idoneità ad
operare direttamente nel mondo del diritto, quindi, a compiere atti giuridici). Si tratta di categorie
giuridiche non romane, tuttavia utili per inquadrare la realtà giuridica romana.

Oggi, nel nostro sistema positivo, tutti gli esseri umani hanno “capacità giuridica”, tutti potendo essere
possibili centri di imputazione di diritti e doveri giuridici (anche il pazzo e il fanciullo possono essere
eredi, proprietari). Inoltre, si riconosce la capacità giuridica anche a talune entità consistenti in
organizzazioni di persone e beni cui si dà il nome di persone giuridiche. Per il diritto romano, le cose
stavano diversamente. Innanzitutto, nel linguaggio giuridico, la parola persona era riferita solo a quelle
che noi diciamo “persone fisiche”: anche i Romani riconobbero che certe organizzazioni potessero
essere centri di imputazione di diritti e doveri giuridici, ma non elaborarono mai compiutamente il
fenomeno. Inoltre, anche se tutti gli esseri umani erano personae, non tutte le personae avevano la
capacità giuridica: potevano averla (ma non sempre) le persone libere; non l’avevano mai, in linea di
principio, gli schiavi (servi).

Oggi, la “capacità di agire” presuppone la capacità giuridica ed è riconosciuta a tutti gli esseri umani
intellettualmente capaci (esclusi minori di età e infermi di mente). Anche a Roma la capacità di agire
era riconosciuta alle persone intellettualmente capaci, ma non presupponeva la capacità giuridica: un
pater familias (adulto e sano di mente) aveva capacità giuridica e capacità di agire; schiavi e filii
familias (adulti e sani di mente) avevano capacità di agire ma non capacità giuridica e operavano nel
mondo del diritto con effetti che (talora) si imputavano al dominus o al pater familias. La cessazione
della condizione di filius familias (e con essa l’acquisizione della capacità giuridica) prescindevano
dall’età, essendo era connessa allo status familiae: in particolare, era legata alla cessazione della
“potestà” e alla conseguente acquisizione della condizione di sui iuris.

§ 76 - Nascita e morte
Presupposto di ogni capacità (giuridica o di agire) della persona fisica è l’esistenza: essa ha inizio con la nascita e termina
con la morte. Stabilire se e quando un essere umano sia nato o quale di due coniugi sia premorto all’altro può avere riflessi
patrimoniali anche notevoli: es. in materia ereditaria; per la determinazione dell’acquisto della capacità di agire.

Circa la nascita, si ritenne giuridicamente venuto a esistenza l’essere umano nato vivo, a prescindere dalla circostanza di
essere o meno in condizioni di sopravvivere. In materia ereditaria, solo agli effetti della successione dei postumi, si
considerò il “concepito” come già nato, ma subordinando gli effetti giuridici all’evento della nascita. Sistemi legali di

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registrazione della nascita (da cui poter desumere l’età) furono istituiti solo con Augusto, ma a fini esclusivamente
probatori: le relative risultanze sarebbero state oggetto di “libero apprezzamento” da parte del giudice.

Quanto alla morte, non si ebbero mai sistemi di registrazione ufficiale. Poteva accadere che (per ragion ereditarie o altro)
fosse necessario stabilire chi di due coniugi periti nello stesso frangente fosse morto prima (commorienza dei coniugi).
Tuttavia, rilevava di più giuridicamente il caso della commorienza di padre e figlio. Il criterio legale di prova assunto a
presunzione (per risalire ad un fatto ignoto da un fatto noto) iuris tantum (fino a prova contraria) fu diverso a seconda che
il figlio fosse o meno impubere: se impubere, si riteneva premorto il figlio; diversamente, doveva ritenersi premorto il
padre.

§ 77 - Capacitaà giuridica: dottrina dei tre status (libertatis, civitatis, familiae).


Nel diritto romano, per dire della “capacità giuridica” si può ricorrere allo schema degli status,
proposto dai giuristi romani. La parola status fa riferimento alla posizione giuridica della persona in tre
diversi ambiti:

1 status libertatis, rispetto alla comunità degli uomini liberi;


2 status civitatis, rispetto alla comunità cittadina (= Stato romano);
3 status familiae, rispetto alla familia.

Piena “capacità giuridica” (sui iuris) spettava alla persona che si trovava in una certa posizione rispetto
ai tre status, ossia al contempo, libera, cittadina romana e pater familias (= non soggetta a “potestà”).

Ai sui iuris erano contrapposti gli alieni iuris, persone prive di “capacità giuridica” e soggette ad altrui
“potestà” (dominium, mancipium, patria potestas, manus).

§ 78 - “Status libertatis”. Liberi e servi


Il possesso dello status libertatis era la prima condizione per poter godere a Roma della capacità
giuridica. La summa divisio de iure personarum (Gaio 1.9) consiste proprio nella distinzione tra liberi e
schiavi: ad avere capacità giuridica potevano essere soltanto i liberi, gli schiavi fondamentalmente no.

La schiavitù è istituto antico del diritto romano (noto già alle XII Tavole): verosimilmente non originario, ma
antico. La diffusione su larga scala a Roma della schiavitù è legata al succedersi delle guerre vittoriose e alla
conseguente cattura di schiere sempre più numerose di prigionieri (i quali, come era uso generale del mondo
antico, venivano ridotti in schiavitù).

La schiavitù è istituto del ius civile: lo schiavo era oggetto di dominium ex iure Quiritium (classificato tra
le res mancipi). Tuttavia, la considerazione che la schiavitù esisteva presso tutti i popoli del mondo
antico spinse i giuristi ad includerla nel ius gentium (non anche, secondo Ulpiano, nel ius naturale).

Liberi si nasceva o si diventava: nascevano liberi i nati da madre libera (ingenui); diventavano liberi
gli schiavi liberati (liberti) o che comunque acquistavano la libertà.

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Schiavi si nasceva o si diventava: nascevano schiavi i nati da madre schiava (con la crescita della
potenza della res publica romana ed essendo presenti a Roma decine e, poi, centinaia di migliaia di
schiavi, questa fonte di schiavitù divenne la causa di servitù più comune e più ricca); diventavano
schiavi i captivi. Coloro che fossero stati catturati in guerra (captivitas = prigionia), per regola diffusa
nel mondo antico, perdeva la libertà e diventava schiava (a Roma, un’autorità pubblica provvedeva alla
vendita dei captivi, affinché i nuovi schiavi cadessero in proprietà dei privati).

La regola per cui con la captivitas si perdeva la libertà valeva sia per i nemici catturati dai Romani, sia per i
Romani catturati dai nemici. Tuttavia, i Romani mal tolleravano che chi avesse goduto della cittadinanza
romana fosse poi schiavo in patria: il cittadino romano catturato e divenuto schiavo, una volta tornato in
patria, riacquistava libertà e cittadinanza (ius postliminii), venendo anche reintegrato nella sua posizione
personale e patrimoniale precedente la cattura (poteva tornare a convivere more uxorio con il coniuge di
prima per reciproca affectio maritalis, ma ciò veniva considerato come un nuovo matrimonio; rientrava in
possesso delle cose già possedute, ma iniziava per esse un nuovo possesso).

L’istituto diede luogo a complessi problemi, in relazione alla sorte dei rapporti giuridici facenti capo alla
persona (già civis) che viveva in schiavitù in terra straniera: nell’incertezza del ritorno, quei rapporti furono
considerati ius pendenti, che si sarebbe risolto con il ritorno in patria o con la morte in schiavitù (per
l’amministrazione dei beni del captivus, il magistrato nominava talvolta un curator).

Una lex Cornelia (al tempo di Silla) stabilì che per il romano captivus che fosse morto in prigionia si
considerasse “come se” questi fosse morto al tempo della cattura, facendo retroagire l’evento della morte
all’ultimo istante della sua condizione di libero e potendosi così dar luogo alla successione ereditaria
(altrimenti impossibile: uno schiavo non poteva avere eredi): se il captivus, prima della cattura, aveva fatto
testamento, diventava possibile aprire la successione ex testamento.

Nascita da madre schiava e captivitas furono le cause di schiavitù più rilevanti e significative, ma non le
sole. In età postclassica, fu consentita e regolamentata la vendita dei figli ancora neonati, che
diventavano schiavi del compratore. Si dava, però, ai genitori possibilità del “riscatto”, al fine di
restituire il figlio alla condizione di libertà (Giustiniano limitò la facoltà dei genitori di vendere i propri
figli ai soli casi di estrema indigenza).

In età arcaica (non più da età preclassica) il debitore insolvente sottoposto a legis actio per manus iniectionem
poteva essere venduto come schiavo fuori Roma (trans Tiberim). Analogamente, era prevista la vendita come
schiavi, ad opera di autorità pubbliche, dei cives che avessero violato taluni precetti di natura pubblicistica:
incensi (= cives sottrattisi agli obblighi connessi alla redazione delle liste del censo), infrequentes (= cives
sottrattisi alla leva militare) e disertori.

Talvolta, il cittadino romano poteva diventare schiavo in patria: il fur manifestus, fatto fustigare dal magistrato e
addictus al derubato, diventava suo schiavo; diventavano, altresì, schiavi (per effetto di capitis deminutio
maxima) i condannati a morte e i condannati ai lavori forzati in miniera (in metallum).

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gli ex schiavi che, essendo in condizione di peregrini dediticii (= stranieri appartenenti a popolazioni private
della loro civitas in quanto vinte e arrese al popolo romano), fossero rientrati a Roma o in luogo distante meno
di 100 miglia, potevano essere nuovamente ridotti in servitù e venduti come schiavi dal magistrato. Altra ipotesi
di ritorno in schiavitù è quella della revocatio in servitutem del liberto ingrato (per violazione dei doveri verso il
patronus).

L’editto pretorio negava la vindicatio in libertatem all’uomo libero maggiore di 20 anni che, simulandosi servo,
si era fatto vendere come schiavo per poi dividere il prezzo col venditore: in punto di diritto, la persona libera
restava tale, ma in punto di fatto sarebbe vissuta “come schiavo” (nel tardo diritto classico, si ritenne che il
simulatore divenisse servo a tutti gli effetti, non tanto iure pretorio ma direttamente iure civili).

Per un senatoconsulto Claudiano del 54 d.C., la donna libera che intratteneva una relazione sessuale con uno schiavo
altrui, ripetutamente e inutilmente diffidata dal dominus del servo a troncare la relazione, diventava schiava dello stesso
dominus.

§ 79 - Le condizioni sociali e giuridiche dei servi


Le condizioni sociali. Le condizioni di vita degli schiavi a Roma non erano dapprima particolarmente dure: i servi
non erano molti in rapporto al resto della popolazione, le famiglie più abbienti ne possedevano pochi,
appartenenti alle popolazioni italiche, culturalmente affini ai Romani. Si integravano bene, pertanto, nella
famiglia: insieme ai figli e agli altri familiari, collaboravano col dominus nei lavori domestici, nei campi e nelle
altre attività nelle quali la familia (dall’osco, famul = schiavo) fosse eventualmente impegnata.

Con la crescita della potenza di Roma e la conseguente espansione territoriale, mutate le basi dell’economia e
accentratesi enormi ricchezze nelle mani di pochi, il rapporto tra il dominus e il suo servo finì per subire, in
generale, profondi mutamenti. Non fu raro il caso di famiglie che possedessero centinaia di schiavi, provenienti
in massima parte da paesi extra-italici, gente per lo più appartenente a civiltà meno sviluppate o comunque
assai diverse da quella romana. Le condizioni di vita della maggior parte dei servi divennero pertanto assai dure.
Venivano solitamente impiegati nei lavori più faticosi: nelle miniere o nei lavori agricoli dei vasti possedimenti
dei loro padroni, in ogni caso sotto severa sorveglianza. Le schiave (ancillae) erano molto spesso sfruttate come
prostitute. Solo una minoranza di servi stava nell’abitazione stessa del proprietario. Tuttavia, accadeva che ad
alcuni tra i più capaci culturalmente (per lo più provenienti da paesi appartenenti alle civiltà ellenistiche) si
affidassero mansioni più delicate (maestri, segretari, amministratori) o che si preponessero al comando di navi
(magistri navis) o alla gestione di imprese commerciali (institores).

Durante il Basso Impero, si andò riducendo il canale di reclutamento dei servi rappresentato dalla prigionia di guerra.
Inoltre, se da un lato, la nuova dottrina cristiana incoraggiava i domini a liberare i propri schiavi, dall’altro, si formò una
nuova categoria di individui in posizione di dipendenza personale (i coloni), per cui il lavoro servile subì la concorrenza di
quello libero.

Le condizioni giuridiche. All’inizio, la posizione giuridica dei servi, finché il dominus fosse stato in vita,
non era troppo dissimile a quella dei filii familias (con la differenza che, alla morte del pater familias, i
filii diventavano sui iuris e acquistavano la capacità giuridica, mentre i servi restavano tali, sotto il
dominium degli eredi).

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Con la crescita della società romana, l’opera di riflessione giuridica comportò una più netta
caratterizzazione della posizione giuridica dei servi, differenziandoli più specificamente dagli altri
soggetti alieni iuris della famiglia. Nella considerazione dei giuristi la posizione dei servi era complessa.
Dal momento che Gaio distingueva il ius a seconda che riguardasse personae, res e actiones, vien fatto
di pensare che se una entità era una res non era una persona (e viceversa). Invece, i servi, in quanto
esseri umani, erano fatti rientrare fra le personae; ma in quanto possibili oggetti di proprietà o di altri
diritti soggettivi, erano res (res mancipi). Le unioni, anche stabili, tra schiavi non avevano alcun rilievo
per il diritto (non si parlava di matrimonium ma di contubernium). Né avevano rilievo giuridico i vincoli
tra genitori e figli e tantomeno i vincoli di sangue tra congiunti. Di qui, il potere dei proprietari di
separare le famiglie servili di fatto costituite.

I servi erano soggetti alieni iuris, assoggettati alla “potestà” del proprietario (dominus), nell’ambito del
dominium ex iure Quiritium: il dominus esercitava un “potere assoluto”, come su ogni cosa propria:
anche il diritto di vita e di morte (ius vitae ac necis).

La considerazione dei servi come personae e insieme ragioni umanitarie (ispirate dallo Stoicismo prima e dalla dottrina
cristiana poi) suggerirono temperamenti alla considerazione dei servi come res e al potere personale dei domini. Si
considerò locus religiosus il luogo della sepoltura, non distinguendo se ad esservi sepolto fosse un uomo libero o uno
schiavo. Se già le XII Tavole, consideravano iniuria anche l’offesa ad un servo, una lex Cornelia de sicariis (81 a.C.) punì in
sede criminale l’uccisione del servo altrui, alla stregua dell’uccisione dell’uomo libero. Quanto al potere personale dei
domini, già in età repubblicana i censori intervenivano per reprimere gli abusi più gravi. In ogni caso, una lex Petronia (ai
tempi del principato) vietò l’esposizione ingiustificata dei servi alle belve per gli spettacoli del circo. Un editto
dell’imperatore Claudio stabilì che lo schiavo infermo abbandonato dal dominus acquistasse la libertà. L’imperatore
Antonino Pio stabilì che il dominus che senza plausibili motivi avesse maltrattato il servo potesse, con intervento extra-
ordinem essere costretto a venderlo. Costantino vietò la separazione delle famiglie servili. Giustiniano riconobbe a fini
successori la parentela (cognatio) costituitasi durante lo stato di servitù.

In quanto alieni iuris, i servi erano privi di “capacità giuridica”: non potevano essere titolari di alcun
diritto soggettivo o potestà (ma, d’altra parte, nemmeno alcun obbligo giuridico).

Certo, per il diritto e il processo criminale, il servo era giuridicamente capace: poteva essere chiamato a testimoniare (e
spesso sottoposto a tortura); un suo comportamento illecito (crimen), era perseguito e punito con pene assai severe (la
crocifissione, era una pena atroce e infamante che si infliggeva soprattutto agli schiavi).

Quanto ai rapporti patrimoniali: benché privo di “capacità giuridica”, si consentì di dare rilevanza
giuridica a certi comportamenti del servo: si ammise che la sua attività potesse migliorare (ma non
peggiorare) la posizione giuridico-patrimoniale del dominus, riconoscendogli una (limitata) “capacità di
agire”. Risale ad età arcaica il principio per cui i servi fungevano da “organo di acquisto” del dominus:
pur incapaci di avere diritti propri, partecipavano validamente a negozi che comportavano acquisto di
diritti soggettivi, essendo ammessi alla mancipatio (nel ruolo di mancipio accipiens), alla traditio (nel
ruolo di accipiente) e alla stipulatio (nel ruolo di stipulante), ma non anche in iure cessio (neppure nel

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ruolo di cessionario): solo che ad acquistare ogni volta la proprietà, il credito ecc. non era il servo, che
pure era stato parte nel negozio, ma il suo dominus.

Per quanto riguarda l’acquisto del “possesso” da parte del servo, il dominus sarebbe diventato
direttamente il possessore, ma solo se l’atto d’acquisto avesse avuto luogo sciente domino o ex causa
peculiari (al servo, ad ogni modo, sarebbe stata riconosciuta la possessio naturalis).

Regole speciali valevano per lo “schiavo in usufrutto” (servus fructuarius) o lo “schiavo posseduto in buona fede a non
domino”: egli acquistava, rispettivamente, all’usufruttuario e al possessore di buona fede se l’acquisto aveva luogo ex re
fructuarii oppure ex re possessoris o anche ex operis suis; per ogni altra causa, l’acquisto andava al dominus.

L’eredità devoluta al servo ex testamento andava in ogni caso al dominus (ma il servo doveva compiere
l’atto di accettazione, che era valido solo se iussu domini).

Le azioni nossali. Nel diritto arcaico, in caso di delicta commessi dal servo “altrui”, la vittima poteva
esercitare “vendetta” direttamente contro il servo, impossessandosene o anche solo infliggendo una
pena corporale (salva la facoltà del dominus di evitare ciò con il pagamento di una pena pecuniaria). Il
principio, che apparteneva al sistema del processo privato, dava luogo al regime delle “azioni nossali”
(noxa = danno): lo schiavo colpevole, liberato dal dominus “prima” dell’esercizio dell’azione, era
direttamente perseguibile dal terzo con la normale actio poenalis (denotando così il riconoscimento
d’una sorta di “responsabilità penale” del servo).

§ 80 - Il peculio e le obbligazioni naturali


Gli atti leciti diversi da quelli d’acquisto (= gli atti di disposizione e i negozi di assunzione di debiti), se
compiuti da schiavi, avrebbero dovuto essere del tutto inefficaci: se il servo non era proprietario di
nulla, di nulla poteva disporre; privo della “capacità giuridica”, non poteva obbligare se stesso (né
poteva peggiorare la situazione patrimoniale del dominus: nessun negozio da lui compiuto avrebbe
potuto generare obligationes a carico dello stesso dominus).

Già da epoca arcaica, tuttavia, era prassi concedere ai servi (e ai filii familias) la disponibilità di un
peculium: dapprima un gruzzoletto di denaro (possibilmente quello stesso che i servi si erano
guadagnati col lavoro o con qualche piccola occasionale attività commerciale), più avanti anche schiavi
(servi vicarii) e persino immobili. Essendo privi di “capacità giuridica” ma dotati di una seppur parziale
“capacità di agire”, i servi (e anche i filii) non potevano disporre di beni propri ma potevano porre in
essere atti giuridicamente rilevanti (con effetti direttamente imputabili alla sfera giuridica dell'avente
potestà). “Proprietario” del peculio era e restava il dominus, essendo salva la facoltà del dominus di
revocare il peculio, in ogni momento (ademptio peculii), ma si ammise presto, per dare significato
pratico al peculio e in deroga al principio di inefficacia degli atti di disposizione posti in essere dai servi
(e dai filii), la possibilità (purché “a titolo oneroso”) di trasferire il “possesso” delle res peculiares (e
anche la “proprietà”, nel caso si trattasse di res nec mancipi).

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In sostanza, i servi che avevano un peculio potevano con esso trafficare con i terzi (ed eventualmente,
anche con il dominus). Potevano spenderlo (oltre che accrescerlo), il che implicava la possibilità di
onorare gli impegni assunti. Di qui, il riconoscimento per i servi della possibilità di adempiere gli
obblighi assunti con atto lecito.

Ciò anche se i terzi mai avrebbero potuto costringerli all’adempimento ( i servi non stavano in giudizio;
il dominus non rispondeva iure civili dei loro obblighi). D’altro canto, proprio perché il dominus non
rispondeva degli obblighi del proprio servo, ne derivava anche la negazione al dominus del diritto di
pretendere dal terzo la restituzione di quanto lo schiavo avesse dato in adempimento di un proprio
obbligo. In pratica, venne riconosciuto, in età classica, la possibilità per il servo di assumere
obligationes da atto lecito, sebbene di un tipo particolare (obligationes naturales): a differenza delle
obligationes civiles, esse non davano luogo ad actiones (il creditore non poteva, con un’actio in
personam, convenire il servo-debitore in giudizio); d’altro canto, sebbene il creditore non potesse
costringere il servo (e neppure il dominus) ad adempiere, restava ferma la possibilità di trattenere
quanto ricevuto in adempimento (solutum), determinandosi così l’effetto comunemente detto soluti
retentio.

§ 81 - Le azioni adiettizie
Con la crescita dell’economia romana, l’esigenza di utilizzare i servi nella gestione degli affari del
dominus fu avvertita con sempre maggiore intensità. Bisognava, però, che i terzi potessero fare “pieno
affidamento” sul fatto che il servo onorasse gli impegni presi, essendo insufficiente la disponibilità del
peculio (peraltro solo eventuale): non si poteva pretendere che i terzi dovessero contare solo sullo
“spontaneo adempimento” da parte dello schiavo; occorreva disporre di strumenti giudiziari per
garantire l’adempimento.

A ciò provvide il pretore: non in termini generali, ma per situazioni determinate nelle quali il dominus
in via preliminare si fosse assunto esplicitamente (o si potesse presumere) la “responsabilità” delle
operazioni finanziarie compiute dal proprio servo. Il pretore, a partire dal II sec. a.C., promise nel
proprio editto che avrebbe dato ai terzi, creditori da atto lecito di un servo altrui, talune actiones
contro il dominus. Le actiones adiecticiae qualitatis ipotizzavano una “responsabilità aggiuntiva” del
dominus (sanzionata da actio), in aggiunta alla “responsabilità naturale” del servo. Erano azioni
adiettizie: l’actio quod iussu, l’actio exercitoria, l’actio institoria, l’actio de peculio et de in rem verso
(ad esse può essere accostata l’actio tributoria). Nelle prime tre, il dominus rispondeva dell’intero
debito contratto dallo schiavo; nelle altre, la sua responsabilità non andava oltre certi limiti. Ad
eccezione dell’actio tributoria, si trattava delle stesse azioni proprie del rapporto contratto dallo
schiavo, “adattate” però alla fattispecie (“azioni pretorie”, utiles con trasposizione di soggetto:
nell’intentio era indicato quale debitore il servo; la condemnatio era contro il dominus).

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actio quod iussu 98 presupponeva che l’impegno del servo nei confronti del terzo fosse stato
assunto a seguito di “autorizzazione” (iussum) di negoziare col servo, concessa dal dominus al terzo
(che l’aveva preventivamente richiesta), assumendo così il dominus ogni responsabilità.

actio exercitoria presupponeva un dominus che fosse un exercitor navis (= armatore) e che avesse
affidato la gestione e l’amministrazione della nave ad un proprio schiavo, preponendolo ad essa quale
magister navis: per i debiti contratti dal servo nell’ambito dell’incarico, i creditori potevano agire
contro il dominus.

actio institoria 95 – 96 Il dominus poteva preporre il servo ad un settore di attività economica quale
institor (= direttore, sorvegliante): rispondeva, allora, dei debiti contratti da questi nell’espletamento
dei compiti affidatigli.

actio de peculio et de in rem verso 99 – 100 -101 si caratterizzava per l’esistenza, nella formula, di
due taxationes: 1) de peculio, presupponeva che il servo avesse un “peculio” e per essa la
responsabilità del dominus non andava oltre il valore del peculio stesso; 2) de in rem verso,
presupponeva un “arricchimento” del dominus, per cui il dominus, mancando o risultando
insufficiente il peculio, rispondeva dei debiti contratti dal servo nei limiti di quanto si fosse
concretamente avvantaggiato in dipendenza dell’obbligazione assunta.

Si rendeva necessario procedere ad una “stima” del peculio, calcolato “al netto dei debiti che il servo avesse
verso il dominus” (sicché questi, rispetto al proprio servo era considerato alla stregua di un “creditore
privilegiato”). I terzi creditori, dal canto loro, venivano soddisfatti man mano che promuovevano l’azione:
esaurito il peculio e l’arricchimento conseguito dal dominus, i creditori ritardatari restavano insoddisfatti.

Anche l’actio tributoria 97 presupponeva un peculio. Ulteriori presupposti erano: che il servo avesse
compiuto negozi e assunto obbligazioni in ordine a beni peculiari affidatigli dal dominus perché ne
commerciasse (merces peculiares); che i terzi creditori, avendo fondate ragioni di temere un dissesto
finanziario del servo, si fossero rivolti al pretore e questi avesse disposto un invito al dominus di
procedere alla ripartizione dell’importo delle merci peculiari tra i creditori, attribuendo ad essi, se le
merci non bastavano, una quota proporzionale al credito di ciascuno (e partecipando anch’egli al
riparto proporzionale al credito di ciascuno, sullo stesso piano degli altri creditori, realizzando così la
par condicio dei terzi creditori tra di loro e di essi con il dominus).

L’actio tributoria (“azione pretoria”, in factum) era un’azione di per sé non adiettizia: veniva presa in
considerazione la sola responsabilità del dominus che aveva proceduto alla spartizione e poteva essere
esperita (direttamente contro il dominus) dai creditori che lamentassero di aver avuto
fraudolentemente una quota minore rispetto a quanto dovuto.

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§ 82 - Le azioni di libertaà (causae liberales)
Lo status libertatis poteva essere oggetto di contestazione: poteva darsi che si assumesse libero chi
viveva come schiavo o che si assumesse schiavo chi viveva come libero (es. questioni del genere
potevano sorgere in relazione all’asserito scambio, sottrazione o abbandono di neonati, in base a ius
exponendi).

Lo ius exponendi era una facoltà del pater familias (ma era costume ampiamente diffusa nel mondo antico)
che consisteva nell'abbandono dei figli appena nati in un luogo pubblico, condannandoli alla morte o al
recupero da parte di un terzo. L'origine di quest'abitudine si lega ai caratteri di una società arcaica,
tendenzialmente rurale, che considerava la prole come manodopera (e fonte di sopravvivenza). I nati
malformati anche se fossero sopravvissuti dopo la nascita, sarebbero stati una spesa considerata
inaccettabile. Per la stessa ragione le vittime più frequenti dell'esposizione erano le figlie femmine
(soprattutto le non primogenite), le quali si riteneva che non potessero offrire la forza lavoro di un maschio e,
oltre alle spese per il mantenimento, richiedevano anche una dote matrimoniale.

Nel diritto romano, chi abbandonava il figlio, ossia l'espositore, perdeva ogni diritto sull'esposto (= perdeva la
patria potestas), mentre il ritrovatore era libero di determinarne lo status di libero (sottoposto a potestà) o di
schiavo.

Si istituiva allora un “processo di libertà” (causa liberalis), che poteva essere una vindicatio in
libertatem (ex servitute) 107 nel caso del “libero” che viveva come schiavo (praeiudicium) o una
vindicatio in servitutem (ex libertate) 3 nel caso dello “schiavo” che viveva come libero.

Il rito adottato fu dapprima la legis actio sacramenti in rem, con sacramentum fissato in 50 assi (limite
stabilito dalle XII Tavole, per non onerare eccessivamente l’adsertor in libertatem) e decisione affidata
ai decemviri stlitibus iudicandis (= magistrati competenti per le causae liberales, eletti annualmente dai
comitia tributa).

Nel processo formulare, si adottavano formule ricalcate su quella della rei vindicatio (con clausola
restitutoria e condanna pecuniaria) e a giudicare venivano chiamati i recuperatores (= collegio di
arbitrale).

Durante l’età classica, risulta anche una concorrente competenza extra ordinem dei consoli e poi del praetor de
liberalibus causis.

Durante il corso della lite, il soggetto sul cui status si disputava sarebbe vissuto “come libero”: questi,
in effetti, non era soggetto della lite, ma “oggetto”. Per questo stesso motivo, ad essere parte in
giudizio, in rappresentanza (come attore nella vindicatio in libertatem o come convenuto nella
vindicatio in servitutem) degli interessi della persona il cui status era contestato, era la figura
dell’adsertor in libertatem: la lite si svolgeva tra l’adsertor e il (preteso) dominus (il servo non aveva

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capacità di stare in giudizio; peraltro, lo status di libero o di servo della persona, di cui si disputava,
sarebbe rimasto incerto fino alla sentenza).

Il fatto che per l’istituzione della causa libertatis occorresse la disponibilità di un cittadino a sostenere il ruolo dell’adsertor
poteva, per indisponibilità di adsertores, essere di ostacolo all’instaurazione della causa. Con Giustiniano il problema fu
risolto alla radice: venne abolita la figura dell’adsertor, per cui ogni interessato (libero o servo) poteva litigare
personalmente pro sua libertate.

Una singolarità delle causae liberales era la ripetibilità della lite (quella iniziata contro persona che
viveva come libera: vindicatio in servitutem, quando si fosse conclusa nel senso della servitù).

§ 83 - La manumissio e gli altri modi di acquisto della libertaà


La cessazione dello stato di servitù era determinata da un atto di “affrancazione” (manumissio), che
poteva essere validamente compiuto solo dal dominus.

Per il ius civile esistevano 3 tipi di manumissio: la manumissio vindicta, la manumissio censu e la
manumissio testamento. Con esse il servo acquistava, al contempo, libertà e cittadinanza.

Manumissio vindicta. Negozio formale e solenne (actus legitimus = che non tollerava condizioni o
termini), le sue origini sono assai remote nel tempo. Il rito (un sorta di in iure cessio) si svolgeva
dinnanzi al magistrato (in iure), presenti il dominus e lo schiavo: si trattava di una “finta” vindicatio in
libertatem, in cui interveniva un adsertor in libertatem, dichiarando libero il servo e toccandolo con
una bacchetta (festuca o vindicta, da cui il nome dell’atto); di fronte alla non opposizione del dominus,
il magistrato pronunciava l’addictio (secundum libertatem) del servo, il quale il tal modo acquistava la
libertà.

Nel corso del tempo, l’atto andò semplificandosi. Si continuò a chiedere la presenza del magistrato, ma si ammise che
potesse compiersi anche al di fuori della sede dell’ufficio del magistrato; se del caso, persino in strada ( in transitu). Venne
ridotta, infine, ad una semplice dichiarazione della volontà di affrancare il servo, resa dal dominus al magistrato, e
rappresentò, ancora nel diritto giustinianeo, il principale atto inter vivos per la liberazione degli schiavi.

Manumissio censu. Atto inter vivos, anch’essa molto antica, ma assai meno praticata. Vi si poteva
ricorrere in occasione delle operazioni di redazione della lista del censo (in funzione della
composizione delle assemblee popolari: comitia centuriata e comitia tributa) effettuate dal censore
ogni 5 anni (lustrum). Si realizzava con l’iscrizione del servo, ad opera del censore, nelle liste del censo
(= tra i cives Romani), dietro autorizzazione (iussum) del dominus, verosimilmente espressa con parole
solenni. Ne è testimoniata la vigenza sino ad età classica avanzata (sebbene fossero ormai venuti
meno sia la magistratura censoria sia il sistema comiziale che ne costituiva il presupposto).

Manumissio testamento. Atto mortis causa, presupposto nelle XII Tavole, era la forma più diffusa (i
padroni erano più restii a rinunziare ai propri servi in vita che per il tempo dopo la propria morte). In
quanto disposizione testamentaria, aveva efficacia “dopo la morte del testatore”. Doveva essere
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disposta in forma imperativa (Stichus servus meus liber esto). Ad essa potevano essere apposte
“condizioni sospensive” e “termini iniziali” (in pendenza, il servo manomesso era detto statuliber).

Le manumissioni pretorie. Dall’ultima età repubblicana, si usò affrancare i servi anche in forme
diverse da quelle previste dal ius civile (inter amicos = con dichiarazione informale resa dal dominus a
persone appartenenti ad una determinata e circoscritta cerchia di amici; per epistulam = per iscritto,
con semplice lettera).

Trattandosi di forme non riconosciute dal ius civile, i manomessi non acquistavano la libertà. Tuttavia,
il pretore interveniva a tutela della “libertà di fatto”, denegando al dominus un’eventuale vindicatio in
servitutem. In pratica, sarebbero vissuti “come liberi”.

La lex Iunia Norbana (19 d.C.), nel disciplinare tali affrancazioni non solenni, parificò gli schiavi così
affrancati ai Latini coloniarii (= liberi ma non cittadini romani). La giurisprudenza parlò, al riguardo, di
Latini Iuniani. Infine, Giustiniano li equiparò ai manomessi nelle forme civili.(*)

La manumissione fedecommissaria. Si trattava di una manumissione “indiretta”: dopo che fu


conferita da Augusto efficacia ai fedecommessi di libertà, se il testatore avesse fatto carico di
manomettere un servo, sull’erede (o altro onerato) veniva a gravare un obbligo di procedere alla
manumissio (in uno dei tipi riconosciuti inter vivos). In caso di rifiuto, l’onerato avrebbe potuto esservi
costretto extra ordinem (dal console prima, dal praetor fideicommissarius, poi).

Per effetto di senatoconsulti e costituzioni imperiali, si ammise che l’organo giudiziario potesse, persistendo il
rifiuto, attribuire direttamente la libertà allo schiavo (con sentenza “costitutiva”). Ad avviare e condurre la
procedura sarebbe stato legittimato lo stesso schiavo manomesso (che si vedeva così riconosciuta una del tutto
eccezionale capacità di stare in giudizio, seppure nell’ambito della cognitio extra ordinem).

L’omessa manumissione fedecommissaria era sanzionata: il dominus non poteva diventare patronus.

Il fenomeno dei servi manomessi che divenivano liberi e cittadini romani (nelle forme civili) aveva
assunto al tempo di Augusto proporzioni preoccupanti: si temette un “inquinamento” della compagine
statale, per l’immissione quali cives di un eccessivo numero di schiavi liberati. Pertanto:

la lex Fufia Caninia (del 2 d.C.) riguardò le manumissioni testamento, ponendo un limite % (variabile
in rapporto al numero dei servi in proprietà del testatore); inoltre, la manumissio andava disposta
nominatim, indicando uno per uno gli schiavi che si intendevano affrancare. Le manumissioni in
violazione della legge erano nulle.

la lex Aelia Sentia (del 4 d.C.) si riferì a manumissioni mortis causa e manumissioni inter vivos
stabilendo:

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che non potessero essere manomessi gli schiavi di condotta turpe (e se manomessi, diventassero
liberi, ma non cittadini romani, in una condizione simile a quella dei peregrini dediticii = con divieto di
soggiorno entro un raggio di 100 miglia dalla città di Roma, pena la vendita come schiavi, ad opera del
magistrato);

il divieto di manomettere gli schiavi in frode ai creditori, a pena di nullità;

che le manumissioni compiute dai minori di 20 anni e le manumissioni di servi di età inferiore ai 30
anni dovessero aver luogo con manumissio vindicta e indicazione di una iusta causa manumissionis
(valutata da un consilium di cittadini presieduto dal magistrato competente per la manumissio
vindicta).

In caso di violazione della legge:

le manumissioni compiute dai minori di 20 anni erano nulle,

le manomissioni di servi di età inferiore ai 30 anni erano valide, ma il manomesso acquistava lo status
di “manomesso nelle forme pretorie” (Latini Iuniani = liberi ma non cittadini romani).

§ 84 - I liberti
Gli schiavi liberati (liberti) acquistavano libertà e cittadinanza romana; inoltre, non ricadendo sotto la
potestas di alcuno diventavano anche sui iuris, acquistando, così, la piena “capacità giuridica”.

A differenza degli ingenui, gli schiavi liberati oltre ad essere esclusi dalle cariche pubbliche, soffrivano di una minore
considerazione sociale, essendo esclusi dall’esercizio di alcune attività professionali ritenute proprie degli ingenui (artes
liberales: avvocatura, agrimensura); i liberti erano solitamente artigiani, piccoli commercianti, medici, insegnanti,
amministratori e segretari di case private.

Il dominus assumeva rispetto ai servi affrancati la qualifica di patronus, con conseguente ius
patronatus: si trattava di una “potestà” trasmissibile ai discendenti (fossero o meno eredi) che
comportava dei poteri per il patrono e una posizione di soggezione per il liberto. In età arcaica, tale
potere era più marcato (ius vitae ac necis), mentre in età classica risulta sensibilmente attenuato (il
liberto doveva obsequium e reverentia al patrono).Da qui, taluni interventi pretori e normativi.

L’editto pretorio vietava al liberto la in ius vocatio del proprio patrono senza preventiva
“autorizzazione” del magistrato: il pretore avrebbe denegato l’azione al liberto che intendesse agire
contro il patrono con actiones “infamanti”.

Una volta convocato in giudizio dal liberto, il patrono godeva del beneficium competentiae: il patrono-
debitore non poteva essere condannato oltre il limite delle sue possibilità economiche (questo al fine
di evitare l’esecuzione per debiti e l’infamia derivante).

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Il patrono poteva esigere dal liberto la prestazione di operae: servizi giornalieri domestici (operae
officiales) e artigianali (operae fabriles).

Nell’ultima età repubblicana, si affermò la prassi per cui il servo, “prima” della manumissione faceva un ius
iurandum al dominus promettendo che, una volta liberato, avrebbe prestato determinate operae; “dopo” la
manumissione, il giuramento veniva rinnovato (promissio iurata liberti).

Era pure uso che il servo manomesso promettesse le operae con stipulatio (stipulatio operarum).

In entrambi i casi, al patronus spettava, per l’adempimento, una speciale azione detta actio operarum 23 (con
intentio in ius concepta)

Nel ius patronatus rientravano (fin dalle XII Tavole) aspettative successorie del patronus sui beni del
liberto, la tutela legitima dei liberti impuberi (maschi e femmine), nonché la tutela mulieris della
liberta. Tra patrono e liberto, inoltre, si stabilirono anche diritti e doveri reciproci, potendo ognuno,
nell’ambito della cognitio extra ordinem, pretendere dall’altro la prestazione degli alimenti, in caso di
indigenza.

§ 85 - Le personae in causa mancipii. Altre situazione di dipendenza personale


Le personae in causa mancipii erano in una situazione giuridica ibrida di personae libere e cittadine
romane, ma assoggettate a “potestà” di altra persona (mancipium). Si dissero persone da considerare
alla stregua di servi (servorum loco).

Assumevano tale condizione giuridica i filii familias che, mancipati dal proprio pater familias, per effetto della
mancipatio cadevano sotto la “potestà” del mancipio accipiens. In età arcaica, la mancipatio dei filii familias
realizzava effettivamente una “vendita”. Avversata dalle XII Tavole, tale pratica era del tutto scomparsa con
questa funzione in età classica, ma si continuò a farvi ricorso con diversi obiettivi: ai fini dell’ adoptio,
dell’emancipatio e della noxae deditio. Nei primi due casi, la condizione della persona in causa mancipii era
“transitoria e strumentale” al passaggio del filius ad altra famiglia (adoptio) o all’acquisto dello status di sui iuris
(emancipatio); nel caso di noxae deditio, la mancipatio del filius familias comportava un “sostanziale e
duraturo” assoggettamento al mancipium accipiens.

Le personae in causa mancipi erano persone libere e cittadine romane: come i filii familias (e a
differenza dei servi), potevano vivere in matrimonio e avere figli legittimi. Tuttavia, la loro
qualificazione giuridica era quella di alieni iuris, essendo soggetti a “potestà” (mancipium).

Come i filii familias e i servi, non avevano “capacità giuridica”: per i rapporti patrimoniali, acquistavano
all’avente potestà (ma non lo obbligavano);

come i servi, morta la persona che esercitava il mancipium, cadevano sotto il mancipium dell’erede (non
diventavano sui iuris).

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come i servi, erano liberati dal mancipium attraverso la manumissio (diventando sui iuris) e l’avente potestà che
li liberava (manumissor) acquistava verso di loro la qualifica di patronus.

Per i filii familias dati a nossa, era obbligo del detentore del mancipium di liberarli una volta che
avessero in un modo o nell’altro scontato il debito; se questi non provvedeva spontaneamente,
interveniva il pretore, intimandogli perentoriamente di compiere l’atto di manutenzione.

E la sorte dei figli della persona in causa mancipii dopo la cessazione del mancipium sul padre ? Dipendeva dagli
eventi: se il padre era stato manomesso, cadevano sotto la sua potestà; se il padre moriva ancora in causa
mancipi, diventavano sui iuris.

Il colonato. I coloni erano persone libere di umile condizione, piccoli affittuari di terre (locatio rei) oppure
lavoratori giornalieri dei campi, che dietro compenso si obbligavano ad un lavoro subordinato (locatio
operarum). Le loro posizioni giuridicamente distinte finirono nella realtà per apparire assai simili sin dalla
prima età postclassica. La crisi dell’impero romano determinò un irrigidimento delle classi sociali. Per quanto
riguarda i coloni, in particolare: considerato che il numero degli schiavi era andato diminuendo (per cui il loro
apporto nei lavori agricoli e negli adempimenti della pastorizia era diventato insufficiente), considerato il
maggior costo della manodopera servile rispetto a quella libera (gli schiavi dovevano essere mantenuti,
mentre il compenso che si dava o restava ai coloni era minimo, in genere appena sufficiente per il loro
sostentamento) e considerato che ai coloni per contratto si aggiunsero elementi appartenenti a popolazioni
barbariche, costretti in condizione di coloni una volta consentito loro l’insediamento nel territorio romano ,
accadde che i coloni e le loro famiglie (non ultimo, per esigenze fiscali) furono vincolati alla terra che
coltivavano e ai pascoli ai quali accudivano; subirono gravi limitazioni alla capacità giuridica e su di essi il
proprietario terriero finì per esercitare legittimamente anche atti di coercizione fisica, quasi ne fosse il
proprietario (erano diventati servi terrae, praticamente simili ai “servi della gleba” medioevali). La loro
condizione era tendenzialmente perpetua (salvo l’ingresso nello stato ecclesiastico o monastico, l’accollo delle
funzioni di decurione, la rinunzia del proprietario al fondo e, con esso, al diritto sui coloni): oltre a non poter
abbandonare i fondi ai quali erano stati assegnati, neanche potevano esserne distaccati. Potevano essere
alienati insieme al fondo e i loro beni furono considerati quasi come un peculio servile (alienabile solo col
consenso del proprietario del fondo). Inoltre, poiché era disapprovato il matrimonio tra coloni e persone di
ceto diverso, anche la libertà matrimoniale ne risultò in definitiva limitata.

§ 86 - “Status civitatis”
Il possesso dello status civitatis (civitas romana = cittadinanza romana) presupponeva lo stato di
libertà ed era una delle condizioni per la capacità giuridica di diritto privato (e di diritto pubblico): solo
ai cives Romani poteva essere riferito il ius civile.

Cittadini romani si nasceva o si diventava. Nascevano cittadini romani i nati da padre cittadino,
purché procreati in matrimonio legittimo (iustae nuptiae) e i nati fuori da iustae nuptiae da madre
cittadina.

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In pratica, il figlio nato in un matrimonio legittimo segue la condizione del padre (al momento del
concepimento), nel caso di unione non legittima segue la condizione della madre (al momento del parto).

Diventavano cittadini romani gli schiavi liberati ed, inoltre, per effetto di specifiche disposizioni
normative:

I Latini prisci, trasferiti a Roma stabilmente e iscritti in una delle tribù in cui era diviso il popolo romano (ius
migrandi);

Il Latino Iuniano ex lege Ælia Sentia (servo manomesso sotto i 30 anni senza le prescritte formalità), una volta
contratto matrimonio (non legittimo, per difetto di connubium) ed essendo nato un figlio, al compimento del
suo 1 anno di età, avrebbe potuto adire il pretore (nel periodo tardo-imperiale, il governatore provinciale o
praeses) con 7 testimoni (che attestassero l’esistenza delle predette condizioni) e ottenere, per pronunzia del
magistrato, la cittadinanza: egli stesso, il figlio (che cadeva sotto la potestas del padre) ed eventualmente anche
la moglie.

Per effetto di senatoconsulti e costituzioni imperiali, l’unione dei conviventi more uxorio (senza conubium per
difetto, in uno dei coniugi, dello status civitatis), in presenza di figli nati da questa unione, se la mancanza di
conubium era stata ignorata dal coniuge civis Romanus al tempo delle nozze, sarebbe stata considerata
matrimonio legittimo, previo accertamento e pronuncia dell’organo competente: il coniuge non cittadino
sarebbe divenuto cittadino romano e i figli sarebbero divenuti anch’essi cives Romani (cadendo sotto la
potestas del padre).

Cittadini romani si diventava, altresì per concessione dello Stato romano, che poteva riguardare sia
singole persone (per merito) sia intere comunità (per valutazioni politiche: es. agli alleati italici o socii,
in esito alla “guerra sociale”, al tempo di Silla, agli inizi del I sec. a.C.).

Perdevano la cittadinanza romana:

i cives che avevano perduto la libertà (diventando schiavi);

i cives che si erano stabiliti in colonie di nuova istituzione (diventando Latini coloniarii);

i cives che (liberamente o per sfuggire alla pena capitale) avevano scelto l’esilio in altro Stato legato a
Roma da trattato o i condannati alla deportatio in insulam per i crimina commessi

La connessione della sanzione dell’aqua et igni interdictio con la pena di morte è evidenziata dal fatto che, per taluni
delitti, al condannato era attribuito un particolare beneficio, detto ius exilii, consistente nella facoltà di sottrarsi
all’esecuzione della pena di morte, sottoponendosi volontariamente all’ aqua et igni interdictio. Si trattava di un istituto a
fondamento religioso che si accompagnava ad uno speciale rito: essendo ritenuto indegno di continuare a far parte della
comunità, il cittadino era escluso dalla comunione con il popolo romano e simbolicamente “privato del fuoco e
dell'acqua”, ritenuti elementi essenziali per l'organizzazione politico-religiosa della città; a ciò seguiva solitamente l'esilio
del condannato e l’interdizione dal ritorno in patria. La sanzione determinava capitis deminutio media = perdita della
cittadinanza, ma non della libertà.

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Ai cives Romani si contrapponevano i peregrini (= cittadini stranieri) persone libere ma non cives: ad
essi era negata ogni capacità di diritto pubblico (romano) e nei rapporti privati, si applicava loro il
diritto della collettività di appartenenza o, se del caso, il ius gentium (nei rapporti con i cittadini
romani, in ogni caso). Talora, si concedeva ad essi (singolarmente o a intere comunità):

il ius commercii = la capacità di alienare e acquistare (con mancipatio);

il ius conubii = la capacità di contrarre iustae nuptiae con cittadini romani.

Una categoria privilegiata di peregrini era quella dei Latini.

1 I Latini prisci, erano i cittadini delle città laziali vincolate a Roma da antica alleanza e formalmente sovrane
(anche se di fatto assoggettate a Roma). A parte lo ius migrandi, essi mantenevano le loro istituzioni, di diritto
pubblico e privato; godevano del ius commercii e del ius conubii; erano privi di patria potestas e privi di
testamenti factio “attiva” (ma potevano ricevere per testamento da cives Romani).

2 I Latini coloniarii, assimilati ai Latini prisci, erano coloro che (cives o peregrini) si stabilivano nelle colonie
fondate da Roma: dapprima solo in Italia, poi anche fuori dall’Italia (e dopo Silla, solo fuori dall’Italia). Essi
perdevano la loro cittadinanza d’origine.

3 Ai Latini coloniarii furono assimilati (parzialmente) i Latini Iuniani: schiavi liberati nelle “forme pretorie”
(categoria creata dalla lex Iunia Norbana) (*) e i Latini Æliani schiavi minori di 30 anni manomessi senza le
modalità stabilite (dalla lex Aelia Sentia). A differenza dei Latini coloniarii, trattandosi di “astrazioni giuridiche”,
sul piano del diritto pubblico non avevano un’organizzazione cittadina cui partecipare, né avevano proprie
istituzioni privatistiche: partecipavano allo ius gentium nei rapporti con i cittadini romani e godevano del ius
commercii (ma non del conubium).

Privi di testamenti factio “attiva” e “passiva”, alla loro morte, i loro beni tornavano all’antico proprietario, iure
peculii (come il patronus si riappropriava del peculio di un proprio servo): si disse, con frase incisiva, “vivunt
quasi ingenui, moriuntur ut servi” (= vivono come liberi e muoiono come servi).

I peregrini erano distinti in due categorie: a) peregrini alicuius civitatis, ossia gli abitanti delle città
straniere conquistate da Roma, ma lasciate sopravvivere nelle loro istituzioni (ad essi si applicava lo ius
gentium solo nei rapporti con i cives Romani, restando essi liberi di seguire i propri ordinamenti
all’interno delle proprie comunità); b) peregrini dediticii, ossia gli abitanti delle città straniere che si
erano arrese a Roma senza condizioni (deditio) e nelle quali il vincitore aveva abrogato ogni
ordinamento nazionale. Negata loro ogni capacità di diritto privato nazionale, partecipavano
esclusivamente dello ius gentium (dunque, una condizione deteriore; ad essi erano equiparati i
dediticii Æliani = schiavi manomessi di condotta turpe)

Le diverse categorie di peregrini all’interno del territorio dell’impero romano scomparvero a poco a poco,
gradualmente assimilate ai cives.

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Con la concessione della cittadinanza romana ai socii italici (politica attuata da Silla agli inizi del I sec. a.C.)
divennero cives Romani anche i Latini prisci con la lex Iulia del 90 a.C. (molti lo erano già, per ius migrandi) e i
Latini coloniarii (dei territori italici), con la lex Plautia Papiria dell’89 a.C. (con la lex Roscia del 49 a.C. gli
abitanti della Gallia Transpadana)

Con la Constitutio Antoniniana (dell’imperatore Antonino Caracalla, nel 212 d.C.) la cittadinanza romana fu
estesa a tutti gli abitanti dell’Impero, ad esclusione dei Latini Iuniani e dei peregrini dediticii (compresi i dediticii
Aeliani).

Sarà Giustiniano ad estendere definitivamente la cittadinanza romana, senza eccezioni, a tutti gli abitanti
dell’Impero.

§ 87 - “Status familiae”
Per il possesso della piena capacità giuridica non bastava essere liberi e cittadini romani, ma occorreva
nello status familiae la posizione di sui iuris: persone non soggette a potestà altrui. Per converso,
erano dette alieni iuris le persone sottoposte a una delle “potestà”: dominium per i servi; mancipium
per le personae causa mancipii; patria potestas per i filii familias (maschi e femmine); manus per le
donne (mogli per le quali avesse avuto luogo conventio in manum).

Parlando di status familias, ci si riferisce alla familia proprio iure dicta = la famiglia composta da una
sola persona sui iuris (libera e cittadina romana) e, quando la persona sui iuris era di “sesso maschile”,
dalla stessa insieme ai filii familias e alle donne in manu (anch’essi liberi e cittadini romani),
assoggettati alla sua “potestà” (patria potestas sui figli e manus sulle donne in manu). Questa familia
in senso stretto è istituto proprio del diritto arcaico (ex iure Quiritium), in ogni caso ius civile, quale
diritto proprio ed esclusivo dei cives Romani.

Ad avere “capacità giuridica” potevano essere solo persone sui iuris (maschi e femmine), in virtù del
loro status familias e indipendentemente dall’età).

Nelle fonti giuridiche, i maschi sui iuris erano anche patres familias (a prescindere dall’effettiva
paternità); sono pochi, invece, i passi di giureconsulti in cui la donna sui iuris è detta mater familias (la
qualifica aveva valore sul piano sociale ma non ne aveva alcuno sul piano del diritto).

Per i maschi sui iuris, il termine pater familias esprimeva l’attitudine ad esercitare la patria potestas (e
la manus). Ciò era in stretta relazione con la struttura rigidamente patriarcale della familia romana, in
quanto solo i patres familias potevano avere in “potestà” i filii (e donne in manu).

La donna sui iuris, poteva essere titolare di diritti e di doveri giuridici, mai di potestà familiari. Per
questo motivo, essa era in ogni caso l’unica componente della propria familia (familiae suae et caput
et finis = inizio e fine della sua famiglia).

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Un cittadino maschio sui iuris (“potenziale” pater familias) avrebbe potuto non avere persone libere
sotto la sua potestà: questo non solo nell’ipotesi di sui iuris adulto e celibe, ma anche nel caso del nato
postumo o del bimbo al quale fosse premorto il padre (pupillus). Ecco che anche in questi casi il pater
familias sarebbe stato l’unico componente della propria familia.

In ogni caso, l’ipotesi più tipica è quella della familia in cui il pater familias esercita potestà familiari.
Presupposto ne era il matrimonio.

§ 89 - Il matrimonio. Premesse.
Presupposto per la costituzione della familia proprio iure dicta erano le iustae nuptiae (iustae =
secundum ius: “matrimonio legittimo”).

La concezione romana del matrimonio era assai diversa dalla nostra, che dipende dal modello di derivazione cristiana e
giuscanonistica del matrimonio come sacramento, per cui il matrimonio è un negozio giuridico, un atto e un rito, che dà
luogo ad un “vincolo” destinato a durare, qualunque possa essere poi l’animo o il comportamento di marito e moglie ,
finché non sopravvengano la morte di uno dei coniugi oppure una pronunzia di annullamento o scioglimento, da parte di
un organo giudiziario.

Il matrimonio romano consisteva nel fatto in sé della “convivenza stabile” di due persone di sesso
diverso con la volontà costante di vivere in unione monogamica come marito e moglie (affectio
maritalis). Senza di questa, non si aveva matrimonio, ma concubinato. Non era di per sé richiesto per
la costituzione del matrimonio alcun rito iniziale, né per lo scioglimento alcun atto giuridico (e tanto
meno la pronunzia di un organo ufficiale). Nonostante vi si connettessero importanti effetti giuridici e
pure se per la sua esistenza il diritto esigeva certe condizioni, il matrimonio fu per i Romani, in ogni
caso, un fatto sociale prima che giuridico, a cui veniva dato grande rispetto.

Al matrimonio poteva accompagnarsi la conventio in manum, per effetto della quale la moglie cadeva
sotto la manus del marito (matrimonio cum manu): venendo di diritto “incorporata” nella famiglia del
marito, la donna mutava lo status familiae, perdendo iure civili ogni legame con i parenti di prima. La
conventio in manum poteva anche non avere luogo (matrimonio sine manu): la moglie avrebbe
mantenuto lo status familiae “originario” (se sui iuris, sarebbe rimasta tale; se filia familias, avrebbe
continuato ad essere sotto la patria potestas del suo pater familias). Anche se la moglie andava
comunque a vivere a casa del marito, se dal punto di vista dello status familiae (iure civili) la conventio
in manum non c’era stata, ella rimaneva “estranea” rispetto alla famiglia del marito (e rispetto ai figli),
con evidenti riflessi giuridici, soprattutto di diritto ereditario.

Il matrimonio fu comunque una istituzione unitaria, mantenendo sotto l’aspetto giuridico una stessa fisionomia, che avesse
avuto luogo conventio in manu oppure no.. Se in età arcaica e nella prima età preclassica, i matrimoni cum manu
costituivano la regola e quelli sine manu l’eccezione, successivamente i matrimoni liberi andarono diffondendosi sempre
più, in funzione dell’indipendenza che le donne andava acquistando nella società e nel diritto.

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§ 90 - Le condizioni giuridiche per l’esistenza delle “iustae nuptiae”
Per l’esistenza di un valido matrimonio civile (iustae nuptiae) erano richieste alcune condizioni:

Il conubium Era inteso come “attitudine” a vivere in matrimonio legittimo con l’altro coniuge, una
sorta di “capacità civile”, che rilevava non in sé, ma in relazione all’altro coniuge. La regola era che esso
esisteva tra cittadini romani.

L’antico divieto di connubium tra patrizi e plebei fu rimosso dalla Lex Canuleia del 445 a.C. (qualche anno dopo
la pubblicazione delle XII Tavole nel 451 – 450 a.C.)

Il connubium poteva essere concesso anche a non cives (singoli o collettività): spettò presto stabilmente ai
Latini prisci. Con l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, l’istituto perdette gran
parte del suo significato.

I classici collegavano al requisito del connubium pure il divieto di matrimonio tra parenti. Il matrimonio tra parenti in linea
retta fu sempre vietato senza limite di grado. Il matrimonio tra parenti in linea collaterale fu dapprima vietato entro il 6°
grado (figli di cugini); più tardi entro il 4° grado (cugini), dall’ultima età repubblicana entro il 3° grado (zii e nipoti). Una
singolare deroga fu introdotta da un senatoconsulto dei tempi di Claudio (nel 49 d.C.) sollecitata dallo stesso imperatore:
per consentirgli il matrimonio con Agrippina, nipote ex fratre, si consentì in termini generali il matrimonio con la figlia del
fratello. Il matrimonio con affini (parenti dell’altro coniuge) sempre riprovati dal costume, appaiono in età classica proibiti
in linea retta; nell’età postclassica furono vietati i matrimoni tra affini di 2° grado in linea collaterale (tra cognati).

Età pubere. Per la validità del matrimonio era necessario che gli sposi fossero almeno puberi (capacità
di generare: per 12 anni per le femmine; 14 anni per i maschi). Il matrimonio presupponeva, quindi,
oltre alla “capacità civile” (connubium) anche la “capacità naturale”. Era per questo che non si
costituiva validamente matrimonio con gli evirati, definitivamente privi di capacità naturale (mentre,
era possibile con gli impotenti di altra natura, essendo ipotizzabile almeno una capacità potenziale).

Consenso. Il matrimonio si costituiva una volta che tra gli sposi si stabiliva la convivenza con reciproca
affectio maritalis. Si esigeva, pertanto, il consenso dei coniugi (consensus facit nuptias). Fu quindi
escluso per i pazzi (furiosi). Peraltro, quando l’uno o l’altro o entrambi gli sposi erano filii familias, era
necessario il consenso del pater familias (o dei patres familias).

Lutto vedovile. La violazione del lutto vedovile non impediva l’esistenza di iustae nuptiae, ma comportava
talune sanzioni. Discendeva da un antico precetto (mores), per cui era vietato alla vedova un nuovo
matrimonio prima del decorso del cd tempus lugendi (= tempo di piangere), che era di 10 mesi dalla morte
del marito. Il divieto, ispirato in origine a ragioni di ordine religioso, è giustificato nelle fonti classiche con
l’esigenza pratica di evitare dubbi sulla paternità dei nati dopo il precedente matrimonio. Le sanzioni erano
dapprima di carattere sacrale. L’editto pretorio comminò poi l’infamia per quanti avessero responsabilità nel
prematuro matrimonio della vedova. Per effetto di una costituzione imperiale (del 381 d.C.), l’infamia colpì
anche la vedova; inoltre, essa avrebbe perso i lasciti testamentari del primo marito, e sarebbe conseguita
anche la perdita della capacità di acquistare mortis causa da estranei.

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§ 91 - Il matrimonio: struttura
Per la costituzione del matrimonio non era necessario alcun rito: in presenza delle condizioni di
validità, era sufficiente si stabilisse il “fatto oggettivo” della convivenza, con la volontà di vivere come
marito e moglie. Questo “atteggiamento soggettivo” era l’affectio maritalis.

L’inizio della convivenza segnava il momento a partire dal quale il matrimonio si costituiva. Per il
mantenimento dello stesso, la convivenza doveva perdurare, ossia “non essere interrotta”.

In proposito, il concetto giuridico coincideva col modello comune sociale e quotidiano del vivere insieme: la
convivenza non si pensava interrotta per il fatto in sé che il marito uscisse di casa senza la moglie (e viceversa) o
che l’un coniuge partisse senza l’altro; la convivenza, una volta stabilita in termini reali, si riteneva perdurasse
finché in entrambi i coniugi durava l’elemento soggettivo dell’affectio maritalis. Il discorso è analogo a quello in
materia di “possesso”: non occorreva tenere continuamente la cosa, ma bastava mantenerne la “disponibilità”.

A proposito dell’affectio maritalis, va detto che il matrimonio romano era rigorosamente


monogamico: non era concepibile nutrire affectio maritalis contemporaneamente nei confronti di più
persone, per cui se un coniuge desiderava costituire un nuovo matrimonio, doveva prima sciogliere il
precedente; diversamente, il 2° matrimonio era giuridicamente inesistente e il bigamo incorreva
nell’infamia.

Ora, se la convivenza era un fatto oggettivo, per cui provarla non sarebbe stato difficile, come provare l’esistenza
di un dato soggettivo come l’affectio maritalis ? L’esistenza dell’affectio maritalis si poteva desumere da
circostanze diverse, tali da farne ragionevolmente “presumere” l’esistenza (es. l’aver proceduto a conventio in
manum; l’aver svolto riti e festeggiamenti, tra cui la deductio in domum mariti): anche se nessuna circostanza
era necessaria dal punto di vista del diritto per l’esistenza del matrimonio, ognuna avrebbe potuto essere
utilmente invocata “a fini probatori”.

§ 92 - Il matrimonio: effetti
L’esistenza di un matrimonio legittimo era di grande rilievo per le conseguenze giuridiche: solo i nati da
iustae nuptiae erano “figli legittimi” e cadevano sotto la patria potestas del padre.

La donna acquistava la dignità sociale e giuridica del marito (honor matrimonii); tuttavia, se liberta, restava giuridicamente
tale. Al marito si dava l’actio iniuriarum per le offese arrecate alla moglie. I coniugi erano esonerati dal dovere di
testimoniare l’un contro l’altro.

Il matrimonio comportava tra i coniugi dovere reciproco di fedeltà, sanzionato, una volta sciolto il matrimonio, da parte del
marito, in sede di azione per la restituzione della dote; l’infedeltà della moglie (non quella del marito) era sin da età arcaica
giuridicamente configurata come adulterio (e il marito poteva impunemente ucciderla). A partire dalla lex Iulia de
adulteriis (del 18 a.C.), la moglie adultera incorreva nel crimen adulterii, punito con pene severe.

Col diritto pretorio e per effetto di costituzioni imperiali, tra marito e moglie si stabilirono reciproche aspettative
successorie. Per un precetto che si faceva risalire ai mores, invece, le donazioni tra coniugi erano vietate, a pena
di nullità.
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Tra marito e moglie non si dava l’azione penale di furto. Ma per le cose dalla moglie sottratte al marito in vista
del divorzio, l’editto pretorio previde l’actio rerum amotarum, reipersecutoria e non infamante (poi
riconosciuta applicabile ad ogni altra ipotesi per cui, fra estranei, vi sarebbe stata l’actio furti).

Contro l’actio rei uxoriae per la restituzione della dote (e con Antonino Pio, contro ogni azione contrattuale
della moglie), al marito si concedeva il beneficium competentiae (più tardi esteso in favore della moglie contro
le azioni contrattuali esperite dal marito).

§ 93 - Lo scioglimento del matrimonio. Il divorzio.


Il matrimonio si scioglieva quando tra i coniugi veniva meno il conubium, che era condizione giuridica
della sua esistenza: pertanto, con la perdita della libertà o perdita della cittadinanza di uno dei coniugi
(es. la captivitas, l’esilio o la deportazione; oltretutto, cessava anche la convivenza)

Circa le cause di scioglimento del matrimonio dipendenti dalla sua struttura: poiché il matrimonio era
convivenza e insieme affectio maritalis, esso si scioglieva, oltre che per la morte del marito o della
moglie e per sopravvenuta impossibilità materiale della convivenza anche per il fatto che venendo
meno l’affectio maritalis in uno o in ambedue dei coniugi con la separazione, si interrompeva la
convivenza. Si parlò in questo caso di divortium (da divertere = allontanarsi); per i casi di divorzio
unilaterale, di repudium.

Come non erano richieste formalità per la costituzione del matrimonio, così non erano richieste formalità per lo
scioglimento. Nella prassi, era in uso pronunziare certe formule in caso di ripudio (il marito alla moglie: Vade
foras ! Res tuas tibi habeto) o compiere certi atti simbolici, come togliere le chiavi o restituirle (claves adimere o
claves remittere, a seconda che a divorziare fosse il marito o la moglie); è pure attestato l’invio del nuntius. Non
si trattava, tuttavia, di formalità essenziali, ma solo di manifestazioni esteriori di una volontà, la quale era di per
sé sufficiente, (persino all’insaputa dell’altro coniuge), purché in qualsiasi modo esternata (al limite anche con
manifestazione tacita). Certo, nel caso di matrimonio cum manu, affinché si estinguesse la manus sulla moglie e
questa uscisse dalla familia del marito bisognava ricorrere a negozi formali (“inversi”: diffarreatio o
remancipatio) Ma essi riguardavano la manus, non il matrimonio. (*)

Il divorzio determinava lo scioglimento del matrimonio qualunque ne fosse la causa. Tuttavia, riprovando il
costume i “divorzi ingiustificati”, il marito che ripudiava la moglie senza gravi motivi era colpito da sanzioni
patrimoniali. In epoca repubblicana, interveniva il censore, tutore dei costumi e responsabile del regimen
morum (era prerogativa censoria disporre: la nota censoria, la rimozione dal Senato o la non ammissione ad
esso, la collocazione del cittadino in una posizione più debole nell’ambito delle assemblee popolari ). In età
classica, era in sede di actio rei uxoriae (per la restituzione della dote) era indirettamente sanzionato il
comportamento del coniuge che avesse dato causa al divorzio (contro la moglie, con la retentio propter mores;
contro il marito, con l’abbreviazione o la negazione dei termini di restituzione). Ma il divorzio era egualmente
valido e il matrimonio si scioglieva.

Nessun problema in caso di “divorzio” per mutuo consenso, stante l’accordo dei coniugi nel voler
divorziare. Il “ripudio” fu, invece, ritenuto lecito solo in alcuni casi tassativi e limitati (divortium bona
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gratia): in presenza di motivi ritenuti validi e non imputabili ad alcuno dei coniugi (elezione alla vita
claustrale da parte di uno, impotenza, scomparsa, deportazione o prigionia di guerra dell’altro); per
comportamenti gravemente colpevoli dell’altro coniuge (adulterio o altro comportamento
moralmente disdicevole per quanto riguarda la moglie; aver tentato di prostituire la moglie, tenere
una concubina, per quanto riguarda il marito; per entrambi, l’essersi macchiati di gravi crimina, quali
omicidio, veneficio e altri). Fuori da questi casi, il matrimonio si scioglieva ugualmente, ma il coniuge
che aveva divorziato era colpito da sanzioni varie (es. perdita della dote, deportatio in insulam)

Oltre che per morte e per divorzio, il matrimonio si scioglieva anche per l’intervento del pater familias
della moglie, il quale (in forza della patria potestas) poteva interrompere la convivenza sottraendo la
figlia dalla casa del marito (questo, nei matrimoni sine manu, nei quali la moglie, ancora filia familias,
restava sotto la patria potestas del genitore naturale.

Le cose cambiarono quando Antonino Pio vietò che, per intervento del pater familias della moglie si
sciogliessero bene concordata matrimonia: a fronte dell’interdictum de liberis exhibendis 124 (o l’interdictum
de liberis ducendis 152) spettante al pater familias per riprendere presso di sé i figli ancora in sua potestate,
dopo la costituzione di Antonino Pio era possibile opporre exceptio quando l’esercizio della patria potestas
avrebbe determinato lo scioglimento di un matrimonio felice.

§ 94 - La dote
La dote (dos) è istituto del diritto romano arcaico. Consisteva in una o più cose o diritti che la moglie o
il di lei pater familias (o un terzo) conferivano al marito espressamente come dote. Il termine indicava
anche la possibile causa di “negozi astratti” (dotis causa), impiegati per la costituzione di beni e diritti.

Funzione. Si pensa che la funzione originaria della dote debba essere messa in relazione ai matrimoni
cum manu, come compensazione delle aspettative ereditarie che la donna perdeva rispetto alla
famiglia di origine per il fatto di uscirne e di entrare a far parte della famiglia del marito. Per i giuristi
classici (per i quali la dote riguardava ormai, anche e soprattutto, i matrimoni sine manu) essa
rappresentava un contributo per sostenere i pesi del matrimonio (ad sustinenda oneri matrimonii): a
vantaggio diretto del marito e, indirettamente, della moglie. Inoltre, poiché sciolto il matrimonio la
dote andava di norma restituita alla moglie, ecco che essa adempiva anche la funzione di
mantenimento della moglie una volta vedova o divorziata.

Costituzione. La dote si costituiva mediante datio, promissio o dictio.

Datio significava tecnicamente trasferimento di proprietà (o costituzione di altri diritti reali) in favore
del marito, compiuto a titolo di dote (datio ob dotem). L’espressione datio dotis indicava un “effetto
reale”: come ogni trasferimento di proprietà, essa si realizzava con “negozi astratti” (mancipatio, in
iure cessio e traditio), dove la dote assumeva il ruolo di “causa esterna” (dotis causa).

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La promissio dotis era una stipulatio compiuta dotis causa: la stipulatio era un “negozio astratto” dai
molteplici impieghi (tra cui, appunto, la costituzione della dote). Si effettuava in favore del marito che,
in quanto stipulator, a seguito della promissio dell’altra parte, diveniva creditore. La promissio dotis
era quindi una forma con “effetti obbligatori” di costituzione della dote: a matrimonio avvenuto, il
marito, in quanto stipulante-creditore, avrebbe potuto fare ricorso per l’adempimento all’actio ex
stipulatu (ma, in questo caso, il promittente, avrebbe avuto il beneficium competentiae)

La dotis dictio, “negozio solenne” proprio ed esclusivo della dote (“negozio causale”). Nota già al
diritto arcaico, essa si effettuava con la pronuncia di certa verba da parte del solo costituente (negozio
unilaterale). L’effetto era obbligatorio: il marito, divenuto creditore, avrebbe avuto per l’adempimento
un’actio in personam, certamente di ius civile (le fonti al riguardo non consentono ulteriori
precisazioni).

La dote poteva essere costituita sia “prima” del matrimonio (in previsione di esso), sia “durante” il
matrimonio. Se costituite prima, dotis dictio e promissio dotis si intendevano compiute sotto
“condizione sospensiva” (tacita) che il matrimonio avesse luogo: se il creditore (marito futuro o
mancato) agiva prima del matrimonio (o a matrimonio mancato), l’azione era respinta ipso iure. La
datio dotis, invece, produceva immediatamente gli effetti traslativi (salva al costituente, non essendo
seguite le nozze, la condictio, essendo venuta meno la causa della datio.

La dote poteva essere costituita sia dalla stessa moglie, sia dal di lei pater familias, sia da un terzo
(qualsiasi terzo se si trattava di datio o promissio dotis, solo un terzo debitore della moglie se si
trattava di dotis dictio). La dote costituita dal pater familias della moglie era detta dos profecticia (= a
patre profecta); in ogni altro caso dos adventicia: che il padre costituisse la dote per la figlia in
occasione del matrimonio era un uso molto diffuso a Roma: nelle classi abbienti rappresentava la
regola, essendo avvertito come un “dovere morale” (non un dovere giuridico).

La dote res mulieris. Poiché la dote si costituiva “in favore del marito”, era il marito che diveniva
“titolare” dei beni e diritti dotali. D’altra parte, la dote si costituiva in considerazione della moglie,
pertanto era naturale che, dal punto divista sociale, fosse considerata “cosa” di lei.

Da qui, nel mondo del diritto, non solo fu sancito l’obbligo del marito (o dei suoi eredi) di restituire la dote,
solitamente alla moglie, dopo lo scioglimento del matrimonio, ma l’azione per la restituzione fu detta actio rei
uxoriae (la dote, pertanto, nella denominazione dello strumento processuale fu definita res uxoria =“cosa della
moglie”). Agli inizi dell’età classica, la lex Iulia de fundo dotali (un capitolo della più ampia lex Iulia de adulteriis
del 18 d.C.) fece divieto al marito, pena la nullità, di alienare beni immobili dotali senza il consenso della moglie.

Restituzione. Sciolto il matrimonio, la dote andava, di regola, restituita: a tal fine era frequente che il
marito promettesse con stipulatio al costituente la dote la restituzione della stessa (dos recepticia), al
fine di poter agire con l’actio ex stipulatu contro il marito che, sciolto il matrimonio, non restituisse la
dote.
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In ogni caso, sin dall’alta età repubblicana, una volta sciolto il matrimonio era riconosciuta alla moglie
o al pater familias il diritto alla restituzione della dote in forza di apposita azione: l’actio rei uxoriae 48
Forse istituita dal pretore, la formula era con oportere (dunque, in personam e in ius); inoltre, si
invitava il giudice a tener conto di “ciò che sarà più buono e più equo”, dunque iudicium bonae fidei
(Gaio, 4.62). L’azione presupponeva un matrimonio sine manu ed era esperibile dopo la scioglimento.
Legittimati attivi erano, a seconda dei casi e delle circostanze, la moglie (sui iuris) o il suo pater
familias (che la esercitava adiuncta filiae persona = con la partecipazione della figlia, anche se non è
dato sapere come ciò avvenisse tecnicamente).

L’azione era intrasmissibile agli eredi. In particolare, sciolto il matrimonio per morte della moglie, la dos
adventicia restava al marito; la dos profecticia andava restituita al pater familias di lei (se vivente, altrimenti
restava al marito).

Sciolto il matrimonio per divorzio o per morte del marito, sia che la dote fosse profecticia sia che fosse
adventicia, l’azione (esperibile, se del caso, contro gli eredi del marito) spettava alla moglie (sui iuris) o al suo
pater familias, adiuncta filae persona (ma se la moglie moriva dopo il divorzio, la dote restava al marito, salvo
che questi non fosse stato in mora nella restituzione al momento della morte della moglie).

A fronte dell’actio rei uxoriae, il marito (eventualmente, i suoi eredi) era responsabile del perimento e
danneggiamento dei beni dotali, quando il fatto era dipeso da suo dolo o colpa.

Per altro verso, il marito godeva del beneficium competentiae e (salvo il caso di adulterio) avrebbe
potuto restituire con rateizzazione il denaro e le altre cose fungibili comprese nella dote.

In determinate circostanze, il marito poteva avvalersi di talune retentiones, trattenendo parte della
dote: retentio propter liberos, alla retentio propter mores, alla retentio propter res donatas, alla
retentio propter res amotas, alla retentio propter impensas; le prime due, avevano carattere etico e
potevano essere opposte solo dal marito (non più dai suoi eredi, dopo la sua morte); le altre erano di
natura patrimoniale, opponibili dal marito e dagli eredi.

Con la retentio propter liberos, si riconosceva al marito un contributo per il mantenimento e l’educazione dei
figli rimasti a suo carico, nella misura di 1/6 dell’ammontare della dote per ciascun figlio (non oltre però 1/2
della dote). Spettava se il matrimonio si era sciolto ad opera del pater familias di lei o per divorzio determinato
da colpa della moglie.

La retentio propter mores sanzionava la cattiva condotta della moglie. Spettava, quindi, solo se il matrimonio si
era sciolto per divorzio e per motivi a lei imputabili, nella misura di 1/6 (in caso di adulterio) o di 1/8 (per colpe
meno gravi) del complesso dotale.

La retentio propter res donatas spettava al marito (o ai suoi eredi), indipendentemente dalla causa di
scioglimento del matrimonio, per l’importo corrispondente a quanto egli aveva “donato” alla moglie durante le
nozze (questa retentio va messa in relazione con la ratio del divieto di donazione tra coniugi)

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La retentio propter res amotas spettava al marito (o ai suoi eredi) in alternativa all’actio rerum amotarum, per
un valore corrispondente a quanto la moglie avesse sottratto dalla casa del marito in vista del divorzio.

La retentio propter impensas riguardava le “spese” che il marito aveva erogato sui beni dotali. Spettava al
marito (o ai suoi eredi) qualunque fosse stata la causa di scioglimento del matrimonio. In proposito, la
giurisprudenza distinse tra spese necessarie (= per evitare il deterioramento o il perimento della cosa), utili (=
per migliorarne la produttività) e voluttuarie (= di mero abbellimento): in sede di actio rei uxoriae, il marito
recuperava comunque le spese necessarie, quelle utili solo se “autorizzate” dalla moglie e non recuperava le
spese voluttuarie.

§ 96 - I filii familias. Adozione e legittimazione


Se ad avere capacità giuridica erano le persone sui iuris (persone libere, cittadine romane e non
soggette a potestà), i filii familias, pur essendo liberi e cittadini romani, erano alieni iuris, in quanto
soggetti a patria potestas (quindi, privi di “capacità giuridica”).

Filii familias si nasceva o si diventava. Acquistavano lo status di filii familias i nati da “matrimonio
legittimo” (cum manu e sine manu): con la nascita, il figlio cadeva sotto la patria potestas del padre
naturale sui iuris (se il padre era filius familias, cadeva sotto la potestà dell’avo, che sul padre naturale
esercitava potestà, ivi compreso il caso in cui il padre premorisse alla nascita del figlio o subisse capitis
deminutio massima o media)

Il figlio nato postumo da padre naturale sui iuris, diveniva direttamente sui iuris (pupillus).

Si diventava di filius familias per “adozione”: adrogatio (del sui iuris), o adoptio (dell’alieni iuris).

Da età postclassica, fu riconosciuta la possibilità di diventare filius familias con legittimazione, per
sopravvenuto matrimonio (iustae nuptiae): i “figli naturali” nati fuori dal matrimonio divenivano “figli legittimi”
(e come filii familias cadevano sotto la potestà del loro padre naturale).

Adrogatio. Un soggetto sui iuris cessava di essere tale e cadeva sotto la patria potestas
dell’adrogante, così entrando a far parte della sua familia in condizione di filius familias.

Era un negozio solenne del diritto arcaico, cui partecipava la più antica assemblea popolare dei comitia
curiata: si trattava, dunque, d’una adoptio per populum. I comitia curiata erano presieduti da un pontifex, il
quale, essendo già state compiute preliminarmente le necessarie indagini, interrogava (rogabat) i due
soggetti interessati circa la volontà rispettivamente di adrogare e di essere adrogato. Avuta risposta positiva,
il pontefice si rivolgeva (con rogatio) al popolo (ad-rogatio): con il consenso del popolo, l’atto si perfezionava.
Si trattava formalmente di una lex comiziale (precisamente, una lex rogata espressa dai comizi curiati). Da età
repubblicana avanzata, il rito si semplificò, con il semplice intervento di 30 littori (al posto delle 30 curie).

Dai comizi le donne erano escluse (= non potevano essere adrogate). Per il fatto che non avrebbero potuto
esercitare la patria potestas (prerogativa maschile), le donne non potevano neanche adrogare.

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In età classica, dal momento che la convocazione del popolo nei comitia curiata poteva svolgersi solo a Roma, si
riconobbe per certi casi particolari (e per andare incontro alle esigenze degli abitanti delle provincie) che
l’adrogatio potesse compiersi per rescriptum principis. Questa forma si diffuse rapidamente, soppiantando
l’antica forma per populum. Per questa via, con Diocleziano, le donne potevano essere adrogate (per rescriptum
principis).

Dalle assemblee popolari erano esclusi anche gli impuberi . Più tardi, ferma restando l’incapacità di adrogare, si
ammise (con un epistula di Antonino Pio) che gli impuberi potessero essere adrogati.

Nessun motivo di forma impediva che l’adrogante fosse più giovane dell’adrogato. Tuttavia, tale ipotesi fu
ostacolate (o quantomeno avversate) già durante l’età repubblicana. Il principio per cui l’adrogato devesse
essere più giovane dell’adrogante (e, si precisò, di almeno 18 anni) si affermò definitivamente solo nel corso
dell’età classica, sulla base della concezione consolidatasi per la quale l’adozione doveva essere un istituto “ad
imitazione della natura”.

Quanto agli effetti, l’adrogato diveniva filius familias dell’adrogante: cessava la sua condizione
precedente di sui iuris e di pater familias e cadeva sotto la potestas di un altro pater familias. Inoltre:

Le persone libere (filii familias e donne in manu) sotto la potestà dell’adrogato cadevano anch’esse
sotto la potestà del pater familias adrogante.

I beni e i diritti soggettivi (trasmissibili) che facevano capo all’adrogato (anche i crediti) erano
acquistati all’adrogante, il quale ne diveniva titolare: si realizzava una successione universale inter
vivos

I debiti in precedenza contratti dall’adrogato iure civili si estinguevano: naturalmente, quelli sanzionati
da azioni reipersecutorie; (per i debiti da azioni penali, trovava applicazione il regime della nossalità).

Il pretore intervenne in materia, concedendo ai creditori un’actio rescissa capitis deminutione 89


contro l’adrogato (per effetto dell’adrogatio, l’adrogato subiva capitis deminutio minima). Si trattava di
un’actio utilis ficticia: il giudice avrebbe giudicato “come se” l’adrogatio non vi fosse stata.

Adoptio. Riguardava un alieni iuris: un filius familias passava da una famiglia all’altra, sempre quale
filius familias: cessava la patria potestas del padre naturale che l’aveva dato in adozione e su di lui
acquistava la patria potestas l’adottante. Passando dalla famiglia d’origine alla famiglia dell’adottante,
si spezzava iure civili ogni vincolo con la famiglia d’origine e veniva acquisita la parentela civile della
famiglia dell’adottante

Dapprima impossibile, perché la patria potestas, in sintonia con la struttura rigida della familia proprio iure
dicta, si estingueva solo per morte (o capitis deminutio) del pater familias, si rese possibile allorquando la Legge
delle XII Tavole (verosimilmente a scopo punitivo rispetto alla pratica della vendita dei figli) stabilì che il padre
che per 3 volte avesse venduto il figlio con mancipatio avrebbe perduto su di lui la patria potestas.

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Essendosi manifestata l’esigenza che anche i filii familias potessero venire adottati, i pontefici volsero il precetto
delle XII Tavole ad uno scopo diverso da quello per cui era stato adottato (con un’interpretazione creativa”,
escogitarono una complessa procedura che consentisse il risultato desiderato).

1) Il pater familias che voleva dare in adozione (pater naturalis) “mancipava” il filius al pater adottante: il
filius diventava persona in causa mancipi, sotto il mancipium dell’adottante. Questi lo “manometteva”: il filius
non diventava sui iuris, ma ricadeva di nuovo sotto la patria potestas del pater naturalis (la quale, con la 1a
mancipatio, non era estinta).

2) Seguiva una 2a mancipatio del pater naturalis e una 2a manumissio dell’adottante: il filius ricadeva ancora
una volta sotto la patria potestà del padre naturale.

3) Quando il pater familias lo mancipava per la 3a volta, la patria potestas si estingueva, in virtù della norma
decemvirale. A questo punto, l’adottante, divenuto per la 3a volta detentore del mancipium (e non ancora
della patria potestas) non manometteva il filius (se l’avesse fatto, il figlio sarebbe divenuto sui iuris, mentre
l’effetto da perseguire era di far acquistare la patria potestas all’adottante): all’uopo, l’adottante faceva
mancipatio della persona da adottare al pater naturalis, che non lo acquistava più come filius, ma nella
posizione di persona in causa mancipi.

Presenti allora i tre soggetti (pater naturalis, adottante e adottando) dinanzi al magistrato con giurisdizione
(di solito, il pretore), si compiva una sorta di in iure cessio: l’adottante, fingendosi attore, rivendicava come
propria la persona che voleva adottare, affermando che si trattava di un proprio filius; il pater naturalis,
interrogato dal magistrato, taceva (o rispondeva di non voler controvindicare); il magistrato pronunziava
l’addictio in favore dell’adottante, il quale finalmente acquistava la patria potestas sull’adottando. Il rito era
compiuto e l’effetto voluto, raggiunto.

Stante il precetto delle XII Tavole, questo procedimento era necessario solo per l’adozione dei filii familias
maschi (e discendenti immediati): per le filiae familias e per i nipoti in potestate, anziché 3 mancipationes, ne
bastava 1 sola (cui faceva seguito, naturalmente, remancipatio e in iure cessio).

Giustiniano semplificò il procedimento, riducendolo alle sole dichiarazioni di volontà, rese dal pater naturalis e
dl padre adottivo dinanzi ad un funzionario imperiale (presente e non contradicente l’adottato). Inoltre, al fine
di tutelare l’adottato da possibili effetti negativi di ordine successorio, si stabilì che di regola il pater naturalis
mantenesse la patria potestas sull’adottato, facendo salve le aspettative successorie dell’adottato verso il pater
naturalis e gli altri parenti della famiglia d’origine. Il padre adottivo la non avrebbe acquistato patria potestas,
ma, per effetto del nuovo vincolo agnatizio, l’adottato sarebbe stato chiamato all’eredità del padre adottivo, se
questi fosse morto senza aver fatto testamento.

§ 97 - La situazione giuridica dei filli familias: aspetti personali


In termini giuridici, erano filii familias sia i “figli naturali” (maschi e femmine) del pater familias, sia i
“figli adottati”(adrogatio o adoptio), sia quanti (maschi e femmine) erano sotto la patria potestas quali
nipoti e, eventualmente, pronipoti.

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La diversa posizione dei filii rispetto al pater familias era per più versi rilevante, soprattutto al momento
dell’estinzione della patria potestas.

La patria potestas comportava la soggezione del filius familias al potere personale del pater familias, il
cui carattere dapprima assoluto e illimitato si esprimeva sinteticamente con la formula ius vitae ac
necis.

Ciò non deve stupire , considerando che per l’età antica si ha notizia di sanzioni di tipo sacrale: nei casi più gravi, la
sacratio (= condanna a morte), per la quale civis che ne era colpito era “consacrato alla divinità”, diventando homo
sacer, escluso dalla comunità e dai riti relativi e privato di ogni protezione sociale, sicché poteva essere da chiunque
impunemente ucciso. In età repubblicana è certo, in materia, l’intervento del censore, nell’esercizio dei suoi compiti
istituzionali attinenti alla vigilanza sui costumi (regimen morum). Sanzioni sacrali e giudizi censori, inoltre, non
prescindevano dal giudizio espresso da un tribunale domestico (iudicium domesticum), organo familiare e non statale,
che secondo il costume controllava l’esercizio del potere personale del pater familias, giudicando sulle colpe delle
persone libere alieni iuris della famiglia. Dall’ultima età repubblicana, l’uccisione crudele e ingiustificata del filius fu
repressa con sanzioni criminali, alla stregua dell’uccisione di uomo libero estraneo. Il ius vitae ac necis del pater familias
sui membri liberi della famiglia dovette ad ogni modo del tutto scomparire nel corso dell’ultima età classica.

Un caso a parte è quello dell’esposizione dei neonati, che venivano così pubblicamente “abbandonati”. Anche
se l’abbandono poteva provocarne la morte, tuttavia tale pratica fu tollerata sino a tarda età postclassica,
potendo talora significare, in sostanza, il rifiuto del pater familias di riconoscere come proprio il nuovo nato (il
riconoscimento si soleva manifestare, ancora in età repubblicana col rito sociale del tollere liberos, per cui il
pater familias prendeva tra le braccia il nuovo nato e lo sollevava simbolicamente in alto). Inoltre, al tempo
delle XII Tavole, si dava al pater familias la facoltà di “vendere” (per mancipatio) i propri figli. La stessa facoltà fu
ripristinata, con modalità ed effetti diversi, durante l’età postclassica. In ogni caso, la patria potestas era,
giuridicamente tutelata: al pater si dava, per reclamare i propri figli presso terzi, vindicatio/interdictum de
liberis exhibendis 124 vel ducendis 152

Nonostante la soggezione alla patria potestas, i filii familias maschi, una volta adulti, acquistavano
piena capacità di diritto pubblico (voto nelle assemblee popolari, accesso a cariche in magistratura e
senato, poi anche funzioni imperiali). Erano anche ammessi a rivestire l’ufficio di tutori e curatori.

Filii e filiae familias di età pubere, inoltre, potevano contrarre matrimonio legittimo (iustae nuptiae),
ma previo “consenso” del pater familias.

§ 98 - La situazione giuridica dei filii familias: aspetti patrimoniali


La posizione dei filii familias era dapprima uguale a quella degli schiavi. In condizione di alieni iuris,
essi erano fondamentalmente privi di capacità giuridica: non avevano diritti propri (ma neanche doveri
giuridici, salvo la soggezione al pater familias); acquistavano al pater familias (non per in iure cessio),
ma non lo obbligavano.

Per gli illeciti sanzionati da azioni penali, il pater familias era convenibile con azioni nossali

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Anche ai filii familias poteva essere concesso un peculio, con conseguente facoltà di disporre (a titolo oneroso)
del possesso delle cose peculiari (e trattandosi di res nec mancipi anche di trasferire la “proprietà”).

Inoltre, si ammise che i filii familias potessero, rispetto al pater familias, contrarre obligationes naturales (che
assumevano rilievo giuridico in sede di actio de peculio e actio tributoria).

La posizione dei filii familias, per gli aspetti patrimoniali, andò tuttavia differenziandosi
progressivamente da quella degli schiavi.

Nell’età di Giustiniano, il regime di nossalità per i filii familias era del tutto scomparso: la vittima dell’illecito
avrebbe potuto proporre azione penale direttamente contro il filius.

Dell’ultima repubblica è il riconoscimento, ad opera della giurisprudenza, della capacità dei filii
familias di assumere, con atto lecito e rispetto ai terzi, obligationes civiles, ossia obbligazioni vere e
proprie sanzionate da azioni. In proposito, bisogna chiarire che:

a) questa capacità fu riconosciuta ai figli maschi (le filiae familias assumevano obligationes naturales);

b) i terzi creditori da atto lecito avrebbero potuto procedere contro i filii familias con “azione di
cognizione”, per l’accertamento del credito e conseguente sentenza di condanna, ma non avrebbero
potuto procedere esecutivamente, essendo loro preclusa sia l’esecuzione personale (essendo il filius
familias sotto patria potestas) sia l’esecuzione patrimoniale (non disponendo il filius un patrimonio
proprio): per l’esecuzione della sentenza non adempiuta spontaneamente, i creditori avrebbero
dovuto attendere che il filius, cessata la patria potestas, divenisse egli stesso pater familias (salvo il
caso dei peculi speciali).

c) su concessione edittale del pretore, la responsabilità del filius divenuto sui iuris a seguito di
emancipatio, per debiti contratti (da atto lecito) durante potestate, sarebbe stata limitata all’id quod
facere potest, (= beneficium competentiae).

In relazione a ciò, un senatoconsulto Macedoniano (del tempo di Vespasiano, circa 69 – 79 d.C.), vietò i mutui
in denaro ai filii familias. Al senatoconsulto diede attuazione il pretore, concedendo al filius (anche se divenuto
nel frattempo sui iuris) l’exceptio Senatus consulti Macedoniani 172.

In ogni caso, il fatto che i creditori non potessero agire in via esecutiva spiega come ai filii familias
(sebbene fosse riconosciuta la capacità di obbligarsi civilmente), si applicò quel regime di
“responsabilità adiettizia” (azioni quod iussu, institoria, exercitoria, de peculio et de in rem verso) e
dell’azione tributoria relativa alla condizione giuridica degli schiavi.

Tutto questo presupponeva che il filius avesse “capacità di stare in giudizio”, cosa che gli venne riconosciuta
nell’ultima età repubblicana: non nelle legis actiones, ma nel processo formulare. Dapprima nomine alieno ,
quale cognitor o procurator di terzi o nell’interesse e in nome del pater familias; poi, una volta che i filii familias
poterono obbligarsi civilmente, anche in nomine proprio.

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Ai filii familias (assente il padre) si riconobbe capacità processuale col ruolo di attori nell’actio iniurarum. Per la restituzione
della dote (viva la figlia alieni iuris) l’actio rei uxoriae era data al pater familias di lei, il quale doveva agire adiuncta filiae
persona. Ai filii familias si riconobbe capacità processuale nomine proprio, col ruolo di attori, almeno nelle azioni depositi e
commodati e nella querula inofficiosi testamenti.

Peculi speciali. Augusto concesse ai filii familias militari (miles) di poter disporre per testamento dei proventi
del servizio militare e dei beni con questi acquistati. L’imperatore Adriano estese la disposizione ai filii familias
dimessi dalla milizia (veterani). Degli stessi beni si ammise presto che il filius (miles o veteranus) potesse
disporre anche con atti inter vivos (a titolo oneroso o a titolo gratuito), Si parlò, pertanto, di peculium castrense
e se ampliò l’ambito sino a comprendervi tutti i beni comunque acquistati in occasione del servizio militare (es.
donativi ricevuti all’atto della partenza per la milizia, eredità dei commilitoni, eredità lasciata al filius miles dalla
moglie). Il pater familias non poteva avocare a sé il peculio castrense (salvo il caso di morte del filius senza aver
fatto testamento: sarebbe stato possibile acquisire il peculio castrense, non iure hereditario, quale erede
legittimo del figlio, ma iure peculii, come se si fosse trattato di peculio ordinario)

A partire da Costantino, il regime del peculio castrense fu esteso ai guadagni e ai beni e diritti acquistati dal
filius coi proventi ricavati dall’esercizio di funzioni civili al servizio dello Stato, dall’esercizio di attività forensi e
del sacerdozio. Si parlò in proposito di peculium quasi castrense.

La posizione del filius in ordine al “peculio castrense” fu assai più solida rispetto a quella del “peculio ordinario”
concessogli dal padre (del quale servi e filii non potevano disporre né a titolo gratuito, né per testamento ed era
revocabile in ogni momento dal dominus o dal pater familias). A differenza del peculio ordinario, che era e
restava formalmente del padre, il peculio castrense finì per essere considerato, nel corso dell’età classica, come
“proprietà” del filius familias, in deroga al principio che negava allo stesso la capacità giuridica.

Di conseguenza, il filius familias (miles o veteranus) poteva “obbligarsi civilmente” rispetto ai terzi (i creditori
potevano procedere con esecuzione patrimoniale, nei limiti dello stesso peculio; il filius poteva vantare pretese
azionabili e farsi attore nei relativi giudizi, sempre nei limiti del peculio).

Inoltre, il filius poté anche, sempre in relazione al peculio castrense, contrarre col proprio pater familias crediti
e debiti civili (sanzionati da actiones) e con lui litigare in giudizio, benché solo causa cognita (= previo
apprezzamento discrezionale del magistrato, che autorizzava o meno il filius ad agire contro il padre).

Bona adventicia o peculium adventicium. A partire da Costantino, si attribuì ai filii familias la proprietà dei
bona materna (= i beni provenienti dalla successione della “madre”), poi anche dei bona materni generis (= i
beni comunque provenienti dalla parentela “da lato materno”); poi, ancora, dei beni acquistati in occasione del
matrimonio; con Giustiniano, dei beni in ogni modo acquistati dal filius, purché non provenienti dal padre (e
neppure ex re patris). Il regime giuridico era diverso da quello del peculio ordinario e speciale: il figlio era
“proprietario” dei bona adventicia, ma l’amministrazione e il godimento spettavano al pater familias (che, però,
non poteva alienarli). Al diretto godimento e all’amministrazione dei bona adventicia, il filius sarebbe stato
ammesso una volta che, estinta la patria potestas, diventava sui iuris.

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§ 99 - Come cessava lo status di filius familias
Il filius poteva essere venduto dal proprio pater familias (mancipatio), cadendo sotto il mancipium di
un terzo, nella situazione giuridica di persona in causa mancipi.

In origine, sul figlio venduto il padre manteneva la patria potestas. Successivamente, le XII Tavole, per
reprimere abusi in materia, stabilirono che il pater che avesse mancipato più volte il figlio, dopo la 3a
mancipazione avrebbe perso la patria potestas. Questa disposizione fu poi utilizzata ai fini dell’adoptio e
dell’emancipatio.

Il testo decemvirale facesse riferimento solo ai filii familias maschi e discendenti immediati, da ciò si dedusse
che la patria potestas su figlie femmine e nipoti in potestate, nonché sui filii dati a nossa, si estinguesse dopo
1 sola mancipazione.

con l’adoptio, il filius poteva cadere sotto la patria potestas di un altro pater familias;

con la conventio in manum, la filia familias cadeva sotto la manus del marito;

con la perdita della libertà o con la perdita della cittadinanza, i figli perdevano la qualifica di filii
familias e uscivano dalla familia di appartenenza (per capitis deminutio maxima o media: equiparata
alla morte del pater familias)

La morte del pater familias. Di regola la patria potestas si estingueva con la morte del pater familias
(lo status di filius familias prescindeva dall’età e si legava alla patria potestas).

I filii (maschi e femmine) immediatamente soggetti alla patria potestas diventavano sui iuris.

I figli maschi diventavano patres familias essi stessi.

Immediatamente soggetti a patria potestas erano i figli, per nascita o adozione (adoptio o adrogatio) ed anche i
nipoti (figli del figlio) se il loro padre era premorto all’avo o comunque non più sotto la sua potestà (es. per
perdita della libertà o della cittadinanza), eventualmente, pure i pronipoti, in situazione analoga.

I figli dei filii familias, con la morte dell’avo restavano alieni iuris e cadevano sotto la patria potestas diretta del
loro genitore, divenuto a sua volta pater familias (e così gli eventuali nipoti in situazione analoga).

L’e-mancipatio. Al precetto delle XII Tavole che sanciva la perdita della patria potestas a carico del
padre che avesse per 3 volte venduto il figlio fece ricorso l’interpretazione creativa dei pontefici (come
già per la costruzione dell’istituto dell’adoptio), nell’ipotesi in cui, per esigenze diverse e contingenti, vi
fosse esigenza che un filius familias uscisse dalla famiglia di appartenenza e divenisse sui iuris ancora
vivo il pater.

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Il procedimento escogitato (detto e-mancipatio, per via del ricorso alla mancipatio) era in buona parte simile
a quello impiegato per l’adoptio: per i figli maschi, 3 mancipationes successive a persona di fiducia (la 1 a e la
2a seguite da manumissio); per le figlie femmine e i nipoti in potestate, 1 sola mancipatio.

Estintasi la patria potestas e trovandosi il figlio (o la figlia o il nipote) in causa mancipii del terzo fiduciario,
questi con la manumissio l’avrebbe reso (o resa) sui iuris, acquistando però rispetto al manomesso, una
posizione giuridica simile a quella del patronus sul liberto.

Più opportunamente, dunque, il terzo fiduciario usava re-mancipare il figlio al pater, il quale (riacquistato il
figlio come persona in causa mancipi) avrebbe fatto la manumissio per renderlo sui iuris, acquistando così sul
figlio emancipato la qualifica di parens manumissor (e conseguendo sul figlio le stesse pretese successorie
spettanti al patronus verso il proprio liberto; nonché la possibilità di essere tutore dell’emancipato impubere
e tutor mulieris della figlia emancipata).

Con l’emancipatio, il filius familias, divenuto sui iuris, spezzava ogni vincolo di agnatio con la familia di
appartenenza. Al figlio emancipato, d’altronde, il padre soleva lasciare il peculio ordinario (quello
castrense già gli apparteneva), per cui delle res nec mancipi l’emancipato diveniva in tal modo
“proprietario”.

In età postclassica, la forma dell’emancipatio si semplifica: decadute le forme solenni (la dichiarazione di
volontà del padre, presente e consenziente il figlio, ad un pubblico ufficiale ante curiam, dinanzi a 7 testimoni),
sarà sufficiente una dichiarazione resa dal padre al funzionario competente.

§ 100 - Le donne “in manu”


Con la conventio in manum, la donna acquistava la condizione giuridica di persona libera soggetta a
potestà (alieni iuris) Vi si faceva ricorso, più spesso, contestualmente al matrimonio, ma anche
indipendentemente dalle nozze (tutelae evitandae causa e testamenti faciendi gratia). (*)

Per quanto riguarda la conventio in manum matrimonii causa, essa poteva riguardare:

donne sui iuris, che passavano ad una condizione di alieni iuris, cadendo sotto la manus del marito (o
del suocero, se il marito era alieni iuris);

filae familias, che cessavano di appartenere alla famiglia di origine (estinguendosi la patria potestas
del padre) ed entravano a far parte della famiglia del marito, costituendosi la manus del marito (o del
suocero).

In particolare, per le donne sui iuris, le conseguenze giuridiche erano analoghe a quelle determinate
dall’adrogatio: il marito (o il suocero) acquistava i diritti (trasmissibili) che facevano capo alla donna,
mentre i debiti si estinguevano, fatta salva, dall’ultima età repubblicana, un’actio rescissa capitis
deminutione 89 (utilis ficticia) in favore dei creditori contro la donna per i debiti da lei contratti
quando era sui iuris).

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Nell’ambito della familia proprio iure dicta la moglie in manu era considerata filiae loco rispetto al
marito (o neptis loco, rispetto al suocero, pater familias del marito alieni iuris) e come sorella rispetto
ai suoi stessi figli. Naturalmente, questo era l’aspetto giuridico, non quello sociale.

La conventio in manum si effettuava mediante confarreatio, coemptio e usus.

La confarreatio era un arcaico e solenne rito religioso (certa et solemnia verba), durante il quale era
fatto sacrificio a Giove (Iuppiter Farreus): la cerimonia prendeva nome dal fatto che durante la
celebrazione si consumava pane di farro. Vi partecipavano, a parte gli sposi, taluni sacerdoti maggiori e
si esigeva la presenza di 10 testimoni. Vi facevano verosimilmente ricorso gli appartenenti alle classi
più elevate.

Ebbe sempre più rare applicazioni durante l’ultima età repubblicana (in età classica, sopravvisse più che altro in dipendenza
del precetto che riservava le maggiori cariche sacerdotali ai nati da “nozze confarreate” e stabiliva che i sacerdoti maggiori
dovessero essi stessi contrarre “nozze confarreate”; scomparve del tutto alla fine dell’età classica).

La coemptio era una mancipatio adattata al fine dell’acquisto della manus. L’oggetto era la donna;
alienante-mancipio dans era la donna stessa, se sui iuris, che avrebbe fatto mancipatio di sé stessa (o il
suo pater familias);acquirente-mancipio accipiens era il marito, se sui iuris (o il suo pater familias).

La coemptio era il modo più comune d’acquisto della manus, ma scomparve, con lo stesso istituto della manus, in età
postclassica.

L’usus consisteva nel fatto in sé della convivenza coniugale protratta per 1 anno. La donna avrebbe
potuto interrompere il decorso del tempo allontanandosi per 3 notti consecutive dalla casa del marito
(usurpatio trinoctii).

L’usus non risulta più applicato già agli inizi dell’età classica, essendo in parte abolito da leges e in parte desueto.

I principi e procedimenti relativi all’estinzione della potestas (e conseguimento della condizione sui
iuris) proprio delle filiae familias riguardavano anche la moglie in manu. (*)

§ 101 - Parentela e affinitaà . Gli alimenti


Parentela. La familia proprio iure dicta è composta da una sola persona sui iuris (pater familias, se
maschio) ed, eventualmente, dai filii familias (maschi e femmine) e dalle donne in manu (soggette alla
sua potestas).

L’agnatio, ossia il vincolo tra più componenti della stessa familia, era una sorta di “parentela civile”
(riconosciuta dal ius civile) che prescindeva dal vincolo di sangue (sussistente di norma tra padre e figli
o tra moglie in manu e figli, ma che poteva anche mancare, in quanto nessun vincolo di sangue
esisteva tra pater familias e figli adottivi o tra costoro e altri filii dello stesso pater e nemmeno,
naturalmente, tra pater familias e moglie in manu).

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Dato il carattere patriarcale della familia proprio iure, l’agnatio era un tipo di parentela esclusivamente
“in linea maschile”. Inoltre, dato che familia proprio iure e patria potestas erano istituti propri del ius
civile, si trattava di un istituto esclusivo dei cives Romani (anzi, la sola parentela riconosciuta dal ius
civile). Ciò aveva conseguenze giuridiche molteplici: soprattutto in materia ereditaria, di tutela
(impuberis e mulieris) e di cura (furiosi e prodigi).

Con la morte del pater familias, la famiglia proprio iure dicta si spezzava in tante familiae quanti erano
i filii familias, più la moglie e le nuore in manu (immediatamente soggette alla sua potestas). Il vincolo
di agnatio, tuttavia, non si estingueva: in riferimento agli agnati appartenenti a nuclei familiari diversi,
si parlava di familia communi iure dicta, composta dall’insieme delle persone (libere e cives) che
sarebbero state sotto la potestas dello stesso pater familias, se costui fosse stato in vita.

Il vincolo di agnatio si estingueva, invece, per effetto dell’emancipatio, datio in adoptionem e


adrogatio, coemptio della filia familias e ogni altro caso di conventio in manum (nonché in caso di
scioglimento della manus). Inoltre, poiché l’agnatio riguardava solo cives Romani, essa si estingueva
anche con la perdita della cittadinanza e perdita della libertà (capitis deminutio maxima e media)

Diversa dall’agnatio, la cognatio, era la “parentela di sangue” sia in linea maschile sia in linea
femminile. Poteva coincidere con l’agnatio, ma tante volte no. La cognatio di per sé ebbe dapprima
poco significato, dal punto di vista del diritto. Vi diede rilievo il pretore, nel suo sistema di successione
ab intestato e contro il testamento.

Nel diritto giustinianeo (in quanto riferita dai giuristi al ius naturale ed essendosi nel frattempo sfaldata la rigida struttura
patriarcale della familia arcaica) alla cognatio si riconobbero, fondamentalmente gli stessi diritti dell’agnatio.

La parentela (agnatio o cognatio) poteva essere in linea retta o in linea collaterale: erano parenti in linea retta
gli ascendenti e i discendenti tra loro (genitori e figli, nonni e nipoti, avi e pronipoti); erano parenti in linea
collaterale coloro che, non parenti in linea retta, avevano un ascendente in comune (fratelli e sorelle, zii e
nipoti, cugini). Nell’ambito della parentela assumeva generalmente valore il grado. Per stabilire il grado di
parentela in linea retta si contano, nel diritto civile odierno (adottando i criteri del diritto romano), le
generazioni, senza calcolare nel computo la generazione maggiore (genitori e figli sono parenti di 1° grado,
nonni e nipoti di 2° grado). Per i parenti in linea collaterale il computo dei gradi pure tiene conto delle
generazioni: si risale all’ascendente comune (stipite), che non viene calcolato, per poi scendere al parente in
relazione al quale si vuole stabilire il grado (fratelli e sorelle sono parenti di 2° grado, zii e nipoti di 3° grado,
cugini di 4° grado).

Affinità. Diversa ancora dall’agnatio e dalla cognatio era l’adfinitas, ossia il legame che univa un
coniuge con i parenti (agnati e cognati) dell’altro coniuge. Pure l’affinità poteva essere in linea retta e
in linea collaterale, a seconda che il rapporto di parentela dell’altro coniuge con la persona alla quale si
desiderava fare riferimento fosse in linea retta o collaterale. Per stabilire i gradi, si ha riguardo al grado
di parentela dell’altro coniuge. Sono pertanto affini in linea retta e di 1° grado suoceri e generi o
nuore; affini in linea collaterale di 2° grado ciascun coniuge con i fratelli o sorelle dell’altro coniuge.
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Gli alimenti. Nulla fu mai di ostacolo alla costituzione (per legato o per stipulatio) di pretese alimentari giudizialmente
tutelate tra privati (parenti o estranei). Tuttavia, non era pensabile, finché la struttura della famiglia romana mantenne il
suo carattere rigido, che, in difetto di negozi privati che dessero luogo ad un’obbligazione, potesse taluno (pure se in
stato di indigenza) pretendere da un parente (anche strettissimo) di essere sostentato. A mano a mano, però, che ai filii
familias andarono riconoscendosi, in taluni casi, capacità giuridica e capacità di stare in giudizio, nonché a mano a mano
che alla cognatio si andarono sempre più attribuendo conseguenze giuridiche, iniziò a prender corpo anche l’idea di
sanzionare giudizialmente pretese alimentari tra i parenti più vicini. Attraverso senatoconsulti e costituzioni imperiali, dal
I sec. d.C., si affermò gradatamente e sanzionato extra ordinem un reciproco dovere alimentare tra genitori e figli, poi
esteso anche ad altri parenti in linea retta, a prescindere dal vincolo potestativo (quindi, anche solo sulla base della
cognatio: es. tra madri e figli o tra genitori e figli illegittimi).

§ 102 - La “capitis deminutio”


Si tratta di uno schema concettuale proposto ed elaborato dai giuristi repubblicani, utilizzato dal
pretore, ulteriormente elaborato e utilizzato dai giureconsulti classici e che mantenne significato
anche in epoca postclassica e giustinianea. Gaio (1.159) definisce la capitis deminutio come prioris
status permutatio (= variazione del precedente status), in riferimento allo status libertatis, allo status
civitatis e allo status familiae. Non ogni cambiamento di status determinava capitis deminutio (no di
certo l’acquisto della condizione sui iuris per morte del pater familias): i mutamenti di status che
determinavano capitis deminutio erano quelli che implicavano lo spezzarsi del vincolo agnatizio.

Fu proposta una tripartizione:

1 capitis deminutio maxima dello status libertatis (un libero che diventava schiavo);
2 capitis deminutio media dello status civitatis (un cittadino che perdeva la cittadinanza romana);
3 capitis deminutio minima dello status familiae: fermo restando libertà e cittadinanza, faceva venir
meno i precedenti vincoli di agnatio (nei casi di adrogatio e adoptio, emancipatio, conventio in
manum e diffarreatio).

All’idea di capitis deminutio si fece ricorso per collegarvi, con espressione sintetica, diversi effetti
giuridici derivanti da un mutamento di status: es. il testamento diventava invalido quando il testatore
subiva capitis deminutio; l’agnatio, per effetto della capitis deminutio si estingueva. Talvolta, la capitis
deminutio aveva lo stesso effetto della morte (es. l’usufrutto si estingueva per morte e per capitis
deminutio dell’usufruttuario.).

§ 103 - Limitazioni alla “capacitaà giuridica”. Infamia e limiti alla capacitaà giuridica
delle donne
Il principio per cui alle persone libere, cittadine romane e sui iuris si riconosceva piena capacità di giuridica non ebbe
carattere assoluto.

I liberti non avevano capacità di diritto pubblico ed era vietato l’esercizio delle actiones infamanti contro il patrono (mentre
al patronus era vietata l’actio furti contro il liberto);

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limiti alla capacità giuridica erano imposti ai coloni, i cui beni furono ad un certo momento considerati alla stregua del
peculio servile;

vi erano, inoltre, diverse categorie di persone libere, cives e sui iuris in stato di soggezione personale: addicti, nexi, coloni,
redempti ab hostibus (= soggetti cives riscattati da altra persona, detta redemptor, dai nemici di guerra e che sino alla
restituzione dell’importo del riscatto, pur essendo formalmente libero, era di fatto subordinato al redemptor).

la lex Canuleia (del 445 a.C.), vietava il conubium tra patrizi e plebei;

tra ingenui appartenenti all’ordine senatorio e donne di cattiva reputazione era previsto il divieto di matrimonio. Inoltre,
agli appartenenti all’ordine senario una lex Claudia (del 220 a.C.) negò che potessero essere proprietari di navi commerciali
eccedenti una certa portata.

Durante il Basso Impero, ai decuriones, cui s’impose di non sottrarsi al loro ufficio, divenuto ereditario, si fece divieto di
prendere in locazione determinati fondi, di amministrare in modo continuativo e professionale patrimoni altrui, di alienare
a titolo oneroso certi loro beni.

Gli appartenenti ad alcune corporazioni di categoria (metallarii, monetarii, fabricenses, navicularii, pistores, suarii e
pecuarii, scaenici), cui pure, durante il Basso Impero, s’impose la permanenza nel loro status, divenuto ereditario, si fece
divieto di alienare i propri beni.

Ai magistrati si proibì (lex Iulia repetundarum) di ricevere doni.

Ai milites, in età classica, si vietò di defendere altri in giudizio, di acquistare fondi nelle province dove prestavano servizio
e, in età postclassica, di prendere in locazione fondi altrui. Ai milites, tuttavia, si attribuirono anche privilegi: un regime di
favore per il testamento (testamentum militis), il beneficium competentiae, la rilevanza dell’errore di diritto, il peculio
castrense (quando si trattava di filii familias).

La legislazione augustea stabilì un’incapacità in materia successoria a carico di caelibes e orbi (ossia, senza figli).

Disistima sociale e infamia. Vi erano persone che, per comportamenti riprovevoli loro imputabili, per
l’esercizio di determinate attività o per la condanna subita in certi giudizi, andavano incontro a disistima
sociale.

Colui che, testimone in un negozio per aes et libram, avesse ricusato di rendere testimonianza, venne
definito dalle XII Tavole improbus e intestabilis, il che implicava: l’incapacità di dare e ricevere testimonianza e
l’incapacità di fare mancipatio e testamento (nella forma più comune del testamento per aes et libram).

Contro infames e ignominiosi si andarono stabilendo alcune incapacità, specie in diritto pubblico (incapacità
di rivestire cariche pubbliche): es. le sanzioni contro i cives segnati da nota di infamia del censore, in
conseguenza di comportamento ritenuto riprovevole.

L’editto pretorio stabilì delle incapacità di ordine processuale: divieto di postulare pro aliis (= proporre istanze
giudiziarie nell’interesse altrui), nonché divieto di nominare cognitores e procuratores ad litem e di essere
essi stessi cognitores e procuratores ad litem nell’interesse altrui.

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Le ipotesi di infamia potevano essere le più diverse: soldati espulsi dall’esercito con ignominia; bigami; quanti
avessero collocato in nuovo matrimonio la vedova prima della scadenza del lutto vedovile (tempus lugendi);
mestieri turpi (prostitute, lenoni, commedianti, gladiatori); condannati in iudicia publica (crimina capitalia,
calumnia e praevaricatio) o per responsabilità propria in “azioni infamanti”, quali le azioni penali de dolo,
furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum e le azioni reipersecutorie per violazione della fides: l’actio pro socio e
le azioni dirette (non le contrarie) fiduciae, tutelae, mandati e depositi.

Parimenti erano colpiti da infamia i debitori inadempienti (dopo la proscriptio).

Limiti alla “capacità giuridica” delle donne. Certo per le donne la condizione di inferiorità giuridica
era assai più grave per il diritto pubblico, essendo loro negata totalmente qualsiasi capacità.

Quanto al diritto privato, la maggiore delle limitazioni alla capacità giuridica delle donne era
l’impossibilità di esercitare la patria potestas, “prerogativa maschile” da cui dipendeva tutta la
struttura familiare (patriarcale). Da qui:

l’impossibilità di adrogare e adottare;

l’esclusione dalla “parentela civile” (l’agnatio era solo in linea maschile), con notevoli riflessi di
diritto ereditario (gli agnati erano chiamati alla successione ab intestato con preferenza sui cognati).

L’esclusione dagli uffici di tutore e curatore, nonché il divieto (pretorio) di postulare pro aliis
(proporre istanze giudiziarie nell’interesse altrui) e di rappresentare altri in giudizio.

Una lex Voconia (del 169 a. C.) sancì l’incapacità per le donne di essere istituite eredi in un
testamento da parte di cittadini ricchi (con patrimoni di oltre 100 000 assi), come tali rientranti nella
1a classe dei comitia centuriata (il divieto venne meno nel principato, con la scomparsa
dell’ordinamento centuriato).

Un senatus consultum Velleianum (del 46 a.C.) fece divieto alle donne di intercedere pro aliis (=
“garantire” obbligazioni nell’interesse altrui). Al divieto (da taluni giuristi giustificato propter sexus
inbecillitatem) diede attuazione il pretore, concedendo alla donna, convenuta per l’adempimento,
l’exceptio senatus consulti Velleiani 172

§104 – “Capacitaà di agire”. Puberi e impuberi


Per diritto romano, la “capacità di agire” era riconosciuta per certi aspetti anche agli alieni iuris, ossia persone
prive di capacità giuridica (purché capaci intellettualmente): servi e filii familias (ma anche donne in manu e
personae in causa mancipi) acquistavano all’avente potestà; inoltre, servi e filii familias potevano trasferire la
proprietà delle res nec mancipi peculiari.

I maggiori problemi, però, riguardavano le persone sui iuris. Ai fini del riconoscimento della “capacità
di agire” viene in considerazione, anzitutto, l’età. Per i Romani, la distinzione fondamentale era tra

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impuberi (quanti non avevano raggiunto la capacità fisiologica di generare) e puberi (quanti avevano
raggiunto la capacità di generare o ne avevano comunque le apparenze).

Per le femmine si ritenne raggiunta la pubertà a 12 anni, mentre per i maschi dapprima si decideva
caso per caso, in base al riscontro dei caratteri esteriori connessi con la capacità di generare (habitus
corporis), poi in età classica si affermò che l’età pubere dovesse ritenersi raggiunta con i 14 anni.

Gli impuberi erano, poi, a loro volta distinti in infantes (fanciulli non ancora in grado di un eloquio
ragionevole, ossia fino ai 7 anni) e infantia maiores (gli impuberi che avessero superato l’infantia).

La “capacità di agire”, secondo i principi del ius civile, era riconosciuta ai puberi: piena se maschi,
limitata se femmine. Era negata del tutto agli infantes.

Era riconosciuta (ma solo in parte) agli infantia maiores, ammessi a compiere validamente quei negozi
giuridici che importassero un incremento del patrimonio, mentre per ogni altro atto (atti di
alienazione o comunque dispositivi e l’assunzione di obbligazioni) era necessario che la loro volontà
fosse “integrata” da quella del tutore.

Da questa regola derivò la singolare conseguenza per cui il contratto bilaterale dell’infantia maior aveva efficacia solo a
carico di una parte, perché l’impubere acquistava crediti ma non contraeva debiti (negozio claudicante). Tuttavia, in forza di
un rescritto di Antonino Pio, all’altra parte del contratto bilaterale, contro il pupillo che avesse agito sine tutoris auctoritate,
si diede azione (nei limiti dell’arricchimento).

Il fatto che agli impuberi si negasse, in tutto (infantes) o in parte (infantia maiores), la “capacità di
agire” era del tutto ragionevole quando si trattava di impuberi alieni iuris (soggetti a “potestà” e privi
di “capacità giuridica”, non avevano diritti propri né facevano capo ad essi rapporti giuridici
patrimoniali). Problemi di gestione patrimoniale e di assistenza personale, si ponevano, invece, per
l’impubere sui iuris (pupillus), fin da età remota soggetto a tutela (tutela impuberis).

§ 105 - La “tutela impuberis”


Si trattava di un istituto del ius civile riservato ai cives Romani di sesso maschile.

La donna fu in circostanze eccezionali ammessa all’esercizio della tutela, generalmente dei figli, solo in età
postclassica, in conformità ad usi di paesi di cultura ellenistica).

Poteva essere legitima, testamentaria e dativa.

Alla tutela legitima era chiamato, dalle XII Tavole, l’agnatus proximus (= l’agnato di grado più vicino: il
fratello sempreché pubere; in mancanza, lo zio paterno ecc.).

Pure fondamento nelle XII Tavole aveva la tutela legitima del patronus nei riguardi del liberto (impubere) e del
parens manumissor nei riguardi dell’emancipato (impubere).

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Alla tutela legittima si dava luogo, però, solo se il pater familias, temendo di morire prima che il figlio
raggiungesse la pubertà, non avesse provveduto con apposita disposizione testamentaria a nominargli
un tutore (tutoris datio). Si parlò, al riguardo, di tutela testamentaria.

La tutela dativa aveva fondamento in una lex Atilia (del 210 a. C.),(*) che attribuì al pretore il potere
di nominare, su istanza della madre o di altri congiunti (eventualmente, anche di estranei) un tutore
all’impubere sui iuris (pupillus) che non ne avesse alcuno.

La tutela era un istituto insieme “potestativo” e “protettivo” (potere-dovere): il tutore esercitava un


“potere” nell’interesse della familia (communi iure) alla buona conservazione del patrimonio familiare;
e al contempo adempiva ad un “dovere” assicurando al pupillus assistenza e protezione.

I poteri del tutore. Prerogativa del tutor impuberis (e del tutor mulieris), che non è dato riscontrare
nelle figure analoghe dei curatores, era l’auctoritas: una dichiarazione di volontà “integrativa” della
volontà espressa dal pupillo. Nel caso di infantia maior, al pupillo era riconosciuta “capacità di agire”,
ma per la validità di alcuni negozi (atti di alienazione o comunque dispositivi, atti di assunzione di
obbligazioni) era necessario che intervenisse il tutore e interponesse la sua auctoritas. Gli infantes,
invece, erano ovviamente incapaci di compiere alcun atto giuridicamente vincolante.

Il tutore doveva provvedere alle più elementari esigenze dell’impubere ed era ammesso a “gestire” il
patrimonio: poteva acquistare e trasferire il “possesso” nell’interesse del pupillo, nonché acquistare e
trasferire la “proprietà” di res nec mancipi, con effetti che si imputavano direttamente al pupillo.

Vi pose un limite l’oratio Severi (un senatoconsulto fatto approvare da Settimio Severo nel 195 d.C.) che, a pena
di nullità, fece divieto al tutore di alienare fondi rustici e suburbani (siti nelle vicinanze della città) appartenenti
al pupillo. Successive costituzioni imperiali estesero il divieto dell’oratio Severi, cosicché, in età postclassica, il
tutore, in pratica, avrebbe potuto alienare liberamente solo beni pupillari di scarsissimo valore.

In ordine ai negozi che comportavano acquisto e perdita di “possesso” (e, per quanto di ragione,
acquisto e trasferimento di proprietà) il tutor impuberis, agiva quale “rappresentante diretto”.
Analogamente per la rappresentanza processuale: quando il tutore agiva in giudizio pupilli nomine, il
tutore consumava l’azione (che non sarebbe stata ripetibile).

Ma lo stesso tutore era ammesso a gestire (da solo) il patrimonio pupillare: per i negozi che
importavano acquisto e alienazione di res mancipi, e i negozi con effetti obbligatori l’atto compiuto dal
tutore nell’interesse dell’impubere avrebbe avuto effetti in capo allo stesso tutore, salvo poi, cessata la
tutela, la necessità di compiere reciproci atti di trasferimento.

Responsabilità del tutore. La tutela cessava, di norma, una volta che il pupillus raggiugeva l’età
pubere.

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In corso di tutela, il tutore poteva essere rimosso dal suo ufficio su esito positivo di un’actio suspecti
tutoris, che si esercitava (su iniziativa di qualsiasi cittadino) contro il tutore che non gestiva la tutela ex
fide. Si trattava di un’actio publica (il procedimento era diverso da quello ordinario per le liti tra
privati). Al tutore, nei cui confronti veniva emesso decretum di remotio, era di solito irrogata l’infamia.
Magistrato competente, a Roma, era il pretore (in provincia, il governatore).

Cessata la tutela, il tutore poteva essere chiamato a render conto della gestione tutelare. Già nelle XII
Tavole era contemplata l’actio rationibus distraendis. Si trattava di “azione penale”, esperibile contro
l’ex tutore: volta a reprimere gli abusi commessi con dolo a danno del patrimonio pupillare, l’azione
era in duplum (del valore delle cose sottratte al pupillo). Nonostante il carattere penale, l’azione non si
cumulava con l’actio tutelae. In età preclassica, ad opera del pretore e della giurisprudenza, fu
riconosciuta l’actio tutelae 43 reipersecutoria, esperibile cessata la tutela dall’ex pupillo. Si trattava di
un iudicium bonae fidei (in personam e in ius, la cui intentio esprimeva un oportere ex fide bona). Si
configurò in tal modo una vera e propria obligatio a carico del tutore, dipendente dalla gestione
tutelare (= obligatio da atto lecito “non contrattuale”). L’actio tutelae comportava infamia. Per essa il
tutore (nella misura in cui fosse stato solo un rappresentante indiretto) era tenuto a trasferire gli
acquisti fatti a nome proprio e nell’interesse del pupillo e rispondeva per quei pregiudizi patrimoniali
derivanti al pupillo dalla gestione della tutela e imputabili a suo dolo o colpa (culpa in concreto:
diligentia quam in suis). Questa azione viene comunemente qualificata “diretta”, per distinguerla
dall’actio tutelae “contraria” 44 della stessa natura dell’altra (ma non infamante), spettante, una volta
cessata la tutela, al tutore contro il pupillo, per il rimborso delle spese e per il risarcimento dei
pregiudizi patrimoniali connessi alla gestione tutelare.

Altro rimedio previsto in materia (ma solo per la tutela legitima e dativa, non per quella
testamentaria), era la cautio rem pupilli salvam fore 194: una stipulatio rafforzata dall’intervento di
“garanti” (satisdatio). Era imposta dal pretore: all’inizio della tutela, il tutore, assumeva l’obbligo di
amministrare il patrimonio pupillare secondo “buona fede” e prometteva che avrebbe indennizzato il
pupillo da ogni danno patrimoniale derivante da una non corretta amministrazione della tutela.

§ 106 - I minori di 25 anni. La “cura minoris”.


Con la crescita dell’economia, con l’intensificarsi degli scambi e delle relazioni commerciali, col
riconoscimento di nuovi e più complessi rapporti giuridici si dovette via via sempre più avvertire il
pericolo connesso al principio per cui si consentiva che giovani adolescenti, avendo raggiunto la
pubertà (14 anni), potessero validamente obbligarsi, alienare beni, affrancare servi, rinunciare a crediti
ecc.; col facile rischio che altri potessero profittare della naturale loro inesperienza e che l’adolescente
potesse subire seri pregiudizi patrimoniali.

Una lex Laetoria (intorno al 200 a.C.) istituì l’actio legis Laetoriae, contro quanti avessero negoziato
con un minore di 25 anni (pubere e sui iuris) e l’avessero raggirato. L’azione cadde del tutto in disuso in

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età postclassica e nel Corpus Iuris non è menzionata. Su di essa possiamo solo dire che si trattava di
“azione penale” e infamante; l’azione spettava a qualsiasi cittadino (actio popularis) anche se è
pensabile che l’avrebbe esercitata il minore raggirato . La poena era pecuniaria, verosimilmente
consistente in una somma corrispondente ad un multiplo del pregiudizio subito dal minore.

Nell’ultimo periodo della repubblica, il pretore, nello spirito della legge Letoria, propose altri rimedi.
L’exceptio legis Laetoriae era data al minore che avendo compiuto negozi a lui pregiudizievoli e non
avendovi dato esecuzione, veniva per ciò convenuto in giudizio. La in integrum restitutio propter
aetatem, che il pretore si riservava di concedere dopo aver apprezzato le circostanze di fatto del caso
concreto, presupponeva che il negozio pregiudizievole per il minore avesse già avuto esecuzione: il
minore avrebbe ottenuto gli strumenti giudiziari (actiones utiles ficticiae) per vanificare gli effetti che il
negozio aveva prodotto. Questi rimedi, non presupponevano necessariamente che il minore fosse
stato raggirato: bastava il pregiudizio patrimoniale.

La cura minorum. Da età repubblicana si provvide con la nomina di un curatore all’adolescente. Lo


nominava il pretore, su istanza dello stesso adolescente. Il curator minoris assisteva il minore
nell’espletamento degli affari e, se del caso, prestava il “consenso” (che non era come per il tutore
un’auctoritas): non era un presupposto per la validità dell’atto, che rimaneva valido o invalido a
prescindere in sé dal suo intervento, tuttavia, rappresentava una “garanzia” per i terzi : al minore
sarebbe stato impossibile vanificare, con l’exceptio legis Laetoriae o la in integrum restitutio propter
aetatem, gli effetti dell’atto compiuto.

Il curator minoris poteva anche gestire direttamente il patrimonio dell’adolescente. Gli effetti dei
negozi compiuti si producevano di norma in capo allo stesso curatore, salvo poi procedere ai necessari
trasferimenti.

Per eventuali controversie tra curatore e minore non furono istituite azioni proprie: l’operato del
curatore fu fatto rientrare nell’ambito della negotiorum gestio, per cui tra le parti si davano,
all’occorrenza, le actiones negotiorum gestorum (diretta 39, a favore dell’amministrato; contraria 40,
a favore del curatore).

La cura minoris riguardava sui iuris puberi sino a 25 anni; la tutela impuberis, invece, riguardava sui iuris
impuberi. I due istituti potevano, quindi bene coesistere, anche se, sin dall’età classica, ebbe inizio un graduale
processo di assimilazione, per cui alla cura si estesero taluni strumenti e principi giuridici propri della tutela.

La venia aetatis. Da età classica avanzata si usò concedere (dapprima direttamente dall’imperatore, dopo
Costantino con provvedimento del magistrato) la venia aetatis: un abbassamento del limite di età necessario
per la piena “capacità di agire” (25 anni), rispettivamente a 18 anni per le donne e 20 anni per gli uomini
(purché di onesti costumi). I minori che ne beneficiavano amministravano liberamente il proprio patrimonio e
liberamente gestivano i loro affari come se minori non fossero: pertanto, senza curatore, ma anche senza la

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garanzia di potere eventualmente invocare l’ exceptio legis Laetoriae e la in integrum restitutio propter
aetatem.

§ 107 - Altri casi di incapacitaà di agire. Furiosi e prodigi.


La capacità di agire era negata, in tutto o in parte, a furiosi e a prodigi. I furiosi erano gli infermi di
mente, per i quali si ritenne che non avessero la capacità di intendere e di volere, da cui l’incapacità di
compiere validamente qualsiasi negozio. Ad essi si riconobbe, tuttavia, capacità di agire nei lucidi
intervalli. Inoltre, con la guarigione essi acquistavano (o riacquistavano) la capacità di agire. I prodigi
erano le persone che, pur non malate di mente, erano incapaci di amministrare i propri beni per
inettitudine pratica (generalmente con tendenza allo sperpero).

Si faceva risalire ai mores il precetto, confermato dalle XII Tavole, che dava al magistrato il potere di
fare divieto (interdictio) ai prodigi di compiere gesta per aes et libram in ordine ai beni ereditati ab
intestato dal proprio pater familias: veniva così interdetta la mancipatio e le forme di testamento che
ne richiedevano l’impiego). Il potere di interdictio del magistrato si estese presto al patrimonio del
prodigo comunque acquistato e finì per riguardare ogni atto di alienazione o comunque dispositivo,
nonché l’assunzione di obbligazioni, mentre era consentito compiere validi negozi di acquisto (e in
ogni caso negozi vantaggiosi). Il prodigus poteva recuperare la capacità pratica di amministrare (nel
qual caso, l’interdictio veniva meno, con conseguente riacquisto della piena capacità di agire).

In sostanza, la posizione del furiosus era come quella dell’infans, quella del prodigus come quella
dell’impubere infantia maior. Pertanto, appariva naturale che, anche per furiosi e prodigi (sempre sui
iuris), fosse avvertita l’esigenza di affidare ad altri l’amministrazione dei loro beni. Già le XII Tavole,
infatti, contemplavano le figure del curator furiosi e del curator prodigi, chiamando alla cura di furiosi
e prodigi l’agnatus proximus (parente in linea maschile di grado più vicino). Si ammise pure che fosse
compito del magistrato provvedere alla nomina del curator quando questi mancava. Si parlò in
proposito di cura honoraria (mentre quella dell’agnatus proximus fu detta cura legitima). Non fu mai
prevista per furiosi e prodigi una cura testamentaria (anche se il magistrato soleva confermare come
curatore la persona indicata dal pater familias nel testamento).

Il curator furiosi aveva compiti relativi sia alla persona sia al patrimonio; il curator prodigi, invece,
svolgeva compiti relativi solo al patrimonio.

Il regime giuridico della gestione del patrimonio degli amministrati era simile a quello della tutela impuberis.
Anche se le XII Tavole riconobbero al curator furiosi il potere di alienare (anche con mancipatio e in iure cessio)
cose appartenenti al furiosus, non era previsto che il prodigus (tanto meno il furiosus) compissero atti con
l’assistenza del curatore, per cui non c’era nulla di simile all’auctoritas che il tutore dell’impubere prestava ad
integrazione della volontà del pupillo.

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Per eventuali responsabilità e crediti dei curatori nei confronti dei loro amministrati soccorrevano le
actiones negotiorum gestio: la diretta 39 o la contraria 40, a seconda che ad agire fosse
l’amministrato o il curatore (o loro eredi).

§ 108 - La “tutela mulieris”


Le donne, anche se adulte e sane di mente, avevano riconosciuta una limitata “capacità di agire”. Tali
limitazioni erano più gravi in età arcaica, meno in età repubblicana e via via sempre riducendosi, in un
continuo processo evolutivo che portò in età postclassica alla scomparsa di ogni disparità di
trattamento fra i due sessi. Disparità che rimasero, tuttavia, per quanto riguarda la capacità giuridica.

Le donne sui iuris e puberi erano dapprima soggette a tutela (tutela mulieris). Non anche, per ovvie
ragioni, le schiave, le filiae familias e le donne in manu; e nemmeno le donne sui iuris impuberi
(assoggettate a tutela impuberis). Sicché, la donna romana pubere, liberata dalla patria potestas e
divenuta sui iuris, cadeva sotto la tutela del tutor mulieris; e la donna romana impubere sui iuris,
raggiunta la pubertà, era liberata dalla tutela impuberis e cadeva sotto la tutela mulieris. Pure la tutela
mulieris, come quella degli impuberi, poteva essere legitima, testamentaria e dativa.

La tutela testamentaria era affidata alla persona designata in testamento dal pater familias.

Alla tutela legitima, in difetto di tutela testamentaria era chiamato l’adgnatus proximus (alla tutela
legitima della liberta era chiamato il patronus; a quella della filia emancipata, il parens manumissor).

Alla donna priva di tutore legittimo o testamentario, in virtù della lex Atilia, il pretore dava un tutore
dativo. (*)

Il tutor mulieris (a differenza del tutor impuberis) non gestiva il patrimonio della donna, per cui non si
davano problemi di “responsabilità” inerenti alla gestione.

I suoi compiti erano di “assistenza” nella gestione patrimoniale: la donna (pubere e sui iuris) compiva
validamente negozi di acquisto in proprio favore, contraeva matrimonio, trasferiva “possesso” e
“proprietà” delle res nec mancipi, ma non poteva validamente compiere “atti di disposizione” del
proprio patrimonio (alienazione di res mancipi, affrancazione di servi, rinunzia di crediti) e neppure
assunzioni di obbligazioni o adire hereditatem (l’erede subentrava nel passivo, oltre che nell’attivo
ereditario). Per gli “atti di disposizione”, per l’assunzione di obbligazioni e gli acquisti ereditari era
necessario l’intervento del tutor mulieris che, “integrando” la volontà espressa dalla donna,
interponeva la sua auctoritas. La donna era pure incapace processualmente: senza auctoritas tutoria
non poteva partecipare alle legis actiones e ai iudicia legitima (nonché nominare cognitores).

Dall’ultima età repubblicana, la tutela mulieris andò perdendo di significato.

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Già prima era stato ammesso che il pater familias, nel testamento, anziché indicare la persona del
tutore testamentario, desse alla figlia il tutore che ella stessa avrebbe “scelto” per sé (e per il quale
avrebbe fatto optio, da cui la denominazione di tutor optivus).

Risultato analogo poté essere conseguito, in tarda età repubblicana, con la coemptio fiduciaria
(tutelae evitandae causa). (*) All’uopo, la donna sui iuris, tutore auctore (= con l’auctoritas del proprio
tutore, che da un certo momento in poi avrebbe potuto anche esservi costretto),faceva coemptio di se
stessa a una persona di sua fiducia, che l’acquistava in manu e ne faceva mancipatio alla persona che
la donna desiderava come tutore; questi (avendo acquistato la donna in causa mancipi) l’avrebbe
manomessa, diventando così, quale parens manumissor, suo tutore legittimo (e fiduciario).

Pure una coemptio fiduciaria era impiegata per consentire alle donne di “fare testamento”
(testamento faciendi gratia), dal momento che ad esse era dapprima del tutto negata. A tale
espediente non fu più necessario fare ricorso quando un senatoconsulto del tempo di Adriano
consentì alle donne di fare testamento con l’auctoritas dell’ordinario tutor mulieris.

Nel quadro della politica demografica promossa da Augusto, la lex Iulia et Papia Poppea, riconobbe alle donne
con 3 figli, se ingenuae (o 4 figli, se liberte), lo ius liberorum, esonerandole dalla tutela mulieris e riconoscendo
loro piena capacità d agire.

Restavano sotto tutela le donne che non avevano ius liberorum: per esse si ammise presto che il pretore, su
istanza della donna interessata, costringesse il tutore (testamentario e dativo) a prestare l’auctoritas.

La tutela legittima dell’agnatus proximus (non quella del patronus e del parens manumissor) fu peraltro abolita
da una lex Claudia (del tempo dell’imperatore Claudio, 41 – 45 d.C.).

Con eccezione della tutela del patronus e del parens manumissor, la tutela mulieris era così ridotta a poco più di
una formalità: la donna poteva scegliere il suo tutore, poteva costringere il tutore a prestare l’auctoritas per gli
atti per i quali era necessaria. La donna con ius liberorum, poi, era esonerata dalla tutela.

Onorio e Teodosio (nel 410 d.C.) concessero l’estensione dello ius liberorum a tutte quante le donne.

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