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INTRO - ORIGINI E SVILUPPO DEL PROCESSO D’INTEGRAZIONE EUROPEA ............

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1.L’integrazione secondo il metodo della cooperazione intergovernativa ..................... 3
2. L’integrazione secondo il metodo comunitario: le origini ........................................... 5
3. Lo sviluppo dell’integrazione europea: l’unificazione del quadro istituzionale e
l’allargamento a nuovi Stati membri .............................................................................. 7
4. Segue: la riduzione del deficit democratico ................................................................ 9
5. Segue: la riemersione della dimensione intergovernativa ........................................ 11
6. Segue: dalle Comunità europee all’Unione europea................................................. 13
7. Segue: l’Europa a più velocità ................................................................................... 15
8. Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa................................................ 16
9. Il Trattato di Lisbona ................................................................................................. 17
10. Segue: la ritardata entrata in vigore del Trattato di Lisbona ................................. 19
11. La riforma della governance economica ................................................................. 19
12. La natura dell’Unione europea ............................................................................... 23
PARTE I IL QUADRO ISTITUZIONALE ................................................................... 26
1. Considerazioni generali ............................................................................................. 26
2. Il Parlamento europeo (art 14 TUE) .......................................................................... 29
3. Il Consiglio (art 16 TUE) ............................................................................................ 31
4. Il Consiglio europeo (art 15 TUE) .............................................................................. 35
5. La Commissione (art 17 TUE) .................................................................................... 37
6. La Corte di giustizia dell’Unione europea (art 19 TUE) ............................................. 39
7. Il Tribunale dell’Unione europea (e i tribunali specializzati) ..................................... 40
8. La Corte dei conti, la BCE e gli altri organi (cenni). ................................................... 42
PARTE II LE PROCEDURE DECISIONALI................................................................ 44
1. Considerazioni generali ............................................................................................. 44
2. La definizione della corretta base giuridica .............................................................. 45
3. La procedura legislativa ordinaria ............................................................................ 46
4. Le procedure legislative speciali ............................................................................... 48
5. Le procedure legislative nel settore dello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia .... 50
6. Le procedure non legislative ..................................................................................... 52
7. Le procedure nel settore della PESC .......................................................................... 53
8. La procedura per la conclusione degli accordi internazionali ................................... 56
9. Le procedure per l’adozione degli atti d’attuazione e d’esecuzione ......................... 57
10. La procedura per instaurare una cooperazione rafforzata ..................................... 58
PARTE III L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA..................................... 60
1. Considerazioni generali ............................................................................................. 60
2. I trattati .................................................................................................................... 64
3. I principi generali del diritto ...................................................................................... 70
4. Segue: la protezione dei diritti fondamentali ........................................................... 73
5. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE .................................................................. 77
6. Il ruolo dei principi generali e della Carta dei diritti fondamentali ........................... 80
7. Il diritto internazionale generale e gli accordi internazionali ................................... 81
8. I regolamenti ............................................................................................................ 86
9. Le direttive (e le decisioni-quadro dell’ex III pilastro) ............................................... 87
10. Le decisioni.............................................................................................................. 90
11. Gli atti nel settore PESC .......................................................................................... 91
12. L‘adattamento dell’ordinamento italiano al diritto dell’UE .................................... 91
PARTE IV DIRITTO UE E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI ...................... 95
1. Considerazioni generali ............................................................................................. 95
2. I presupposti dell’efficacia diretta ............................................................................ 96
3. Segue: casi particolari (direttive, decisioni, atti degli ex pilastri non comunitari) .. 100
4. L’obbligo di interpretazione conforme .................................................................... 103
5. Il risarcimento del danno ........................................................................................ 105
6. La tutela processuale dei diritti derivanti da norme dell’Unione ............................ 106
7. Il primato del diritto dell’Unione ............................................................................. 107
8. Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana .................................. 111
PARTE V IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE ........................................... 116
1. Considerazioni generali ........................................................................................... 116
2. Il ricorso per infrazione ........................................................................................... 118
3. Il ricorso d’annullamento ........................................................................................ 122
4. Il ricorso in carenza ................................................................................................. 131
5. Il ricorso per risarcimento di danni ......................................................................... 133
6. La competenza pregiudiziale: concetti generali...................................................... 136
7. Segue: ammissibilità e rilevanza della questione pregiudiziale .............................. 138
8. Segue: la nozione di giurisdizione ........................................................................... 140
9. Segue: facoltà e obbligo di rinvio ............................................................................ 142
10. Segue: l’oggetto delle questioni pregiudiziali ....................................................... 144
11. Segue: il valore delle sentenze pregiudiziali ......................................................... 145
PARTE VI LE COMPETENZE DELL’UNIONE EUROPEA ....................................... 147
1. Considerazioni generali: il principio d’attribuzione ................................................. 147
2. I vari tipi di competenza.......................................................................................... 151
3. Il principio di sussidiarietà ...................................................................................... 154
4. Il principio di proporzionalità .................................................................................. 157
5. La competenza a concludere accordi internazionali ............................................... 158
6. Le competenze dell’Unione nel settore della PESC ................................................. 160
Intro - ORIGINI E SVILUPPO DEL PROCESSO D’INTEGRAZIONE EUROPEA
1.L’integrazione secondo il metodo della cooperazione intergovernativa
Alla fine della IIa guerra mondiale, le conseguenze del conflitto convincono i politici dell’epoca
dell’ineluttabilità di un processo d’integrazione europea come unico rimedio per evitare il ripetersi di
eventi tanto luttuosi. Tale movimento d’idee peraltro non riguarda inizialmente l’intero continente
europeo, ma prende piede solo tra in Europa Occidentale, favorito dalla nascente contrapposizione
tra blocco filo-americano e blocco filo-sovietico.
Gli Stati dell’Europa orientale danno, infatti, vita a forme alternative di aggregazione militare (Patto
di Varsavia) ed economica (Comecon) facenti riferimento all’Unione sovietica. Solo dopo la caduta del
muro di Berlino (1989) e lo scioglimento della stessa Unione sovietica (1991), tali Stati hanno
cominciato a partecipare in misura sempre crescente alle forme d’integrazione di matrice occidentale.
L’integrazione dell’Europa Occidentale segue 2 metodi distinti: un metodo tradizionale e un
metodo più innovativo.
Il metodo tradizionale si fonda sulla cd cooperazione intergovernativa: gli Stati partecipanti
cooperano tra loro come soggetti sovrani, creando apposite strutture per organizzare tale
cooperazione. Le caratteristiche di tale metodo sono:
1. prevalenza di organi di Stati: negli organi principali dell’organizzazione siedono
persone che agiscono quali rappresentanti dello Stato d’appartenenza e seguono
le direttive impartite dal potere politico di tale Stato;
2. prevalenza del principio dell’unanimità: le deliberazioni degli organi principali sono
assunte esclusivamente o prevalentemente all’unanimità, in modo che ciascuno ha
il potere di opporsi (diritto di veto);
3. assenza o rarità del potere di adottare atti vincolanti: le deliberazioni degli organi
principali dell’organizzazione hanno prevalentemente natura di raccomandazioni
e le ipotesi in cui è prevista l’adozione di atti vincolanti nei confronti degli Stati
membri costituiscono l’eccezione (subordinate al principio di unanimità).
Gli Stati dell’Europa Occidentale seguono il metodo della cooperazione intergovernativa in
diversi settori, creando numerose organizzazioni di tipo regionale.
Il primo settore in cui tale metodo trova applicazione è quello della cooperazione militare.
L’UEO (Unione dell’Europa Occidentale) viene fondata con il Trattato di Bruxelles (1948) e aggiornato
con gli Accordi di Parigi (1954). Lasciata a lungo in quiescenza, la UEO è stata rivitalizzata nel 1984,
con l’idea di farne uno strumento con cui attuare la componente sicurezza e difesa comune della PESC.
Tale prospettiva è stata poi abbandonata a partire dal Trattato di Nizza del 2001.
La NATO (Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico), fondata con il Trattato di Washington
(1949), non è una organizzazione europea in senso geografico, posto che ad essa aderiscono anche
Stati Uniti e Canada. Tuttavia, il teatro d’operazione più importante è costituito dal territorio degli
Stati dell’Europa Occidentale.
Anche nel settore dell’integrazione economica la cooperazione intergovernativa trova
importanti applicazioni. L’occasione viene data dall’esigenza di gestire il cd Piano Marshall:
si tratta di un piano di aiuti finanziari accordati dagli Stati Uniti all’Europa. Esso è volto a
favorire la ricostruzione economica e il conseguente consolidamento politico degli Stati
europei, usciti indeboliti dal II° conflitto mondiale.
L’erogazione degli aiuti viene subordinata alla condizione che la loro gestione avvenga in maniera
coordinata fra tutti gli Stati beneficiari. Pertanto un nutrito gruppo di Stati dell’Europa Occidentale
(Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi
Bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera, Turchia) danno vita ad un’apposita organizzazione
l’OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica), istituita con il Trattato di Parigi
(1948). Esaurita la funzione originaria, l’OECE avrebbe dovuto trasformarsi in zona di libero scambio
tra gli Stati membri. Tuttavia, si manifestano alcune divergenze.
Alcuni Stati membri (Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi), forti della positiva
esperienza di cooperazione maturata optano per forme d’integrazione economica più avanzate,
dando vita alle 3 Comunità europee.
Altri (Austria, Danimarca, Norvegia, Regno Unito, Svezia, Portogallo e Svizzera), restano fedeli all’idea
di una semplice zona di libero scambio e istituiscono (Convenzione di Stoccolma, 1960) l’Associazione
europea di libero scambio (nota con l’acronimo inglese EFTA). Gli Stati membri dell’EFTA (tranne le
Svizzera) hanno poi dato vita, insieme alla Comunità Europea, allo Spazio economico europeo (SEE),
con l’Accordo di Oporto (1992). Successivamente, la maggior parte di essi ha deciso di aderire alle
Comunità europee.
L’OECE rimase in vita, ma il suo campo di attività fu rivolto alla cooperazione economica globale. Con
il Trattato di Parigi (1960) l’OECE venne trasformata in OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico), a cui aderirono anche Stati Uniti e Canada e poi altri Stati non europei.
Per quanto riguarda il settore della cooperazione politica, culturale e sociale, viene
costituito a Londra (1949) il Consiglio d’Europa (attualmente gli Stati membri sono 47). Si
tratta di un’organizzazione con compiti e obiettivi assai ampi: conseguire un’unione più
stretta tra i suoi membri; salvaguardare e attuare gli ideali dei principi che costituiscono il
loro patrimonio comune; facilitare il progresso economico e sociale.
L’organo principale è costituito dal Consiglio dei ministri (dove siedono i Ministri degli Esteri degli Stati
membri o i loro rappresentanti permanenti). Per le decisioni più importanti è richiesta la presenza
della maggioranza semplice dei componenti e l’unanimità dei votanti.
Lo strumento d’azione principale consiste nel predisporre e favorire la conclusione di convenzioni
internazionali tra gli Stati membri, spesso aperta anche all’adesione di Stati terzi. Si tratta dunque di
atti la cui entrata in vigore è subordinata alla ratifica da parte dei vari Stati, secondo le disposizioni
costituzionali di ciascuno. Le convenzioni concluse nell’ambito del Consiglio d’Europa sono numerose
e toccano i settori più svariati (Convenzione europea di estradizione, Carta sociale europea,
Convenzione europea sulla televisione transfrontaliera). Lo strumento di gran lunga più importante è
senz’altro la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950. La Convenzione comprende, da un lato, un
catalogo di diritti dell’uomo comune a tutti gli Stati membri e, dall’altro, un meccanismo di controllo
internazionale del rispetto di tali diritti imperniato sulla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Pur non essendo parte contraente della CEDU, l’Unione Europea dispone di una base giuridica che
permetterà di diventarlo: l’art 6, § 2 TUE (come modificato dal Trattato di Lisbona). Inoltre, i diritti
garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione, in quanto principi generali (art 6, § 3 TUE).
2. L’integrazione secondo il metodo comunitario: le origini
Il metodo della cooperazione intergovernativa presenta elementi di notevole debolezza: in
particolare, funziona in modo efficace solo con il consenso di tutti gli Stati membri. Ciò
induce taluni Stati europei a sperimentare forme di cooperazione più innovative, dando vita
al cd metodo comunitario, le cui caratteristiche sono:
1. prevalenza degli organi di individui: le persone che siedono nella maggior parte
delle istituzioni comunitarie rappresentano sé stesse, non lo Stato di cui sono
cittadine, essendo portatrici di proprie opinioni e di proprie scelte, che devono
compiere in modo del tutto indipendente;
2. prevalenza del principio maggioritario: si ridimensiona il principio dell’unanimità
anche per le istituzioni composte da rappresentanti degli Stati membri (Consiglio),
dando largo spazio alle deliberazioni della maggioranza (per lo più qualificata). Il
consenso di tutti gli Stati membri non è più condizione indispensabile per l’azione
dell’organizzazione. Gli Stati membri che si trovano in minoranza sono vincolati
dalle deliberazioni dell’istituzione anche se hanno votato contro l’approvazione.
3. ampio potere di adottare atti vincolanti: il potere deliberativo dell’organizzazione
si esprime non solo in raccomandazioni, ma anche attraverso atti vincolanti, che
creano a carico degli Stati membri obblighi aggiuntivi rispetto a quelli che gli Stati
stessi hanno assunto concludendo i Trattati istitutivi;
4. sottoposizione degli atti delle istituzioni a un controllo giurisdizionale di legittimità:
proprio perché le istituzioni sono dotate del potere di adottare atti vincolanti, è
necessario che la legittimità di tali atti possa essere sindacata da un organo
giurisdizionale inserito nella struttura dell’organizzazione.
La nascita del metodo comunitario si fa risalire al 9 maggio 1950 (Dichiarazione Schumann),
quando l’allora ministro degli esteri francese Robert Schuman rende un’importante
dichiarazione: il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è
indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche (…). L’Europa non potrà farsi in una
sola volta, né sarà costruita tutta insieme (…), essa sorgerà da realizzazioni concrete che
creino anzitutto una solidarietà di fatto (cd Europa dei piccoli passi).
Come 1a tappa di questo percorso graduale di avvicinamento verso una Federazione
europea (termine più volte utilizzato nella Dichiarazione), il Governo francese propone di
mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune
Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi
europei. La scelta del settore carbo-siderurgico viene giustificata, anzitutto, in relazione alla
circostanza che i siti di produzione di tali materie prime si concentrano nella fascia di confine
tra i due Paesi, da sempre oggetto di contesa. Mettere in comune tali produzioni significa
rimuovere la causa dei sanguinosi conflitti del passato (carbone e acciaio sono i principali
elementi per la produzione di armamenti: la gestione in comune di tali risorse permette di
impedire a Francia e Germania di effettuare segretamente un riarmo ostile).
La proposta nasce come un progetto essenzialmente franco-tedesco, aperto però ad altri Stati, in
primo luogo il Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo), produttore delle suddette materie. Quanto
all’Italia, gli uomini di governo del tempo (Alcide de Gasperi) consapevoli dell’arretratezza economica
e dell’isolamento politico in cui si trovava l’Italia all’indomani del secondo conflitto mondiale, vedono
nel progetto franco-tedesco l’occasione per reinserire l’Italia nel gioco europeo e internazionale.
La proposta viene accolta da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi.
Sorge la cd Piccola Europa, che sarà vita alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio
(CECA), istituita con il Trattato di Parigi del 12 aprile 1951.
La CECA presenta tratti molto originali, che ne fanno un modello molto diverso dalle
precedenti organizzazioni europee. Si prevede l’istituzione di un mercato comune del
carbone e dell’acciaio, comprendente una zona di libero scambio tra gli Stati membri, il
divieto di discriminazione tra produttori, acquirenti e consumatori, il divieto di sovvenzioni
e di aiuti statali alle imprese e il divieto di pratiche restrittive della concorrenza.
Dal punto di vista istituzionale, la CECA si basa su 4 istituzioni: l’Alta Autorità, il Consiglio dei Ministri,
l’Assemblea comune e la Corte di Giustizia.
Il ruolo centrale è riservato all’Alta Autorità (organo di individui, composto da 9 persone nominate
dagli Stati di comune accordo e scelte in funzione della loro competenza professionale: i membri
dell’Alta Autorità devono agire in piena indipendenza). Tale organo dispone di poteri deliberativi assai
penetranti, attraverso atti che hanno effetti vincolanti nei confronti dei destinatari, che possono
essere sia gli Stati membri sia le imprese del settore carbo-siderurgico. Le decisioni, vincolano in tutti
i loro elementi, mentre le raccomandazioni (come le direttive) vincolano solo negli scopi.
Il Consiglio dei Ministri, composto da un rappresentante del Governo di ogni Stato membro, ha
funzioni consultive rispetto all’Alta Autorità. Il parere del Consiglio è tuttavia vincolante per quelle
materie in cui è previsto che l’Alta Autorità deliberi su parere conforme del Consiglio.
L’Assemblea comune riunisce rappresentanti dei parlamenti nazionali e ha funzioni consultive.
La Corte di Giustizia esercita funzioni di controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti o dei
comportamenti delle istituzioni e, soprattutto, dell’Alta Autorità.

L’autonomia di cui gode la CECA rispetto agli Stati membri e l’ampio potere di vincolare dei
propri atti non solo gli Stati membri, ma anche soggetti interni agli ordinamenti (in
particolare, le imprese del settore carbo-siderurgico), vale a giustificare l’uso del termine
ente sovranazionale, forgiato per definire la CECA: questa si presenta infatti come ente
detentore di poteri non riconducibili agli Stati nazionali, che possono essere esercitati
all’interno del territorio nazionale e nei confronti di soggetti ivi operanti.
Con la conferenza di Messina (1955) si decide di sviluppare ulteriormente il processo di
integrazione europea, costituendo un comitato di studio (presieduto dal noto uomo politico
belga Henri Spaak) incaricato di formulare proposte per allargare ad altri settori l’esperienza
della CECA. Viene formulato un duplice progetto: 1) l’idea di un mercato comune generale;
2) lo sviluppo di un regime speciale per l’uso pacifico dell’energia atomica.
Il progetto porta alla firma dei 2 Trattati di Roma (25 marzo 1957): il Trattato che istituisce
la Comunità Economica Europea (CEE)1 e il Trattato che istituisce la Comunità Europea
dell’Energia Atomica (CEEA o EURATOM).
La struttura istituzionale delle 2 nuove Comunità rispecchia quella della CECA.
Sono previste 4 istituzioni: la Commissione (che corrisponde all’Alta Autorità CECA), il Consiglio,
l’Assemblea parlamentare e la Corte di Giustizia.
L’equilibrio istituzionale è però molto diverso. Poiché l’integrazione comunitaria non riguarda più un
solo settore, ma abbraccia tutti i settori dell’economia (compreso quello agricolo, che in passato era
sempre stato riservato all’esclusiva sovranità nazionale), gli Stati non possono accettare, come per il
carbone e l’acciaio, di delegare il potere ad un’autorità indipendente.
Inoltre, occorre considerare la diversa natura dei Trattati istitutivi.
Il Trattato CECA viene definito come un trattato-legge, in quanto stabilisce in dettaglio la disciplina
del mercato carbo-siderurgico. Il potere dell’Alta Autorità è quindi sostanzialmente amministrativo,
trattandosi di gestire il settore applicando strumenti e regole già definiti nel trattato. La stessa Corte
di Giustizia è configurata nel Trattato CECA in modo assai simile al Conseil d’Etat francese, ossia un
giudice amministrativo.
Il Trattato CEE è un trattato-quadro: la disciplina in esso contenuta è molto meno definita e si limita
spesso all’enunciazione di obiettivi e principi, da attuare con l’emanazione di atti normativi. Le
istituzioni della CEE (a differenza dell’Alta Autorità) sono dunque chiamate ad esercitare un vero e
proprio potere legislativo. È facile capire come gli Stati non siano stati disponibili a privarsi di un tale
potere, delegandolo ad un’autorità comune e indipendente, ma abbiano voluto riservarlo al Consiglio,
unico organo in cui gli Stati sono direttamente rappresentati. In sostanza, nella CEE (come anche nella
CECA) l’organo centrale non è la Commissione (equivalente all’Alta Autorità), ma è il Consiglio, al quale
spetta l’adozione di quasi tutti gli atti, soprattutto quelli di natura normativa.
3. Lo sviluppo dell’integrazione europea: l’unificazione del quadro istituzionale e
l’allargamento a nuovi Stati membri
All’indomani dei Trattati di Roma, il quadro dell’integrazione europea comincia a presentare
una certa “complessità”: esso consta infatti di 3 Comunità distinte, ciascuna dotata di
proprie istituzioni e di proprie regole di funzionamento. I tentativi per semplificare la
struttura cominciano subito. L’obiettivo è la fusione delle 3 Comunità.
1. All’atto stesso della firma dei Trattati di Roma, viene firmata la Convenzione su alcune
istituzioni comuni delle Comunità europee, per effetto della quale le 3 Comunità mettono in
comune 2 istituzioni: l’Assemblea parlamentare e la Corte di Giustizia. Fin dall’inizio quindi
queste istituzioni agiscono per tutte le Comunità, esercitando però i poteri previsti da
ciascun trattato istitutivo, nelle forme e nei modi ivi definiti, a seconda che la materia di cui
si occupano di volta in volta ricada nell’applicazione dell’uno o dell’altro trattato.

1In seguito al Trattato sull’Unione Europea, firmato a Maastricht nel 1992 (TUE), la denominazione della
Comunità Economica Europea (CEE) muta in Comunità Europea (CE).
2. Con il Trattato di Bruxelles (1965), che istituisce un Consiglio e una Commissione unici
delle Comunità europee viene posto termine alla pluralità delle cd istituzioni esecutive.
Anche in questo caso i nuovi organi gestiscono i poteri derivanti dai trattati istitutivi,
rispettando le differenti discipline.
3. Allo scadere del Trattato CECA (2002), gli Stati membri rinunciano alla possibilità (pure
prevista) di rinnovarlo. Di conseguenza, il settore carbo-siderurgico rientra nel campo
d’applicazione del mercato comune disciplinato dal TCE.
Con il Trattato di Lisbona, l’esperienza comunitaria in senso proprio si conclude.
La Comunità Europea cessa di esistere come ente autonomo e viene incorporata
nell’Unione Europea dalla quale era stata fino ad allora tenuta distinta.
L’art 1, comma 3 TUE dispone: l’Unione sostituisce e succede alla Comunità Europea.
Di conseguenza, il TCE cambia titolo e diviene Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
La CEEA, invece, sopravvive come ente autonomo.
Un altro importante sviluppo delle Comunità europee riguarda il cd allargamento. Le
Comunità hanno mosso i primi passi con la cd Piccola Europa. Il successo ottenuto dalla
CECA e dalla CEE ha spinto nel tempo numerosi altri Stati europei a presentare domanda di
adesione. Anche se, dal punto di vista del diritto internazionale, non sono veri e propri
trattati aperti, i trattati istitutivi prevedono una procedura di adesione per gli ulteriori Stati
europei (art 49 TUE). In ordine cronologico gli allargamenti sono stati:
1973 Danimarca, Irlanda e Regno Unito
1981 Grecia
1986 Portogallo e Spagna
1995 Austria, Finlandia e Svezia
2004 Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovenia, Ungheria, Cipro e Malta
2007 Bulgaria e Romania
2013 Croazia

Il processo di allargamento, con il passaggio da 6 a 28 Stati membri, fa dell’integrazione


europea una realtà del tutto differente rispetto a quella di partenza. Da un lato, il fenomeno
ha acquisito una caratterizzazione europea nel vero senso del termine, posto che, dopo il
superamento della divisione tra Est e Ovest, vi partecipano Stati di tutte le regioni del
continente. Dall’altro lato, il notevole aumento degli Stati membri ha reso obsoleta la
struttura istituzionale inizialmente immaginata. Una radicale riforma si è in parte realizzata
con il Trattato di Lisbona.
4. Segue: la riduzione del deficit democratico
Dal punto di vista istituzionale, il quadro di partenza ha subito nel tempo numerose e
importanti modifiche. Uno dei grandi problemi che la struttura istituzionale ancora oggi
presenta è costituito dal deficit democratico.
Il principio democratico fa parte dei valori su cui si fonda l’Unione (art 2 TUE). A tale principio è
dedicato il Titolo II del TUE (Disposizioni relative ai principi democratici), che ne parla in una duplice
dimensione: la democrazia rappresentativa (art 10 TUE) e la democrazia partecipativa (art 11 TUE).
Per come immaginata in origine, la struttura istituzionale non rispondeva ai principi su cui
sono basati gli Stati moderni. In particolare, non risultava rispettato il principio della
democrazia parlamentare (o rappresentativa): l’istituzione dotata di maggiori poteri
(compreso quello di adottare atti normativi) era il Consiglio, composto dai rappresentanti
dei Governi degli Stati membri (il potere esecutivo di ciascuno Stato e non quello legislativo),
i quali disponevano collegialmente, a livello comunitario, di poteri che, se fossero stati
esercitati a livello nazionale, sarebbero stati prerogativa dell’organo parlamentare. Tale
deficit democratico non era compensato dalla presenza di un organo rappresentativo (in
origine dei parlamenti nazionali): l’Assemblea parlamentare (poi Parlamento europeo con
l’Atto Unico europeo nel 1986), nasceva con mere funzioni consultive.
Tuttavia, la presenza del Parlamento europeo offriva, in prospettiva, una soluzione: sarebbe
bastato ampliarne i poteri, in modo da controbilanciare i poteri del Consiglio. Il sistema si
sarebbe così avvicinato ad una configurazione bicamerale: una camera rappresentativa
degli Stati (Consiglio) e un’altra camera composta da rappresentanti eletti dai popoli
(Parlamento europeo). Si è così assistito ad un lento ma inesorabile ampliamento dei poteri
dell’istituzione parlamentare. Tuttavia, ciò è sempre avvenuto in una prospettiva di
affiancamento al Consiglio e di condivisione dei poteri (mai di sostituzione).
Il carattere duale o bicamerale del sistema appare funzionale alla duplice fonte di legittimazione su
cui l’Unione si fonda:
a) la volontà dei cittadini, con l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo;
b) la volontà degli Stati membri, attraverso i rappresentanti dei rispettivi Governi nel Consiglio (e nel
Consiglio europeo).
Il Trattato di Lisbona ribadisce la logica della doppia legittimazione. Secondo l’art 10 TUE, il
funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa (§ 1).
Il § 2 chiarisce però che tale principio si attua in 2 direzioni diverse e complementari:
a) i cittadini sono direttamente rappresentati a livello dell’Unione nel Parlamento europeo (comma 1);
b) gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi Capi di Stato o di governo
e nel Consiglio dai rispettivi Governi (comma 2).
La rappresentanza degli Stati membri esprime però una rappresentanza indiretta dei cittadini: i Capi
di Stato e di governo nel Consiglio europeo e i governi nel Consiglio, sono a loro volta
democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini.
L’ampliamento dei poteri del Parlamento europeo è avvenuto per tappe.
Dapprima, sono approvati ed entrano in vigore il Trattato firmato a Lussemburgo (1970) e
poi il Trattato firmato a Bruxelles (1975), ossia i cd Trattati di bilancio. L’effetto combinato
è quello di attribuire al Parlamento europeo (che prima svolgeva in materia una mera
funzione consultiva) i poteri di approvazione del bilancio unificato delle 3 Comunità (ora
adottato congiuntamente dal Consiglio e dal Parlamento europeo)2.
Poco dopo, con un atto allegato alla decisione del Consiglio del 20 settembre 1976, si decide
di dare attuazione ad una norma del TCE (art 137) passando al suffragio universale diretto
per l’elezione dei membri del Parlamento europeo (in origine, i membri erano designati da
ciascun parlamento nazionale, tra i rispettivi componenti).
L’Atto Unico europeo (1986) introduce nei poteri del Parlamento europeo 2 novità:
1. la procedura di parere conforme, che impedisce al Consiglio di approvare determinati
atti senza la previa approvazione del Parlamento europeo;
2. la procedura di cooperazione, che offre al Parlamento europeo la possibilità di influire
sulle deliberazioni del Consiglio, essendo questo costretto a ricorrere al voto unanime per
superare il voto di opposizione parlamentare.
Con il Trattato sull’Unione Europea (TUE) firmato a Maastricht (1992), si aggiunge
un’ulteriore procedura decisionale, in cui i poteri del Parlamento europeo divengono
determinanti: la cd procedura di codecisione. Con essa può dirsi che si realizzi, in sostanza,
un sistema bicamerale: nessuna delle istituzioni coinvolte è in grado di imporre all’altra la
propria volontà, di modo che l’atto eventualmente approvato è ascrivibile ad entrambe.
Il Trattato di Amsterdam (1997) estende il campo d’applicazione della procedura di
codecisione a settori prima sottoposti ad altre procedure decisionali. La procedura stessa
viene resa più rapida ed efficace.
Infine, il Trattato di Lisbona (2007) permette di compiere ulteriori passi nel rafforzamento
dei poteri del Parlamento europeo e del carattere democratico dell’Unione:
1. la procedura di codecisione, che viene ribattezzata procedura legislativa ordinaria
e il suo campo di applicazione si estende ulteriormente (in particolare, viene
parzialmente introdotta anche nel settore della cooperazione di polizia e della
cooperazione giudiziaria in materia penale);
2. per la prima volta, i parlamenti nazionali sono chiamati dai trattati a svolgere un
ruolo attivo di controllo e opposizione (art 12 TUE), soprattutto per quanto
riguarda l’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità.

2
Il motivo di tale riforma è l’introduzione del sistema delle risorse proprie. Il bilancio comunitario non sarebbe più
stato alimentato secondo il metodo di finanziamento seguito per tutte le altre organizzazioni internazionali (ossia,
mediante contributi versati da ciascun Stato membro), ma con risorse finanziarie autonome. La necessità di
assicurare che tali risorse siano soggette al controllo di un organo democratico impone l’ampliamento dei poteri
del Parlamento europeo sul bilancio comunitario.
Tuttavia, anche dopo il Trattato di Lisbona, per alcune materie di competenza dell’Unione,
il Parlamento europeo mantiene funzioni meramente consultive. Nel settore della PESC i
poteri sono ancora più limitati. Pertanto, il deficit democratico costituisce un problema non
ancora completamente risolto.
Nella sentenza 30 giugno 2009 (Lissabon Urteil) il Bundesverfassungsgericht esamina i ricorsi di
costituzionalità presentati da alcuni gruppi parlamentari contro la legge di ratifica del Trattato di
Lisbona, contro la legge costituzionale che modifica l’art 23 GG (il cd Europa Artikel, corrispondente
grosso modo all’art 11 Cost) e contro la legge che rafforza i poteri del Parlamento tedesco in relazione
ai nuovi compiti previsti dal Trattato di Lisbona. I ricorsi sono accolti solo per quanto riguarda
quest’ultima legge.
In alcuni punti della sentenza, a Corte manifesta forti riserve sul rispetto del principio di democrazia
da parte del sistema istituzionale dell’Unione, nonostante le riforme introdotte dal Trattato di Lisbona.
Secondo la Corte, l’Unione Europea non ha ancora assunto una struttura conforme al livello di
legittimazione di una democrazia costituita in forma statale: manca un organo di decisione politica
formato attraverso elezioni eguali per tutti i cittadini dell’Unione e capace di rappresentare in modo
unitario la volontà popolare.
Inoltre, l’attuale ripartizione dei membri del Parlamento europeo in contingenti per ciascun Stato
membro non garantisce che alla maggioranza dei voti espressi corrisponda una maggioranza dei
cittadini dell’Unione in quanto il peso dei voti dei cittadini di uno Stato membro a basso grado di
popolazione può superare di 12 volte il peso dei voti dei cittadini di uno Stato membro ad alto grado
di popolazione. Una tale situazione sarebbe tollerabile in una seconda camera parlamentare (come il
Bundesrat) ma non nell’organo di rappresentanza del popolo.
Nonostante ciò, la ratifica del Trattato di Lisbona è conforme al Grundgesetz: al momento, infatti,
l’Unione non è uno Stato e pertanto la composizione del Parlamento europeo non deve rendere
giustizia all’eguaglianza in modo tale da rinunciare a ogni differenziazione nel peso del voto dei
cittadini in funzione del numero della popolazione degli Stati membri.
5. Segue: la riemersione della dimensione intergovernativa
L’ampliamento del campo d’applicazione dell’integrazione europea e l’aumento dei poteri
trasferiti dagli Stati al livello europeo non sono sempre avvenuti seguendo il disegno
originale delle Comunità, ma si è assistito ad un progressivo recupero di forme di
cooperazione di tipo più classico, in cui i singoli Stati membri detengono poteri interdittivi
più consoni alla cooperazione intergovernativa che a quella secondo il metodo comunitario.
Un primo segnale in questo senso è stata l’istituzione del Consiglio europeo, quale ulteriore
organo rappresentativo degli Stati membri, accanto e al di sopra del Consiglio.
Dato il carattere intergovernativo della cooperazione messa in atto in questa sede, le
deliberazioni sono assunte per consenso (ossia, senza opposizione da parte di alcuno), salvo
i casi in cui i trattati prevedano la maggioranza qualificata. Esse si estrinsecano in atti non
formali: le conclusioni della Presidenza.
La prassi di convocare riunioni tra le massime cariche politiche di ciascun Stato membro (Capi di Stato
e di governo) ha inizio già negli anni ’60, ma viene istituzionalizzata solo nel vertice di Parigi (1974),
nel quale si decide che i Capi di Stato e di governo si riuniscano, accompagnati dai Ministri degli Esteri,
3 volte l’anno e ogniqualvolta sarà necessario. L’opportunità di tali riunioni si avverte a fronte delle
difficoltà incontrate dal Consiglio (composto di soli Ministri) nel risolvere questioni di rilevanza politica
(adesione di nuovi Stati, revisione dei trattati, contrasti sorti in seno al Consiglio). Viene dunque
creata, al di sopra dell’intera struttura istituzionale, una suprema istanza politica incaricata di dare
l’impulso necessario allo sviluppo dell’integrazione europea e di definirne gli orientamenti politici
generali. Ciò avviene dapprima senza che tale organo sia previsto dai trattati istitutivi, ma in via di
mera prassi.
Con il Trattato di Lisbona, il Consiglio europeo figura tra le istituzioni dell’Unione (art 13 § 1 TUE) e ad
esso è dedicato l’intero art 15 TUE. La composizione resta in gran parte quella decisa in occasione del
vertice di Parigi del 1974: l’aggiunta della figura del Presidente della Commissione e l’istituzione del
Presidente del Consiglio europeo, con un mandato di 2 anni e 1/2 (rinnovabile 1 volta), non ha
cambiato la sostanza delle cose (il potere deliberativo resta riservato ai Capi di Stato e di governo).

Un altro campo in cui si è manifestata la riemersione della dimensione intergovernativa


riguarda le deliberazioni del Consiglio, in particolare quelle a maggioranza qualificata.
Una delle caratteristiche centrali del metodo comunitario è che le deliberazioni possono essere
assunte a maggioranza anche dal Consiglio. Ciò è diventato essenziale in seguito agli allargamenti
conosciuti dalle Comunità e poi dall’Unione: in un organo composto da 28 membri, l’unanimità
potrebbe portare ad un blocco decisionale.
Tuttavia, tale sistema di deliberazione, pur previsto nei trattati, ha sempre suscitato forti resistenze e
profondi contrasti tra gli Stati membri: il principio ha subìto nel tempo alcuni ridimensionamenti ed è
stato circondato da “cautele” a favore degli Stati messi in minoranza.
Con il Compromesso di Lussemburgo (1966), nel corso di una riunione straordinaria dei Ministri degli
Esteri, fu adottata una risoluzione in tema di maggioranza qualificata: se un membro del Consiglio
(dunque anche 1 solo Stato membro) avesse fatto valere interessi molto importanti del proprio Stato
(di rilievo nazionale), la discussione sarebbe proseguita per un ragionevole lasso di tempo, al fine di
pervenire a soluzioni che possano essere adottate da tutti i membri del Consiglio. In pratica, il principio
dell’unanimità avrebbe sostituito la maggioranza (una sorta di veto): fino a quando non fosse stato
raggiunto il consenso, la votazione sarebbe stata rimandata o preclusa3.
Tale meccanismo (caduto in disuso in seguito all’aumento del numero degli Stati membri) è stato però
inserito nell’art 31 § 2, comma 2 TUE nel settore PESC: per le deliberazioni del Consiglio è prevista, in
via generale, l’unanimità, ma se un membro del Consiglio dichiara che, per specificati e vitali motivi
di politica nazionale, intende opporsi all'adozione di una decisione che richiede la maggioranza
qualificata, non si procede alla votazione. L'Alto rappresentante cerca, in stretta consultazione con lo

3 L’accordo pose fine alla crisi scoppiata nel 1965 allorché la Commissione propose l’istituzione di un bilancio
autonomo della Comunità (da finanziare non più con i contributi versati dagli Stati membri, bensì con i versamenti
dei prelievi agricoli e dei diritti doganali) e un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo. La reazione della
Francia fu estremamente dura. La cd politica della sedia vuota (ossia, l’assenza e il boicottaggio di tutte le sedute
degli organi comunitari con conseguente arresto dell’attività della Comunità), si protrasse per 7 mesi, nonostante
i tentativi degli altri 5 Stati membri di raggiungere un accordo con la Francia. La situazione si sbloccò, infine, a
seguito del parziale insuccesso elettorale di De Gaulle e degli scarsi risultati ottenuti dalla linea dura francese.
Stato membro interessato, una soluzione accettabile per quest'ultimo. In mancanza di un risultato, il
Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può chiedere che della questione sia investito il
Consiglio europeo, in vista di una decisione all'unanimità (cd clausola di salvaguardia).
Con il Compromesso di Ioánnina (1994), raggiunto in occasione del Consiglio europeo straordinario
tenutosi in vista dell’adesione di Austria, Finlandia e Svezia, si stabiliva che, a fronte di una minoranza
di poco inferiore alla minoranza di blocco su una votazione a maggioranza qualificata, il Consiglio non
passasse subito alla votazione, ma proseguisse la discussione per un tempo ragionevole, al fine di
raggiungere una soluzione maggiormente condivisa.
6. Segue: dalle Comunità europee all’Unione europea
Anche l’istituzione dell’Unione Europea, quale realtà incorporante le Comunità europee e
le altre forme di cooperazione tra gli Stati membri, avviene inizialmente nel segno del
metodo intergovernativo.
Col passare degli anni, gli Stati membri avvertono il bisogno di estendere la loro
cooperazione a settori inizialmente non rientranti nel campo d’applicazione dei trattati. In
molti casi, ciò si traduce nell’attribuzione di nuove competenze alla Comunità, attraverso
opportune modifiche del TCE.
L’Atto Unico Europeo (1986) introduce la ricerca scientifica e tecnologica, l’ambiente, l’ambiente di
lavoro e la politica regionale. Il Trattato sull’Unione Europea (1992) aggiunge: cooperazione e
sviluppo, protezione dei consumatori, reti transeuropee, sanità pubblica, industria, cultura e,
soprattutto, l’Unione Economica e Monetaria. Con il Trattato di Amsterdam (1997), l’intero settore
dei visti, diritto d’asilo, immigrazione e circolazione dei cittadini di Paesi terzi è ricondotto alla
competenza comunitaria, così come l’occupazione e la cooperazione doganale. Il Trattato di Nizza
(2001) aggiunge la materia della cooperazione economica e finanziaria con Paesi terzi. Anche il
Trattato di Lisbona (2007) attribuisce alla competenza dell’Unione nuovi settori: politica spaziale,
energia, turismo, protezione civile e cooperazione amministrativa.
Ciò comporta l’assoggettamento dei nuovi settori ai principi del metodo comunitario.
Non sempre però. A partire dagli anni ’70, si assiste all’affermarsi di forme di cooperazione
tra Stati membri svolte con il metodo tradizionale della cooperazione intergovernativa, di
modo che gli stessi Stati si trovano a cooperare tra di loro su due piani differenti, per quanto
complementari.
Il settore più importante è quello della Politica Estera generale.
Il TCE attribuiva alla competenza esclusiva della Comunità gli scambi commerciali internazionali. Ciò
implicava per gli Stati membri la necessità di un certo coordinamento degli aspetti non commerciali
della propria politica estera, per evitare contraddizioni e garantire efficacia sul piano internazionale.
Tale coordinamento però non avviene in sede comunitaria, preferendosi dar vita a periodiche riunioni
dei Ministri degli Esteri (o Capi di Stato e di governo), da tenersi a latere delle riunioni del Consiglio (o
Consiglio europeo).
Secondo percorsi simili, si avviano forme di cooperazione nei settori della Giustizia e Affari Interni
(cooperazione giudiziaria in materia civile, immigrazione, visti, asilo, cooperazione di polizia e
cooperazione giudiziaria in materia penale).
Il Trattato sull’Unione Europea (TUE) firmato a Maastricht (1992) compie notevoli passi
avanti: nel settore affari esteri è istituita la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC); ad
essa si affianca la cooperazione in materia di Giustizia e Affari Interni (GAI).
La PESC e la GAI sono ricondotte ad una realtà comune, l’Unione Europea, figurativamente
paragonata a un tempio greco: 1 frontone sorretto da 3 pilastri.
Il I pilastro è la cooperazione comunitaria, il II pilastro è la PESC e il III pilastro è la GAI.
Il frontone rappresenta le disposizioni comuni contenute del TUE (Titolo I), mentre il basamento è
costituito dalle disposizioni finali (Titolo VI: in particolare l’art 48 sulla procedura di revisione dei
trattati e l’art 49 sulla procedura di adesione di nuovi Stati).
I 2 nuovi pilastri sono funzionalmente legati l’uno all’altro e (a differenza di quanto prevedeva l’Atto
Unico europeo) gestiti da un quadro istituzionale unico. Tuttavia, le modalità d’azione restano diverse
(legate al metodo intergovernativo): in questa prima fase, nel II pilastro e nel III pilastro non c’è spazio
per decisioni a maggioranza del Consiglio, il ruolo della Commissione è meno incisivo e quello del
Parlamento europeo è molto ridotto.
Con il Trattato di Amsterdam (e, in minor misura, con il Trattato di Nizza) sono compiuti
ulteriori passi verso l’assimilazione tra i 3 pilastri:
a) Una parte delle materie rientranti nel pilastro GAI (diritto d’asilo, immigrazione e circolazione delle
persone) sono trasferite nel I pilastro e sottoposte al metodo comunitario: nel campo del III pilastro
restano solo cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria in materia penale.
b) Si assiste all’introduzione nel II pilastro e nel III pilastro del metodo comunitario: in alcune ipotesi e
con determinate cautele a favore degli Stati membri in minoranza, il Consiglio può deliberare anche a
maggioranza qualificata. Viene inoltre accentuato il grado di obbligatorietà degli atti che il Consiglio
può adottare. Per quanto riguarda il III pilastro, si manifesta una chiara tendenza ad assimilare gli atti
adottati agli atti tipici comunitari e fa anche la sua comparsa la Corte di Giustizia (fino ad allora tenuta
fuori dalle forme di cooperazione non comunitarie).
Nelle intenzioni, la struttura a pilastri avrebbe dovuto essere soppressa con la riforma dei
trattati prevista dal Trattato di Lisbona. In realtà, viene meno solo la distinzione tra I pilastro
(cd pilastro comunitario) e III pilastro, ricondotto sotto il Titolo V della Parte III del TFUE
(Spazio di libertà, sicurezza e giustizia: controlli alle frontiere, diritto d’asilo, immigrazione,
cooperazione giudiziaria in materia civile ed anche cooperazione giudiziaria in materia
penale e cooperazione di polizia).
Ciò comporta alcune importanti novità sul piano istituzionale:
 viene meno ogni distinzione tra i tipi di atti che le istituzioni possono adottare (con
eliminazione degli atti tipici del III pilastro: le decisioni-quadro);
 applicazione della procedura legislativa ordinaria;
 estensione della competenza della Corte di Giustizia.
Permangono, invece, notevoli differenze per quanto riguarda l’ex II pilastro (PESC), la cui
disciplina è interamente riservata al Capo 2 del Titolo V del TUE (Disposizioni sull’Azione
Esterna dell’Unione e disposizioni specifiche sulla Politica Estera e di Sicurezza Comune),
salvo poche eccezioni. La PESC è soggetta ad un regime speciale per quanto riguarda le
procedure decisionali, gli atti da adottare e la quasi totale assenza di competenza della Corte
di Giustizia.
7. Segue: l’Europa a più velocità
La progressiva (e ancora imperfetta) riconduzione al metodo comunitario delle forme di
cooperazione intergovernativa ha come prezzo una certa contaminazione dello stesso. Nello
stesso TCE cominciano a infiltrarsi soluzioni di sapore intergovernativo, che mal si conciliano
con le caratteristiche originarie. Tale tendenza si evidenzia con il ricorso sempre più
frequente a forme di cooperazione differenziata, ossia applicabile a un numero ristretto di
Stati membri: si tratta del fenomeno noto come Europa a più velocità (talora definito come
Europa à la carte, ovvero a geometria variabile).
Il fenomeno nasce come soluzione di ripiego cui ricorrere quando si constata che l’estensione della
competenza comunitaria a un nuovo settore o la previsione di poteri d’azione comunitari più efficienti
(il che necessita una revisione dei trattati, ossia l’accordo di tutti gli Stati membri: art 48 TUE) rischiano
di essere “bloccate” dall’opposizione di un numero limitato di Stati membri. In questi casi, si preferisce
talvolta rinunciare all’idea di un’integrazione uguale per tutti e permettere agli Stati che lo desiderano
di andare avanti senza gli Stati contrari, nella speranza che, col tempo, anche questi seguiranno.
1. L’Accordo di Schengen (1985), relativo all’eliminazione dei controlli fisici alle frontiere, è
inizialmente firmato da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi (a cui altri
Stati hanno aderito più tardi) e si accompagna a misure per coordinare la politica
d’immigrazione da Paesi terzi e la polizia degli stranieri.
La Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen (1990) e gli altri atti rientranti nel
sistema (cd acquis di Schengen) sono integrati nel sistema UE con il Trattato di Amsterdam
(1997), ma sotto forma di cooperazione rafforzata.
Non ne fanno parte Cipro, Croazia, Bulgaria e Romania (il trattato non è ancora entrato in vigore).
Ne restano estranei anche Regno Unito e Irlanda: ciascuno dei due Stati membri può notificare la
propria intenzione di partecipare in tutto o in parte all’acquis (con clausole di opting-in) o di non
partecipare a singole decisioni che costituiscono uno sviluppo dell’acquis vincolante nei loro confronti
(con clausola di opting-out). La Danimarca, invece, partecipa all’acquis, ma non è vincolata da misure
che sviluppano l’acquis, salvo che notifichi l’intenzione di accettare tale misura (opting-in).
2. Per quanto riguarda l’Unione Economica e Monetaria (UEM), alla 3a fase (l’adozione
dell’euro quale unica moneta avente corso legale) non partecipano tutti gli Stati membri.
Per alcuni ciò è dovuto al mancato rispetto dei parametri previsti dall’art 140 § 1 TFUE.
Il Regno Unito e la Danimarca, invece, che pure rispettano i parametri, grazie ad apposite clausole di
opting-in possono decidere se aderire o meno alla moneta unica. In una situazione analoga (ma senza
esplicita clausola di opting-in) si trova la Svezia.
3. Gli esempi si moltiplicano con il Trattato di Amsterdam.
Con appositi protocolli allegati al TUE sono previste a favore di Regno Unito, Irlanda (Protocollo 21) e
Danimarca (Protocollo 22) apposite clausole che consentono a tali Stati di non essere vincolati (salvo
loro diversa volontà: opting-in) alle misure adottate nei settori dei visti, diritto d’asilo, immigrazione
e circolazione dei cittadini di Paesi terzi, rientranti nell’ex III pilastro (GAI).
La stessa posizione viene poi confermata dal Trattato di Lisbona per l’intero Titolo V della Parte III del
TFUE dedicato allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (che ha ad oggetto anche gli ultimi settori
rimasti nel III pilastro: cooperazione giudiziaria in materia penale e cooperazione di polizia).
Addirittura viene creato un apposito istituto per permettere iniziative di integrazione limitata ad
alcuni Stati membri: la cooperazione rafforzata (art 20 TUE). Tale modalità, ammessa dapprima solo
nel I e III pilastro (GAI), verrà estesa anche al settore PESC (Trattato di Nizza).
4. Il Trattato di Lisbona, anziché limitare il ricorso alla cooperazione differenziata, ne
moltiplica gli esempi: il più grave è il Protocollo 30, sull’applicazione della Carta dei diritti
fondamentali dell’UE a Polonia e Regno Unito.
8. Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa
Negli ultimi decenni le riforme si succedono con ritmo incalzante: L’Atto Unico Europeo (1986), il
Trattato sull’Unione Europea (1992), il Trattato di Amsterdam (1997), il Trattato di Nizza (2001) e,
infine, il Trattato di Lisbona (2007). La ragione di questo continuo ricorrere alla procedura di revisione
è che nessuna delle riforme di volta in volta approvate sono giudicate sufficienti.
La genesi del Trattato di Lisbona è particolarmente complessa.
Al Trattato di Nizza viene allegata una Dichiarazione relativa al futuro dell’Europa, in cui si
delinea un percorso per avviare un dibattito più approfondito e più ampio sul futuro
dell’Unione Europea, stabilendo di convocare un’ulteriore conferenza intergovernativa di
revisione nel 2004. Inoltre, la dichiarazione stabilisce che il dibattito sarebbe stato avviato
già nel 2001 con la cooperazione della Commissione e con la partecipazione del Parlamento
europeo, nonché con il contributo dei rappresentanti dei parlamenti nazionali e i portavoce
dell’opinione pubblica nelle sue varie componenti, ossia ambienti politici, economici e
accademici, esponenti della società civile.
Il dibattito è chiamato ad affrontare alcune questioni:
 delimitazione delle competenze tra Unione e Stati membri (principio di sussidiarietà);
 status della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, proclamata a Nizza (2000)
conformemente alle conclusioni del Consiglio europeo di Colonia (1999);
 semplificazione dei trattati al fine di renderli più chiari e comprensibili
 ruolo dei parlamenti nazionali nell’architettura europea.
Il Consiglio europeo (14-15 dicembre 2001) approva un’ulteriore dichiarazione (cd
Dichiarazione di Laeken), che definisce alcune questioni da risolvere. L’aspetto più
interessante consiste nell’aver deciso (sulla falsariga di quanto avvenuto per la preparazione
della Carta dei diritti fondamentali dell’UE) di convocare una convenzione composta dai
principali partecipanti al dibattito sul futuro dell’Unione e con il compito di esaminare le
questioni essenziali che il futuro dell’Unione comporta e di ricercare le diverse soluzioni
possibili. Alla fine dei lavori, sarà redatto un documento finale che costituirà il punto di
partenza della conferenza intergovernativa che prenderà le decisioni finali.
La convenzione esegue il suo mandato nel 2003 e trasmette al Presidente del Consiglio
europeo un progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa. Si aprono così
i lavori della nuova conferenza intergovernativa, che si trascinano fino alla metà del 2004.
Infine, il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa è solennemente firmato a Roma
il 29 ottobre 2004.
Nonostante il ricorso al termine Costituzione, il testo si presenta come un trattato, di natura simile a
quella dei trattati precedenti (di cui peraltro è prevista l’abrogazione: art IV-437).
A norma dell’art IV-447 § 1, il Trattato costituzionale dev’essere ratificato dalle Alte Parti Contraenti
conformemente alle rispettive norme costituzionali. Tuttavia, solo 18 Stati membri provvedono alla
ratifica (per l’Italia, con legge 57/2005) o almeno ottengono l’autorizzazione parlamentare a
procedere. In Francia e nei Paesi Bassi si crea una situazione di “stallo” a causa dell’esito negativo dei
referendum popolari indetti. Anche gli altri Stati membri scelgono allora di sospendere le procedure
di ratifica. Lo stesso Consiglio europeo, riunito a Bruxelles (16-17 giugno 2005) decide una pausa di
riflessione.
9. Il Trattato di Lisbona
Il Consiglio europeo di Bruxelles (21-22 giugno 2007) convoca una nuova conferenza
intergovernativa per definire il testo della riforma, ma con un mandato estremamente
preciso e dettagliato: si tratta solo di incorporare nel testo dei trattati vigenti le innovazioni
contenute nel Trattato costituzionale. Si giunge così rapidamente all’approvazione di un
nuovo trattato, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, noto come Trattato di Lisbona.
Rispetto al Trattato costituzionale, ci sono elementi di continuità. La maggior parte delle
innovazioni in esso contenute sono infatti sopravvissute al passaggio nel Trattato di Lisbona,
con qualche modifica marginale. Ciò vale per le principali riforme istituzionali:
la trasformazione del Consiglio europeo in istituzione vera e propria e la creazione di un
Presidente stabile per questo organismo (eletto per 2 anni e ½);
la nuova carica di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza;
il rafforzamento del ruolo del Presidente della Commissione;
la riduzione della composizione del Parlamento europeo e della Commissione;
la generalizzazione della procedura legislativa ordinaria (la vecchia procedura di
codecisione).
Anche la struttura a 3 pilastri su cui l’Unione si reggeva è semplificata, se non abolita.
Numerosi e importanti sono però anche gli elementi di discontinuità.
Anzitutto, la scelta di procedere alla de-costituzionalizzazione della riforma ha avuto
numerose manifestazioni.
1. La prima manifestazione ha carattere formale, ma nondimeno centrale. Non si procede più ad
abrogare i precedenti Trattati, ma ci si limita ad emendarli. Tuttavia, dovendo inserirvi molte
importanti novità previste dal Trattato costituzionale, essi subiscono modifiche rilevanti. Il TUE è
completamente riscritto. Il TCE cambia nome e natura: la soppressione della Comunità europea come
entità distinta non giustifica più l’esistenza di un trattato a sé stante, il quale si trasforma nel Trattato
sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e diventa il contenitore di tutte le disposizioni
giudicate di livello meno importante rispetto a quelle riservate al TUE.
2. La seconda manifestazione è di tipo terminologico. Non vengono più utilizzati una serie di termini
che sembravano alludere ad una natura super-statuale dell’Unione. Così i vocaboli costituzione e
costituzionale sono banditi dai trattati; viene soppresso l’art I-8 sui simboli dell’Unione Europea
(bandiera, inno ecc); la nuova figura di Ministro degli esteri dell’Unione assume la più modesta e
tradizionale denominazione di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza; tra gli
atti giuridici del diritto dell’Unione non figurano più la categoria delle leggi-quadro.
3. La terza manifestazione è sostanziale e consiste nell’eliminare o attenuare alcune novità che
avvicinavano il nuovo trattato a una vera e propria costituzione. Cade l’art I-7, che sanciva il principio
del primato del diritto dell’Unione sul diritto degli Stati membri. La II parte del Trattato costituzionale,
che riproduceva la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, è del tutto eliminata. Al suo posto, il nuovo
art 6 § 1 TUE si limita ad affermare che l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella
Carta, precisando che tale documento ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ma senza che il testo
sia riprodotto in un protocollo o in una dichiarazione allegata all’atto finale.
La de-costituzionalizzazione della riforma è la componente centrale della strategia messa in
atto dal Consiglio europeo per evitare il ripetersi delle difficoltà incontrate dal Trattato
costituzionale in sede di ratifica e di rassicurare l’opinione pubblica degli Stati membri.
Altre differenze sembrano rese necessarie per tener conto dei ripensamenti euro-scettici
emersi nelle leadership di alcuni Stati membri, dopo il fallimento del Trattato costituzionale.
Il riferimento è all’inserimento, nei trattati e nei protocolli, di una serie interminabile di
meccanismi di garanzia a favore degli Stati membri. Tali meccanismi sono di 2 tipi:
a) consentire ad uno o a più Stati membri di bloccare o almeno ritardare l’assunzione di
decisioni alle quali siano contrari;
L’esempio più importante è dato dal nuovo sistema di calcolo della maggioranza qualificata nel
Consiglio (cd regola della doppia maggioranza: 55% degli Stati membri che rappresentino almeno il
65% della popolazione dell’Unione). Prima, si adottava un sistema di voto ponderato: 352 voti erano
assegnati agli Stati membri in proporzione alla rispettiva popolazione e la maggioranza qualificata era
raggiunta con i voti a favore di 15 Stati membri, per 260 voti sul totale dei voti (circa il 74%).
Le nuove regole di calcolo (in vigore a partire dal 31 marzo 2017) reintroducono un meccanismo simile
al Compromesso di Ioannina: 4 membri del Consiglio che rappresentino il 35% della popolazione
dell’Unione (cd minoranza di blocco) possono chiedere una proroga della discussione, precludendo al
Consiglio la possibilità di passare subito alla votazione.
b) permettere ad uno o più Stati membri di sottoporsi alla obbligatorietà solo di certe parti
dei trattati o di certi atti delle istituzioni o di accettare di esserne vincolati, ma in modo
diverso rispetto agli altri Stati (la logica dell’Europa a più velocità). Tale tendenza ad
ammettere casi di cooperazione differenziata aumenta e coinvolge anche profili importanti
del diritto dell’Unione, come la tutela dei diritti fondamentali e l’intero settore dello Spazio
di liberà, sicurezza e giustizia.
Sempre nella prospettiva di fugare le fobie anti-europeistiche, vanno annoverati:
a) l’affermazione del carattere reversibile del processo d’integrazione europea (come già il
Trattato costituzionale aveva previsto, per ogni Stato membro è ammesso il diritto di
recesso unilaterale dai trattati: art 50 TUE).
b) la previsione di strumenti volti ad impedire un’espansione incontrollata delle
competenze dell’Unione (competence creep). Il Protocollo 2 (sull’applicabilità dei principi
di sussidiarietà e proporzionalità) rafforza notevolmente il potere di controllo e di
opposizione dei parlamenti nazionali.
10. Segue: la ritardata entrata in vigore del Trattato di Lisbona
Come tutti i trattati che hanno modificato i trattati in vigore, anche il Trattato di Lisbona,
per entrare in vigore, necessita della ratifica di tutti gli Stati membri.
Problemi in sede di ratifica si sono avuti in alcuni Stati membri (che pure avevano ratificato senza
difficoltà il Trattato costituzionale): Irlanda e Repubblica Ceca.
Il Consiglio europeo adotta alcune misure: in particolare, dichiara che i trattati e la Carta dei diritti
fondamentali non interferiscono con le autonome scelte dell’Irlanda in materia fiscale né con la
costituzione irlandese in materia di diritto alla vita, all’istruzione e alla famiglia, neutralità militare. Ciò
consente al Governo irlandese di indire un 2° referendum e questa volta l’esito è favorevole.
Analogamente, per la Repubblica Ceca: in particolare, l’estensione del Protocollo 30 (sull’applicazione
della Carta dei diritti fondamentali).
In Germania una sentenza del Bundesverfassungsgericht (Lissabon Urteil), pur respingendo i ricorsi
presentati contro la legge di ratifica e contro la legge costituzionale di modifica dell’art 23 GG,
dichiarava incostituzionale la legge tedesca che rafforzava i poteri del Bundestag e del Bundesrat in
relazione alle nuove funzioni che Trattato di Lisbona assegna ai parlamenti nazionali: la ratifica
tedesca non poteva essere perfezionata fino all’entrata in vigore della nuova legge.
In Francia, il Conseil constitutionnel ritiene che per la ratifica occorra una revisione costituzionale: ciò
avviene con l’approvazione della Loi constitutionnelle 2008-103.
Superate tutte queste difficoltà, il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il 1 dicembre 2009.
11. La riforma della governance economica
Nel 2008, con il fallimento della banca Lehman Brothers, negli USA scoppia una grave crisi bancaria
dovuta all’insolvenza dei mutui cd subprime. La crisi presto si diffonde in tutto il mondo e in particolare
in Europa, costringendo le autorità nazionali e le istituzioni dell’Unione ad assumere provvedimenti
inediti.
Viene istituita una complessa rete di organi per assicurare la sorveglianza a livello di Unione del settore
finanziario, istituendo il Comitato europeo per il rischio sistemico (European Systemic Risk Board),
l’Autorità bancaria europea (EBA), l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e
professionali (EIOPA) e l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA).
Nel 2013 è stato affidato alla BCE il controllo prudenziale degli istituti di credito.
Di fronte alla crisi, gli Stati membri hanno dovuto impegnarsi a rifinanziare le proprie banche. Ciò si è
tradotto in un notevole peggioramento delle finanze pubbliche, soprattutto negli Stati membri che
già presentavano situazioni di squilibrio di bilancio.
A partire dal 2009 si manifesta la crisi del debito sovrano. Dapprima in Grecia, poi in Irlanda,
Portogallo, Spagna e Italia (cd PIGS), alcuni Stati membri della zona euro si trovano in gravi difficoltà
nel far fronte all’ingente stock di debito pubblico accumulato negli anni passati e aumentato in seguito
alla crisi bancaria scoppiata in seguito al fallimento della Lehman Brothers. In particolare, gli
investitori, temendo che gli Stati non siano in grado in futuro di onorare i propri debiti, richiedono
tassi d’interesse altissimi per le nuove emissioni di debito. Si verifica l’aumento del differenziale tra i
tassi richiesti sul debito degli Stati più deboli della zona euro e quelli praticati sul debito degli Stati più
sani (cd spread).
Il rischio di default di uno Stato della zona euro, di una possibile uscita dall’euro, le difficoltà che la
situazione provoca nella stessa corretta gestione dell’euro e del mercato unico (al cui interno vige la
libertà di circolazione di capitali), inducono l’Unione e i gli Stati membri a promuovere una profonda
riforma del coordinamento delle politiche economiche quale originariamente disciplinato dai trattati.
In realtà, il Titolo VIII della Parte III del TFUE (Politica economica e monetaria) è rimasto
sostanzialmente lo stesso rispetto al Titolo VII della Parte III del TCE, così come introdotto
dal Trattato di Maastricht (1992). La riforma è consistita in 2 diverse componenti:
1) istituzione di un sistema per venire in soccorso agli Stati membri che si trovino in gravi
difficoltà finanziarie, per evitare che tali difficoltà possano riverberarsi sull’intera zona euro
e sul funzionamento dell’UEM;
2) rafforzamento del coordinamento e della vigilanza delle politiche economiche nazionali,
per evitare il ripetersi di situazioni come quelle verificatesi a partire dal 2009.
Sul primo versante, gli Stati membri della zona euro hanno dato vita al cd Fondo salva-Stati,
creato attraverso il Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità (Trattato MES),
firmato l’11 luglio 2011 (e nella versione definitiva il 2 febbraio 2012) dai soli Stati membri
la cui moneta comune era l’euro al momento della firma.
Il MES è un’organizzazione finanziaria internazionale, simile al Fondo Monetario Internazionale (FMI),
con sede a Lussemburgo.
L’oggetto è reperire fondi per fornire, sotto stretta condizionalità, assistenza finanziaria agli Stati
contraenti, che conoscano o siano minacciati da gravi difficoltà finanziarie, se indispensabile per
garantire la stabilità finanziaria dell’insieme della zona euro e dei suoi Stati membri.
Pur dotata di organi autonomi (tra cui il Consiglio dei Governatori), al suo funzionamento partecipano
con ruolo molto importante le istituzioni dell’Unione (in particolare, la Commissione e la BCE). Prima
che il Consiglio dei Governatori decida su una richiesta di assistenza finanziaria da parte di uno Stato,
la Commissione e la BCE devono valutare l’esistenza di un rischio per la stabilità finanziaria della zona
euro nel suo complesso, nonché esprimersi sulla sostenibilità del debito pubblico dello Stato
interessato e sulle sue esigenze finanziarie effettive. Dopo aver deciso tale assistenza, la Commissione,
(su mandato del Consiglio dei Governatori), negozia, insieme con la BCE e, se possibile, con il FMI (cd
Troika) un Memorandum of Understanding, che definisce le condizioni da rispettare.
L’istituzione del MES ha reso necessaria una modifica del TFUE. Era infatti dubbio che un fondo del
genere sarebbe stato compatibile con l’art 125 TFUE (cd clausola no-bail out: divieto per l’Unione e
per gli Stati membri di farsi carico di debiti di altri Stati membri). Il Consiglio europeo ha quindi stabilito
di ricorrere alla procedura di revisione semplificata (art 48 § 6 TFUE): una decisione nel 2011 ha
modificato l’art 136 TFUE inserendo un meccanismo di stabilità per gli Stati membri della zona euro.
Il nuovo § 3 dispone: gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di
stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria
nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità.
Tale modifica non istituisce essa stessa il fondo: è una mera clausola che abilita gli Stati membri della
zona euro a farlo tra di loro. Di fatto, questo risultato è stato ottenuto con il Trattato MES, un accordo
stipulato da alcuni Stati membri, che svolge un compito complementare rispetto alle disposizioni del
TFUE sull’UEM (in quanto strumento indispensabile per il corretto funzionamento della zona euro).

Sul secondo versante (la governance economica) le molteplici iniziative assunte a partire dal
2010 formano un quadro molto variegato:
1) misure approvate a “trattati immutati”, ossia in conformità all’attuale disciplina del Titolo VIII della
Parte III del TFUE (dunque senza ricorrere alle procedure di revisione di cui all’art 48 TUE);
2) misure che, proprio perché avrebbero richiesto una revisione dei trattati (e l’approvazione di tutti
gli Stati membri: compresi quelli non partecipanti all’euro), vengono adottate al di fuori del contesto
dell’Unione, attraverso accordi intergovernativi tra i soli Stati membri disponibili;
3) misure di soft law, che per quanto di contenuto molto significativo sono prive di valore cogente.
Nel 1° gruppo, rientrano gli atti legislativi (5 regolamenti e 1 direttiva) che costituiscono il
cd Six Pack. In particolare, essi rafforzano il cd Patto di Stabilità e di Crescita4, relativo alla
definizione e al carattere semi-automatico delle procedure per disavanzi pubblici eccessivi
(art 126 TFUE) e introducono il cd semestre europeo.
In particolare, un regolamento (applicabile agli Stati aderenti alla zona euro) stabilisce che il Consiglio
possa deliberare alcune misure correttive del Patto di Stabilità e di Crescita, attraverso un deposito
fruttifero temporaneo (pari allo 0,2% del PIL) a carico dello Stato che non abbia adottato una politica
di bilancio prudente, mettendo a repentaglio la sostenibilità delle finanze pubbliche, con effetti
destabilizzanti per l’intera zona euro. La delibera è presa con la procedura del cd reverse voting: la
decisione si considera adottata a meno che il Consiglio, a maggioranza qualificata, non decida di
respingere la proposta della Commissione, entro 10 gg dalla sua adozione (alla decisione non
prendono parte gli Stati non-euro e lo Stato interessato, nei cui confronti dovrebbe essere adottato
l’atto proposto o raccomandato dalla Commissione). Ciò al fine di ridurre il rischio di ostruzione contro
le proposte della Commissione.

4 Il Patto di stabilità e crescita è un accordo del 1997, connesso al Trattato di Maastricht (1992). Tale intesa, al
fine di mantenere fermi i requisiti di adesione all’Unione Economica e Monetaria (cd Eurozona), vincola gli Stati
membri aderenti al controllo delle proprie politiche di bilancio, attraverso un rafforzamento delle politiche di
vigilanza su deficit di bilancio e debiti pubblici e una particolare procedura d’infrazione (cd procedura per disavanzo
eccessivo). In base al patto, gli Stati membri (della zona euro) devono rispettare alcuni parametri relativi al bilancio
dello Stato: un deficit pubblico non superiore al 3% del PIL e un debito pubblico inferiore al 60% del PIL.
Il 2° gruppo è costituito dal Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance UEM
(cd Fiscal Compact, siglato il 30 gennaio 2012 nel corso del Consiglio europeo di Bruxelles :
gli Stati firmatari sono stati 25 su 27, contrari Regno Unito e la Repubblica Ceca. Nell’ambito
di tale accordo, che formalmente è un trattato internazionale (entrato in vigore il 1 gennaio
2013, essendo stato ratificato da almeno 12 Stati interessati) è stato siglato uno specifico
Patto fiscale che di fatto inasprisce le misure di contenimento del disavanzo di bilancio
considerato “accettabile” secondo il Patto di stabilità e crescita (1997). Gli Stati contraenti,
in qualità di Stati membri (tra cui tutti gli Stati della zona euro), convengono di rafforzare il
pilastro economico dell’UEM adottando una serie di regole intese a rinsaldare la disciplina
di bilancio attraverso un patto di bilancio, a potenziare il coordinamento delle loro politiche
economiche e a migliorare la governance della zona euro (art 1 §1).
Il Fiscal Compact consta di 3 parti principali: Patto di bilancio (Titolo III, artt 3 – 8); Coordinamento
delle politiche economiche (Titolo IV, art 9 – 11); Governance della zona euro (Titolo V, artt 12 – 13).
Il Patto di bilancio contiene il principio del pareggio di bilancio (la posizione di bilancio della PA di una
parte contraente è in pareggio o in avanzo) e l’art 3, § 2 (cd Golden rule) pone l’obbligo per gli Stati
contraenti di recepire tale regola tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente
(preferibilmente costituzionale) o il cui rispetto è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il
processo nazionale di bilancio. Solo gli Stati membri che avessero introdotto il pareggio di bilancio
nella legislazione nazionale entro il 1 marzo 2014 avrebbero potuto accedere ai prestiti da parte del
MES. L’Italia ha adempiuto a tale obbligo con la legge cost 1/2012, che ha modificato l’art 81 Cost
nonché, per le altre articolazioni dello Stato, gli artt 97 – 117 e 119 Cost.
In particolare, oltre all’obbligo di contenere al massimo al 3% il rapporto tra deficit e PIL (già previsto
da Maastricht) si pone un vincolo dello 0,5% rispetto al PIL del cd deficit di bilancio strutturale (non
legato a emergenze: deviazioni sono possibili solo in conseguenza di “circostanze eccezionali”). Tale
valore viene aumentato all’1% per gli Stati membri con un debito pubblico inferiore al 60%.
L’art 4 stabilisce, per gli Stati con rapporto tra debito pubblico e PIL superiore al 60%, un obbligo di
riduzione del debito pubblico in ragione di 1/20 l’anno (per la parte eccedente la misura del 60%).
L’art 7 esprime l’impegno delle parti contraenti che adottano l’euro di sostenere, nel contesto della
procedura per disavanzi eccessivi, le proposte e le raccomandazioni della Commissione nei riguardi di
una di esse qualora l’istituzione reputi vi sia stata violazione del divieto di disavanzi eccessivi.
Altra novità è il cd Euro Summit (art 12), organo composto dai Capi di Stato e di Governo degli Stati
membri la cui moneta è l’euro, dal Presidente della Commissione e dal Presidente della BCE. Sono
previste almeno 2 riunioni l’anno, cui partecipano anche i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri
che hanno sottoscritto il Fiscal Compact, pur non facendo parte della zona euro.

Nel 3° gruppo figura il Patto Euro Plus, che istituisce un coordinamento più stretto delle
politiche economiche per la competitività e la convergenza. Si tratta di un atto non
vincolante, contenente impegni di natura politica sottoscritti dai Capi di Stato e di Governo
della zona euro e da quelli di Danimarca, Lettonia, Lituana, Polonia, Bulgaria e Romania.
12. La natura dell’Unione europea
La 1a domanda da porsi è se, soprattutto dopo il Trattato di Lisbona e la riconduzione
dell’intero processo d’integrazione europea ad un ente unitario (l’Unione ha personalità
giuridica: art 47 TUE) si sia formato uno Stato europeo in sostituzione degli Stati membri.
La risposta è negativa. L’Unione Europea non è uno Stato (e gli Stati membri non hanno
perso la loro statualità individuale).
Non è avvenuto per l’Unione quanto in passato si è verificato per alcuni Stati federali che, sorti per il
comune volere di Stati preesistenti, ne hanno assorbito (immediatamente o progressivamente) il
carattere statuale, diventando sul piano interno ed internazionale gli unici titolari di sovranità.
Del resto, sul piano empirico, non potrebbe sostenersi che l’Unione Europea eserciti effettivamente
un potere completo di governo su un proprio territorio e su una propria popolazione. Al contrario,
nonostante i numerosi e pesanti vincoli imposti dall’appartenenza all’Unione Europea, gli Stati
membri, ciascuno per il proprio territorio e per la popolazione ivi stanziata, continuano anche oggi a
svolgere quasi tutte le funzioni essenziali di controllo e di amministrazione che costituiscono gli
attributi tradizionali della sovranità statuale.
Nella sentenza 30 giugno 2009 (Lissabon Urteil) il Bundesverfassungsgericht afferma che il
Grundgesetz (art 23 GG cd Europa Artikel: corrispondente, grosso modo, all’art 11 Cost) non autorizza
gli organi attivi della Germania a rinunciare al diritto di autodeterminazione del popolo tedesco nelle
forme della sovranità internazionale della Germania, entrando in uno Stato federale. Ciò in quanto, il
trasferimento della sovranità a un nuovo soggetto di legittimazione è riservato esclusivamente a una
dichiarazione immediata di volontà del popolo tedesco. In conclusione, la costituzionalità delle leggi
di ratifica dei trattati (da ultimo, il Trattato di Lisbona) presuppone che l’Unione non assuma la natura
di Stato federale e che i singoli Stati membri non siano privati della propria sovranità individuale.

La natura non statuale dell’Unione si lega ad alcune caratteristiche (riscontrabili anche dopo
il Trattato di Lisbona) che possono essere intese (in negativo) come i limiti di espansione del
processo d’integrazione che le costituzioni nazionali possono tollerare:
1) la mancanza del potere di definire in autonomia le proprie competenze.
Tale caratteristica si lega al principio d’attribuzione. A differenza di uno Stato nazionale,
l’Unione Europea agisce nei limiti delle competenze che le sono attribuite dai trattati per
realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei
trattati appartiene agli Stati membri (art 5, § 2 TUE).
L’Unione non gode della cd competenza della competenza: l’estensione dei suoi poteri (e gli
obiettivi che attraverso tali poteri deve perseguire) dipende da quanto deciso dagli Stati
membri nei trattati.
Di qui il sospetto per quelle clausole che consentono di espandere le competenze dell’Unione senza
modificare i trattati (che richiederebbe l’assenso di tutti gli Stati membri).
La sentenza del 2009 (Lissabon Urteil) si sofferma sulla cd clausola di flessibilità (art 352 TFUE), che
consente all’Unione, entro certi limiti, l’adozione di azioni pur in mancanza di esplicita attribuzione di
poteri da parte dei trattati. La Corte tedesca esige che, prima di dare il suo assenso ad una proposta
basata sull’art 352 TFUE, il Governo tedesco ottenga la ratifica del Parlamento nazionale, come se si
trattasse di una modifica dei trattati. Inoltre, la Corte ribadisce la propria competenza al controllo sugli
atti dell’Unione, sul rispetto dei limiti della competenza trasferita, riservandosi il potere di dichiarare
incostituzionali eventuali atti ultra vires.

2) la necessità del consenso di tutti gli Stati membri per la revisione dei trattati.
Tale caratteristica attiene alla natura dei trattati. Se l’Unione fosse uno Stato federale, i
trattati (che ne rappresenterebbero la costituzione) sarebbero modificabili con procedure
di revisione a maggioranza (qualificata: a garanzia del principio democratico). Il fatto che la
procedura di revisione (art 48 TUE) richieda l’unanimità degli Stati membri dimostra invece
che i trattati hanno natura di trattati internazionali conclusi da Stati sovrani (i quali sono
“Signori dei trattati”, al punto di riservarsi anche il diritto di recesso unilaterale: art 50 TUE).
Nella sentenza del 2009 (Lissabon Urteil), il Bundesverfassungsgericht pone riserve sui meccanismi di
revisione semplificata dell’art 48, § 7 TUE, che consente al Consiglio europeo, con delibera unanime,
di prevedere che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata anziché per consenso o che un atto
legislativo sia approvato con procedura legislativa ordinaria anziché con procedura legislativa speciale
(con la possibilità per ciascun parlamento nazionale di comunicare, entro 6 mesi, voto di opposizione,
impedendo l’entrata in vigore della modifica).
Secondo la Corte, poiché tutto ciò comporta una perdita di controllo da parte del Governo tedesco
sul processo decisionale dell’Unione, occorre la previa ratifica del Parlamento tedesco (art 23 GG): il
Governo tedesco non può votare a favore di una proposta in applicazione dell’art 48, § 7 TFUE, prima
di aver ottenuto la ratifica parlamentare.

La 2a domanda da porsi è se l’Unione (come già le Comunità europee) costituisca nient’altro


che una forma, per quanto avanzata, di organizzazione internazionale (ossia, un ente creato
dagli Stati europei per poter “cooperare” tra di loro su base stabile in determinati settori e
per raggiungere obiettivi comuni) o se invece si tratti di una “figura intermedia” che, pur
non essendo ancora uno Stato, non è più una semplice organizzazione internazionale. In tal
caso, l’Unione sarebbe una realtà originale, estranea agli schemi noti, nonché “dinamica”,
soggetta ad un continuo e inesorabile processo di trasformazione e di rafforzamento, il cui
esito finale non è al momento prevedibile.
Il quid pluris che sembra distinguere l’Unione (e prima la Comunità) è costituito dal fatto
che, in suo favore, gli Stati membri avrebbero trasferito porzioni della loro sovranità.
Pertanto, l’Unione sarebbe un ente titolare di una sua propria sovranità, seppur parziale
(limitata alle materie previste nei trattati) e derivata (frutto di un conferimento degli Stati
membri, non di un atto o fatto autonomo).
Tale idea traspare per la prima volta nella sentenza C-26/62 Van Gend & Loos.
Nella causa che dà origine alla sentenza, un giudice olandese desidera sapere se un articolo del TCE
(l’art 12, ora abrogato, che vietava agli Stati membri di aumentare i dazi doganali esistenti al momento
dell’entrata in vigore del Trattato: cd clausola di standstill) possa essere invocato da un’impresa di
import-export che lamenti l’applicazione nei suoi confronti di un dazio maggiorato.
Contro la tesi del Governo olandese, secondo cui l’art 12 è norma che disciplina i rapporti tra gli Stati
membri e non può essere invocata da un soggetto privato (Van Gend & Loos), la Corte di Giustizia
afferma per la prima volta l’efficacia diretta di una norma del trattato. Secondo la Corte la Comunità
costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore
del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che
riconosce come soggetti non solo gli Stati membri, ma anche i loro cittadini.
Gli Stati membri, concludendo il TCE ed istituendo la Comunità non si sarebbero limitati ad assumere
reciprocamente una serie di impegni sul piano internazionale, ma avrebbero attribuito al nuovo ente
alcuni poteri sovrani. La sovranità di tali poteri deriverebbe proprio dal fatto che l’ordinamento del
nuovo ente, come ogni ordinamento statuale, tocca direttamente anche i cittadini ed esprime su di
loro un potere di governo, seppur parziale e di tipo essenzialmente normativo.
Nella sentenza C-6/64 Costa vs ENEL, il giudice conciliatore di Milano interroga la Corte sulla
compatibilità della legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica con alcuni articoli del TCEE. Il
Governo italiano manifesta dubbi sull’utilità della questione, partendo dall’assunto che il giudice
nazionale è comunque tenuto ad applicare la legge nazionale, anche se in contrasto con il trattato. La
Corte di Giustizia respinge l’argomento ed enuncia per la prima volta il principio del primato delle
norme del trattato rispetto a quelle nazionali.
La Corte afferma: a differenza dei comuni trattati internazionali, il Trattato CEE ha istituito un
proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto
dell’entrata in vigore del Trattato e che i giudici sono tenuti ad osservare. Inoltre, istituendo una
Comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità
di rappresentanza sul piano internazionale ed in ispecie di poteri provenienti da una limitazione di
competenza o da un trasferimento di attribuzione dagli Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia
pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per
i loro cittadini e per loro stessi.
L’idea di una “specialità” dell’Unione (e prima della Comunità) e di una sua “differenza strutturale”
rispetto ad altri fenomeni di cooperazione tra Stati ha finito dunque per essere accettata.
Le stesse costituzioni degli Stati membri si sono dotate di apposite clausole europee, per consentire la
partecipazione al processo d’integrazione e il trasferimento di competenze statali all’Unione: se la
sottoscrizione dei trattati rappresentasse una mera accettazione di vincoli internazionali come tanti
altri, non si spiegherebbe la necessità di clausole del genere e, soprattutto, delle procedure
d’approvazione solenni e aggravate che quasi sempre tali clausole prescrivono.
La giurisprudenza delle Corti costituzionali nazionali, invocando le clausole europee, hanno
riconosciuto l’efficacia diretta e il principio del primato del diritto di fonte sovranazionale rispetto a
quello di fonte nazionale. Anche se tale accettazione ha richiesto del tempo e non è priva di riserve e
limitazioni, ciò implica che, nei settori che i trattati attribuiscono alla competenza dell’Unione, le Corti
costituzionali riconoscono che la potestà normativa non appartiene più agli Stati membri.
Pertanto, la domanda ha una risposta positiva: l’Unione non è una semplice organizzazione
internazionale, ma è dotata, nei settori che sono stati attribuiti alla sua competenza, di
poteri assimilabili a quelli di un vero e proprio Stato. Per converso, la sovranità statale
rimane limitata dalle competenze attribuite all’Unione.
Parte I IL QUADRO ISTITUZIONALE
1. Considerazioni generali
La struttura su cui si regge l’Unione Europea è complessa. Al suo interno si distinguono
alcuni organi che, per l’importanza delle funzioni svolte, sono denominate istituzioni.
L’elencazione è contenuta nell’art 13 § 1 comma 2 TUE 5.
Parlamento europeo
Consiglio europeo
istituzioni politiche
Consiglio
Commissione europea
Corte di Giustizia (dell’Unione Europea)
Banca Centrale Europea (BCE)
Corte dei Conti
All’interno di alcune di queste istituzioni operano alcune figure che, per l’importanza delle
loro funzioni e per la relativa autonomia di status, possono qualificarsi organi monocratici:
 Presidente del Consiglio europeo
 Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza
 Presidente della Commissione
Le istituzioni sono le stesse per l’intera Unione: dunque l’insieme del sistema è gestito da
un quadro istituzionale unico, che non varia a seconda dei settori di attività (compresa la
PESC, che pure è soggetta a norme e procedure specifiche: art 24, § 1 comma 2 TUE).
Tuttavia, ruolo e poteri delle diverse istituzioni variano notevolmente, spostandosi da
azione ad azione e da politica a politica, anche in funzione delle diverse procedure
decisionali applicabili.
Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le disposizioni relative a composizione, poteri e
funzionamento delle istituzioni, che in passato si rinvenivano per lo più nel TCE, risultano ora
distribuite tra il TUE e il TFUE: le disposizioni più importanti sono nel Titolo III del TUE (art 13 – 19); le
disposizioni di dettaglio si trovano, invece, nella Parte VI del TFUE.
Delle 7 istituzioni, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio e la Commissione
possono definirsi le istituzioni politiche dell’Unione e svolgono funzioni di politica attiva,
partecipando, seppur in modo diverso, all’adozione di diversi tipi di atti (taluni legislativi,
altri di natura amministrativa) che modificano o integrano l’ordinamento dell’Unione.
La Corte di Giustizia e la Corte dei Conti, invece, possono definirsi istituzioni di controllo: la
prima, ha compiti di controllo giurisdizionale sull’attività delle istituzioni politiche e, in

5Rispetto al passato, le novità sono costituite dall’inserimento del Consiglio europeo e della Banca Centrale
Europea (BCE), nonché da alcune modifiche di denominazione: la Commissione diventa Commissione europea, la
Corte di Giustizia è dell’Unione Europea e non più delle Comunità europee.
misura minore, degli Stati membri; la seconda, esercita il controllo contabile sulle entrate e
sulle spese delle istituzioni politiche.
Infine, la BCE è un’istituzione specializzata: agisce solo nell’ambito dell’UEM (politica
economica e monetaria) ed esercita una competenza esclusiva in materia monetaria per gli
Stati che hanno adottato l’euro come moneta comune (UEM).
Secondo l’art 13, § 1, comma 1 TUE, l’Unione dispone di un quadro istituzionale che mira a
promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini
e quelli degli Stati membri, garantire la coerenza, l’efficacia e la continuità delle sue
politiche e delle sue azioni. Da tale disposizione si evince che le azioni svolte dalle istituzioni
nell’ambito dei diversi settori di competenza dell’Unione devono essere tra loro coordinate,
secondo il cd principio di coerenza.
Tale principio assume particolare importanza per quanto riguarda l’Azione Esterna ed è infatti ribadito
dall’art 21 § 3, comma 2 TUE (l’Unione assicura la coerenza tra i vari settori dell'azione esterna e tra
questi e le altre politiche). L’Azione Esterna dell’Unione si compone
a) della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), disciplinata dal Titolo V, Capo 2 TUE;
b) delle altre azioni e politiche di rilievo esterno, in particolare quelle previste nella Parte V del TFUE
(la politica commerciale comune, la cooperazione con i Paesi terzi e l’aiuto umanitario).
Benché ciascuna di tali componenti sia soggetta a procedure e modalità proprie, occorre che tutte
contribuiscano al raggiungimento degli obiettivi dell’Azione Esterna dell’Unione (di cui all’art 21 TUE).
La responsabilità di assicurare il rispetto del principio di coerenza nell’ambito dell’Azione Esterna e
rispetto alle politiche e Azioni Interne dell’Unione è ripartita tra il Consiglio e la Commissione, assistiti
dall’Alto rappresentante: essi garantiscono tale coerenza e cooperano a questo fine.
Una particolare forma di coordinamento tra settore PESC e gli altri aspetti dell’Azione Esterna è
prevista per le cd misure restrittive (di tipo economico e finanziario): qui è prevista una sequenza di
atti, il primo dei quali è una decisione, assunta in forza del Capo 2 del Titolo V TUE, cui fanno seguito
uno o più atti d’esecuzione, adottati nell’ambito della Parte V TFUE.
Secondo l’art 215 TFUE, quando una decisione PESC prevede l’interruzione o la riduzione delle relazioni
economiche e finanziarie con uno o più Paesi terzi, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata,
su proposta congiunta dell’Alto rappresentante e della Commissione, adotta le misure necessarie. Esso
ne informa il Parlamento europeo (§ 1). Con la stessa procedura, è possibile anche adottare misure
restrittive nei confronti di persone fisiche e giuridiche, di gruppi o di entità non statali (§ 2).

La prima frase dell’art 13 § 2 TUE enuncia il principio dell’equilibrio istituzionale: ciascuna


istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite nei trattati, secondo le
procedure, condizioni e finalità da essi previsti.
Tale principio attiene ai rapporti interistituzionali, imponendo alle istituzioni il rispetto delle
competenze attribuite dai trattati. La violazione dell’equilibrio istituzionale determina un
vizio d’incompetenza, comportando l’illegittimità dell’atto adottato.
La garanzia del principio dell’equilibrio istituzionale è altresì assicurata dalla rigorosa
osservanza delle procedure decisionali previste nel trattato per le singole materie.
La seconda frase dell’art 13 § 2 TUE è dedicata al principio della leale collaborazione: le
istituzioni attuano tra loro una leale collaborazione.
Lo stesso principio è sancito, oltre che per le istituzioni, anche per quanto riguarda i rapporti
tra Unione e Stati membri dall’art 4 § 3 TUE: in virtù del principio della leale collaborazione,
l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento
dei compiti derivanti dai trattati.
Prima del Trattato di Lisbona, si riteneva valesse anche il principio del rispetto dell’acquis.
Il termine acquis è un neologismo d’origine francese, che indica comprensivamente
l’insieme di quanto è stato realizzato (e dunque acquisito) in un determinato momento
storico sul piano dell’integrazione europea: non solo i trattati e gli atti delle istituzioni, ma
anche i principi generali e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nonché alcuni atti di
natura politica, quali le conclusioni del Consiglio europeo e talune risoluzioni adottate
congiuntamente o individualmente dalle istituzioni politiche.
Nel tempo si era affermato il principio secondo cui il rispetto dell’acquis non avrebbe
consentito approvare atti che costituissero un regresso rispetto all’obiettivo di una sempre
maggiore integrazione. Tale principio avrebbe riguardato gli Stati membri (comportando
l’impossibilità di modificare i trattati in senso peggiorativo, ossia con una retrocessione in
loro favore di competenze già attribuite all’Unione), ma anche le istituzioni (alle quali non
sarebbe stato permesso di proporre o approvare atti regressivi).
A questo profilo si riferiva il TUE nella versione precedente al Trattato di Lisbona. L’art 3, comma 1
disponeva che le istituzioni avrebbero dovuto operare rispettando e sviluppando nel contempo
l’acquis comunitario. Inoltre, il rispetto dell’acquis era espressamente richiamato come condizione
per approvare una cooperazione rafforzata, nonché nel contesto dell’adesione di nuovi Stati membri
(l’apertura dei negoziati era subordinata alla prova che ciascuno Stato, una volta entrato nell’Unione,
fosse in grado di rispettare l’acquis).
È dubbio che dopo il Trattato di Lisbona il principio del rispetto dell’acquis sia stato confermato.
1. L’art 48 § 2 TUE consente ora che i trattati siano modificati anche nel senso di “ridurre” le
competenze dell’Unione. Il nuovo testo prevede espressamente che i progetti di modifica dei trattati
possono tra l’altro, essere intesi ad accrescere o a ridurre le competenze attribuite all’Unione nei
trattati.
2. La parte dell’art 3, comma 1 TUE che impegnava le istituzioni a rispettare e a sviluppare l’acquis è
stata soppressa. Ora, l’art 2 § 2 TFUE, a proposito delle competenze concorrenti dell’Unione, chiarisce
che gli Stati membri esercitano nuovamente la loro competenza nella misura in cui l’Unione ha deciso
di cessare di esercitare la propria. Pertanto, sarebbe legittimo un atto dell’Unione che, in deroga
all’acquis, decidesse di non esercitare più una competenza, lasciando così spazio agli Stati membri
nella disciplina del settore interessato.
2. Il Parlamento europeo (art 14 TUE)
Originariamente denominata Assemblea, poi Assemblea parlamentare, l’istituzione ha
assunto (prima con propria deliberazione nel 1962 e poi con l’Atto Unico Europeo del 1986)
la denominazione di Parlamento europeo.
L’art 14, § 2 TUE, prevede sia composto da rappresentanti dei cittadini dell’Unione, eletti
a suffragio universale, con un voto che si specifica essere diretto, libero e segreto (§ 3). La
stessa disposizione definisce la durata del mandato (5 anni).
Il numero massimo dei membri non può essere superiore a 750, più il Presidente.
Per ogni Stato membro, la rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente
proporzionale, con una soglia minima di 6 e una soglia massima di 96 seggi.
Il numero totale e la distribuzione dei seggi tra gli Stati è disposta con decisione del Consiglio europeo,
adottata all’unanimità, su iniziativa del Parlamento europeo e con la sua successiva approvazione.
Secondo l’art 223 TFUE, la disciplina per l’elezione dei membri del Parlamento europeo potrebbe
prevedere una procedura uniforme in tutti gli Stati membri o principi comuni a tutti gli Stati membri.
Le disposizioni necessarie sono approvate con procedura legislativa speciale: il Consiglio delibera
all’unanimità, su iniziativa del Parlamento europeo, e con la sua successiva approvazione, cui si
aggiunge l’approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.
L’attuale disciplina in vigore si limita a porre alcuni principi comuni: 1) il sistema proporzionale (con
soglia di sbarramento max al 5%); 2) il regime delle incompatibilità (divieto di doppio mandato: al
Parlamento europeo e al parlamento nazionale); 3) il principio one man - one vote; 4) il periodo di
svolgimento delle elezioni e il momento dello spoglio delle schede elettorali.
Per il resto, la disciplina elettorale resta affidata alla competenza di ciascuno Stato membro.

Il Parlamento europeo dispone di alcuni organi.


Il Presidente del Parlamento europeo dirige i lavori del Parlamento e lo rappresenta nelle
relazioni internazionali, nelle cerimonie, negli atti amministrativi e giudiziari. I parlamentari
europei sono organizzati in Gruppi politici (con un numero minimo di 25 componenti,
provenienti da almeno 1/4 degli Stati membri). I presidenti dei Gruppi politici e il Presidente
del Parlamento, costituiscono insieme la Conferenza dei Presidenti, che decide
l’organizzazione dei lavori e tiene i rapporti con le altre istituzioni e con i parlamenti
nazionali.
I lavori del Parlamento europeo possono svolgersi in aula o in commissione.
Le commissioni sono di 2 tipi: le commissioni permanenti si ripartiscono gli affari di cui l’istituzione è
investita a seconda della materia; possono, inoltre, essere istituite commissioni speciali e commissioni
temporanee d’inchiesta.
L’art 14, § 1 TUE descrive le funzioni del Parlamento europeo: esercita, congiuntamente al
Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita funzioni di controllo
politico e consultive alle condizioni stabilite dai trattati. Elegge il Presidente della
Commissione. Le funzioni più importanti possono essere raggruppate in 2 categorie:
funzioni di controllo politico e funzioni di partecipazione all’adozione degli atti dell’Unione
(in particolare, quelli di natura legislativa).
Il Parlamento europeo può esercitare le sue funzioni di controllo politico attraverso i
numerosi canali di cui dispone per ricevere le informazioni sull’operato delle altre istituzioni
(e, in misura minore, degli Stati membri e dei privati).
a) L’informazione regolare e periodica è assicurata da relazioni o rapporti da parte delle
altre istituzioni e organi.
La più importante è la relazione generale annuale, presentata dalla Commissione (art 233 TFUE).
L’Alto rappresentante consulta regolarmente il Parlamento europeo sui principali aspetti e sulle scelte
fondamentali della PESC e della politica di sicurezza e difesa comune (art 36, comma 1 TUE).
Il Parlamento europeo può anche procurarsi autonomamente le informazioni necessarie attraverso
interrogazioni e audizioni della Commissione, del Consiglio e del Consiglio europeo (art 230 TFUE).
b) Oltre ai canali istituzionali, il Parlamento europeo può trarre informazioni e stimoli
dall’iniziativa degli individui. In particolare, esistono 3 strumenti di comunicazione: le
petizioni, le denunce e il ricorso del Mediatore europeo.
Il diritto a presentare petizioni al Parlamento europeo su una materia che rientra nel campo
dell’attività dell’Unione (art 227 TFUE) spetta a qualsiasi cittadino dell’Unione, nonché a qualsiasi
persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro. Tuttavia, occorre
dimostrare che l’oggetto della petizione concerne direttamente l’autore6.
È possibile presentare al Parlamento europeo denunce d’infrazione o di cattiva amministrazione
nell’applicazione del diritto dell’Unione (per comportamenti degli Stati membri o di privati): il
Parlamento può decidere di istituire una commissione temporanea d’inchiesta, salvo quando i fatti
di cui trattasi siano pendenti dinanzi ad una giurisdizione e fino all’espletamento della procedura
giudiziale, dinanzi alla Corte di Giustizia o dinanzi ai giudici nazionali (art 226 TFUE).
Il Parlamento europeo può essere investito dal Mediatore europeo. Ai sensi dell’art 228 TFUE,
qualsiasi cittadino dell’Unione, nonché qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia sede
sociale in uno Stato membro può rivolgersi a tale figura per lamentare casi di cattiva amministrazione
nell’azione delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione, salvo la Corte di Giustizia
dell’Unione Europea nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. Ispirato all’esperienza scandinava
dell’ombudsman, si tratta di una figura autorevole, una persona indipendente nominata dal
Parlamento europeo (che ne ha altresì stabilito lo statuto). Una volta ricevuto il ricorso, il Mediatore
effettua le proprie indagini e, se riscontra un caso di cattiva amministrazione, si rivolge all’istituzione
interessata, che ha 3 mesi per comunicare il proprio parere. Sulla base delle risposte fornite, il
Mediatore elabora una relazione che trasmette al Parlamento europeo e all’istituzione interessata.
Della relazione viene informato anche il ricorrente. Il Mediatore è privo di potere coercitivo autonomo,
ma può contare sul prestigio morale della propria funzione per ottenere un intervento dell’istituzione
interessata o, in difetto, del Parlamento europeo.

6l’art 263, comma 5 TFUE, nel definire la legittimazione attiva ai ricorsi delle persone fisiche o giuridiche specifica
che deve trattarsi di atti di organi o organismi dell’Unione destinati a produrre effetti giuridici nei loro confronti).
A fronte di queste molteplici strumenti d’informazione, che gli consentono di tenersi al
corrente sull’azione delle altre istituzioni e organi dell’Unione, il Parlamento europeo
dispone anche di poteri sanzionatori, ma solo nei confronti della Commissione: si tratta del
potere di approvare una mozione di censura (art 234 TFUE). Se la mozione di censura è
approvata a maggioranza di 2/3 dei voti espressi e a maggioranza dei membri che
compongono il Parlamento, i membri della Commissione si dimettono collettivamente
dalle loro funzioni (ma le dimissioni dell’Alto rappresentante riguardano solo le funzioni che
esercita in seno alla Commissione).
Il controllo del Parlamento sull’operato del Consiglio, invece, non si traduce in poteri sanzionatori e
riveste perciò carattere meramente morale.
In una prospettiva di democrazia parlamentare, questa situazione potrebbe apparire paradossale.
L’organo parlamentare eletto direttamente dai cittadini, non è in grado di imporre il proprio volere
all’organo che adotta le decisioni più importanti per l’Unione, ma che è privo di legittimazione
democratica diretta. D’altra parte, un meccanismo di controllo parlamentare di questo tipo non
sarebbe nemmeno concepibile nel sistema dell’Unione: il Consiglio non trae la propria investitura da
un voto parlamentare (ed è semmai responsabile di fronte ai rispettivi parlamenti nazionali).
Parlamento e Consiglio quindi sono istituzioni tra loro perfettamente pariordinate, destinate a
“condividere” poteri piuttosto che a dipendere l’una dall’altra.
Per tutelare le proprie prerogative e impedire che possano essere impunemente violate dalle altre
istituzioni, il Parlamento europeo sarà costretto a percorrere una via del tutto inusuale per
un’assemblea elettiva: il controllo giurisdizionale (presentando ricorso alla Corte di Giustizia contro
atti o comportamenti del Consiglio compiuti senza rispettare i poteri parlamentari). Lo strumento più
utilizzato è il ricorso d’annullamento: non a caso l’art 263 TFUE contempla il Parlamento europeo tra i
ricorrenti privilegiati e gli riconosce un diritto generale al ricorso, esercitabile anche quando non siano
in gioco la salvaguardia delle prerogative parlamentari.
3. Il Consiglio (art 16 TUE)
Il Consiglio è un organo di Stati, composto da soggetti che rappresentano direttamente i
singoli Stati membri di appartenenza.
L’art 16, § 1 TUE definisce le funzioni del Consiglio: esercita, congiuntamente al Parlamento
la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita funzioni di definizione delle politiche
e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati.
Ai sensi dell’art 16, § 2 TUE la composizione è la seguente: un rappresentante di ciascuno
Stato membro a livello ministeriale, abilitato a impegnare il Governo dello Stato membro
che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto.
Non è escluso che uno Stato membro si faccia rappresentare da membri di un Governo regionale, sempreché in
base alla Costituzione di quello Stato questi abbiano livello ministeriale.
Per l’Italia, l’art 5 legge 131/2003 (cd legge La Loggia) prevede che, nelle materie di competenza regionale (art 117,
comma 4 Cost), il capo delegazione (ossia, la persona chiamata a guidare la delegazione italiana che partecipa ai
lavori del Consiglio e ad esprimere il voto a nome dell’Italia), può essere anche un Presidente di Giunta regionale
o di Provincia autonoma. La designazione compete al Governo, sulla base dei criteri e procedure determinati con
un accordo generale stipulato in sede di Conferenza Stato-Regioni.

Il Consiglio non è un organismo permanente (a differenza del Parlamento europeo e della


Commissione). Esso si riunisce in formazioni tipizzate dalla prassi, che agiscono secondo
calendari differenziati e nelle quali gli Stati membri si fanno rappresentare di volta in volta
dal ministro competente per la materia all’ordine del giorno. L’art 16, § 6 TUE differenzia le
varie formazioni, introducendo varianti nella composizione e nelle funzioni esercitate. La
norma prevede direttamente solo il Consiglio Affari generali e il Consiglio Affari esteri.
Il Consiglio Affari generali assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio; (…)
prepara le riunioni del Consiglio europeo e ne assicura il seguito in collegamento con il Presidente del
Consiglio europeo e la Commissione. È composto dai Ministri degli affari europei di tutti gli Stati
membri. La Commissione è ivi rappresentata da un commissario, responsabile delle relazioni
interistituzionali a seconda degli argomenti trattati. Si occupa di una serie di settori politici trasversali:
l'allargamento dell'UE e i negoziati di adesione, il quadro finanziario pluriennale, questioni relative
all'assetto istituzionale e quelle attribuitegli dal Consiglio europeo (come i negoziati Brexit).
Il Consiglio Affari esteri, elabora l’Azione Esterna dell’Unione, secondo le linee strategiche definite dal
Consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’Unione. È composto dai Ministri della difesa
(PESC), dello sviluppo (cooperazione allo sviluppo) del commercio (politica commerciale comune).
L’elenco delle formazioni è stabilito con decisione del Consiglio europeo, a maggioranza qualificata
(art 236 TFUE).
L’attuale elenco è stato stabilito dal Consiglio Affari generali (2009), con delibera transitoria ancora in
vigore: comprende 10 diverse formazioni, compreso Consiglio Affari generali e Consiglio Affari esteri.

Dopo il Trattato di Lisbona, la disciplina della Presidenza del Consiglio è diversa a seconda
che si tratti del Consiglio Affari esteri o di tutte le altre formazioni:
 per il Consiglio Affari esteri, è attribuita all’Alto rappresentante (art 18, § 3 TUE);
 per le altre formazioni, vale il sistema previgente: un sistema di rotazione paritaria da uno
Stato membro all’altro, alle condizioni stabilite con decisione del Consiglio europeo, a
maggioranza qualificata.
Una decisione del Consiglio europeo (2009) stabilisce che la Presidenza è esercitata da gruppi
predeterminati di 3 Stati per un periodo di 18 mesi. All’interno di tale periodo, ciascun Stato membro
esercita a turno la presidenza di tutte le formazioni del Consiglio, per un periodo di 6 mesi, mentre gli
altri membri del gruppo assistono la presidenza nei suoi compiti sulla base di un programma comune.

La Presidenza convoca le riunioni del Consiglio (art 237 TFUE) e stabilisce l’ordine del giorno.
Inoltre, rappresenta l’istituzione nella sua unità, in particolare firma gli atti del Consiglio.
Tiene i rapporti con le altre istituzioni. Lo Stato membro che ha il semestre di Presidenza
svolge un ruolo molto importante: un suo rappresentante presiede anche tutti i comitati la
cui composizione riflette quella del Consiglio (compreso il COREPER). Sono esclusi i comitati
che si occupano del settore PESC, presieduti da un rappresentante dell’Alto rappresentante.
I modi di deliberazione del Consiglio sono:
a) maggioranza semplice; b) maggioranza qualificata; c) unanimità.
Il modo normale è la maggioranza qualificata (salvo nei casi in cui i trattati dispongano
diversamente: art 16, § 3 TUE): la maggioranza semplice o l’unanimità si applicano solo se
lo prescrive la norma dei trattati su cui il Consiglio si basa per agire.
La definizione di cosa debba intendersi come maggioranza qualificata ha sempre costituito
un tema particolarmente delicato. La disciplina sul punto ha subito numerose modifiche nel
tempo, frutto di aspre discussioni tra gli Stati membri. Il Trattato di Lisbona ha adottato una
soluzione di compromesso, articolata in due fasi: prima e dopo il 1° novembre 2014.
Secondo l’art 16, § 4 TUE, a decorrere dal 1° novembre 2014 per maggioranza qualificata
s’intende almeno il 55% dei voti dei membri del Consiglio, con un minimo di 15,
rappresentanti Stati membri che totalizzano almeno il 65% della popolazione dell’Unione.
(comma 1). Per raggiungere la maggioranza qualificata sono quindi necessarie 2 condizioni:
a) un quorum numerico, calcolato secondo 2 parametri distinti ed entrambi obbligatori,
ossia non meno di 15 voti favorevoli che esprimano non meno del 55% del totale dei membri
del Consiglio 7 (aumentato al 72%, quando il Consiglio non delibera su proposta della
Commissione o dell’Alto rappresentante: art 238, § 2 TFUE);
b) un quorum demografico (i voti a favore devono essere espressi in nome di Stati membri
la cui popolazione complessiva non sia inferiore al 65% della popolazione totale dell’Unione.
L’importanza del quorum demografico è limitato dalla cd minoranza di blocco, la quale deve
comprendere almeno 4 membri del Consiglio; in caso contrario, la maggioranza qualificata
si considera raggiunta (comma 2)8.
Se a votare contro siano stati non più di 3 Stati membri, il mancato raggiungimento del quorum
demografico non impedirà l’approvazione dell’atto. Tale previsione è volta ad evitare lo strapotere
degli Stati demograficamente più importanti (Germania), che potrebbero altrimenti facilmente
bloccare le deliberazioni del Consiglio.
L'astensione è considerata voto contrario: non equivale alla non partecipazione al voto.
L’altro sistema di deliberazione del Consiglio, ancor oggi previsto con una certa frequenza
(la maggioranza semplice è prevista solo su questioni di procedura), è costituito
dall’unanimità (quando i trattati la richiedano espressamente): qui il voto contrario anche
di 1 solo Stato membro impedisce l’approvazione.
Le astensioni invece non hanno effetto sull’unanimità: non ostano all’adozione delle
deliberazioni: art 238, § 4 TFUE).

7Con l’Unione a 28 membri, si tratta di 15,4 membri, mentre con l’Unione a 27 sarà 14,85.
8Se non tutti gli Stati membri partecipano al voto, la minoranza di blocco si integra con un numero minimo che
rappresenti il 35% della popolazione.
Occorre distinguere il Consiglio da altri organi a composizione simile (se non addirittura identica).
Il TFUE talvolta si riferisce a decisioni collegiali prese dai rappresentanti degli Stati membri. In tal caso,
le decisioni sono prese direttamente dai Governi degli Stati membri, i cui rappresentanti si riuniscono
per assumere le deliberazioni stesse. Il TFUE ha riservato agli Stati membri uti singuli, nella loro
individualità di soggetti di diritto internazionale, determinate funzioni di notevole importanza nel
funzionamento dell’Unione. La prassi parla di decisioni dei rappresentanti dei Governi degli Stati
membri riuniti in sede di Consiglio, le quali sono pubblicate nella GU. Normalmente, i rappresentanti
dei Governi si riuniscono in coincidenza delle riunioni del Consiglio. In questo modo, le stesse persone
agiscono nel corso della medesima riunione come membri del Consiglio e come rappresentanti di Stati
membri, a seconda del punto in discussione.

Anche il Comitato dei Rappresentanti Permanenti (COREPER), previsto all’art 16, § 7 TUE,
rispecchia la composizione del Consiglio. Esso riunisce i rappresentanti diplomatici
accreditati presso l’Unione Europea da ciascun Stato membro. La composizione è identica
a quella del Consiglio per quanto riguarda la nazionalità dei membri, ma non per la qualità
degli stessi, trattandosi, nel caso del Consiglio, di persone di livello ministeriale e, nel caso
del COREPER, di diplomatici.
La presidenza del COREPER spetta al rappresentante permanente dello Stato membro che esercita la
presidenza di turno del Consiglio.
Il COREPER è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio e dell’esecuzione dei
compiti che quest’ultimo gli assegna (art 240, § 1 TFUE) e può anche adottare le decisioni di
procedura nei casi previsti dal regolamento interno del Consiglio. Il compito più importante
consiste nell’esame preliminare di tutte le proposte che la Commissione vuole sottoporre al
Consiglio. Il COREPER è una sorta di “filtro”: una volta che la proposta sia stata esaminata
anche dal competente comitato tecnico, delibera al riguardo.
 Se vi è accordo unanime, la proposta è inserita tra i punti A dell’ordine del giorno del
Consiglio, il quale provvederà ad approvazione senza discussione (salvo specifica richiesta
da parte di un membro del Consiglio o della Commissione).
 Se non vi è accordo unanime, la proposta è inserita tra i punti B, i quali, accompagnati da
una relazione del COREPER, necessitano di una preventiva discussione in seno al Consiglio.
Il Trattato di Lisbona ha istituito la carica di Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza (art 18 TUE), al fine di aumentare la coerenza dell’Azione Esterna dell’Unione,
attribuendogli un ruolo forte nel Consiglio e nella Commissione.
Le sue funzioni sono le seguenti:
a) guida la PESC: contribuisce con le sue proposte all’elaborazione di tale politica e la attua in qualità
di mandatario del Consiglio;
b) presiede il Consiglio Affari esteri;9

9 Quando discute questioni di politica commerciale comune, il Consiglio Affari esteri è invece presieduto dal
rappresentante dello Stato membro che esercita la presidenza semestrale a rotazione del Consiglio.
c) è uno dei Vice-presidenti della Commissione, incaricato delle responsabilità che incombono a tale
istituzione nel settore delle relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell’Azione Esterna
dell’Unione.
Per la sua duplicità di organo del Consiglio e membro della Commissione (cd double hatting), la
procedura di nomina dell’Alto rappresentante coinvolge Consiglio europeo e Presidente della
Commissione: il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata con l'accordo del Presidente
della Commissione, nomina l'Alto rappresentante.
La durata del mandato, non è espressamente indicata, ma coincide con quella degli altri membri della
Commissione (il Consiglio europeo può però porre fine anticipatamente al suo mandato, con le stesse
modalità della nomina).
4. Il Consiglio europeo (art 15 TUE)
Il Consiglio europeo è un organo di Stati, composto da soggetti che rappresentano
direttamente i singoli Stati membri.
La composizione è definita dall’art 15, § 2 TUE: è composto dai Capi di Stato e di governo
degli Stati membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione. L’Alto
rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori.10
Tuttavia, per quanto riguarda il potere deliberativo, occorre distinguere dai Capi di Stato e di governo
la componente formata da Presidente del Consiglio europeo e Presidente della Commissione. In caso
di deliberazione a maggioranza qualificata, votano solo i Capi di Stato e di governo (il Presidente e il
Presidente della Commissione non partecipano al voto: art 235, § 1 comma 2 TFUE).
Prima del Trattato di Lisbona, il Presidente del Consiglio europeo era il Capo di Stato o di governo
dello Stato membro che deteneva la presidenza del Consiglio secondo il previgente schema di
rotazione semestrale. Per garantire maggiore continuità ai lavori dell’organo, ora l’art 15, § 5 TUE
stabilisce: il Consiglio europeo elegge il Presidente a maggioranza qualificata per un mandato di 2 anni
e 1/2, rinnovabile una volta.
Il § 6 ne definisce le funzioni: assicura la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio europeo,
in cooperazione con il Presidente della Commissione in base ai lavori del Consiglio Affari generali
(comma 1, lett b); ha la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla PESC, fatte
salve le attribuzioni dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza
(comma 2).
Dal come queste funzioni sono descritte si evince la presenza di un rischio di sovrapposizione tra il
Presidente del Consiglio europeo, il Presidente della Commissione e l’Alto rappresentante.

Il modo di deliberazione tradizionale del Consiglio europeo è il consenso (art 15, § 4 TUE),
che si forma senza bisogno di votare: basta che nessuno dei membri si opponga al testo
presentato dal Presidente del Consiglio europeo.

10
L’Alto rappresentante non è un vero e proprio membro del Consiglio europeo. La sua posizione è analoga a quella
che in passato spettava ai Ministri degli esteri degli Stati membri e al secondo membro della Commissione, che
assistevano i Capi di Stato e di governo e il Presidente della Commissione. Tale sostituzione si spiega con il fatto
che l’Alto rappresentante, presedendo il Consiglio Affari esteri, dovrebbe essere in grado di farsi portatore delle
opinioni espresse dai Ministri in quella sede.
Il Trattato di Lisbona prevede però alcuni casi in cui la delibera è a maggioranza qualificata,
per i quali vale la stessa formula applicabile al Consiglio (l’art 16, § 4 TUE è espressamente
richiamato dall’art 235, § 1, comma 2 TFUE).
Le funzioni del Consiglio europeo sono definite dall’art 15, § 1 TUE: dà all’Unione gli impulsi
necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Con
un’importante precisazione: non esercita funzioni legislative. Ciò presenta il Consiglio
europeo come il supremo organo d’indirizzo politico dell’Unione.
Tale funzione è ribadita anche nel campo dell’Azione Esterna dall’art 22, § 1 TUE: il Consiglio europeo
individua gli interessi e gli obiettivi strategici dell’Unione sulla base dei principi e degli obiettivi
enunciati dall’art 21.
Dopo il Trattato di Lisbona, il Consiglio europeo è diventato molto più di un mero organo di
indirizzo, assumendo compiti decisionali veri e propri che incidono direttamente sulla vita
e sull’operare dell’Unione. Questa novità ha delle conseguenze. In passato, si riteneva che
le deliberazioni avessero per lo più natura politica e non producessero effetti giuridici veri
e propri. Ora, alcuni atti, benché privi di natura legislativa, hanno effetti giuridici: qualora
essi siano destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi tali atti sono soggetti al
controllo di legittimità della Corte di Giustizia (art 263, comma 1 TFUE).
a) In alcune ipotesi, il Consiglio europeo si delinea come una sorta di presidenza collegiale dell’Unione,
interprete dell’interesse generale, quale espresso ai massimi livelli politici di ciascuno Stato membro
(in particolare, ha un ruolo esclusivo o determinante nella nomina degli organi monocratici creati o
rafforzati dal Trattato di Lisbona: il Presidente del Consiglio europeo, l’Alto rappresentante, il
Presidente della Commissione).
b) In altre ipotesi, il Consiglio europeo si atteggia ad organo dotato di poteri di tipo costituzionale,
essendo chiamato ad assumere decisioni che danno attuazione a talune disposizioni dei trattati (la
composizione del Parlamento, l’elenco delle formazioni del Consiglio, il sistema di rotazione della
Presidenza del Consiglio) o che hanno addirittura l’effetto di sostituirsi ad alcune disposizioni dei
trattati (nell’ambito della procedura semplificata di revisione dei trattati: art 48, § 6 e § 7 TUE).
c) Talora, il Consiglio europeo adotta atti (in forma di dichiarazioni) che, pur non qualificabili come
decisioni, in quanto estranei ai compiti espressamente previsti dai trattati, possono comunque
produrre effetti giuridici vincolanti, quali gli accordi internazionali, conclusi in forma semplificata dai
Capi di Stato e di governo degli Stati membri (la natura vincolante è dimostrata dal fatto che tali atti
fanno parte dell’acquis a cui i nuovi Stati membri si impegnano ad aderire).
d) Il Trattato di Lisbona moltiplica rispetto a prima le ipotesi in cui il Consiglio europeo opera come
una sorta di istanza d’appello rispetto al Consiglio, potendo essere adito da uno Stato membro che
non intenda subire una decisione presa a maggioranza qualificata, ottenendo di bloccare o rinviare la
decisione. Ciò avviene nel settore PESC (cd clausola di salvaguardia: art 31, § 2, comma 2 TUE) e nella
cooperazione giudiziaria in materia penale (cd freno di emergenza: artt 82, § 3 e 83, § 3 TFUE).
modo di deliberazione Consiglio Consiglio europeo
normale maggioranza qualificata unanimità
quando previsto unanimità maggioranza qualificata
5. La Commissione (art 17 TUE)
La Commissione è un organo di individui, composta da persone che non hanno un vincolo
di rappresentanza a uno Stato membro, ma che portano nell’istituzione la propria
esperienza professionale e la propria autonoma facoltà di giudizio.
La composizione dell’istituzione ha subito nel tempo numerosi cambiamenti.
Attualmente, è previsto un numero di membri (compreso Presidente e Alto Rappresentante) pari ai
2/3 del numero degli Stati membri, a meno che il Consiglio europeo, deliberando all'unanimità, non
decida di modificare tale numero (a tutt’oggi, sono 27 + Juncker).
I membri della Commissione devono soddisfare requisiti di indipendenza e professionalità:
sono scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e tra personalità
che offrono tutte le garanzie di indipendenza (art 17, § 3, comma 2).
In particolare, l’art 245, comma 1 TFUE impegna anche gli Stati membri a rispettare l’indipendenza dei
membri della Commissione e a non cercare di influenzarli nell’esercizio dei loro compiti.
Inoltre, la Commissione esercita le sue responsabilità in piena indipendenza. Fatto salvo l'art 18, § 2
(deroga al dovere di autonomia e indipendenza prevista per l’Alto Rappresentante, in ragione del cd
double hatting, in quanto è uno dei vice-presidenti della Commissione, ma agisce anche come
mandatario del Consiglio), i membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun
governo, istituzione, organo o organismo. Essi si astengono da ogni atto incompatibile con le loro
funzioni o con l'esecuzione dei loro compiti (art 17, § 3, comma 3).
Il mandato dei membri della Commissione dura 5 anni (art 17, § 3, comma 1 TUE). La durata
è stata armonizzata con quella del Parlamento europeo, di modo che un nuovo Parlamento
abbia tra i suoi primi compiti quello di partecipare alla nomina della nuova Commissione.
Il mandato dei singoli membri o dell’intera Commissione può terminare anticipatamente. Ciò può
avvenire in caso di dimissioni (individuali o collettive) o in caso di approvazione di una mozione di
censura del Parlamento europeo (art 17, § 8 TUE)11. Le dimissioni possono anche essere pronunciate
d’ufficio dalla Corte di Giustizia (per violazione degli obblighi derivanti dalla loro carica).
La procedura di nomina distingue tra la figura del Presidente della Commissione e quella
degli altri Commissari (art 17, § 7 TUE).
1a fase: ha ad oggetto l’individuazione del candidato alla carica di Presidente, effettuata dal
Consiglio europeo, che decide a maggioranza qualificata, tenuto conto delle elezioni del
Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate.
2a fase: consiste nell’elezione del candidato da parte del Parlamento europeo.
3a fase: una deliberazione del Consiglio (in formazione Affari generali) di comune accordo
con il Presidente eletto, adotta l’elenco delle altre personalità selezionate sulla base delle

11Nel 1999 la Commissione Santer fu costretta a dimettersi collettivamente in seguito ad accuse di corruzione
contro alcuni suoi membri (in particolare, la commissaria francese Edith Cresson).
proposte presentate dagli Stati membri. Tale decisione è presa a maggioranza qualificata,
non essendo espressamente richiesta l’unanimità (art 16, § 3 TUE)12.
4a fase: il Presidente, l’Alto rappresentante e gli altri membri della Commissione sono
soggetti collettivamente ad un voto di approvazione da parte del Parlamento europeo.
5a fase: il Consiglio europeo (a maggioranza qualificata) nomina la Commissione.
Il Presidente della Commissione ha un ruolo centrale, ulteriormente accentuata in
occasione delle ultime riforme dei trattati. La sua posizione di preminenza è specificata
dall’art 17, § 6 TUE, che gli attribuisce il compito di definire gli orientamenti nel cui quadro
la Commissione esercita i suoi compiti e l’organizzazione interna della Commissione, per
assicurare la coerenza, l’efficacia e la collegialità della sua azione.
Infatti, nomina i vice-presidenti (salvo l’Alto rappresentante, che è già vice-presidente ai sensi dell’art
18, § 4 TUE) e determina la ripartizione delle competenze tra i Commissari (le attribuzioni dell’Alto
rappresentante sono prefissate dall’art 18, § 4 TUE).
Significativo è anche il potere del Presidente della Commissione di obbligare un Commissario
a rassegnare le dimissioni (se il Presidente glielo chiede: art 17, § 6, comma 2 TUE).
Il Presidente è anche membro del Consiglio europeo.
Le deliberazioni della Commissione sono prese a maggioranza dei suoi membri (art 250, § 2
TFUE). Si tratta di un organo collegiale, anche se al suo interno esiste un’ampia delega di
funzioni ai singoli membri. L’attività della Commissione è suddivisa in Direzioni generali.
Ciascun membro ha la responsabilità di una o più Divisioni.
I compiti della Commissione sono descritti dall’art 17, § 1 TUE:
promuove l’interesse generale dell’Unione e adotta le iniziative appropriate a tale fine.
Vigila sull’applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati.
Vigila sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il controllo della Corte di Giustizia
Dà esecuzione al bilancio e gestisce i programmi.
Esercita funzioni di coordinamento, di esecuzione e di gestione, alle condizioni stabilite dai trattati.
Assicura la rappresentanza esterna dell’Unione, fatta eccezione per la PESC e per gli altri casi previsti
dai trattati.
Avvia il processo di programmazione annuale e pluriennale dell’Unione per giungere ad accordi
interistituzionali.
L’elencazione si apre con un riferimento generale al ruolo della Commissione di vero motore
nonché interprete dell’interesse generale dell’Unione.

12Tale fase non riguarda l’Alto rappresentante, il quale è nominato dal Consiglio europeo, con l’accordo del
Presidente della Commissione (art 18, § 1 TUE). Tuttavia, la sua nomina deve precedere la fase successiva,
dovendovi partecipare in quanto vice-presidente della Commissione.
In questa ottica, l’art 17, § 2 TUE ribadisce il potere esclusivo di proposta spettante alla
Commissione: il procedimento legislativo non può nemmeno iniziare senza una sua
proposta, salvo i casi in cui i trattati dispongano diversamente.
Poiché vigila sull’applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei
trattati nonché, più in generale, del diritto dell’Unione, sotto il controllo della Corte di
Giustizia, la Commissione è considerata custode della legalità nell’ambito dell’Unione.
Tale compito si esercita verso gli Stati membri, con il ricorso per infrazione (artt 258 – 259 TFUE), verso
le altre istituzioni, con il ricorso per annullamento (art 263 TFUE) o in carenza (art 265 TFUE) e, ove
previsto, anche verso le persone fisiche e giuridiche.
6. La Corte di giustizia dell’Unione europea (art 19 TUE)
Tra le istituzioni dell’Unione, l’art 13 TUE menziona la Corte di Giustizia (istituita nel 1952).
In realtà, essa si articola al suo interno in più rami, dotati di autonomia funzionale (piena) e
amministrativa (parziale). Secondo l’art 19, § 1 TUE, essa comprende:
 Corte di Giustizia
 Tribunale
 tribunali specializzati13.
Le componenti della Corte di Giustizia intesa come istituzione sono organi di individui, i cui
membri, pur dipendendo da una nomina di natura politica (di comune accordo tra i Governi
degli Stati membri), svolgono le funzioni in piena imparzialità e secondo coscienza (art 2 del
Protocollo 3 sullo Statuto della Corte di Giustizia): se vengono meno agli obblighi derivanti
dalla loro carica, sono rimossi su decisione unanime della stessa Corte di Giustizia.
Tra le fonti normative relative alla Corte di Giustizia, le più importanti sono nei trattati (artt 251 – 281
TFUE). Altre disposizioni si trovano nel Protocollo 3 (sullo Statuto della Corte di Giustizia), che, in
quanto allegato ai trattati, ne condivide la natura giuridica. Infine, va ricordato il regolamento di
procedura della Corte di Giustizia, stabilito dalla Corte, ma approvato dal Consiglio, a maggioranza
qualificata (art 253, comma 6 TFUE).

Circa la composizione, la Corte di Giustizia conta un giudice per Stato membro ed è assistita
da avvocati generali (art 19, § 2 TUE).
Il numero dei giudici corrisponde a quello degli Stati membri (attualmente, sono 28)14. Tra essi viene
eletto un Presidente, il cui mandato, rinnovabile, dura 3 anni (art 253, comma 3 TFUE) e un vice-
presidente, sempre per la stessa durata. Gli avvocati generali sono attualmente 9.
Per quanto riguarda la nazionalità degli avvocati generali (il cui numero è inferiore a quello degli Stati
membri), la prassi vuole che vi siano sempre 4 avvocati generali della nazionalità di ciascuno degli Stati
membri maggiori (Francia, Germania, Italia, Regno Unito), mentre i posti rimanenti, sono ricoperti a
rotazione da persone degli altri Stati membri.

13La componente dei tribunali specializzati è stata finora costituita dal solo Tribunale per la funzione pubblica.
14L’art 252, comma 1 TFUE prevede che il numero dei giudici possa essere aumentato con delibera del Consiglio,
adottata all’unanimità, su richiesta della Corte di Giustizia.
L’avvocato generale ha una funzione ausiliaria: ha l’ufficio di presentare pubblicamente, con assoluta
imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo Statuto
della Corte d Giustizia, richiedono il suo intervento (art 252, comma 2 TFUE).
Le conclusioni, contenute nel parere dell’avvocato generale su come la Corte di Giustizia dovrebbe
decidere la causa, non sono vincolanti. La Corte può pronunciare una sentenza difforme, senza
nemmeno essere tenuta a spiegare le ragioni per le quali ritiene di non seguire l’avvocato generale.

La nomina di giudici e avvocati generali avviene di comune accordo tra gli Stati membri.
L’art 253, comma 1 TFUE prevede la previa consultazione di un apposito comitato, composto da 7
personalità scelte tra ex-membri della Corte di Giustizia e del Tribunale, membri dei massimi organi
giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza, designati dal Consiglio, che delibera su
iniziativa del Presidente della Corte di Giustizia (art 255 TFUE).

La durata del mandato è di 6 anni, rinnovabile. È previsto un ricambio ogni 3 anni di metà
dei componenti della Corte.
La Corte opera nelle seguenti formazioni di giudizio:
sezioni (3 o 5 giudici): è la formazione ordinaria (la distribuzione tra le sezioni a 3 o sezioni a 5 dipende
dall’importanza di ciascuna causa);
grande sezione (15 giudici), tra cui Presidente, vice-presidente e 3 Presidenti delle sezioni a 5: è
convocata su richiesta di uno Stato membro o di un’istituzione dell’Unione che sia parte in causa;
seduta plenaria (tutti i giudici): può essere convocata in ipotesi particolari (giudizio per la rimozione
del Mediatore europeo, di un membro della Commissione o di un membro della Corte dei Conti) e ove
la Corte reputi che un giudizio rivesta un’importanza eccezionale (art 16, comma 5 Statuto).
Le principali funzioni della Corte di giustizia hanno natura giurisdizionale: assicura il rispetto
del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati (art 19, § 1 comma 1 TUE).
La Corte esercita anche funzioni di natura consultiva: qui non decide una controversia, ma
esprime un parere. Tali pareri hanno un valore parzialmente vincolante: il loro contenuto
condiziona il comportamento di istituzioni e Stati membri.
In materia di accordi internazionali dell’Unione, l’art 218, § 11 TFUE dispone: uno Stato membro, il
Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia
circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte,
l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifica dello stesso o revisione dei trattati.
Il parere negativo della Corte non ha effetto ostativo, ma implica la procedura di revisione dei trattati
(art 48 TUE) o la modifica dell’accordo, in modo da eliminare le ragioni del parere negativo.
7. Il Tribunale dell’Unione europea (e i tribunali specializzati)
Anche l’organizzazione e il funzionamento del Tribunale sono disciplinati specifiche fonti normative:
oltre agli artt 254 e 256 TFUE, va ricordato il Titolo IV dello Statuto della Corte di Giustizia
(funzionamento del Tribunale e giudizi d’impugnazione delle decisioni del Tribunale dinanzi alla Corte
di Giustizia). Infine, come la Corte di Giustizia, anche il Tribunale ha un regolamento di procedura
(definito di concerto con la Corte di Giustizia e sottoposto all’approvazione del Consiglio, a
maggioranza qualificata).

La composizione del Tribunale (istituito nel 1988) è simile (ma non identica) a quella della
Corte. Circa il numero dei giudici, l’art 19, § 2, comma 2 TUE prevede che il Tribunale di I
grado è composto di almeno un giudice per Stato membro.
L’art 254, comma 1 TFUE precisa: il numero dei giudici è stabilito dallo Statuto della Corte di Giustizia.
È dunque possibile che nello Statuto si stabilisca di nominare più giudici di quanti sono gli Stati membri
(tale possibilità non è ancora stata sfruttata: l’art 48 dello Statuto prevede che i giudici siano solo 28).
Sempre l’art 254 TFUE consente che lo Statuto preveda la presenza di avvocati generali. Nemmeno
questa possibilità è stata finora utilizzata.
Anche per i giudici del Tribunale, la nomina avviene di comune accordo tra gli Stati membri,
previa consultazione del comitato di cui all’art 255 TFUE.
I giudici hanno un mandato di 6 anni rinnovabile ed eleggono tra di loro un Presidente, che
resta in carica 3 anni.
I requisiti d’indipendenza sono gli stessi richiesti per i membri della Corte.
I requisisti di professionalità sono analoghi, ma il livello richiesto è meno elevato.
Come giurisdizione, il Tribunale è giudice di I grado 15 . Le pronunce del Tribunale sono
impugnabili davanti alla Corte di Giustizia, entro 2 mesi dalla notifica della decisione.
Qui però non si può parlare di un vero e proprio doppio grado di giudizio. L’impugnazione delle
pronunce non costituisce giudizio d’appello: è limitata ai motivi di diritto (art 256, § 1, comma 2 TFUE)
ovvero, come precisa l’art 58 dello Statuto, a mezzi relativi all’incompetenza del Tribunale, ai vizi della
procedura dinanzi al Tribunale recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente, nonché alla
violazione del diritto dell’Unione da parte del Tribunale.
La definizione della competenza del Tribunale è particolarmente complessa, avendo la
relativa disciplina subito nel tempo importanti e ripetute modifiche. Essa incontra dei limiti:
le azioni di competenza esclusiva e in unico grado della Corte di Giustizia;
in base all’art 257 TFUE, è stato istituito (tra il 2004 e il 2016) il Tribunale della funzione pubblica, un
tribunale specializzato cui spettava la competenza di I grado sul contenzioso con il personale delle
istituzioni e degli organi dell’Unione Europea (e in questo settore il Tribunale ha operato come giudice
di II grado).
Circa la ripartizione di competenza tra Tribunale e Corte di Giustizia, il Tribunale non copre
tutte le azioni sottoposte al giudizio della Corte. Non vi è completa coincidenza tra la

15Per le cause di competenza dei tribunali specializzati, il Tribunale è giudice di II grado: conosce delle impugnazioni
proposte contro le sentenze di I grado di questi tribunali. Secondo l’art 257, comma 3 TFUE, la decisione istitutiva
di ciascun tribunale potrebbe scegliere di limitare l’impugnazione ai soli motivi di diritto o di estenderla anche ai
motivi di fatto. Il Tribunale sarebbe giudice d’appello solo nel secondo caso, mentre se i motivi fossero limitati a
quelli di diritto, il giudizio d’impugnazione sarebbe più simile ad un ricorso per cassazione. In ogni caso, il Tribunale
emette in II grado decisioni praticamente definitive per le parti: un riesame della Corte di Giustizia è ammesso solo
in casi eccezionali, su iniziativa del primo avvocato generale.
competenza ratione materiae e ratione personarum: alcune cause sono soggette al giudizio
di unico grado della Corte di Giustizia.
Per le cd competenze dirette, l’art 256, § 1 TFUE attribuisce al Tribunale competenza a conoscere dei
ricorsi di cui agli artt 263, 265, 268, 270 e 272 ad eccezione di quelli attribuiti a un tribunale
specializzato istituito in applicazione dell’art 257 e di quelli che lo Statuto riserva alla Corte di Giustizia.
Pertanto, per conoscere quali ricorsi rientrino nella competenza del Tribunale, occorre esaminare, a
contrario, lo Statuto (art 51).
Attualmente, il Tribunale è competente in I grado;
a) ricorsi proposti dalle persone fisiche o giuridiche contro le istituzioni e gli altri organi;
b) ricorsi d’annullamento e in carenza proposti dallo Stato membro contro la Commissione
(salvo nelle cooperazioni rafforzate: art 331 TFUE);
c) ricorsi d’annullamento proposti dallo Stato membro contro il Consiglio riguardo:
 decisioni in materia di aiuti di Stato alle imprese (art 108, § 2, comma 3 TFUE)
 regolamenti su misure di difesa commerciale (anti-dumping), ai sensi dell’art 207 TFUE;
 atti d’esecuzione del Consiglio (art 291, § 2 TFUE).
Con il Trattato di Nizza è stata prevista la possibilità di creare un’ulteriore articolazione giurisdizionale:
il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria (su
proposta della Commissione e previa consultazione della Corte di Giustizia o su richiesta della Corte di
Giustizia e previa consultazione della Commissione) possono istituire tribunali specializzati, affiancati
al Tribunale e incaricati di conoscere in I grado di talune categorie di ricorsi proposti in materie
specifiche (art 257 TFUE). L’istituzione avviene con un regolamento che stabilisce composizione e
competenze. La nomina dei membri spetta al Consiglio (che delibera all’unanimità).
Le sentenze dei tribunali specializzati sono impugnabili davanti al Tribunale per soli motivi di diritto o,
se il regolamento istitutivo lo prevede, anche per i motivi di fatto. Il riesame di tale decisione davanti
alla Corte di Giustizia è invece previsto solo eccezionalmente e alle condizioni e nei limiti previsti nello
Statuto, ove sussistano gravi rischi per l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione.
Il primo tribunale specializzato è stato adottato con una decisione del Consiglio nel 2004: il Tribunale
della funzione pubblica, per il contenzioso del personale. Ha cessato l’attività il 1 settembre 2016.
8. La Corte dei conti, la BCE e gli altri organi (cenni).
La Corte dei Conti è un organo di individui. Non rappresenta quindi istanze governative.
La composizione comprende un cittadino di ciascuno Stato membro (art 285, comma 2 TFUE).
I membri sono nominati dal Consiglio (a maggioranza qualificata, previa consultazione del Parlamento
europeo), conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro, per un mandato di 6
anni. I requisiti di indipendenza e professionalità che i membri della Corte devono presentare sono
analoghi a quelli previsti per i giudici della Corte di Giustizia.
Le funzioni sono disciplinate dall’art 285, comma 1 TFUE, che attribuisce, in via generale, il compito
di assicurare il controllo dei conti dell’Unione. Tale compito viene specificato dall’art 287 TFUE:
esamina i conti di tutte le entrate e le spese dell’Unione nonché quelli di ogni organo e organismo
creato dall’Unione, nella misura in cui l’atto costitutivo non escluda tale esame (§ 1);
controlla la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese ed accerta la sana gestione finanziaria
(§ 2), riferendo su ogni caso d’irregolarità.
L’atto più rilevante in cui si estrinseca il controllo della Corte è costituito dalla relazione annuale che
viene redatta alla fine di ogni esercizio. Essa è trasmessa alle altre istituzioni e pubblicata sulla GU,
insieme alle risposte delle istituzioni alle osservazioni della Corte dei Conti (art 287, § 4 TFUE).
La Corte non dispone del potere di annullare atti irregolari o di impedirne l’esecuzione. Interviene a
posteriori, ma non ha alcun autonomo potere sanzionatorio.
Vanno poi menzionati gli organi creati dal TUE in ambito UEM: la Banca Centrale Europea (BCE) e il
Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC).
La BCE (che l’art 13 TUE ha eretto al rango di istituzione) gode di personalità giuridica, ha il diritto
esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro ed è indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e nella
gestione delle sue finanze (art 282, § 3 TFUE).
L’art 130 TFUE impone alla BCE, alle Banche centrali nazionali (BCN) e ai membri dei rispettivi organi
decisionali di garantire l’indipendenza della loro azione rispetto agli Stati membri e rispetto alle
istituzioni e organi dell’Unione. Il funzionamento e l’organizzazione della BCE e del SEBC sono oggetto
del Protocollo 4 (sullo Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale
Europea). L’art 132 TFUE (e l’art 34 dello Statuto) attribuisce alla BCE il potere, nelle materie di propria
competenza, di stabilire regolamenti e di prendere decisioni con caratteristiche identiche ai
corrispondenti atti di cui all’art 288 TFUE. Essa si articola al suo interno in:

 Comitato esecutivo, composto da un Presidente, un vice-presidente e altri 4 membri


(nominati dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata, su raccomandazione del
Consiglio, previa consultazione di Parlamento europeo e Consiglio direttivo)
 Consiglio direttivo, composto dai membri del Comitato esecutivo e dai Governatori delle
Banche Centrali Nazionali degli Stati membri la cui moneta è l’euro (art 283 TFUE).
Circa le funzioni, occorre distinguere tra SEBC e BCE.
Il SEBC (art 127 TFUE) ha per obiettivo il mantenimento della stabilità dei prezzi, agendo in conformità
del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza (§ 1). Inoltre, ad esso spetta
definire e attuare la politica monetaria dell’Unione, svolgere le operazioni sui cambi, detenere e
gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri e promuovere il regolare funzionamento
dei sistemi di pagamento (§ 2).
La BCE ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote in euro all’interno dell’Unione (art
128 TFUE).
La Banca Europea degli Investimenti (BEI) gode di personalità giuridica (art 308 TFUE). Ad essa
partecipano gli Stati membri che ne sottoscrivono il capitale.
Le sue funzioni consistono nel facilitare, mediante concessione di prestiti e garanzie, senza perseguire
scopo di lucro, il finanziamento di progetti di cui all’art 309 TFUE (valorizzazione delle regioni meno
sviluppate, riconversione di imprese o creazione di nuove attività, progetti comuni tra più Stati) e
finalizzati a contribuire allo sviluppo equilibrato e senza scosse del mercato interno.
Parte II LE PROCEDURE DECISIONALI
1. Considerazioni generali
Per procedura decisionale s’intende la sequenza di atti o fatti richiesta dai trattati affinché
la volontà dell’Unione si possa manifestare in determinati atti giuridici.
Le procedure decisionali hanno per lo più carattere interistituzionale. Esse si compongono di atti o
fatti provenienti da più di un’istituzione (in particolare, le istituzioni politiche) e costituiscono quindi il
metro ideale per studiare l’equilibrio istituzionale voluto dai trattati.
A seconda della procedura decisionale applicabile nei vari settori di competenza dell’Unione, il ruolo
delle istituzioni cambia. In alcuni settori, prevalgono ancora le istituzioni rappresentative degli Stati
membri (Consiglio europeo, Consiglio) o viene ancora richiesta la delibera all’unanimità. In altri settori,
le procedure decisionali pongono su un piano di parità Consiglio e Parlamento europeo (istituzione
che, in quanto democraticamente eletta dai cittadini dell’Unione, rappresenta istanze unitarie).
In genere, le procedure necessitano dell’iniziativa della Commissione. Altre volte, l’iniziativa può
venire anche da altri soggetti istituzionali o addirittura da uno Stato membro o da un gruppo di essi.
Le procedure decisionali si distinguono per la loro grande varietà.
Alcune riguardano solo l’approvazione di atti specifici: la procedura di bilancio (art 314 TFUE) e la
procedura di conclusione di accordi internazionali (art 218 TFUE).
Nei settori che, prima del Trattato di Lisbona, costituivano il II pilastro e il III pilastro, le procedure
decisionali applicabili sono in generale caratterizzate dalla sopravvivenza di elementi tipici del metodo
della cooperazione intergovernativa. Ciò vale per il settore PESC, che ha procedure decisionali proprie.
Tuttavia, anche nel settore dello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia, il TFUE prevede, in alcuni casi,
varianti rispetto alle procedure tipiche applicabili negli altri settori.
La disciplina delle procedure decisionali è stabilita direttamente dai trattati ed è pertanto
inderogabile dalle istituzioni.
Tuttavia, esiste la tendenza ad inserire nei trattati disposizioni che affidano alle istituzioni il potere di
disporre il passaggio da una procedura decisionale all’altra (in genere, a favore della procedura
legislativa ordinaria) o di modificare taluni elementi delle procedure previste (in genere, sostituendo
l’unanimità in sede di Consiglio con la maggioranza qualificata).
Prima del Trattato di Lisbona, le procedure utilizzate non distinguevano la natura del potere
(legislativo, amministrativo) esercitato dalle istituzioni che ne erano titolari o il tipo di atti
da adottare. Il TFUE corregge questo difetto d’origine, riservando specifiche procedure per
l’adozione degli atti legislativi, le cd procedure legislative (art 289, § 3 TFUE: gli atti giuridici
adottati mediante procedura legislativa sono atti legislativi):
 la procedura legislativa ordinaria, di applicazione generale (art 289, § 1 TFUE), che consiste
nell’adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del
Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione. Tale procedura è
definita dall’art 294 TFUE;
 le procedure legislative speciali, che si applicano solo nei casi specifici previsti dai trattati
e prevedono l’adozione di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del
Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio o da parte di quest’ultimo con la
partecipazione del Parlamento europeo (art 289, § 2 TFUE).
Mentre la procedura legislativa ordinaria è largamente tipizzata (art 294 TFUE), le
procedure legislative speciali hanno in comune solo la partecipazione di entrambi il
Parlamento europeo e il Consiglio, ma l’esatto svolgimento di ciascuna di esse è definito di
volta in volta dalla disposizione dei trattati che la prevede (base giuridica). Tuttavia, si
possono individuare 2 modelli: procedura di consultazione e procedura di approvazione.
Oltre alle procedure legislative, i trattati ne prevedono altre per adottare atti di natura
diversa (procedure non legislative). La categoria è molto eterogenea, perché comprende
procedure per l’approvazione di atti molto diversi tra loro. La varietà riguarda anche le
istituzioni che vi partecipano e il loro ruolo rispettivo.
2. La definizione della corretta base giuridica
Per stabilire quale procedura vada seguita di volta in volta, occorre definire la base giuridica
dell’atto che si intende adottare: occorre individuare la disposizione dei trattati che
attribuisce alle istituzioni il potere di adottare un determinato atto. Sarà tale disposizione a
indicare anche la procedura decisionale da seguire.
Considerate le grandi differenze che intercorrono tra procedura e procedura, si comprende come la
corretta individuazione della base giuridica di ciascun atto sia operazione estremamente importante.
Non meraviglia perciò come su questo siano sorti numerosi conflitti tra le istituzioni e gli Stati membri.
Tali conflitti hanno spesso visto il Parlamento europeo o la Commissione contestare la base giuridica
prescelta dal Consiglio, con un ricorso d’annullamento dinanzi alla Corte di Giustizia (art 263 TFUE).
La corretta individuazione della base giuridica dipende dall’analisi di alcuni elementi
oggettivamente rilevabili, quali lo scopo e il contenuto dell’atto.
Secondo la Corte di Giustizia, la scelta del fondamento giuridico di un atto non può dipendere solo dal
convincimento di un’istituzione circa lo scopo perseguito, ma deve basarsi su elementi oggettivi
suscettibili di sindacato giurisdizionale.
Ove accanto a una base giuridica di carattere generale, sia utilizzabile una base giuridica più specifica
per un determinato atto, occorre sempre privilegiare quest’ultima.
Può accadere che uno stesso atto persegua una pluralità di scopi o presenti contenuti differenziati. In
tal caso, la base giuridica va dedotta dal cd centro di gravità dell’atto, mentre non dovrà tenersi conto
di scopi o componenti secondari o accessori Qualora non sia possibile determinare il centro di gravità
dell’atto, perché i vari scopi e i vari contenuti hanno uguale importanza, l’atto avrà, in via eccezionale,
una base giuridica plurima, consistente in tutte le disposizioni dei trattati corrispondenti ai suoi vari
scopi o ai vari contenuti.
Questa soluzione non è sempre ammissibile: non vale se le disposizioni che dovrebbero fungere da
base giuridica prevedono procedure decisionali incompatibili. In tal caso, la base giuridica non potrà
che essere una sola e andrà preferita quella che non pregiudichi i poteri di partecipazione del
Parlamento europeo alla procedura decisionale.
Secondo la giurisprudenza, la scelta della corretta base giuridica di ciascun atto adottato
dalle istituzioni riveste un’importanza di natura costituzionale, in quanto preserva le
prerogative delle istituzioni nelle varie procedure decisionali. Di conseguenza, la base
giuridica va sempre indicata e rientra nell’obbligo di motivazione (art 296, comma 2 TFUE).
3. La procedura legislativa ordinaria
La procedura legislativa ordinaria consiste nell’adozione congiunta di un regolamento, di
una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su
proposta della Commissione (art 289, § 1 TFUE).
In passato, era nota come procedura di codecisione, perché con essa le due istituzioni gestiscono
insieme il potere decisionale, senza che l’una possa prevalere sull’altra. Di qui è invalso l’uso di riferirsi
al Parlamento europeo e al Consiglio come a dei co-legislatori.
Introdotta per la prima volta dal Trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht (1992), che però
ne prevedeva l’applicazione solo in pochi casi, essa si affiancava alla procedura di cooperazione
(introdotta nell’Atto Unico Europeo), modificandone alcuni aspetti per renderla più efficiente.
La differenza principale consisteva nel fatto che mentre nella procedura di cooperazione il Consiglio
poteva approvare all’unanimità un atto respinto dal Parlamento europeo, nella procedura di
codecisione l’atto respinto si considerava come non adottato.

La disciplina della procedura (art 294 TFUE) si fonda su un sistema di ripetute letture della
proposta di atto legislativo da parte delle 2 istituzioni. L’attuale disciplina contempla fino a
3 letture. Non è però detto che vi si giunga: la procedura si arresta non appena le due
istituzioni siano pervenute ad un accordo su un medesimo testo.
In generale, la procedura legislativa ordinaria si apre con la proposta della Commissione.
Il potere d’iniziativa della Commissione non è assoluto: nei casi specifici previsti dai trattati, gli atti
legislativi possono essere adottati su iniziativa di un gruppo di Stati membri o del Parlamento
europeo, su raccomandazione della BCE o su richiesta della Corte di Giustizia o della Banca Europea
per gli Investimenti (art 289, § 4 TFUE).
Specifiche basi giuridiche possono dunque attribuire il potere d’iniziativa nell’ambito della procedura
legislativa ordinaria anche a soggetti diversi dalla Commissione.
Nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale la procedura legislativa ordinaria
ammette che, per effetto dell’art 76 TFUE, il potere d’iniziativa possa spettare, oltre che alla
Commissione, anche a 1/4 degli Stati membri.
Il TCE riconosceva alla Commissione un potere generale ed esclusivo d’iniziativa. Si riteneva
infatti che tale istituzione, considerate le caratteristiche di indipendenza e di professionalità
dei suoi membri, fosse la portatrice dell’interesse generale della Comunità. Ciò consentiva
di fare da contrappeso alla deliberazione del Consiglio, che esprimeva gli interessi particolari
dei singoli Stati membri.
Il ruolo di iniziativa della Commissione è ribadito dall’art 17, § 2 TUE e dall’art 289, § 1 TFUE.
Il Parlamento europeo (art 225 TFUE) e il Consiglio (art 241 TFUE) godono però del potere
di sollecitare la Commissione a presentare una proposta, approvando una richiesta.
Non è prevista sanzione per l’inerzia della Commissione. Tuttavia, la mancata presentazione di una
proposta sollecitata dal Parlamento europeo potrebbe indurre ad approvare una mozione di censura.
In ogni caso, né il Parlamento europeo né il Consiglio potrebbero presentare alla Corte di Giustizia un
ricorso in carenza (art 265 TFUE): non potendosi sostenere che l’astensione della Commissione
costituisca una violazione dei trattati, mancherebbe un presupposto per la presentazione del ricorso.
Le proposte possono essere sollecitate anche da altre istituzioni o organi.
In particolare, spetta alla Commissione il compito di sottoporre proposte volte a dare
attuazione agli orientamenti e alle priorità politiche generali dell’Unione definiti dal
Consiglio europeo (art 15, § 1 TUE).
Il Trattato di Lisbona introduce un istituto di democrazia diretta, ossia il diritto dei cittadini
(almeno 1 milione, appartenenti ad un numero significativo di Stati membri) di invitare la
Commissione a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali
cittadini ritengano necessario un atto dell’Unione, ai fini dell’attuazione dei trattati (cd
iniziativa dei cittadini: art 11, § 4 TUE). Poiché la norma fa riferimento ad un semplice invito,
è da ritenersi che la Commissione non sia obbligata ad agire.
Dal momento che la Commissione è portatrice dell’interesse generale dell’Unione, mentre
il Consiglio rappresenta gli interessi individuali di ciascun Stato membro, l’art 293, § 1 TFUE
limita il potere del Consiglio di modificare la proposta della Commissione: il Consiglio può
emendare la proposta solo deliberando all’unanimità. Ciò garantisce che l’atto adottato,
pur essendo non più uguale alla proposta della Commissione, risponda comunque
all’interesse della Comunità.
Dall’utilizzo del verbo emendare sembra esprimere la volontà di limitare il potere del Consiglio, nel
senso che non sia possibile allontanarsi in maniera radicale dalla proposta: ciò infatti equivarrebbe a
deliberare senza proposta della Commissione (l’atto sarebbe viziato per violazione delle forme
sostanziali e sarebbe annullabile con ricorso alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art 263 TFUE).
L’art 293, § 1 TFUE fa salvi i casi di cui all’art 294, §§ 10 e 13 TFUE. L’unanimità del Consiglio per
emendare la proposta della Commissione non si applica nella fase del comitato di conciliazione (§ 10)
e in terza lettura (§ 13). Per converso, tale requisito vale solo in prima lettura e in seconda lettura (il
Consiglio potrà deliberare a maggioranza qualificata solo sulla proposta della Commissione).
Il fatto che il Consiglio possa emendare la proposta solo all’unanimità, se da un lato
garantisce che gli atti del Consiglio perseguano l’interesse generale dell’Unione, dall’altro
può causare una “situazione di stallo” (il Consiglio non intende approvare la proposta della
Commissione, ma non è in grado di deliberare all’unanimità gli opportuni emendamenti).
Per evitare ciò, l’art 293, § 2 TFUE prevede: finché il Consiglio non ha deliberato, la
Commissione può modificare la propria proposta in ogni fase delle procedure che portano
all’adozione di un atto dell’Unione. Talvolta, può essere preferibile modificare la proposta,
favorendo l’approvazione da parte del Consiglio a maggioranza qualificata, piuttosto che
insistere sul testo originale e rischiare che essa sia respinta tout court. Ciò può avvenire
anche nel corso delle riunioni del Consiglio, essendo in quella sede presente un membro
della Commissione delegato ad apportare le opportune modifiche.
La giurisprudenza ritiene che la Commissione abbia anche il potere di ritirare la proposta.
Questo potrebbe essere un’arma da usare qualora il Parlamento europeo o il Consiglio, nel
corso della procedura legislativa ordinaria (o il Consiglio, quando delibera da solo)
intendano modificare “radicalmente” la proposta.
La procedura si apre con la proposta della Commissione, la quale viene indirizzata
simultaneamente al Consiglio e al Parlamento europeo (art 294, § 2 TFUE)16.
In prima lettura, il Parlamento europeo adotta la propria posizione, che viene trasmessa al
Consiglio (§ 3), il quale, a sua volta, può approvare la posizione del Parlamento: in questo
caso, l’atto è approvato in tale formulazione (§ 4); se non approva, il Consiglio adotta (a
maggioranza qualificata) 17 una sua posizione in prima lettura (§ 5).
Inizia allora la seconda lettura. In questa fase, il Parlamento europeo ha 3 mesi di tempo
per decidere in uno dei seguenti modi (§ 7):
 approva la posizione in prima lettura del Consiglio (oppure omette di deliberare
entro il termine)  l’atto si considera adottato nella formulazione che corrisponde
alla posizione del Consiglio
 respinge la posizione (a maggioranza assoluta dei componenti)  la procedura si
arresta (l’atto si considera non adottato)
 propone emendamenti (a maggioranza assoluta dei componenti)  in questo
caso, la Commissione emette un parere su tali emendamenti. A questo punto, il
Consiglio, a maggioranza qualificata, può:
 approvare tutti gli emendamenti (per gli emendamenti con parere negativo della
Commissione, occorre l’unanimità): l’atto si considera approvato;
 non approvare tutti gli emendamenti: si apre una fase intermedia in cui viene
convocato un comitato di conciliazione (§ 10) che riunisce i membri del Consiglio
o loro rappresentanti e altrettanti membri del Parlamento e ha il compito di
approvare entro 6 settimane un progetto comune, con la collaborazione della
Commissione (che prende ogni iniziativa necessaria per favorire un ravvicinamento
fra la posizione del Parlamento europeo e quella del Consiglio: § 11).
Se il comitato di conciliazione non riesce ad approvare un progetto comune nel termine
previsto, l’atto in questione si considera non adottato (§ 12).
Se il comitato di conciliazione approva un progetto comune,  allora l’atto potrà passare in
terza lettura per essere definitivamente approvato da Parlamento e Consiglio (a
maggioranza qualificata), entro ulteriori 6 settimane. In mancanza di una decisione l’atto
in questione si considera non adottato (§ 13).
4. Le procedure legislative speciali
Anche se la procedura legislativa ordinaria è di più frequente applicazione, diverse
disposizioni del TFUE prevedono procedure legislative speciali, il cui svolgimento è definito
di volta in volta dalle disposizioni che fungono da base giuridica.

16 Già in questa fase il Parlamento europeo può assumere l’iniziativa di avviare il negoziato interistituzionale con
Consiglio e Commissione secondo il cd schema trilogo e attraverso una delegazione indicata dalla commissione
parlamentare competente, al fine di facilitare il raggiungimento di un accordo sul contenuto dell’atto.
17 Se la posizione del Parlamento europeo è conforme alla proposta della Commissione, il Consiglio può approvare

a maggioranza qualificata: se, la posizione emenda la proposta, occorre l’unanimità (art 293, § 1 TFUE).
In genere, si tratta dell’adozione dell’atto da parte del Consiglio (maggioranza qualificata o
unanimità), previa consultazione del Parlamento europeo (procedura di consultazione)
oppure, in un numero limitato di casi, con l’approvazione (procedura di approvazione).
Il potere d’iniziativa è disciplinato come nella procedura legislativa ordinaria: salvo
eccezioni, l’istituzione competente (Consiglio o Parlamento europeo) non può decidere in
assenza di una proposta della Commissione (art 17, § 2 TUE).
A) Quando il TFUE prevede che il potere di adottare atti legislativi spetti al solo Consiglio,
tale potere è controbilanciato dall’obbligo di consultare il Parlamento europeo. Si parla in
questi casi di procedura di consultazione.
Si tratta di un parere consultivo: obbligatorio (il trattato impone al Consiglio di consultare
il Parlamento) ma non vincolante (il Consiglio è libero di non seguire il parere).
Prima dell’introduzione delle procedure di cooperazione e di codecisione, l’unica forma attraverso cui
il Parlamento europeo era in grado di intervenire nella definizione degli atti del Consiglio era proprio
la procedura di consultazione.
Per questo, la giurisprudenza che si è occupata del tema è stata particolarmente rigorosa, dovendosi
salvaguardare le prerogative dell’unica istituzione dotata di legittimità democratica diretta.
La consultazione deve essere effettiva e regolare. Ciò implica che deve essere effettivamente
avvenuta: il parere non solo deve essere richiesto, ma deve essere anche emanato prima dell’adozione
dell’atto da parte del Consiglio.
Inoltre, qualora il Consiglio intenda deliberare un atto diverso da quello su cui il Parlamento europeo
è stato chiamato ad esprimere il proprio parere, l’esigenza di una consultazione effettiva e regolare
implica risolvere il problema del se ed in quali casi la consultazione sia sufficiente e quando invece sia
necessaria una seconda consultazione. Secondo la giurisprudenza, sei, dopo la consultazione del
Parlamento europeo, il Consiglio decide di modificare l’atto nella sostanza o la Commissione ritira la
proposta e ne presenta un’altra (diversa da quella su cui il Parlamento europeo si è espresso), occorre
una seconda consultazione.
Il TFUE non stabilisce alcun termine per l’emanazione del parere. Ciò non significa che il Parlamento
europeo sia del tutto libero di stabilire a piacimento i tempi per l’emanazione del parere. In
particolare, non sarebbe possibile evitare l’approvazione di atti non graditi dilazionando sine die il
rilascio del proprio parere. Pertanto, si deve ritenere che il Parlamento europeo sia tenuto, in base al
principio di leale collaborazione tra le istituzioni ad emanare il parere in un termine ragionevole e a
tener conto di eventuali richieste avanzate dal Consiglio per ottenere una delibera urgente.
Diversamente, al Parlamento europeo sarebbe precluso il diritto d’invocare il difetto di consultazione,
essendosi reso responsabile di un comportamento sleale verso il Consiglio.
B) In alcuni casi di particolare importanza 18 , il TFUE prevede che l’atto legislativo sia
deliberato dal Consiglio e approvato dal Parlamento europeo (procedura di approvazione).

18 Un’ipotesi è prevista dall’art 19, § 1 TFUE: fatte salve le altre disposizioni dei trattati e nell’ambito delle
competenze da essi conferite all’Unione, il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa
speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere
le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità,
l’età o l’orientamento sessuale.
Prima del Trattato di Lisbona, si parlava di procedura di parere conforme. Tale procedura, introdotta
dall’Atto Unico Europeo (1986), era limitata a pochi ma importanti casi (accordi internazionali).

Il parere conforme del Parlamento europeo è obbligatorio e vincolante. Se viene negato, il


Consiglio non può deliberare in proposito.
Nelle ipotesi in cui è richiesta la procedura di approvazione, in realtà il potere deliberativo
non appartiene più al Consiglio, ma diventa “condiviso” con il Parlamento europeo (come
nella procedura legislativa ordinaria). C’è però un’importante differenza: mentre nella
procedura legislativa ordinaria il Parlamento europeo ha uno spazio di manovra per
determinare il contenuto dell’atto, nella procedura speciale di approvazione il suo ruolo è
più limitato: può solo approvare o respingere l’atto.
Atto Unico Europeo Trattato sull’Unione Trattato di Lisbona
procedura di consultazione consultazione
proceduta speciale
procedura di parere conforme approvazione
procedura di cooperazione procedura di codecisione procedura legislativa ordinaria
NB: nella procedura di cooperazione il Consiglio poteva approvare all’unanimità un atto respinto dal Parlamento
europeo, nella procedura di codecisione l’atto respinto si considerava come non adottato.
5. Le procedure legislative nel settore dello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia
Il Trattato di Lisbona ha eliminato ogni distinzione formale tra materie già da tempo
comunitarizzate e materie inizialmente rientranti nel III pilastro dell’Unione (in particolare
la cooperazione giudiziaria in materia penale e la cooperazione di polizia).
In linea generale, si estende alle materie connesse allo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia la
procedura legislativa ordinaria (iniziativa legislativa esclusiva della Commissione, codecisione e
maggioranza qualificata in Consiglio) eliminando in sostanza la precedente distinzione tra materie
comunitarizzate (visti, asilo, libera circolazione delle persone, cooperazione giudiziaria civile) e
materie intergovernative (cooperazione giudiziaria penale e di polizia).
Tuttavia, nella nuova disciplina, un ruolo specifico è riservato al Consiglio europeo, il quale
definisce gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello
Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia (art 68 TFUE).
Inoltre, permangono alcune differenze dal punto di vista delle procedure legislative: anche
se la procedura legislativa ordinaria è ormai molto presente, talvolta viene mantenuta
l’unanimità o si usano procedure legislative speciali.
In particolare, nei settori cooperazione giudiziaria in materia penale (Eurojust), cooperazione di polizia
(Europol) e relativa cooperazione amministrativa, il potere di proposta spetta, oltre che alla
Commissione, anche a 1/4 degli Stati membri (art 76 TFUE).
La cooperazione giudiziaria penale (Capo 4) viene rafforzata: in particolare, si stabilisce il principio
del mutuo riconoscimento degli atti giudiziari e si agevola l'adozione, ove necessario, di norme minime
relative all’armonizzazione del diritto processuale e sostanziale (artt 82, § 1 e 83 TFUE). In materia,
prevale la procedura legislativa ordinaria.
Viene valorizzato il ruolo di Eurojust: il Consiglio può istituire, con procedura speciale di approvazione
(il Consiglio delibera all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo: art 86, § 1, comma
1 TFUE) una Procura Europea abilitata (in collegamento con Europol) ad esercitare l’azione penale
dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri per combattere i reati che ledono gli
interessi finanziari dell'Unione. Tali competenze possono essere estese dal Consiglio europeo anche
alla lotta contro la criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale.
In materia di cooperazione di polizia (Capo 5) viene mantenuta l'unanimità per quanto riguarda la
cooperazione operativa e per fissare limiti e condizioni entro cui le autorità di uno Stato membro
possono operare nel territorio di un altro Stato membro in collegamento con i suoi servizi di polizia
(procedura speciale di consultazione: art 89 TFUE)
La procedura legislativa ordinaria viene estesa tuttavia ai temi della struttura, funzionamento e sfera
di azione di Europol (art 88, TFUE), oltre che a quelli della raccolta, archiviazione e scambio di
informazioni, della formazione e delle tecniche investigative comuni (art 87, § 2 TFUE).
La cooperazione giudiziaria civile (Capo 3) e le politiche su asilo, visti e immigrazione (Capo 2)
vengono considerate un problema di interesse comune, da gestire in base a principi di solidarietà e di
equa condivisione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. L’unica
eccezione riguarda il diritto di famiglia, per il quale rimane in vigore l'unanimità in Consiglio (peraltro,
superabile con apposita clausola passerella).
La procedura legislativa ordinaria è prevista sulle misure amministrative concernenti i movimenti di
capitali e pagamenti (congelamento di capitali, beni finanziari o proventi economici, in relazione alla
prevenzione e alla lotta contro il terrorismo e le attività connesse: art 75, comma 1 TFUE), in materia
di controlli alle frontiere, asilo e immigrazione (artt 77, § 2, 78, § 2 e 79, § 2 e 4 TFUE), di cooperazione
giudiziaria in materia civile (art 81, § 2 TFUE)
Per le misure riguardanti il diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali è prevista una
procedura speciale di consultazione: il Consiglio delibera all’unanimità, previa consultazione del
Parlamento europeo (art 81, § 3, comma 1 TFUE). Tuttavia, è prevista in materia una particolare
clausola passerella: il Consiglio, su proposta della Commissione, con delibera all’unanimità, previa
consultazione del Parlamento europeo, può adottare una decisione che determina gli aspetti che
potrebbero formare oggetto di atti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria (comma 2).
Inoltre, i parlamenti nazionali sono informati della proposta. Se un parlamento nazionale comunica
la propria opposizione entro 6 mesi dalla data di tale informazione, la decisione non è adottata. In
mancanza di opposizione, il Consiglio può adottare la decisione (comma 3).

Sono previsti taluni strumenti procedurali per cui gli Stati membri che siano contrari a
determinati atti possono impedirne o ritardarne l’adozione.
1) In alcuni casi, si tratta di varianti rispetto alla procedura legislativa ordinaria volte a
ridurne i caratteri di sovranazionalità (cd clausole con freno di emergenza).
Nelle ipotesi di cui all’art 82, § 3 TFUE (norme minime in materia di riconoscimento delle sentenze e
decisioni giudiziarie penali e cooperazione di polizia giudiziaria in materie penali di dimensione
transnazionale), all’art 83, § 3 TFUE (norme minime in materia di definizione dei reati e delle sanzioni
in sfere di criminalità particolarmente gravi) e all’art 48 TFUE (misure di coordinamento dei sistemi di
sicurezza sociale dei lavoratori migranti), la disciplina è integrata dal cd freno di emergenza, che
consente di portare all’attenzione del Consiglio europeo i provvedimenti su cui non vi sia l’unanimità:
qualora il Consiglio europeo decida di bloccare un provvedimento e alcuni Stati membri intendono
proseguire sulla stessa strada, essi sono automaticamente autorizzati a costituire una cooperazione
rafforzata.
Se lo Stato membro ritiene che i principi fondamentali del suo sistema di sicurezza sociale o del suo
sistema di giustizia penale siano minacciati dal progetto legislativo in corso di adozione, manifesta la
propria contrarietà e interviene (prima della deliberazione del Consiglio) affermando che il progetto
incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico e penale. Ciò comporta la
sospensione della procedura legislativa ordinaria.
L’esame dell’atto passa al Consiglio europeo che ha 4 mesi per approvare l’atto per consenso.

 Se ciò avviene, l’atto è rinviato al Consiglio e la procedura legislativa ordinaria riprende.


 In caso contrario, se almeno 9 Stati membri desiderano instaurare una cooperazione
rafforzata sulla base del progetto di atto, essi ne informano il Parlamento europeo, il
Consiglio e la Commissione. In tal caso l’autorizzazione a procedere alla cooperazione
rafforzata si considera concessa.
In sostanza, lo Stato membro che provoca il rinvio al Consiglio europeo può ritardare l’adozione del
progetto di atto, ma rischia che l’atto sia comunque adottato in forma di cooperazione rafforzata.
Tuttavia, il vantaggio del freno di emergenza sta nel fatto che l’istituzione di tale meccanismo ha
consentito di estendere la procedura legislativa ordinaria a settori in cui alcuni Stati membri erano più
recalcitranti ad applicarla (e preferivano mantenere su tali politiche la regola del voto all’unanimità).
2) In altre ipotesi, si tratta di una variante associata a procedure legislative speciali che
richiedono una delibera unanime del Consiglio, al fine di superare la mancanza di unanimità.
(cd clausole di accelerazione).
Sono le ipotesi di cui all’art 86, § 1 comma 2 e 3 TFUE (istituzione di una Procura europea) e all’art 87,
§ 3, comma 2 e 3 TFUE (cooperazione operativa tra le autorità di polizia).
Queste clausole accelerano l'integrazione europea tra alcuni Stati membri, agevolando la realizzazione
di cooperazioni rafforzate, discostandosi dalla normale procedura (artt 326 – 334 TFUE): se vi è
l’accordo di un gruppo di almeno 9 Stati membri, le istituzioni dell’Unione (Consiglio, Parlamento
europeo e Commissione) vengono semplicemente informate della volontà degli Stati interessati di
instaurare una cooperazione rafforzata, che si considera concessa.
Le clausole di accelerazione in queste materie derivano direttamente dall’attivazione delle clausole
con freno di emergenza: quando il freno di emergenza viene attivato e si blocca la procedura
legislativa, gli Stati membri che lo desiderano possono ricorrere alla clausola di accelerazione e
completare la procedura legislativa tra di loro, nell’ambito di una cooperazione rafforzata.
In mancanza di unanimità, un gruppo di almeno 9 Stati membri può chiedere che il Consiglio europeo
sia investito del progetto dell’atto: la procedura in sede di Consiglio è sospesa.
Il Consiglio europeo che ha 4 mesi per approvare l’atto per consenso.

 Se ciò avviene, l’atto è rinviato al Consiglio per l’adozione.


 In caso di disaccordo, se almeno 9 Stati membri desiderano instaurare una cooperazione
rafforzata, essi ne informano il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione. In tal
caso, l’autorizzazione a procedere alla cooperazione rafforzata si considera concessa.
6. Le procedure non legislative
In molti casi i trattati prevedono l’adozione da parte delle istituzioni di atti non legislativi e
stabiliscono di volta in volta la procedura decisionale applicabile.
Il Consiglio europeo (che non esercita funzioni legislative: art 15, § 1 TUE), delibera
seguendo procedure diverse, caso per caso.
In alcuni casi, il Consiglio europeo decide in autonomia, senza necessità di proposta e senza
consultazione o approvazione di altre istituzioni:
l’elezione del Presidente del Consiglio europeo e le decisioni sulla Presidenza del Consiglio,
la decisione che stabilisce l’elenco delle formazioni del Consiglio.
Talvolta il Consiglio europeo, benché non condizionato da una proposta proveniente da altri soggetti,
necessita dell’approvazione di un’altra istituzione o organo:
la nomina del Presidente della Commissione, con l’approvazione del Parlamento europeo
(art 17, § 7 comma 1 TUE),
la nomina dell’Alto rappresentante, in accordo del Presidente della Commissione (art 18, §
1 TUE).
Qui il Consiglio europeo delibera a maggioranza qualificata.
In altri casi, il Consiglio europeo non agisce di propria iniziativa (ha bisogno di una proposta)
e necessita della consultazione o approvazione di altre istituzioni.
Simile alla procedura di consultazione è quella per le revisioni dei trattati (art 48 TUE). Il
Consiglio europeo agisce su proposta del Governo di uno Stato membro, del Parlamento
europeo o della Commissione.
Nella procedura ordinaria (§§ 1 e 2) la decisione di convocare una convenzione per l’esame della
proposta è presa previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione.
Nella prima delle procedure semplificate (§ 6), la decisione di modifica della Parte III del TFUE (politiche
e azioni interne all’Unione) è presa previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione
(e della BCE, per le modifiche inerenti al settore monetario). In ogni caso, le modifiche decise dovranno
essere ratificate dagli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.
Simile alla procedura di approvazione è quella di cui all’art 7 § 2 TUE, per constatare
l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di
cui all’art 2 TUE
Il Consiglio europeo necessita di una proposta di 1/3 degli Stati membri o della Commissione. La
decisione è presa all’unanimità, ma previa approvazione del Parlamento europeo.
Il Consiglio quando adotta atti non legislativi nel campo d’applicazione del TFUE, il segue
procedure modellate sulla procedura di consultazione e su quella di approvazione.
Simile alla procedura di consultazione è quella prevista nelle ipotesi dell’art 103, § 1 TFUE. I
regolamenti e le direttive in materia di concorrenza tra imprese sono stabiliti dal Consiglio
su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo.
La procedura di approvazione è, invece, applicabile quando il Consiglio adotta disposizioni
ai sensi dell’art 352, § 1 TFUE (cd clausola di flessibilità) che si tratti o meno di atti legislativi.
7. Le procedure nel settore della PESC
La competenza nel settore PESC riguarda tutti i settori della politica estera e tutte le
questioni relative alla sicurezza dell'Unione, compresa la definizione progressiva di una
politica di difesa comune che può condurre a una difesa comune (art 24, § 1, comma 1 TUE).
Nonostante le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, il settore resta separato dagli
altri settori di competenza dell’Unione. Ciò vale anche per le procedure decisionali. Secondo
l’art 24, § 1, comma 2 TUE, la PESC è soggetta a norme e procedure specifiche:
a) il Consiglio europeo esercita un vero e proprio potere decisionale.
b) il Consiglio delibera su iniziativa degli Stati membri o dell’Alto rappresentante (anziché
della Commissione)
c) il ruolo del Parlamento europeo è ridotto a semplice consultazione.
Inoltre, è esclusa l’adozione di atti legislativi (concetto ribadito anche dall’art 31, § 1 TUE):
dunque nessuna procedura decisionale può essere definita legislativa.
L’art 26, § 1, comma 1 TUE attribuisce al Consiglio europeo poteri decisionali veri e propri:
individua gli interessi strategici generali, fissa gli obiettivi e definisce gli orientamenti
generali della PESC, ivi comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa.
Adotta le decisioni necessarie.
L’unica regola procedurale è nell’art 31, § 1 TUE: le decisioni nel settore PESC sono adottate
dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano all'unanimità, salvo nei casi in cui il
presente capo dispone diversamente. È esclusa l'adozione di atti legislativi.
Il Consiglio europeo delibera sempre all’unanimità, salvo i casi in cui la disciplina relativa
alla PESC disponga diversamente (ma casi del genere non sono al momento previsti).
Circa le procedure decisionali del Consiglio, anche ad esso si applica dell’art 31, § 1 TUE:
dunque, la regola generale è l’unanimità.
Poiché le astensioni non ostano all'adozione delle deliberazioni del Consiglio per le quali è richiesta
l'unanimità (art 238, § 4 TFUE), si è cercato nel settore PESC di indurre gli Stati membri contrari ad
una proposta ad astenersi, anziché dare voto contrario. L’art 31, § 1, comma 2 TUE introduce l’istituto
della cd astensione costruttiva: ciascuno membro del Consiglio può motivare la propria astensione
con una dichiarazione formale e, in tal caso, non è obbligato ad applicare la decisione, ma accetta
che essa impegni l'Unione.
Nei rapporti tra lo Stato astenutosi e gli altri Stati membri, in uno spirito di mutua solidarietà, lo Stato
membro interessato si astiene da azioni che possano contrastare o impedire l'azione dell'Unione
basata su tale decisione e gli altri Stati membri rispettano la sua posizione.
Si tratta di una “deroga” al principio secondo cui le delibere del Consiglio obbligano tutti gli Stati
membri, anche gli astenuti: la delibera del Consiglio è validamente assunta, ma l’atto adottato non
vincola lo Stato membro astenuto, che rimane escluso dell’ambito di applicazione personale della
delibera. È un altro esempio di Europa a più velocità.
Tale meccanismo però diventa inapplicabile qualora l’astensione riguardi 1/3 degli Stati membri che
totalizzano almeno 1/3 della popolazione dell’Unione: in tal caso, la decisione non è adottata.

L’art 31, § 2 TUE prevede, in deroga alle disposizioni di cui al § 1, la possibilità che alcune
deliberazioni vengano assunte dal Consiglio a maggioranza qualificata:
1. quando adotta una decisione che definisce un’azione o una posizione dell’Unione,
sulla base di una decisione del Consiglio europeo relativa agli interessi e obiettivi
strategici dell’Unione di cui all’art 22 § 1;
2. quando adotta una decisione che definisce un’azione o una posizione dell’Unione
in base a una proposta dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e
la politica di sicurezza presentata in seguito a una richiesta specifica rivolta a
quest’ultimo dal Consiglio europeo di sua iniziativa o su iniziativa dell’Alto
rappresentante;
3. quando adotta decisioni relative all’attuazione di una decisione che definisce
un’azione o una posizione dell’Unione;
4. quando nomina un rappresentante speciale ai sensi dell’art 33 TUE19.
Nel settore PESC la già limitata possibilità del Consiglio deliberare a maggioranza qualificata può
essere paralizzata dalla cd clausola di salvaguardia (art 31, § 2, comma 2 TUE): se un membro del
Consiglio dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica nazionale, intende opporsi all’adozione
di una decisione che richiede la maggioranza qualificata, non si procede alla votazione. L’Alto
rappresentante cerca, in stretta collaborazione con lo Stato membro interessato, una soluzione
accettabile per quest’ultimo. In mancanza di un risultato, il Consiglio, deliberando a maggioranza
qualificata, può chiedere che della questione sia investito il Consiglio europeo, in vista di una decisione
all’unanimità.
La clausola riecheggia il Compromesso di Lussemburgo. La dichiarazione di opposizione paralizza il
Consiglio e gli consente solo di deferire la questione al Consiglio europeo, che, come è suo solito,
delibererà all’unanimità.
Ci si potrebbe chiedere se il Consiglio europeo, possa esso stesso procedere all’approvazione. La sua
natura di massima istanza politica dell’Unione farebbe propendere per la soluzione negativa.
Considerando, però, il ruolo più attivo svolto nell’ambito della PESC, non è escluso che, risolto il
conflitto insorto in sede di Consiglio, ci si possa spingere fino all’approvazione formale dell’atto.

Circa il potere d’iniziativa, ogni Stato membro, l'Alto rappresentante (in autonomia o con
l’appoggio della Commissione) possono sottoporre al Consiglio questioni relative alla PESC e
possono presentare rispettivamente iniziative o proposte al Consiglio (art 30, § 1 TUE).
Ciò non esclude che il Consiglio possa agire di propria iniziativa (come avviene nella prassi).
Il Parlamento europeo, non svolge alcun ruolo attivo nell’elaborazione delle decisioni PESC.
L’Alto rappresentante consulta regolarmente il Parlamento europeo sui principali aspetti e sulle scelte
fondamentali della PESC e provvede affinché le opinioni del Parlamento europeo siano debitamente
prese in considerazione (art 36, comma 1 TUE). Da parte sua, il Parlamento europeo può rivolgere
interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio o all’Alto rappresentante e procede 2 volte
all’anno a un dibattito sui progressi compiuti nell’attuazione della PESC.
Per quanto riguarda il ruolo dell’Alto rappresentante, va segnalato anche il potere d’attuazione che
gli compete in ambito PESC. L’art 26, § 3 TUE stabilisce che la PESC è attuata dall’Alto rappresentante
e dagli Stati membri, ricorrendo ai mezzi nazionali e a quelli dell’Unione.
Occorre poi considerare i poteri di rappresentanza, previsti dall’art 27, § 2 TUE (conduce, a nome
dell'Unione, il dialogo politico con i terzi ed esprime la posizione dell'Unione nelle organizzazioni
internazionali e in seno alle conferenze internazionali).
Sulla base dell’art 27, § 3 TUE si è proceduto, con decisione 2010/427/UE del Consiglio, alla creazione
di un servizio europeo per l’Azione Esterna, di cui L’Alto rappresentante può avvalersi nell’esercizio
delle sue funzioni. Tale servizio lavora in collaborazione con i servizi diplomatici degli Stati membri ed

19Nominato dal Consiglio, su proposta dell’Alto Rappresentante, il rappresentante speciale ha un mandato per
problemi politici specifici, che esercita sotto l’autorità dell’Alto Rappresentante
è composto da funzionari dei servizi competenti del segretariato generale del Consiglio e della
Commissione e da personale distaccato dai servizi diplomatici nazionali
8. La procedura per la conclusione degli accordi internazionali
La procedura per negoziare e concludere accordi internazionali dell’Unione con Stati terzi o
con altre organizzazioni internazionali è disciplinata dall’art 218 TFUE.
La procedura è caratterizzata dal ruolo centrale del Consiglio, che decide su tutte le fasi
(avvio dei negoziati, definizione delle direttive di negoziato, autorizzazione alla conclusione
degli accordi) a maggioranza qualificata (§ 8, comma 1).
In alcuni casi, invece, delibera all’unanimità (§ 8, comma 2)
a) l’accordo riguarda un settore per il quale è richiesta l’unanimità per l’adozione di un atto
(interno) dell’Unione;
b) accordi che istituiscono un’associazione ai sensi dell’art 217 TFUE20
c) accordi di cui all’art 212 TFUE21 con gli Stati candidati all’adesione;
d) l’accordo sull’adesione dell’Unione alla CEDU (previa approvazione degli Stati membri,
conformemente alle rispettive norme costituzionali)
La fase della conclusione dell’accordo internazionale segue, in generale, il modello della
procedura di consultazione. Il Parlamento europeo è previamente consultato (salvo per gli
accordi che riguardino la PESC)22.
In taluni casi, si segue la procedura di approvazione: senza la preventiva approvazione del Parlamento
europeo, non è possibile concludere l’accordo23.
1. accordi di associazione;
2. accordo sull’adesione dell’Unione alla CEDU;
3. accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di
cooperazione;
4. accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli per l’Unione;
5. accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria o la
procedura legislativa speciale con l’approvazione del Parlamento europeo.
È possibile che la procedura comprenda la consultazione della Corte di Giustizia: uno Stato
membro, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione possono domandare il parere
della Corte di Giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati (§ 11)24.

20 Si tratta di accordi con Stati terzi od organizzazioni internazionali, caratterizzati da diritti e obblighi reciproci,
azioni in comune o procedure particolari.
21
Si tratta della cooperazione economica, finanziaria e tecnica con Stati terzi diversi dai Paesi in via di sviluppo.
22 Il Parlamento europeo formula il suo parere nel termine che il Consiglio può fissare in funzione dell’urgenza. In

mancanza di parere entro detto termine il Consiglio può deliberare (§ 6, lett b).
23 In caso d’urgenza, Il Parlamento europeo e il Consiglio possono concordare un termine per l’approvazione (§ 6

lett a, ult comma).


24 Il parere verte sulla compatibilità del progetto di accordo con le disposizioni del trattato, ma anche la stessa

competenza dell’Unione a concluderlo. In caso di parere negativo, l’accordo potrà entrare in vigore solo se
vengono apportate le modifiche indicate dalla Corte. Nel caso in cui l’accordo venisse concluso in difformità dal
parere della Corte, l’atto del Consiglio potrebbe essere impugnato con ricorso di annullamento.
9. Le procedure per l’adozione degli atti d’attuazione e d’esecuzione
Spesso gli atti adottati del Consiglio o congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio
(atti di base o di primo grado) affidano alla Commissione il compito di adottare atti di
attuazione o d’esecuzione (atti di secondo grado).
Negli atti di attuazione, l’atto di base definisce gli elementi essenziali della disciplina sulla base dei
dati tecnici e scientifici disponibili al momento, ma che si prevede muteranno nel tempo: delega poi
la Commissione a completare la disciplina con regole di dettaglio o addirittura autorizza la modifica
della disciplina di base su aspetti non centrali, in particolare per tenerla aggiornata ai nuovi dati tecnici
e scientifici.
Negli atti di esecuzione, l’atto di base conferisce alla Commissione solo il compito di applicare la
normativa contenuta nell’atto di base, attraverso provvedimenti di carattere generale o individuale.
Non mancano incertezze sull’esatta distinzione tra atti di attuazione e atti di esecuzione,
peraltro mai chiarite dalla giurisprudenza (in precedenza, la procedura era la stessa).
Tuttavia, la distinzione è oggi diventata molto importante dopo il Trattato di Lisbona: gli
artt 290 e 291 TFUE stabiliscono procedure e condizioni diverse.
L’art 290 TFUE introduce nel sistema l’istituto della delega di attuazione: un atto legislativo
può delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale
che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo.
Gli atti legislativi di delega avranno il seguente contenuto:
a) delimitano esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega;
b) fissano esplicitamente le condizioni cui è soggetta la delega, ossia le modalità di controllo
relative al modo in cui la Commissione dà attuazione alla delega ricevuta. Le condizioni
possono essere:
 il Parlamento europeo o il Consiglio possono decidere di revocare la delega;
 l’atto delegato può entrare in vigore solo se, entro il termine fissato nell’atto
legislativo, il Parlamento europeo o il Consiglio non sollevano obiezioni.
L’aspetto più problematico sta nel fatto che l’atto legislativo di delega autorizza la Commissione non
solo ad integrare l’atto con le norme di dettaglio che non si è ritenuto necessario prevedere
direttamente nell’atto legislativo, ma anche a modificare alcuni elementi non essenziali dell’atto
legislativo.
Non è agevole distinguere tra elementi essenziali e non essenziali, con la conseguente possibilità di
controversie interistituzionali, ma anche tra istituzioni e Stati membri.
Con sentenza C-355/2010 la Corte di Giustizia annulla una decisione del Consiglio che integra il codice
frontiere Schengen in tema di sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della
cooperazione operativa svolta da Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione
operativa delle frontiere esterne degli Stati membri dell’UE). La decisione assegnava all’Agenzia il
potere di adottare misure coercitive verso persone o imbarcazioni, potenzialmente idonee ad incidere
anche sui diritti fondamentali degli individui. Poiché tali poteri vengono qualificati come elementi
essenziali della disciplina, la Corte conclude che essi avrebbero dovuto essere previsti da un atto
adottato con la procedura legislativa ordinaria.
Ammettere che l’atto delegato possa modificare l’atto legislativo di delega, introduce una non
auspicabile confusione tra le fonti. Il fatto che gli atti delegati alla Commissione siano atti non
legislativi di portata generale induce a classificare l’istituto come una forma di delegificazione
piuttosto che come una delega di poteri legislativi ad organi di tipo esecutivo (la delega autorizzerebbe
una fonte sub-legislativa a modificare norme poste da una fonte legislativa).
L’art 291 TFUE si occupa dell’esecuzione degli atti giuridici vincolanti dell’Unione.
Di solito, l’esecuzione è affidata agli Stati membri, i quali adottano tutte le misure di diritto
interno necessarie per l’attuazione.
Può essere affidata alla Commissione (eccezionalmente, al Consiglio)25 solo allorché sono
necessarie condizioni uniformi di esecuzione.
Il § 3 riguarda in particolare il controllo degli Stati membri sull’operato della Commissione e prevede
che le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo saranno stabiliti da Parlamento
europeo e Consiglio mediante regolamenti deliberati secondo la procedura legislativa ordinaria.
10. La procedura per instaurare una cooperazione rafforzata
L’istituto della cooperazione rafforzata si è affermato con il Trattato di Amsterdam (1997). Esso
rappresenta la piena accettazione della concezione della cd Europa a più velocità. Lo scopo è
consentire ad un gruppo di Stati membri di utilizzare le istituzioni, le procedure ed i meccanismi
decisionali previsti dai trattati per instaurare tra di loro forme di cooperazione non condivise da tutti
gli Stati membri. La disciplina dell’istituto è contenuta nell’art 20 TUE e negli artt 326 – 334 TFUE.
Numerosi sono i requisiti materiali necessari.
Taluni devono essere valutati già nella procedura di autorizzazione: la cooperazione deve
1) riguardare competenze non esclusive dell’Unione;
2) promuovere la realizzazione degli obiettivi dell’Unione, a proteggere i suoi interessi e a
rafforzare il suo processo d’integrazione;
3) essere aperta in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri26.
4) essere autorizzata in ultima istanza, qualora gli obiettivi della cooperazione rafforzata
non possono essere conseguiti entro un termine ragionevole dall’Unione nel suo insieme.
Secondo la Corte di Giustizia, la valutazione di tale requisito spetta al Consiglio.
Altri requisiti riguardano più da vicino il contenuto delle cooperazioni rafforzate:
a) rispettano i trattati e il diritto dell’Unione (art 326, comma 1 TFUE)
b) non possono recare pregiudizio né al mercato interno né alla coesione economica, sociale e
territoriale: non possono costituire un ostacolo o una discriminazione per gli scambi tra gli Stati
membri, né possono provocare distorsioni di concorrenza tra questi ultimi (art 326, comma 2 TFUE)
c) rispettano le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non vi partecipano, i quali,
non ostacolano l’attuazione da parte degli Stati membri che vi partecipano (art 327 TFUE).

25Il conferimento del potere d’esecuzione al Consiglio può avvenire solo in casi specifici, debitamente motivati
e nelle circostanze previste dagli artt 24 e 26 TUE (Azione Esterna dell’Unione: in particolare, il settore PESC).
26L’art 328 TFUE precisa che le cooperazioni rafforzate sono aperte a tutti gli Stati membri, fatto salvo il rispetto
delle condizioni di partecipazione stabilite dalla decisione di autorizzazione. In particolare, la partecipazione
successiva è possibile in qualsiasi momento, fatto salvo il rispetto degli atti già adottati in tale ambito.
La procedura per l’autorizzazione ad instaurare una cooperazione rafforzata (art 329 TFUE)
si differenzia a seconda che l’oggetto della cooperazione riguardi o meno la PESC.
Nel settore PESC (§ 2), la richiesta degli Stati membri è presentata al Consiglio e trasmessa
all’Alto rappresentante (per un parere sulla coerenza con la PESC), alla Commissione (per
un parere sulla coerenza con le altre politiche dell’Unione) e per conoscenza al Parlamento
europeo.
L’autorizzazione è concessa dal Consiglio con delibera all’unanimità.
Negli altri settori (§ 1), gli Stati interessati trasmettono una richiesta alla Commissione,
precisando il campo d’applicazione e gli obiettivi perseguiti, la quale può:
 presentare al Consiglio una proposta al riguardo
 rifiutarsi di farlo (in tal caso, informa gli Stati membri delle ragioni di tale decisione).
L’autorizzazione è concessa dal Consiglio con delibera a maggioranza qualificata, previa
approvazione del Parlamento europeo.
La composizione delle istituzioni, le modalità deliberative e le procedure decisionali
applicabili nell’ambito di una cooperazione rafforzata sono quelle ordinarie. L’unica
particolarità riguarda il Consiglio: i rappresentanti degli Stati membri non partecipanti non
possono votare.
La maggioranza qualificata avrà dunque un quorum riproporzionato rispetto agli Stati partecipanti.
Nelle materie in cui il Consiglio delibera all’unanimità (PESC) è stabilito espressamente che l’unanimità
è costituita unicamente dai voti dei rappresentanti degli Stati membri partecipanti (art 330 TFUE).
Secondo l’art 333 TFUE, qualora una disposizione dei trattati che può essere applicata nel
quadro di una cooperazione rafforzata prevede:
che il Consiglio deliberi all'unanimità,  deliberando all'unanimità, il Consiglio può adottare
una decisione che prevede che delibererà a maggioranza qualificata;
che il Consiglio adotti atti secondo una procedura legislativa speciale,  deliberando
all'unanimità e previa consultazione del Parlamento europeo, il Consiglio può adottare una
decisione per il passaggio alla procedura legislativa ordinaria.
Ciò non vale per le decisioni che hanno implicazioni militari o che rientrano nel settore difesa
Parte III L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA
1. Considerazioni generali
Il complesso delle norme dei trattati e degli atti che le istituzioni hanno nel tempo adottato in base ai
trattati, costituisce un ordinamento autonomo? In altri termini, l’Unione Europea è portatrice di un
proprio ordinamento giuridico, distinto tanto dal diritto internazionale quanto dal diritto interno di
ciascuno Stato membro?
Inizialmente il quesito si è posto con riferimento alla sola CE e al solo diritto comunitario.
Nella sentenza C-26/62 Van Gend & Loos la Corte di Giustizia conclude che la Comunità costituisce un
ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli
Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce
come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini.
Ciò è ribadito in C-6/64 Costa c. ENEL: a differenza dei comuni trattati internazionali, il TCEE ha istituito
un proprio ordinamento giuridico integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto
dell’entrata in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Secondo la Corte,
gli Stati membri hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un
complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi.
La maggior preoccupazione della Corte di Giustizia sembra essere quella di distinguere il TCE dai
trattati internazionali tradizionali. A differenza di questi, infatti, esso comporta vere e proprie
limitazioni di sovranità a carico degli Stati membri, sia pure in settori limitati. Inoltre, il TCE e il
complesso di norme che ne scaturisce non si limitano a porre obblighi a carico degli Stati membri, ma
incidono sulla sfera giuridica dei soggetti degli ordinamenti interni: i cittadini diventano soggetti
dell’ordinamento comunitario. I caratteri che distinguono il TCE dai trattati internazionali tradizionali
segnano anche l’autonomia del diritto comunitario rispetto al diritto interno degli Stati membri.
L’applicazione del diritto comunitario nei settori assegnati alla sovranità della Comunità e all’interno
degli Stati membri 1) non è subordinata all’adozione di misure di adattamento da parte degli Stati
membri (principio dell’efficacia diretta) e 2) non può essere ostacolata dalla presenza di
provvedimenti preesistenti degli Stati membri o dall’adozione di nuovi provvedimenti contrari a
quanto prevede il diritto comunitario (principio del primato).
Secondo la Corte di Giustizia, l’ordinamento comunitario è dunque autonomo tanto rispetto
all’ordinamento internazionale generale quanto rispetto agli ordinamenti interni degli Stati membri.
Si è obiettato che la pretesa autonomia dell’ordinamento comunitario rispetto agli ordinamenti
interni è contraddetta dalla constatazione che l’integrazione del diritto comunitario nel diritto interno
(con i correlati caratteri dell’efficacia diretta e del primato) dipende da un atto di autolimitazione
liberamente accettato dagli Stati membri al momento della ratifica dei trattati. Gli Stati membri
(collettivamente o individualmente) potrebbero porre fine a tale integrazione o limitarne la portata
con un atto uguale e contrario all’atto iniziale di autolimitazione. L’autonomia dell’ordinamento
comunitario non sarebbe piena, ma condizionata al permanere di una volontà in tal senso da parte
degli Stati membri. In realtà, come risulta dalle clausole europee presenti in tutte le costituzioni
nazionali e dall’interpretazione che di queste danno le corti costituzionali, l’integrazione europea
rappresenta un valore costituzionale che vincola gli Stati membri.
In principio, la Corte aveva parlato di ordinamento autonomo solo rispetto al diritto comunitario e
non aveva avuto occasione di verificare se potesse dirsi altrettanto dell’ordinamento dell’Unione nel
suo complesso, comprensivo delle disposizioni dei trattati e degli atti delle istituzioni riguardanti i
settori che, prima del Trattato di Lisbona, costituivano il II pilastro e il III pilastro.
Prima del Trattato di Lisbona, in effetti, era lecito dubitare che la categoria dell’autonomia potesse
applicarsi ad un complesso di norme che, per quanto riguarda soprattutto la PESC, ma in parte anche
la cooperazione di polizia e la cooperazione giudiziaria in materia penale, mantenevano marcate
caratteristiche di stampo intergovernativo.
Dopo il Trattato di Lisbona, la soppressione della Comunità come ente autonomo rispetto all’Unione
e la parziale abolizione della struttura a pilastri, oltre che l’esplicito riconoscimento all’Unione della
personalità giuridica (art 47 TUE), sono tutti elementi che renderebbero anacronistico ogni tentativo
di tracciare distinzioni all’interno di un ordinamento che, nel nuovo assetto, vuol essere unico e
onnicomprensivo.

Come ogni ordinamento giuridico, anche l’ordinamento UE ha un sistema di fonti di


produzione del diritto articolate in una gerarchia, che può essere così schematizzata:
trattati, principi generali del diritto, Carta dei diritti fondamentali dell’UE;
diritto internazionale generale e accordi internazionali dell’Unione con Stati terzi;
atti di base adottati dalle istituzioni
atti d’attuazione o di esecuzione adottati dalla Commissione o dal Consiglio.
La distinzione fondamentale è quella tra dritto primario e diritto secondario (o derivato).
In origine, il diritto primario era composto dai trattati, mentre il diritto derivato era
costituito dagli atti che le istituzioni possono adottare in attuazione dei trattati.
a) All’interno del diritto primario, la giurisprudenza è venuta nel tempo riconoscendo
l’esistenza di principi generali del diritto, in particolare quelli attinenti alla protezione dei
diritti fondamentali dell’uomo i quali hanno caratteristiche assimilabili a quelle dei trattati.
Il Trattato di Lisbona ha poi creato, con il nuovo art 6, § 1 TUE, una nuova fonte scritta cui
è riconosciuto lo stesso valore giuridico dei trattati: la Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
b) Tra diritto primario e diritto secondario si inseriscono, come fonti intermedie, le norme
del diritto internazionale generale e gli accordi internazionali dell’Unione con Stati terzi.
c) All’interno del diritto secondario (o derivato), può stabilirsi una gerarchia tra atti di base
e atti d’attuazione o di esecuzione. La distinzione rileva non solo dal punto di vista della
procedura decisionale: l’atto d’attuazione o di esecuzione deve rispettare l’atto di base e
restare nei limiti della delega conferita.
Il Trattato di Lisbona ha introdotto una distinzione che prima non esisteva:
a) gli atti di attuazione (art 290 TFUE) si distinguono dagli atti di base perché sono sempre adottati
dalla Commissione su delega disposta da un atto legislativo (adottato congiuntamente da Parlamento
europeo e Consiglio o dall’una o dall’altra di queste istituzioni).
b) gli atti di esecuzione (art 291 TFUE) sono affidati alla Commissione (o eccezionalmente da Consiglio:
settore PESC), anziché agli Stati membri allorché sono necessarie condizioni uniformi di esecuzione.
Tra gli atti delle istituzioni figurano categorie di atti molto diversi per natura e struttura.
Per quanto riguarda la natura, occorre distinguere tra atti legislativi e atti non legislativi.
La distinzione è stata introdotta dal Trattato di Lisbona. Non essendo stati creati appositi
tipi di atti (l’art 288 TFUE corrisponde all’art 249 TCE), la distinzione si basa essenzialmente
sulla procedura decisionale applicabile per l’adozione: gli atti giuridici adottati mediante
procedura legislativa sono atti legislativi (art 289, § 3 TFUE). Per converso, gli atti adottati
con procedura non qualificata come legislativa, benché recanti la stessa denominazione di
un atto legislativo, saranno atti non legislativi. In concreto, si possono avere regolamenti,
direttive o decisioni legislativi o non legislativi, a seconda della procedura decisionale con
cui ciascun atto è stato adottato.
Poiché la procedura decisionale applicabile è indicata dalla base giuridica, in forza della quale l’atto è
adottato, è la stessa base giuridica che, stabilendo se si debba seguire una procedura legislativa o una
procedura non legislativa, determina la natura legislativa o meno degli atti adottati.
I motivi che hanno guidato la scelta di definire legislativi determinati atti e non altri sono a volte oscuri.
Un esempio clamoroso è dato dall’art 103, § 1 TFUE: nel prevedere l’emanazione da parte del
Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, di
regolamenti e direttive per attuare le regole di concorrenza applicabili alle imprese (artt 101 – 102
TFUE) non viene specificato che si tratta di procedura legislativa speciale. Lo stesso fenomeno si
riscontra per l’art 109 TFUE, in materia di aiuti di Stato alle imprese. Di conseguenza, nonostante la
loro indubbia importanza normativa, si tratta di atti non legislativi.
La categoria degli atti non legislativi è dunque definita per esclusione: sono tali tutti gli atti delle
istituzioni per la cui adozione non è prevista una procedura legislativa.
Peraltro, le procedure legislative contemplano sempre l’adozione di atti da parte del Parlamento
europeo e del Consiglio (congiuntamente o separatamente).
Di conseguenza, gli atti delle altre istituzioni saranno a priori non legislativi. In particolare, ciò vale per
gli atti del Consiglio europeo, il quale non esercita funzioni legislative (art 15, §1 TUE).
Il fatto che un atto sia legislativo o non legislativo comporta alcune importanti conseguenze:
a) i lavori del Consiglio per l’adozione di un atto legislativo si svolgono in seduta pubblica.
Ciò rende necessario dividere ciascuna sessione in due parti dedicate, rispettivamente, alle
deliberazioni su atti legislativi dell’Unione e alle attività non legislative (art 16, § 8 TUE);
b) in merito agli atti legislativi (e non anche per gli atti non legislativi) saranno esercitati i
poteri di controllo dei parlamenti nazionali sul rispetto del principio di sussidiarietà;
c) la ricevibilità dei ricorsi d’annullamento delle persone fisiche o giuridiche avrà condizioni
più restrittive qualora l’atto impugnato sia un atto legislativo rispetto all’impugnazione degli
atti regolamentari che non comportano alcuna misura d’esecuzione (di portata generale,
ma atti non legislativi): nel primo caso, gli atti impugnabili riguardano il ricorrente
direttamente e individualmente; nel secondo, solo direttamente: art 263, comma 4 TFUE).
Anche dal punto di vista della struttura gli atti delle istituzioni presentano grandi differenze.
L’art 288 TFUE, che contiene l’elencazione e la descrizione degli atti più frequentemente
utilizzati dalle istituzioni (cd atti tipici)
 regolamenti
 direttive atti vincolanti sono fonti del diritto
 decisioni
 pareri
 raccomandazioni atti non vincolanti

Tra gli atti tipici, i pareri e le raccomandazioni non sono vincolanti e dunque non sono fonti del diritto.
I regolamenti, le direttive e le decisioni, invece, sono atti vincolanti: sono fonti del diritto
La disposizione del trattato non prevede una gerarchia tra gli atti vincolanti: una direttiva
potrebbe abrogare un regolamento o una decisione potrebbe prevedere una deroga
rispetto a una direttiva.
Di solito, la base giuridica specifica quale tipo di atti le istituzioni possono adottare. Tuttavia,
se non viene precisato, la scelta spetta alle istituzioni: qualora i trattati non prevedano il
tipo di atto da adottare, le istituzioni lo decidono di volta in volta, nel rispetto delle procedure
applicabili e del principio di proporzionalità (art 296, comma 1 TFUE).
L’art 114 TFUE (ex 95 TCE), in materia di instaurazione e funzionamento del mercato interno, riconosce
a Parlamento europeo e Consiglio il potere di adottare misure relative al ravvicinamento delle
legislazioni nazionali, lasciando la scelta se adottare un regolamento, una direttiva o un altro tipo di
atto.
La tipologia degli atti di cui all’art 288 TFUE non è completa né tassativa.
Gli stessi trattati prevedono atti non corrispondenti ai tipi codificati (atti atipici).
È il caso del settore PESC, che prevede una tipologia di atti con denominazione e struttura diverse.
Oltre agli atti atipici espressamente contemplati dai trattati, ve ne sono alcuni che si sono affermati
in via di prassi, soprattutto nel settore della disciplina della concorrenza (artt 101 – 106 TFUE) e degli
aiuti di Stato alle imprese (artt 107 – 108 TFUE). In entrambi questi settori, la Commissione gode non
solo di poteri diretti di controllo e sanzione, ma anche un ampio margine di discrezionalità.
Per orientare i comportamenti dei destinatari (imprese e Stati membri), la Commissione pubblica
periodicamente delle comunicazioni (cd orientamenti, codici, disciplina, linee direttrici) per rendere
noti il modo in cui intende applicare le norme del TFUE con riferimento a determinate categorie di
fattispecie. Pur non avendo un vero e proprio valore normativo, tali comunicazioni sono considerate
dalla giurisprudenza come atti con cui la Commissione definisce i limiti del proprio potere discrezionale
(quindi non può discostarsene nella valutazione dei casi concreti). Viceversa, una mera prassi, che non
si sia tradotta in comunicazioni, può essere variata nel tempo dalla Commissione, anche se costante
e di lunga durata e senza che le imprese interessate possano vantare un legittimo affidamento sul
mantenimento della prassi anteriore.

Gli artt 296 e 297 TFUE disciplinano alcuni aspetti comuni a tutti gli atti delle istituzioni per
quanto riguarda certi requisiti di forma e la loro entrata in vigore.
MOTIVAZIONE: Gli atti delle istituzioni sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative,
raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai trattati (art 296, comma 2 TFUE).
L’obbligo di motivazione va inteso come una formalità sostanziale, la cui insufficienza comporta
l’invalidità dell’atto: il suo scopo è quello di consentire ai destinatari di apprezzare le ragioni che hanno
indotto le istituzioni ad agire e gli eventuali vizi che inficiano la validità degli atti, nonché alla Corte di
Giustizia di esercitare il suo controllo di legalità. Parte integrante della motivazione è la base giuridica
dell’atto, la quale contribuisce a fornire elementi essenziali per la comprensione della portata
(generale o individuale) e della validità dell’atto.
FIRMA: gli atti legislativi sono firmati dal Presidente del Parlamento europeo e/o dal Presidente del
Consiglio (a seconda della procedura applicabile). Gli atti non legislativi sono firmati dal Presidente
dell’istituzione che li ha adottati.
PUBBLICITA’ ED ENTRATA IN VIGORE. L’applicazione di un atto delle istituzioni è subordinata ad una
pubblicità preventiva che ne condiziona l’opponibilità ai soggetti dell’ordinamento. La pubblicità degli
atti è assicurata in modi diverse a seconda del tipo di atto adottato dalle istituzioni:
gli atti legislativi e, tra gli atti non legislativi, i regolamenti, le direttive che sono rivolte a tutti gli Stati
membri e le decisioni che non designano i destinatari sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell’UE.
Essi entrano in vigore alla data da essi stabilita oppure, in mancanza di data, il 20° giorno successivo
alla pubblicazione.
Le altre direttive (ossia, quelle rivolte a determinati Stati membri) e le decisioni che designano
destinatari sono notificate ai destinatari ed hanno efficacia in virtù di tale notificazione (l’entrata n
vigore, se non è stabilita diversamente dall’atto, è prevista dopo il 20° giorno successivo alla notifica).
2. I trattati
Le fonti di diritto primario dell’Unione sono in massima parte contenute nei trattati, come
emendati dai trattati di revisione e modificati dai trattati di adesione succedutisi nel tempo.
Il rapporto tra TUE E TFUE è paritetico dal punto di vista della natura giuridica, mentre è gerarchico
dal punto di vista funzionale.
Dal punto di vista della natura giuridica, secondo il nuovo art 1, comma 3 TUE i due trattati hanno lo
stesso valore giuridico (lo stesso concetto è ribadito dall’art 1, § 2 TFUE).
Dal punto di vista funzionale, il TFUE è strumentale rispetto al TUE.
Un’indicazione contenuta nella Dichiarazione di Laeken (2001) precisa che nel nuovo assetto, le
disposizioni più importanti sono concentrate nel TUE, mentre il TFUE è il contenitore di tutte quelle
disposizioni che sono state considerate di importanza minore o di dettaglio (salvo il settore PESC, la
cui disciplina è quasi interamente dettata da disposizioni del TUE). Di conseguenza il TFUE assolve alla
funzione di integrare e dettagliare la disciplina generale contenuta nel TUE, rendendola operativa: in
questo senso, il TFUE è “servente” rispetto al TUE.
Natura di fonti primarie hanno anche i Protocolli e gli Allegati ai trattati. L’art 51 TUE
dispone: i protocolli e gli allegati ai trattati ne costituiscono parte integrante.
Per prassi, l’atto finale delle conferenze intergovernative, convocate per approvare i trattati di
revisione o di adesione, reca in allegato alcune dichiarazioni, aventi ad oggetto una o più disposizioni
dei trattati o questioni attinenti alla loro applicazione. Ne esistono di 2 tipi:
a) dichiarazioni della conferenza (di tutti gli Stati membri). Ad esse può riconoscersi un ruolo
importante per quanto riguarda l’interpretazione delle disposizioni alle quali si riferiscono. Esse però
non hanno la stessa natura giuridica di tali disposizioni (non sono sottoposte a ratifica dei parlamenti
nazionali, secondo quanto richiesto dall’art 48 TUE) e non costituiscono per l’interprete un vero e
proprio vincolo
b) dichiarazioni di uno o più Stati membri. Esse hanno minore rilevanza, proprio perché non emanano
da coloro (o almeno non da tutti coloro) che detengono collettivamente il potere di revisione. Ciò non
esclude però che anche queste possano essere prese in considerazione dall’interprete ed in
particolare dalla Corte di Giustizia.

Una questione molto dibattuta è quella della natura giuridica dei trattati. Tradizionalmente,
l’alternativa si pone tra due possibili soluzioni: i trattati vanno considerati come semplici
trattati internazionali o nel loro insieme come una carta costituzionale.
A sostegno della prima soluzione, può invocarsi la circostanza che tutti i trattati che nel
tempo si sono succeduti (compreso il Trattato di Lisbona) sono stati conclusi nelle forme e
secondo i procedimenti propri di un normale trattato internazionale
In una prospettiva interna all’ordinamento dell’Unione, sembra invece possibile ammettere
che i trattati assolvano ad una funzione di natura costituzionale.
Da un lato, i trattati definiscono la struttura istituzionale dell’Unione, le procedure per
l’adozione degli atti di diritto derivato e le caratteristiche di tali atti. Dall’altro, definiscono
i settori attribuiti alla competenza dell’Unione, prevedono una serie di norme sostanziali
che dettano i principi e le regole di base applicabili a tali vari settori. La disciplina contenuta
nei trattati, inoltre, è inderogabile dalle istituzioni e dagli Stati membri, se non attraverso la
procedura di revisione dell’art 48 TUE. Infine, all’interno dell’ordinamento dell’Unione la
Corte di Giustizia assicura il rispetto dei trattati e del diritto in generale.
Certo, non si tratta di una costituzione di tipo statuale. La nascita di uno Stato europeo, di
cui i trattati rappresenterebbero la carta fondamentale, non è, al giorno d’oggi, che uno dei
possibili esiti di un processo ancora in corso. Tuttavia, la tesi che i trattati siano meri trattati
internazionali non soddisfa.
Sta di fatto che la Corte di Giustizia considera e adopera i trattati come una costituzione, piuttosto che
come trattati internazionali.
Ciò si riflette sui criteri interpretativi seguiti dalla Corte, che si discostano notevolmente dai criteri
utilizzati per i trattati internazionali. In particolare, la Corte di Giustizia tende a dare rilievo non
decisivo al dato testuale delle norme da interpretare e ricorre, invece, con grande libertà a criteri di
tipo contestuale e teleologico.
Le norme del TFUE sulle 4 libertà di circolazione (merci, persone, servizi e capitali: art 26 TFUE) sono
sempre interpretate estensivamente, così come lo sono le norme che definiscono le competenze
dell’Unione.
Al contrario, le norme che consentono agli Stati membri di adottare o mantenere provvedimenti in
deroga alle regole generali sono oggetto di interpretazione restrittiva, come anche le norme che
consentono agli Stati membri di continuare a utilizzare le loro competenze in parallelo a quelle
dell’Unione.
Risulta qui rovesciato il criterio utilizzato dai giudici internazionali, per cui le limitazioni di sovranità
degli Stati non si presumono.
Un altro criterio interpretativo applicato alle norme del trattato è quello del cd effetto utile. Tra le
varie interpretazioni possibili, la Corte privilegia quella che consente di riconoscere alla norma la
maggiore effettività possibile, in modo che gli scopi a cui la norma è rivolta possano essere raggiunti
più compiutamente.

PROCEDURE DI REVISIONE. I trattati possono essere modificati solo ricorrendo alle


procedure ad hoc previste dagli stessi trattati (art 48 TUE).
La procedura di revisione ordinaria (§ 1 – 5), ha un campo d’applicazione generale e riguarda le
modifiche più importanti dei trattati, che riguardano le competenze dell’Unione. In particolare, il § 2
chiarisce: la revisione può accrescere o a ridurre le competenze attribuite all'Unione nei trattati. Si
tratta di una novità introdotta dal Trattato di Lisbona: prima, il processo di integrazione era inteso
solo in senso incrementale, fermi i risultati dell’acquis comunitario.
Sono poi previste anche due procedure di revisione semplificate: la prima (§ 6), si applica a
determinate parti dei trattati (Parte III del TFUE: politiche ed azioni interne dell’Unione), senza incidere
sulle competenze dell’Unione; la seconda (§ 7), si applica per modificare le procedure decisionali.
Inoltre, nel testo dei trattati si incontrano altre clausole di revisione di portata specifica.
La procedura di revisione ordinaria si suddivide in diverse fasi, di cui le prime, di carattere
preparatorio, si svolgono all’interno del circuito istituzionale dell’Unione, mentre le fasi
finali, nel corso delle quali vengono assunte le deliberazioni vere e proprie, si svolgono
all’esterno, avendo per protagonisti gli Stati membri e i parlamenti nazionali.
La procedura si articola come segue:
 il Governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione
possono presentare un progetto di modifica al Consiglio, che lo trasmette al
Consiglio europeo e lo notifica ai parlamenti nazionali (§ 2);
 il Consiglio europeo adotta sul progetto una decisione (a maggioranza semplice),
previa consultazione di Parlamento europeo e Commissione (§ 3, comma 1, prima
parte);
 a) in caso favorevole, il Presidente del Consiglio europeo convoca una convenzione
composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei Capi di Stato o di governo
degli Stati membri, del Parlamento europeo e della Commissione (in caso di
modifiche istituzionali nel settore monetario, è consultata anche la BCE) allo scopo
di esaminare i progetti di modifica e adottare per consenso una raccomandazione
indirizzata alla conferenza intergovernativa (§ 3, comma 1, seconda parte);
b) in alternativa, qualora l’entità delle modifiche non giustifichi la convocazione
della convenzione, la decisione del Consiglio europeo (a maggioranza semplice)
previa approvazione del Parlamento europeo, definisce il mandato direttamente
alla conferenza intergovernativa (§ 3, comma 2);
 convocazione di una conferenza intergovernativa formata da rappresentanti dei
Governi degli Stati membri per stabilire di comune accordo le modifiche da
apportare ai trattati: qui si svolge il negoziato fra gli Stati membri, al fine di
raggiunge l'unanimità sulle modifiche (§ 4, comma 1);
 le modifiche entrano in vigore dopo la ratifica da parte di tutti gli Stati membri
conformemente alle rispettive norme costituzionali (§ 4, comma 2).
L’avvio della procedura è agevolato: il Consiglio europeo può deliberare a maggioranza semplice.
Tuttavia, in sede di conferenza intergovernativa è necessaria l’unanimità degli Stati membri sul
trattato di revisione. Tale accordo però non è ancora sufficiente, perché l’entrata in vigore è
subordinata alla ratifica di tutti gli Stati membri.
Il Consiglio europeo ha un ruolo politico notevole: decide sulla convocazione della conferenza
intergovernativa. Tuttavia, la novità più importante è rappresentata dalla convenzione, un organo
collegiale composto dai rappresentanti dei Governi degli Stati membri e dei Parlamenti nazionali, del
Parlamento Europeo e della Commissione: si tratta di un’entità non intergovernativa, più partecipata,
democratica e articolata. In ogni caso, l’ultima parola sul progetto spetta alla commissione
intergovernativa che potrebbe anche stravolgere l’intero testo (salvo esserne responsabile davanti ai
Parlamenti nazionali).
L’esperienza passata ha indotto a introdurre nell’art 48 TUE un apposito comma (§ 5) per facilitare
l’entrata in vigore del trattato di revisione: qualora al termine di un periodo di 2 anni a decorrere dalla
data della firma di un trattato che modifica i trattati, i 4/5 degli Stati membri abbiano ratificato detto
trattato e uno o più Stati abbiano incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione è
deferita al Consiglio europeo. La norma evoca la possibilità che il Consiglio europeo decida misure che
favoriscano l’entrata in vigore del trattato di revisione nonostante la mancata ratifica da parte di uno
Stato membro o di un numero limitato di Stati.
Il Trattato di Lisbona ha previsto 2 procedure di revisione semplificate.
1. La procedura di cui all’art 48, § 6 TUE ha ad oggetto modifiche (in tutto o in parte) delle
disposizioni della Parte III del TFUE (politiche e azioni interne dell’Unione), ma non può
estendere le competenze attribuite all’Unione dai trattati.
La procedura consta delle seguenti fasi:
 il Governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione
possono presentare i progetti di modifica al Consiglio europeo;
 il Consiglio europeo adotta le modifiche con una decisione all’unanimità, previa
consultazione di Parlamento europeo e Commissione (in caso di modifiche nel
settore monetario, anche della BCE);
 entrata in vigore della decisione previa approvazione degli Stati membri
conformemente alle rispettive norme costituzionali.
Rispetto alla procedura ordinaria, si evita convenzione e conferenza intergovernativa: il compito di
definire le modifiche è affidato direttamente al Consiglio europeo.
2. La procedura di cui all’art 48, § 7 TUE ha ad oggetto solo quelle disposizioni del TFUE o
del Titolo V del TUE (PESC) che prevedono che
a) Il Consiglio deliberi all’unanimità in un settore o in un caso determinato (è possibile
stabilire che la deliberazione venga presa a maggioranza qualificata).
Sono però escluse le decisioni che hanno implicazioni militari o rientrano nel settore difesa.
b) il Consiglio adotti atti legislativi secondo una procedura legislativa speciale (è possibile
stabilire il passaggio alla procedura legislativa ordinaria: cd procedura passerella).
La procedura consta delle seguenti fasi:
 iniziativa del Consiglio europeo;
 trasmissione ai parlamenti nazionali, ciascuno dei quali può opporsi, entro 6 mesi,
impedendo che la procedura prosegua;
 in assenza di opposizioni, il Consiglio europeo delibera con decisione all’unanimità,
previa approvazione del Parlamento europeo
Le differenze rispetto alla procedura ordinaria sono notevoli. Anziché la ratifica da parte
degli Stati membri, basta la delibera unanime del Consiglio europeo con l’approvazione del
Parlamento europeo. Non è dunque prevista una fase esterna al circuito istituzionale, ma
sono le stesse istituzioni che dispongono del potere deliberativo.
L’assenza di intervento diretto degli Stati membri e dei rispettivi apparati nazionali è però
compensata dall’obbligo di notifica di ogni iniziativa del Consiglio europeo (prima che
deliberi) ai parlamenti nazionali e dal potere di ciascuno di questi di veto di opposizione.
Ci si è chiesti se vi siano dei limiti intrinseci al potere di revisione, ossia se esistano delle parti dei
trattati che non possono essere modificate. L’art 48 TUE non prevede nulla al riguardo.
La Corte di Giustizia pone il limite dell’introduzione di norme che incidano sul sistema giurisdizionale
previsto dai trattati, alterando la funzione giurisdizionale della Corte o restringendone la competenza.
Inoltre, si possono ritenere immodificabili le norme del cd “nocciolo duro” dell’ordinamento
dell’Unione, quali l’art 2 TUE (valori dell’Unione), l’art 3, § 3 TUE (diritti dell’uomo come principi
generali del diritto), l’art 14 TFUE (mercato interno).
Possono, invece, essere previste talune riduzioni delle competenze dell’Unione.

PROCEDURA DI ADESIONE. Un altro modo per modificare i trattati è la procedura di


adesione all’Unione da parte di nuovi Stati (art 49 TUE).
Può presentare domanda di adesione: ogni Stato europeo (condizione geografica) che
rispetti i valori di cui all’art 2 e si impegni a promuoverli (condizione politica).
Anche la procedura di adesione si articola in 2 fasi: all’interno dell’apparato istituzionale
(comma 1) e all’esterno, affidata agli Stati membri (comma 2). La procedura si svolge così:
 la domanda di adesione dello Stato candidato è presentata al Consiglio; di essa
sono informati il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali;
 tenuto conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo, la
domanda viene approvata all’unanimità dal Consiglio, previa consultazione della
Commissione e approvazione del Parlamento europeo;
 le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti dei trattati formano l’oggetto di
un accordo concluso tra gli Stati membri e lo Stato candidato, il quale è sottoposto
ratifica di tutti gli Stati contraenti secondo le rispettive norme costituzionali.
Sono quindi Consiglio e Parlamento europeo (che deve dare la propria approvazione) a
decidere in sede interistituzionale sull’ammissione o meno di un nuovo Stato membro.
La stipulazione dell’accordo (in forma di trattato, con allegato un Atto di adesione) è invece
definito all’esterno delle istituzioni, dagli Stati contraenti, che devono sottoporlo a ratifica
secondo quanto prescrive la propria costituzione nazionale.
L’Atto di adesione stabilisce le condizioni di adesione e gli adattamenti da apportare ai trattati che
siano determinati dall’adesione. Si tratterà quindi di modifiche minoris generis rispetto a quelle che
possono essere approvate con la procedura di revisione (art 48 TUE): di solito si tratta di ampliamenti
nella composizione delle istituzioni e degli organi, per assicurare la rappresentanza del nuovo Stato
membro.
La prassi ha dato vita ad una procedura alquanto diversa da quanto previsto nell’art 49 TUE.
Il negoziato sull’adesione e la definizione delle condizioni di adesione e degli adattamenti dei trattati
si svolgono contemporaneamente, di modo che l’ammissione e il trattato con allegato l’Atto di
adesione portano la stessa data. Inoltre, la procedura si svolge sotto il controllo del Consiglio europeo,
che ne determina tempi e modi di svolgimento. Con gli ultimi allargamenti agli Stati dell’Europa
centrale, si è affermata per prassi una fase preliminare (cd pre-adesione), nella quale lo Stato
candidato deve dimostrare di rispondere ad alcuni criteri. Solo quando la Commissione attesta il
rispetto di tali criteri, il Consiglio europeo autorizza l’apertura dei veri e propri negoziati di adesione.
L’introduzione di questa fase si è resa necessaria in considerazione dell’ampio numero di paesi
candidati e della forte arretratezza economica, politica e ammnistrativa che caratterizzava tali paesi
rispetto agli altri Stati membri.
I criteri da verificare sono stati fissati dal Consiglio europeo di Copenaghen (1993):
l’appartenenza all’Unione richiede che il paese candidato abbia raggiunto una stabilità istituzionale,
che garantisca la democrazia, il principio di legalità, i diritti umani, il rispetto e la protezione delle
minoranze (criteri politici).
Inoltre, è necessario dimostrare l’esistenza di un’economia di mercato funzionante nonché la
capacità di rispondere alle pressioni concorrenziali e alle forze di mercato all’interno dell’Unione
(criteri economici).
È, infine, richiesta anche la capacità di assumersi gli obblighi di tale appartenenza, inclusa l’adesione
agli obiettivi di un’UEM (criteri relativi all’acquis comunitario).
Un’innovazione interessante introdotta dal Trattato di Lisbona consiste nella possibilità di
recesso dall’Unione (art 50 TUE). Lo Stato membro che intende ritirarsi notifica tale
intensione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo,
l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del
recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione.
Il recesso ha luogo anche in mancanza di tale accordo. Decorsi 2 anni dalla notifica
dell’intenzione di ritirarsi, i trattati cessano comunque di applicarsi allo Stato interessato
Si tratta di un vero e proprio diritto di recesso unilaterale, non subordinato all’assenso
dell’Unione o di tutti gli altri Stati membri.
Ci si è posti la domanda se sia possibile modificare i trattati al di fuori delle procedure di revisione.
Qualora si considerassero i trattati solo nella veste di trattati internazionali, la presenza di un’apposita
procedura di revisione avrebbe un’importanza ridotta. Il diritto internazionale non esclude che gli Stati
contraenti di un trattato possano decidere di modificarlo senza seguire la procedura prevista a tal fine,
purché vi sia l’accordo in tal senso da parte di tutti gli Stati contraenti.
Se, invece, si tiene conto della funzione costituzionale svolta dai trattati, deve concludersi che le
procedure dell’art 48 TUE non possono non essere considerate obbligatorie. Eventuali modifiche che
si tentassero di introdurre senza rispettarle sarebbero prive di qualsiasi valore giuridico.
La Corte di Giustizia non ha mai avuto occasione di pronunciarsi sulla possibilità che gli Stati membri
modifichino i trattati senza osservare una delle procedure previste dai trattati a questo fine.
3. I principi generali del diritto
Tra le fonti assimilabili al diritto primario si segnalano anzitutto i principi generali del diritto,
comprensivi dei principi relativi alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
Una prima categoria è costituita dai principi generali del diritto dell’Unione. Tali principi
sono espressi in determinate norme dei trattati, le quali, proprio perché considerate come
corrispondenti a un principio generale, hanno carattere imperativo e inderogabile.
Il principio di non discriminazione trova specifica applicazione in diverse disposizioni.
l’art 18 TFUE vieta le discriminazioni effettuate in base alla nazionalità.
Tale divieto generale viene specificato nelle norme relative alla libertà di circolazione (dei lavoratori:
art 45 TFUE; diritto di stabilimento: art 49 TFUE; libera prestazione dei servizi: art 57, comma 2 TFUE).
L’art 19 TFUE prevede l’adozione di provvedimenti per combattere le discriminazioni
fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l’età o l’orientamento sessuale.
L’art 40, § 2, comma 2 TFUE, nell’ambito delle organizzazioni comuni dei mercati agricoli,
vieta qualsiasi discriminazione tra produttori e consumatori;
L’art 157, § 1 TFUE vieta le discriminazioni in materia salariale tra lavoratrici e lavoratori.
Secondo la Corte di Giustizia, tali disposizioni, in quanto specifiche applicazioni del principio
generale di non discriminazione, vanno interpretate estensivamente.
La nozione di discriminazione ricomprende le discriminazioni palesi o dirette (direttamente basate, a
seconda dei casi, sulla cittadinanza o sul sesso) e le discriminazioni occulte o indirette (in quanto,
seppur basate su altri criteri, hanno lo stesso effetto delle prime).
Anche il campo d’applicazione del principio va interpretato in senso estensivo. Ciò è particolarmente
evidente per il divieto di discriminazione in base alla nazionalità (art 18 TFUE: nel campo
d’applicazione dei trattati e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste…) ed è
ribadito in materia di libera circolazione delle persone e dei servizi (artt 45, comma 2, 49 e 57, comma
2 TFUE).
La Corte di Giustizia ha sottoposto al rispetto di tale principio anche fattispecie rientranti
solo marginalmente nel campo d’applicazione dei trattati. L’aver stabilito che quello di non
discriminazione è un principio generale ne consente l’applicazione ad ipotesi non
contemplate espressamente da alcuna delle norme richiamate (autonomia del principio di
non discriminazione).
Una manifestazione ulteriore dell’autonomia del principio di non discriminazione è
ravvisabile nel principio di pari trattamento (o di uguaglianza). Secondo la giurisprudenza,
esso impone che situazioni paragonabili non siano trattate in maniera diversa e che
situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non
sia obiettivamente giustificato.
Nonostante le molte sollecitazioni ricevute, la Corte di Giustizia ha invece escluso dal campo
d’applicazione del principio di non discriminazione le cd discriminazioni alla rovescia. Si tratta di
situazioni che si creano quando norme di uno Stato membro prevedono per i propri cittadini un
trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai cittadini di altri Stati membri. Talvolta, una
situazione del genere si produce in conseguenza dell’impatto del diritto dell’Unione su norme interne.
Ad esempio, l’ordinamento dell’Unione potrebbe imporre la disapplicazione di una norma interna
indistintamente applicabile ai cittadini e ai lavoratori di altri Stati membri, in quanto limitativa della
libera circolazione dei lavoratori (art 45 TFUE). Tuttavia, della disapplicazione potrebbero
avvantaggiarsi solo quei soggetti che fruiscono (o hanno fruito in passato) della libertà di circolazione.
Il diritto dell’Unione, invece, non si oppone a che la stessa norma interna continui ad applicarsi a
situazioni puramente interne e perciò estranee al campo d’applicazione della libera circolazione. In
questi casi, la discriminazione deriva dalla combinazione tra ordinamento interno e ordinamento
dell’Unione.
Nella sentenza C-332/90 (Steen), il sig. Steen, cittadino tedesco, impiegato dalla Deutsche Bundespost
lamenta di subire una discriminazione rispetto ai cittadini di altri Stati membri, i quali, a differenza dei
cittadini tedeschi, possono essere assunti con contratti di diritto privato a condizioni più favorevoli.
La Corte di Giustizia si limita ad affermare che, non avendo mai esercitato la libera circolazione
all’interno della Comunità, egli non ha veste per invocare gli artt 7 e 48 TCE (ora artt 18 e 45 TFUE)
con riguardo ad una situazione puramente interna.
L’indifferenza dell’ordinamento dell’Unione rispetto alle situazioni di discriminazione alla rovescia
comporta che le stesse vadano risolte nell’ambito del sistema giuridico nazionale dello Stato membro,
eventualmente ricorrendo al principio costituzionale di uguaglianza davanti alla legge.
Di recente il legislatore italiano ha stabilito con la legge 234/2012 l’obbligo di assicurare ai cittadini
italiani che versano in una situazione puramente interna un pari trattamento rispetto a quello
riservato ai beneficiari del diritto dell’Unione. L’art 53 dispone: nei confronti dei cittadini italiani non
trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti
discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini
dell’Unione europea. Tale disposizione sembra consentire all’interprete di estendere, a titolo di
interpretazione costituzionalmente orientata, le prerogative derivanti dal diritto dell’Unione ai
cittadini italiani che altrimenti non ne beneficerebbero.

Tra gli altri principi generali del diritto comunitario vanno annoverati: il principio di libera
circolazione e il principio della tutela giurisdizionale effettiva.
Una seconda categoria è costituita dai principi generali di diritto comune (degli
ordinamenti degli Stati membri). Si tratta di principi desunti non dal diritto dell’Unione, ma
dall’esame parallelo dei vari ordinamenti nazionali. Tali principi sono utilizzati quando si
tratta di verificare la legittimità del comportamento delle istituzioni o degli Stati membri
rispetto alla posizione dei singoli.
In tema di responsabilità extracontrattuale, l’art 340, comma 2 TFUE dispone: l’Unione deve risarcire,
conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue
istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. La norma si limita a sancire l’obbligo di
risarcimento da parte dell’Unione: la disciplina materiale di tale obbligo va desunta dai principi
generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri.
Tra i principi generali del diritto comune si segnalano soprattutto alcuni principi inerenti all’idea stessa
di Stato di diritto, uno dei valori su cui l’Unione si fonda (art 2 TUE):
il principio di legalità, in base al quale ogni potere esercitato dalle istituzioni deve trovare la sua fonte
di legittimazione in una norma dei trattati che ne fissi le condizioni di esercizio;
il principio della certezza del diritto, secondo cui chi è tenuto al rispetto di una norma giuridica deve
essere messo nella condizione di poterlo fare e di conoscere il comportamento che la norma gli
impone;
il principio del legittimo affidamento, che può essere invocato in casi di modifica normativa
improvvisa e imprevedibile da parte degli operatori giuridici, senza che ciò sia giustificato da ragioni
imperative d’interesse generale;
il principio del contraddittorio, secondo cui le istituzioni e gli organi dell’Unione, quando intendono
assumere un provvedimento sfavorevole a carico di un singolo, devono consentire a quest’ultimo di
far valere il proprio punto di vista prima che il provvedimento stesso venga adottato.
Particolare importanza riveste il principio di proporzionalità: gli interventi della pubblica
autorità che limitano libertà o diritti dei singoli, per essere legittimi devono essere:
a) idonei a raggiungere l’obiettivo di interesse pubblico perseguito
b) necessari a questo fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui.
4. Segue: la protezione dei diritti fondamentali
Con il Trattato di Lisbona, la protezione dei diritti fondamentali dell’uomo diventa oggetto
dell’art 6 TUE
§ 1 L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE
del 7.12.2000, adattata il 12.12. 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati.
I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del
Titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto
le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.
§ 2 L’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle
libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati.
§ 3 I diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.

Dalla disposizione risulta che la protezione dei diritti umani nell’ordinamento dell’Unione
trova la sua fonte e la sua disciplina in una pluralità di strumenti normativi:

Carta dei diritti fondamentali dell’UE

CEDU

principi generali del diritto dell’Unione

garantiti dalla CEDU


diritti fondamentali
tradizioni costituzionali comuni

La Carta dei diritti fondamentali (§ 1) e i principi generali (§ 3) sono già vincolanti per l’Unione.
La CEDU lo diverrà solo quando sarà perfezionata l’adesione dell’Unione (§ 2): per ora, non vincola
direttamente l’Unione, ma il suo contenuto contribuisce a formare i principi generali del diritto UE.

Nell’art 6 TUE sono confluiti i risultati di un lungo e tormentato processo.


La completa assenza di qualsiasi riferimento alla tutela dei diritti fondamentali nel TCE aveva
condotto la giurisprudenza della Corte di Giustizia a teorizzare, fin dagli anni ’70, l’esistenza
di principi generali che assicurassero la protezione di tali diritti e per la cui ricostruzione
occorreva trarre ispirazione dai trattati internazionali in materia di diritti fondamentali (tra
cui la CEDU) e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
Ben presto si era però avvertita la necessità di conferire una fonte più precisa ed articolata
alla tutela dei diritti fondamentali da parte della Comunità (e poi dell’Unione).
Dapprima, si era immaginato che la Comunità potesse aderire formalmente alla CEDU,
diventandone parte contraente come tutti gli Stati membri. La CEDU, infatti, costituiva già
una fonte d’ispirazione per la ricostruzione dei principi generali in materia. Tale progetto si
era però arenato nel 1996: il parere (2/94) della Corte di Giustizia aveva escluso che la CE
avesse la competenza necessaria.
Tuttavia, la volontà di assicurare l’adesione dell’Unione alla CEDU non è comunque venuta meno.
Infatti, l’attuale art 6, § 2 TUE contiene una norma che autorizza tale adesione.
Nell’impossibilità di pervenire rapidamente all’adesione dell’Unione alla CEDU, si è deciso
di redigere un autonomo “catalogo” dei diritti fondamentali. Questo ha preso forma nella
Carta dei diritti fondamentali dell’UE, proclamata una prima volta a Nizza nel 2000.
Tuttavia, il valore giuridico della Carta è rimasto incerto finché l’art 6 § 1, comma 1 TUE ha
previsto che l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi ivi sanciti e che la Carta ha lo
stesso valore giuridico dei trattati.
L’affermazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’esistenza di principi generali del diritto
che proteggono i diritti fondamentali e che vincolano le istituzioni (ripresa nell’art 6, § 3 TUE) è
strettamente collegata alla presa di posizione assunta negli stessi anni dalla nostra Corte costituzionale
e dal Bundesverfassungsgericht tedesco in due pronunce del 1973 e del 1974.
Nella sentenza 183/73 (Frontini), la Corte costituzionale ritiene che, nel caso di atti delle istituzioni
che violassero i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili
della persona umana (…) sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato di questa Corte sulla
perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali. La Corte allude alla
possibilità di dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica e ordine
di esecuzione del TCE, nella misura in cui tale legge permette l’ingresso nell’ordinamento italiano di
un atto comunitario “lesivo” dei principi fondamentali dell’ordinamento o dei diritti fondamentali della
persona umana (cd controlimiti). La Corte esclude invece di poter operare il proprio controllo
direttamente sugli atti comunitari, in quanto non rientranti nel novero degli atti di cui all’art 134 Cost.
Il Bundesverfassungsgericht, con l’ordinanza del 1974, cd Solange I, ammette un possibile controllo
diretto sull’atto comunitario, ma impone al giudice prima di rimettere la questione di costituzionalità,
di interrogare in via pregiudiziale la Corte di Giustizia, ai sensi dell’art 234 TCE (ora art 267 TUE).
L’ordinanza sottolinea però il carattere provvisorio della soluzione (solange = fino a che), in attesa che
la Comunità si doti di un “catalogo” dei diritti fondamentali analogo a quello previsto dal Grundgesetz
e adottato da un’assemblea parlamentare.
Tale impostazione viene ribaltata nel 1986 (Solange II): finché la giurisprudenza della Corte di Giustizia
è in grado in garantire una efficace protezione dei diritti fondamentali, il Bundesverfassungsgericht
non eserciterà più la sua giurisdizione sulla applicabilità del diritto comunitario derivato. Tuttavia,
viene ribadito che l’art 24 GG non è senza limiti costituzionali: l’attribuzione dei diritti di sovranità a
istituzioni interstatuali non consente la rinuncia dell’identità dell’ordinamento costituzionale tedesco,
ossia la parte “irrinunciabile” del Grundgesetz.
Entrambe le Corti partono dal presupposto che le norme costituzionali che hanno permesso a Italia e
Germania l’adesione alla Comunità (cd clausole europee: art 11 Cost e art 23 GG) non consentono di
derogare a quelle altre norme costituzionali che definiscono e proteggono i diritti fondamentali della
persona umana. Ne consegue che tali norme costituzionali devono essere rispettate anche dagli atti
delle istituzioni dell’Unione. In caso contrario, le due Corti si riservano il potere di assicurare la
prevalenza delle norme costituzionali, impedendo che l’atto comunitario trovi applicazione
nell’ordinamento interno.
La soluzione prospettata dalle due Corti costituzionali, per quanto ragionevole e forse inevitabile,
comportava un grave attentato all’uniformità del diritto comunitario: un atto delle istituzioni, se
giudicato in contrasto con i diritti fondamentali protetti dalla Costituzione italiana o dal Grundgesetz,
non avrebbe trovato più applicazione nell’ordinamento italiano o tedesco, pur restando applicabile
negli altri Stati membri. Più in generale, essa evidenziava una grave lacuna dell’ordinamento
comunitario, che giustificava una sua non piena accettazione da parte dei giudici degli Stati membri.
Negli stessi anni, la Corte di Giustizia elaborava in via giurisprudenziale una forma comunitaria di
tutela dei diritti fondamentali, riconducendola ai principi generali del diritto che le istituzioni devono
rispettare e la cui osservanza è sottoposta al controllo della Corte.
Nella sentenza C-11/70 (Internationale Handelsgesellschaft) la Corte di Giustizia svolge una netta
presa di posizione contro la possibilità ventilata dalle Corti italiana e tedesca di vagliare la validità di
un atto di un’istituzione alla luce delle norme nazionali, benché di rango costituzionale: la validità
degli atti delle istituzioni può essere stabilita unicamente alla luce del diritto comunitario. Il diritto
nato dal trattato, che ha una fonte autonoma, per sua natura non può trovare un limite in
qualsivoglia norma di diritto nazionale senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che sia
posto in discussione il fondamento giuridico della stessa Comunità. Secondo la Corte:
i diritti fondamentali vanno tutelati nell’ordinamento comunitario, in quanto rientrano nei principi
generali del diritto;
nel definire il contenuto dei diritti fondamentali e la portata della tutela, la Corte utilizza, quali fonti
d’ispirazione 1) le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e 2) i trattati internazionali in
materia di tutela dei diritti dell’uomo.
In seguito, il Trattato sull’Unione, firmato a Maastricht (1992) nella sua versione originale, recepiva
l’impostazione della giurisprudenza nell’allora art 6, § 2:
(§ 1) l’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e sulle libertà
fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri;
(§ 2) l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla CEDU, firmata a Roma il 4
novembre 1950 e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario.
Il contenuto di tale disposizione è stato infine ripreso, con variazioni minori, nell’attuale art 6, § 3 TUE.

La formalizzazione in una norma di diritto primario del richiamo alla CEDU (art 6, § 3 TUE)
non ne comporta il recepimento formale nell’ordinamento dell’Unione: viene mantenuto
fermo il passaggio attraverso i principi generali.
D’altra parte, dei vari trattati internazionali in materia di diritti dell’uomo, l’art 6, § 2 TUE
riprende solo la CEDU, forse perché tale strumento aveva già assunto grande importanza
nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.
L’assenza di un recepimento formale della CEDU nell’ordinamento dell’Unione e la sua
rilevanza solo attraverso i principi generali esclude che alla CEDU possano essere
riconosciuti effetti interni al di fuori del campo d’applicazione del diritto dell’Unione.
Così la Corte di Giustizia ha ribadito, a beneficio del giudice italiano, che l’art 6, § 3 TUE non disciplina
il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le
conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale
Convenzione ed una norma del diritto nazionale (C-571/2010 Kamberaj).
Quando sarà portato a termine il processo di adesione di cui all’art 6, § 2 TUE, la CEDU avrà
forza vincolante diretta anche nei confronti dell’Unione, così come già avviene nei confronti
degli Stati membri, in quanto parti contraenti della Convenzione. Così la Corte Europea
potrà pronunciarsi anche sui casi di violazione dei diritti protetti dalla CEDU che esauriscono
i loro effetti nell’ordinamento dell’Unione, senza coinvolgere gli Stati membri. Fino ad
allora, la CEDU continuerà a costituire per l’Unione una fonte non direttamente vincolante.
Nell’impostazione della giurisprudenza UE, le tradizioni costituzionali comuni e i trattati
internazionali in materia di diritti fondamentali sono utilizzati quali fonte d’ispirazione per
ricostruire i principi generali del diritto applicabili all’Unione. Le une e le altre non hanno
valore normativo immediato nell’ordinamento dell’Unione e non vincolano direttamente la
Corte di Giustizia. Ciò vale (per ora) anche per la CEDU.
Nonostante ciò, la Corte di Giustizia ha eletto la CEDU a riferimento privilegiato e quasi inevitabile per
effettuare il proprio controllo sul rispetto dei diritti fondamentali. Negli ultimi anni, la Corte di Giustizia
si è spinta fino ad includere nelle proprie sentenze ampi e precisi riferimenti alla giurisprudenza della
Corte Europea dando così l’impressione di considerare la CEDU vincolante in quanto tale per l’Unione
e per la Corte stessa. Si tratta tuttavia di un’impressione che non risponde alla situazione giuridica
attuale, in attesa dell’adesione formale dell’Unione alla CEDU.
La mancata adesione formale dell’Unione alla CEDU solleva il problema della responsabilità degli Stati
membri di fronte agli organi della CEDU, in conseguenza di attività delle istituzioni dell’Unione, poste
in essere dagli Stati membri in esecuzione di atti delle istituzioni.
Il problema è stato affrontato dalla Corte Europea nella sentenza del 2005 (Bosphorus vs Irlanda). La
questione riguardava un contenzioso tra Bosphorus Airways (compagnia aerea turca) e Ministero dei
Trasporti irlandese, per aver disposto, in attuazione di un regolamento sull’embargo contro Serbia e
Montenegro (guerra dei Balcani), il sequestro di alcuni aeromobili in manutenzione presso l’aeroporto
di Dublino, in quanto noleggiati dalla compagnia turca, ma di proprietà della Repubblica di Jugoslavia.
La ricorrente sosteneva l’illegittimità del provvedimento assunto a suo danno dall’autorità irlandese
(violazione CEDU, Protocollo 1 sul diritto di proprietà, in relazione al godimento del bene noleggiato),
in virtù del fatto che la norma comunitaria predisposta per sanzionare la Repubblica Jugoslava non
doveva applicarsi a soggetti incolpevoli, operanti in Turchia.
La Corte Europea ha anzitutto ribadito che gli Stati, i quali abbiano trasferito a un’organizzazione
sovranazionale taluni poteri sovrani (Irlanda), non sono sottratti, nell’esercizio dei poteri sovrani
oggetto del trasferimento, all’obbligo di rispettare i diritti tutelati dalla CEDU. Tuttavia, la Corte non
intende esercitare il proprio controllo su ogni attività intrapresa da uno Stato in attuazione degli
obblighi derivanti dalla sua appartenenza a una tale organizzazione, ma distingue:
a) casi in cui gli Stati membri si limitino ad attuare atti dell’Unione. Data la mancanza di ogni
discrezionalità per gli Stati membri, la Corte Europea considera il suo intervento come non necessario:
l’Unione tutela i diritti fondamentali in modo almeno equivalente a quello della CEDU, anche se tale
presunzione ammette prova contraria (qualora si riscontri una tutela inferiore, permane la
responsabilità degli Stati membri e la Corte Europea deve poter intervenire)
b) casi in cui gli Stati membri godono di un certo margine di discrezionalità. Dal momento che sussiste
la discrezionalità per gli Stati membri nel dare attuazione agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione,
la Corte europea afferma la completa responsabilità dello Stato rispetto alla CEDU.
5. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE
Il fatto di considerare i diritti fondamentali come rientranti nei principi generali del diritto
comporta che alla Corte di Giustizia è riservato un ruolo determinante: ad essa spetta il
compito non solo di individuare quali diritti siano da considerare fondamentali alla luce
delle tradizioni costituzionali comuni e dei trattati internazionali, ma anche di delineare
contenuto e portata dei diritti così individuati.
La circostanza che la Corte non sia tenuta ad applicare un testo scritto, attribuisce un
elevato grado di flessibilità ai suoi interventi in materia di diritti umani: le consente di
adattare alla realtà di un ente sopranazionale, norme che sono state redatte per essere
applicate all’azione di Stati nazionali. D’altra parte, si accresce l’imprevedibilità dei risultati
cui la Corte perviene di volta in volta e rende poco trasparente il sistema. Per ovviare a
questo difetto e nell’impossibilità di una rapida adesione alla CEDU, si è deciso di
predisporre la Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
La decisione è stata assunta dal Consiglio europeo di Colonia (1999). La redazione del testo è stata
affidata ad un’apposita convenzione, composta da 15 rappresentanti dei Capi di Stato e di governo,
da 1 rappresentante della Commissione, da 16 componenti del Parlamento europeo e da 30 membri
dei parlamenti nazionali. La Carta è stata poi approvata dal Consiglio europeo. Infine, i Presidenti del
Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione l’hanno “proclamata” in occasione del
Consiglio europeo di Nizza (2000).

Fino al Trattato di Lisbona, il valore giuridico della Carta è rimasto incerto.


La mera “proclamazione” da parte delle istituzioni politiche dell’Unione non era in grado di farne
un’autonoma fonte del diritto. Tuttavia, la solennità del processo di elaborazione e l’ampiezza di
consensi che il suo testo ha riscosso ne hanno favorito l’utilizzo come strumento interpretativo
privilegiato per ricostruire la portata dei diritti fondamentali protetti nell’ambito dell’ordinamento
dell’Unione.
Solo con il Trattato di Lisbona il valore giuridico della Carta è stato definito.
L’art 6, § 1 TUE afferma al comma 1 il riconoscimento da parte dell’Unione dei diritti, libertà
e principi da essa sanciti e attribuisce alla Carta lo stesso valore giuridico dei trattati. Sul
piano formale e della gerarchia delle fonti, la Carta risulta ora posta sullo stesso piano delle
altre fonti di diritto primario, in particolare del TUE e del TFUE. Le sue disposizioni hanno
acquistato lo stesso carattere cogente delle norme dei trattati.
Resta tuttavia qualche dubbio sulla portata dell’equiparazione. Non è chiaro se per modificare la Carta
sia necessario seguire la procedura di revisione (art 48 TUE) e se l’eventuale violazione della Carta da
parte di uno Stato membro possa dare vita ad un procedimento d’infrazione ai sensi dell’art 258 TFUE.
Quanto alla sua interpretazione, il comma 3 chiarisce: i diritti, le libertà e i principi della
Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del Titolo VII della Carta, che
disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni
cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.
La parte più interessante della disposizione riguarda il richiamo alle spiegazioni. Si tratta
delle note redatte a mero fine esplicativo dalla convenzione che aveva predisposto la
versione originaria della Carta. Per effetto di tale richiamo, esse risultano elevate a rango di
fonte interpretativa obbligata, da cui la Corte di Giustizia non può discostarsi.
Inoltre, a norma del comma 2, le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le
competenze dell’Unione definite nei trattati.
Il Protocollo 30 sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE a Polonia e Regno Unito,
ha concesso a tali Stati membri di essere vincolati alla Carta in maniera differente da tutti gli altri Stati.
Secondo l’art 1, § 1: la Carta non estende la competenza della Corte di Giustizia dell’UE o di qualunque
altro organo giurisdizionale della Polonia o del Regno Unito a ritenere che le leggi, i regolamenti o le
disposizioni, le pratiche o l’azione amministrativa della Polonia e del Regno Unito non siano conformi
ai diritti, alle libertà e ai principi fondamentali che essa riafferma.
Inoltre, il § 2 esclude che il Titolo IV della Carta (diritti sociali e sindacali) crei diritti azionabili dinnanzi
ad un organo giurisdizionale applicabili alla Polonia e al Regno Unito, salvo nella misura in cui abbiano
previsto tali diritti nel rispettivo diritto interno.
L’art 2 stabilisce che ove una disposizione della Carta faccia riferimento a leggi o pratiche nazionali,
detta disposizione si applica alla Polonia e al Regno Unito soltanto nella misura in cui i diritti o i
principi ivi contenuti sono riconosciuti nel diritto o nelle pratiche della Polonia o del Regno Unito.
Il Protocollo mira evidentemente a far sì che la Carta non abbia nei confronti di Polonia e Regno Unito
alcun contenuto innovativo in termini di diritti rispetto a quanto già previsto negli ordinamenti interni
dei due Stati. Nella riunione del Consiglio europeo di Bruxelles del 2010, si è decisa l’estensione del
Protocollo 30 anche alla Repubblica Ceca.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia sembra peraltro orientata verso un’interpretazione riduttiva
del Protocollo. Circa la posizione del Regno Unito sull’applicazione dell’art 4 della Carta (divieto di
tortura e di trattamenti inumani o degradanti) la Corte ha ritenuto che il Protocollo 30 non rimette in
questione l’applicabilità della Carta al Regno Unito e alla Polonia.
La funzione della Carta risulta dal preambolo. In esso si precisa che è necessario rafforzare la tutela
dei diritti fondamentali, alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi
scientifici, rendendo tali diritti più visibili in una Carta.
D’altra parte, la Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti dell’Unione e del principio
di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi
internazionali comuni agli Stati membri, dalla CEDU, dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal
Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e da
quella della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
La Carta non sembra avere carattere normativo: non crea diritti che non siano già ricavabili
dalle fonti richiamate (tradizioni costituzionali comuni e trattati internazionali, tra cui, la
CEDU), le quali a loro volta corrispondono alle fonti d’ispirazione da tempo individuate dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia (e ora richiamate dall’art 6, § 3 TUE). La Carta avrebbe
più che altro carattere documentale, riassumendo in un unico documento l’elenco e la
descrizione dei diritti fondamentali ricavabili da quelle fonti e già facenti parte dei principi
generali del diritto vincolanti per l’Unione. Nondimeno vi possono essere alcune difficoltà,
in particolare in caso di non coincidenza tra i diritti previsti dalla Carta e quelli ricavabili dalle
tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri. La soluzione
si trova negli artt 52 e 53 della Carta.
L’art 53 (livello di protezione) stabilisce la clausola di compatibilità: nessuna disposizione della
presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito d’applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto
internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti,
in particolare dalla CEDU e dalle costituzioni degli Stati membri. La Carta non impedisce l’applicazione
della CEDU o delle altre fonti richiamate ove queste prevedano una tutela più ampia di quella
garantita dalla Carta.
L’art 52, § 3 (portata e interpretazione dei diritti e dei principi) riguarda proprio la CEDU, introducendo
la cd clausola di equivalenza: laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli
garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta
convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione
più estesa. La Carta deve essere applicata in modo che il livello di protezione assicurato ai diritti
tutelati anche dalla CEDU sia almeno equivalente a quello garantito dalla CEDU (considerata alla luce
della giurisprudenza della Corte Europea). Resta salva la possibilità che il diritto dell’Unione preveda
un livello di tutela addirittura superiore o estenda la tutela a diritti non coperti affatto dalla CEDU.
In conclusione, la Carta può solo estendere la portata della tutela dei diritti fondamentali
rispetto a quanto previsto da altre fonti e mai restringerla.
Ci si potrebbe domandare perché l’art 6 TUE abbia mantenuto una struttura così complessa, che
utilizza una pluralità di fonti diverse per la protezione dei diritti fondamentali. Non sarebbe bastato
sancire il valore giuridico della Carta (§ 1), senza prevedere l’adesione formale dell’Unione alla CEDU
(§ 2) e senza il richiamo ai principi generali tratti dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri (§ 3)?
a) Quanto all’adesione dell’Unione alla CEDU, la sua previsione del § 2 è pienamente giustificata. Si
tratta di sottoporre l’Unione al controllo (esterno) degli organi della CEDU (Corte Europea): in
mancanza di adesione formale, tale controllo non potrebbe essere esercitato.
b) Meno pacifica è la scelta di reiterare il richiamo ai principi generali tratti dalla CEDU e dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri in presenza di una Carta dal valore giuridico finalmente certo
che proprio tali principi dovrebbe incorporare. Il § 3 si spiega probabilmente per 2 ragioni:
1) la Carta costituisce solo un minimum standard di protezione dei diritti fondamentali, per cui non
bisogna impedire l’applicazione di standard maggiori previsti da altre fonti;
2) con il Protocollo 30, la Polonia, il Regno Unito e la Repubblica Ceca hanno ottenuto di applicare la
Carta in modo parzialmente differente. Se non si fosse ribadito l’impegno dell’Unione (e quindi anche
degli Stati membri) al rispetto dei principi generali, si sarebbe corso il rischio di un “arretramento” del
livello di protezione nei 3 Stati interessati.
6. Il ruolo dei principi generali e della Carta dei diritti fondamentali
Sul ruolo che i principi generali del diritto e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE svolgono
nel sistema delle fonti, si può dire in generale che si tratta di una funzione strumentale, in
quanto influiscono sull’applicazione di norme materiali derivanti da altre fonti.
Vengono in rilievo come criteri interpretativi delle altre fonti del diritto dell’Unione: le
norme dei trattati e degli atti delle istituzioni devono essere interpretate alla luce dei
principi generali. In presenza di più possibili interpretazioni di una norma dell’ordinamento
dell’Unione, l’interprete dovrà identificare il corretto significato scegliendo la soluzione più
coerente con i principi generali e con il rispetto dei diritti fondamentali.
Fungono da parametro di legittimità per gli atti delle istituzioni, i quali possono essere
annullati o dichiarati invalidi per violazione dell’uno o dell’altro dei principi o per contrarietà
ai diritti sanciti dalla Carta.
Operano da parametro di legittimità per alcuni comportamenti degli Stati membri. Ciò
avviene quando il comportamento o l’atto in questione è adottato dallo Stato membro in
attuazione dei trattati o di un atto delle istituzioni che ne autorizzi o addirittura ne richieda
l’adozione. Pertanto, gli interventi degli Stati membri devono “conformarsi” ai principi
generali del diritto dell’Unione e in particolare al rispetto dei diritti fondamentali. Qualora
ciò non avvenisse, tali interventi sarebbero incompatibili con la norma dell’Unione che li
autorizza o li prescrive e andrebbero quindi disapplicati.
In genere, i diritti fondamentali, intesi come principi generali del diritto dell’Unione, sono invocati dai singoli per
opporsi a provvedimenti degli Stati membri assunti in violazione di tali diritti e, indirettamente, della norma
dell’Unione che se ne occupa. Talvolta però i ruoli si invertono e sono gli Stati membri a invocare i diritti
fondamentali per giustificare i propri provvedimenti.
Nella sentenza C-602/02 (Omega), Omega gestisce a Bonn un laserodromo, dove si praticano giochi a base di raggi
laser, in uno dei quali viene simulata l’uccisione dell’avversario. Omega è oggetto di un provvedimento di divieto
dell’uso del gioco da parte delle autorità locali, che lo considerano contrario all’ordine pubblico. Sostenendo che il
provvedimento di divieto limita il suo diritto alla libera prestazione di servizi (la ditta sfrutta in regime di franchising
la concessione di un’impresa britannica, che ha ideato il gioco), Omega impugna in provvedimento dinnanzi al
giudice amministrativo tedesco, il quale solleva questione in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
La Corte constata che effettivamente il provvedimento comporta una limitazione alla libera prestazione dei servizi,
ma si domanda se una limitazione possa essere giustificata da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza: il
provvedimento dell’autorità tedesca mira alla protezione di un valore fondamentale della Costituzione nazionale,
ossia la dignità umana e anche l’ordinamento giuridico dell’Unione è diretto ad assicurare il rispetto di tale valore
quale principio generale del diritto. La Corte prosegue: poiché, d’altra parte, il rispetto dei diritti fondamentali si
impone, in tal modo, sia alla Comunità sia ai suoi Stati membri, la tutela di tali diritti rappresenta un legittimo
interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché
derivanti da una libertà fondamentale garantita dal Trattato, quale la libera prestazione dei servizi.
Pertanto, la Corte ammette che uno Stato membro possa giustificare un provvedimento limitativo della libera
prestazione dei servizi per la necessità di tutelare un diritto fondamentale previsto da una Costituzione nazionale
e condiviso dall’ordinamento dell’Unione.
Per poter contestare a uno Stato membro la violazione di un principio generale o di uno dei
diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, è necessario che sussista un collegamento tra
comportamento dello Stato membro e diritto dell’Unione. Occorre che lo Stato membro
abbia agito per attuare una norma dei trattati o un atto delle istituzioni o almeno che il
comportamento riguardi un settore rientrante nel campo d’applicazione dei trattati.
Diversamente, l’obbligo per lo Stato membro di rispettare i diritti fondamentali non è
ricollegabile al diritto dell’Unione e la Corte di Giustizia non ha competenza per assicurare
l’osservanza di tali diritti.
L’art 51, § 1 della Carta (ambito di applicazione) conferma il dovere degli Stati membri di rispettare i
diritti fondamentali come limitato ai casi in cui essi agiscono nell’attuazione del diritto dell’Unione: le
disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto
del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto
dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono
l’applicazione secondo le rispettive competenze conferite all’Unione nei trattati.
In ogni caso, i comportamenti degli Stati membri (confliggenti con i diritti dell’uomo), anche se privi di
collegamento con il campo d’applicazione dei trattati, possono essere oggetto della procedura di
controllo e sanzione di cui all’art 7 TUE, in caso di rischio di violazione grave o di violazione grave e
persistente dei valori di cui all’art 2 TUE, tra cui figura il rispetto dei diritti umani, compresi i diritti
delle persone appartenenti a minoranze.
L’obbligo di rispettare i principi generali del diritto e i diritti fondamentali vale per tutto il
campo di attività dell’Unione, comprese le materie rientranti negli ex pilastri non comunitari
(settore PESC oppure cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria in materia penale).
L’art 6 TUE nell’affermare l’impegno dell’Unione non fa distinzioni di materia.
7. Il diritto internazionale generale e gli accordi internazionali
L’Unione (ma già prima la Comunità) è un soggetto di diritto internazionale autonomo
rispetto agli Stati membri. In quanto tale, essa gode delle prerogative delle persone
giuridiche internazionali, compreso il diritto di legazione attivo e passivo, la capacità di
concludere accordi internazionali con Stati terzi o con altre organizzazioni internazionali,
nonché quella di acquisire la qualità di membro di una tale organizzazione.
L’art 47 TFUE dispone: l’Unione ha personalità giuridica.
L’Unione è dunque tenuta al rispetto del diritto internazionale generale. Le norme
internazionali generali vincolanti per l’Unione sono individuate secondo i criteri estensivi
contenuti nel diritto primario. L’art 3, § 5 TUE dispone: nelle relazioni con il resto del mondo
l’Unione (…) contribuisce (…) alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto
internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite.
Un comportamento delle istituzioni assunto in violazione di una norma di diritto
internazionale generale costituirebbe quindi un illecito internazionale.
Uno Stato terzo i cui interessi siano stati lesi dal comportamento dell’Unione potrebbe farne valere il
carattere illecito ai fini previsti dall’ordinamento internazionale (per chiedere una riparazione o per
adottare delle contromisure).
Gli Stati membri invece non possono invocare il diritto internazionale nei loro rapporti reciproci,
quando agiscono nel campo d’applicazione dei trattati. Per gli Stati membri i trattati costituiscono una
lex specialis che prevale sul diritto generale. È il caso del principio inadimplenti non est adimplendum
(art 60 Convenzione di Vienna): la Corte di Giustizia ha più volte affermato che uno Stato membro non
può invocare la violazione di un obbligo derivante dai trattati da parte di un altro Stato membro per
giustificare, a sua volta, la violazione dello stesso obbligo o di altri obblighi aventi pari fonte.
Il diritto internazionale generale fa parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione.
Pertanto, come ritiene la giurisprudenza della Corte di Giustizia, le competenze della
Comunità devono essere esercitate nel rispetto del diritto internazionale.
Esso svolge anzitutto una funzione ermeneutica analoga a quella dei principi generali del
diritto e va utilizzato per interpretare le norme dell’Unione, compresi i trattati. Inoltre,
costituisce parametro di legittimità degli atti delle istituzioni.
In questa duplice funzione, le norme di diritto internazionale generale possono essere
invocate da istituzioni e Stati membri, ma anche dai soggetti degli ordinamenti interni, che
possono avvalersene nelle azioni proposte dinanzi ai giudici nazionali.
Gli accordi internazionali con gli Stati terzi che vengono in rilievo rispetto all’ordinamento
dell’Unione sono di 3 tipi:
 accordi conclusi dagli Stati membri;
 accordi conclusi dalla CE/Unione
 accordi conclusi dalla CE/Unione e dagli Stati membri (accordi misti).
1. Gli accordi internazionali conclusi da Stati membri non fanno parte dell’ordinamento
dell’Unione, ma rilevano nella misura in cui un tale accordo, a determinate condizioni, può
essere invocato dallo Stato membro contraente come causa di giustificazione per il mancato
rispetto di obblighi derivanti dai trattati.
Ciò vale per gli accordi conclusi dallo Stato membro prima della data in cui il TCE è entrato in vigore
rispetto allo Stato membro in questione, in conseguenza del principio internazionale generale per cui
il trattato concluso da due Stati non può essere emendato, né abrogato per effetto della successiva
conclusione di un altro trattato tra due Stati, di cui solo uno sia parte anche del primo trattato: lo Stato
che ha concluso tanto il primo quanto il secondo trattato è tenuto a rispettarli entrambi.
Riconoscendo tale principio, l’art 351 TFUE contiene una clausola di compatibilità: le disposizioni dei
trattati non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse anteriormente al 1°
gennaio 195827 o per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati
membri da una parte e uno o più Stati terzi dall’altra;

27
il 1° gennaio 1958 è la data di entrata in vigore del TCE rispetto ai 6 Stati membri originari
nella misura in cui tali convenzioni sono incompatibili coi trattati, lo Stato o gli Stati membri interessati
ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità constatate. Ove occorra, gli Stati membri
si forniranno reciproca assistenza per raggiungere tale scopo, assumendo eventualmente una comune
linea di condotta.
Tale principio dovrebbe trovare applicazione in via analogica anche rispetto ad accordi conclusi da
Stati membri con Stati terzi in materie attribuite alla competenza dell’Unione per effetto di una
revisione dei trattati successiva alla conclusione dell’accordo.
Probabilmente, ciò vale anche per gli accordi conclusi in un’epoca in cui l’Unione, pur essendo già
competente, non aveva ancora esercitato la propria competenza nella specifica materia oggetto
dell’accordo (sempre che si tratti di materia non rientrante nella competenza esclusiva: in tal caso, la
clausola di compatibilità potrà riguardare solo gli accordi la cui conclusione sia stata preventivamente
autorizzata dalla Commissione).
La clausola di compatibilità consente allo Stato membro interessato di sottrarsi agli obblighi
derivanti dai trattati solo nella misura strettamente necessaria per permettergli di
rispettare gli obblighi assunti verso lo Stato terzo. Uno Stato membro non potrebbe
invocare un accordo con uno Stato terzo per giustificare comportamenti che non sono
imposti dall’accordo stesso.
Inoltre, la clausola di compatibilità incontra un limite nel rispetto dei diritti fondamentali.
Una soluzione particolare è stata delineata per quegli accordi con Stati terzi conclusi prima del 1958
(o alla data di successiva adesione ai trattati) da tutti gli Stati membri, che abbiano ad oggetto materie
comprese nella competenza esclusiva dell’Unione. In tal caso, è stata ipotizzata una sorta di
successione dell’Unione nei diritti e negli obblighi che gli Stati membri contraenti traevano dagli
accordi in questione. Pertanto, l’Unione non solo deve consentire agli Stati membri contraenti di
continuare a rispettare l’accordo, ma è essa stessa tenuta a rispettarlo nell’esercizio della propria
competenza.
Ciò si è verificato con il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) concluso nel 1947 e avente
ad oggetto materie rientranti nella politica commerciale comune (art 207 TFUE)28.
Nella sentenza C-21/72 International Fruit, la Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi sulla validità
di alcuni regolamenti ritenuti incompatibili con talune disposizioni del GATT, ha affermato: in tutti i
casi in cui in forza del TCE la Comunità ha assunto dei poteri spettanti agli Stati membri, nell’ambito
di applicazione del GATT, le disposizioni di questo sono vincolanti per la Comunità stessa.

2. Quanto agli accordi conclusi dall’Unione con Stati terzi o altre organizzazioni
internazionali essi fanno senz’altro parte dell’ordinamento dell’Unione a partire dalla data
della loro entrata in vigore. Secondo l’art 216, § 2 TFUE, gli accordi conclusi dall’Unione
vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri.

28 La necessità di configurare tale successione è stata poi superata con la rinegoziazione del GATT nell’ambito
dell’Accordo istitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) concluso a Marrakech (1994), rispetto
al quale la CE (e ora l’Unione) è essa stessa parte contraente.
3. Molto diffusa è la prassi di concludere accordi misti a nome dell’Unione e degli Stati
membri, quali soggetti autonomi di diritto internazionale.
Dapprima, tale pratica era imposta dal rifiuto di taluni Stati terzi di riconoscere la
competenza della Comunità. In seguito, lo strumento si è rivelato utile in caso di accordi su
materie fuori dalla competenza dell’Unione o su materie di competenza concorrente,
laddove gli Stati membri non intendevano affidarne la conclusione solo all’Unione.
La Corte di Giustizia considera che gli accordi misti hanno nell’ordinamento dell’Unione la
stessa disciplina giuridica degli accordi conclusi dall’Unione per quanto riguarda le
disposizioni che rientrano nella competenza dell’Unione.
Quanto al valore giuridico degli accordi internazionali e al loro rango nel sistema delle fonti
dell’ordinamento dell’Unione, occorre distinguere:
a) rispetto ai trattati, gli accordi internazionali sono subordinati e devono rispettarli. In caso
contrario, l’accordo internazionale (meglio, l’atto delle istituzioni con cui è stata decisa la
conclusione) è illegittimo e può essere annullato.
b) Inoltre, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha chiarito che gli accordi internazionali
sono anche subordinati ai principi generali, in particolare i diritti fondamentali.
L’occasione è stata fornita dai ricorsi presentati contro il regolamento che, in attuazione di una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, aveva disposto il blocco dei beni di alcune persone
sospettate di terrorismo. Una posizione comune PESC aveva stabilito di attuare la risoluzione ONU.
Era stato così emanato il regolamento impugnato. Tra i motivi di illegittimità veniva invocata la
violazione di alcuni diritti fondamentali (diritto di proprietà, diritto di difesa, diritto a un rimedio
giurisdizionale effettivo).
Nella sentenza C-402-415/05 P (Kadi), la Corte di Giustizia afferma il proprio controllo giurisdizionale
sulla legittimità delle misure di congelamento dei capitali.
Yassin Abdullah Kadi è un cittadino saudita che nel 2001 viene inserito in una black list, perché
sospettato di essere legato alla rete terroristica di Osama Bin Laden. A tale iscrizione segue il
congelamento dei suoi capitali europei. Kadi si rivolge al Tribunale di I grado per ottenere
l’annullamento del regolamento, per contrasto con i suoi diritti fondamentali (in particolare, con il
rispetto della proprietà, il diritto di addurre prove in proprio favore al fine di dimostrare la propria
estraneità al circuito terrorista, nonché il diritto ad un controllo giurisdizionale effettivo).
Il Tribunale rigetta il ricorso, sulla base dell’argomento per cui gli atti dell’Unione che attuano le
risoluzioni ONU in tema di sicurezza internazionale e antiterrorismo godrebbero di una sorta di regime
di immunità da qualsiasi controllo giurisdizionale. Tali atti non farebbero altro che attuare a livello
comunitario, senza alcun margine di discrezionalità, gli obblighi internazionali promananti delle
Nazioni Unite; sicché qualsiasi controllo di legittimità del regolamento attuativo implicherebbe una
inammissibile verifica, da parte del giudice comunitario, della legittimità della risoluzione stessa.
La sentenza è impugnata da Kadi e la Corte di Giustizia invece annulla il regolamento per la parte che
lo riguarda. Nelle argomentazioni a sostegno di tale revirement, la Corte riconosce a sé il potere di
verifica del rispetto, da parte del provvedimento attuativo, dei principi generali del diritto dell’Unione.
La Corte, anzitutto, delinea l'assetto dei rapporti tra l'ordinamento dell’Unione e il sistema giuridico
internazionale e, in particolare, la questione degli effetti che le risoluzioni ONU provocano all'interno
dell'ordinamento dell’Unione. I giudici osservano che la Comunità europea è una comunità di diritto;
sicché sia gli Stati membri sia le sue istituzioni sono soggette al controllo di conformità dei propri atti
rispetto al TCE, che ha predisposto un sistema completo di rimedi giurisdizionali. A questo punto, la
Corte ribadisce il ruolo rivestito dai diritti fondamentali: essi rientrano nei principi di diritto, la cui
tutela è garantita dalla Comunità, e rappresentano altresì il parametro per sindacare la legittimità
degli atti comunitari.
Pertanto, gli obblighi imposti da un accordo internazionale non possono avere l’effetto di
compromettere i principi costituzionali del TCE, tra i quali vi è il principio secondo cui tutti gli atti
comunitari devono rispettare i diritti fondamentali, atteso che tale rispetto costituisce il presupposto
della loro legittimità, che spetta alla Corte controllare.
Pertanto, la Corte di giustizia riscontra la violazione dei diritti fondamentali invocati dal ricorrente, in
quanto il regolamento non assicura all'individuo una tutela giurisdizionale effettiva nei confronti delle
misure interdittive e consente, al contempo, una interferenza sproporzionata sul godimento del diritto
di proprietà

c) rispetto agli atti delle istituzioni, gli accordi internazionali prevalgono.


Poiché gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri
(art 216, § 2 TFUE), le istituzioni non possono adottare atti che non li rispettino.
Diversamente, l’atto confliggente può essere annullato o dichiarato invalido.
Gli accordi internazionali fungono da parametro di legittimità degli atti delle istituzioni.
Esistono delle eccezioni: alcuni accordi internazionali non possono essere utilizzati per valutare la
validità degli atti delle istituzioni.
L’esempio più importante è dato dagli accordi allegati all’Accordo istitutivo dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio (OMC) firmato a Marrakech (1994). Secondo la Corte di Giustizia, a causa
della loro natura flessibile, gli Accordi OMC non figurano in linea di principio tra le normative alla luce
delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie.
La Corte ammette tuttavia 2 eccezioni all’eccezione, in cui si ammette l’utilizzabilità degli accordi OMC
come parametri di legittimità di atti comunitari:
1) l’atto impugnato sia stato adottato in esecuzione degli obblighi derivanti dagli accordi;
2) l’atto impugnato richiama espressamente specifiche disposizioni degli accordi
Un altro esempio è la Convenzione ONU sul diritto del mare, firmata a Montego Bay (1982), di cui,
oltre agli Stati membri, è parte anche la CE.
Secondo la Corte di Giustizia, tale convenzione non stabilisce norme destinate ad applicarsi
direttamente ed immediatamente ai singoli né a conferire a questi ultimi diritti o libertà che possano
essere invocati nei confronti degli Stati, indipendentemente dal comportamento dello Stato di
bandiera della nave.
Pertanto, la natura e la struttura della convenzione di Montego Bay ostano a che la Corte possa
valutare la validità di un atto comunitario alla luce di tale convenzione.
8. I regolamenti
Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri (art 288, comma 2 TFUE).
1. La portata generale indica che il regolamento ha natura normativa, ossia pone regole
rivolte non a soggetti predeterminati in funzione della loro situazione individuale, ma della
generalità dei soggetti.
Può accadere che un regolamento definisca requisiti di applicazione (di fatto o di diritto) tali per cui
solo un numero relativamente ristretto di persone li soddisfi. Può anche darsi che il campo di
applicazione sia talmente ridotto che si possa individuare coloro ai quali il regolamento si applicherà.
Non per questo potrà dirsi che il regolamento è privo di portata generale: solo qualora il contenuto
del regolamento sia determinato in considerazione della situazione individuale in cui versa ciascuno
dei soggetti a cui il regolamento sarà applicato (portata individuale) si dovrà parlare di un
regolamento solo di nome, che costituisce, in realtà, una decisione individuale (o un fascio di decisioni
individuali). La giurisprudenza segnala la necessità di evitare una confusione tra il concetto di
destinatario di un atto e quello di oggetto di tale atto. Solo se si riesce a smascherare un regolamento,
potendone affermare la portata individuale, la persona fisica o giuridica che risulti pregiudicata
dall’atto sarà ammessa a impugnarlo con un ricorso d’annullamento (art 263, comma 4 TFUE), in
quanto avrà provato che il regolamento la riguarda direttamente e individualmente.
2. L’obbligatorietà integrale riguarda soprattutto gli Stati membri, i quali non possono
lasciare inapplicate talune disposizioni, limitarne il campo d’applicazione dal punto di vista
temporale, territoriale o personale, porre condizioni d’applicazione o introdurre facoltà di
deroga non contemplate nel regolamento stesso.
Ciò non implica necessariamente la completezza del contenuto del regolamento, che può essere
integrato con atti ulteriori, da parte delle istituzioni o delle autorità nazionali.
3. La diretta applicabilità presenta 2 profili distinti, ma complementari.
a) l’adattamento degli ordinamenti interni degli Stati membri (meglio, i modi attraverso cui
ciò deve avvenire).
In genere, i trattati che istituiscono organizzazioni internazionali non si preoccupano di stabilire in che
modo gli Stati membri dovranno dare applicazione agli atti obbligatori che gli organi di tale
organizzazione adottano, lasciando ciascuno Stato contraente libero di agire come meglio ritenga. Qui
invece si vuole disciplinare in modo uniforme tale aspetto.
Prescrivendo l’adattamento diretto degli ordinamenti interni al regolamento, ossia
immediato e automatico, senza che sia necessario e nemmeno consentito agli Stati membri
subordinare l’applicazione del regolamento a specifici atti interno di adattamento o di
attuazione, il regolamento si pone esso stesso come norma di adattamento: nel momento
in cui entrano in vigore nell’ordinamento d’origine (quello dell’Unione), i regolamenti sono
già applicabili per ciò stesso anche all’interno di ciascuno Stato membro. Ogni eventuale
atto nazionale di recepimento sarebbe non solo superfluo, ma anche incompatibile, perché
trasformerebbe il regolamento in un provvedimento interno, occultando, agli occhi dei
giudici e delle persone interessate, la sua natura comunitaria.
b) l’efficacia diretta (capacità di produrre effetti diretti nell’ordinamento interno dello
Stato membro). Poiché il regolamento ha valore normativo non solo nell’ordinamento
dell’Unione, ma anche in quello degli Stati membri, ne consegue che esso, come qualsiasi
fonte normativa di diritto interno, attribuisce diritti ai singoli, che i giudici nazionali devono
tutelare.
9. Le direttive (e le decisioni-quadro dell’ex III pilastro)
La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salvo restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai
mezzi (art 288, comma 3 TFUE).
1. La direttiva, pur essendo vincolante, ha portata individuale, avendo dei destinatari ben
definiti: uno o più Stati membri.
Spesso la direttiva è rivolta a tutti gli Stati membri: si parla (impropriamente) di direttive generali. A
tale tipologia appartengono le direttive legislative (adottate con una procedura legislativa), ma anche
le direttive non legislative potrebbero essere generali. Alle direttive rivolte a tutti gli Stati membri si
riferisce l’art 297, § 2, comma 2 TFUE nel prescrivere la pubblicazione sulla GU.
Di solito, le direttive mirano ad ottenere un ravvicinamento delle disposizioni (legislative,
regolamentari e amministrative) degli Stati membri in determinate materie. Pertanto,
anche se le direttive mancano di portata generale, avranno tale portata le misure di
attuazione adottate dagli Stati membri. In questo senso, si suole definire le direttive come
uno strumento di normazione in 2 fasi: la prima, accentrata a livello dell’Unione, dove sono
fissati gli obiettivi e i principi generali; la seconda, decentrata a livello nazionale, dove
ciascuno Stato membro attua, attraverso strumenti normativi completi e dettagliati, gli
obiettivi e i principi generali fissati dalla direttiva.
2. Anche se la direttiva è obbligatoria in tutti i suoi elementi (cd obbligatorietà integrale:
gli Stati membri non possono applicarla selettivamente o parzialmente), non diversamente
dal regolamento, occorre tener presente che (a differenza del regolamento) essa si limita
ad imporre agli Stati membri un risultato da raggiungere, lasciandoli liberi di scegliere le
misure di adattamento necessarie per realizzare il risultato prescritto.
Mutuando termini del diritto privato, si può dire che la direttiva comporta un obbligo di risultato,
mentre il regolamento impone anche un obbligo di mezzi.
Pertanto, la direttiva non impone agli Stati membri un semplice obbligo di applicare l’atto e farlo
rispettare nel proprio territorio, ma richiede dagli Stati membri un’attività ulteriore di tipo diverso e
più complesso: attuare la direttiva, scegliendo i mezzi e le forme appropriate.
3. Quanto alla diretta applicabilità, occorre distinguere.
a) Circa la necessità di misure di adattamento, è logico che la direttiva non gode della diretta
applicabilità. Il meccanismo previsto richiede che essa riceva attuazione da parte degli Stati
membri attraverso apposite misure: gli Stati membri (a differenza di quanto avviene con i
regolamenti) sono tenuti ad adattare (modificare) l’ordinamento interno in modo da
assicurare il conseguimento del risultato voluto dalla direttiva. In mancanza, la direttiva non
è in grado, da sola, di ottenere il risultato voluto.
Si tratta di uno strumento che risponde ad una visione internazionalistica dei rapporti tra ordinamenti.
Come per le fonti di diritto internazionale, la direttiva richiede agli Stati membri un’attività di
adattamento degli ordinamenti interni (che si è invece voluto “saltare” nel caso dei regolamenti).
b) Quanto all’efficacia diretta, intesa come capacità di produrre effetti diretti negli
ordinamenti interni anche in mancanza di misure d’attuazione da parte degli Stati membri,
la risposta è più sfumata. La direttiva, per sua natura, non gode di efficacia diretta nella
stessa misura dei regolamenti. Mentre per i regolamenti essa si presume, per una direttiva
occorre che siano soddisfatte alcune condizioni temporali e sostanziali individuate dalla
giurisprudenza UE (precisione e incondizionatezza). Inoltre, l’efficacia diretta delle direttive
ha una specifica portata ratione personarum.
L’obbligo di attuazione è assoluto per ciascuno Stato membro al quale la direttiva è rivolta.
L’unica ipotesi in cui è possibile omettere di attivarsi è quando lo Stato membro è in grado di
dimostrare che il proprio ordinamento interno è già perfettamente conforme alla direttiva.
Tale obbligo va adempiuto entro il termine fissato dalla direttiva stessa, il quale può variare
da pochi mesi ad uno o più anni, a seconda dell’importanza della materia oggetto della
direttiva e delle difficoltà che gli Stati membri possono incontrare nell’attuazione. Il termine
è imperativo e perentorio: non è possibile addurre giustificazioni di sorta per il mancato
rispetto. Inoltre, anche se agli Stati membri è concesso un termine per l’attuazione, l’obbligo
di trasposizione sorge nel momento in cui la direttiva entra in vigore.
Essendo il termine previsto in suo favore, lo Stato membro può attuare la direttiva anche prima della
scadenza. È altresì possibile procedere ad un’attuazione per tappe, purché sia completata nel termine
previsto. Tuttavia, in pendenza del termine, lo Stato membro non può adottare provvedimenti in
contrasto con la direttiva o comunque tali da compromettere gravemente la realizzazione del risultato
che la direttiva prescrive (obbligo di standstill o di non aggravamento)
Inoltre, il principio di leale collaborazione impone agli Stati membri di comunicare all’Unione le
misure di attuazione adottate. Tale obbligo (spesso previsto dalle direttive stesse) è autonomo e
ulteriore rispetto a quello di tempestiva e corretta trasposizione.
La scelta delle forme e dei mezzi di attuazione della direttiva compete agli Stati membri,
ma non è del tutto libera: il legislatore nazionale deve scegliere strumenti idonei a produrre
la modificazione degli ordinamenti interni voluta dalla direttiva.
Si deve tener conto della gerarchia delle fonti di diritto interno. Se la direttiva interviene su una
materia già disciplinata da norme di legge, è chiaro che l’attuazione dovrà avvenire attraverso norme
almeno di pari rango rispetto a quelle da modificare o abrogare. In caso contrario, le norme
d’attuazione sarebbero inefficaci e lo scopo voluto dalla direttiva non sarebbe raggiunto.
Inoltre, vanno scelti strumenti di attuazione che garantiscano trasparenza e certezza del diritto. La
Corte di Giustizia ha sempre giudicato insufficienti modi o procedure agevolate di attuazione
consistenti nell’approvazione di misure di carattere amministrativo, circolari o semplici istruzioni
rivolte agli uffici amministrativi, in quanto modificabili liberamente dall’amministrazione e sprovviste
di adeguata pubblicità.
Circa il contenuto delle direttive, la prassi ha rivelato come la distinzione tra risultato e
forme e mezzi, prevista dal meccanismo di attuazione, sia difficile da tracciare.
Determinati risultati non possono essere definiti indicando solo obiettivi e principi generali,
ma richiedono un quadro normativo dettagliato, che lascia alla determinazione degli Stati
membri solo interventi limitati e di secondaria importanza.
Non è possibile individuare in via generale uno “spazio di competenza” riservato agli Stati membri,
oltre il quale la direttiva non può mai intervenire. Piuttosto, la frontiera tra il livello d’intervento
dell’Unione e quello nazionale è frutto di valutazioni politiche operate dalle istituzioni, in funzione
dell’obiettivo della direttiva e del principio di sussidiarietà (art 5, § 3 TUE).
Sono perciò infondate le accuse di illegittimità rivolte alle direttive adottate fino agli anni ’80,
soprattutto nel campo dell’armonizzazione delle legislazioni tecniche, che erano caratterizzate da una
disciplina particolarmente precisa e particolareggiata (cd direttive dettagliate). Benché simili (nel
contenuto) a regolamenti, tali atti non solo mantengono la struttura di una direttiva (imponendo agli
Stati membri un obbligo d’attuazione e prevedendo, a tal fine, un termine), ma si giustificano in base
al risultato voluto, che in quegli anni era un’armonizzazione molto avanzata delle legislazioni
nazionali. Una volta abbandonato tale obiettivo, in favore di un’armonizzazione minima, il problema
posto dalle direttive dettagliate si è risolto da solo.
Prima del Trattato di Lisbona, nell’ambito del III pilastro (cooperazione di polizia e cooperazione
giudiziaria in materia penale), le istituzioni potevano adottare una serie di atti che rispondevano ad
una tipologia diversa da quella prevista per il pilastro comunitario.
L’art 34, § 2 TUE elencava 4 tipi di atti (tutti del Consiglio): a) posizioni comuni, b) decisioni-quadro,
c) decisioni e d) convenzioni.
Con il Trattato di Lisbona, l’art 9 del Protocollo 36 (disposizioni transitorie) ha stabilito che gli effetti
giuridici delle decisioni-quadro (e degli altri atti adottati nell’ambito dei pilastri non comunitari) sono
mantenuti finché tali atti non saranno abrogati, annullati o modificati in applicazione dei trattati.
In particolare, le decisioni-quadro hanno rappresentato un modello di grande successo, utilizzato di
frequente per l’adozione di misure molto importanti (mandato d’arresto europeo, posizione della
vittima del procedimento penale). Si tratta di un tipo di atto ispirato al modello delle direttive, con le
quali condivide anzitutto lo scopo perseguito: il ravvicinamento delle disposizioni legislative e
regolamentari degli Stati membri.
Anche le decisioni-quadro sono vincolanti per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva
restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Gli Stati membri sono
perciò tenuti a dare attuazione alla decisione-quadro entro il termine dalla stessa indicato. Sussiste
però un’importante differenza: le decisioni-quadro non hanno efficacia diretta. Qui lo stesso trattato
(art 34, § 2 lett b TUE) aveva prendere posizione (in senso negativo) su un problema che per le direttive
era invece rimasto aperto e poi risolto (positivamente) dalla Corte di Giustizia.
10. Le decisioni
La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Inoltre, se designa i destinatari è
obbligatoria soltanto nei confronti di questi (art 288, comma 4 TFUE). Pertanto, la categoria
comprende 2 tipi di atti assai differenti tra loro:
le decisioni individuali, dotate di destinatari individuati nell’atto, che sono i soli
soggetti alla sua portata obbligatoria;
le decisioni generali, prive di destinatari individuati, che hanno portata obbligatoria
generale (e anche natura legislativa, se adottate con una procedura di questo tipo).
La decisione individuale coniuga le caratteristiche dei regolamenti e delle direttive: come il
regolamento, è obbligatoria in tutti i suoi elementi e quindi va rispettata nella sua interezza;
come la direttiva, non ha portata generale, ma vincola i soli destinatari da essa designati
(ma, a differenza della direttiva, può essere rivolta agli Stati membri, ma anche ai singoli).
1) Le decisioni rivolte agli Stati membri sono simili alle direttive qualora impongano un
obbligo di facere (ma il contenuto dell’obbligo è spesso più specifico rispetto alla direttiva e
lascia allo Stato membro un margine di discrezionalità più ristretto). Esistono però anche
decisioni che si limitano a prescrivere un obbligo di non facere; qui lo Stato membro è tenuto
ad astenersi tout court dall’attività vietata.
Le decisioni della Commissione in materia di aiuti di Stato alle imprese (art 108 TFUE) possono avere
l’uno o l’altro contenuto: se l’aiuto è già in vigore, la decisione può obbligare lo Stato membro in
questione a sopprimerlo o modificarlo nel termine fissato (facere); se l’aiuto non è ancora in vigore,
la decisione può stabilire che l’aiuto non può essere concesso (non facere).
2) Le decisioni rivolte ai singoli hanno una spiccata natura amministrativa.
Le decisioni che la Commissione adotta nell’ambito della disciplina della concorrenza possono anche
comminare sanzioni pecuniarie a carico delle imprese. In tal caso, l’atto costituisce un titolo esecutivo
(art 299 TFUE: gli atti del Consiglio, della Commissione o della BCE che comportano a carico di persone
che non siano Stati, un obbligo pecuniario costituiscono titolo esecutivo): previa apposizione della
formula esecutiva da parte dell’autorità designata dallo Stato membro in cui si intende ottenere
l’esecuzione, è possibile procedere ad esecuzione forzata.
Le decisioni generali hanno varia natura.
Tra gli esempi più importanti vi sono le decisioni del Consiglio europeo in sede di revisione dei trattati
(in particolare, nelle procedure semplificate) o in attuazione di specifiche disposizioni dei trattati (le
decisioni sulla composizione del Parlamento europeo, l’elenco delle formazioni del Consiglio diverse
da quella Affari generali e Affari esteri).
Alcune decisioni sono prese dal Consiglio: in particolare, quelle in cui si constata l’esistenza di un
evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art 2 (art 7 TUE),
quelle che autorizzano una cooperazione rafforzata (art 20, § 2 TUE), quelle adottate (in genere del
Consiglio) nel settore della PESC.
11. Gli atti nel settore PESC
Il Trattato di Lisbona elimina le distinzioni tra gli atti dell’ex-III pilastro e quelli del
tradizionale pilastro comunitario, ma mantiene per il settore della PESC norme e procedure
specifiche (art 24, § 1 comma 2 TUE).
Gli atti nel settore PESC sono di 2 tipi: orientamenti generali e decisioni (art 25 TUE)
Gli orientamenti generali sono atti del Consiglio europeo (art 26, § 1, comma 1 TUE).
Si tratta di atti di alta politica, che definiscono le “linee guida” su cui l’Unione deve muoversi
nel settore PESC, comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa. Da ciò
sembrerebbe che anche gli orientamenti generali debbano assumere la forma di decisioni
(adotta le decisioni necessarie)
Le decisioni sono atti del Consiglio. Esse possono assumere vari contenuti:
1) azioni che l’Unione deve intraprendere
Ciò avviene quando una situazione internazionale richieda l’intervento operativo dell’Unione,
definendo gli obiettivi, la portata e i mezzi di cui l’Unione deve disporre, le condizioni di attuazione e,
se necessario, la durata (art 28, § 1 comma 1 TUE).
2) posizioni che l’Unione deve assumere
Ciò avviene quando occorra definire la posizione dell’Unione su una questione particolare di natura
geografica o tematica (art 29 TUE)
3) modalità di attuazione delle decisioni di cui ai punti 1 e 2
In questo caso, si tratta di atti di esecuzione (di secondo grado) di altre decisioni.
Gli atti del settore PESC non hanno mai carattere legislativo (art 24, § 1, comma 2 TUE).
Tuttavia, le decisioni vincolano gli Stati membri (art 28, § 2 TUE).
In questo senso l’art 24, § 3 TUE dispone: gli Stati membri sostengono attivamente e senza riserve la
politica estera e di sicurezza dell’Unione, in uno spirito di lealtà e solidarietà reciproca e rispettano
l’azione dell’Unione in questo settore.
12. L‘adattamento dell’ordinamento italiano al diritto dell’UE
I Trattati si presentano in forma di normali trattati internazionali. Non meraviglia quindi che
l’Italia abbia dato loro esecuzione nelle forme e con le procedure seguite, per prassi, in casi
del genere: l’ordine di esecuzione del trattato è stato dato con la stessa legge con cui il
Parlamento ne ha autorizzato la ratifica da parte del Capo dello Stato (art 80 Cost).
Il ricorso ad una legge ordinaria per eseguire trattati così importanti come quelli europei ha dato luogo
a difficoltà. Molti ritenevano necessaria una norma costituzionale ad hoc, che autorizzasse
l’accettazione delle limitazioni di sovranità nazionale legate all’appartenenza alla Comunità (e poi
all’Unione) e conferisse alla Comunità-Unione e al suo diritto uno status costituzionale definito. Una
norma del genere non è mai stata adottata.
Altri Stati membri hanno invece modificato la propria costituzione nazionale, inserendo apposite
clausole europee. Nella costituzione francese è stato inserito il Titolo XV (Le Comunità europee e
l’Unione europea). Ai sensi dell’art 23 GG (cd Europa Artikel), per la realizzazione di un’Europa unita,
la Repubblica Federale di Germania collabora allo sviluppo dell’Unione europea (…). La Federazione
può a questo scopo trasferire dei diritti di sovranità mediante legge, con l’assenso del Bundesrat (…).
Nemmeno la legge cost 3/2001 (riforma del Titolo V) contiene nulla di simile: si limita a dare già per
acquisita la partecipazione italiana alla Comunità. Il nuovo art 117, comma 1 Cost stabilisce: la potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

In assenza di una norma costituzionale specifica, si è ritenuto di potere ricondurre


l’adesione italiana alla Comunità (e poi all’Unione) all’art 11 Cost. La seconda parte di questa
norma prevede che l’Italia consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni
di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Ciò ha trovato conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Nella sentenza 14/64 (Costa vs ENEL), l’art 11 Cost non è solo norma permissiva, in quanto
abilita ad accettare le limitazioni di sovranità, ma è anche norma procedurale: essa consente
di accettare limitazioni di sovranità senza dover procedere a revisione costituzionale.
La sentenza trae origine da una vertenza parallela a quella della Corte di Giustizia (C-6/64). Il giudice
conciliatore di Milano aveva sollevato alla Corte costituzionale una questione di legittimità
costituzionale della legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica, ritenendola in contrasto con
alcune norme del TCE e quindi, indirettamente, con l’art 11. Nel decidere, la Corte prende posizione
sul valore dell’art 11: significa che, quando ricorrono i presupposti, è possibile stipulare trattati con
cui si assumono limitazioni di sovranità ed è consentito di darvi esecuzione con legge ordinaria.
Più difficile è risultato assicurare l’attuazione del diritto secondario (o derivato).
Le maggiori difficoltà si sono avute con le direttive, le quali richiedono un’attività di
attuazione, cui il legislatore nazionale è tenuto entro un termine perentorio, talvolta breve.
In Italia, dapprima si ricorreva alla delega legislativa al Governo (art 76 Cost): il Parlamento,
con legge, delegava al Governo il compito di emanare decreti legislativi per l’attuazione di
un certo numero di atti delle istituzioni. Tale sistema comportava però problemi di ordine
giuridico (era opinabile che fossero rispettate le condizioni previste dall’art 76 Cost:
determinazione dei principi e limiti dell’oggetto della delega) e di ordine pratico (i tempi per
l’approvazione della legge delega e poi dei decreti legislativi erano troppo lunghi).
Un più efficace meccanismo fu adottato con la legge 86/89 (cd legge La Pergola), poi
sostituita dalla legge 11/2005 (cd legge Buttiglione), a sua volta poi abrogata dalla legge
234/2012.
Si tratta comunque di leggi ordinarie: in ciò sta il limite, atteso che ogni legge ordinaria successiva le
può abrogare e modificare, senza incorrere in alcun vizio di incostituzionalità.
Con la legge La Pergola fu introdotto un meccanismo legislativo annuale: ogni anno, il
Parlamento approva una o più leggi contenenti provvedimenti volti a rendere conforme
l’ordinamento statale a tutti gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione
Europea che vengono a maturazione entro l’anno di riferimento.
Mentre la legge La Pergola e la legge 11/2005 prevedevano l’adozione di un unico
strumento legislativo annuale (cd legge comunitaria), la legge 234/2012 contempla ora 2
distinti provvedimenti: la legge di delegazione europea e la legge europea.
La legge di delegazione europea utilizza 2 metodi per rendere l’ordinamento italiano
conforme agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione.
1. La delega legislativa al Governo. In questo caso, la legge di delegazione europea prevede i criteri
per l’attuazione delle norme dell’Unione da parte del Governo con decreti legislativi.
2. La legge di delegazione europea autorizza il Governo all’attuazione in via regolamentare. Ciò può
avvenire per materie di cui all’art 117, comma 2 Cost (competenza esclusiva dello Stato), anche se si
tratta di materie già disciplinate con legge, ma non riservate alla legge. Il regolamento emanato può
modificare norme di legge preesistenti su espressa autorizzazione data dal Parlamento con la legge di
delegazione europea. Si opera pertanto la delegificazione delle materie interessate.
La legge europea dà attuazione diretta agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione
attraverso l’abrogazione o la modifica di disposizioni statali vigenti.
Tale metodo può essere seguito in 4 casi: 1) abrogare o modificare disposizioni statali vigenti in
contrasto con gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea; 2) abrogare o
modificare disposizioni statali vigenti oggetto di procedure di infrazione avviate dalla Commissione
verso l’Italia o di sentenze della Corte di Giustizia; 3) dare attuazione o assicurare l’applicazione di atti
dell’Unione Europea; 4) dare esecuzione ai trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni
esterne dell’Unione.
Si tratta di un procedimento più dispendioso, che implica l’approvazione del Parlamento
della modifica legislativa da apportare all’ordinamento vigente. Esso viene quindi utilizzato
per adempimenti puntuali e di semplice definizione.
La legge 234/2012 si occupa poi anche dell’attuazione del diritto dell’Unione da parte delle Regioni.
L’attuale sistemazione della materia è frutto di una lunga evoluzione normativa e giurisprudenziale,
che ha condotto, partendo da posizioni di netta chiusura, a riconoscere un ruolo sempre più ampio
alle Regioni, fermo restando il principio della responsabilità dello Stato verso le istituzioni dell’Unione.
L’art 117, comma 5 Cost prevede che le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle
materie di loro competenza provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli atti dell’Unione
Europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato, che disciplina le modalità
di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
In attuazione di tale principio, la legge 234/2012 prevede che le Regioni e le Province autonome, nelle
materie di loro competenza, possono dare immediata attuazione alle direttive, senza dover attendere
un preventivo intervento dello Stato: dunque non appena la direttiva entra in vigore e diventa quindi
obbligatoria (la legge La Pergola, invece, prevedeva che, nelle materie di competenza concorrente,
Regioni e Province autonome non potessero attuare le direttive prima della legge comunitaria
successiva alla notifica). Ciò non esclude del tutto l’intervento dello Stato.
In primo luogo, nelle materie di competenza concorrente, è compito dello Stato la determinazione
dei principi fondamentali (art 117, comma 3 Cost). Ciò vale anche quando si tratta di attuare atti
dell’Unione. Tali principi non sono derogabili dalla legge regionale o provinciale sopravvenuta e
prevalgono sulle contrarie disposizioni eventualmente già emanate da Regioni o Province autonome.
In secondo luogo, l’art 117, comma 5 Cost e l’art 120, comma 2 Cost prevedono a favore dello Stato
un potere sostitutivo nel caso di inadempimento regionale riguardante la normativa dell’Unione.
Un meccanismo di sostituzione preventiva prevede che lo Stato adotti decreti legislativi o regolamenti
di attuazione anche per le direttive che ricadono nelle materie di competenza di Regioni o Province
autonome: tali provvedimenti si applicano solo a partire dalla data di scadenza dell’obbligo di
attuazione e fino a quando non lo avranno fatto.
Una procedura di sostituzione successiva, disciplinata alla legge 131/2003 (cd legge La Loggia) e
richiamata dalla legge 234/2012, prevede la “messa in mora” preventiva della Regione, assegnando
di un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari. Decorso invano tale termine,
provvederà il Consiglio dei Ministri (alla riunione del Consiglio partecipa il Presidente della Giunta
regionale o provinciale interessata).
Parte IV DIRITTO UE E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI
1. Considerazioni generali
Dal momento che l’ordinamento dell’Unione riconosce la soggettività giuridica non solo
agli Stati membri, ma anche ai soggetti degli ordinamenti interni degli Stati membri, esso
presenta una dimensione internazionale e una dimensione interna.
Sono di tipo internazionalistico quei rapporti giuridici che il diritto dell’Unione fa sorgere in
capo agli Stati membri e all’Unione stessa. Il contenuto di tali rapporti consiste in una serie
di diritti e obblighi che l’Unione, attraverso le sue istituzioni, o uno Stato membro può far
valere nei confronti di un altro Stato membro o di un’istituzione.
Nell’ambito di tali rapporti, lo Stato membro si presenta in maniera unitaria (come nell’ordinamento
internazionale), ossia comprensiva di tutte le componenti in cui si articola la propria organizzazione
interna: organi dipendenti dal potere esecutivo dello Stato centrale, organi dotati di autonomia
costituzionale (magistratura), enti territoriali e regionali e persino, in qualche caso, individui. I rapporti
di tipo internazionalistico sfociano, in caso di controversia, in procedimenti giudiziari di soluzione
anch’essi di stampo internazionalistico, il più importante dei quali è il ricorso per infrazione (artt 258
e 259 TFUE)
Appartengono alla dimensione interna dell’ordinamento di ciascuno Stato membro, i
rapporti giuridici interessati dal diritto dell’Unione che coinvolgono i soggetti di tali
ordinamenti. Essi possono contrapporre:
 un soggetto privato e un altro soggetto privato (rapporti orizzontali).
 un soggetto privato e un soggetto pubblico, riconducibile ad un’autorità statale o
pubblica (rapporti verticali).
Il diritto dell’Unione può intervenire su tali rapporti con intensità variabile.
Può darsi che il diritto dell’Unione fornisca, in tutto o in parte, la disciplina di tali rapporti.
Ciò avviene, in particolare, nel campo d’applicazione dei regolamenti, i quali, essendo
direttamente applicabili, costituiscono una fonte che assume valore normativo anche
all’interno degli ordinamenti nazionali, disciplinando un’intera materia e dunque
“sostituendosi” ad eventuali norme interne preesistenti (effetto di sostituzione). Un simile
effetto, benché su scala più limitata, può derivare anche da altre fonti di diritto dell’Unione,
comprese le norme dei trattati e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Il diritto dell’Unione può interessare la disciplina di un rapporto giuridico dettando principi
generali o regole particolari che si limitano ad “impedire l’applicazione” di norme interne
ad esse contrarie (effetto di opposizione). In tal caso, la disciplina del rapporto resta
soggetta al diritto interno, da cui sono espulse solo le norme incompatibili con in diritto
dell’Unione.
a) In entrambi i casi, si suole dire che la norma comunitaria produce effetti diretti, ovvero
gode di efficacia diretta 29 negli ordinamenti interni e quindi nei confronti dei soggetti
riconosciuti da tali ordinamenti. Ciò significa che il soggetto nei cui confronti la norma
dell’Unione produce effetti favorevoli può pretenderne il rispetto da parte dell’altro
soggetto del rapporto (efficacia diretta in senso sostanziale) e anche, in caso di mancato
rispetto, chiederne l’applicazione in giudizio da parte del giudice nazionale, ottenendone la
tutela giurisdizionale (invocabilità in giudizio).
b) L’efficacia diretta non è l’unica forma attraverso cui le norme dell’Unione assumono
rilevanza normativa interna. In presenza di norme prive di effetti diretti, la giurisprudenza
ha individuato almeno 2 forme di efficacia indiretta.
1. Il diritto dell’Unione (anche non direttamente efficace) ha valore interpretativo cogente
rispetto alle norme interne. I giudici nazionali sono soggetti ad un obbligo d’interpretazione
conforme, capace di ovviare a situazioni di apparente (ma non inevitabile) conflitto tra
norme interne e norme dell’Unione.
2. La mancata attuazione di una norma dell’Unione (anche non direttamente efficace) fa
sorgere, in capo a coloro che sono stati danneggiati dalla mancata attuazione, il diritto al
risarcimento del danno a carico dello Stato membro, riconosciuto responsabile.
2. I presupposti dell’efficacia diretta
L’efficacia diretta non è una caratteristica propria di ogni norma dell’Unione.
Pertanto, il giudice nazionale che intenda trarre da una norma effetti diretti al fine di
risolvere una controversia, ha l’onere di verificare d’ufficio se la norma presenti le
caratteristiche necessarie, anche avvalendosi del rinvio pregiudiziale (art 267 TFUE). La
capacità della norma dell’Unione di produrre effetti diretti costituisce questione che attiene
all’interpretazione della norma e rientra dunque nella competenza della Corte di Giustizia.
Nell’indagine volta a stabilire se una norma dell’Unione abbia o meno efficacia diretta, la Corte di
Giustizia individua alcune caratteristiche sostanziali che rendono la norma in questione suscettibile
di essere applicata dal giudice, senza che questo debba sostituirsi al legislatore e assumere compiti
che, in base al principio della separazione dei poteri, non gli spetterebbero. Tali caratteristiche sono
espresse con formule variabili ma ruotano sempre sul concetto di sufficiente precisione e
incondizionatezza della norma.
Nella sentenza C-26/62 Van Gend & Loos, la Corte si esprime a proposito della clausola di standstill
in materia di dazi doganali contenuta nell’allora art 12 TCE: la disposizione in questione pone un
divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di fare, ma di non fare. A questo
obbligo non fa riscontro alcuna facoltà degli Stati membri di subordinare l’efficacia all’emanazione di

29 In passato, la Corte di Giustizia usava indistintamente i termini efficacia diretta e applicabilità diretta. In realtà,
l’applicabilità diretta in senso stretto (non necessità di misure di attuazione da parte degli Stati membri) è riservata
dall’art 288 TFUE ai soli regolamenti. L’efficacia diretta è, invece, una caratteristica che può essere presente anche
in altre fonti del diritto dell’Unione, comprese direttive e decisioni.
un provvedimento di diritto interno. In quanto tale, il divieto è per sua natura perfettamente atto a
produrre effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli Stati membri e i loro amministrati.
Pertanto, Van Gend & Loos ha diritto ad opporsi alla richiesta dell’amministrazione doganale dei Paesi
Bassi di pagare un dazio superiore a quello applicabile al momento dell’entrata in vigore del trattato.

1. Il presupposto della sufficiente precisione riguarda la formulazione della norma:


considerata alla luce del suo scopo e del contesto in cui si inserisce, la norma deve contenere
un precetto sufficientemente definito perché i soggetti destinatari possano comprenderne
la portata e il giudice possa applicarlo nei giudizi di propria competenza. Esso richiede che
la norma comunitaria specifichi i seguenti 3 aspetti:
 il titolare dell’obbligo;
 il titolare del diritto;
 il contenuto del diritto-obbligo creato dalla norma stessa.
Può accadere che una stessa norma dell’Unione sia considerata sufficientemente precisa per
determinati fini e non per altri. L’efficacia diretta può dipendere anche dal contenuto del diritto che
si intende azionare. Nella sentenza C-6-9/90 (Francovich) la Corte di Giustizia ha elaborato un test,
basato su 3 aspetti.
Il Sig. Francovich agiva dinnanzi al Pretore di Bassano del Grappa contro lo Stato italiano per ottenere
il pagamento dell’indennità istituita da una direttiva a vantaggio dei lavoratori, in caso di insolvenza
del datore di lavoro. Malgrado la scadenza del termine, l’Italia non aveva assunto alcuna misura per
l’attuazione della direttiva.
Il giudice italiano chiedeva in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia se la direttiva dovesse essere
interpretata nel senso che gli interessati possano far valere il diritto all’indennità nei confronti dello
Stato, pur in mancanza del provvedimento di attuazione.
Secondo la Corte occorre che la direttiva contenga disposizioni sufficientemente precise sotto 3
aspetti: 1) la determinazione dei beneficiari della garanzia, 2) il contenuto di tale garanzia 3)
l’identità del soggetto tenuto alla garanzia.
La Corte perviene ad una soluzione negativa sul 3° aspetto: la direttiva lasciava aperta l’alternativa tra
porre la garanzia a carico del bilancio dello Stato o di un fondo costituito con i contributi dei datori di
lavoro. Pertanto, la direttiva non ha efficacia diretta.

2. Il presupposto dell’incondizionatezza attiene all’assenza di clausole che subordinino


l’applicazione della norma ad ulteriori interventi normativi (degli Stati membri o delle
istituzioni) o consentano agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità
nell’applicazione.
Nella sentenza C-8/81 (Becker), l’art 13 di una direttiva in materia di IVA obbliga gli Stati membri ad
esonerare dall’imposta varie categorie di operatori, tra cui la concessione e la negoziazione di crediti.
La Sig.ra Becker invoca l’esonero per le operazioni di questo tipo compiute nel periodo tra la scadenza
del termine di attuazione e il momento in cui la direttiva era stata attuata (in ritardo) dalla Germania.
La Corte di Giustizia riconosce che, benché la stessa direttiva implichi incontestabilmente a favore
degli Stati membri un margine di discrezionalità più o meno ampio per l’attuazione di talune delle sue
disposizioni, non si può negare ai singoli il diritto di far valere quelle disposizioni che, tenuto conto del
loro specifico oggetto, sono atte ad essere isolate dal contesto e applicate come tali. Secondo la Corte
le condizioni che gli Stati avrebbero dovuto specificare non riguardano in alcun modo la definizione
del contenuto del previsto esonero.
Ne deriva che uno Stato membro non può opporre ad un contribuente, che sia in grado di provare che
la propria situazione fiscale rientra in una delle categorie di esonero definite dalla direttiva, la mancata
adozione delle disposizioni destinate ad agevolare l’applicazione di tale esonero.
Pertanto, la Sig.ra Becker può far valere l’esenzione senza che lo Stato possa opporre la mancata
attuazione della direttiva.

L’esistenza di norme che consentono agli Stati membri la deroga all’applicazione di un’altra
norma per determinati motivi non esclude per sé l’efficacia diretta di quest’ultima.
Nella sentenza C-41/74 (Van Duyn) la Corte di Giustizia esamina l’art 48 TCE (ora art 45 TFUE), che
garantisce la libera circolazione dei lavoratori, ma fa salve al § 3 le limitazioni giustificate da motivi di
ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica.
La Sig.ra Van Duyn è una cittadina olandese a cui viene negato l’ingresso nel Regno Unito per motivi
di ordine pubblico. Si tratta di accertare se la norma del trattato in questione abbia effetti diretti nei
confronti dei singoli cittadini e dunque se il rifiuto opposto delle autorità inglesi possa essere
impugnato dinnanzi ai giudici inglesi.
Avendo accertato che la disposizione del trattato impone agli Stati membri un obbligo preciso, che
non richiede l’emanazione di alcun ulteriore provvedimento da parte delle istituzioni comunitarie o
degli Stati membri e che non lascia alcuna discrezionalità nella sua attuazione, la Corte afferma altresì
che i provvedimenti nazionali adottati in deroga sono soggetti a controllo giurisdizionale.
Poiché l’ordinamento comunitario si rivolge non solo agli Stati membri, ma anche ai singoli cittadini,
la facoltà degli Stati membri di richiamarsi alla riserva contenuta nell’art 48 non impedisce che le
norme dello stesso articolo con cui si afferma il principio della libera circolazione dei lavoratori
attribuiscano ai singoli diritti soggettivi ch’essi possono far valere in giudizio e che i giudici nazionali
devono tutelare.

La destinatarietà formale della norma è irrilevante ai fini della verifica dell’efficacia diretta:
la circostanza che la norma si rivolga agli Stati membri o alle istituzioni non implica
necessariamente che sia priva di efficacia diretta.
Nella sentenza C-43/75 (Defrenne) la Sig.ra Defrenne invocava la violazione da parte del proprio datore
di lavoro del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di entrambi i sessi (art 157 TFUE).
Interrogata dal giudice belga, la Corte di Giustizia afferma che non si può trarre argomento contro il
riconoscimento dell’efficacia diretta della norma dalla circostanza che essa menzioni espressamente
solo gli Stati membri: ciò non esclude affatto che, al tempo stesso, vengano attribuiti dei diritti ai
singoli interessati all’osservanza degli obblighi previsti dalla norma.

In linea di massima, i presupposti dell’efficacia diretta sono gli stessi per qualunque tipo di
norma dell’Unione rispetto a cui il problema si pone. Nondimeno, le caratteristiche proprie
di ciascuna fonte portano ad alcune differenze di approccio e, talvolta (come nelle direttive)
a soluzioni particolari.
Circa i trattati, alcune disposizioni si riferiscono espressamente ai singoli.
Un esempio è dato dalle norme in materia di concorrenza (in particolare, gli artt 101 e 102 TFUE, che
vietano alcuni comportamenti delle imprese: queste norme sono senz’altro direttamente efficaci, nel
senso che sono direttamente opponibili alle imprese interessate).
Le norme dei trattati producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali (nei confronti di
un’autorità pubblica: efficacia diretta verticale) quanto nei rapporti orizzontali (nei
confronti di un privato: efficacia diretta orizzontale)
Il problema dell’efficacia diretta si pone anche riguardo agli accordi internazionali conclusi
dalla Comunità (o dall’Unione) con Stati terzi (art 216 TFUE).
I soggetti privati possono essere interessati a far valere la disciplina contenuta in tali accordi, per
contestare la legittimità di comportamenti o di provvedimenti degli Stati membri o delle istituzioni. Si
pensi agli accordi che prevedono per le merci provenienti dallo Stato terzo contraente un regime
d’importazione di favore o estendono ai cittadini di quello Stato la libera circolazione.
Qui la verifica svolta dalla Corte di Giustizia per decidere circa l’efficacia diretta si
caratterizza per una particolare attenzione rivolta al contesto. L’analisi si svolge in 2 tempi:
1. dimostrare che natura e struttura dell’accordo permettono di riconoscere effetti diretti
alle sue disposizioni in generale;
2. provare che la specifica disposizione invocata presenti i caratteri di sufficiente precisione
e incondizionatezza.
Per quanto riguarda l’Accordo istitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) firmato
a Marrakech (1994), la Corte ha sempre ritenuto le disposizioni in esso contenute non idonee a creare
in capo ai singoli diritti che questi possano invocare direttamente dinnanzi al giudice ai sensi del diritto
comunitario.
Tuttavia, taluni effetti diretti possono essere riconosciuti su aspetti coperti dagli accordi OMC di
competenza degli Stati membri o a competenza mista e rispetto ai quali l’Unione non ha ancora
adottato una propria disciplina. È il caso della sentenza C-431/05, Merck, relativa ai diritti di brevetto,
oggetto di uno degli specifici accordi OMC, l’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale
attinenti al commercio (cd Accordo TRIP).

Riguardo ai regolamenti, il problema dell’efficacia diretta ha (in genere) scarsa consistenza:


la caratteristica della diretta applicabilità implica che, normalmente, le disposizioni dei
regolamenti siano anche capaci di produrre effetti diretti.
Tale principio generale subisce un’attenuazione nel caso di regolamenti che richiedono l’emanazione
da parte degli Stati membri di provvedimenti di integrazione o di esecuzione. In tal caso, in assenza di
provvedimenti nazionali, occorre verificare che la disposizione regolamentare presenti i presupposti
della sufficiente precisione e della incondizionatezza.
Nella sentenza C-394/12 (Abdullahi), la Corte di Giustizia ha escluso che le norme contenute nel
regolamento (343/2003) sui criteri di determinazione dello Stato membro competente per l’esame
della domanda di asilo possano essere poste a fondamento di un’azione dei singoli dinanzi al giudice
nazionale allo scopo di contestare la decisione di presa in carico da parte di uno Stato membro.
Una cittadina somala, entrata nel territorio UE attraverso la Grecia, la Serbia e l’Ungheria, aveva
impugnato la decisione dell’Austria di consegna alle autorità ungheresi, le quali si consideravano
competenti ad esaminare la richiesta di asilo in base al criterio della priorità dell’ingresso.
Secondo la Corte (salvi i diritti fondamentali di cui all’art 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE
e all’art 3 CEDU) i richiedenti asilo non possono invocare dinanzi al giudice nazionale le norme del
regolamento, in quanto esso contempla regole di carattere organizzativo che disciplinano i rapporti
tra gli Stati membri. Inoltre, occorre salvaguardare le prerogative degli Stati membri nell’esercizio del
diritto di concedere l’asilo.
Pertanto, il regolamento in questione attribuisce agli Stati membri un ampio potere discrezionale e
richiede misure di esecuzione, consentendo altresì agli Stati membri di stipulare accordi bilaterali sulle
modalità pratiche di esecuzione, che prevedano procedure di conciliazione in caso di disaccordo nel
cui ambito non è nemmeno previsto che il richiedente asilo sia sentito.

Anche i regolamenti producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali (efficacia diretta
verticale) quanto nei rapporti orizzontali (efficacia diretta orizzontale).
3. Segue: casi particolari (direttive, decisioni, atti degli ex pilastri non comunitari)
Il problema dell’efficacia diretta delle direttive si pone in termini parzialmente diversi.
Per quanto riguarda i presupposti sostanziali, anche le direttive devono presentare caratteri
di sufficiente precisione e incondizionatezza. Le differenze riguardano il momento a partire
dal quale l’efficacia diretta si produce e i soggetti nei cui confronti può essere fatta valere.
1. Per quanto riguarda la portata temporale, occorre tenere presente che, per sua natura,
la direttiva non è concepita come fonte di effetti diretti. La disciplina dei rapporti giuridici
interni che rientrano nel suo oggetto non è posta dalla direttiva stessa, ma dalle norme di
attuazione emanate da ciascuno Stato membro. Di regola, le direttive hanno dunque
un’efficacia normativa interna meramente indiretta o mediata.
Nondimeno capita spesso che gli Stati membri attuino le direttive in ritardo o in forme non
corrette o insufficienti, in modo da impedire (in tutto o in parte) il raggiungimento del
risultato voluto. In tali ipotesi (attinenti alla “patologia” del meccanismo di attuazione delle
direttive), si pone il problema di stabilire se, nonostante la mancanza o l’insufficienza delle
misure nazionali, la direttiva possa produrre effetti diretti. In ogni caso, di ciò non può
parlarsi se non dopo la scadenza del termine per l’attuazione concesso agli Stati membri.
Prima di questo momento la direttiva non può (né intende) produrre altri effetti giuridici
che quello di obbligare gli Stati membri ad attuarla.
2. La seconda differenza riguarda la portata soggettiva.
La giurisprudenza ha riconosciuto anche alle direttive inattuate la possibilità di produrre
effetti diretti, attraverso un percorso argomentativo vario, ma coerente nel sottolineare il
nesso tra efficacia diretta e violazione dell’obbligo d’attuazione gravante sugli Stati membri.
Poiché l’efficacia interna della direttiva inattuata consegue dalla sua obbligatorietà nei confronti degli
Stati membri, la Corte di Giustizia ha limitato tale efficacia ai soli rapporti verticali e, più
specificamente, quando la direttiva è invocata da un soggetto privato contro un’autorità pubblica.
Ogni autorità pubblica è tenuta, nel proprio ambito di competenza, ad attuare la direttiva, ai sensi
dell’art 288, comma 3 TFUE. Ad essa è perciò possibile rimproverare di non averlo fatto. Viceversa, la
direttiva inattuata, anche qualora contenga disposizioni sufficientemente precise e incondizionate,
non può produrre effetti diretti nei rapporti orizzontali, in quanto i soggetti privati non possono
essere considerati responsabili della mancata attuazione.
Allo stesso risultato si può arrivare anche argomentando, come fa talvolta la giurisprudenza, dal
principio della certezza del diritto: tale principio sarebbe violato se ai singoli si imponessero obblighi
in base ad una direttiva inattuata, non essendo essi in grado di conoscerne con sufficiente certezza la
portata.
La direttiva ha solo efficacia diretta verticale, mentre è priva di efficacia se è invocata:
a) da un soggetto pubblico contro un soggetto privato (cd rapporti verticali invertiti);
b) da un soggetto privato contro un altro soggetto privato (rapporti orizzontali).
Poiché le direttive inattuate non hanno efficacia diretta orizzontale, risulta determinante stabilire se
il soggetto verso si intende invocare la direttiva è un soggetto pubblico o un soggetto privato.
Per rispondere al quesito, la Corte di Giustizia rovescia la visione unitaria di Stato che è caratteristica
dei rapporti (di tipo internazionalistico) tra Stati membri e tra Stati membri e Comunità: l’obbligo di
attuare la direttiva non incombe solo sugli organi dello Stato centrale ma anche su qualsiasi
articolazione della struttura pubblica, indipendentemente dall’ipotesi che si tratti di entità dotate di
poteri autoritativi o di entità che agiscano con gli strumenti dell’autonomia privata. È pacifico che una
direttiva inattuata possa essere invocata nei confronti di autorità fiscali, delle autorità di polizia e della
magistratura, delle autorità competenti in materia di immigrazione.
Il rifiuto di riconoscere l’efficacia diretta orizzontale di una direttiva inattuata è oggetto di molte
critiche da parte della dottrina.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia, postulando che una stessa norma di una direttiva possa o
meno produrre effetti diretti a seconda del contesto in cui viene invocata, nega che l’efficacia diretta
sia una qualità obiettiva della norma stessa, ma le attribuisce un carattere “variabile” caso per caso.
Ad esempio, una direttiva in materia di lavoro potrebbe essere considerata, a parità di tutte le altre
circostanze, direttamente efficace o meno a seconda che sia invocata da un dipendente pubblico o da
un dipendente privato. Si dà così vita ad una forma di discriminazione, la cui inaccettabilità non è
attenuata dalla constatazione che la responsabilità della stessa ricade sullo Stato membro e sulla sua
mancata attuazione della direttiva.
La Corte di Giustizia è ben cosciente delle difficoltà che la sua giurisprudenza in materia solleva e cerca
di limitare i casi in cui essa trova applicazione.
Un atteggiamento che, di fatto, potrebbe ridurre la rilevanza della distinzione tra efficacia diretta
verticale ed efficacia diretta orizzontale consiste nel non sollevare d’ufficio la questione qualora la
situazione che ha indotto il giudice nazionale ad adire la Corte in via pregiudiziale sembri riguardare
rapporti orizzontali o verticali invertiti. In assenza di questione pregiudiziale, infatti, la Corte ritiene di
doversi comunque pronunciare sull’interpretazione della direttiva e sulla sua idoneità in abstracto a
produrre effetti diretti, senza porsi il problema del se tali effetti possano essere fatti valere nel
contesto di un giudizio a quo.
La Corte ha poi ammesso la produzione di effetti diretti di una direttiva inattuata in varie situazioni
che sembrano riguardare rapporti verticali inversi o addirittura rapporti orizzontali. Si tratta di
eccezioni al principio giurisprudenziale.
In situazioni che si potrebbero definire rapporti triangolari, un privato invoca l’applicazione di una
direttiva inattuata verso un organo pubblico, a titolo principale, ma anche verso altri soggetti privati
(controinteressati, in quanto la loro posizione verrebbe implicata dall’applicazione della direttiva). In
tal caso, la Corte non sembra considerare il pregiudizio indirettamente subìto dai soggetti privati
controinteressati (cd side-effects: mere ripercussioni negative) come circostanza preclusiva alla
produzione di effetti diretti da parte della direttiva.
direttive che sottopongono le misure degli Stati membri ad una procedura di controllo. Tali direttive
non attribuiscono diritti a soggetti privati né riguardano la disciplina delle loro relazioni contrattuali,
ma prescrivono adempimenti a carico degli Stati membri. La mancata attuazione della direttiva non
influisce sulla disciplina di rapporti interprivati se non indirettamente, nel senso di precludere
l’applicazione di una normativa o di un provvedimento interno emanato in violazione delle procedure
di controllo (effetto di opposizione: il diritto dell’Unione non sostituisce la norma interna, che continua
a disciplinare il rapporto, salvo le norme incompatibili). In tal caso, secondo la Corte, la direttiva non
crea né diritti né obblighi per i singoli e dunque può essere applicata dal giudice, senza che si possa
parlare di efficacia diretta orizzontale.
Nella sentenza C-443/98 (Unilever), Central Food rifiuta di pagare a Unilever una fornitura di olio
d’oliva la cui etichetta non era conforme alla normativa italiana, mentre Unilever sosteneva che
Central Food non potesse opporre tale normativa, in quanto pur essendo stata prevista in attuazione
della direttiva non era stata notificata alla Commissione. Interrogata dal pretore di Milano, la Corte di
Giustizia ritiene che la violazione in questione costituisce un vizio procedurale sostanziale, che
comporta l’inapplicabilità della normativa italiana. Inoltre, la direttiva non definisce in alcun modo il
contenuto sostanziale della norma giuridica sulla base della quale in giudice nazionale deve risolvere
la controversia dinanzi ad esso pendente. Pertanto, il giudice nazionale può disapplicare la normativa
italiana adottata in violazione della normativa.
direttive utilizzate come parametro di valutazione di condotte individuali (anche di privati) per effetto
di un rinvio da parte di un regolamento dell’Unione. In tal caso, la direttiva non rileva in sé, ma solo
in quanto integra la disciplina del regolamento (che è direttamente e generalmente efficace).
Nella sentenza C-37-58/06 (Viamex Agrar Handel) la Corte riconosce che sebbene una direttiva non
possa creare obblighi a carico dei singoli, in via di principio non può essere escluso che le disposizioni
di una direttiva possano trovare applicazione tramite un rinvio esplicito di un regolamento alle sue
disposizioni. Nel caso, un privato contestava il diniego opposto dall’amministrazione doganale tedesca
in merito al sorgere, a suo favore, del diritto a ottenere restituzioni in un caso di esportazione di bovini
vivi verso il Libano. L’amministrazione tedesca invocava il mancato rispetto delle disposizioni sul
benessere degli animali durante il trasporto previste da una direttiva e richiamate dal regolamento
rilevante. Secondo la Corte il mancato rispetto della direttiva può essere eccepito
dall’amministrazione doganale nei confronti del singolo (rapporti verticali invertiti).
direttive che attuano un principio generale del diritto o un diritto fondamentale. Una soluzione del
genere è stata adottata dalla Corte in casi in cui dinanzi al giudice nazionale rilevi un principio generale
del diritto dell’Unione, al quale una direttiva si limiti a dare espressione concreta, disciplinandone le
condizioni d’esercizio.
Raramente la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’efficacia diretta delle decisioni: di
recente, però, ha avuto occasione di precisare che ad esse si applicano le stesse limitazioni
individuate a proposito delle direttive.
A qualche incertezza può dar luogo la giurisprudenza sulle decisioni in materia di aiuti alle imprese.
Spesso tali decisioni prescrivono al destinatario (Stato membro) l’obbligo di pretendere dalle imprese
beneficiarie la restituzione degli aiuti erogati. Tale obbligo si collega all’art 108, § 3 TFUE, da cui si
evince il divieto di erogare aiuti non previamente autorizzati dalla Commissione.
In situazioni del genere, lo Stato membro può opporre alle imprese l’obbligo di recupero derivante
dalla decisione, creando un (apparente) effetto verticale inverso: l’effetto per le imprese non deriva
dalla decisione in sé (la quale è rivolta allo Stato membro), ma dai provvedimenti di attuazione che lo
Stato membro è tenuto ad assumere in base al trattato.

Per gli atti delle istituzioni emanati nell’ambito dell’III pilastro (cooperazione di polizia e
cooperazione giudiziaria in materia penale), prima del Trattato di Lisbona, l’art 34, § 2 TUE
escludeva espressamente che decisioni-quadro e decisioni avessero efficacia diretta.
Verosimilmente, nemmeno gli atti appartenenti alle altre categorie di cui all’art 34 TUE o gli
atti del settore PESC erano idonei a produrre effetti diretti.
Anche dopo il Trattato di Lisbona, il Protocollo 36 (disposizioni transitorie) sembra
confermare la mancanza di effetti diretti prevista dall’art 34, § 2 TUE: gli effetti giuridici degli
atti adottati nell’ambito dei pilastri non comunitari sono mantenuti finché tali atti non
saranno abrogati, annullati o modificati in applicazione dei trattati.
4. L’obbligo di interpretazione conforme
Esistono numerosi motivi che possono escludere l’efficacia diretta di una norma dell’Unione. La norma
potrebbe mancare di sufficiente precisione e incondizionatezza. Qualora la norma sia contenuta in
una direttiva inattuata, potrebbe non essere invocabile perché il soggetto che ne trarrebbe svantaggio
è un privato. In tal caso, occorre domandarsi se la norma dell’Unione possa nondimeno assumere un
valore normativo indiretto nell’ordinamento degli Stati membri e debba perciò essere presa in
considerazione dal giudice nel risolvere una controversia.
L’individuazione di forme di efficacia indiretta del diritto dell’Unione è stata valorizzata in particolare
rispetto alle direttive, considerati i limiti temporali e i limiti soggettivi degli effetti diretti che tali atti
possono conseguire. Anzi, può dirsi che il ricorso alle forme di efficacia indiretta è un ulteriore modo
utilizzato dalla Corte di Giustizia per attenuare gli inconvenienti derivanti dalla giurisprudenza sulla
mancanza di effetti diretti orizzontali.
La prima forma di efficacia indiretta consiste nell’obbligo di interpretazione conforme:
nell’applicare le norme interne, gli operatori giuridici (e i giudici) sono tenuti ad
interpretarle, ove possibile, in conformità con il diritto dell’Unione, anche se questo non ha
efficacia diretta.
Si tratta di un’applicazione specifica dell’obbligo di leale collaborazione (art 4, § 3 TUE). In
quanto organi dello Stato membro, i giudici sono tenuti a fare il possibile perché il risultato
voluto dalla direttiva sia raggiunto.
La differenza tra efficacia diretta e interpretazione conforme sta nel fatto che, mentre nel primo caso
il giudice disapplica la norma interna confliggente con la norma dell’Unione, nel secondo egli applica
la norma, ma la interpreta in modo aderente a quella dell’Unione.
L’obbligo d’interpretazione conforme è stato affermato anzitutto quando il giudice
nazionale si trova a dover interpretare e applicare le disposizioni che lo Stato membro ha
specificamente adottato per attuare una direttiva. In tal caso, si presume che lo Stato
membro abbia inteso adempiere pienamente agli obblighi derivanti dalla direttiva. In
seguito, l’obbligo d’interpretazione conforme è stato esteso anche a disposizioni nazionali
preesistenti rispetto alla direttiva e dunque prive di qualunque legame funzionale con essa.
Da ultimo, la Corte di Giustizia ha dichiarato che l’obbligo in questione riguarda tutto il
diritto nazionale, senza alcuna distinzione.
L’interpretazione conforme è considerata anche dalla Corte costituzionale italiana come un metodo
per la soluzione dei conflitti tra norma interna e norma dell’Unione: nella sentenza 170/84 (Granital),
la Corte parla di presunzione di conformità della legge interna al regolamento comunitario, che il
giudice deve applicare ancor prima di valutare se il regolamento debba essere applicato direttamente.
Secondo la giurisprudenza, l’obbligo d’interpretazione conforme incontra alcuni limiti.
1. l’obbligo presuppone l’esistenza di un margine di discrezionalità che consenta
all’interprete di scegliere tra più interpretazioni possibili della norma interna. Solo in questo
caso, sorge l’obbligo di scegliere l’interpretazione maggiormente conforme alle esigenze del
diritto dell’Unione.
Se la norma interna è inequivocabilmente contraria alla norma dell’Unione, ma questa è priva di
efficacia diretta, l’obbligo d’interpretazione conforme non sussiste: tale obbligo, non può servire da
fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (C-212/2004 Adeneler).
2. un limite di carattere temporale: l’obbligo non sorge prima della scadenza del termine di
attuazione della direttiva in questione.
Nella sentenza C-212/2004 (Adeneler), il Sig. Adeneler e diversi suoi colleghi erano stati assunti nella
Pubblica Amministrazione greca con numerosi contratti successivi a tempo determinato. Tale prassi
era palesemente contraria alla direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato 30 . Gli attori
chiedevano che l’amministrazione greca fosse condannata all’assunzione a tempo indeterminato. La
Corte di Giustizia ricorda al giudice greco l’obbligo di interpretazione conforme, ma precisa: nel caso
di tardiva attuazione di una direttiva, l’obbligo generale che incombe sui giudici nazionali di
interpretare il diritto interno in modo conforme alla direttiva esiste solo a partire dalla scadenza del
termine di attuazione di quest’ultima.

3. nel riferirsi al contenuto delle direttive per interpretare il diritto interno in modo
conforme al diritto dell’Unione, il giudice nazionale deve osservare i principi generali del
diritto (compresa i diritti fondamentali, di cui alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE) e,
in particolare, quelli della certezza del diritto e dell’irretroattività.

30oggetto anche della ordinanza 207/2013 della Corte costituzionale italiana, con cui veniva sollevata per la prima
volta questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia nel corso di un giudizio incidentale.
Ciò implica che in campo penale l’interpretazione conforme non può portare ad un
aggravamento della responsabilità penale degli individui, creando nuove ipotesi di reato o
estendendo il campo di applicazione di quelle già previste dall’ordinamento interno (una
direttiva non può avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno
Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità
penale di coloro che agiscano in violazione delle sue disposizioni).
5. Il risarcimento del danno
Un’altra forma di efficacia indiretta: la norma dell’Unione, anche se non direttamente
efficace, può essere fonte di un diritto al risarcimento del danno.
Nella sentenza C-46-48/93 Brasserie du Pêcheur la Corte ritiene la responsabilità dello Stato per danni
causati ai singoli in violazione del diritto comunitario come inerente al sistema del Trattato.
Nel caso di specie, il danno lamentato derivava dall’applicazione da parte delle autorità tedesche di
una legislazione in materia di birra, che impediva l’importazione in Germania di birre prodotte in altri
Stati membri e costituiva una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa, vietata
dall’art 34 TFUE. La Brasserie du Pêcheur affermava di aver subito danni a causa degli ostacoli frapposti
dalle autorità tedesche all’importazione delle birre di sua fabbricazione e ne chiedeva il risarcimento.

Non vi è dubbio che, qualora gli organi di uno Stato membro ledano il diritto attribuito ad
un singolo da una norma dell’Unione direttamente efficace, provocando un danno, tali
organi siano tenuti al risarcimento.
Più problematica è l’ipotesi di mancata attuazione di una direttiva priva di efficacia diretta.
In tal caso, il comportamento omissivo degli organi statali impedisce il sorgere stesso del
diritto che la direttiva intendeva garantire ai singoli, per cui il pregiudizio subìto non si
rapporta alla lesione di un diritto già sorto, ma ne precede il sorgere. In questo senso, si può
parlare di efficacia indiretta della direttiva: il diritto al risarcimento non costituisce
un’integrazione o un’alternativa rispetto a un diritto principale, ma è un diritto autonomo
(che presuppone l’inadempimento dell’obbligo di attuazione dello Stato membro).
Le condizioni definite dalla giurisprudenza perché il diritto al risarcimento sorga sono:
1) la norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli danneggiati, il cui contenuto
possa essere individuato in base alla norma stessa;
2) la violazione deve essere sufficientemente grave e manifesta;
La Corte di Giustizia ritiene tale condizione automaticamente soddisfatta nei casi in cui la norma
dell’Unione non lasci allo Stato membro alcun apprezzabile margine di discrezionalità. In particolare,
si tratta del caso della direttiva inattuata.
3) tra la violazione e il danno deve esistere un nesso di causalità diretto.
Quanto agli organi che, con il loro comportamento (commissivo o omissivo) possono
mettere in gioco la responsabilità dello Stato membro, la Corte ha riconosciuto che può
trattarsi degli organi legislativi di uno Stato, di autorità fiscali, casse previdenziali, enti locali,
ma anche il potere giudiziario.
Le condizioni formali e sostanziali per l’esercizio del diritto al risarcimento, compresa la
definizione del giudice competente, dipendono dalle varie legislazioni nazionali, salvo il
rispetto dei limiti che tali legislazioni devono osservare quando si applicano ad azioni aventi
ad oggetto diritti che trovano la loro fonte in norme dell’Unione.
6. La tutela processuale dei diritti derivanti da norme dell’Unione
Le norme dell’Unione possono essere invocate, direttamente o indirettamente, di fronte ai
giudici nazionali, per ottenere la tutela giurisdizionale delle posizioni create in loro favore.
Ci si deve chiedere quali siano le forme e i modi attraverso cui ciò possa avvenire: occorre
quindi stabilire quale fonte regoli gli aspetti processuali attinenti all’esercizio del diritto
dell’Unione (termini di prescrizione o decadenza, giudice competente, domande proponibili,
oneri processuali da soddisfare e ripartizione dell’onere della prova).
In linea di massima, salvo eventuali interventi di armonizzazione, la definizione degli aspetti
processuali spetta all’ordinamento nazionale dello Stato membro nel cui ambito la norma
dell’Unione è azionata (cd principio dell’autonomia processuale degli Stati membri).
Tuttavia, non sempre le norme processuali nazionali possono essere applicate alle azioni
esercitate per la tutela di diritti originati da una fonte dell’Unione. Le condizioni perché il
principio possa valere sono 2:
1. le modalità definite dal diritto nazionale per l’esercizio di posizioni che derivano
dal diritto dell’Unione non possono essere meno favorevoli di quelle applicate per
la protezione in via giudiziaria di posizioni analoghe, di origine puramente interna
(principio di equivalenza: una specificazione del principio di non discriminazione);
2. le modalità non possono essere tali da rendere praticamente impossibile o
eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti derivanti da norme dell’Unione
(principio di effettività: collegato al diritto alla tutela giurisdizionale effettiva).
Le 2 condizioni sono cumulative. In particolare, il solo fatto che una determinata modalità
processuale sia applicabile indistintamente a posizioni derivanti dal diritto dell’Unione o
fondate su norme interne, non esime il giudice dell’esaminare se la modalità stessa non violi
il principio dell’effettività.
I limiti al principio di autonomia processuale si applicano anche alle azioni volte ad ottenere il
risarcimento del danno imputabile agli organi statali per violazione del diritto dell’Unione.
Nella sentenza C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo), la Corte di Giustizia nega che la disciplina
italiana sulla responsabilità dei magistrati (legge 117/88 sul risarcimento dei danni cagionati
nell'esercizio delle funzioni giudiziarie) risponda al principio di effettività.
Traghetti del Mediterraneo propone azione di risarcimento, accusando Tirrenia di aver ricevuto dallo
Stato italiano aiuti pubblici (artt 107 e 108 TFUE). L’azione è rigettata in tutti i gradi di impugnazione.
In particolare, la Corte di Cassazione nell’escludere si trattasse di aiuti di stato, tralascia di effettuare
rinvio pregiudiziale, nonostante sia previsto l’obbligo di rinvio per i giudici di ultima istanza. Convinta
che la sentenza fosse contraria al diritto dell’Unione (sulla scorta di una recente sentenza della Corte
di Giustizia), Traghetti del Mediterraneo proponeva azione di risarcimento ai sensi della legge 117/88.
Essendo le condizioni per ottenere il risarcimento estremamente restrittive, il giudice nazionale
propone questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Secondo la Corte, il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera
generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito della violazione
del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la
violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei
fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.
Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale
responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad
escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata
commessa una violazione manifesta del diritto vigente.
7. Il primato del diritto dell’Unione
La capacità del diritto dell’Unione di produrre effetti diretti all’interno degli ordinamenti
degli Stati membri pone il problema dei conflitti che possono sorgere tra norma dell’Unione
e norme interne incompatibili. Molto spesso, infatti, la norma dell’Unione ha per oggetto
materie e aspetti in precedenza già disciplinati da norme interne di contenuto diverso. Può
anche accadere che il conflitto sorga con una norma interna sopravvenuta.
Tali conflitti sono risolti in base al principio del primato del diritto dell’Unione, secondo cui
le norme nazionali non possono in alcun modo ostacolare l’applicazione del diritto
dell’Unione all’interno degli ordinamenti degli Stati membri: quando la norma dell’Unione
direttamente efficace incontra una norma interna incompatibile, che ne impedisce in tutto
o in parte l’applicazione, il principio del primato impone che la prima prevalga sulla seconda.
Da un punto di vista logico, il principio del primato si salda con quello dell’efficacia diretta:
se l’efficacia diretta non si accompagnasse al primato, la norma dell’Unione non potrebbe
concretamente creare diritti in capo ai soggetti di quegli ordinamenti degli Stati membri in
cui fossero presenti norme interne incompatibili. Inoltre, l’efficacia della norma dell’Unione
varierebbe da uno Stato membro all’altro: la medesima norma potrebbe applicarsi
direttamente in un primo Stato, in cui non vi sia alcuna norma interna contrastante, ma non
verrebbe applicata affatto o solo parzialmente in un secondo Stato, in cui siano presenti
norme incompatibili. Una situazione del genere sarebbe inaccettabile. È infatti un’esigenza
fondamentale dell’ordinamento dell’Unione che le sue norme siano applicate in modo
uniforme in tutti gli Stati membri.
Che una norma dell’Unione sia priva di effetti diretti non significa che abbia una minor forza
obbligatoria nei confronti dagli Stati membri: la violazione di una tale norma può essere comunque
oggetto di un ricorso per infrazione (artt 258 e ss. TFUE).
Secondo la Corte costituzionale, una norma dell’Unione priva di effetti diretti rientra nella nozione di
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario che limita la potestà legislativa dello Stato e delle
Regioni. (art 117, comma 1 Cost).
Nella sentenza 227/10 (MKP) la Corte è chiamata a pronunciarsi su un’eccezione di costituzionalità
della legge di attuazione della decisione-quadro sul mandato d’arresto europeo.
La Corte afferma che gli atti nazionali che danno attuazione ad una decisione-quadro con base
giuridica nel TUE ed in particolare nell’ex III pilastro relativo alla cooperazione giudiziaria in materia
penale, non sono sottratti alla verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme del TCE (ora TFUE)
che integrano a loro volta parametri costituzionali (artt 11 e 117, comma 1 Cost) che a quelle norme
fanno rinvio.

A cedere di fronte al diritto dell’Unione sono le norme interne di qualunque rango. Non si
può distinguere tra norme di carattere amministrativo, legislativo o costituzionale.
Diversamente, l’efficacia della norma dell’Unione varierebbe in funzione del rango delle
norme interne che regolano nei vari Stati la stessa materia oggetto della norma dell’Unione.
Il principio del primato si è affermato in via giurisprudenziale. Esso è stato esplicitato per a
prima volta dalla Corte di Giustizia nella sentenza C-6/64 Costa vs ENEL.
La legge italiana di nazionalizzazione dell’energia elettrica, di cui il Sig. Costa contestava la
compatibilità con alcuni articoli del TCE, era successiva alla legge contenente l’ordine di esecuzione
del trattato stesso. Il Governo italiano sosteneva l’inammissibilità della questione pregiudiziale
sollevata dal giudice conciliatore di Milano, affermando che il giudice nazionale è comunque tenuto
ad applicare la legge interna.
Secondo la Corte di Giustizia, l’integrazione del diritto dell’Unione nell’ordinamento interno di ciascun
Stato membro ha per corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento
giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale
pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune. Se l’efficacia del diritto comunitario variasse
da uno Stato all’altro, in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo l’attuazione
degli scopi del Trattato (…). Scaturito da una fonte autonoma, il diritto originato dal trattato non
potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento
interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risulti scosso il fondamento
stesso della Comunità. Pertanto, un atto statale successivo al trattato ma con esso incompatibile
sarebbe del tutto privo di efficacia.
Un’importante manifestazione del principio del primato si trova nella sentenza C-119/05 (Lucchini): la
norma interna in esame era l’art 2909 c.c.
Lucchini aveva ottenuto da una sentenza d’appello divenuta definitiva (in quanto non impugnata) il
riconoscimento del suo diritto a ricevere una sovvenzione del Ministero dell’Industria, la quale le era
stata effettivamente versata. Tuttavia, una decisione della Commissione aveva nel frattempo stabilito
che la sovvenzione percepita da Lucchini costituiva un aiuto di Stato (vietato dall’art 107 TFUE). Tale
decisione, benché già emanata, non era stata presa in considerazione dalla sentenza. In seguito, il
Ministero adottava un provvedimento che chiedeva il rimborso della sovvenzione percepita, a cui
Lucchini si opponeva, invocando la definitività della sentenza d’appello.
Il Consiglio di Stato, solleva questione pregiudiziale. La Corte di Giustizia, dopo aver ricordato che il
giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme del diritto
comunitario ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di
propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, afferma anche che
il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione di diritto nazionale, come l’art 2909 del
codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui
l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con
il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione
della Commissione divenuta definitiva.

Il principio del primato può incontrare un limite nel caso di contrasto tra norme dell’Unione
e norme nazionali necessarie per assicurare la tutela di diritti fondamentali garantiti
dall’ordinamento dell’Unione.
La Corte di Giustizia (C-500/10 Belvedere Costruzioni) ha confermato ciò con riguardo alla normativa
italiana che prevede l’estinzione automatica del procedimento in materia tributaria ove questo abbia
avuto una durata ultradecennale e l’amministrazione sia risultata soccombente ne primi due gradi di
giudizio. La normativa italiana garantiva, in conformità all’art 47, comma 2 Carta dei diritti
fondamentali dell’UE e all’art 6, § 1 CEDU, il rispetto della durata ragionevole del processo. D’altra
parte, ciò rendeva meno agevole la riscossione di tributi destinati al bilancio dell’Unione (IVA),
ponendosi in contrasto con gli obblighi gravanti sugli Stati membri in proposito. Secondo la Corte
l’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse non può contrastare con il rispetto del
principio del termine ragionevole di un giudizio il quale, in forza dell’art 47, comma 2 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto
dell’Unione e la cui tutela s’impone anche in forza dell’art 6, §1 CEDU.
Il Trattato che adotta una costituzione per l’Europa riprendeva il principio del primato in una norma
(art I-6: la Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio della competenza
a questa attribuita, prevalgono sul diritto degli Stati membri).
Il Trattato di Lisbona ha invece escluso l’inserimento nei trattati di una norma corrispondente. La
rinuncia a sancire normativamente il principio del primato rientrava nella strategia volta a de-
costituzionalizzare la riforma. Al suo posto, la Dichiarazione 17, allegata all’Atto finale del Trattato
recita: la conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di Giustizia dell’UE, i trattati
e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle
condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza. Inoltre, il fatto che il principio della
preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l’esistenza del principio
stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di Giustizia.
Ancorandosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la Dichiarazione potrebbe essere letta come
la volontà di “cristallizzare” il principio del primato e non estenderne la portata a settori in cui non era
stato ancora riconosciuto: il settore PESC e l’ex III pilastro (cooperazione di polizia e cooperazione
giudiziaria in materia penale), dove il vecchio art 34 TUE esclude che le decisioni-quadro e le decisioni
abbiano effetti diretti. Pertanto, manca ad oggi una giurisprudenza che riconosca anche ad atti del
genere il principio del primato sul diritto interno incompatibile.

Nella sentenza C-106/77 (Simmenthal), a fronte delle incertezze manifestate dalla


giurisprudenza di alcuni giudici nazionali (in particolare, della Corte costituzionale italiana),
la Corte di Giustizia precisa meglio la portata della sentenza Costa vs ENEL: l’ordinamento
dell’Unione non solo impone il primato sulla norma interna incompatibile, ma determina
altresì le modalità attraverso cui tale prevalenza deve trovare applicazione e l’organo
competente a farla valere. Se si ammettesse che ciascun ordinamento nazionale fosse
libero di determinare in quali modi e procedimenti applicare il principio del primato, il
carattere uniforme della norma dell’Unione verrebbe meno, in quanto i suoi effetti si
produrrebbero in tempi e modi variabili da uno Stato membro ad un altro.
Simmenthal chiedeva la restituzione di alcuni diritti di visita sanitaria riscossi dall’amministrazione
italiana in occasione dell’importazione di carni bovine originarie dell’Unione: tali diritti costituivano
delle tasse di effetto equivalente a un dazio doganale ed erano pertanto vietati da un regolamento.
Tuttavia, per accogliere la domanda di Simmenthal, il Pretore di Susa avrebbe dovuto prima
disapplicare le norme italiane (successive al regolamento) che prevedevano la riscossione di tali diritti.
Ora, anche tenendo conto della giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 232/75, Industrie
Chimiche), il giudice nazionale chiede in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia se la diretta
applicabilità delle norme comunitarie vada intesa nel senso che eventuali disposizioni nazionali
successive con esse contrastanti vanno immediatamente disapplicate senza che si debba attendere la
loro rimozione ad opera dello stesso legislatore nazionale (abrogazione) o di altri organi costituzionali
(dichiarazione di incostituzionalità).
La Corte di Giustizia afferma che il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria
competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali
norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della
legislazione nazionale, anche se posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione
in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.
Non possono dunque essere ammesse costruzioni normative o giurisprudenziali volte a sottrarre al
giudice ordinario il potere di disapplicare immediatamente le norme interne incompatibili con il diritto
dell’Unione, per riservarlo ad organi diversi (in particolare, la Corte costituzionale riteneva necessaria
la dichiarazione d’incostituzionalità).
Analogamente, risultava incompatibile con il principio del primato la prassi giurisprudenziale tedesca
per cui, per ragioni di tutela del legittimo affidamento dei soggetti coinvolti, si preveda che, nei giudizi
tra privati, la disapplicazione della norma avvenisse solo dopo aver effettuato un rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia (art 267 TFUE) sull’interpretazione della norma dell’Unione in questione.
La Corte di Giustizia è stata spesso interrogata sullo status della norma interna
incompatibile con quella dell’Unione e pertanto destinata ad essere disapplicata.
In un passaggio della sentenza Simmenthal la Corte di Giustizia sembra voler delineare
l’esistenza di un rapporto gerarchico tra ordinamento dell’Unione e ordinamenti degli Stati
membri, tale da provocare l’invalidità della norma interna incompatibile.
L’orientamento attuale della Corte di Giustizia ritiene che il fenomeno della disapplicazione
in conseguenza del principio del primato non postula che la norma interna incompatibile
debba essere considerata invalida. Le eventuali conseguenze sul piano della costituzionalità
della norma interna e dunque la necessità di farne dichiarare l’incostituzionalità secondo le
procedure previste da ciascun ordinamento nazionale non sono questioni disciplinate dal
diritto dell’Unione, ma dal diritto interno applicabile.
L’esigenza di assicurare la tutela giurisdizionale immediata delle norme dell’Unione
produttive di effetti diretti implica altresì il potere per il giudice nazionale di emanare
provvedimenti provvisori di sospensione dell’applicazione di una norma interna, in attesa
che sia definitivamente accertata (mediante rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai
sensi dell’art 267 TFUE) l’incompatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione.
La circostanza che una norma interna sia incompatibile con il diritto dell’Unione e vada
pertanto disapplicata dal giudice nazionale, non esime lo Stato membro interessato dal
provvedere alla abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica. In mancanza,
la permanenza della norma nell’ordinamento dello Stato membro mantiene gli interessati
uno stato di incertezza circa la possibilità loro garantita di fare appello al diritto comunitario
(C-104/86 Commissione vs Italia).
La Corte di Giustizia accoglie il ricorso per infrazione presentato dalla Commissione e volto a far
constatare la violazione da parte italiana dei propri obblighi comunitari per il fatto di non aver
abrogato alcune norme di legge già giudicate dalla Corte di Giustizia incompatibili con il Trattato. Nel
caso specifico, le norme incriminate imponevano requisiti estremamente restrittivi perché gli
interessati potessero ottenere la restituzione di somme riscosse dall’amministrazione in violazione del
diritto dell’Unione, requisiti che la Corte aveva ritenuto non conformi al principio di effettività.
8. Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana
La piena accettazione del principio del primato da parte della Corte costituzionale è risultata
particolarmente difficoltosa.
1. Inizialmente, la Corte parte dall’assunto che, nell’ordinamento costituzionale italiano,
l’unico procedimento attraverso cui una legge in vigore può essere resa inapplicabile è la
dichiarazione d’incostituzionalità (art 134 Cost). Essa si preoccupa perciò di individuare un
“aggancio” che le consenta di riconoscere una valenza costituzionale al diritto dell’Unione,
comportando così l’incostituzionalità della norma di legge contraria.
Nella sentenza 14/64 (Costa vs ENEL), per una vicenda analoga a quella che dà vita
all’omologa sentenza della Corte di Giustizia, l’aggancio costituzionale non viene rinvenuto.
L’attenzione della Corte si focalizza sulla legge di esecuzione del TCE, che è legge ordinaria.
Pertanto, il trattato ha rango di legge ordinaria ed è destinato a cedere di fronte ad una
norma di legge successiva.
La Corte esclude che la legge in conflitto con il trattato sia incostituzionale per violazione indiretta
dell’art 11 Cost attraverso il contrasto con la legge esecutiva del trattato. Ciò in quanto l’art 11 Cost
non attribuisce un particolare valore, nei confronti delle altre leggi, a quella esecutiva del trattato.
Ne consegue che, ferma la responsabilità dello Stato per la violazione dei propri obblighi derivanti dal
trattato, deve rimanere saldo l’impero delle leggi posteriori alla legge esecutiva e che ogni ipotesi di
conflitto fra l’una e le altre non può dar luogo a questioni di costituzionalità.
Pertanto, in caso di legge (precedente o successiva) incompatibile con il trattato, si pone
una mera questione di successione di leggi nel tempo, che va risolta con il principio
cronologico dal giudice di merito (e non dalla Corte costituzionale).
Il contrasto tra le due Corti è netto:
il giudice nazionale deve sempre applicare le norme dei trattati (e gli atti
Corte di Giustizia di diritto derivato direttamente efficaci), disapplicando qualsiasi norma
interna contraria
il giudice italiano può applicare le norme dei trattati (e gli atti di diritto
Corte costituzionale derivato) solo se non sia intervenuta una legge interna successiva che
sia incompatibile

2. Un primo riavvicinamento avviene con la sentenza 232/75 (Industrie Chimiche). La Corte,


valorizzando maggiormente l’art 11 Cost (e la tecnica della norma interposta) ne deduce
che la norma costituzionale non solo consente all’Italia di accettare limitazioni di sovranità
con legge ordinaria, ma esige anche che il legislatore nazionale rispetti tali limitazioni di
sovranità e non ostacoli, con l’emanazione di leggi successive (incompatibili o anche solo
meramente riproduttive), l’applicabilità diretta dei regolamenti31. Diversamente, la norma
di legge è incostituzionale, per violazione dell’art 11 Cost. Tuttavia, tale vizio non può
portare alla disapplicazione della norma di legge da parte del giudice ordinario: è necessario
il ricorso alla Corte costituzionale, per la dichiarazione d’incostituzionalità (art 134 Cost).
La Corte ritiene che, per quanto riguarda le norme interne successive il vigente ordinamento non
conferisce al giudice italiano il potere di disapplicarle, nel presupposto di una generale prevalenza
del diritto comunitario sul diritto dello Stato. D’altra parte, non si può prospettare che tali norme siano
radicalmente nulle. Secondo la Corte, la limitazione di sovranità consistente nel trasferimento agli
organi delle Comunità del potere di emanare norme giuridiche, sulla base di un preciso criterio di
ripartizione di competenze per determinate materie, non implica la privazione della volontà sovrana
degli organi legislativi degli Stati membri. Pertanto, ove una norma legislativa italiana abbia recepito
e trasformato in legge interna regolamenti comunitari direttamente applicabili, il giudice comune deve
comunque sollevare questione di legittimità costituzionale.
Per effetto del principio cronologico, il giudice italiano può disapplicare una norma interna
contraria al diritto dell’Unione se la legge precede nel tempo la norma dell’Unione, ma non
può fare altrettanto se il rapporto temporale sia inverso (legge successiva): in tal caso, si
dovrà sollevare la questione di legittimità costituzionale e attendere la Corte costituzionale.
3. Il sopraggiungere della sentenza Simmenthal (C-106/77), costringe la Corte costituzionale
a modificare ancora il proprio orientamento. Dopo una lunga pausa di riflessione,
l’occasione viene fornita dalla sentenza 170/84 (Granital).
La sentenza nasce da una controversia in materia di prelievi agricoli all’importazione. Alcuni
regolamenti imponevano di calcolare il prelievo secondo il tasso in vigore alla data dell’accettazione
della dichiarazione d’importazione. In applicazione di alcune norme italiane successive ai regolamenti,
Granital aveva invece corrisposto prelievi calcolati secondo il tasso (più favorevole) intervenuto prima
dell’immissione in pratica libera. Di fronte alla opposizione di Granital al provvedimento che le
ingiungeva di versare la differenza, il giudice nazionale, ritenendo di essere in presenza di un’ipotesi

31
La Corte costituzionale esamina una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione in
merito ad un decreto legislativo che recepisce un regolamento.
di conflitto tra un regolamento e norme di legge successive, solleva questione di costituzionalità delle
stesse norme di legge per violazione dell’art 11 Cost.
Sorprendentemente, la Corte dichiara inammissibile la questione.

La novità del ragionamento della Corte consiste nel rifiutare l’assimilazione delle norme
comunitarie alle norme nazionali di legge (tesi dualistica). Da ciò l’impossibilità di applicare
ai conflitti tra esse i metodi di risoluzione delle antinomie propri dell’ordinamento italiano
(compresa la dichiarazione d’incostituzionalità). Trattandosi di norme di ordinamenti diversi
i conflitti vanno risolti da un diverso criterio: il criterio di competenza (principio di specialità)
Innanzitutto, occorre stabilire la competenza, ossia se la materia in questione rientri tra
quelle per le quali l’Italia ha accettato, secondo l’art 11 Cost, di limitare la propria sovranità
in favore della Comunità. Tale compito spetta al giudice ordinario, senza l’intervento della
Corte costituzionale.
Qualora risulti che la materia rientra nella competenza che i trattati attribuiscono alle
istituzioni comunitarie, il giudice italiano, senza considerare l’ordine cronologico (tra norma
comunitaria e legge nazionale), accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il
caso sottoposto al suo esame e ne applica di conseguenza il disposto, con esclusivo
riferimento al sistema dell’ente sopranazionale, cioè al solo sistema che governa l’atto da
applicare e di esso determina la capacità produttiva (si determina così una non-applicazione
della norma interna incompatibile).
Tuttavia, tale soluzione vale solo se e quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca
in una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno, come nel
caso dei regolamenti.
La giurisprudenza successiva riconoscerà il potere del giudice di applicare direttamente le norme
dell’Unione, lasciando inapplicate le leggi interne incompatibili, a tutte le fonti comunitarie capaci di
produrre effetti diretti: anche le direttive e le sentenze della Corte di Giustizia.
La soluzione Granital, benché molto vicina, nel risultato pratico, alla soluzione della Corte di
Giustizia nella sentenza Simmenthal, lascia sopravvivere alcune differenze.
Da un punto di vista teorico, la separatezza dell’ordinamento statale rispetto a quello
dell’Unione su cui insiste la Corte costituzionale (tesi dualistica) non corrisponde alla visione
integrazionista fatta propria dalla Corte di Giustizia (tesi monista)32.
Secondo la Corte costituzionale, la norma di legge interna in conflitto con la norma
dell’Unione non è invalida (come sembrava sostenere la Corte di Giustizia). Poiché il
regolamento non può abrogare, modificare o derogare le confliggenti norme nazionali, né

32 La Corte costituzionale, ha accolto la teoria dualista, ponendo l’esistenza di due distinti ed autonomi
ordinamenti, regolati dal principio di competenza (trattandosi di ordinamenti autonomi e distinti, ancorché
coordinati secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dal Trattato: sentenza 183/73 Frontini),
laddove la Corte di Giustizia seguiva la teoria monista, fondando i rapporti tra le fonti sul principio di gerarchia.
invalidarne le statuizioni, la legge interna resta in vigore, ma non interferisce nella sfera
occupata da tale atto (di qui la soluzione della cd non-applicazione).
La Corte costituzionale esclude in 2 ipotesi il potere del giudice di merito di applicare
immediatamente la norma dell’Unione e disapplicare la legge interna configgente, esigendo
invece sia sollevata questione di costituzionalità. Si tratta di casi ancor oggi riservati alla
competenza residua della Corte costituzionale.
1. Norma dell’Unione contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale
e ai diritti dell’uomo. Nella sentenza 183/73 (Frontini) la Corte afferma che è da escludersi
che le limitazioni di sovranità accettate in conformità dell’art 11 Cost possano comunque
comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi
fondamentali del nostro ordinamenti costituzionale o i diritti inalienabili della persona
umana. Pertanto, qualora dovesse darsi all’art 189 (ora art 288 TFUE) una sì aberrante
interpretazione (…) sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di
questa Corte sulla perdurante compatibilità con i predetti principi fondamentali. In tal caso,
il giudice nazionale che fosse chiamato ad applicare una norma dell’Unione sospettata di
violare i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale o i diritti dell’uomo, sarebbe
tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge d’esecuzione dei
trattati, in quanto da tale legge deriverebbe l’applicazione in Italia di una norma del genere.
Si tratta della cd teoria dei controlimiti33.
2. Norme di legge dirette ad impedire il rispetto dei principi fondamentali dei trattati. Tale ipotesi si
porrebbe per le statuizioni di legge statale, che si assumono costituzionalmente illegittime, in quanto
dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema e al
nucleo essenziale dei suoi principi (Granital). Dovrebbe trattarsi di casi caratterizzati da particolare
gravità e da una comprovata intenzione di impedire l’applicazione in Italia di interi settori del diritto
dell’Unione. In casi del genere, la Corte sarebbe chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia
ingiustificatamente rimosso alcuni dei limiti della sovranità statale, da esso medesimo posti, mediante
la legge d’esecuzione del Trattato in diretto e puntuale adempimento dell’art 11 Cost. Poiché questa
seconda riserva non è stata più menzionata di recente, non è chiaro se essa sia ancora ritenuta dalla
Corte applicabile.
Inoltre, la competenza della Corte costituzionale a conoscere dei conflitti tra norme
dell’Unione e norme interne continua a sussistere in tutte quelle ipotesi che si pongono al
di fuori del giudizio di costituzionalità in via incidentale, ossia nell’ambito di una delle cd
competenze dirette (giudizio di costituzionalità in via principale, conflitti di attribuzione,
giudizi di ammissibilità dei referendum).

33
In tal caso, stante la separazione degli ordinamenti e l’incompetenza della Corte costituzionale a pronunciarsi
sulla legittimità costituzionale delle fonti comunitarie (escluse dalla nozione di legge e atto avente forza di legge
di cui all’art 134 Cost), il controllo è esercitato in via mediata, attraverso una norma interposta, per violazione
dell’art 11 Cost operata dalla legge nazionale di ratifica ed esecuzione dei trattati, nella parte in cui ha introdotto
nell’ordinamento la fonte comunitaria.
Con la riforma del Titolo V, il principio del primato ha trovato esplicita consacrazione nel
nuovo testo dell’art 117, comma 1 Cost: la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto (…) dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
 Ciò non ha rimesso in discussione la soluzione (non applicazione) di cui alla
sentenza Granital, per le questioni sollevate in via incidentale.
 Per le competenze dirette della Corte costituzionale (il giudizio in via principale)
l’art 117, comma 1 Cost è ormai il parametro di costituzionalità naturale.
Nella sentenza 406/2005 (Presidente del Consiglio vs Regione Abruzzo), relativa all’impugnazione in
via principale di una legge regionale sulla zootecnia che introduceva una deroga (non prevista) ad una
direttiva in materia di lotta contro la malattia degli ovini cd blue tongue.

Infine, in caso di contrasto con una norma dell’Unione che sia priva di efficacia diretta, il
giudice di merito, non può procedere a disapplicare la legge interna, ma deve sollevare
davanti alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale per violazione
degli artt 11 e 117, comma 1 Cost.
Nella sentenza 227/2010 (MKP) la Corte costituzionale è investita di una questione di legittimità
costituzionale rispetto alla legge di attuazione della decisione-quadro sul mandato d’arresto europeo.
La decisione-quadro, per espressa previsione del trattato (art 34 TUE) è priva di efficacia diretta.
La norma italiana di attuazione limitava ai soli cittadini italiani le ipotesi di rifiuto della consegna della
persona oggetto di mandato d’arresto europeo (nel caso specifico, si trattava di un cittadino polacco).
Secondo la Corte, l’applicazione della disciplina va estesa anche ai cittadini di altri Stati membri
effettivamente e legittimamente residenti o dimoranti in Italia: diversamente, si avrebbe una
violazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità (art 18 TFUE).
Parte V IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE
1. Considerazioni generali
L’ordinamento dell’Unione comprende un sistema di tutela giurisdizionale che assicura la
protezione delle posizioni giuridiche sorte per effetto del diritto dell’Unione. Tale sistema è
ripartito su 2 livelli:
 Corte di Giustizia
 organi giurisdizionali degli Stati membri
Al primo livello spettano alcune azioni, tassativamente enumerate dai trattati, che i soggetti
interessati possono proporre direttamente ad una delle articolazioni della Corte di Giustizia:
cd competenze dirette (ricorsi presentati da uno Stato membro, da un'istituzione o da una
persona fisica o giuridica: art 19, § 3 lett a TUE)
 ricorsi per infrazione, proposti contro uno Stato membro per violazione degli obblighi
derivanti dai trattati (artt 258 e 259 TFUE);
 ricorsi d’annullamento, attraverso cui viene contestata la legittimità di atti delle istituzioni
(art 263 TFUE);
 ricorsi in carenza, attraverso cui viene constata l’illegittimità di omissioni delle istituzioni
(art 265 TFUE);
 ricorsi per risarcimento, relativi alla responsabilità extra-contrattuale delle istituzioni.
Al di fuori di tali azioni, vige la competenza dei giudici nazionali, cui possono rivolgersi i
soggetti interessati all’applicazione di una norma dell’Unione per la tutela giurisdizionale
delle loro posizioni giuridiche: gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari
per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto
dell’Unione (art 19, § 1, comma 2 TUE).
Il carattere speciale delle competenze della Corte di giustizia rispetto alla competenza generale dei
giudici nazionali è confermato dall’art 274 TFUE: fatte salve le competenze attribuite alla Corte di
Giustizia dai trattati, le controversie nelle quali l’Unione sia parte non sono, per tale motivo, sottratte
alla competenza delle giurisdizioni nazionali.
I due livelli di tutela giurisdizionale non operano in maniera del tutto distinta. Per evitare
che, nell’applicare il diritto dell’Unione, i giudici nazionali possano pregiudicarne
l’uniformità, interpretando come se si trattasse di norme del proprio ordinamento
nazionale, i trattati hanno previsto uno strumento di raccordo con la Corte di Giustizia: la
procedura di rinvio pregiudiziale (art 19, § 3 lett b TUE e art 267 TFUE). Il giudice nazionale
ha la facoltà (in taluni casi, l’obbligo) di deferire alla Corte di Giustizia le questioni
riguardanti il diritto dell’Unione. In tal modo, si instaura una collaborazione tra livello
dell’Unione e livello nazionale della tutela giurisdizionale, che consente di preservare il
carattere uniforme delle norme dell’Unione anche nel momento applicativo. In tal caso, la
Corte di Giustizia esercita una competenza indiretta: la Corte conosce solo delle questioni
di diritto dell’Unione deferite dal giudice nazionale (su richiesta delle giurisdizioni nazionali),
cui spetta il potere di decidere l’intera controversia dopo che la Corte si sia pronunciata.
Secondo la Corte di Giustizia, tale sistema è, in linea di principio, completo.
L’ordinamento dell’Unione rispetta il principio della tutela giurisdizionale effettiva (che è
principio generale del diritto: artt 6 e 13 CEDU; art 47 Carta dei diritti fondamentali
dell’UE): il titolare di una posizione soggettiva derivante da norme dell’Unione deve poter
esperire un ricorso effettivo dinanzi a un giudice competente contro gli atti delle autorità
pubbliche di uno Stato membro che violino la sua posizione; inoltre, un soggetto
pregiudicato da un atto delle istituzioni, deve poter ottenere il controllo giurisdizionale della
validità dell’atto.
Qualora dovessero darsi delle lacune, ossia manchi un rimedio giurisdizionale utilizzabile
per ottenere la protezione di determinate posizioni soggettive, queste dovrebbero essere
colmate attraverso un’interpretazione evolutiva delle norme applicabili.
Perché si possa parlare di lacune il sistema di tutela giurisdizionale va esaminato nella sua unità, per
cui occorre verificare i rimedi esistenti a livello dell’Unione e a livello nazionale: l’insufficienza dei
rimedi esperibili dinanzi alla Corte di Giustizia non comporta violazione del diritto ad un effettivo
rimedio giurisdizionale, qualora esista un rimedio adeguato azionabile davanti ai giudici nazionali.
Nell’ipotesi che nessun rimedio giurisdizionale effettivo esista né a livello di Corte di Giustizia né a
livello nazionale, sorge la necessità di colmare la lacuna in via interpretativa. Ciò può portare ad
interpretazioni particolarmente estensive (finanche manipolative) tanto delle norme dei trattati,
quanto delle norme degli Stati membri.
Prima del Trattato di Lisbona, il II pilastro e il III pilastro dell’Unione non disponevano di un sistema di
tutela giurisdizionale analogo a quello stabilito per il pilastro comunitario.
La disciplina del Titolo V TUE (PESC) non contemplava alcun rimedio giurisdizionale: gli atti adottati in
tale ambito erano sottratti a qualunque tipo di controllo di legittimità da parte della Corte di Giustizia.
Per quanto attiene il Titolo VI (cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria in materia penale),
l’art 35 attribuiva alla Corte di Giustizia talune competenze dirette e in via pregiudiziale molto ridotte
rispetto alle analoghe competenze previste da TCE.
La Corte di Giustizia è ormai competente a pronunciarsi in via pregiudiziale, senza restrizioni, su tutti
gli aspetti dello Spazio Libertà sicurezza e Giustizia. Allo scadere del periodo transitorio di 5 anni
dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (ossia, dal 1 dicembre 2014), previsto dal Protocollo 36,
anche gli atti nel settore della cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria in materia penale
possono essere oggetto di tali procedimenti. Lo stesso vale per il ricorso per infrazione. Un particolare
meccanismo di opting in/out caso per caso è previsto a favore di Regno Unito e Irlanda.
Con il Trattato di Lisbona la soppressione della distinzione tra pilastri non ha comportato il venir meno
della situazione precedente per quanto riguarda il settore PESC. L’art 24, § 1, comma 2 TUE e l’art
275, comma 1 TFUE continuano ad escludere ogni competenza della Corte di Giustizia in ordine gli atti
del settore PESC e agli atti adottati in attuazione di tali disposizioni.
L’unica eccezione è il ricorso d’annullamento speciale: la Corte è competente a pronunciarsi sui ricorsi
(proposti alle condizioni di cui all’art 263, comma 4 TFUE) aventi ad oggetto il controllo della legittimità
delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche adottate
dal Consiglio in base al Titolo V, Capo II del TUE (art 275, comma 2 TFUE).
Considerate le profonde differenze tra le competenze della Corte di Giustizia in merito al controllo di
legittimità degli atti delle istituzioni adottati in base ai vari pilastri, risulta ancora oggi determinante
che la scelta della base giuridica avvenga in modo corretto (ed infatti l’art 275, comma 2 TFUE
stabilisce anche che la Corte è competente a controllare il rispetto dell’art 40 del TUE).
Nella sentenza C-658/2011 (Parlamento europeo vs Consiglio) la Corte è chiamata ad effettuare un
controllo di validità della decisione 2011/640/PESC relativa alla conclusione di un Accordo tra Unione
europea e Repubblica di Mauritius sulle condizioni di trasferimento delle persone sospettate di atti di
pirateria nel Corno d’Africa e dei relativi beni sequestrati nella Repubblica di Mauritius, da parte della
forza navale diretta dall’Unione europea. La Corte, pur avendo accertato che la decisione persegue
una finalità principale rientrante della PESC ed è validamente fondata solo su una base giuridica
sostanziale rientrante nell’ambito PESC, si pronuncia per l’annullamento della decisione: il Parlamento
non è stato informato immediatamente in tutte le fasi della procedura di negoziazione e di conclusione
dell’Accordo (come previsto dall’art 218, § 10 TFUE).
Nello specifico, la Corte afferma: i citati artt 24 § 1, comma 2 e 275, comma 1 TFUE introducono una
deroga alla regola sulla competenza generale che l’art 19 TUE conferisce alla Corte per assicurare il
rispetto del diritto all’interpretazione e all’applicazione dei trattati e devono dunque essere
interpretati restrittivamente.
2. Il ricorso per infrazione
Il ricorso per infrazione è disciplinato dagli artt 258 e 259 TFUE.
Oggetto del ricorso è la violazione da parte di uno Stato membro di uno degli obblighi a lui
incombenti in virtù dei trattati.
Per Stato membro s’intende, secondo la visione del diritto internazionale, lo Stato-organizzazione,
comprensivo di tutte le sue articolazioni sul territorio nazionale. Uno Stato membro può essere
chiamato a rispondere non solo di comportamenti di organi facenti capo al Governo nazionale, ma
anche di comportamenti imputabili a poteri indipendenti dall’esecutivo (Parlamento, magistratura) o
ad enti territoriali dotati di autonomia e di competenze esclusive (Regioni, Comuni).
Nella sentenza C-388/01 Commissione vs Italia, l’infrazione riguarda il comportamento di un ente locale. La
Commissione lamenta che le tariffe d’ingresso al Palazzo dei Dogi in Venezia violano il principio di non
discriminazione in base alla nazionalità (artt 18 e 56 TFUE), in quanto riservano una riduzione ai soli cittadini italiani
ultrasessantenni. La Corte afferma: gli Stati membri non possono richiamarsi a situazioni del loro ordinamento
interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi derivanti dal diritto comunitario. Sebbene ogni Stato membro
sia libero di ripartire come crede opportuno le competenze normative sul piano interno, tuttavia, a norma dell’art
226 CE (ora art 258 TFUE) esso resta il solo responsabile nei confronti della Comunità, del rispetto di tali obblighi.
Può trattarsi della violazione di qualsiasi obbligo, derivante dai trattati o dagli atti adottati in base ad
essi. Frequenti sono i ricorsi per mancata o incorretta attuazione delle direttive entro il termine.
Sono previste eccezioni.
1) la violazione del divieto di disavanzi eccessivi (art 126 TFUE) è sottratta all’applicazione degli artt
258 e 259: è prevista una procedura sanzionatoria di carattere politico, affidata al Consiglio.
2) il comportamento di uno Stato membro in violazione dei diritti dell’uomo (salvo che il
comportamento sia stato adottato in attuazione di una norma dei trattati o di un atto delle istituzioni
che ne autorizzi o ne richieda l’adozione).
In caso di violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art 2 (dignità
umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, compresi quelli
delle minoranze), l’art 7 TUE prevede una procedura di constatazione affidata al Consiglio europeo,
con delibera unanime, previa approvazione del Parlamento europeo, cui può seguire una decisione
del Consiglio, a maggioranza qualificata, che fisserà le sanzioni a carico dello Stato membro
interessato (può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione
dall'applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato
membro in seno al Consiglio).

La violazione che può essere oggetto di un ricorso per infrazione è presa in considerazione
nel suo obiettivo manifestarsi.
Non è dunque necessario dimostrare la presenza di un atteggiamento psicologico di colpa o dolo da
parte dello Stato membro o dei suoi organi.
D’altro canto, lo Stato membro non può addurre giustificazioni tratte da eventi interni (lo scioglimento
anticipato del Parlamento o una crisi di Governo), né può invocare particolari difficoltà (ad esempio
la necessità di rispettare determinati adempimenti costituzionali o la ripartizione delle competenze
interne tra Stato e Regioni o altri enti territoriali) o motivi fondati su cause di forza maggiore o di
ordine pubblico. Inoltre, non è possibile giustificare le violazioni con forme di ritorsione per un
comportamento, anch’esso contrario al diritto dell’Unione, tenuto da altri Stati membri.
Il procedimento varia a seconda del soggetto che assume l’iniziativa.
 L’art 258 TFUE riguarda l’ipotesi che sia la Commissione, quale custode della
legalità dell’Unione, ad aprire il procedimento (più frequente).
 L’art 259 TFUE contempla la possibilità che ad agire sia uno Stato membro.
In entrambi i casi, sono previste 2 fasi:
a) fase precontenziosa (preliminare), che ha 2 scopi:
 favorire la composizione amichevole della controversia (imponendo alle parti di
discutere tra loro le rispettive posizioni, si può evitare l’intervento della Corte);
 uno scopo processuale, quale condizione di ricevibilità del ricorso (l’inserimento
nell’oggetto del ricorso di contestazioni diverse da quelle sollevate in fase
precontenziosa provocherebbe l’irricevibilità parziale del ricorso).
b) fase contenziosa (vera e propria), con il ricorso alla Corte di Giustizia e la decisione giudiziaria.
Nel caso di cui all’art 258 TFUE, la scelta di dare avvio al procedimento, di portarlo avanti
con maggiore o minore celerità e persino di porvi termine spettano alla Commissione, che
gode dunque di un ampio potere discrezionale: quando reputi che uno Stato membro abbia
mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati, emette un parere
motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue
osservazioni (comma 1).
Il potere discrezionale della Commissione è tale da escludere la possibilità di un ricorso in carenza (art
265 TFUE) contro l’omessa o la ritardata apertura o conclusione del procedimento.
La fase precontenziosa si articola nei seguenti momenti:
a) la Commissione invia allo Stato membro un atto informale (cd lettera di messa in mora),
con cui contesta allo Stato membro determinati comportamenti e gli assegna un termine
entro cui presentare le proprie osservazioni;
b) lo Stato membro presenta le sue osservazioni (in mancanza, la Commissione può passare
alla fase successiva);
c) la Commissione emette un parere motivato, in cui espone in via definitiva gli addebiti
mossi allo Stato e lo si invita a conformarsi entro il termine fissato.
Tale atto, che conclude la fase precontenziosa, è un atto non obbligatorio nei confronti dello
Stato membro: la Commissione si limita ad esprimere la sua opinione.
Il potere di constatare l’infrazione spetta alla Corte di Giustizia.
Pertanto, lo Stato membro non è obbligato a conformarsi al parere motivato: lo farà solo se preferisce
evitare il ricorso alla Corte di Giustizia.
D’altra parte, la circostanza che il parere motivato sia atto non obbligatorio ne esclude l’impugnabilità
(con ricorso per annullamento: art 263 TFUE).
Per alcune materie si applica un procedimento speciale, senza fase precontenziosa.
Il caso più importante è previsto dall’art 108, § 2 TFUE (aiuti di Stato alle imprese): la Commissione,
dopo aver intimato agli interessati di presentare le loro osservazioni, assume una decisione, con cui
obbliga lo Stato membro a sopprimere l’aiuto di Stato o a modificarlo in un termine fissato.
Se lo Stato membro non provvede, la Commissione può adire direttamente la Corte di Giustizia.

Il passaggio alla fase contenziosa è possibile solo dopo alla scadenza del termine fissato nel
parere motivato: qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato
dalla Commissione, questa può adire la Corte di Giustizia (comma 2).
La Commissione non è obbligata a ricorrere alla Corte (può adire), né a farlo entro un
termine predeterminato: potrebbe omettere del tutto il ricorso, se lo Stato membro si sia
conformato al parere motivato, oppure potrebbe lasciare molto tempo prima di adire la
Corte, qualora siano in corso trattative che appaiano in grado di portare ad una rapida
soluzione in via amichevole. Tuttavia, una volta presentato il ricorso alla Corte di Giustizia,
l’eventuale eliminazione da parte dello Stato membro della violazione contestata non
influisce sull’esito del giudizio (a meno che la Commissione non accetti di rinunciare al
ricorso): la situazione di infrazione si cristallizza al momento della presentazione del ricorso.
Pertanto, eventi successivi restano irrilevanti.
La fase contenziosa termina con una sentenza (art 260 TFUE: quando la Corte di Giustizia
dell’Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad un obbligo ad esso
incombenti in virtù dei trattati). L’uso del termine riconosca denota che si tratta di una
sentenza di mero accertamento, dunque non accertamento costitutivo (non determina
l’annullamento dei provvedimenti nazionali) e nemmeno condanna.
Tuttavia, la disposizione prosegue: lo Stato membro è tenuto a prendere i provvedimenti
che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta. La sentenza però non indica né quali
siano gli adempimenti a cui lo Stato membro dovrà dar corso e neppure il termine entro cui
dovrà provvedere. La mancata (o ritardata) adozione dei provvedimenti necessari a
conformarsi alla sentenza può indurre la Commissione ad avviare contro lo Stato membro
un secondo procedimento di infrazione, ma stavolta per violazione dell’art 260 TFUE.
In origine, tale secondo procedimento non si distingueva in nulla dal primo e quindi non
poteva condurre ad altro che ad una seconda sentenza di accertamento.
Per accrescerne l’efficacia deterrente, è stata aggiunta la disciplina del § 2. La novità
consiste nella possibilità che il procedimento possa condurre ad una sentenza di condanna
a carico dello Stato membro inadempiente al pagamento di una sanzione pecuniaria.
La Commissione, ove ritenga che uno Stato membro non abbia ottemperato ad una
precedente sentenza, dopo aver posto lo Stato in condizione di presentare le proprie
osservazioni (ma saltando l’intera fase precontenziosa), può adire la Corte, ma precisa
l’importo della somma forfettaria o della penalità da versare da parte dello Stato membro
in questione, che essa consideri adeguato alle circostanze.
La Corte di Giustizia, qualora riconosca che lo Stato membro non si è conformato alla
precedente sentenza può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una
penalità.
Una disciplina speciale è prevista al § 3 per le infrazioni consistenti nella violazione
dell’obbligo di comunicare le misure di attuazione di una direttiva adottata secondo una
procedura legislativa. Qui l’indicazione della sanzione da parte della Commissione e la
sentenza della Corte di Giustizia (che la commina entro i limiti dell’importo indicato dalla
Commissione) possono intervenire già all’esito del primo procedimento.
L’art 259 TFUE disciplina il procedimento avviato su iniziativa di uno Stato membro.
Si tratta dell’unico mezzo per risolvere una controversia tra Stati membri sul rispetto degli
obblighi derivanti dai trattati. Gli Stati contraenti, infatti, si sono impegnati a non sottoporre
una controversia relativa all’interpretazione e all’applicazione dei trattati a un modo di
soluzione diverso da quelli previsti dal trattato stesso (art 344 TFUE).
Lo Stato membro deve rivolgersi alla Commissione chiedendole di agire nei confronti
dell’altro Stato membro.
Dopo aver posto in condizione gli Stati interessati di presentare in contraddittorio le loro
osservazioni scritte, la Commissione emette un parere motivato:
 se la Commissione scelga di prendere su di sé il caso, il procedimento proseguirà
nelle forme di cui all’art 258 TFUE.
 se il parere non viene formulato nel termine di 3 mesi dalla domanda, lo Stato
membro riacquista la propria libertà di agire e avrà la possibilità di presentare
ricorso diretto alla Corte di Giustizia
In caso di accoglimento del ricorso, la sentenza della Corte di Giustizia avrà le stesse
caratteristiche di quella emanata a seguito di ricorso della Commissione (art 258 TFUE).
3. Il ricorso d’annullamento
Il ricorso d’annullamento è la forma principale di controllo giurisdizionale di legittimità per
gli atti delle istituzioni. Esso mira ad ottenere l'annullamento degli atti che risultino viziati.
Il sistema di tutela giurisdizionale dell’Unione prevede altre procedure che consentono alla Corte di
Giustizia di effettuare un controllo sulla legittimità degli atti delle istituzioni:
a) l’eccezione di invalidità (art 277 TFUE);
b) le questioni pregiudiziali di validità (art 267 TFUE).
c) il controllo di legittimità a titolo incidentale in un ricorso per risarcimento (art 268 TFUE): la
responsabilità extracontrattuale dell’Unione presuppone l’invalidità dell’atto che ha causato il danno.
La pluralità delle procedure attraverso cui si può contestare la legittimità di un atto delle istituzioni
impone una certa coerenza tra le stesse. Ciò si traduce nell’introduzione di elementi di armonizzazione
nella disciplina delle varie procedure: a) l’nell’ambito di una questione pregiudiziale di validità (art 267
TFUE) possono farsi valere gli stessi vizi di legittimità di cui all’art 263, comma 2 TFUE; b) l’aver esteso
la possibilità per la Corte limitare gli effetti ratione temporis e ratione personarum delle sentenze
d’annullamento (art 264, comma 2 TFUE); c) l’aver negato che un soggetto legittimato al ricorso
d’annullamento (art 263, comma 4 TFUE) possa, dopo la scadenza del termine di cui all’art 263, comma
6 TFUE sollevare contro lo stesso atto eccezione d’invalidità (art 277 TFUE) in un altro giudizio davanti
alla Corte di Giustizia o al giudice nazionale, al fine di ottenere che questi sollevi questione
pregiudiziale di validità.

La Corte di Giustizia riconosce a sé stessa il monopolio sul controllo di legittimità del diritto
derivato dell’Unione. I giudici nazionali (comprese le Corti costituzionali degli Stati membri)
non dispongono di un autonomo potere di dichiarare invalido o di disapplicare un atto delle
istituzioni che non sia già stato dichiarato invalido dalla Corte di Giustizia.
Nella sentenza C-315/85 Foto-Frost, la Corte esclude che un giudice nazionale possa autonomamente
valutare la validità di un atto delle istituzioni, in quanto verrebbe minata l’uniforme applicazione del
diritto dell’Unione (che è anche uno degli scopi del rinvio pregiudiziale di cui all’art 267 TFUE): ciascun
giudice nazionale potrebbe giungere a conclusioni diverse.
Poiché l’art 263 TFUE attribuisce alla Corte di Giustizia una competenza esclusiva ad annullare un atto
delle istituzioni, la coerenza del sistema esige che sia parimenti riservato alla Corte il potere di
dichiarare l’invalidità dello stesso atto, qualora questa sia fatta valere dinanzi ad un giudice nazionale.
Foto-Frost è un’impresa di import-export di prodotti fotografici stabilita in Germania. Essa ha
importato alcuni binocoli originari della ex DDR, acquistandoli in altri Stati membri. Ritenendo
applicabile a tali operazioni il Protocollo sul commercio interno tedesco, le autorità doganali tedesche
non applicano il dazio doganale. Successivamente, emerge che i dazi sono dovuti. L’Hauptzollamt di
Lubecca-Est, tuttavia, ritiene che si possa omettere di procedere a un recupero a posteriori, essendo
la mancata riscossione dovuta a un errore delle autorità doganali. Un regolamento però richiede in
questi casi l’autorizzazione della Commissione (i dazi sono una risorsa propria dell’Unione). Avendo la
Commissione emesso al riguardo una decisione negativa, l’Hauptzollamt adotta un provvedimento di
recupero, che Foto-Frost impugna presso l’autorità giurisdizionale tedesca, sostenendo l’invalidità
della decisione della Commissione.
Il giudice tedesco chiede alla Corte di Giustizia se un giudice nazionale possa sindacare la validità della
decisione della Commissione per dedurne che il provvedimento di recupero è a sua volta invalido. La
Corte risponde negativamente.

Il giudice nazionale che nutra dei dubbi sulla validità di un atto delle istituzioni, non ha altra
scelta che sottoporre una questione pregiudiziale di validità alla Corte. In tal caso, il rinvio
è obbligatorio, anche se il giudice non è di ultima istanza.
Tuttavia, secondo la Corte di Giustizia, i giudici nazionali possono esaminare la validità di
un atto comunitario e, se ritengono infondati i motivi di d’invalidità addotti dalle parti,
respingerli, concludendo per la piena validità dell’atto.
Il Bundesverfassungsgericht, da parte sua, ritiene di essere anch’esso competente a controllare la
legittimità degli atti delle istituzioni sotto due aspetti: 1) la manifesta violazione dei principi
costituzionali intangibili, compresi i diritti fondamentali tutelati dal Grundgesetz; 2) la violazione
strutturale dei limiti di competenza dell’Unione (cd atti ultra vires). Questa duplice competenza è
ribadita anche nella sentenza del 2009 (Lissabon Urteil).

L’art 263, comma 1 TFUE definisce gli atti impugnabili facendo riferimento a 3 criteri:
 l’autore;
 il tipo;
 gli effetti.
Quanto all’autore, sono impugnabili gli atti di tutte le istituzioni, ossia quelle di cui all’art
13, § 1, comma 2 TUE (salvo Corte di Giustizia e Corte dei Conti: Consiglio, Commissione,
BCE, Parlamento europeo, Consiglio europeo) nonché degli organi e organismi dell’Unione
(e ciò vale a definire la legittimazione passiva).
Quanto al tipo di atti impugnabili, la norma distingue tra atti legislativi e atti non legislativi.
Gli atti legislativi sono sempre impugnabili.
Per gli atti non legislativi, dipende dagli effetti: sono impugnabili solo gli atti che producono
effetti giuridici nei confronti di terzi.
Per il Consiglio, la Commissione e la BCE la definizione degli atti che producono effetti giuridici nei
confronti dei terzi è raggiunta implicitamente, escludendo l’impugnabilità di raccomandazioni o pareri
e ammettendo, per converso, l’impugnabilità di qualsiasi altro atto di cui all’art 288 TFUE
(regolamenti, direttive e decisioni).
Per le altre istituzioni (Parlamento europeo e Consiglio europeo) e gli organi e organismi dell’Unione
(data la natura atipica degli atti che adottano), l’art 263 TFUE stabilisce che deve trattarsi di atti
destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi.
Un caso particolare è dato dai cd atti preparatori (endoprocedimentali), ossia atti che si esauriscono
nelle varie fasi di un procedimento complesso, destinato a sfociare in un provvedimento finale. In
linea di principio, l’atto preparatorio, in quanto non definitivo, non è autonomamente impugnabile: i
suoi vizi vanno fatti valere impugnando l’atto finale (cd illegittimità derivata).
La soluzione è diversa ove l’atto preparatorio sia in grado, di per sé, di modificare la posizione giuridica
degli interessati. Un esempio è costituito dalla decisione della Commissione che dà l’avvio alla
procedura di controllo degli aiuti di Stato alle imprese (art 108, § 3 TFUE): poiché a seguito di tale
provvedimento lo Stato membro non può attuare il progetto di aiuto, ciò vale a produrre effetti
giuridici nei confronti di terzi, giustificandone così l’impugnabilità.

I soggetti legittimati a proporre il ricorso d’annullamento (legittimazione attiva) sono


individuati dall’art 263, comma 2 e 3 TFUE. Può parlarsi di 3 categorie di ricorrenti.
La prima categoria (cd ricorrenti privilegiati) comprende:
 gli Stati membri
 il Parlamento europeo
 il Consiglio
 la Commissione
Si parla di ricorrenti “privilegiati” in quanto il loro diritto di ricorso ha portata generale: essi
possono proporre ricorso contro qualunque atto rientrante nella definizione di atto
impugnabile senza dimostrare uno specifico interesse a ricorrere, essendo portatori di un
interesse generale alla legittimità degli atti delle istituzioni.
Per Stati membri s’intendono le sole autorità di Governo degli Stati membri e non anche gli esecutivi
di regioni e comunità autonome, indipendentemente dalla portata delle competenze attribuite a
questi ultimi. Di conseguenza una Regione che voglia impugnare un atto delle istituzioni deve
rispettare le condizioni previste dall’art 263 comma 4 TFUE per le persone fisiche o giuridiche.
L’art 5, comma 2 legge 131/2003 (legge La Loggia) attribuisce a Regioni o Province autonome, che
intendano agire individualmente, un mero potere di sollecitare il ricorso, mentre attraverso la
Conferenza Stato-Regioni (a maggioranza assoluta) può addirittura obbligare il Governo al ricorso. Si
tratterà comunque di un ricorso del Governo (e dunque di uno Stato membro).

La seconda categoria (ricorrenti intermedi) è costituita da:


 Corte dei conti
 BCE
 Comitato delle regioni
La legittimazione è però specificamente finalizzata a salvaguardare le proprie prerogative.
Essi possono ricorrere solo sostenendo che l’atto impugnato invade la sfera riservata alle
loro competenze o ne pregiudica l’esercizio.
La terza categoria è quella dei cd ricorrenti non privilegiati. La legittimazione al riscorso è
sottoposta a condizioni definite in modo molto restrittivo dall’art 263, comma 4 TFUE:
qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle condizioni previste al 1 e 2 comma, un
ricorso contro 1) gli atti adottati nei suoi confronti o 2) che la riguardano direttamente e
individualmente e 3) contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che
non comportano alcuna misura d’esecuzione.
Si tratta di 3 ipotesi distinte.
1. una persona fisica o giuridica impugna un atto adottato nei suoi confronti, ossia un atto
di cui il ricorrente sia destinatario. In questo caso, basta dimostrare l’interesse a ricorrere
(la posizione giuridica del ricorrente è pregiudicata dalla permanenza dell’atto impugnato).
2. una persona fisica o giuridica impugna un atto di cui formalmente non è destinatario. In
tal caso, il ricorrente deve dimostrare che l’atto lo riguarda direttamente e individualmente.
3. La terza ipotesi costituisce, in realtà, una deroga della seconda: la persona fisica o
giuridica formalmente non è il destinatario dell’atto impugnato, ma l’atto deve essere un
atto regolamentare che non comporta alcuna misura d’esecuzione. In tal caso, il ricorrente
dovrà dimostrare solo che l’atto lo riguarda direttamente.
In passato, l’identificazione di quando il doppio requisito dell’interesse diretto e dell’interesse
individuale potesse dirsi soddisfatto perché una persona fisica o giuridica fosse legittimata ad
impugnare un atto di cui non era destinatario formale ha costituito un problema interpretativo tra i
più difficili dell’intero diritto dell’Unione.
L’introduzione nell’art 263, comma 4 TFUE dell’ipotesi relativa agli atti regolamentari che non
comportano alcuna misura di esecuzione ha rappresentato un tentativo di attenuare il rigore mostrato
sino ad allora dalla giurisprudenza.
Rispetto all’art 230, comma 4 TCE (qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle stesse
condizioni, un ricorso contro le decisioni prese nei suoi confronti e contro le decisioni che, pur
apparendo come un regolamento o una decisione presa nei confronti di altre persone, la riguardano
direttamente e individualmente), la norma attuale contiene alcune novità.
Non si parla più di decisioni e si è rinunciato all’immagine alquanto equivoca della decisione che, pur
riguardando il ricorrente direttamente e individualmente, appare come un regolamento o come una
decisione presa nei confronti di altre persone.
La nuova disposizione si riferisce ad atti adottati nei confronti del ricorrente o che lo riguardano
direttamente ed individualmente. La parte finale dell’articolo è poi del tutto nuova e introduce una
terza ipotesi (atti regolamentari che non comportano alcuna misura d’esecuzione), che prima non
era affatto prevista.
Al di fuori del campo d’applicazione della terza ipotesi (che è una figura nuova, introdotta dall’art 263,
comma 4 TFUE), la giurisprudenza sul vecchio art 230 TCE resta ancora valida. Essa distingue secondo
che l’atto impugnato sia:
a) una decisione rivolta contro altre persone fisiche o giuridiche;
b) un regolamento o una decisione rivolta a uno o più Stati membri.
Per impugnare una decisione rivolta ad un’altra persona fisica o giuridica, l’onere probatorio da
superare non è eccessivo: basta dimostrare che il ricorrente è portatore di un interesse qualificato
all’annullamento dell’atto.
Tale interesse è spesso ritenuto implicito nel fatto stesso di aver provocato l’avvio del procedimento
che ha portato all’adozione dell’atto impugnato o nell’avervi partecipato, presentando osservazioni
che sono state prese in considerazione nell’atto impugnato. In tal caso, la ricevibilità del ricorso viene
ammessa senza procedere ad un esame differenziato dell’interesse diretto e di quello individuale.
Tale soluzione è seguita nell’impugnazione delle decisioni in materia di concorrenza.
Nella sentenza C-26/76 (Metro), la ricorrente è un’impresa della GDO che aveva presentato alla
Commissione una denuncia contro un produttore di apparecchi elettronici (SABA) che si rifiutava di
ammetterla nella sua rete di distribuzione. Metro accusa SABA di violare gli artt 101 e 102 TFUE e
invita la Commissione a far cessare il comportamento in questione. La Commissione emana una
decisione nei confronti di SABA, in cui viene concessa un’esenzione ai sensi dell’art 101, § 3 TFUE.
Insoddisfatta dell’esito della sua denuncia, Metro propone ricorso di annullamento avverso la
decisione della Commissione. Nonostante la decisione fosse stata indirizzata a SABA, la Corte dichiara
ricevibile il ricorso proposto da Metro.
Se l’atto impugnato è un regolamento o una decisione rivolta a uno o più Stati membri, l’onere
probatorio che il ricorrente non privilegiato deve superare è senz’altro maggiore.
Le difficoltà non riguardano tanto l’interesse diretto, inteso come dimostrazione che il ricorrente è
pregiudicato direttamente dall’atto impugnato e non dai provvedimenti di esecuzione o di attuazione
adottati dalle istituzioni o dagli Stati membri.
Per i regolamenti, in quanto direttamente applicabili negli Stati membri, l’interesse diretto è in re ipsa.
Per le decisioni rivolte agli Stati membri, occorre provare che le autorità nazionali non dispongano di
alcun potere discrezionale circa l’applicazione dell’atto (o che, pur godendo della facoltà di applicare
la decisione o di applicarla parzialmente, abbiano già manifestato in anticipo la loro volontà di darne
piena applicazione).
In vero “scoglio” è l’interesse individuale. La giurisprudenza ha applicato una formula molto rigorosa
(cd formula Plaumann): chi non sia destinatario di una decisione può sostenere che questa lo riguardi
individualmente solo se il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali o di
particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità e quindi lo identifichi alla stessa stregua
dei destinatari.
Nella sentenza 25/62 (Plaumann), una società tedesca impugna una decisione della Commissione
rivolta contro la Germania, con cui lo Stato in questione veniva autorizzato a sospendere la riscossione
del dazio doganale su mandarini e clementine importate da Stati terzi. Plaumann sostiene di essere
individualmente pregiudicata dalla decisione nella sua qualità di importatore in Germania di tali
prodotti.
La Corte respinge l’argomento: nel caso in esame, il provvedimento impugnato colpisce la ricorrente
nella sua qualità di importatore di clementine, cioè a causa di un’attività commerciale che può essere
sempre esercitata da chiunque e non è quindi atta ad identificare la ricorrente agli effetti della
decisione impugnata, nello stesso modo dei destinatari.
Dalla formula Plaumann si evince che ciò che rileva non è che l’atto impugnato colpisca il ricorrente,
ma a quale titolo il ricorrente ne sia colpito. Non basta che il ricorrente sia colpito dall’atto in quanto
appartenente ad una categoria astratta di soggetti, ma occorre che lo riguardi rispetto alla sua
posizione individuale (alla stessa stregua dei destinatari) e pertanto:

 produce effetti giuridici esclusivamente sulla sua posizione individuale


 produce effetti giuridici diversi (presumibilmente più gravi) rispetto a quelli che si producono
a carico di tutti gli altri soggetti.
1- Talvolta è stato necessario ricorrere allo smascheramento dell’atto: il ricorrente deve dimostrare
che l’atto non è quel che è, ma è di fatto una decisione individuale adottata nei suoi confronti (ciò è
avvenuto in alcuni casi di impugnazione di regolamenti).
2- In altri casi (anche senza contestare la natura normativa dell’atto impugnato), è bastato dimostrare
che l’atto contiene disposizioni che riguardano in maniera individuale determinati operatori
economici.
In C-358/89 (Extramet), la principale società importatrice nella Comunità di calcio metallico originario
da Cina e Unione Sovietica impugna il regolamento che istituisce un dazio antidumping 34
sull’importazione dei prodotti in questione. Secondo la Corte, la circostanza che Extramet sia la
principale importatrice del prodotto colpito dal dazio ed anche l’utilizzatrice finale del prodotto stesso,
nonché la considerazione delle gravi ripercussioni economiche che la società subirebbe in
conseguenza del dazio permettono di ritenere provato un complesso di elementi atti a dimostrare il
ricorrere di una situazione particolare che, in relazione al procedimento di cui trattasi, la
contraddistingue rispetto a qualsiasi altro operatore economico.
Nella sentenza C-309/89 (Codorniu), una società spagnola, produttrice di vini spumanti recanti la
denominazione Grand Crémant impugna un regolamento che le impedisce di continuare a utilizzare
tale denominazione, riservandola a produttori francesi e lussemburghesi. Secondo la Corte la
posizione di Codorniu è distinta da quella della generalità degli operatori economici, per il fatto che, a
differenza degli altri operatori, la Codorniu ha registrato il marchio Grand Crémant de Codorniu in
Spagna nel 1924 e che ha fatto uso tradizionalmente di tale marchio sia prima sia dopo la
registrazione.
3 - Talvolta lo stesso atto impugnato contiene un espresso riferimento a determinati soggetti, quando
il comportamento di determinati soggetti sia stato preso in considerazione nel corso del procedimento
per l’emanazione dell’atto impugnato. È il caso del settore degli aiuti di Stato alle imprese.
Nelle decisioni con le quali da Commissione ingiunge allo Stato membro di recuperare, nei confronti
di una o più imprese espressamente individuate (aiuti individuali), l’importo erogato o concesso a
titolo di aiuto di Stato, in violazione della disciplina contenuta nei trattati, il nominativo delle imprese
compare direttamente nella decisione, per cui è fuor di dubbio che queste ultime vantino un interesse
individuale ad impugnare la decisione. Meno agevole è il caso in cui la decisione impugnata riguardi
un regime generale di aiuti (come nel caso degli incentivi fiscali). Qui la prova dell’interesse individuale
da parte delle imprese diventa molto difficile. Tuttavia, la Corte, di recente ha precisato in tale ipotesi

34misura di difesa commerciale contro le importazioni originarie di Stati terzi effettuate in dumping, ossia ad un
prezzo inferiore al valore normale
l’impresa è legittimata a impugnare la decisione qualora provi di essere beneficiaria effettiva dell’aiuto
e dunque destinataria dell’obbligo di rimborso del percepito.
4 - L’interesse individuale può derivare dai caratteri del procedimento che conduce all’atto
impugnato: se è prescritto che il procedimento coinvolga obbligatoriamente determinati interessi, si
presume che i soggetti che ne siano portatori abbiano un interesse qualificato all’impugnazione
dell’atto finale. In materia di aiuti di Stato alle imprese, il procedimento regolato dall’art 108 TFUE
(ora anche dal regolamento 659/1999, modificato dal regolamento 734/2013) prevede che, prima di
rivolgere allo Stato membro interessato una decisione in materia, la Commissione debba intimare gli
interessati di presentare le loro osservazioni.
Le notevoli difficoltà che le persone fisiche o giuridiche incontravano per dimostrare l’esistenza delle
condizioni previste dall’art 230, comma 4 TCE aveva spinto molti a chiedere un’attenuazione del rigore
mostrato dalla giurisprudenza.
In particolare, era stato evidenziato il rischio di lacune nel sistema giurisdizionale nelle situazioni in
cui i soggetti pregiudicati non disponessero di alcun rimedio giurisdizionale effettivo in alternativa al
ricorso diretto di cui all’art 230, comma 4 TCE
È proprio il caso dei regolamenti che non richiedono alcun provvedimento d’esecuzione da parte
delle autorità nazionali: qui per gli interessati sarebbe venuta meno la possibilità di impugnare il
provvedimento nazionale d’esecuzione presso il giudice nazionale, per sollevare questione
pregiudiziale di validità del regolamento a cui il provvedimento nazionale dà esecuzione.
Ciò avrebbe comportato una violazione del diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva.
Nella sentenza C-50/00 (Union de Pequeños agricultores) l’associazione ricorrente impugnava ai sensi
dell’art 263 TFUE un regolamento del Consiglio che aboliva alcune misure di sostegno a favore della
produzione di olio d’oliva.
La Corte, applicando la giurisprudenza tradizionale, dichiara il ricorso irricevibile, non essendo in grado
la ricorrente di dimostrare che il regolamento la riguarda direttamente e individualmente.
La ricorrente obietta che tale soluzione avrebbe violato il suo diritto ad un rimedio giurisdizionale
effettivo. Il regolamento impugnato, avendo un contenuto puramente negativo (non facere), non
richiede l’emanazione di provvedimenti di attuazione da parte degli Stati membri, contro cui si possa
esperire un rimedio giurisdizionale presso il giudice nazionale. Per questo motivo, secondo l’avvocato
generale Jacobs, in caso di regolamenti che non richiedono provvedimenti nazionali di esecuzione,
si imporrebbe un’interpretazione meno restrittiva dei requisiti di cui all’art 230, comma 4 TCE.
Sul punto, la Corte ritiene che non sia compito suo superare il dato letterale e riformulare la
disposizione modificando i requisiti di ricevibilità ivi previsti, per cui afferma:
1) che spetta agli Stati membri prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti inteso
a garantire il rispetto del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva
2) che in tale contesto, in conformità al principio di leale collaborazione sancito dall’art 5 del Trattato
(ora, art 4, § 3 TUE), i giudici nazionali sono tenuti, per quanto possibile, ad interpretare e applicare
le norme procedurali nazionali che disciplinano l’esercizio delle azioni in modo da consentire alle
persone fisiche e giuridiche di contestare in sede giurisdizionale la legittimità di ogni decisione o di
qualsiasi altro provvedimento nazionale relativo all’applicazione nei loro confronti di un atto
comunitario di portata generale, eccependo l’invalidità di quest’ultimo.
Tale soluzione sarà poi codificata dal Trattato di Lisbona nell’art 19, § 1, comma 2 TUE: gli Stati
membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva
nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione.
Nella sentenza C-263/02 (Jégo Quéré) viene impugnato di un regolamento che vieta l’impiego di
determinate reti nella pesca del nasello.
La Corte afferma che un ricorso di annullamento dinnanzi al giudice comunitario non è, in ogni caso,
esperibile, anche se risultasse che le norme procedurali nazionali non autorizzano il singolo a
contestare la validità dell’atto comunitario controverso se non dopo averlo violato.
La Corte sembra qui ammettere l’esistenza di un’ipotesi in cui l’ordinamento dell’Unione non offra ai
soggetti direttamente interessati da un regolamento, ma impossibilitati ad impugnarlo ai sensi dell’art
230, comma 4 TCE (per mancanza di interesse individuale), alcun rimedio per ottenere tutela
giurisdizionale (salvo violare il regolamento e poi affrontare il relativo procedimento sanzionatorio).
La completezza del sistema di tutela giurisdizionale dell’ordinamento comunitario appare meno
assoluta di quanto al Corte abbia sempre preteso.

La terza ipotesi, introdotta dall’art 263, comma 4 TFUE in occasione del Trattato di Lisbona,
stabilisce condizioni di ricevibilità dei ricorsi individuali meno severe: basta dimostrare che
l’atto riguarda il ricorrente direttamente. Ciò vale però solo se oggetto dell’impugnazione
sono atti regolamentari che non comportano alcuna misura di esecuzione.
Il TFUE non contiene una definizione di atti di questo tipo.
Sulla nozione di atti regolamentari, era agevole pensare che essa si riferisse ad atti di
portata generale ma privi di natura legislativa (art 289, § 3 TFUE).
Nella sentenza C-583/11 (Inuit), alcuni produttori e commercianti di varie nazionalità propongono un
ricorso di annullamento contro un regolamento sul commercio dei prodotti derivati dalla foca, il quale
poneva dei limiti all’immissione sul mercato dell’Unione di tali prodotti (precisamente, la permetteva
solo quando essi provengono da forme di caccia tradizionalmente praticate dalle comunità Inuit e da
altre comunità indigene a fini di sussistenza).
La Corte ha qui rimarcato che la nozione di atti regolamentari non può includere tutti gli atti di portata
generale, ma riguarda una categoria più ristretta degli atti di questa natura. L’adozione di una
interpretazione contraria equivarrebbe a privare di senso la distinzione tra i termini atti e atti
regolamentari delineata dalla seconda e dalla terza parte di frase dell’art 263, comma 4 TFUE.
Tuttavia, la Corte constata che il regolamento era stato adottato con procedura legislativa ordinaria e
conclude che si tratta di un atto legislativo e non un atto regolamentare. La nuova frase aggiunta
all’art 263, comma 4 TFUE non trova perciò applicazione: perché il ricorso sia ammissibile, i ricorrenti
devono quindi soddisfare (come in passato) la duplice condizione dell’interesse diretto e individuale.
La giurisprudenza è poi pervenuta ad una interpretazione più estensiva, includendo anche atti diversi
dai regolamenti, quali le decisioni, purché di portata generale (art 288, comma 4 TFUE) e non adottate
secondo una procedura legislativa.
Quanto all’elemento non comportano misure d’esecuzione, la giurisprudenza è stata finora
molto restrittiva. Innanzitutto, nella nozione sono incluse le misure d’esecuzione adottate
dalle istituzioni e dagli Stati membri (art 291, § 1 TFUE). Inoltre, un atto comporta misure
d’esecuzione anche quando lo Stato membro non abbia alcuna discrezionalità
nell’adottarle. Infine, occorre fare riferimento alla posizione della persona del ricorrente,
restando irrilevante la questione se l’atto di cui trattasi comporti misure di esecuzione nei
confronti di altri singoli.
L’art 263, comma 2 TFUE elenca i vizi di legittimità che possono essere fatti valere
nell’ambito di un ricorso d’annullamento:
 incompetenza
 violazione delle forme sostanziali
 violazione dei trattati (o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione)
 sviamento di potere
Tali vizi ricalcano il sistema del recours pour excés de pouvoir del diritto amministrativo francese (e
che è servito da modello per la redazione della norma).
1. L’incompetenza può essere interna o esterna.
Si ha incompetenza interna quando l’istituzione che emette l’atto non ha il potere di farlo,
perché tale potere spetta ad altra istituzione. Si ha incompetenza esterna quando nessuna
istituzione può emanare l’atto, perché non rientra nella competenza dell’Unione, ma
semmai in quella degli Stati membri (principio d’attribuzione: art 5, § 1 TUE).
2. La violazione delle forme sostanziali sussiste quando non sono rispettati quei requisiti
formali di importanza tale da influire sul contenuto dell’atto.
Può trattarsi di forme relative al procedimento da seguire per l’emanazione dell’atto, quali ad esempio
l’obbligo di consultazione del Parlamento europeo o del Comitato economico e sociale o, in materia di
concorrenza, l’audizione delle imprese interessate prima dell’adozione della decisione finale. Un atto
adottato senza osservare tali formalità è viziato e deve essere annullato.
Altre ipotesi di forme sostanziali attengono all’atto in quanto tale. La più importante è costituita dalla
violazione dell’obbligo di motivazione (art 296, comma 2 TFUE). Il difetto di motivazione è considerato
d’ordine pubblico, quindi rilevabile d’ufficio.
L’obbligo di motivazione risulta violato quando la motivazione è del tutto assente o insufficiente.
L’estensione che la motivazione deve assumere varia in ragione della natura dell’atto: se destinato ad
avere effetti individuali (in genere accade per le decisioni), la motivazione dovrà essere più precisa e
dettagliata rispetto ad un atto destinato ad avere efficacia generale (regolamento o direttiva).
3. La violazione dei trattati e di qualsiasi regola di diritto relativa allo loro applicazione è
il vizio invocato più di frequente (dal punto di vista logico, ingloba anche l’incompetenza e
la violazione di forme sostanziali). In esso si esprime il principio di gerarchia delle fonti
dell’Unione: può riguardare la violazione di qualunque norma giuridica che sia da
considerare superiore rispetto all’atto impugnato (compresi principi generali, diritti
fondamentali, principi del diritto internazionale generale e accordi internazionali).
4. Lo sviamento di potere si ha quando un’istituzione emana un atto che ha il potere di
adottare, ma persegue scopi diversi da quelli per i quali il potere le è stato attribuito. Tale
vizio è riscontrabile in casi molto rari.
A norma dell’art 263, comma 6 TFUE, il termine di ricorso è di 2 mesi. Esso decorre:
a) dalla pubblicazione sulla GU (se l’atto è stato pubblicato)
b) dalla notificazione (se l’atto è stato notificato al destinatario)
c) in mancanza di pubblicazione o notifica, dal giorno in cui il ricorrente ha avuto
conoscenza dell’atto.
L’art 264 TFUE disciplina l’efficacia delle sentenze di annullamento.
La Corte di Giustizia dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato (comma 1).
La sentenza ha portata generale e retroattiva: l’atto è nullo erga omnes e la nullità
retroagisce al momento in cui l’atto è stato emanato).
Il comma 2 prevede un’eccezione: la Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti
dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi.
La Corte di Giustizia può limitare discrezionalmente gli effetti della sentenza che annulla
l’atto e fare salvi alcuni effetti dell’atto
Ai sensi dell’art 266, comma 1 TFUE l’istituzione, l’organo o l’organismo da cui emana l’atto
annullato (…) sono tenuti a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della
Corte di Giustizia dell’Unione comporta. Tale obbligo vale, in particolare, nel caso in cui il
mero annullamento per effetto della sentenza della Corte si riveli insufficiente.
È fatto salvo il diritto degli interessati a far valere la responsabilità extra-contrattuale
dell’autore dell’atto annullato.
La Corte di Giustizia esercita sugli atti delle istituzioni un controllo di mera legittimità: ove
sia riscontrata l’esistenza di un vizio di legittimità e il ricorso venga accolto, la sentenza si
limita ad annullare l’atto.
Tuttavia, l’art 261 TFUE prevede che i regolamenti possono attribuire alla Corte di Giustizia una
competenza di merito, sul riesame delle sanzioni previste nel regolamento stesso. In tal caso, la Corte
di Giustizia può modificare l’ammontare della sanzione.
4. Il ricorso in carenza
Il ricorso in carenza (art 265 TFUE) è un’altra forma di controllo giurisdizionale di legittimità
del comportamento delle istituzioni.
L’oggetto è un comportamento omissivo (da cui il termine carenza, di derivazione francese)
che si assume illegittimo in quanto tenuto in violazione di un obbligo di agire previsto dai
trattati. I presupposti del ricorso dunque sono:
 l’esistenza di un obbligo di agire a carico dell’istituzione in causa
 la violazione dell’obbligo stesso.
Essendo necessaria la presenza di un obbligo ad agire, è escluso il ricorso in carenza per
l’omissione di atti la cui adozione è affidata alla discrezionalità delle istituzioni.
La violazione dell’obbligo di agire può essere fatta valere a condizione che:
a) l’istituzione, l’organo o l’organismo in causa siano stati previamente richiesti di agire
b) se allo scadere un termine di 2 mesi da tale richiesta l’istituzione, l’organo o l’organismo
non hanno preso posizione (art 265, comma 2 TFUE).
In mancanza, il ricorso non è ricevibile.
Anche l’art 265 TFUE prevede dunque una fase precontenziosa obbligatoria.
La richiesta di agire (messa in mora) deve essere formulata in modo che l’istituzione
comprenda che, in caso di inerzia, rischia di subire la presentazione di un ricorso. Inoltre, si
devono indicare con precisione i provvedimenti che l’istituzione è richiesta di adottare.
Per interrompere la mora, non è necessario che l’istituzione adotti i provvedimenti richiesti,
essendo sufficiente che prenda posizione.
Anche un atto negativo (un rifiuto espresso e motivato di emanare l’atto richiesto) o l’adozione di un
atto di contenuto non coincidente con la richiesta equivalgono a prese di posizione e rendono un
eventuale ricorso privo di oggetto. Resta salva la possibilità di impugnare tali atti con un ricorso per
annullamento (art 263 TFUE).
In ogni caso, la presa di posizione deve essere definitiva: una comunicazione di carattere
meramente interlocutorio lascerebbe sussistere la mora.
Se l’istituzione non prende posizione entro 2 mesi dalla richiesta di agire, è possibile
presentare ricorso alla Corte di Giustizia entro ulteriori 2 mesi (fase contenziosa).
La presa di posizione potrebbe intervenire anche decorsi 2 mesi dalla richiesta di agire o addirittura
dopo la presentazione del ricorso (ma prima che la Corte di Giustizia abbia statuito): in tal caso, il
ricorso diviene privo di oggetto (salva la condanna dell’istituzione alle spese processuali).
I soggetti contro cui può essere proposto il ricorso (legittimazione passiva) sono:
a) il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione e la BCE
b) gli organi e organismi dell’Unione
Quanto alla legittimazione attiva, i soggetti sono distinti in 2 categorie.
Come per l’art 263 TFUE, i soggetti appartenenti alla prima categoria possono essere definiti
ricorrenti privilegiati, disponendo di un diritto di ricorso particolarmente ampio e non
soggetto a limitazioni attinenti all’interesse a ricorrere o al tipo di carenza contestata. Essi
sono gli Stati membri e le altre istituzioni (art 265, comma 1 TFUE).
La seconda categoria include ogni persona fisica o giuridica. Si può parlare anche in questo
caso di ricorrenti non privilegiati, in quanto tali soggetti hanno un diritto di ricorso limitato:
un atto che non sia una raccomandazione o un parere (art 265, comma 3 TFUE).
Dapprima, la giurisprudenza aveva seguito un’interpretazione restrittiva, posto che solo le decisioni
possono essere emanate verso una persona fisica o giuridica, quali destinatari formali dell’atto.
In seguito, ha prevalso un’interpretazione estensiva: l’art 265, comma 3 TFUE andrebbe letto alla luce
dell’art 263, comma 4 TFUE, in quanto espressione dello stesso rimedio giuridico. Pertanto, le
persone fisiche e giuridiche potrebbero ricorrere anche contro l’omissione di un regolamento o di una
decisione da rivolgere ad altre persone, a condizione di dimostrare che l’atto omesso, se emanato,
riguarderebbe il ricorrente direttamente e individualmente.
Tuttavia, il fatto che le due azioni (annullamento e carenza) siano espressione dello stesso rimedio
giuridico, non consente al ricorrente di scegliere quale delle due azioni proporre. La proponibilità
dell’azione dipende dalla natura del comportamento dell’istituzione (attivo o omissivo). Non è dunque
consentito eludere il termine di cui all’art 263, comma 6 TFUE (2 mesi) per impugnare un atto di
un’istituzione valendosi artificiosamente del ricorso in carenza avverso il rifiuto dell’istituzione di
annullare o revocare tale atto.
Se il ricorso viene accolto, il giudice dell’Unione emana una sentenza di accertamento
(come dice l’art 265, comma 1 TFUE, il ricorso è diretto a far constatare tale violazione).
Non spetta alla Corte di Giustizia colmare la carenza adottando l’atto omesso e nemmeno
condannare l’istituzione responsabile ad un obbligo di facere specifico.
Tuttavia, la sentenza fa sorgere un obbligo di agire. Si applica l’art 266, comma 1 TFUE:
l’istituzione, organo o organismo la cui astensione sia stata dichiarata contraria ai trattati
sono tenuti a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di
giustizia comporta.
5. Il ricorso per risarcimento di danni
Ai sensi dell’art 268 TFUE la Corte di Giustizia dell’Unione è competente a conoscere delle
controversie relative al risarcimento dei danni di cui all’art 340 2° e 3° comma.
L’art 340 comma 2 TFUE recita: in materia di responsabilità extra-contrattuale, l’Unione
deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i
danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni.
Il comma 3 ha un contenuto identico: l’unica differenza risiede nell’incipit, che si riferisce
non all’intera Unione ma alla sola BCE, chiamata a risarcire i danni cagionati da essa o dai
suoi agenti.
La competenza della Corte di Giustizia è limitata alla responsabilità extra-contrattuale.
Quanto alla responsabilità contrattuale dell’Unione (che, secondo l’art 340, comma 1 TFUE è regolata
dalla legge applicabile al contratto) la competenza della Corte di Giustizia può essere prevista da una
clausola compromissoria inserita nel contratto (art 272 TFUE). In mancanza, la competenza spetta ai
giudici nazionali.
La definizione di ciò che debba intendersi per controversie relative al risarcimento dei danni
ha dato luogo a notevoli difficoltà.
Si è tentato di assimilare il ricorso per risarcimento al ricorso d’annullamento o in carenza,
sostenendo che, in pratica, esso mira a conseguire risultati analoghi: l’eliminazione degli
effetti giuridici di un atto o di un’omissione delle istituzioni. L’obiettivo era quello di
estendere al ricorso per risarcimento le condizioni di ricevibilità restrittive previste per gli
altri ricorsi dagli artt 263, comma 4 e 265, comma 3 TFUE.
Inoltre, in un primo tempo, la Corte aveva subordinato l’esperibilità dell’azione di
risarcimento alla previa declaratoria di illegittimità dell’atto (o dell’omissione), affermando
che un atto amministrativo che non sia stato annullato non può di per sé costituire un
illecito, né causare quindi un danno agli amministrati. La domanda di risarcimento non è
perciò ammissibile, non potendo la Corte eliminare per tale via le conseguenze giuridiche
di un provvedimento che non è stato annullato (C-25/62, Plaumann). Di conseguenza, se il
ricorso di annullamento (o in carenza) fosse stato dichiarato irricevibile, sarebbe stata
irricevibile anche l’azione per i danni provocati da tale atto.
La Corte di Giustizia non si è prestata a tali manovre: il ricorso per risarcimento è concepito
dal trattato come un rimedio autonomo, dotato di una propria funzione che lo distingue
dalle altre azioni esperibili e sottoposto a condizioni d’esercizio che tengono conto del suo
oggetto specifico. L’azione di risarcimento, a differenza del ricorso per annullamento e in
carenza, è diretta non già a far constatare l’illegittimo comportamento di un’istituzione (con
effetti erga omnes), ma al risarcimento di danni provocati da tale comportamento (inter
partes). Nella prassi le due azioni vengono quasi sempre promosse congiuntamente, ma
proprio in ragione della reciproca autonomia, l’irricevibilità del ricorso per annullamento
non implica l’automatica irricevibilità dell’azione di danni.
È stato inoltre necessario distinguere il ricorso per risarcimento presso la Corte di Giustizia
dalle azioni risarcitorie esperibili dinanzi ai giudici nazionali. Il criterio distintivo è legato,
oltre che all’oggetto della pretesa del singolo, alla disponibilità o meno di un’azione
proponibile ai giudici nazionali, che sia in grado di soddisfare pienamente la pretesa stessa.
Se ciò è possibile, la competenza della Corte di Giustizia è esclusa: il ricorso per risarcimento
risulta quindi un rimedio residuale rispetto alla tutela offerta dai giudici nazionali.
I presupposti della responsabilità extra-contrattuale non sono definiti dai trattati, ma vanno
tratti dai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri (art 340, comma 2 TFUE).
La Corte di Giustizia ha così individuato: un danno effettivo, un nesso causale tra danno e
comportamento delle istituzioni e l’illegittimità del comportamento.
Tali criteri vanno intesi in senso cumulativo: l’assenza di uno di essi è sufficiente per determinare il
rigetto di un ricorso per risarcimento.
La giurisprudenza è stata chiamata a decidere se in taluni casi sia possibile prescindere al presupposto
dell’illegittimità del comportamento che ha provocato il danno, ossia se alle istituzioni possa essere
imputata una responsabilità da attività lecita (cd responsabilità senza colpa). Il presupposto di questo
tipo di responsabilità sarebbe l’eccezionalità del danno subito da un soggetto per effetto di un’attività
svolta nell’interesse generale.
La questione è stata affrontata nella vicenda che ha coinvolto alcune società italiane rimaste vittime
delle contromisure adottate dagli USA come reazione per la mancata esecuzione della decisione del
Dispute Settlement Body (organo di soluzione delle controversie in ambito OMC) in relazione alla cd
guerra delle banane (nella controversia con alcuni Paesi produttori di banane, la decisione riconosceva
la violazione dell’Unione dei suoi obblighi e la scadenza del termine di esecuzione degli stessi).
Il Tribunale (T-69/00, FIAMM) aveva respinto l’azione di risarcimento, argomentando che, non
potendo FIAMM invocare la violazione degli accordi OMC, non era possibile stabilire l’illegittimità del
comportamento delle istituzioni, che, secondo FIAMM, avevano causato il danno. Tuttavia, il
Tribunale ammette che il richiamo ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri (art 340,
comma 2 TFUE), al fine di stabilire quando sorge la responsabilità extra-contrattuale della Comunità
possa valere anche per le ipotesi di danni causati da atti leciti. Poiché i diritti nazionali consentono ai
singoli (anche se in misura variabile, in settori specifici e secondo modalità diverse) di ottenere in via
giudiziale il risarcimento di taluni danni, il Tribunale afferma che la responsabilità extra-contrattuale
della Comunità può sorgere quando siano cumulativamente soddisfatte le condizioni relative
all’effettività del danno, al nesso di causalità tra il danno e il comportamento delle istituzioni
comunitarie e al carattere anormale e speciale del danno in questione. Nel caso di specie, però, la
domanda viene respinta: il danno subito delle ricorrenti non va qualificato come anormale.
Successivamente, la Corte di Giustizia (C-120-121/06 P, FIAMM) nega la possibilità di configurare una
responsabilità delle istituzioni per fatto lecito. Ciò in quanto non sussiste convergenza tra gli
ordinamenti degli Stati membri circa l’esistenza di un principio di responsabilità in presenza di un atto
o di un’omissione leciti della pubblica autorità.

A questi presupposti, sempre necessari, se ne aggiungono altri 2, che entrano in gioco


qualora il comportamento delle istituzioni consista nell’esercizio dei poteri caratterizzati da
margine di discrezionalità (come gli atti normativi implicanti scelte di politica economica).
In tal caso, non basta dimostrare la mera illegittimità del comportamento, ma occorre che:
a) la norma violata dalle istituzioni sia preordinata a conferire diritti ai singoli danneggiati;
b) la violazione sia grave e manifesta.
La scelta di subordinare la responsabilità dell’Unione a tali specifici presupposti aggiuntivi
discende dalla necessità di evitare che l’istituzione sia ostacolata nelle sue decisioni dalla
prospettiva di azioni di danni ogni volta che debba adottare, nell’interesse generale,
provvedimenti normativi che possono ledere interessi di singoli, potendosi pretendere dal
singolo che sopporti, senza poter farsi risarcire col denaro pubblico, determinati effetti,
dannosi per i suoi interessi economici, prodotti da un atto normativo, anche se questo
viene dichiarato invalido (C-83 e 94/76 e 5, 15 e 40/77 Bayerische).
Il diritto al risarcimento è soggetto a prescrizione (5 anni), che decorre dal momento in cui
avviene il fatto che dà loro origine (art 46 Protocollo sullo Statuto della Corte di Giustizia)35.

35 La disposizione va interpretata nel senso che il termine di prescrizione inizia a decorrere non già dalla data
dell’evento dannoso, bensì a partire dal momento in cui la decisione controversa produce i suoi effetti dannosi
nei riguardi delle persone cui essa si dirige, ossia nel momento in cui il danno si è effettivamente realizzato in capo
alle suddette persone (C-460/09 Cremonini).
6. La competenza pregiudiziale: concetti generali
A norma dell’art 267 TFUE la Corte di Giustizia può (talvolta deve) essere chiamata a
pronunciarsi su questioni riguardanti il diritto dell’Unione che si pongono nell’ambito di un
giudizio instaurato davanti alla giurisdizione di uno degli Stati membri.
La Corte conosce di tali questioni solo in seguito al rinvio di un giudice nazionale che,
nell’ambito di un giudizio iniziato e destinato a concludersi nell’ambito della giurisdizione
nazionale, richiede alla Corte di pronunciarsi su una determinata questione qualora reputi
necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto.
La pronuncia della Corte ha quindi natura pregiudiziale in senso temporale (precede la
sentenza del giudice nazionale) e in senso funzionale (è strumentale all’emanazione di tale
sentenza.
Si tratta di una competenza indiretta: l’iniziativa di rivolgersi alla Corte non è assunta direttamente
dalle parti interessate, ma dal giudice nazionale.
Si tratta di una competenza limitata: la Corte esamina solo le questioni sollevate dal giudice nazionale,
il quale resta competente a pronunciarsi su tutti gli altri profili della controversia, siano essi profili di
fatto o di diritto (interno o anche di diritto dell’Unione su cui non ritiene necessario richiedere alla
Corte di pronunciarsi).
Le ragioni che hanno condotto ad inserire, tra le competenze della Corte di Giustizia, una
competenza di tipo pregiudiziale sono legate ad alcuni caratteri tipici dell’ordinamento
dell’Unione:
a) il sistema decentralizzato di applicazione del diritto dell’Unione, per cui l’applicazione di
tale normativa ai soggetti degli ordinamenti interni è in genere affidato alle autorità di
ciascuno Stato membro (art 291, § 1 TFUE: gli Stati membri adottano tutte le misure di
diritto interno necessarie per l'attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione);
b) l’essere la maggior parte delle norme dell’Unione dotate di efficacia diretta.
Entrambe queste caratteristiche rendono estremamente frequente l’insorgere di
controversie tra privati o tra privati e autorità pubblica intorno all’applicazione del diritto
dell’Unione. Tali controversie, in quanto non sottoposte dai trattati alla competenza diretta
della Corte di Giustizia, vanno instaurate dinanzi ai giudici nazionali.
Lo scopo del meccanismo disciplinato dall’art 267 TFUE è duplice:
1. evitare che ciascun giudice nazionale interpreti e verifichi la validità delle norme
dell’Unione in modo autonomo, come se si trattasse di norme appartenenti all’ordinamento
del proprio Stato membro, col rischio di infrangere l’unitarietà del diritto dell’Unione;
2. offrire ai giudici nazionali uno strumento di collaborazione per superare le difficoltà
interpretative che il diritto dell’Unione può sollevare, trattandosi di un ordinamento con
caratteristiche (come il plurilinguismo) e finalità proprie.
La competenza pregiudiziale perciò non è finalizzata solo ad evitare divergenze nell’interpretazione
del diritto comunitario che i tribunali nazionali devono applicare, ma anche e soprattutto a garantire
tale applicazioni, offrendo al giudice il mezzo per sormontare le difficoltà che possono insorgere
dall’imperativo di conferire al diritto comunitario piena efficacia nell’ambito degli ordinamenti
giuridici degli Stati membri.
La competenza pregiudiziale ha dato un notevole contributo allo sviluppo del diritto
dell’Unione. Basti pensare che principi fondamentali quali l’efficacia interna delle norme dei
trattati, l’efficacia diretta delle direttive, il primato sulle norme interne incompatibili, la
responsabilità degli Stati membri per danni conseguiti alla violazione del diritto dell’Unione
hanno tutti trovato la loro affermazione e il loro progressivo sviluppo in pronunce rese dalla
Corte di Giustizia ai sensi dell’art 267 TFUE. Tale meccanismo ha infatti coinvolto in prima
persona i giudici nazionali (e quindi anche le persone che a tali giudici si rivolgono) nello
sforzo diretto a verificare che il diritto dell’Unione venga correttamente interpretato ed
applicato da parte degli Stati membri e all’interno degli stessi, moltiplicando in misura
esponenziale le occasioni in cui tale verifica può avvenire.
L’importanza della competenza pregiudiziale è ampiamente riconosciuta dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia. Ne è testimonianza la fermezza con cui la Corte stessa ha preso posizione contro
ogni disposizione nazionale che ostacoli o limiti la facoltà dei giudici di operare un rinvio pregiudiziale
(come in C-106/77 Simmenthal). In questo senso, la Corte si è sempre opposta alla possibilità di
attribuire a giudici istituiti ad hoc da accordi internazionali stipulati dall’Unione e dagli Stati membri
(cd accordi misti) la competenza ad interpretare le norme contenute nei trattati o in altri atti
dell’Unione: parere 1/91 sul progetto di accordo europeo relativo alla creazione dello Spazio
Economico Europeo (SEE); parere 1/09 sul Progetto di accordo per la creazione di un sistema unico di
risoluzione delle controversie in materia di brevetti.
Per quanto riguarda il settore PESC, prima del Trattato di Lisbona, il Titolo V TUE non prevedeva alcuna
competenza analoga a quella disciplinata dall’art 267 TFUE.
La situazione non è cambiata con il Trattato di Lisbona: a norma dell’art 24, § 1 comma 2 TUE e dell’art
275, comma 1 TFUE, la Corte di Giustizia non è competente per quanto riguarda le disposizioni relative
alla PESC e gli atti adottati in base a tali disposizioni. Considerata la loro generalità, le due norme
sembrano precludere alla Corte anche l’esercizio della competenza pregiudiziale.
Per quanto riguarda lo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia, in passato per i settori della
cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di polizia (ex III pilastro), il vecchio
art 35 TUE prevedeva la possibilità per ciascuno Stato membro di depositare una dichiarazione di
accettazione della competenza pregiudiziale della Corte e di scegliere se limitare il rinvio alle sole
giurisdizioni di ultima istanza o estenderla a ogni giurisdizione (l’Italia aveva scelto il rinvio più ampio).
Con il Trattato di Lisbona, in forza del Protocollo 36 (disposizioni transitorie), per un periodo di 5 anni
la disciplina è rimasta quella contenuta nel vecchio art 35. Dalla scadenza del periodo transitorio
(ossia, dal 1 dicembre 2014), si applica, invece, l’art 267 TFUE.
L’estensione della competenza pregiudiziale ai settori dell’ex III pilastro aumenta la possibilità che la
Corte sia investita di rinvii operati da un procedimento penale. Ciò ha reso opportuno aggiungere
all’art 267 TFUE lo specifico comma 4, che prescrive un procedimento rapido in presenza di persone
in stato di detenzione: quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a
un organo giurisdizionale nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte
statuisce il più rapidamente possibile.

La competenza pregiudiziale viene in rilievo anche sotto il profilo del diritto fondamentale
ad una tutela giurisdizionale effettiva tutelato dall’art 6, § 1 CEDU e dall’art 47 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Poiché lo scopo del rinvio pregiudiziale è anche quello di aiutare il giudice nazionale a
superare le difficoltà interpretative che il diritto dell’Unione può porre, omettendo di
sollevare una questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia quando le circostanze lo
richiederebbero, il giudice (soprattutto se di ultima istanza), potrebbe pregiudicare il diritto
dei soggetti interessati ad un rimedio giurisdizionale effettivo o anche distoglierli dal loro
giudice naturale. Infatti, un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un
ricorso giurisdizionale interno è tenuto a rivolgersi alla Corte di Giustizia al fine di evitare
che siano violati i diritti conferiti ai singoli dal diritto comunitario (C-224/01, Köbler).
Köbler è un professore universitario austriaco che, avendo insegnato per un certo periodo in Germania, chedeva
che nel computo della sua anzianità di servizio venisse incluso anche tale periodo ai fini del riconoscimento della
relativa indennità. Le autorità austriache rigettavano la richiesta, sostenendo che l’anzianità di servizio che poteva
essere presa in considerazione fosse solo quella maturata presso le università austriache. Köbler riteneva tale
rifiuto configurasse una discriminazione nei confronti dei lavoratori che avevano esercitato il diritto alla libera
circolazione (art 45 TFUE).
Il giudice austriaco, che conosceva la causa in ultima istanza, avendo frainteso la portata di alcune pronunce
precedenti della Corte di Giustizia, rigettava senza sollevare questione pregiudiziale.
Köbler propone azione di risarcimento e, stavolta, il giudice austriaco, si rivolge alla Corte di Giustizia.
La Corte ammette la responsabilità dello Stato membro per comportamenti del potere giudiziario: in
considerazione del ruolo essenziale svolto da potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle
norme comunitarie, la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in discussione e la tutela dei diritti che
esse riconoscono sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un
risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di
un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro.
Nell’argomentare, la Corte specifica che un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce per definizione
l’ultima istanza dinnanzi alla quale i singoli possono far valere i diritti ad essi riconosciuti dal diritto comunitario:
se una violazione dei diritti in una decisione di un tale organo giurisdizionale non può più costituire oggetto di
riparazione, ne consegue che i singoli non possono essere privati della possibilità di far valere la responsabilità
dello Stato al fine di ottenere i tal modo una tutela giuridica dei loro diritti.
Nel caso di specie, però, la Corte esclude il risarcimento, in quanto ritiene che il comportamento del giudice
austriaco di ultima istanza non sia stato arbitrario e che non vi sia violazione grave e manifesta della norma
comunitaria.

7. Segue: ammissibilità e rilevanza della questione pregiudiziale


Il meccanismo della competenza pregiudiziale costituisce uno strumento di cooperazione
tra giudici nazionali e Corte di Giustizia: entrambi svolgono un ruolo complementare, al fine
di individuare una soluzione al caso concreto che sia conforme al diritto dell’Unione. Dal
momento che non esiste un rapporto gerarchico tra giudici nazionali e Corte di Giustizia, si
spiega perché non vi sia un controllo né sulla competenza del giudice nazionale a conoscere
del giudizio principale, né sulla regolarità del giudizio stesso e, in particolare, dell’atto di
rinvio. Si tratta di aspetti non disciplinati dal diritto dell’Unione, ma attinenti al diritto
interno del giudice nazionale, quindi non possono essere risolti dalla Corte.
La Corte ha invece posto alcuni requisiti sul contenuto del provvedimento di rinvio,
richiedendo (soprattutto in questioni relative al settore della concorrenza, caratterizzato da
situazioni di fatto e di diritto complesse) che il giudice nazionale definisca l’ambito di fatto
e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate. In mancanza di sufficienti indicazioni
al riguardo, la Corte non potrebbe giungere ad un’interpretazione del diritto comunitario
che sia utile per il giudice nazionale.
Di solito, la Corte di Giustizia non verifica la necessità del rinvio e la rilevanza delle questioni
rispetto alla soluzione della questione principale pendente davanti al giudice nazionale. Nel
sistema dell’art 267 TFUE, il giudice nazionale si rivolge alla Corte qualora reputi necessario
per emanare la sua sentenza una decisione sul punto.
Ciò vale anche per i giudici di ultima istanza (art 267, comma 3 TFUE), i quali, secondo la Corte,
dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia
necessaria una pronuncia sul punto di diritto comunitario onde consentire loro di decidere.
In una prima fase, la Corte riteneva che spettasse al solo giudice nazionale valutare la
necessità del rinvio e, in particolare, la rilevanza o la pertinenza delle questioni pregiudiziali.
In seguito, un uso talvolta improprio e persino abusivo del rinvio pregiudiziale ad opera delle
parti e degli stessi giudici nazionali ha indotto la Corte a mutare atteggiamento.
La Corte di Giustizia si è così riservata il potere di verificare la rilevanza delle questioni
pregiudiziali al fine di controllare se essa sia competente a rispondere e se non sussistano
alcune ipotesi patologiche individuate dalla giurisprudenza:
a) controversie fittizie (le parti sono d’accordo tra loro sull’interpretazione da dare
alle norme dell’Unione e vogliono solo ottenere una pronuncia della Corte sul
punto che, come tutte le sentenze pregiudiziali, abbia efficacia erga omnes);
b) questioni manifestamente irrilevanti, in cui la norma dell’Unione oggetto della
questione pregiudiziale è manifestamente inapplicabile alla fattispecie oggetto del
giudizio nazionale;
c) questioni puramente ipotetiche, in ragione della loro genericità o del fatto che
non rispondono ad un effettivo bisogno del giudice nazionale, in vista della
soluzione della controversia.
Nella fase attuale, la Corte, pur ribadendo il suo potere di rifiutarsi di rispondere a questioni
pregiudiziali (casi eccezionali), pone una sorta di presunzione di rilevanza: qualora le
questioni sollevate dal giudice nazionale vertano sull’interpretazione di una norma
comunitaria, in via di principio la Corte è tenuta a statuire. La Corte si accontenta che il
giudice nazionale abbia indicato i motivi che lo inducano a ritenere necessaria la risposta
alle questioni pregiudiziali: basta constatare che la rilevanza non possa essere esclusa.
8. Segue: la nozione di giurisdizione
La competenza pregiudiziale può essere attivata solo da un organo che possa essere definito
come un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri.
La Corte di Giustizia si riserva di verificare che l’organo autore del rinvio pregiudiziale rientri
effettivamente in tale nozione, considerandola come una nozione autonoma, non
necessariamente coincidente con le definizioni di cui agli ordinamenti degli Stati membri.
Il primo requisito che un organo nazionale deve soddisfare è che svolga una funzione
giurisdizionale, ossia che sia chiamato a statuire nell’ambito di un procedimento destinato
a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale. Il giudizio va effettuato rispetto alle
funzioni svolte dall’organo nello specifico caso che ha dato origine al rinvio.
Nella sentenza C-111/94 (Job Centre) viene negata la funzione giurisdizionale del Tribunale di Milano,
in quanto le questioni pregiudiziali vengono sollevate dal Tribunale in funzione di giudice del registro
delle imprese. La Corte ritiene che il Tribunale allorché statuisce secondo le disposizioni nazionali
vigenti nell’ambito di un procedimento di giurisdizione volontaria su una domanda di omologazione
dell’atto costitutivo di una società, ai fini dell’iscrizione di questa nel registro, esercita una funzione
non giurisdizionale, che è tra l’altro affidata, in altri Stati membri, ad autorità amministrative. La Corte
si ritiene invece regolarmente investita da questioni pregiudiziali poste nell’ambito del giudizio
relativo al reclamo contro il decreto del Tribunale che rifiuti l’omologazione.
La Corte di Giustizia ha negato che la Corte dei conti in sede di controllo a posteriori sulla regolarità
dell’attività amministrativa, mentre ha accolto l’opposta soluzione riguardo al Consiglio di Stato in
sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, valorizzando la considerazione che il
parere del Consiglio di Stato è vincolante, salva deliberazione contraria del Consiglio dei Ministri.
Per quanto riguarda la Corte costituzionale, occorre distinguere la posizione della Corte di Giustizia
(che non ha mai messo in discussione che essa fosse abilitata a proporre questioni pregiudiziali)
rispetto a quella della Corte costituzionale che è invece più articolata.
a) Nell’ordinanza 103/2008 la Corte costituzionale ritiene che, se una questione d’interpretazione di
norme dell’Unione si pone nel quadro di un giudizio di costituzionalità in via principale per violazione
dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (art 117, comma 1 Cost) la Corte pur nella sua
peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell’ordinamento interno (…)
costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art 23, § 3 TCE (ora art 267, comma 3 TFUE) e in
particolare, una giurisdizione di unica istanza (…) legittimata a proporre questione pregiudiziale
davanti alla Corte di Giustizia.
b) Sino ad epoca molto recente, invece, la Corte costituzionale riteneva sé stessa non legittimata al
rinvio pregiudiziale nell’ambito del giudizio di costituzionalità in via incidentale (ordinanza 536/95).
Restava quindi rimesso al giudice comune il compito di rivolgersi prima alla Corte di Giustizia in via
pregiudiziale e solo dopo, se necessario, alla Corte costituzionale (cd doppia pregiudizialità). Tale
eventualità poteva aversi qualora l’interpretazione della norma dell’Unione fornita dalla Corte di
Giustizia in via pregiudiziale (prima pregiudiziale) non fosse in grado di risolvere il dubbio che la stessa
norma violasse i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano (cd controlimiti).
Di recente, un’ulteriore svolta: con l’ordinanza 207/2013 (Personale scolastico non di ruolo vs MIUR)
la Corte costituzionale opera per la prima volta un rinvio pregiudiziale in un giudizio incidentale e
rinuncia (parzialmente) al sistema della doppia pregiudizialità.
Si trattava di questioni di interpretazione della clausola 5 dell’accordo-quadro CES-UNICE-CEEP sul
lavoro a tempo determinato, di cui alla direttiva 1999/70/CE: 1) se la clausola osta all’applicazione di
alcune disposizioni della legge 124/1999 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), che
dispongono il conferimento di supplenze annuali, in attesa dell’espletamento delle procedure
concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo (ricorrendo a contratti a tempo
determinato senza indicare tempi certi per l’espletamento dei concorsi); 2) se costituiscano ragioni
obiettive (ai sensi della clausola 5) le esigenze di organizzazione del sistema scolastico italiano, tali da
rendere compatibile con il diritto UE la normativa italiana sull’assunzione del personale scolastico a
tempo determinato, che non prevede il diritto al risarcimento del danno.
La Corte Costituzionale riconosce che questa Corte abbia la natura di giurisdizione nazionale ai sensi
dell’art 267, comma 3 TFUE anche nei giudizi in via incidentale. L’obbligo di rinvio pregiudiziale
riguarda però solo il caso di norme dell’Unione prive di effetto diretto, in quanti tali norme rendono
concretamente operativi i parametri di cui agli artt 11 e 117, comma 1 Cost.

Nei casi dubbi, debbono inoltre essere verificati altri requisiti. Secondo una formula spesso
ripresa dalla Corte di Giustizia, la possibilità che un determinato organo effettui un rinvio
pregiudiziale dipende da una serie di elementi quali l’origine legale dell’organo, il suo
carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del
procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente.
Tuttavia, l’esame della giurisprudenza rivela come l’approccio della Corte sia caratterizzato
da una notevole elasticità e come la presenza degli elementi menzionati nella formula non
venga verificata in modo sistematico e nemmeno con rigore costante.
Più rigoroso è apparso l’atteggiamento della Corte di Giustizia con riferimento al requisito
dell’origine legale dell’organo, con particolare riferimento al caso degli arbitri, ai quali ha
costantemente negato il potere di sollevare questioni pregiudiziali. L’unica eccezione
riguarda i casi di arbitrato obbligatorio (quando le parti sono tenute per legge a sottoporre
ad arbitrato le proprie controversie in una determinata materia).
Nella sentenza C-181/81 (Nordsee) le parti avevano concluso un contratto per la ripartizione tra di loro dei
contributi ottenuti dal Fondo europeo agricolo di orientamento e gestione, per la costruzione di alcuni pescherecci.
Nel contratto una clausola deferiva al giudizio di un arbitro le eventuali controversie che dovessero insorgere tra
le parti.
Essendo stato instaurato un procedimento arbitrale, l’arbitro, trovandosi a dover interpretare alcuni regolamenti,
solleva questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, la quale però dichiara la propria incompetenza.
Constatato che il ricorso all’arbitro era il frutto di una clausola compromissoria nel contratto e che le autorità
pubbliche tedesche non erano implicate in tale scelta, né potevano intervenire nel procedimento arbitrale, la Corte
conclude che il nesso tra il presente arbitrato e l’organizzazione dei mezzi d’impugnazione ordinari dello Stato
membro interessato, non è abbastanza stretto perché l’arbitro possa qualificarsi come giurisdizione di uno Stato
membro. Tuttavia, la Corte afferma la passibilità di azionare il rinvio pregiudiziale da parte del giudice nazionale,
in particolare nell’ambito del controllo del loro arbitrale, più o meno ampio a seconda dei casi, che spetta ad esso
in caso di appello, di opposizione, di exequatur o di qualsiasi altra impugnazione contemplata dalla normativa
nazionale di cui trattasi.

9. Segue: facoltà e obbligo di rinvio


Rispetto al rinvio pregiudiziale, la posizione dei giudici nazionali varia secondo che essi
emettano decisioni contro le quali sia possibile proporre un ricorso giurisdizionale di diritto
interno (nel qual caso il rinvio è una semplice facoltà: art 267, comma 2 TFUE) o si tratti di
giudici di ultima istanza (in tal caso, il giudice ha un obbligo di rinvio: comma 3).
La ratio della distinzione è duplice:
in un giudizio di ultima istanza, un errore nel risolvere questioni di diritto dell’Unione resterebbe senza
rimedio, per cui l’obbligo di rinvio da parte del giudice di ultima istanza costituisce l’estrema forma di
tutela offerta ai soggetti interessati alla corretta applicazione giudiziaria del diritto dell’Unione.
l’erronea soluzione data da un giudice di ultima istanza a questioni di diritto dell’Unione rischia di
essere accolta in numerose altre pronunce e dunque a consolidarsi (per effetto del principio dello
stare decisis negli ordinamenti di common law o come conseguenza del prestigio e della diffusione di
cui godono le sentenze di tali giudici).
La nozione di giudice di ultima istanza dipende dalla possibilità concreta di proporre
un’impugnazione contro le decisioni del giudice, non dal rango che egli occupa
nell’ordinamento giudiziario. Nello stabilire se vi sia la possibilità di ricorso giurisdizionale di
diritto interno vanno presi in considerazione solo i rimedi ordinari.
A) La facoltà di rinvio implica che i giudici sono liberi di scegliere se sollevare o meno le
questioni di diritto dell’Unione davanti alla Corte di Giustizia, indipendentemente dalla
richiesta delle parti, ossia anche d’ufficio.
Tale libertà si estende alla scelta del momento in cui effettuare il rinvio, anche se, secondo la Corte,
sarebbe opportuno che, prima di rinviare, siano già stati accertati i fatti e siano già state risolte le
questioni di diritto interno.
La facoltà di rinvio non può essere limitata per effetto di norme processuali nazionali. Ciò vale
soprattutto per le norme che impongono al giudice di rinvio il rispetto di punti di diritto stabiliti dalla
Corte di Cassazione. Un obbligo del genere si tradurrebbe nell’impossibilità per il giudice di rinvio di
sollevare questioni pregiudiziali davanti alla Corte di Giustizia qualora dubiti della conformità al diritto
dell’Unione di punti di diritto stabiliti dalla Corte di Cassazione.
B) Nell’interpretare la portata dell’obbligo di rinvio, la Corte di Giustizia ha introdotto alcuni
elementi di flessibilità, tali da rendere meno netta la distinzione di giudici di ultima istanza
rispetto agli altri giudici.
Nella sentenza C-283/81 (CILFIT), un’impresa importatrice di lana originaria di Stati terzi chiedeva al Ministero della
Sanità italiano il rimborso di somme pagate a titolo di diritti sanitari, ritenendo che tali diritti, costituendo una
tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale, erano vietati dal regolamento sull’organizzazione comune dei
mercati agricoli per alcuni prodotti di cui all’Allegato II del TCE. Il Ministero contestava che la lana figurasse tra i
prodotti soggetti al regolamento, non trattandosi di prodotto di origine animale ai sensi del regolamento stesso.
La causa era giunta fino alla Corte di Cassazione, che aveva sollevato questione pregiudiziale per sapere in quali
casi il giudice di ultima istanza può omettere il rinvio alla Corte di Giustizia.
Anzitutto, anche i giudici di ultima istanza dispongono dello stesso potere di valutare di tutti
gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia sul punto di diritto
comunitario onde consentire loro di decidere: la sola circostanza che le parti abbiano
sollevato questioni relative al diritto dell’Unione non comporta per ciò solo obbligo di rinvio.
Inoltre, la Corte ha individuato alcune ipotesi in cui, pur in presenza di questioni rilevanti, il
rinvio può essere omesso, ammettendo una facoltà di rinvio per i giudici di ultima istanza:
a) quanto la questione sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione
ad analoga fattispecie, che sia stata già decisa in via pregiudiziale;
b) quando la risposta alla questione risulti da una giurisprudenza costante della Corte che,
indipendentemente dalla natura del procedimento in cui sia stata introdotta, risolva il punto
di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere;
c) quando la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da
non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione
sollevata (cd ipotesi dell’atto chiaro: in claris non fit interpretatio).
Quella dell’atto chiaro è l’ipotesi più delicata e si presta ai maggiori abusi. Per cercare di definirne
meglio il campo di applicazione, la Corte precisa che, prima di concludere nel senso che la questione
è chiara e il rinvio alla Corte non dovuto, al giudice di ultima istanza è fatto obbligo di procedere alle
seguenti verifiche:
o che la stessa soluzione si imporrebbe sui giudici di altri Stati membri e alla Corte di Giustizia;
o raffrontare le diverse versioni linguistiche delle norme dell’Unione;
o tenere conto della non necessaria coincidenza tra il significato di una medesima nozione
giuridica nel diritto dell’Unione e nel diritto interno;
o ricollocare la norma dell’Unione nel suo contesto e alla luce delle sue finalità.
In ogni caso, se il giudice di ultima istanza ritiene di non essere obbligato a sollevare rinvio
pregiudiziale, deve fornire motivazione del suo rifiuto di rivolgersi alla Corte di Giustizia.
Diversamente, il mancato rinvio potrebbe essere considerato arbitrario e condurre alla
violazione dell’art 6, § 1 CEDU (tutela giurisdizionale effettiva): tale comportamento
potrebbe costituire un’ipotesi di responsabilità dello Stato membro (nell’esercizio del suo
potere giudiziario) e dar luogo ad un risarcimento dei danni a favore del singolo i cui diritti
siano stati lesi dalla pronuncia giudiziale.
La distinzione tra giudici di ultima istanza e giudici di istanze inferiori è stata ulteriormente
attenuata, introducendo un obbligo di rinvio anche per i giudici non di ultima istanza nelle
questioni pregiudiziali di validità.
La Corte di Giustizia ha negato che un giudice possa autonomamente (senza rinvio pregiudiziale)
accertare l’invalidità di un atto delle istituzioni (sentenza C-314/85, Foto-Frost): qualora ritenga
fondati i motivi d’invalidità addotti dalle parti su un atto delle istituzioni, il giudice (anche non di ultima
istanza) è comunque tenuto a rinviare alla Corte di Giustizia la relativa questione pregiudiziale.
Tuttavia, affinché l’obbligo di rinvio scatti non basta che le parti abbiano sollevato dei motivi di
invalidità: occorre che il giudice li consideri fondati.
10. Segue: l’oggetto delle questioni pregiudiziali
La competenza pregiudiziale può riguardare questioni di interpretazione e di validità.
Le questioni pregiudiziali d’interpretazione possono avere ad oggetto:
 i trattati;
 gli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’Unione.
Per trattati si deve intendere il testo del TUE e del TFUE nella versione applicabile ratione temporis ai
fatti della causa pendente davanti al giudice nazionale, compresi protocolli e allegati (art 51 TUE),
tenendo conto degli emendamenti intervenuti ai sensi dell’art 48 TUE o degli adattamenti apportati
in occasione dell’adesione di nuovi Stati membri (art 49 TUE) e gli stessi atti di adesione.
La nozione di atti compiuti dalle istituzioni è molto ampia e comprende tutti gli atti di cui alle
categorie dell’art 288 TFUE (incluse raccomandazioni e pareri), ma anche gli atti atipici, gli accordi
internazionali e gli atti privi di efficacia diretta.
La lettera dell’art 267 TFUE esclude che, nell’ambito di una questione d’interpretazione, la
Corte di Giustizia possa procedere essa stessa all’applicazione di norme dell’Unione alla
fattispecie oggetto del giudizio pendente davanti al giudice nazionale.
La norma implicitamente contrappone l’interpretazione all’applicazione del diritto dell’Unione e
attribuisce alla Corte di Giustizia solo la prima funzione, riservando la seconda al giudice nazionale.
Nondimeno, le risposte fornite dalla Corte vanno spesso al di là di una mera interpretazione astratta
delle norme dell’Unione.
Non è previsto che la Corte di Giustizia proceda all’interpretazione di norme degli Stati
membri o si pronunci sull’incompatibilità di una norma nazionale con norme dell’Unione:
tali compiti spettano al giudice nazionale che ha operato il rinvio.
Tuttavia, spesso il giudice nazionale chiede alla Corte di Giustizia un giudizio sulla compatibilità con il
diritto dell’Unione di specifiche norme interne: la Corte, pur mantenendo ferma la propria
incompetenza a rispondere a questioni del genere, non le dichiara senz’altro inammissibili, ma le
riformula, in modo da fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione utili per valutare
tale compatibilità ai fini della soluzione della causa. Ciò permette al rinvio pregiudiziale di essere
utilizzato dai giudici nazionali (e dai privati che a tali giudici si rivolgono) per ottenere un giudizio, sia
pure indiretto, sulla compatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione, con effetti analoghi a
quelli di una sentenza emessa contro uno Stato membro su un ricorso per infrazione ai sensi degli artt
258 ss TFUE (cd uso alternativo del rinvio pregiudiziale).
Inoltre, la Corte accetta di pronunciarsi su questioni interpretative anche se le norme dell’Unione
oggetto della questione non sono applicabili al caso di specie in quanto tale, ma in virtù di un richiamo
operato da norme interne. Tuttavia, la Corte segue la soluzione opposta qualora la formulazione delle
norme dell’Unione sia solo parzialmente riprodotta in norme interne.
Le questioni pregiudiziali di validità possono avere ad oggetto solo atti compiuti dalle
istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’Unione.
Si tratta di un controllo sulla validità che la Corte di Giustizia esercita a integrazione delle forme di
controllo esercitato nel ricorso d’annullamento (art 263 TFUE), nell’eccezione d’invalidità (art 277
TFUE) e, in via incidentale, nell’azione di responsabilità extra-contrattuale (art 268 TFUE).
L’analogia con il ricorso d’annullamento comporta che oggetto della questione possano
essere tutti gli atti contro i quali si può proporre un ricorso ai sensi dell’art 263 TFUE. Anche
i motivi d’invalidità sono gli stessi di cui al comma 2.
Tuttavia, la questione di validità che riguardi un regolamento o una decisione rivolta a terzi
non è sottoposta alle condizioni restrittive di cui al comma 4.
Parimenti, non trova applicazione il termine di 2 mesi di cui al comma 6.
Dunque una questione di validità potrebbe essere proposta anche a distanza di anni dall’entrata in
vigore dell’atto in causa. In realtà, per una questione di certezza del diritto, qualora risulti che il
soggetto che si rivolge al giudice nazionale avrebbe potuto proporre ricorso di annullamento contro
l’atto in questione e non lo ha fatto, lasciando decorrere il termine, il giudice nazionale non può più
sollevare questione pregiudiziale di validità.
Per quanto riguarda l’eccezione d’invalidità, l’art 277 TFUE dispone: nell'eventualità di una
controversia che metta in causa un atto di portata generale adottato da un'istituzione, organo o
organismo dell'Unione, ciascuna parte può, anche dopo lo spirare del termine previsto all'art 263,
comma 6, valersi dei motivi previsti all'art 263, comma 2, per invocare dinanzi alla Corte di Giustizia
dell'UE l'inapplicabilità dell'atto stesso.
Dato il carattere incidentale dell’accertamento, la decisione non determina l’annullamento dell’atto,
ma la sua disapplicazione nel procedimento in corso. L’inapplicabilità incide sull’efficacia dell’atto ai
fini del giudizio in corso (ha effetto ex nunc ed inter partes).
In pratica, è vero che l’istituzione che ha emanato l’atto non ha l’obbligo di revocarlo, ma è anche vero
che difficilmente si potrà ignorare la pronuncia della Corte (anche solo per evitare che una serie di
eccezioni d’invalidità rendano di fatto inoperante l’atto).
11. Segue: il valore delle sentenze pregiudiziali
Le sentenze rese dalla Corte in un procedimento a norma dell’art 267 TFUE vincolano
anzitutto il giudice che ha effettuato il rinvio (inter partes), il quale non può discostarsene
(può solo, se lo ritenga necessario, adire di nuovo la Corte per ulteriori chiarimenti).
Tuttavia, tenuto conto del carattere obiettivo della competenza, la sentenza della Corte
assume un valore generale (erga omnes) che travalica i confini del giudizio nel cui ambito
le questioni pregiudiziali sono state sollevate. Qualunque giudice nazionale che si trovi a
dover risolvere questioni su cui la Corte di Giustizia si è già pronunciata con sentenza
pregiudiziale, deve adeguarsi a tale sentenza, salva la possibilità di rivolgersi nuovamente
alla Corte ai sensi dell’art 267 TFUE.
Il valore erga omnes delle sentenze pregiudiziali d’interpretazione risulta dal fatto che l’esistenza di
sentenza della Corte di Giustizia rende superflua la proposizione della questione da parte di un nuovo
giudice (e, se di ultima istanza, lo esenta dall’obbligo di cui all’art 267, comma 3 TFUE). Ciò vale anche
per le sentenze pregiudiziali di validità che dichiarano l’invalidità di un atto delle istituzioni.
In linea di principio tutte le sentenze pregiudiziali hanno valore retroattivo (ex tunc).
L’interpretazione fornita dalla sentenza pregiudiziale chiarisce il significato e la portata della norma
quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore e la
norma così interpretata può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti o
costituiti prima della sentenza interpretativa se, per il resto, sono soddisfatte le condizioni che
consentano di portare alla cognizione dei giudici competenti una controversia relativa all’applicazione
di detta norma.
Il valore retroattivo delle sentenze della Corte rese a titolo pregiudiziale va però conciliato con il
principio generale della certezza del diritto (cd rapporti esauriti): un soggetto che non abbia agito in
giudizio entro il termine previsto dall’ordinamento a tale fine, non può, scaduto tale termine, invocare
una sentenza pregiudiziale emessa dalla Corte.
La Corte di Giustizia si riserva il potere di limitare nel tempo la portata delle proprie
sentenze pregiudiziali tanto interpretative quanto di validità: può essere invocato, per
analogia, l’art 264 TFUE, relativo alle sentenze che accolgono un ricorso d’annullamento.
L’esercizio di tale potere viene in genere motivato da esigenze di certezza del diritto e di
tutela dell’affidamento. Tuttavia, la Corte ammette la possibilità di invocare la sentenza
pregiudiziale da parte di coloro che abbiano proposto un’azione giudiziaria prima della
sentenza emessa.
PARTE VI LE COMPETENZE DELL’UNIONE EUROPEA
1. Considerazioni generali: il principio d’attribuzione
Il problema di come vanno delimitate e qualificate le competenze dell’Unione si è posto dapprima
soprattutto per quanto riguarda la Comunità europea.
Rispetto alle altre componenti dell’Unione (prima del Trattato di Lisbona, i cd pilastri non comunitari)
la Comunità Europea ha avuto una vita molto più lunga, nel corso della quale si è assistito ad uno
sviluppo ampio e articolato delle sue competenze. Essa era caratterizzata dal metodo comunitario,
un’impostazione sovranazionale che la rendeva molto più autonoma rispetto agli Stati membri. Questi
non sempre riuscivano a controllarne i processi decisionali. Grande era quindi il rischio che si
verificasse una strisciante estensione delle competenze della Comunità (competence creep), senza
passare per la procedura di revisione dei trattati (art 48 TUE) e privando così gli Stati membri del loro
potere individuale di veto.
Un rischio del genere non sussisteva per i pilastri non comunitari (settore PESC, cooperazione
giudiziaria in materia penale e cooperazione di polizia), caratterizzati dal prevalere del metodo della
cooperazione intergovernativa, con decisioni del Consiglio prese per lo più all’unanimità e meccanismi
che consentiva agli Stati membri contrari di bloccare o almeno di rinviare gli sviluppi indesiderati.
Tutto ciò spiega come mai il problema della delimitazione delle competenze sia stato affrontato, a
partire dal Trattato di Maastricht, con l’inserimento dell’art 5 TCE, che enunciava alcuni principi
generali in materia: il principio di attribuzione, di sussidiarietà e di proporzionalità.
Con la successiva abolizione della struttura a pilastri (Trattato di Amsterdam) e l’estensione del
metodo comunitario alle materie dell’ex III pilastro, si è avvertita l’esigenza di arrivare ad una disciplina
di più ampia portata da dedicare al problema delle competenze. In realtà, l’esigenza di definire (e
implicitamente di contenere) le competenze dell’Unione è stato anche uno dei temi centrali del
dibattito e dei negoziati della riforma del Trattato di Lisbona, il quale ha rafforzato lo status dei
principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità, estendendoli all’intera Unione e
incorporandoli nell’art 5 TUE. Agli stessi principi (in particolare a quello d’attribuzione e a quello di
sussidiarietà) sono dedicati molti richiami anche in molte altre disposizioni dei trattati. È stato poi
previsto un innovativo sistema di controllo del rispetto del principio di sussidiarietà, affidato ai
parlamenti nazionali, disciplinato dal Protocollo 2 (sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità). Inoltre, il Titolo I TFUE codifica la distinzione tra le varie categorie di competenze
dell’Unione (art 2 TFUE) e ne fornisce un’elencazione categoria per categoria (artt 3 – 6 TFUE).

Nel trattare delle competenze dell’Unione occorre partire dal principio di attribuzione.
A differenza degli Stati nazionali, l’Unione Europea non è un ente a finalità e competenza
generali: può agire solo nei settori in cui ciò sia contemplato dai trattati e solo per gli
obiettivi che i trattati stessi indicano.
L’art 5 TUE enfatizza la centralità del principio: la delimitazione delle competenze
dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione (§ 1).
Il § 2, prima frase, definisce il principio: l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle
competenze che lo sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi
da questi stabiliti. Qui l’accento è sul carattere derivato dalle competenze dell’Unione.
Ciò risulta già dall’art 1, comma 1 TUE: con il presente trattato le Alte Parti Contraenti istituiscono tra
di loro un’Unione Europea (…) alla quale gli Stati membri attribuiscono competenze per conseguire i
loro obiettivi comuni.
Il § 2, seconda frase completa la definizione, esprimendo l’idea della specialità delle
competenze dell’Unione rispetto a quelle degli Stati membri: qualsiasi competenza non
attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri.
La stessa idea è ripresa nell’art 4, § 1 TUE: in conformità dell’art 5, qualsiasi competenza non attribuita
all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri.
La competenza dell’Unione non si presume: per regola generale la competenza appartiene
agli Stati membri.
Di qui l’esigenza che ciascun atto dell’Unione indichi la base giuridica su cui è fondato.
Secondo la Corte di Giustizia, l’indicazione del detto fondamento giuridico s’impone anche alla luce
del principio delle competenze di attribuzione sancito all’art 5, comma 1 CE (ora art 5, § 2 TUE),
secondo il quale la Comunità agisce nei limiti delle competenze che lo sono conferite e degli obiettivi
che lo sono assegnati dal trattato sia per l’attività comunitaria sia per quella internazionale.
La portata del principio d’attribuzione non è però così rigida come potrebbe sembrare.
La Corte di Giustizia ha ammesso che, pur in mancanza di un’espressa attribuzione di poteri,
l’Unione possa essere considerata competente nel caso in cui l’esercizio di un certo potere
risulti indispensabile per l’esercizio di un potere espressamente previsto o per il
raggiungimento degli obiettivi dell’ente (teoria dei poteri impliciti). Tale teoria trova
applicazione nella giurisprudenza UE tutte le volte che la Corte interpreta estensivamente i
poteri delle istituzioni (e, per converso, limita i poteri residui degli Stati membri), pur in
assenza di un preciso dato testuale in questo senso.
I trattati stessi prevedono una (sia pur parziale) deroga al principio di attribuzione,
attraverso l’art 352 TFUE (cd clausola di flessibilità): se un’azione dell’Unione appare
necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi
di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal
fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa
approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Allorché adotta
le disposizioni in questione secondo la procedura legislativa speciale, il Consiglio delibera
altresì all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento
europeo (§ 1).
L’inserimento di una disposizione così formulata rivela come gli stessi Stati membri siano
coscienti dell’impossibilità di definire in anticipo e con esattezza i poteri di cui l’Unione
potrebbe aver bisogno per raggiungere i suoi obiettivi, così complessi e variegati (art 3 TUE).
Di qui la necessità di consentire, seppure in limiti molto ristretti e nel rispetto di una
procedura rigorosa, l’assunzione autonoma (senza intervento degli Stati membri) di nuovi
poteri.
La procedura è delle più solenni: il Consiglio delibera all’unanimità, su proposta della
Commissione, previa approvazione del Parlamento europeo. La seconda frase precisa che,
nell’adottare un atto legislativo, si seguirà una procedura legislativa speciale dello stesso
tipo (anziché la procedura legislativa ordinaria di cui all’art 289 TFUE).
Dato il peso che l’adozione di un atto ai sensi dell’art 352 TFUE può avere sull’equilibrio di
competenze tra l’Unione e gli Stati membri, il § 2 dispone: la Commissione, allorché formula
una proposta basata sulla clausola di flessibilità, richiama l’attenzione dei parlamenti
nazionali, nel quadro delle procedure di controllo del rispetto del principio di sussidiarietà
(Protocollo 2).
Non a caso, nella sentenza (2009) sulla ratifica del Trattato di Lisbona (Lissabon Urteil) il
Bundesverfassungsgericht ha preteso che il rappresentante della Germania in Consiglio non dia il
proprio voto ad una proposta basata sull’art 352 TFUE se non dopo la ratifica del Parlamento federale.
Sul piano sostanziale, occorre che siano soddisfatte numerose e complesse condizioni:
1. la nuova azione deve apparire necessaria nel quadro delle politiche definite dai trattati
per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati;
2. senza che i trattati abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine;
3. le nuove misure non possono comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative
e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati lo escludono (§ 3);
4. non può servire di base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la PESC (§ 4).
La necessità dell’azione comporta un notevole margine di discrezionalità in favore delle
istituzioni. La vastità degli obiettivi dell’Unione, soprattutto dopo l’abolizione della struttura
a pilastri, è tale che qualsiasi azione potrebbe essere agevolmente collegata con essi, se ce
ne fosse la volontà politica.
Del resto, il richiamo alla circostanza per cui la nuova azione debba inserirsi nel quadro delle
politiche definite dai trattati appare talmente generico da consentire azioni anche nei
settori della cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di polizia (dove
il vecchio art 308 TCE non era applicabile). Tuttavia, il settore della PESC è espressamente
sottratto alla clausola di flessibilità: § 4).
Circa la mancata previsione di adeguati poteri, dapprima la Corte di Giustizia sembrava
volerne sminuire l’importanza, essendo stata ritenuta sufficiente l’assenza di una soluzione
abbastanza efficace nell’ambito del TCE e la garanzia della certezza del diritto. In seguito, la
Corte ha mostrato un atteggiamento più restrittivo, sottolineando il carattere residuale
della norma ed escludendone l’utilizzabilità ogni volta che il TCE avesse previsto una base
giuridica alternativa.
Nella sentenza C-242/87 (Erasmus) la Commissione contestava la scelta compiuta dal Consiglio di
utilizzare la clausola di flessibilità, accanto all’art 151 TCEE (ora art 166 TFUE) in materia di formazione
professionale, come base giuridica per una decisione in materia di mobilità degli studenti. La Corte di
Giustizia ricorda anzitutto che si desume dalla stessa lettera dell’art 235 (poi art 308 TCE e ora art 352
TFUE) che il valersi di detta norma come base legale di un atto è ammesso solo quando nessun’altra
disposizione del trattato attribuisca alle istituzioni comunitarie la competenza necessaria per
l’emanazione dell’atto stesso.

L’esclusione di misure di armonizzazione nei settori in cui non sono previste mira ad
impedire che, attraverso misure approvate con la clausola di flessibilità, le istituzioni
possano aggirare un limite alla loro competenza espressamente voluto dai trattati.
L’art 352 TFUE affida alle istituzioni la scelta del tipo di atto da adottare, in quanto la norma
dispone genericamente adotta le disposizioni appropriate. Nella prassi sono stati fondati
sulla norma in esame direttive, regolamenti e anche accordi internazionali.
Ci si è domandati se, al di là delle esclusioni espresse nel testo dell’art 352 TFUE, esistano anche dei
limiti intrinseci al ricorso a questa norma. È infatti evidente che la clausola di flessibilità costituisce
un minus rispetto alla procedura di revisione (art 48 TUE).
Secondo la Corte di Giustizia (parere 2/94 sull’adesione alla CEDU), già il vecchio art 308 TCE non
poteva essere utilizzato quale base giuridica per adottare disposizioni che avrebbero condotto in
sostanza ad una modifica del Trattato che sfugga alla procedura prevista nel trattato. Ora, per
quanto riguarda il merito del parere richiesto, se la Comunità avesse deciso per l’adesione alla CEDU,
ciò avrebbe comportato l’inserimento della Comunità in un sistema istituzionale internazionale
distinto, nonché l’integrazione del complesso delle disposizioni della CEDU nell’ordinamento giuridico
comunitario, determinando delle implicazioni istituzionali parimenti fondamentali.
Attualmente, l’adesione alla CEDU è resa possibile dall’art 6, § 2 TUE, che attribuisce espressamente
all’Unione la competenza ad aderire alla CEDU.
La clausola di flessibilità va dunque intesa nel senso di consentire nuove azioni, ma non deroghe alla
disciplina fissata dai trattati.
Così, non sarebbe possibile adottare disposizioni che contraddicano le 4 libertà di circolazione.
Allo stesso modo, non si potrebbe, attraverso l’art 352 TFUE, riattribuire agli Stati membri competenze
conferite dai trattati all’Unione. Ciò vale anche se le disposizioni basate sull’art 352 TFUE fossero tali
da modificare, sia pure indirettamente, la struttura dell’Unione, per come delineata dai trattati.
È per questo motivo che, con il Trattato di Lisbona, l’attuale art 48, § 2 TUE dispone espressamente
che i progetti di revisione dei trattati possono essere intesi ad accrescere o a ridurre le competenze
attribuite all’Unione).
È invece possibile riconoscere all’Unione nuovi poteri, ossia consentire l’intervento in settori rimasti
non menzionati espressamente dai trattati, anche se la Corte, interpretando l’art 308 TCE, ha richiesto
che non si vada al di là dell’ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni del trattato
ed in particolare di quelle che definiscono i compiti e le azioni della Comunità.
Nella prassi, l’art 308 TCE è stato utilizzato per rendere possibile l’adozione di interventi nel campo
monetario ed economico, in quello della protezione dell’ambiente, della politica regionale, della
ricerca e sviluppo tecnologico, della politica industriale ed energetica e nella tutela dei consumatori.
Tutti settori ora oggetto di apposite disposizioni inserite nei trattati in occasione delle varie revisioni,
dall’Atto Unico Europeo (1986) fino al Trattato di Lisbona (2009).
Una limitazione all’art 352 TFUE è derivata dall’introduzione del principio di sussidiarietà.
Ogniqualvolta la sola base giuridica per l’azione dell’Unione è costituita dall’art 352 TFUE,
la nuova competenza è concorrente e dunque soggiace al principio di sussidiarietà. Ciò non
può non indurre cautela nel considerare il requisito di necessità della nuova azione del
Consiglio quale condizione per l’utilizzo dell’art 352 TFUE.
2. I vari tipi di competenza
Non tutte le competenze attribuite dai trattati all’Unione hanno pari natura. Nella
ripartizione adottata dall’art 2 TFUE esse si distinguono in categorie:
 competenze esclusive (§ 1);
 competenze concorrenti (§ 2);
 competenze di sostegno, coordinamento e completamento (cd terzo tipo: § 5)
Accanto a queste 3 categorie, è prevista anche una competenza di coordinamento nel campo delle
politiche economiche e dell’occupazione (§ 3) e la competenza per definire e attuare la PESC (§ 4).
L’art 2, § 1 TFUE è dedicato alle competenze esclusive: solo l’Unione può legiferare e
adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possono farlo autonomamente
solo se autorizzati dall’Unione oppure per dare attuazione agli atti dell’Unione.
Le caratteristiche sono:
a) potere di adottare atti legislativi o comunque vincolanti solo in capo all’Unione;
b) assenza di potere in capo agli Stati membri, anche in caso di inerzia dell’Unione;
c) potere degli Stati membri di agire solo 1) se autorizzati dall’Unione o 2) per atti destinati a dare
attuazione ad atti dell’Unione.
L’art 3, § 1 TFUE contiene un’elencazione dei settori in cui l’Unione ha competenza
esclusiva. Tale elencazione è da considerare tassativa:
unione doganale;
regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno;
politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro;
conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca;
politica commerciale comune.
L’art 2, § 2 TFUE si occupa delle competenze concorrenti: l’Unione e gli Stati membri
possono legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore. Gli Stati membri
esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione ha deciso di cessare di esercitare
la propria.
Le caratteristiche sono:
a) potere di adottare atti legislativi o comunque vincolanti in capo all’Unione e agli Stati membri;
b) pienezza del potere di azione degli Stati membri, finché l’Unione resta inerte;
c) progressiva perdita del potere di azione degli Stati membri man mano che l’Unione agisce;
d) riacquisto del potere di azione da parte degli Stati membri nella misura in cui l’Unione decide di
cessare di esercitare la propria competenza.
Nei settori di competenza concorrente, inizialmente Unione e Stati membri possono
ciascuno esercitare i propri poteri, ma si tratta di una situazione transitoria, che potrebbe
modificarsi nel tempo in favore dell’Unione: man mano che questa agisce, diminuisce il
corrispondente spazio d’azione degli Stati membri.
Per il principio di leale collaborazione (art 4, § 3 TUE), gli Stati membri si astengono da
qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione.
Pertanto, non potrebbero adottare provvedimenti in materie già oggetto di atti dell’Unione.
Qualora l’Unione scegliesse di adottare in un settore di competenza concorrente una
disciplina completa e dettagliata, agli Stati membri sarebbe precluso qualunque intervento:
la competenza dell’Unione da concorrente diverrebbe di fatto esclusiva, per “svuotamento”
(pre-emption). L’estensione e la stessa sopravvivenza della competenza degli Stati membri
dipendono dunque dai tempi e dai modi con cui la competenza dell’Unione viene esercitata.
L’Unione può scegliere tra esercitare pienamente la propria competenza, adottando una
disciplina completa, tale da precludere agli Stati membri qualsiasi intervento, o lasciare a
lungo inutilizzati i propri poteri o utilizzarli in misura ridotta, facendo sopravvivere la
competenza degli Stati membri.
L’art 2, § 2 TFUE dispone che gli Stati membri esercitano nuovamente la loro competenza
nella misura in cui l’Unione ha deciso di cessare di esercitare la propria. Si ipotizza (in deroga
al principio del rispetto dell’acquis) che la perdita di competenza subita dagli Stati membri
per effetto dell’esercizio da parte dell’Unione di una propria competenza concorrente non
sia mai definitiva: potrebbe venir meno qualora l’Unione decidesse di non esercitarla più.
L’elencazione dei settori di competenza concorrente non è tassativa.
Le competenze concorrenti sono tali in via residuale, ossia a meno che non ricadano tra
quelle espressamente qualificate come esclusive (art 3 TFUE) o di terzo tipo (art 6 TFUE). Ciò
si ricava dall’art 4, § 1 TFUE: l’Unione ha competenza concorrente con quella degli Stati
membri quanto i trattati le attribuiscono una competenza che non rientra nei settori di cui
agli artt 3 e 6.
L’art 4, § 2 TFUE contiene un’elencazione dei settori di competenza concorrente,
precisando che si tratta solo dei settori principali (ce ne possono essere altri):
mercato interno;
politica sociale (per gli aspetti definiti nel trattato);
coesione economica, sociale e territoriale;
agricoltura e pesca (tranne la conservazione delle risorse biologiche);
ambiente;
protezione dei consumatori;
trasporti;
reti transeuropee;
energia;
Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia;
problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica (pe gli aspetti definiti nel
trattato).
A tali settori si aggiungono la ricerca, lo sviluppo tecnologico e lo spazio (§ 3), nonché la
cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario (§ 4). Qui il trattato precisa che l’esercizio di
tali competenze da parte dell’Unione non impedisce agli Stati membri di esercitare la loro.
Manca una caratteristica tipica della competenza concorrente: la progressiva perdita di
competenza degli Stati membri per “svuotamento” in conseguenza dell’esercizio della
competenza dell’Unione.
I trattati prevedono anche un terzo tipo di competenze. L’art 2, § 5 TFUE stabilisce: in taluni
settori e alle condizioni previste dai trattati, l’Unione ha competenza per svolgere azioni
intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri, senza sostituirsi
alla loro competenza in tali settori.
Le caratteristiche sono:
a) la competenza dell’Unione è esercitata in parallelo con gli Stati membri, attraverso azioni destinate
a sostenere, coordinare o integrare quelle degli Stati membri;
b) l’esercizio della competenza dell’Unione non può mai sostituirsi a quella degli Stati membri o
portare ad un suo progressivo svuotamento.
Inoltre, si precisa: gli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione adottati in base a
disposizioni dei trattati relative a tali settori non possono comportare un’armonizzazione
delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.
I settori sono indicati in modo tassativo dall’art 6 TFUE:
tutela e miglioramento della salute umana;
industria;
cultura;
turismo;
istruzione, formazione professionale, gioventù e sport;
protezione civile;
cooperazione amministrativa.
Il quadro si completa con le competenze di coordinamento dell’Unione:
in materia di politiche economiche, con l’adozione di indirizzi di massima (fatte salve le
disposizioni specifiche per gli Stati membri la cui moneta è l’euro: art 5, § 1 TFUE);
in materia di politiche occupazionali (con l’adozione di orientamenti: art 5 § 2 TFUE) e in
materia di politiche sociali (dove l’Unione può prendere iniziative: art 5, § 3 TFUE).
Nella sentenza C-370/12 (Pringle) la Corte di Giustizia è stata investita di un rinvio pregiudiziale sulla
validità della decisione 2011/199/UE del Consiglio europeo che per la prima volta utilizza la procedura
di revisione semplificata (art 48, § 6 TUE) per la modifica dell’art 136 TFUE in relazione al meccanismo
di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro.
Il Sig. Pringle contesta dinnanzi ai giudici irlandesi la legittimità della decisione e la compatibilità con
il diritto dell’Unione della partecipazione dell’Irlanda al Trattato MES.
La Supreme Court irlandese interroga la Corte di Giustizia ponendo in dubbio la possibilità di utilizzare
la procedura semplificata di revisione (art 48, § 6 TUE). Ciò in quanto la decisione modificherebbe
disposizioni rientranti non nella Parte III del TFUE, ma nella Parte I (relativa alle competenze esclusive
o di coordinamento dell’Unione) e sostenendo la violazione del principio di leale cooperazione, del
principio di attribuzione e del principio della tutela giurisdizionale effettiva.
La Corte di Giustizia esclude che la decisione in questione possa incidere sulla competenza esclusiva
dell’Unione di cui all’art 3, § 1 lett c) TFUE (politica monetaria): il meccanismo di stabilità (..)
costituisce un elemento complementare del nuovo quadro regolamentare per il rafforzamento della
governance economica dell’Unione.
Circa la competenza di coordinamento di cui agli artt 2, § 3 e 5, § 1 TFUE (politiche economiche), la
Corte risponde che l’istituzione del MES eccede i poteri conferiti all’Unione dalle norme dei trattati,
ma poiché circoscrivono il ruolo dell’Unione nel settore della politica economica all’adozione di
misure di coordinamento, le disposizioni dei TUE e TFUE non conferiscono una competenza specifica
all’Unione per istituire un meccanismo di stabilità come quello previsto da tale decisione.
Pertanto, gli Stati membri sono competenti a stabilire il MES con accordo internazionale, pur essendo
vincolati al rispetto del diritto dell’Unione nell’esercizio delle proprie competenze in tale ambito.
3. Il principio di sussidiarietà
Il principio di sussidiarietà e il principio di proporzionalità presuppongono l’esistenza di una
competenza attribuita all’Unione.
Come specifica l’art 5, § 1 TUE, occorre distingue:
a) la delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione;
b) l’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e di proporzionalità.
L’art 5, § 3 TUE definisce il principio di sussidiarietà: nei settori che non sono di sua
competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione
prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello
centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti
dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione.
Il campo d’applicazione del principio riguarda settori che non sono di competenza esclusiva
dell’Unione (poiché i settori di competenza esclusiva sono pochi e rappresentano
l’eccezione, tale precisazione non ha in pratica grande rilevanza): si tratta dunque delle
competenze concorrenti, quelle del terzo tipo, quelle di coordinamento (politiche
economiche, occupazionali e sociali) e quelle del settore della PESC.
Poiché nei settori di competenza concorrente la sopravvivenza della competenza statale
dipende da come la competenza dell’Unione viene esercitata, il principio di sussidiarietà ha
qui grande importanza. Esso costituisce una garanzia per gli Stati membri che le loro
competenze non vengano limitate o addirittura cancellate ove ciò non si giustifichi in
relazione alla maggior efficienza dell’azione dell’Unione rispetto all’azione autonoma degli
Stati membri.
In astratto, il principio di sussidiarietà potrebbe essere considerato come neutrale, nel senso
che consente di dare la preferenza all’azione statale o a quella dell’Unione sulla base di un
giudizio di efficienza relativa. La scelta tra l’una o l’altra dovrebbe dipendere da un esame
obiettivo, volto a stabilire quale delle due azioni assicuri migliori risultati. In realtà, per come
è stato formulato e per come viene inteso dagli Stati membri, il principio esprime un favor
per l’azione statale.
Il principio di sussidiarietà non pone l’azione statale e l’azione dell’Unione sullo stesso piano,
ma esige che, prima di decidere se e come esercitare la propria competenza, l’Unione valuti
se gli obiettivi dell’azione prevista siano già realizzati in misura sufficiente da un’azione degli
Stati membri o possano essere realizzati meglio a livello di Unione. I termini del confronto
non sono identici: l’azione statale va preferita se assicura il raggiungimento degli obiettivi
prescelti anche solo in misura sufficiente, mentre l’azione dell’Unione può essere scelta solo
se ne garantisce il raggiungimento ad un livello superiore.
Inoltre, la maggiore efficienza dell’azione dell’Unione rileva come criterio per farla preferire
all’azione statale solo in funzione della portata e degli effetti dell’azione in questione.
In ogni caso, l’azione deve presentare aspetti in qualche misura transnazionali, in mancanza
dei quali l’azione dell’Unione andrebbe esclusa a priori.
Il principio di sussidiarietà dà luogo a non pochi problemi d’applicazione. Le istituzioni si
sono quindi preoccupate soprattutto di stabilire delle garanzie procedurali che favoriscano
il rispetto di tale principio in occasione dell’approvazione dei vari atti. A ciò è dedicato il
Protocollo 2 (sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità).
L’aspetto di maggiore interesse è costituito dalla scelta di affidare ai parlamenti nazionali
un inedito ed importante ruolo in questo ambito. A ciascun parlamento è attribuito il potere
di formulare, entro 8 settimane dalla trasmissione di un progetto di atto legislativo, un
parere motivato di non conformità del progetto rispetto al principio di sussidiarietà. In
funzione del numero dei pareri negativi espressi e a seconda della procedura di adozione
dell’atto, il trattato prevede 2 diverse modalità di controllo di sussidiarietà.
Qualora si siano espressi per la violazione del principio di sussidiarietà i parlamenti nazionali
che rappresentino almeno 1/3 dei voti (1/4 se la proposta riguarda lo Spazio di Libertà,
Sicurezza e Giustizia), si applica il cd cartellino giallo: il progetto deve essere riesaminato da
parte del suo autore (la Commissione o gli altri soggetti proponenti: un gruppo di Stati
membri, il Parlamento europeo, la Corte di Giustizia, la BCE o la BEI), restando aperta la
possibilità di mantenerlo, modificarlo o ritirarlo, ma con un obbligo di specifica motivazione.
Un meccanismo ulteriore (cd cartellino arancione) è previsto se per l’adozione dell’atto si
deve seguire la procedura legislativa ordinaria: se contro il progetto di atto legislativo sono
stati espressi pareri negativi dei parlamenti nazionali pari alla maggioranza semplice dei voti
loro assegnati, la Commissione, ove decida di mantenere il progetto, deve emanare un
parere motivato. Nela procedura legislativa si apre così una fase preliminare (anteriore alla
prima lettura) dedicata alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà. Se il Consiglio
vota a maggioranza del 55% dei membri nel senso che la proposta non sia compatibile con
il principio di sussidiarietà e lo stesso fa il Parlamento europeo a maggioranza dei voti
espressi, la proposta legislativa decade e non può formare oggetto di ulteriore esame.
Si è discusso se il principio di sussidiarietà possa essere oggetto di controllo giurisdizionale
o se si tratti di una mera valutazione politica delle istituzioni. Pur avendo accettato di
estendere il proprio sindacato sul rispetto del principio di sussidiarietà, la Corte di Giustizia
ha operato con prudenza, tenendo conto che tale valutazione attiene a quella sfera di
discrezionalità politica che è riservata alle istituzioni e nella quale il giudice non intende
intromettersi (salvo ipotesi di travalicamento dei limiti della discrezionalità o di errore
manifesto). Dapprima, la violazione del principio di sussidiarietà è stato invocato come un
vizio della motivazione (art 296, comma 2 TFUE). In seguito, la Corte è stata chiamata a
verificare la sussistenza di un vizio autonomo, rientrante in quello di violazione dei trattati
(art 263, comma 2 TFUE).
Il Protocollo 2 conferma la giustiziabilità delle violazioni del principio di sussidiarietà: la Corte
di Giustizia è competente a pronunciarsi su ricorsi per violazione, mediante un atto
legislativo, del principio di sussidiarietà, proposti secondo le modalità previste dall’art 263
TFUE da uno Stato membro, o trasmessi da quest’ultimo in conformità con il rispettivo
ordinamento giuridico interno a nome del suo parlamento nazionale o di una camera di
detto parlamento nazionale.
Nella sentenza C-491/01 (British American Tobacco) la Corte ha precisato i criteri di verifica:
a) se l’obiettivo dell’azione progettata potesse essere meglio realizzato a livello comunitario;
b) se l’azione comunitaria non abbia oltrepassato la misura necessaria per realizzare l’obiettivo cui tale azione è
diretta. Questa seconda parte del test introduce, già a questo livello, elementi di valutazione attinenti alla
proporzionalità dell’azione progettata, causando un inevitabile confusione.
La questione riguardava un ricorso per annullamento di una direttiva avente ad oggetto di eliminare gli ostacoli
risultanti dalle differenti legislazioni degli Stati membri in materia di lavorazione, presentazione e vendita dei
prodotti del tabacco, assicurando un livello di protezione elevato in materia di tutela della salute
Secondo la Corte l’obiettivo non può essere realizzato in modo soddisfacente mediante un’azione intrapresa a
livello dei singoli Stati membri e presuppone un’azione a livello comunitario, come è dimostrato dell’evoluzione
eterogenea delle legislazioni nazionali nel caso di specie. Pertanto, l’obiettivo dell’azione progettata poteva essere
realizzato meglio a livello comunitario.
Quanto alla verifica se l’azione abbia oltrepassato la misura necessaria per realizzare l’obiettivo, la Corte considera
che l’intensità dell’azione intrapresa dalla Comunità nel caso di specie ha parimenti rispettato i dettami del
principio di sussidiarietà.
4. Il principio di proporzionalità
Per il principio di proporzionalità, l’art 5, § 4 TUE prevede: il contenuto e la forma
dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi
dei trattati.
Anche questo principio attiene alle modalità d’esercizio delle competenze dell’Unione e
riguarda tanto i settori di competenza esclusiva quanto quelli di competenza concorrente.
Il principio ha la funzione di tutelare gli Stati membri da interventi dell’Unione di portata
ingiustificatamente ampia.
Gli Stati membri hanno spesso utilizzato il principio di proporzionalità per contestare la
legittimità di atti delle istituzioni, giudicati eccessivamente invasivi delle loro competenze.
Tuttavia, la Corte di Giustizia limita il proprio sindacato alle ipotesi di errore manifesto,
sviamento di potere o manifesto travalicamento dei limiti di discrezionalità.36
Il principio di proporzionalità implica restrizioni nella scelta del tipo di atto e nel contenuto.
Circa la forma dell’atto, va richiamato l’art 296, comma 1 TFUE: qualora i trattati non
prevedano il tipo di atto da adottare, le istituzioni lo decidono di volta in volta, nel rispetto
delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità.
Il punto 6 del Protocollo 2 a questo proposito prevede: a parità di condizioni, le direttive
dovrebbero essere preferite ai regolamenti e le direttive-quadro a misure dettagliate.
Circa il contenuto dell’atto, il punto 7 del Protocollo 2 auspica che le misure comunitarie
dovrebbero lasciare il maggior spazio possibile alle decisioni nazionali, purché sia garantito
lo scopo della misura e siano soddisfatte le prescrizioni del trattato.
Va chiarito il rapporto tra il principio di proporzionalità di cui all’art 5, § 4 TUE e l’omonimo principio
individuato dalla giurisprudenza e incluso nei principi generali del diritto dell’Unione.
Il principio generale di proporzionalità si è affermato come strumento di protezione dei singoli nei
confronti delle istituzioni o delle autorità degli Stati membri (quanto agiscono in un settore rientrante
nel campo di applicazione dei trattati). Il principio esige che i sacrifici e le limitazioni di libertà imposte
ai singoli non eccedano quanto necessario per il raggiungimento degli scopi pubblici da perseguire e,
in particolare, siano:
a) idonei a raggiungere l’obiettivo perseguito
b) necessari a questo stesso fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui.

36Nella sentenza C-84/94 (Regno Unito vs Consiglio) è impugnata la direttiva 93/104/CE (prescrizioni minime in
materia di orario di lavoro). In particolare, il Regno Unito invocava la violazione del principio di proporzionalità.
Secondo la Corte, il Consiglio dispone di un ampio potere discrezionale trattandosi di un settore che, come nel caso
di specie, implica da parte del legislatore scelte di politica sociale e dove esso è chiamato ad effettuare valutazioni
complesse. Di conseguenza, il controllo giurisdizionale dell’esercizio di una competenza siffatta deve limitarsi ad
esaminare se esso non sia inficiato da errore manifesto o sviamento di potere o se l’istituzione in questione abbia
manifestamente oltrepassato i limiti della sua discrezionalità. La Corte ritiene poi che nessuna di queste condizioni
sia presente nel caso di specie.
Il principio di proporzionalità di cui all’art 5, § 4 TUE riguarda il rapporto tra le competenze dell’Unione
e quelle degli Stati membri.
Non si può negare che i criteri utilizzati siano identici. Sarebbe dunque possibile considerare il
principio enunciato dall’art 5 § 4 TUE come una specifica applicazione del principio generale.
5. La competenza a concludere accordi internazionali
Particolarmente complessa si rivela la definizione e la classificazione della competenza
dell’Unione circa la conclusione di accordi internazionali (cd competenza esterna).
In quanto soggetto autonomo di diritto internazionale, l’Unione ha la capacità di concludere
accordi con altri soggetti dell’ordinamento internazionale (Stati terzi e altre organizzazioni
internazionali) senza dover passare attraverso i propri Stati membri.
Tuttavia, la competenza esterna dell’Unione non ha portata illimitata: innanzitutto, anche
sotto questo profilo, l’Unione soggiace al principio di attribuzione; inoltre, la soggettività
internazionale dell’Unione coesiste con quella degli altri Stati membri.
In passato, ciò ha dato luogo a frequenti controversie, per la mancanza di una norma dei
trattati che si occupasse di definire a) la portata della competenza esterna dell’Unione e b)
se tale competenza fosse di carattere esclusivo o concorrente.
Il Trattato di Lisbona ha colmato la lacuna, prevedendo 2 appositi articoli del TFUE:
l’art 216, § 1 TFUE definisce la competenza esterna dell’Unione;
l’art 3, § 2 TFUE stabilisce in quali casi l’Unione ha competenza esclusiva.
Ai sensi dell’art 216, § 1 TFUE, l’Unione è dotata di competenza esterna nei casi in cui:
a) i trattati lo prevedano;
Si tratta della cd competenza esterna normativamente prevista: i trattati dispongono espressamente
che l’Unione possa concludere accordi internazionali di determinati tipi in determinati settori. In
origine, si trattava solo di accordi in materia di politica commerciale (art 207, § 3 TFUE) e degli accordi
di associazione (art 217 TFUE). In seguito, altre ipotesi sono state aggiunte: ricerca, sviluppo
tecnologico e dimostrazione (art 186 TFUE), ambiente (art 191, §§ 1 e 4 TFUE).
b) la conclusione dell’accordo sia necessaria per realizzare, nell’ambito delle politiche
dell’Unione, uno degli obiettivi fissati dai trattati;
c) la conclusione dell’accordo sia prevista da un atto giuridico vincolante dell’Unione;
d) la conclusione dell’accordo possa incidere su norme comuni o alterarne la portata.
Si tratta di quelle ipotesi che già la giurisprudenza della Corte di Giustizia faceva rientrare nella cd
competenza esterna parallela: l’Unione può concludere accordi internazionali non solo nei casi
espressamente previsti dai trattati, ma anche in tutte le altre materie in cui disponga del potere di
adottare atti sul piano interno (cd principio del parallelismo dei poteri interni e poteri esterni).
Sulla questione se la competenza esterna dell’Unione abbia natura esclusiva o concorrente,
ossia se l’Unione, nel concludere un accordo internazionale, possa impedire o meno agli
Stati membri di concludere a loro volta un accordo in quello stesso campo, in autonomia o
a fianco dell’Unione (cd accordi misti), il Trattato di Lisbona è intervenuto, inserendo
nell’art 3 TFUE (relativo alle competenze esclusive dell’Unione) una norma speciale sulla
competenza esterna: il § 2.
L’art 3, § 1 attribuisce una competenza esterna di tipo esclusivo, ma definisce i settori di competenza
dell’Unione per quanto riguarda il piano interno e il piano esterno. Tuttavia, il testo del § 2 afferma:
l’Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali … Pertanto, i casi
qui disciplinati si aggiungono a quelli del § 1.
In base a ciò, la competenza esterna dell’Unione è esclusiva nei seguenti casi:
a) settori rientranti nella competenza esclusiva dell’Unione sul piano interno (art 3, § 1).
Qui si tratta di competenza esterna esclusiva originaria: l’Unione ha competenza sul piano
interno e anche sul piano esterno (è il caso della politica commerciale comune).
Nei casi previsti dall’art 3, § 2 si tratta di accordi la cui conclusione:
b) è prevista in un atto legislativo dell’Unione;
c) è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno;
d) può incidere su norme comuni o modificarne la portata.
Sono questi tutti casi di competenza esterna esclusiva derivata: gli accordi hanno ad
oggetto settori rientranti nelle competenze concorrenti o anche in quelle di sostegno,
coordinamento e completamento (cd terzo tipo).
La competenza esterna dell’Unione è almeno inizialmente di tipo concorrente. Al suo fianco
sopravvive quella degli Stati membri: un accordo internazionale potrebbe essere concluso,
in teoria, dalla sola Unione, dall’Unione e dagli Stati membri (o da alcuni di essi) o solo dagli
Stati membri (o da alcuni di essi). La scelta tra queste 3 formule è spesso dettata, più che
da argomenti giuridici, da considerazioni politiche e dalla volontà degli Stati membri di non
cedere il passo all’Unione sul piano dei rapporti con Stati terzi.
Nei settori di competenza concorrente o di terzo tipo, tuttavia, nel tempo si possono produrre delle
condizioni che hanno l’effetto di accentrare la competenza esterna, inizialmente condivisa tra gli Stati
membri e l’Unione, in capo a quest’ultima (da cui il carattere derivato e non originario di questa forma
di competenza esclusiva).
Nei casi b) e d) l’effetto di accentramento dipende dall’avvenuto esercizio della competenza interna
dell’Unione. Qualora ciò si sia tradotto nell’adozione di norme comuni dell’Unione (art 216, § 1, caso
d) su cui l’accordo che si intende concludere inciderebbe o la cui portata sarebbe addirittura
modificata dall’accordo stesso, si giustifica che sia solo l’Unione e non gli Stati membri a concluderlo.
Se l’esercizio della competenza interna si è tradotto nell’adozione di un atto legislativo (caso a) che
preveda la conclusione dell’accordo in questione da parte dell’Unione (art 216, § 1, caso c), l’atto
legislativo non sarebbe rispettato se l’accordo fosse concluso solo o anche dagli Stati membri
Nel caso c) l’effetto di accentramento dipende non dall’essere stata già stata esercitata la competenza
interna, ma dal fatto che, senza la conclusione dell’accordo in questione, la competenza esterna non
potrebbe più esserlo nemmeno in futuro (art 216, § 1, caso b).
6. Le competenze dell’Unione nel settore della PESC
Poiché i principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità sono ormai contenuti in una
norma del TUE, non vi è dubbio che essi siano applicabili anche nel settore della PESC.
Manca però una clausola di flessibilità che attenui il rigore del principio di attribuzione.
L’art 352, § 4 TFUE dispone che tale principio non può servire di base per il conseguimento di obiettivi
riguardanti la PESC e impone che gli atti adottati ai sensi degli altri paragrafi rispettino i limiti previsti
dall’art 40, comma 2 TUE (lasciando impregiudicata l’applicazione delle procedure e la portata delle
attribuzioni delle istituzioni dell’Unione previste al Capo 2 del Titolo V: appunto, il settore PESC).
Quanto al tipo di competenza, l’art 2, § 4 TFUE considera la definizione e l’attuazione della
PESC come una competenza a sé stante: la classificazione tra competenze (esclusive,
concorrenti o del terzo tipo) non opera riguardo al settore PESC.
In ogni caso, qui non vi sono questioni che possano dirsi di competenza esclusiva dell’Unione. Al più
può parlarsi di competenza concorrente o del terzo tipo (coordinamento). Ciò significa che l’aver
previsto la competenza dell’Unione ad agire per perseguire determinati obiettivi PESC non preclude
affatto agli Stati membri di agire autonomamente nei medesimi ambiti, fino a quando l’Unione non
abbia esercitato i propri poteri.
La competenza concorrente trova qualche parziale riscontro per le materie che possono formare
oggetto di interventi operativi dell’Unione (art 28 TUE). Le decisioni di questo tipo vincolano gli Stati
membri nelle prese di posizione e nella conduzione della loro azione).
Tuttavia, tali interventi hanno un obiettivo definito per contenuto e durata, quindi non possono avere
lo stesso effetto di “svuotamento” della competenza statuale che di solito deriva dall’esercizio di una
competenza concorrente di tipo normativo: il moltiplicarsi di interventi operativi dell’Unione non
impedisce ai singoli Stati membri di agire autonomamente nel caso di situazioni internazionali rispetto
alle quali l’Unione non intenda o non possa intervenire.
Piuttosto, la competenza dell’Unione nel settore della PESC presenta alcune caratteristiche delle
competenze di terzo tipo (coordinamento). L’art 24, § 3 TUE afferma: gli Stati membri sostengono
attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza dell’Unione (comma 1); inoltre, devono
astenersi da qualsiasi azione contraria agli interessi dell’Unione o tale da nuocere alla sua efficacia
come elemento di coesione nelle relazioni internazionali (comma 2). L’adozione di misure (sempre più
numerose) nel settore PESC da parte dell’Unione non comporta uno svuotamento della competenza
degli Stati membri a condurre una propria politica estera e di sicurezza, ma comunque impone
obblighi di coerenza e di coordinamento.
L’obbligo di coerenza si ricava da numerose disposizioni del Capo 2 del Titolo V TUE, che
postulano la possibilità per gli Stati membri di continuare a svolgere una politica estera
nazionale, ma con il limite di evitare comportamenti difformi dalla linea dell’Unione.
L’art 28, § 2 TUE stabilisce che le decisioni di cui al § 1 (interventi operativi) vincolano gli
Stati membri ma con riferimento alle loro prese di posizione e alla loro azione.
L’art 29 TUE, ultima parte, afferma, a proposito delle decisioni del Consiglio, che gli Stati
membri provvedono affinché le loro politiche nazionali siano conformi alle posizioni
dell’Unione.
Quanto all’obbligo di coordinamento, l’art 32, comma 1 TUE dispone: gli Stati membri si
consultano a) in sede di Consiglio in merito a qualsiasi questione di politica estera e di
sicurezza di interesse generale per definire un approccio comune e b) prima di intraprendere
qualsiasi azione sulla scena internazionale e di assumere qualsiasi impegno che possa
ledere gli interessi dell’Unione.
In conclusione, la competenza nel settore PESC è da considerarsi sui generis. La categoria
alla quale è più prossima sembra quella delle competenze del terzo tipo.
Sul problema della delimitazione tra PESC e altre competenze dell’Unione, occorre considerare che
la PESC è soggetta a norme e procedure specifiche (art 24, § 1, comma 2 TUE).
È quindi importante stabilire quando un atto che l’Unione si propone di adottare rientri o meno nel
settore PESC. La questione è affrontata dall’art 40 TUE:
l’attuazione della PESC lascia impregiudicata l’applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle
attribuzioni delle istituzioni previste dai trattati per l’esercizio delle competenze dell’Unione di cui agli
artt 3 e 6 TFUE (comma 1); d’altra parte, resta parimenti impregiudicata l’applicazione delle procedure
e la rispettiva portata delle attribuzioni delle istituzioni previste dai trattati per l’esercizio delle
competenze dell’Unione a titolo del presente capo (comma 2).
La Corte di Giustizia si era già considerata competente a verificare, in sede di ricorso d’annullamento
contro atti del Consiglio basati su disposizioni del III pilastro, che tali atti non invadono le competenze
che le disposizioni del TCE attribuiscono alla Comunità.
La stessa soluzione vale oggi per gli atti basati su disposizioni PESC: secondo l’art 275, § 2 TFUE la
Corte è competente a controllare il rispetto dell’art 40 del TUE. La Corte accerta se la base giuridica
prescelta per l’atto impugnato è stata individuata correttamente, ossia in funzione di criteri oggettivi,
in particolare lo scopo e il contenuto dell’atto. Pertanto, la delimitazione delle competenze rientranti
nel settore PESC è garantita da un rimedio giurisdizionale.
Dalla giurisprudenza sulla delimitazione tra i vari pilastri prima del Trattato di Lisbona emergeva la
tendenza a considerare le competenze del III pilastro come aventi una funzione residuale e potessero
essere legittimamente utilizzate in assenza di una base giuridica adeguata all’interno del TCE. La stessa
tendenza è stata confermata rispetto al settore PESC.

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