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IV – FATTI E NEGOZI GIURIDICI

§ 49 - Fatti, atti e negozi giuridici


La moderna dottrina fa ricorso alla categoria concettuale di “fatto giuridico”, ossia qualsiasi evento (volontario o
involontario) che incide sulla realtà giuridica, dando luogo alla nascita di situazioni giuridiche nuove oppure alla
modificazione o estinzione di situazioni giuridiche esistenti. In breve: si qualifica fatto giuridico ogni evento
produttivo di effetti giuridici. Si tratta, evidentemente, di uno schema assai ampio, che riassume in sé fenomeni
diversissimi: dal contratto al testamento, dalla nascita e morte al decorso del tempo e all’atto illecito. Per la sua
generalità, pertanto, è in sé e per sé suscettibile di scarsa utilizzazione nel discorso giuridico. La dottrina,
nell’ambito dei fatti giuridici, ha distinto tra fatti involontari e fatti volontari. Per fatti giuridici “involontari” si
intendono “fatti naturali”, eventi che si verificano indipendentemente dalla volontà dell’uomo (es. calamità
naturali, decorso del tempo) o che comunque vengono in considerazione nel mondo giuridico a prescindere
dalla circostanza che siano stati determinati o meno da azioni umane volontarie. Per fatti giuridici “volontari” (o
“atti giuridici”) si intendono “azioni umane volontarie”, giuridicamente rilevanti. Essi si distinguono, a loro volta,
in “atti leciti” (consentiti dall’ordinamento) e “atti illeciti” (vietati dall’ordinamento). Per gli atti illeciti, l’effetto
giuridico è l’applicazione di una sanzione a carico dell’autore: l’atto in sé è voluto, ma le conseguenze giuridiche
evidentemente no. Degli atti leciti (oltre agli atti processuali), la categoria di gran lunga più importante è quella
dei “negozi giuridici”, ossia manifestazioni di volontà da parte di privati dirette al conseguimento, che
l’ordinamento giuridico garantisce, di risultati pratici giuridicamente definibili in termini di acquisto, perdita o
modificazione di situazioni giuridiche soggettive (per lo più “diritti soggettivi”; ma anche posizioni soggettive
assolute, o “potestà personali”).

Queste categorie giuridiche, elaborate soprattutto dalla dottrina Pandettistica tedesca del XIX sec., sono estranee alle fonti
romane, anche se sono in esse latenti. In effetti, la dottrina moderna (specie per quanto riguarda il negozio giuridico) ha in
sostanza sviluppato e organizzato un pensiero per tanti versi implicito nelle fonti giustinianee, sicché non appare arbitraria
(e, al contrario, risulta persino opportuna) l’utilizzazione di questi schemi concettuali nello studio del diritto romano.

§ 50 - Un fatto giuridico involontario: il decorso del tempo. Computo.


Il decorso del tempo, fatto giuridico involontario, poteva dare luogo ad acquisto di capacità (col compimento dei 14 anni di
età per i maschi e dei 12 anni per le femmine, si acquistava la capacità di agire); ad acquisto e perdita di diritti soggettivi
(es. col possesso in buona fede per una giusta causa di una res habilis per un tempo determinato si compiva l’usucapione
e, pertanto, si acquistava la proprietà); il non usus prolungato per 2 anni determinava l’estinzione delle servitù. Talune
azioni erano annuali, quindi prescrittibili (es. le azioni penali pretorie); inoltre, le parti potevano subordinare gli effetti di
negozi giuridici al decorso di un termine.

Il problema del computo del tempo, dal punto di vista del diritto, non fu impostato dai Romani in termini
generali, ma posto e risolto con riferimento alle diverse ipotesi. In linea di massima, tuttavia, si usa parlare di
computo naturale (= da un momento determinato del giorno iniziale allo stesso momento del giorno finale) e
computo civile (= ogni giorno viene comunemente computato per intero).

La regola del diritto romano era quella del computo civile (come nel nostro diritto positivo), ossia si calcolava
per intero il giorno iniziale (non valeva il principio, oggi vigente, dies a quo non computatur) e, quanto all’ultimo
giorno, si applicavano a seconda dei casi regole diverse: a volte, affinché si producesse l’effetto giuridico,

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bastava che il giorno ultimo fosse “iniziato” (es. usucapione); altre volte, si richiedeva che il giorno ultimo
“trascorresse interamente” (es. azioni prescrittibili).

Normalmente, valeva il principio del “tempo continuo”, ossia computato secondo le “regole del calendario”,
senza omissione di alcun giorno; eccezionalmente, valeva il principio del “tempo utile”: si calcolavano soltanto i
giorni nei quali il diritto o comunque la pretesa potessero essere fatti valere (dies fast).

§ 52 - Negozi giuridici. Tipicitaà ed elementi


I negozi giuridici sono fatti giuridici volontari. Si tratta di atti leciti, consentiti dall’ordinamento giuridico: gli
effetti che vi sono collegati sono gli stessi voluti dall’autore (o dagli autori) dell’atto.

Tipicità. Nelle fonti romane è assente l’idea del negozio giuridico. Sono molti tuttavia nelle stesse fonti gli atti e
i comportamenti volontari che bene rientrano nello schema del negozio giuridico. Non ad ogni atto lecito
corrispondente allo schema di un negozio, però, si riconoscevano effetti giuridici, in quanto (come nelle
actones) il criterio che nel diritto romano è dato riscontrare è quello della “tipicità”: effetti giuridici si
riconobbero solo a determinati tipi negoziali, singolarmente individuati e in numero definito, ognuno con una
sua struttura e regime propri.

Elementi. Si è soliti distinguere, nella struttura dei negozi giuridici, tra elementi essenziali, elementi naturali e
elementi accidentali.

a) Sono detti “essenziali” gli elementi strutturali fondamentali del negozio giuridico, in difetto dei quali esso non
viene ed esistenza nel mondo giuridico (ovvero, il negozio è nullo). In tutti i negozi è essenziale la
manifestazione di volontà. Certi elementi del negozio giuridico sono essenziali solo in alcune categorie di
negozi, non in altre: così, nei negozi formali è essenziale l’adozione di una forma determinata (che non è invece
richiesta nei negozi non formali); nei negozi causali (a differenza di quelli astratti) è essenziale l’esistenza della
causa. Vi sono, poi, elementi essenziali specifici soltanto di singoli tipi negoziali (elementi essenziali speciali): es.
il prezzo nella compravendita.

b) Sono detti “naturali” quegli elementi (spesso, propriamente, effetti) conseguenti automaticamente al
negozio tipo pur nel silenzio delle parti; le quali possono, con patto contrario, espressamente escluderli (es. nel
diritto romano di età classica avanzata, la responsabilità per evizione nella compravendita).

c) Sono detti “accidentali” quelle clausole che non sono proprie dei singoli tipi negoziali, ma che le parti
possono, se vogliono, espressamente inserire: condizione, termine, modus.

§ 53 - L’invaliditaà
La parola inefficacia esprime di per sé il suo significato: mancanza di effetti. “Inefficace” è il negozio che non
produce gli effetti propri. Diverso è il concetto di invalidità. “Invalido” è il negozio che presenta un difetto
intrinseco in alcuno dei suoi elementi. Un negozio invalido è anche inefficace (o può essere reso inefficace). Non
è vero il contrario: un negozio inefficace può essere valido. Si dà il caso di negozi senza difetti intrinseci (= validi)
che ancora non producono effetti (es. le disposizioni testamentarie durante la vita del testatore; il negozio
sospensivamente condizionato durante la pendenza della condizione). Più interessante è il fenomeno della

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invalidità cui consegue inefficacia. La dottrina moderna distingue più specie di invalidità specificando i concetti
di nullità e annullabilità. Si dice nullo il negozio che, per difetto di uno dei suoi elementi essenziali o per altro
grave motivo, non produce i suoi effetti (nasce morto). Qualunque interessato può, senza limiti di tempo, far
valere la nullità; un’eventuale pronunzia di nullità sarà meramente dichiarativa, ossia di semplice accertamento
di una situazione giuridica già esistente. Si dice annullabile il negozio che presenta vizi meno gravi (nasce vivo,
ma ammalato); taluni soggetti possono impugnarlo nei termini stabiliti, provocandone l’annullamento, con una
pronunzia costitutiva che muta la situazione giuridica preesistente: il negozio cessa di produrre effetti, diventa
inefficace (per lo più retroattivamente)

Ora, il concetto di nullità è nelle fonti romane; quello di annullabilità no. Tuttavia, l’idea di annullabilità
consegue fondamentalmente allo sviluppo ed elaborazione concettuale dei casi di negozi iure civili validi, ma
con effetti “neutralizzabili” iure praetorio. Si tratta di un’elaborazione fondata su una visione unificata
dell’ordinamento giuridico, quale avrebbe potuto essere (ma che non si attuò) nel diritto giustinianeo, una volta
venuti meno (e questo già dal IV sec. d.C.) i presupposti che avevano giustificato la distinzione tra ius civile e ius
honorarium. Si parla spesso nelle fonti romane di negozi nulli: ad essi non vengono riconosciuti gli effetti propri.
Nullità e invalidità coincidono: ogni invalidità non può che essere nullità e il negozio nullo è trattato ipso iure
come se non esistesse. Con l’affermazione, la crescita e poi il definitivo consolidamento del “diritto pretorio”, si
andarono moltiplicando le ipotesi di negozio iure civili “valido”, i cui effetti potevano, tuttavia, essere
“neutralizzati” (generalmente, per ragioni di equità) con rimedi pretori: denegato actonis, excepto, in
integrum resttuto; in materia ereditaria anche bonorum possessio (contra tabulas). Il negozio non cadeva nel
nulla, non veniva annullato e nemmeno poteva dirsi propriamente che divenisse inefficace: gli effetti già
prodotti restavano, solo che nella pratica se ne impediva la realizzazione oppure venivano sostanzialmente
ignorati.

Tante volte la nullità conseguiva al fatto che il negozio era stato compiuto in violazione di un precetto giuridico .
Non sempre però la violazione di una norma comportava nullità: a questo proposito, viene in considerazione, in
quanto riferibile anche a precetti non legislativi, la “classificazione delle leges” (Ulpiano) in leges perfectae
(stabilivano un divieto e insieme la nullità dell’atto compiuto in violazione del divieto), leges minus quam
perfectae (stabilivano un divieto e una sanzione contro i trasgressori, senza sancire al contempo la nullità
dell’atto compiuto in difformità) e leges imperfectae (stabilivano un divieto senza stabilire né nullità dell’atto
contrario né sanzioni a carico dei trasgressori).

§ 54 - Negozi giuridici: soggetti e classificazioni


I soggetti. Ogni negozio doveva essere compiuto tra soggetti che avessero “capacità di agire” e al contempo
“legittimazione negoziale” a compierlo; diversamente, era invalido: nullo iure civili (invalido iure pretorio, nel
caso del minore di 25 anni).

La capacità di agire corrisponde alla capacità intellettuale.

La legittimazione negoziale consiste nell’idoneità a porre in essere un negozio in relazione agli effetti che esso
in concreto è destinato a produrre: es. a compiere un trasferimento di proprietà è legittimato il “proprietario”
della cosa; ma è pure legittimato il soggetto che ha la “rappresentanza diretta” (procurator, tutore

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dell’impubere, curatores di furiosi, prodigi e adulescentes, creditore pignoratizio, l’alieni iuris in ordine a beni
peculiari).

Classificazioni. Dal momento che per il diritto romano, i negozi giuridici erano “tipici”, è utile procedere a
classificazioni, in relazione a caratteri e ad effetti (che non sono presenti nelle fonti, come del resto non è
neanche espressa l’idea del negozio giuridico).

Nei “negozi formali” la volontà doveva essere manifestata in una forma determinata, pena la nullità (la forma
era quindi essenziale); negli altri casi, si parla di “negozi non formali”.

Nei “negozi causali” la causa ne determinava la struttura, ne era quindi elemento costitutivo ed essenziale; nei
“negozi astratti” la causa non emergeva dalla struttura del negozio, sicché gli effetti negoziali si producevano
indipendentemente da essa.

Nei “negozi unilaterali” a manifestare la volontà era una sola parte (es. testamento); nei “negozi bilaterali”
convergevano manifestazioni di volontà di due parti (es. contratti); nei “negozi plurilaterali” dovevano
convergere manifestazioni di volontà di tre o più parti (es. la societas). Ogni “parte” rappresenta un centro di
interessi. Generalmente, per diritto romano, la parte coincideva con la persona singola, ma era pure possibile
che una parte fosse formata da più persone: questo accadeva quando più persone in un negozio erano
portatrici di interessi identici (es. comproprietari che vendevano una cosa comune).

Si distingue tra negozi giuridici “a titolo oneroso” nei quali, sempre almeno bilaterali, ciascuna parte consegue
un vantaggio “dietro corrispettivo” (es. compravendita) e negozi giuridici “a titolo gratuito” nei quali una parte
(o comunque il destinatario) consegue un vantaggio “senza corrispettivo” (es. deposito). Nei negozi a titolo
gratuito rientrano gli atti di liberalità: sono negozi giuridici che danno luogo ad un’attribuzione definitiva in
favore di chi ne trae vantaggio (es. donazione).

I “negozi inter vivos” sono destinati a produrre effetti in vita del soggetto (o dei soggetti) che del negozio sono
partecipi (es. contratti, mancipato, in iure cessio, tradito). I “negozi morts causa” sono destinati a produrre
effetti dopo la morte del loro autore (disposizioni testamentarie).

In relazione agli effetti, si è soliti distinguere tra negozi “con effetti reali” idonei al trasferimento della
“proprietà” oppure alla costituzione o estinzione di “diritti reali limitati” e negozi “con effetti obbligatori” che
determinano la nascita o l’estinzione di “obbligazioni”. Questa classificazione assume per il diritto romano un
valore di gran lunga maggiore che per il diritto moderno: nel diritto romano, i negozi con effetti traslativi di
proprietà o costitutivi di diritti reali limitati erano fondamentalmente diversi dai negozi che davano luogo ad
obbligazioni. Negozi (inter vivos) con effetti reali erano soprattutto mancipato, in iure cessio, e tradito, idonei al
trasferimento della proprietà, alla costituzione ed estinzione di servitù ed usufrutto, ma fondamentalmente
inidonei a far nascere o estinguere obbligazioni. Viceversa, i contratti erano negozi obbligatori, fonti di
obbligazioni e, fondamentalmente, solo di obbligazioni.

In parte coincidente con quella dei negozi con effetti reali, è la categoria dei “negozi dispositivi” (o “atti di
disposizione”): atti in forza dei quali taluno aliena, estingue o comprime un proprio diritto. Sono certamente
dispositivi tutti i negozi con effetti reali (dal punto di vista del soggetto che trasferisce proprietà, costituisce

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servitù, usufrutto, pegno ecc. o ad essi vi rinunzia), ma vi rientrano pure la rinunzia ad un credito, e la
manumissio (= l’affrancazione d’un servo).

Taluni negozi giuridici sono qualificati dalla dottrina moderna come “negozi fiduciari”: si tratta di atti che
eccedono, negli effetti, lo scopo che si intende raggiungere (meglio, che eccedono la “causa” negoziale) ma in
cui, al contempo, le parti stringono un’intesa che, una volta attuata, consentirà di realizzare esattamente lo
scopo. Il diritto romano ne offre esempi molteplici, soprattutto con l’impiego della mancipato: es. adopto,
emancipato, contratto di fiducia.

§ 55 - Le forme delle manifestazioni di volontaà . I “negozi formali”.


Ogni negozio giuridico comporta una “manifestazione di volontà”, con cui il negozio si palesa al mondo esterno.
L’ordinamento giuridico riconosce effetti giuridici talvolta alla volontà comunque manifestata (“negozi non
formali”); altre volte esige l’impiego di forme determinate (“negozi formali”).

Un carattere peculiare del diritto romano arcaico era il “formalismo”: atti giudiziari e negozi del ius civile antico
erano per lo più formali e solenni: in entrambi i casi, le formalità prescritte erano fondamentalmente “orali”,
richiedendosi l’uso di parole stabilite (certa verba) e talvolta anche il compimento di gesti predeterminati, la
presenza di certe cose o la presenza e talora anche la partecipazione di persone estranee agli effetti dell’atto. La
forma era rigorosamente imposta e lo schema dell’atto rigidamente predeterminato: le parti avrebbero dovuto
solo includere i dati del negozio concreto.

Le forme negoziali del ius civile arcaico non erano un “involucro esterno” che si aggiungeva o si accompagnava
all’atto (come la documentazione scritta richiesta da età postclassica “a fini di validità”, per la quale si parla di
“formalismo esterno”) ma esprimevano “di per sé” in modi stilizzati i contenuti dei negozi che realizzavano
(“formalismo interno”). La mancata puntuale adozione delle forme prescritte era in ogni caso motivo di nullità.

§ 56 - La mancipatio
La mancipato (da manu capere = afferrare con la mano) era un negozio del ius Quiritum (= ius civile in
senso stretto, fruibile dai soli cives Romani), che trovava fondamento nei mores e poi confermato dalle
XII Tavole.

Insieme con il nexum e la soluto per aes et libram, era uno dei gesta per aes et libram, ossia uno degli atti che
si compivano con il bronzo (aes) e con la bilancia (libra), caratterizzati: dalla pronunzia di certa verba;
dall’impiego della bilancia (libra) e del metallo (prima rame e poi bronzo) che veniva “pesato”; dalla presenza
come testimoni di almeno 5 cittadini romani puberi e di un altro cittadino (libripens) che reggeva la bilancia e
provvedeva alla pesatura del metallo.

Le parti erano il mancipio dans e il mancipio accipiens. Essa comportava l’acquisto di un “potere” su
persone o su cose in favore del mancipio accipiens (e la perdita di potere sulle stesse nel mancipio
dans). Era impiegata per il trasferimento sulle res mancipi (fondi in suolo italico, schiavi, animali da tiro
e da soma) di quella posizione giuridica soggettiva sostanzialmente corrispondente alla “proprietà”,
espressa dapprima in termini di appartenenza (“questa cosa è mia”) ex iure Quiritum, poi di
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dominium ex iure Quiritum (poi anche di proprietas). Ma la mancipato era impiegata altresì per la
costituzione di servitù rustiche (che erano res mancipi), per l’acquisto della manus sulla donna
(coempto), per l’acquisto sui filii familias altrui una particolare “potestà” detta mancipium, nonché,
con i necessari adattamenti, anche per il testamento (mancipato familiae e testamentum per aes et
libram).

Se a dover essere mancipato era uno schiavo si procedeva così: presenti il mancipio dans, lo schiavo, almeno
5 cittadini romani puberi e il libripens con la bilancia (anch’egli civis e pubere), il mancipio accipiens afferrava
lo schiavo e diceva: hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio isque mihi emptus esto hoc aere
aeneaque libra ( = dico che quest’uomo è mio ex iure Quiritum e sia a me acquistato in forza di questo
metallo e di questa bilancia fatta dello stesso metallo). Contestualmente, poneva sulla bilancia il metallo, che
il libripens provvedeva a pesare e che consegnava subito dopo al mancipio dans (il metallo era, in età più
antica, metallo grezzo, sostituito poi da lingotti con marchio pubblico che ne garantiva la qualità).

Per effetto della mancipato, il mancipio accipiens acquistava quel “potere” sostanzialmente
corrispondente alla “proprietà” che immediatamente prima dell’atto era in capo al mancipio dans. Ma
la mancipato, oltre alla proprietà, trasferiva anche il “possesso” ? Per rispondere, occorre distinguere
tra beni mobili e beni immobili.

Per i beni mobili (schiavi e animali) si trasferiva al contempo “proprietà” e “possesso”: le cose
mancipate non potevano non essere presenti, affinché il mancipio accipiens potesse fare adprehensio.

Non diversamente avveniva, in origine, per la mancipato su un fondo: l’atto doveva compiersi
necessariamente sul fondo stesso, per consentire al mancipio accipiens di compiere un gesto che
rappresentasse la presa di possesso del fondo. Successivamente, in età classica, per la mancipato dei
beni immobili non fu più necessario recarsi nei luoghi: il rito avrebbe fatto acquistare al mancipio
accipiens solo la “proprietà” e non anche il possesso, per acquisire il quale occorreva che il mancipio
dans ne facesse ulteriormente consegna (tradito).

Il rito della mancipato appare a noi realizzare uno scambio immediato di cosa contro corrispettivo in metallo
(aes), che il mancipio accipiens pagava al mancipio dans: dal momento che (prima dell’introduzione della
moneta coniata) il “metallo” aveva la stessa funzione della “moneta”, la mancipato avrebbe realizzato uno
scambio di cosa contro prezzo. Si deve, dunque, ritenere che quella della “vendita” fosse la sua funzione
originaria.

Con l’introduzione la moneta coniata (seconda metà del IV sec. a.C.), il cui valore dipendeva dal
“numero” e non dal “peso”, la pesatura assunse “valore simbolico”: il mancipio accipiens, anziché
deporre il metallo sulla bilancia, la percuoteva con un raudusculum (un pezzetto di metallo grezzo,
presto sostituito da una moneta); alla consegna del metallo pesato in favore del mancipio accipiens si
sostituì la consegna del raudusculum. Con il riconoscimento, agli inizi dell’età preclassica, della
compravendita come “contratto consensuale” (con effetti obbligatori), la mancipato, rimasta

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inalterata nella struttura, perse la sua originaria funzione di vendita, mantenendo solo l’effetto
traslativo (imaginaria vendito): se aveva ad oggetto fondi italici, schiavi e animali essa poteva
“trasferire la proprietà” (= effetti reali). Ora, la vendita (quando c’era), figurava come un negozio a sé,
che si perfezionava con il solo “consenso”: il venditore assumeva l’obbligo di consegnare la cosa; il
compratore assumeva l’obbligo di pagare il prezzo (= effetti obbligatori).

La prassi comune era che il venditore, quando la vendita aveva ad oggetto res mancipi, oltre a
consegnare al compratore la cosa venduta, gliene facesse anche mancipato, al fine di trasferirne la
proprietà (mancipato venditonis causa = avente come causa la vendita). La mancipato, ormai
divenuto in sé un “negozio astratto” (= non causale), avrebbe potuto essere usata come strumento
traslativo anche per cause diverse dalla vendita: donazioni, dote.

In merito al rito della mancipato occorre riflettere sul fatto che il mancipio accipiens affermava per sé
un’appartenenza “attuale”, così come le parti nella legis acto sacrament in rem, con la differenza che nella
legis acto le parti pretendevano effettivamente che la cosa in contestazione appartenesse loro, mentre nella
mancipato era palese che il mancipio accipiens fosse cosciente che la cosa non gli apparteneva e che sarebbe
divenuta sua solo “a rito compiuto”. Secondo il nostro modo di pensare, in un atto con il quale si trasmette un
diritto, dovrebbe essere soprattutto l’alienante a manifestare la propria volontà di alienare. Nella mancipato,
invece, era il mancipio accipiens ad assumere un ruolo attivo, ossia ad affermare il proprio potere sulla cosa e
ad adottare i comportamenti consequenziali, mentre il mancipio dans doveva essere presente sì, ma teneva un
comportamento del tutto passivo e taceva. La spiegazione era, probabilmente, che il rito della mancipato
esprimeva un atteggiamento mentale proprio dei Romani, attenti più al momento dell’acquisto che a quello
della perdita del potere, stante la concezione rigida ed assoluta del potere stesso: ecco che, per sottolinearne
con la massima efficacia il momento iniziale, si strutturò l’atto che lo realizzava in modo tale che il mancipio
accipiens proclamasse solennemente e perentoriamente come proprio ciò proprio non era, sicuro che lo
sarebbe divenuto di lì a poco.

Il formulario della mancipato poteva essere integrato da leges mancipii. Si trattava di leges privatae: nella
specie, manifestazioni di volontà espresse oralmente dal mancipio dans (forse, talvolta dal mancipio accipiens)
secondo certa verba, volte a limitare o comunque a integrare gli effetti tipici della mancipato. La giurisprudenza
pontificale vi riconobbe effetti facendo leva su un precetto delle XII Tavole che sembra stabilisse, con
riferimento a nexum e mancipato, che l’assetto giuridico concreto quale si determinava per effetto dell’atto
dovesse essere conforme ai verba che in esso solennemente si pronunziavano. Rappresenta un esempio di lex
mancipii l’excepto servituts (con cui il proprietario di due fondi, nell’alienarne uno, costituiva servitù a favore
del fondo che tratteneva e a carico di quello alienato, o viceversa).

§ 57 - La in iure cessio
Si tratta di un negozio formale e solenne, sicuramente di origine più recente rispetto alla mancipato,
ma comunque precedente alle XII Tavole, che espressamente la confermarono: dunque, apparteneva
al ius civile in senso stretto (fruibile dai soli cives Romani).

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La struttura negoziale ricalcava il rito della legis acto sacrament in rem. Si compiva in iure, dinanzi a un
magistrato. Le parti erano il cedente e il cessionario. Quando l’atto aveva ad oggetto uno schiavo, sul quale il
cedente intendeva trasferire la proprietà, presenti sia il cedente sia lo schiavo, il cessionario, afferrava lo
schiavo e pronunziava la “formula vindicatoria” (come nella legis acto sarament in rem e nella mancipato):
“Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio” (= dico che quest’uomo è mio ex iure Quiritum). Il
pretore interrogava il cedente se volesse controvindicare e, di fronte al suo diniego o silenzio, pronunziava
l’addicto del servo in favore del cessionario. Nelle altre applicazioni il rito, salvi i necessari adattamenti, era
fondamentalmente lo stesso.

La in iure cessio appare essere stata, evidentemente, un “finto processo”. Dovette trattarsi, agli inizi, di
un espediente che consentiva di perseguire effetti per i quali l’antico ius civile non prevedeva un
negozio apposito. Poteva essere impiegata per il trasferimento di “proprietà” su res mancipi e res nec
mancipi; per la costituzione e la rinunzia di servitù e usufrutto; per l’acquisto della patria potestas nel
procedimento di adopto; per la cessione della tutela mulieris; per la cessione di eredità (a
determinate condizioni).

Con funzione di trasferimento di proprietà, tuttavia, il ricorso alla in iure cessio non fu mai frequente, in quanto
l’impiego della mancipato e, ancor più, quello della tradito, risultava generalmente più comodo.

La in iure cessio appare, per la forma, un “finto processo”, ma era nella sostanza un negozio giuridico: anche se
non vi emergeva alcun accordo, questo era evidentemente presupposto, per cui si trattava, in effetti, di un
negozio giuridico “bilaterale”. Si trattava (come la mancipato) di un “negozio astratto”, dove non emergeva la
causa. Inoltre (come la mancipato), aveva “effetti reali”: se impiegata per il trasferimento della proprietà, si
trasmetteva anche il “possesso” solo quando si trattava di cose mobili.

Da segnalare, la particolarità che servi e filli familias, ammessi ad ogni altro negozio giuridico quali
“organi di acquisto” del dominus o del pater familias, furono sempre esclusi dalla in iure cessio, per
ragioni inerenti alla forma dell’atto (= non potevano essere parti in una legis acto).

§ 58 - Cenni sulla stipulatio


Si trattava di un negozio formale, “bilaterale” e con “effetti obbligatori” (= un contratto). Le parti erano lo
stipulante (stpulator) e il promittente (promissor).

Si compiva in forza di un’interrogazione e di congrua risposta:

1) interrogazione, con cui lo stipulante chiedeva al promittente se intendeva assumere l’impegno a tenere un
determinato comportamento;

2) risposta congrua del promittente, il quale si limitava a pronunziare in 1 a persona (e nello stesso tempo e
modo) il verbo già impiegato in 2a persona dallo stipulante.

“Spondes mihi dari centum ? Spondeo” = prometti che mi darai 100 ? Prometto.

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Nasceva così in favore dello stipulante (creditore) e a carico del promittente (debitore)
un’obbligazione, sanzionata iure civili (con l’acto ex stpulatu), avente ad oggetto la prestazione
promessa.

Il prototipo della stpulato (sponsio) era riservata ai soli cives (= ius civile, nell’accezione più stretta):
nell’interrogazione e nella risposta era adoperato il verbo spondere (Spondes ? Spondeo).

La stpulato fu tra i negozi di più larga applicazione del diritto romano. Il suo impiego non venne mai meno nel
corso del tempo. La forma era agile. Si trattava di un “negozio astratto”, il che consentiva d’impiegarla per le
causae più diverse sol che l’effetto voluto fosse quello di rendere taluno obbligato al compimento di una
prestazione (pagamento di una determinata somma di denaro; obbligo al trasferimento della proprietà di cose
diverse, mobili o immobili; risarcimento di danni futuri; prestazioni di lavoro).

§ 59 - Altre forme negoziali


Il diritto romano conobbe pure negozi per i quali si richiedeva la “forma scritta”(scriptura): alcuni in cui
la forma era “di per sé” produttiva di effetti giuridici (in particolare, fonti di obbligazioni: nomina
transscriptcia); altri in cui il documento rappresentava solo un “involucro esterno” contenente la
volontà (o le volontà) che col negozio si manifestavano (testamento e, in età postclassica,
compravendita e di locazione)

Si suole qualificare “negozio non formale” la tradito, un “negozio bilaterale” conosciuto a Roma sin da
età arcaica e da età preclassica fruibile anche dai peregrini (dunque, ius gentum). Con essa si
trasferiva il “possesso” (e ricorrendone i presupposti, la proprietà): anche se non era richiesta alcuna
solennità, essa non si esauriva in un semplice “accordo” di volontà, ma si compiva essenzialmente con
la “consegna” della cosa che ne era oggetto (sia pure informale o informalmente concordata).

§ 60 - Negozi giuridici “non formali”.


Veri e propri “negozi non formali” (bilaterali e con effetti obbligatori) erano i “contratti consensuali”
(compravendita, locazione, società e mandato), in uso nella prassi del commercio tra Romani e
stranieri (dunque, ius gentum) e riconosciuti dal pretore con l’introduzione del processo formulare:
furono presto recepiti nel ius civile e sanzionati da iudicia bonae fidei.

Erano “negozi non formali” pure i nuda pacta, ossia patti o accordi di volontà (almeno bilaterali) non
rientranti nello schema di alcun negozio consensuale: furono tutelati dal pretore a partire dall’ultima
età repubblicana e mantennero, fondamentalmente, effetti solo iure pretorio (in forza di excepto).

Ad essi era comune il fatto che la volontà fosse in qualsiasi forma manifestata, non importa se oralmente o in
forma scritta, se tra persone presenti o lontane, se direttamente o tramite intermediario o mediante missiva
(per epistulam), se espressamente o tacitamente (comportamenti concludenti).

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§ 61 - La “prova” del negozio giuridico. Forme scritte ad probationem. Cenni sul
testamentum per aes et libram e sulle stipulazioni complesse
Come dimostrare all’occorrenza (es. in giudizio) la titolarità di un diritto soggettivo conseguita per
effetto di un negozio giuridico a proprio favore ?

Sino a tutta l’età classica, per quei pochi negozi giuridici per i quali era richiesta forma scritta per la
validità dell’atto (ad substantam), bastava produrre il relativo documento.

Nei negozi per i quali si esigeva la presenza di testimoni, dovevano essere questi stessi, ove necessario,
a rendere testimonianza (sia dell’avvenuto compimento dell’atto, sia di contenuto e modalità).

Per gli altri negozi (formali o meno) si faceva ricorso ai mezzi di prova più diversi; eventualmente,
anche a testimonianze di persone anche solo occasionalmente presenti al compimento dell’atto e
comunque a conoscenza di esso. Ma si usava pure ricorrere alla redazione di documenti scritti
(instrumenta) attestanti che il negozio era stato compiuto e con quali modalità e contenuti: si trattava
di documenti utili a fini di prova (ad probatonem).

La prassi di redigere per iscritto documenti a fini probatori ebbe ampia diffusione sin da età
repubblicana e sempre maggiore in età classica (vi si fece ricorso anche per la mancipato, nonostante
vi fossero i testimoni). I documenti potevano essere di tipi diversi. Poteva trattarsi di chirographa,
documenti sottoscritti dalle parti (e redatti in 1 a persona) oppure testatones, documenti redatti in
tavolette cerate e (anziché dalle parti) sottoscritti da testimoni (alle parti si faceva riferimento in 3 a
persona). A partire dall’età del principato, si utilizzò spesso l’opera di tabelliones, scrivani privati
(riuniti in corporazioni). Il ricorso ai documenti probatori si spiega non tanto per la maggiore fiducia
nella scriptura rispetto alle testimonianze orali, quanto soprattutto per l’esigenza conservare prova del
negozio compiuto oltre il limite dell’esistenza fisica dei testimoni (ma anche per esigenze di segretezza,
difficoltà di affidare alla memoria dei testimoni manifestazioni di volontà articolate e complesse,
esigenze di precisione e rapidità).

Tutte queste esigenze furono alla base dell’impiego della scrittura, sin da età repubblicana, nel
testamentum per aes et libram, che era il “testamento civile” per eccellenza e per il quale veniva
adoperata la mancipato. Il testatore dapprima enunciava “oralmente” e in forma solenne le proprie
ultime volontà. Si ammise, però, che potesse preliminarmente redigerle (o farle redigere) per iscritto,
in “tavolette cerate” che si era soliti far sigillare con i contrassegni dei testimoni: così predisposte le
tabulae testamentarie, si procedeva al rito e in esso, con solenne “pronuncia orale” (nuncupato) il
disponente affermava di testare così come indicato nelle tabulae: non precisava quali fossero le
disposizioni, ma “faceva riferimento” ad esse (il contenuto delle tavolette sigillate era destinato a
restare segreto sino alla morte del testatore).

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Qualcosa di simile si usò per la stpulato, specie quando il promittente assumeva con unico atto
l’impegno di numerose e complesse prestazioni: in tal caso, si usò redigere per iscritto il contenuto
della promissio, per cui lo stipulante, anziché recitarlo verbalmente, faceva una interrogato
riassuntiva, con rinvio a ciò che nel documento era scritto: “haec quee suprascipta sunt promittis?
Promitto” (= Prometti tutto quel che è scritto ? Prometto).

In entrambi i casi, l’impiego della scrittura non era ad substantam, perché a dare validità all’atto era la
solennità orale (che doveva necessariamente aver luogo), ma non era ad probatonem, perché nella
pronunzia orale si faceva rinvio alla scrittura e il contenuto dell’atto era, per la sostanza, tutto nel
documento (dal quale pertanto non si poteva prescindere).

In età postclassica, Costantino abolì determinò legislativamente l’abolizione della solenne pronunzia orale
(nuncupato) e del compimento formale della mancipato, per cui il testamento civile divenne praticamente
un “documento scritto” (la cui autenticità era garantita dai sigilli dei testimoni).

Quanto alla stpulato, essa fu considerata valida sol che alla fine del documento descrittivo dell’accordo si
avesse avuto cura di indicare che avevano avuto luogo interrogato e congrua risposta, non importando se i
verba fossero stati realmente pronunziati.

§ 63 - L’interpretazione della volontaà negoziale


In parte connesso con quello della forma è il problema dell’interpretazione della volontà negoziale,
che si pone quando si tratta di stabilire gli “effetti” che il negozio compiuto è destinato a produrre.

Per i “negozi formali” e solenni del ius civile (mancipato, in iure cessio, stpulato) le formalità
impiegate (per lo più orali) di per sé esprimevano il contenuto: trattandosi di formule e
comportamenti prefissati e invariabili, non v’era spazio per l’interpretazione di una volontà negoziale
diversa da quella che il rito o la formula legale di per sé esprimevano.

Compiuta ritualmente la mancipato di una res, non era pensabile mettere in discussione che le parti avessero
inteso, rispettivamente, trasferire e acquistare il dominium di una cosa mancipata; compiuta ritualmente una
stpulato, si dava per scontato che stipulante e promittente avessero manifestato la volontà di far sorgere, a
carico del promittente e a favore dello stipulante, un’obbligazione avente ad oggetto la prestazione promessa.

Dunque, si aveva riguardo ai verba (= “volontà tipica”) e non alla voluntas (= “volontà individuale”). Tuttavia,
va tenuto presente che anche i negozi formali constavano di formulari con parti fisse e parti in bianco, da
riempire ogni volta con i dati del negozio che in concreto si andava a compiere (l’oggetto della prestazione
nella stpulato, il nome dell’erede nell’hereditas institutio, l’oggetto della disposizione e il nome del
destinatario nei legati). In ordine a queste “parti variabili”, anche nei negozi formali e solenni del diritto
arcaico potevano sorgere dubbi interpretativi, a causa di possibili imprecisioni, indeterminatezze e ambiguità.

Dubbi interpretativi si potevano prospettare per i “negozi non formali”. Si affermò un lavoro di
riflessione giuridica volto a stabilire, per quanto possibile, la “volontà effettiva delle parti”. L’esigenza
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di stabilire la “volontà individuale” del testatore fu perseguita maggiormente a proposito delle
disposizioni testamentarie, per la loro natura di negozi unilaterali che davano luogo ad un acquisto a
titolo gratuito. Qui poté essere mantenuto il massimo rispetto per la volontà del testatore, non
ostando al riguardo quelle esigenze di “certezza” delle situazioni giuridiche concrete e di
“affidamento” dei destinatari sulle altrui dichiarazioni che, invece, nei negozi inter vivos (specie quelli
bilaterali e a titolo oneroso) suggeriscono talvolta temperamenti alla ricerca della volontà individuale
(con risultati che potrebbero essere considerati secondo il moderno schema della “volontà tipica”). In
ogni caso, la direttiva di base rimase quella di individuare l’id quod actum est (la “volontà effettiva” di
chi ha compiuto l’atto). I criteri interpretativi furono diversi a seconda delle particolarità del caso
concreto.

Criterio primario fu quello di intendere non isolatamente ma nel contesto dell’atto il significato dei termini e
delle espressioni adoperate. All’occorrenza soccorrevano le abitudini e il modo usuale di esprimersi del
dichiarante (consuetudo patris familiae) oppure gli usi locali (mos regionis); certe volte, si faceva riferimento alla
natura del negozio. Se sussistevano dubbi, nell’alternativa tra interpretazioni che avrebbero comportato la
nullità dell’atto e interpretazione che l’avrebbe evitata, si preferiva generalmente quest’ultima, specie a
proposito delle disposizioni testamentarie (favor testament) e di negozi costitutivi della dote (favor dots).

Anche con riguardo alle manumissioni, nell’alternativa tra un’interpretazione che avrebbe comportato l’acquisto
della libertà e un’altra che l’avrebbe negata, si preferiva la prima (favor libertats): determinante al riguardo fu
l’influsso del pensiero filosofico stoico (e, in età postclassica e giustinianea, il pensiero cristiano).

In materia di stpulato prevalse, quale criterio sussidiario, quello dell’interpretazione contra stpulatorem:
poiché era lo stipulante che esprimeva, nell’interrogazione, il contenuto e le modalità della prestazione (mentre
il promittente si limitava ad assentire), si ritenne di dover tutelare maggiormente il promittente, per cui nei casi
dubbi, si interpretava il negozio nel senso a lui più favorevole.

Il principio fu esteso alla vendita e alla locazione: nei casi dubbi, gli accordi relativi si interpretavano,
rispettivamente contra venditorem e contra locatorem, dato che venditore e locatore di solito proponevano i
termini del futuro rapporto, mentre compratore e conduttore si limitavano ad assentire.

Tali orientamenti e criteri, che corrispondono a quelli poi accolti nel nostro codice civile (artt. 1362 ss. c.c.)
furono affermati ed elaborati soprattutto dai giuristi classici e risultati recepiti nel diritto giustinianeo.

§ 64 - Divergenza tra manifestazione e volontaà negoziali


In caso di difetto di volontà nell’autore del negozio (a parte i casi di un difetto della capacità di agire per
incapacità intellettuale), poteva accadere che nella dichiarazione negoziale si determinasse divergenza tra
volontà e manifestazione. In via di principio, bisogna distinguere tra negozi solenni del ius civile e altri negozi

Nei contratti consensuali e negli altri negozi non formali, la soluzione di massima, in ogni tempo, fu
che la mancanza di volontà ne comportasse la nullità: il negozio sarebbe stato improduttivo di effetti
giuridici.

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Al contrario, nei negozi formali e solenni del ius civile, il compimento delle formalità richieste era
considerato “necessario e sufficiente” per la validità dell’atto: per le parti fisse delle relative formule
non c’era spazio per un’interpretazione diversa da quella che il rito in sé esprimeva e, una volta
effettuate le prescritte formalità, a tali negozi si attribuivano, in linea di massima, gli effetti loro propri
(anche se, per caso, la parte o le parti non li avessero voluti).

In ordine alla stpulato, tuttavia, il principio fu superato ad opera della giurisprudenza: in un celebre
testo di Ulpiano è attribuita a Pedio (giurista del II sec d. C.) la dottrina per cui in tutti i contratti
l’accordo delle parti (convento) non può mancare, pena la nullità (nam et stpulato, quae verbis fit,
nisi habeat consensum, nulla est). Con la decadenza delle forme del ius civile, in età postclassica, la
regola circa la necessità della voluntas per la validità dei negozi giuridici assunse carattere generale.

Occorre prendere in considerazione le diverse possibili ipotesi di divergenza tra volontà e


manifestazione.

Dichiarazione ioci causa (e simili). Nessun problema si pose mai per le dichiarazioni ioci causa (= fatte per
scherzo) o nel contesto di una rappresentazione teatrale o demonstrandi causa (es. a scopo didattico). Si
trattava di dichiarazioni che non potevano essere prese sul serio, né i Romani pensarono mai di collegarvi effetti
giuridici, neppure se compiute col rispetto delle modalità dei negozi formali.

La riserva mentale. Si tratta del caso di chi, consapevolmente e senza metterne a parte nessuno, dichiari ciò che
non vuole. L’ipotesi è più teorica che pratica e la soluzione non poteva che essere nel senso della validità del
negozio: non era pensabile frustrare l’affidamento dei destinatari della manifestazione di volontà
apparentemente del tutto regolare; d’altro canto, non meritava tutela colui che consapevolmente avesse
provocato tale affidamento.

La simulazione. Si tratta di un’ipotesi complessa, che presuppone almeno un negozio bilaterale, in cui
la divergenza tra manifestazione e volontà è “consapevole” (= la consapevolezza di non volere il
negozio che si dichiara è comune alle parti sulla base di un intento concordato): esiste un “negozio
simulato” (palese) e, a lato, un “accordo simulatorio” (occulto). Occorre distinguere tra “simulazione
assoluta” (= le parti manifestano di volere un negozio ma in realtà non ne vogliono “nessuno”) e
“simulazione relativa” (= le parti vogliono un negozio “diverso” da quello dichiarato, dando luogo ad
un negozio simulato manifesto, ma non voluto, e un negozio dissimulato, occulto, effettivamente
voluto e risultante da accordo simulatorio).

Le soluzioni proposte dalle fonti discendono dai principi. Se ad essere simulato fosse stato taluno dei negozi per
i quali la volontà non poteva mancare (contratti consensuali e ogni altro negozio non solenne, nonché, dopo la
dottrina di Pedio, la stpulato), la conseguenza sarebbe stata la nullità (del negozio simulato). Viceversa, i negozi
solenni dello ius civile rimanevano del tutto validi ed efficaci (anche se simulati).

Questo era vero iure civili, ma l’accordo simulatorio era un “patto”: una volta che il pretore diede
tutela giuridica ai patti, l’interessato avrebbe potuto opporre l’exceptio pacti conventi 155 qualora
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l’altra parte avesse agito per l’adempimento del negozio simulato: esso, pur valido iure civili, sarebbe
stato invalidato iure pretorio (in forza dell’excepto).

Il negozio dissimulato era, dunque, valido, ma se ne ricorrevano i requisiti di forma e di sostanza: es. se tra coniugi fosse
stata simulata una vendita mentre in effetti ad essere voluta era una donazione, la vendita (negozio simulato) era
invalida, perché non voluta (ipso iure, in quanto “contratto consensuale”), ma anche la donazione (negozio dissimulato)
era invalida, in quanto tra coniugi la donazione era vietata, a pena di nullità ( ipso iure, per difetto nella causa
donatonis).

§ 65 - L’errore negoziale
La divergenza tra manifestazione e volontà può anche essere inconsapevole, in conseguenza di errore
(taluno attribuisce alla propria manifestazione di volontà un significato diverso da quello che essa
obiettivamente ha). Tale errore può dipendere da una svista, da un fraintendimento dovuto ad una
cattiva conoscenza della lingua o da ignoranza nel modo di esprimersi e di comportarsi: dal momento
l’errore esclude la volontà, esso viene comunemente denominato “errore ostativo” o errore nella
dichiarazione (art. 1433 c.c.).

Da esso bisogna distinguere il cd “errore-vizio”, che incide sulla formazione della volontà (taluno,
convinto di circostanze non vere e in dipendenza da esse, compie un negozio, che in sé è voluto, ma
che l’autore non avrebbe compiuto o l’avrebbe compiuto a condizioni diverse se non fosse stato in
errore). La volontà esiste ma è “viziata”: l’errore si configura non come divergenza tra manifestazione
e volontà, ma come vizio della volontà.

I giuristi romani, in tema di errore negoziale, non distinguevano tra errore ostativo ed errore-vizio: ciò
anche perché i Romani non procedettero all’operazione concettuale di separare la volontà interna
dalla manifestazione, ma considerarono il negozio unitariamente, come atto nel quale si
confondevano manifestazione e volontà. Il problema dell’errore negoziale, per diritto romano, va
posto in termini analoghi a quello dell’interpretazione della volontà negoziale, dovendosi stabilire in
che misura dare rilievo a ciò che l’autore avesse inteso effettivamente compiere e scegliere se dare
peso alla volontà individuale (voluntas) piuttosto che a quella tipica (verba). Ed infatti, anche a
proposito dell’errore negoziale, le considerazioni e le soluzioni che valevano per le parti fisse dei
formulari dei negozi solenni non valevano per le parti variabili degli stessi negozi; a maggior ragione
non valevano per gli altri negozi giuridici. Quando riguardava le “parti fisse” dei negozi solenni, l’errore
era irrilevante e il negozio comunque valido. Circa le “parti variabili” dei negozi solenni e gli altri negozi
si riconobbe che l’errore potesse dar luogo a nullità. Non ogni errore comportava l’invalidità del
negozio. Bisognava contemperare esigenze di “certezza” (soprattutto nei negozi bilaterali a titolo
oneroso) ed esigenze di rispetto della “volontà effettiva” (specialmente nei negozi morts causa).

L’errore di diritto (o ignoranta iuris), ossia l’errore che dipende da ignoranza o fraintendimento di
norme e istituti giuridici, è solitamente irrilevante (il negozio è pertanto valido). L’ignoranza iuris non

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può essere presa in considerazione (ignoranta legis non excusat) perché su tutti i consociati grava
l’onere di conoscere l’ordinamento giuridico che li riguarda. Si fece eccezione per le persone
gravemente ignoranti (rustici) e in ogni caso per le donne, i minori di 25 anni e i militari: si trattava di
persone solitamente digiune di nozioni giuridiche, per cui in età classica ne fu giustificata l’ignoranta
iuris (con conseguente nullità dei relativi negozi).

Assai maggiore attenzione si dedicò all’errore di fatto (o ignoranta fact) e assai più spesso ne fu
sancita la rilevanza. Quando l’errore era “rilevante”, il negozio era invalido: generalmente nullo e ipso
iure improduttivo di effetti (non annullabile, come nel nostro codice civile). L’errore di fatto in tanto era
rilevante in quanto fosse “scusabile” ed “essenziale”. Il nostro codice civile non esige più la
“scusabilità”, ma esige la “riconoscibilità” (art 1431 c.c. = rilevabile da una persona di media diligenza).
Peraltro, la riconoscibilità non è requisito di rilevanza dell’errore nelle disposizioni testamentarie (art.
624 c.c.), mentre la scusabilità assume rilievo in tema di pagamento dell’indebito (art. 2036 c.c.).
L’errore “scusabile” è quello non grossolano, che è, invece, tipico degli stolti (una costituzione di
Severo e Antonino specifica “nec stults solere succurri sed errantbus “, distinguendo gli erranti dagli
stolti). L’errore “essenziale” investe il negozio nei suoi aspetti fondamentali. Gli interpreti delle fonti
romane hanno enucleato alcune categorie: error in negoto, in persona, in corpore, in substanta, in
qualitate, in quanttate, in causa.

L’error in negoto cade sull’identità del negozio da compiere. Emblematico è il caso del dissenso che si
determina nei negozi bilaterali quando una parte, convinta che l’altro intenda porre in essere un
negozio diverso da quello che questa in effetti vuole, adotta il comportamento conseguente (es. una
parte dà denaro con l’intenzione di donarlo; chi lo riceve lo accetta a titolo di mutuo: non si avrà né
donazione né mutuo).

L’error in persona cade sull’identità del destinatario o dell’altra parte del negozio. Era sempre
rilevante nelle disposizioni morts causa. Nei negozi inter vivos solo se in essi era determinante
l’elemento della “fiducia” (es. nel mutuo, quanto l’errore cadeva sulla persona del mutuatario, perché
il denaro si suole prestare a persona ritenuta solvibile). L’errore poteva riguardare, oltre che l’identità
della persona, anche qualità della stessa in concreto determinanti per la volontà: il trattamento
giuridico sarebbe stato allora uguale a quello dell’errore sull’identità fisica.

L’error in corpore concerne l’identità fisica dell’oggetto del negozio.

Diverso dall’errore in persona o in corpore era l’error in nomine che ricorreva quando una persona o una
oggetto perfettamente identificabili sono indicati con un nome diverso da quello proprio. In questo caso,
l’errore è irrilevante. Analogamente, se la persona o l’oggetto sono descritti in modo sbagliato (falsa
demonstrato) ma l’identificazione possibile: il negozio era valido.

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L’error in substanta si riferisce alla composizione materiale dell’oggetto del negozio (es. scambiare
rame per oro); prevalse nel tardo diritto classico l’idea della rilevanza, ma solamente nei negozi che
davano luogo a iudicia bonae fidei.

l’error in qualitate concerne le qualità solamente (es. ritenere che un oggetto d’oro abbia caratura
diversa da quella che in effetti esso ha); fu sempre irrilevante ed il negozio ugualmente valido.

L’error in quanttate verteva sulla quantità. In proposito le soluzioni non sono uniformi. Poteva
comportare la nullità o la validità del negozio nei limiti della quantità minore (es. il locatore intende
dare in locazione per 5, il conduttore prendere in locazione per 10; la locazione è valida per 5 e nulla
nel caso inverso).

L’error in causa (i Romani parlavano di falsa causa) può cadere sui motivi, sulle circostanze di fatto
credute esistenti e per cui taluno, nell’erronea convinzione della loro esistenza, è indotto a compiere
un negozio (es. il testatore dispone un legato in favore di Tizio nell’erronea credenza che abbia
amministrato i suoi beni). Si tratta in ogni caso di errore-vizio, ma la regola era l’irrilevanza.

§ 66 - Il dolo
Il dolo come “criterio di responsabilità” esprime l’idea della volontarietà di un comportamento e delle relative
conseguenze per altri pregiudizievoli. In questa accezione, il dolo si contrappone alla colpa (volontarietà del
comportamento pregiudizievole, non però delle sua conseguenze (comportamento “negligente”).

Il dolo negoziale è una macchinazione volta a trarre in inganno altra persona al fine di spingerla a compiere un
negozio per lei pregiudizievole, che diversamente non avrebbe voluto e quindi non avrebbe compiuto (dolo
determinante) oppure avrebbe compiuto a condizioni diverse (dolo incidente). Nel codice civile (artt. 1439 –
1440) sancisce l’annullabilità nei casi di dolo determinante e il risarcimento del danno nei casi di dolo incidente.

La distinzione non è nelle fonti romane. Siamo sempre in presenza di un “errore-vizio”, solo che, per
antica tradizione giuridica, quando l’errore non è imputabile all’autore del negozio ma è indotto da
“altrui” macchinazione si parla di dolo (il punto di vista non è più quello di chi cade in errore, ma
quello di chi commettendo il dolo, induce in errore). Inoltre, l’errore di per sé non sempre era rilevante
(era rilevante quando si trattava di errore di fatto, scusabile ed essenziale) ma l’errore indotto da altrui
dolo, da età preclassica almeno, fu sempre rilevante.

Peraltro, quando si parla di dolo negoziale è al solo dolus malus che si pensa, non al dolus bonus (usuali furberie
tollerate dal costume, che i più adoperano nel trattare i propri affari, come le vanterie della merce che sono
soliti fare i piccoli commercianti): il dolus bonus è irrilevante.

Il punto di partenza circa il dolo negoziale è la sua irrilevanza: il negozio viziato da dolo iure civili è
valido ed efficace (salvo che il dolo non desse luogo ad errore di fatto, scusabile ed essenziale, per cui
diventava rilevante).

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Il principio subì deroga a proposito dei negozi che davano luogo a iudicia bonae fidei: poiché “dolo” e
“buona fede” si escludono a vicenda, il giudice dei iudicia bonae fidei dovendo stabilire a che cosa è
tenuto il convenuto (secondo i criteri di buona fede) ed essendo l’impegno assunto dal convenuto
conseguenza del dolo dell’attore, avrebbe dovuto concludere che il convenuto non fosse tenuto a nulla
e avrebbe dovuto assolverlo.

Se poi la vittima, inconsapevole del dolo, avesse adempiuto “prima” di essere chiamata in giudizio, essa
avrebbe potuto, nella stessa azione di buona fede, agire contro l’altro contraente e chiedere il ristoro del
pregiudizio subìto (sempre che fosse possibile, ottenere la restituzione dell’oggetto della prestazione). Inoltre,
seppure i termini della condemnato furono interpretati dalla giurisprudenza nel senso che il giudice dovesse
condannare il convenuto all’id quod actoris interest (formula con demonstrato e intento incerta), il convenuto
avrebbe potuto evitare la condanna pecuniaria dando corso alla pretesa attrice anche post litem contestatam
(l’id quod actoris interest coincideva con il valore dell’oggetto ricevuto in adempimento della prestazione
estorta con dolo).

Pertanto, pure nel ius civile (ma solo per i iudicia bonae fidei), il dolo dava luogo ad invalidità del
negozio, in forza della pronunzia del giudice (ope iudicis) o, nell’ipotesi di chiamata in giudizio
dell’obbligato ingannato e ancora inadempiente, ipso iure (= non occorreva excepto e non si
modificava la formula).

L’excepto doli. Nella prima metà del I sec. a. C. il pretore introdusse stabilmente nell’editto la clausola
che prometteva l’exceptio doli mali 169. Tale excepto (superflua nei iudicia bonae fidei) fu invece
strumento necessario per invalidare i negozi dai quali nascevano azioni che non erano di buona fede
(iudicia stricta). La vittima del raggiro avrebbe potuto essere chiamata in giudizio per l’adempimento e
la relativa azione sarebbe stata iure civili fondata. In virtù dell’excepto doli (opponibile all’azione per
l’esecuzione del negozio estorto) il convenuto, accertato l’inganno, sarebbe stato assolto: gli effetti del
negozio iure civili valido sarebbero stati “neutralizzati” iure pretorio.

Il campo d’applicazione dell’excepto doli era più ampio: vi rientravano, oltre al dolo negoziale, una
fitta serie di casi in cui, in relazione alle circostanze, appariva iniquo che l’attore conseguisse quanto
iure civili gli era dovuto.

L’excepto doli era così formulata: “ si in ea re nihil dolo malo Auli Agerii factum est neque fiat” (= se
nella questione nulla sia avvenuto o avvenga per dolo di AA”).

Si faceva riferimento non solo al dolo commesso dall’attore “prima” del giudizio (factum est = sia
avvenuto, in passato) ma anche al dolo che l’attore commetteva nel momento stesso in cui agiva e per
il fatto stesso che agiva (neque fiat = avvenga, in presente). L’excepto doli aveva una doppia valenza: di
excepto doli praeterit e di excepto doli praesents (o excepto doli generalis, data la varietà e
molteplicità delle sue possibili applicazioni,). Il dolo dell’excepto doli praeterit era il “dolo negoziale”,
raggiro perpetrato “prima” del giudizio, (= contestuale al compimento del negozio per cui si agiva); il

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dolo dell’excepto doli praesents (o generalis) era commesso al momento dell’azione, non era inganno
negoziale, ma un comportamento più genericamente “iniquo” (una tra le tante possibili applicazioni
consisteva nell’excepto doli che il possessore di buona fede, convenuto con la rivendica, avrebbe
potuto opporre all’attore che non gli rimborsava le spese necessarie e utili erogate sul bene
rivendicato).

L’acto de dolo. Ma cosa accadeva quando la vittima del dolo, inconsapevole dell’inganno subìto,
avesse dato esecuzione al negozio ? Non si trattava più di doversi difendere (mentre l’excepto era solo
uno strumento giudiziario di difesa), ma occorreva poter prendere l’iniziativa e quindi promuovere un
giudizio. All’uopo soccorreva l’actio de dolo 73, introdotta per iniziativa del giurista Aquilio Gallo
(pretore nel 66 a.C.).Era esperibile dalla vittima contro l’autore del dolo. Si trattava di “azione penale”
e tuttavia al simplum: l’importo della pena corrispondeva al danno subito dall’attore (quanti ea res
erit = al momento della sentenza). Si trattava di “azione arbitraria”: il convenuto sarebbe stato
condannato (con aestmato affidata a giuramento dell’attore) se prima della sentenza e su invito del
giudice non avesse “risarcito” il danno. Ma l’acto de dolo era per altro verso grave, in quanto
comportava infamia a carico di chi fosse stato con essa condannato. L’acto de dolo era un’azione
sussidiaria: il pretore la concedeva solo in difetto di altro mezzo giudiziario in favore dell’ingannato.

L’acto de dolo era penale, quindi all’occorrenza “nossale”; inoltre, era intrasmissibile agli eredi
(peraltro, nel quadro del processo di depenalizzazione delle azioni penali, si ammise poi che, contro gli
eredi, la condanna venisse mantenuta con taxato nei limiti dell’arricchimento che costoro avessero
conseguito in dipendenza del dolo); inoltre, trattandosi di azione penale pretoria (in factum), poteva
essere esperita non oltre l’anno dalla commissione del dolo.

In pratica (fuori dei casi dei iudicia bonae fidei) il negozio già eseguito non veniva in sé invalidato, ma
l’ingannato poteva ottenere la condanna dell’autore del dolo ad una poena corrispondente alla stima
del pregiudizio subìto (o, quando agivano gli eredi, nei limiti dell’arricchimento).

La figura del dolo nell’acto de dolo era dapprima il vero e proprio inganno pregiudizievole per colui
che l’aveva subìto (più specificamente, “attività simulatoria non concordata”, secondo Aquilio Gallo;
una macchinazione per trarre in inganno a prescindere dall’attività simulatoria, secondo la più nota
definizione di Labeone). Un ulteriore evoluzione comportò un allargamento del concetto di dolo: dato
il carattere sussidiario dell’azione, si finì per ammetterla in una larga serie di ipotesi di comportamenti
iniqui anche fuori dai casi di dolo negoziale (purché non rientranti in alcun illecito per altro verso
represso e per cui mancava a chi ne avesse subìto pregiudizio altro mezzo giudiziario).

La in integrum restitutio propter dolum. Si tratta di un rimedio pretorio ulteriore contro il dolo negoziale e non
negoziale, di cui le fonti conservano poche tracce.

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§ 67 - La violenza (metus)
Altro vizio della volontà nel negozio giuridico è il metus, timore generato dall’altrui violenza (vis).

La vis di cui si parla non è la violenza fisica (vis absoluta o vis corpore illata), per la quale una persona sia
materialmente costretta ad esprimere una volontà negoziale. Tale ipotesi non è facilmente prospettabile in
concreto (come costringere fisicamente taluno a pronunziare certa verba ?). Nelle fonti, in ogni caso, non se ne
trova riscontro.

La violenza alla quale si pensa quando si parla di metus consiste nella minaccia di provocare un male
se il minacciato non compia un certo negozio: “violenza morale”(vis compulsiva o vis animo illata). La
minaccia di un male genera timore (metus), in conseguenza del quale taluno è indotto a compiere un
negozio per lui pregiudizievole (quale l’autore della vis pretende), negozio che altrimenti l’autore non
avrebbe voluto o avrebbe voluto a condizioni diverse. La vittima, nell’alternativa tra il male minacciato
e il compimento del negozio, preferisce questa seconda via. Il diritto, peraltro, prende in
considerazione il fenomeno purché il male minacciato sia “ingiusto” e la minaccia “seria” (non tale da
spaventare un vanus homo, ma tale da influire anche su un homo constantssimus). Si tratta di un
“vizio della volontà”: il negozio è voluto, ma la volontà si è viziata per effetto del timore generato dalla
minaccia.

In linea di principio, il negozio estorto con la minaccia era iure civili valido ed efficace: prevaleva la
considerazione per cui esso era voluto pure se l’autore vi era stato moralmente costretto.

Tuttavia, il convenuto con una azione ex fide bona avrebbe potuto opporre (senza bisogno di excepto)
che l’impegno per cui l’altra parte pretendeva l’adempimento gli era stato estorto con minaccia
(oppure, una volta adempiuto, farsi attore con la stessa azione ex fide bona propria del rapporto tra le
parti per ottenere la restituzione). Ciò per l’elementare considerazione per cui a nulla può essere
tenuto, secondo i criteri di buona fede, colui che ha assunto un impegno per effetto di metus; e che è
conforme a buona fede restituire quanto percepito in dipendenza di violenza (anche mediata da un
terzo).

Fu nel corso del I sec. a.C. che il pretore contemplò nel suo editto l’excepto quod metus causa factum
est (detta così dalle prime parole dell’editto relativo) o, più semplicemente, exceptio metus 170. In
virtù di essa, chi avesse compiuto un negozio per metus, una volta convenuto per l’adempimento
avrebbe ottenuto l’assoluzione. Tale excepto (superflua a fronte di iudicia bonae fidei) giovava al
convenuto con iudicia stricta.

I termini formulari dell’excepto metus erano: “si in ea re nihil metus causa factum est” (= se nella
questione nulla sia avvenuto per timore).

L’excepto era espressa “impersonalmente”, senza riferimento all’autore del metus (poteva essere opposta
anche a persona diversa dall’autore della violenza, purché l’attore fondasse la sua pretesa su un negozio

19
comunque estorto al convenuto con minacce). Per questa sua caratteristica di “valenza assoluta”, non limitata
all’autore della vis, l’excepto metus venne qualificata excepto in rem scripta.

Poteva accadere che l’autore del negozio viziato da metus gli desse esecuzione “prima” di essere
chiamato in giudizio: giovavano, allora, quando si trattava di negozi che non davano luogo a giudizi di
buona fede, appositi diversi rimedi pretori.

L’actio quod metus causa 72 era “azione penale” (da esercitare entro l’anno): la poena era del
quadruplo del valore del pregiudizio arrecato (ma se l’azione era esercitata dopo l’anno del simplum).
Si trattava di “azione arbitraria”.

Poteva essere esperita contro l’autore del metus ed anche contro i terzi che avessero acquistato alcunché o si
fossero in definitiva avvantaggiati in dipendenza del metus (dunque, acto in rem scripta).

Per il suo carattere penale, l’azione poteva (essere esercitata come noxalis (se a compiere l’illecito era
stato soggetto a potestà), ma non poteva essere esercitata contro gli eredi dell’autore della violenza
(salvo che nei limiti del loro arricchimento).

Altro rimedio era la in integrum restitutio propter rem. Gli effetti del negozio compiuto sotto minaccia
venivano praticamente ignorati (l’ex proprietario, già costretto a compiere mancipato per trasferire la
proprietà, pur non essendo più legittimato ad una rei vindicato, in quanto questa spettava di regola al
“proprietario”, avrebbe potuto agire per il recupero della cosa con una rei vindicato utlis, fictcia per
cui il giudice avrebbe giudicato “come se” la mancipato non avesse avuto luogo).

§ 68 - La “causa” nei negozi giuridici. La condictio.


Chiunque compie un negozio giuridico non può non avere dei “motivi” propri e personali per addivenirvi. Chi dà
denaro a mutuo può farlo per favorire un’attività commerciale del mutuatario o per investire convenientemente
il proprio capitale liquido (perché il mutuatario promette interessi); chi lo riceve può contrarre mutuo per
procurarsi i mezzi per saldare un proprio debito o per finanziare una propria o altrui impresa. Si tratta di motivi
del tutto soggettivi, che di solito l’ordinamento non prende in considerazione: veri o falsi che siano, leciti o
illeciti, ciò è per lo più irrilevante dal punto di vista del diritto.

Ma, a parte i motivi, ogni negozio è dal suo autore compiuto per una “causa”, la quale consiste nella
ragion d’essere oggettiva del negozio, ossia la “funzione” che si intende realizzare attraverso gli effetti
che il negozio andrà a produrre (causa negoziale della compravendita sarà lo scambio di cosa contro
prezzo; nel mutuo sarà la realizzazione d’un prestito di consumo). Se si tratta di negozi bilaterali (che
sono quelli in cui l’individuazione della causa assume realmente significato) la causa è comune ad
entrambe le parti (compratore e venditore, mutuante e mutuatario).

La causa (riconosciuta a priori come lecita dall’ordinamento giuridico) determina la “struttura” del
negozio e ne rappresenta quindi un elemento costitutivo. Si parla al riguardo di “negozi causali”. Il

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difetto di causa, risolvendosi nella mancanza di un elemento costitutivo del negozio, ossia di un
elemento essenziale, comporta la nullità: quel negozio non viene giuridicamente ad esistenza.

Ai negozi causali si contrappongono i “negozi astratti”, dove la causa non è espressa, non emerge dalla
struttura del negozio ed è ad esso “esterna”. Quel che la struttura del negozio astratto esprime sono
gli effetti giuridici, non la causa.

Erano astratti (o almeno lo divennero) la maggior parte dei negozi del ius civile (mancipato, in iure cessio,
stpulato) e si deve ritenere che fosse fondamentalmente un negozio astratto pure la tradito. La mancipato e
la in iure cessio erano traslative del dominium, la stpulato era produttiva di obbligazione. Ma questi erano gli
effetti, denunziati in qualche modo già dalla loro struttura. La causa non vi compariva, era esterna, sicché
potevano essere compiuti per una molteplicità di cause: mancipato, in iure cessio, tradito ad esempio
venditonis causa (vendita), donandi causa (costituzione di dote); alla stpulato si faceva ricorso novandi causa
(per novare una precedente obbligazione) o per garantire il compratore contro l’evizione (stpulato duplae).

I “negozi astratti”, in linea di massima, erano e restavano iure civili validi ed efficaci, pure se la causa
mancava o era illecita. Da età preclassica si ammise però, in questi casi, il ricorso alla condicto o
all’excepto, a seconda che il negozio rivelatosi senza causa o con causa illecita avesse già avuto o non
avesse ancora avuto esecuzione: la condicto, rimedio civilistico, per la restituzione (o ripetizione) di
quanto già prestato, l’excepto, strumento pretorio (al suo posto, eventualmente, la denegato
actonis), per la neutralizzazione degli effetti che derivavano iure civili dal “negozio astratto”.

Il ricorso all’excepto è attestato, in tema di stpulato, nel caso di colui che ha promesso di restituire
una certa somma di denaro, apprestandosi a riceverla a mutuo dallo stipulante: se non l’ottiene,
essendo venuta a mancare la causa della stpulato, il promittente poteva opporre con successo
l’excepto doli all’acto ex stpulatu eventualmente esercitata dallo stipulante.

Per la stessa ipotesi di difetto della causa negoziale, risultando la percezione di denaro (in effetti non
percepito) da un documento scritto, in fonti tardo-antiche, si dà l’excepto non numeratae pecuniae,
soggetta a prescrizione (annuale al tempo di Alessandro Severo, quinquennale con Diocleziano,
biennale con Giustiniano).

Viene, inoltre, in considerazione anche la querela non numeratae pecuniae, che sembra consistesse in una dichiarazione
resa dal presunto debitore presso un ufficio pubblico (ad acta), con cui lo stesso contestasse di aver ricevuto il denaro che
dal documento scritto risultava avere avuto. Doveva essere compiuta entro lo stesso termine nel quale, se convenuto,
avrebbe potuto opporre l’excepto non numeratae pecuniae. L’effetto era di rendere tale exceptio opponibile senza limiti di
tempo.

La condicto. Fu la versione formulare della legis acto per condictonem. Con essa si perseguivano
crediti per cui l’attore pretendeva sussistere un obbligo di dare oportere, a carico dell’altra parte: un
dare che avrebbe potuto essere certae pecuniae 19 (= una somma di denaro) o certae rei 22 (= una
cosa individuata nella specie o una quantità definita di cose fungibili diverse dal denaro). Si trattava di

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“azione civile” (in ius concepta), in personam e di stretto diritto (iudicium strictum: l’oportere veniva in
considerazione non ex fide bona). Già nella legis acto per condictonem l’attore non indicava la causa
del credito affermato: la cosa trova puntuale riscontro nella condicto formulare (formula senza
demonstrato).

Nella procedura della condicto è dato riscontrare talune peculiarità. L’attore avrebbe potuto deferire
all’avversario giuramento decisorio. Al giuramento così deferitogli, il convenuto non avrebbe potuto sottrarsi
(salvo riferire, a sua volta, giuramento all’attore). Il convenuto che non giurava e neanche riferiva giuramento
andava incontro alle sanzioni dell’indefensio delle actones in personam (esecuzione personale o missio in
bona).

Nella condicto certae pecuniae, le parti erano, inoltre, tenute a prestare ciascuna una stpulato promettendo di
pagare all’avversario 1/3 del preteso credito in caso di soccombenza.

La mancanza di demonstrato consentì l’applicazione della condicto ad una pluralità di fattispecie


eterogenee. Il campo di applicazione venne definito dalla giurisprudenza.

La condicto presupponeva una dato (intesa nel senso di “trasferimento di proprietà”): si


presupponeva che l’attore avesse in precedenza trasferito al convenuto la “proprietà” di una res.
Inoltre, doveva anche esistere una ragione valida per cui il convenuto non dovesse trattenere la cosa,
implicando ciò, nei termini della formula, un suo dovere di dare (dare oportere): anche questo dare fu
interpretato nel significato di “trasferire la proprietà”. Di qui l’obbligo del convenuto soccombente di
trasferire all’attore la “proprietà”: della stessa cosa ricevuta, se si trattava di cosa individuata nella
specie; dell’equivalente (tantundem), se si trattava di denaro o altre cose fungibili.

Ebbe carattere eccezionale, in età classica, il regime della condictio ex causa furtiva, che non presupponeva una
dato e di fronte alla quale il convenuto soccombente (il ladro) non sarebbe stato tenuto ad una dato in senso
tecnico.

Da età classica avanzata, il campo d’applicazione della condicto si ampliò in relazione all’oggetto, con
applicazioni contrattuali (es. mutuo, che presupponeva una dato compiuta con l’intesa che quanto si
trasferiva sarebbe poi stato restituito) ed applicazioni extra-contrattuali (che riguardava una dato
compiuta per una causa inesistente o venuta a mancare: la condicto era impiegata quale rimedio
contro il difetto di causa nei “negozi astratti” di trasferimento).

Se taluno trasferiva la proprietà di qualcosa nell’erronea convinzione di esservi obbligato (soluto indebit), il
falso creditore era perseguibile con la condicto (che assumeva la denominazione di condictio indebiti) e doveva
restituire, a seconda dei casi, la stessa cosa o l’equivalente (tantundem).

Analogamente, in ipotesi di dato in vista di causae future poi venute a mancare: es. dato ob dotem, compiuta
di frequente prima del matrimonio, per cui se il matrimonio non aveva più luogo, il costituente la dote aveva la
condicto per la restituzione del dato; la dato compiuta per realizzare una donato morts causa, se il donante
che aveva proceduto alla donazione in procinto di affrontare rischi mortali (o credendosi in punto di morte)
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sopravviveva, aveva poi la condicto per la restituzione del donato; la dato compiuta con l’intesa che
l’acquirente compisse a sua volta una sua prestazione (dato ob rem: do ut des o do ut facias), se questa non
veniva effettuata chi aveva eseguito la dato aveva la condicto per la ripetizione del dato.

Alla causa mancante o venuta a mancare fu equiparata la “causa illecita”. Di qui l’opponibilità
dell’excepto doli (o di una excepto in factum) all’acto ex stpulatu fondata su una stpulato con una
promessa ob turpem causam e la ripetibilità, con la condicto (denominata condictio ob turpem vel
iniustam causam) di quanto dato per causa turpe.

Tale condicto si dava quando la causa turpis era dalla parte di chi aveva ricevuto (es. Tizio dava a Caio affinché
questi non commettesse sacrilegio, non commettesse furto, non uccidesse un uomo). Quando l’illiceità era
comune alle parti, la condicto era negata (es. Tizio dava del denaro al giudice perché questi giudicasse
malamente).

Diversi dai negozi con causa turpis erano i negozi illeciti per il contenuto: es. una stpulato con cui taluno
prometteva di commettere un omicidio o un sacrilegio. Tali negozi sarebbero stati direttamente nulli.

Nel caso del divieto di donazione tra i coniugi i relativi negozi erano nulli non tanto in relazione alla causa (la
causa donatonis era in sé lecita), ma in relazione ai soggetti (marito e moglie) tra i quali si realizzava il
negozio: mancipato, in iure cessio e tradito donatonis causa di un coniuge in favore dell’altro non avrebbero
trasmesso la proprietà; né una stpulato a causa di donazione avrebbe fatto sorgere l’obbligazione

§ 69 - Elementi accidentali dei negozi giuridici. La condizione


La tipicità negoziale non fu di ostacolo, in linea di massima, alla possibilità di aggiungere di volta in volta a
questo o a quel negozio giuridico clausole diverse, ora per modificare senza snaturarli gli effetti negoziali tipici
ora per integrarli. Si parla di “elementi accidentali” del negozio giuridico per significare che essi, nei singoli
negozi concreti, possono essere presenti o meno a seconda che le parti li abbiano o meno espressamente
inclusi.

Per “condizione” s’intende la clausola che contempla un evento “futuro” e “incerto” dal quale si fanno
dipendere gli effetti del negozio. Le condizioni si distinguono in “sospensive” e “risolutive”.

“condizione sospensiva”: il negozio non produce i suoi effetti (sono sospesi): li produrrà se e quando
l’evento si verificherà.

“condizione risolutiva”: il negozio produce i suoi effetti, che però cesseranno automaticamente (si
risolveranno) una volta accaduto l’evento.

I Romani conobbero soprattutto la “condizione sospensiva” (condicio): il negozio sub condicione era
quindi il negozio sospensivamente condizionato.

Gli actus legitmi. Non tutti i negozi tolleravano l’aggiunta di condizioni: non la tolleravano gli actus
legitmi. In essi l’aggiunta di una condizione avrebbe comportato l’invalidità dell’atto: non tanto era
23
nulla la condizione, quanto piuttosto cadeva nel nulla l’intero negozio. Erano actus legitmi:
mancipato, acceptlato, creto, in iure cessio e manumissio vindicta. Erano tutti atti solenni con la
pronunzia di certa verba (= legitmi: lex significava “enunciazione orale solenne”). Ora, i certa verba
degli actus legitmi erano logicamente incompatibili con un rinvio, quale la condizione sospensiva
comportava, degli effetti tipici dell’atto.

Nella mancipato, il mancipio accipiens, quando l’atto aveva ad oggetto una cosa corporale, faceva
affermazione di appartenenza “attuale” (con l’uso del tempo presente: meam esse aio = dico che questa cosa
è mia). Integrare il formulario con una condizione sospensiva, dicendo che la cosa sarebbe divenuta mia in
seguito al verificarsi dell’evento dedotto in condizione (e per di più eventualmente), avrebbe contraddetto
l’affermazione iniziale.

Se questa era la ragione per cui gli actus legitmi non tolleravano aggiunta di condizioni e termini, le
parti potevano comunque (lasciando intatto il formulario) convenire a lato del negozio solenne
taluni “patti” (= relativi agli effetti). Essi non avrebbero avuto altra conseguenza se non quella
proprio dei patti: se del caso, operare ope exceptonis.

La rigidità dei formulari non solo non ostava alle leges privatae, ma consentiva anche integrazioni
con limitazioni agli effetti dell’atto (purché non contraddittorie rispetto al resto del formulario: non
era possibile modificare una forma solenne)

Es. si ammetteva la deducto usus fructus, per cui il mancipio accipiens in una mancipato e il cessionario nella
in iure cessio affermavano a sé la cosa che acquistavano deducto usu fructu, facendo salvo l’usufrutto in
favore del mancipio dans o del cedente. Avrebbero acquistato, in tal modo, non la proprietà piena ma la
“nuda proprietà”. E peraltro all’effetto acquisitivo dell’usufrutto potevano essere aggiunte condizioni
(sospensive o risolutive) e termini (iniziali e finali), senza contraddire l’affermazione iniziale di appartenenza
attuale della cosa. Al contrario, quando l’usufrutto si costituiva per in iure cessio (senza deducto), dovendo in
tal caso il cessionario affermare direttamente di essere usufruttuario e di esserlo per il tempo presente (ius
mihi esse fundo Corneliano ut frui), ecco che l’aggiunta di condizioni (sospensive o risolutive) e termini inziali
era comunque preclusa, perché esse avrebbero contraddetto l’affermazione iniziale di una posizione giuridica
attuale (si finì tuttavia per ammettere, in considerazione della natura temporanea dell’usufrutto, la in iure
cessio costitutiva di usufrutto con termine finale).

Si dubita che fossero actus legitmi la nomina del cognitor, l’intervento del tutore che interponeva
l’auctoritas, la soluto per aes et libram; e pure la expensilato (nonostante la forma scritta): certo è
comunque che neanche questi atti tolleravano l’aggiunta di condizioni; così come non la tollerava, a
pena di nullità, l’accettazione formale di eredità (adito hereditats). Uguale regime avevano quegli
atti che compiuti con l’impiego della mancipato, della manumissio vindicta, della in iure cessio
(adopto, emancipato e coempto).Non erano actus legitimi, ma non tolleravano l’aggiunta di
condizioni (quanto meno sospensive) le disposizioni testamentarie, nonostante l’impiego della
mancipato nella mancipato familiae e nel testamentum per aes et libram.

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Per taluni atti gli effetti erano di per sé subordinati al verificarsi di certi eventi: la dato dots sarebbe stata
efficace solo col matrimonio; i legati, non prima della morte del testatore (una volta efficace il testamento). Si
parlò, in questi casi, di condicio iuris. Non essendo una “condizione negoziale”, intesa come elemento
accidentale del negozio giuridico, non era soggetta al relativo regime giuridico.

Neanche erano condizioni in senso proprio le condizioni in praesens vel in praeteritum conlatae, che facevano
dipendere gli effetti del negozio da eventi attuali o passati: esse non seguivano il regime giuridico delle vere
condizioni, in quanto il negozio sarebbe stato efficace subito se l’evento dedotto risultava verificato, altrimenti
non avrebbe prodotto effetto (meglio, sarebbe stato “inesistente”).

L’evento dedotto in condizione poteva essere impossibile (materialmente o giuridicamente). La conseguenza


dell’impossibilità della condizione avrebbe dovuto essere in ogni caso l’invalidità del negozio, in quanto non
potendosi verificare l’evento dedotto il condizione il negozio non avrebbe mai potuto produrre effetti. Questa la
soluzione per i negozi inter vivos; nei negozi morts causa, i giuristi sabiniani (dottrina prevalente) affermarono
la validità e l’efficacia, dovendosi la condizione impossibile considerare come non apposta (pro non scripta).

Per quanto riguarda le condizioni illecite, nei negozi che davano luogo a iudicia bonae fidei fu facile affermare la
nullità.

La stpulato con condizione illecita, dapprima restava iure civili valida ed efficace. Ma da un certo momento, il
pretore usò, una volta annoverata la condizione, denegare l’acto ex stpulatu oppure concedere al promittente
l’excepto doli. L’evoluzione successiva, ad opera della giurisprudenza, fu nel senso di sancire direttamente la
nullità (cadeva la condizione e cadeva pure la stpulato): non più invalidità iure pretorio, quindi, ma invalidità
iure civili (ipso iure), come per le condizioni impossibili. Analoga evoluzione è riscontrabile in ordine ai negozi
morts causa. Un intervento pretorio era volto a remittere condicionem contra bonos mores e far sì che della
condizione non si tenesse conto.

Nell’ambito della politica demografica di Augusto, fu direttamente ritenuta come non apposta, perché ritenuta illecita, la
condizione che subordinava l’acquisto al fatto che il destinatario della disposizione testamentaria non contraesse
matrimonio. Questo regime (che prescindeva dalla remissio pretoria) finì per essere esteso ad ogni altro caso di condizione
illegittima aggiunta ad una disposizione testamentaria.

Condizioni positive e negative. Le condizioni possono essere positive o negative: le prime,


subordinano gli effetti del negozio al verificarsi dell’evento; le seconde, al non verificarsi dell’evento.

Condizioni potestative, casuali e miste. Le condizioni potestative si intendono quelle il cui


avveramento dipende essenzialmente da un atto volontario di persona interessata; condizioni casuali
sono quelle il cui avveramento dipende dal caso o dalla volontà di terzi; condizioni miste sono quelle il
cui avveramento dipende dalla volontà della persona interessata e insieme dal caso o dalla volontà di
terzi. Fu considerato nullo il negozio con una condizione potestativa il cui avveramento fosse stato
rimesso alla mera volontà della persona che vi aveva interesse contrario (es. “Prometti di pagarmi 100
se vorrai? Prometto”), essendosi ritenuto che esso non fosse seriamente voluto.

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Le condizioni potestative negative sono quelle in cui l’avveramento della condizione è rimesso alla circostanza
che la persona che dal negozio trarrebbe vantaggio non adotti in futuro un determinato comportamento (es.
“se non affrancherai alcun servo”). Nessun problema se la condizione è a sua volta soggetta a termine (es. “se
non affrancherai alcun servo nel prossimo biennio”). Il problema si pone, invece, quando la condizione non
contempla un termine: per essere certi che la condizione si verifichi, bisogna attendere la morte
dell’intestatario, il quale potrebbe farla mancare fino all’ultimo istante di vita (proprio liberando uno schiavo).

A partire dal I sec. a.C. è attestato il ricorso alla cautio Muciana (suggerita da Q. Mucio Scevola), in materia di
legati: si dava esecuzione al legato previa prestazione da parte del legatario di una stpulato con la quale lo
stesso legatario prometteva all’erede la restituzione di quanto ottenuto a titolo di legato se la condizione fosse
mancata. L’espediente fu esteso alle altre disposizioni testamentarie.

1 Condicio pendet. La condizione non si è verificata ed è tuttora incerto se si verificherà. Intanto, il


negozio non produce effetti (né si sa se li produrrà). Il debitore che aveva compiuto la prestazione in
pendenza di condizione, avrebbe potuto pretenderne la restituzione (se l’adempimento era stato una
dato, si dava la condicto). Durante la pendenza, il negozio esiste ed è valido (anche se inefficace) e dà
luogo ad una aspettativa (spes) Di qui, talune conseguenze giuridiche, riconosciute dalla
giurisprudenza, tra cui questa: morto in pendenza di condizione uno dei soggetti del rapporto, esso, se
derivava da negozio inter vivos, si trasmetteva agli eredi; non si trasmetteva, invece, se esso derivava
da negozio morts causa. Inoltre, si ammise che il debito condizionato potesse essere oggetto di
acceptlato e di novazione, che avrebbero a loro volta avuto effetto al verificarsi della condizione.

Per l’ipotesi di legati con “effetti obbligatori” soggetti a “condizione”, il pretore intervenne imponendo all’erede
di prestare ai legatari una stpulato: la cautio legatorum servandorum causa 193 con cui promettere che, una
volta verificata la condizione, i legati avrebbero avuto comunque esecuzione. Contro l’erede che rifiutava di
prestare cauto, il pretore immetteva i legatari nel possesso dei beni ereditari concedendo loro una missio in
possessionem legatorum servandorum causa.

2 Condicio deficit. Se la condizione viene a mancare, il negozio si rivela destinato a restare senza
effetti e può ormai essere considerato nullo. Cade nel nulla quanto si sia eventualmente determinato
in dipendenza dell’esistenza del negozio condizionato.

3 Condicio extitit (o exstat o impleta est). Se la condizione si verifica, il negozio comincerà a produrre i
suoi effetti. Per diritto romano, essi decorrevano dal momento dell’avveramento della condizione (ex
nunc). L’attribuzione all’avveramento della condizione di effetti retroattivi (ex tunc), dal momento del
compimento del negozio, ebbe sino a tutta l’età classica carattere eccezionale.

Nel diritto giustinianeo si manifesta la tendenza ad attribuire efficacia retroattiva all’avveramento della condizione più
ampiamente, cosa che andò accentuandosi nel diritto intermedio, finché la retroattività finì per rappresentare la regola
(art. 1360 c.c.).

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Poteva accadere che la parte che avesse interesse contrario all’avveramento della condizione deliberatamente
la impedisse. In tal caso, è regola antica del diritto romano che la condizione dovesse considerarsi come
verificata (pro impleta habetur): si parla, in proposito, di “adempimento fittizio della condizione”.

La “condizione risolutiva”. Nelle fonti romane, quando si parla di condizione s’intende per lo più la
condizione sospensiva, non quella risolutiva. Ciò viene messo in relazione con l’idea che non sarebbe
stato congeniale alla mentalità giuridica romana che effetti giuridici potessero cessare
automaticamente per il fatto in sé di un evento pensato e voluto da privati con “efficacia risolutiva”.

Questo è certamente vero per il trasferimento di proprietà, non potendosi ammettere che il diritto di proprietà,
una volta debitamente trasferito, cessasse automaticamente di appartenere all’acquirente e tornasse
all’alienante per effetto di un evento dedotto in condizione: la proprietà si trasmetteva e si acquistava per
mezzo di appositi atti ad effetti reali (mancipato, in iure cessio, tradito), per successione ereditaria, per
usucapione o altri modi d’acquisto originari. Non si concepì la possibilità d’una proprietà “temporanea”. Del pari
inaccettabile era l’idea di una condizione risolutiva apposta a negozi quali l’istituzione di erede o gli atti di
manomissione dei servi: la qualità di erede era tendenzialmente perpetua (semel heres semper heres) e così
pure lo status libertats. Del pari impensabile che per l’avveramento di una condizione risolutiva (apposta ad
adrogato, emancipato, coempto) mutasse lo status familiae attuale ricostituendosi quello precedente.

Una condizione risolutiva apposta ad un actus legitmus comportava la nullità sia della condizione sia
dell’atto, mentre se si trattava di un negozio diverso, la condizione di considerava non apposta: una
condizione risolutiva aggiunta ad una stpulato (che non era actus legitmus) sarebbe stata iure civili
nulla (= come non apposta) e la stpulato valida e pura.

L’idea della condizione risolutiva fu tuttavia ben presente ai giuristi romani, che parlarono al riguardo
di negozio ad condicionem.

Ne riconobbero la validità ed efficacia nella costituzione di usufrutto, sia se realizzata con deducto sia
se realizzata con legato per vindicatonem e qualche altro caso (dato tutoris testamentaria, locazione,
precario)

Gli stessi giuristi non ebbero difficoltà ad ammettere che, a lato del negozio giuridico che si andava a
compiere, di qualsiasi natura esso fosse (inter vivos), quindi anche se actus legitmus, si potessero
concludere “patti risolutivi” = patti che prevedessero la risoluzione degli effetti del negozio al
verificarsi di una “condizione sospensiva” (sì che il negozio nel suo complesso risultasse essere, in
sostanza, un negozio con condizione risolutiva). Tali clausole avrebbero avuto l’efficacia propria dei
pacta: ope exceptonis (exceptio pacti conventi) se riferiti a negozi tutelati da iudicia stricta; ipso iure
(ed eventualmente anche in via d’azione) se riferiti a negozi tutelati da iudicia bonae fidei.

Mai però tali patti risolutivi avrebbero potuto avere efficacia in deroga ai principi circa il trasferimento
di proprietà, lo status libertats e lo status familiae.

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Un patto risolutivo efficace in virtù di excepto poteva essere quello aggiunto a stpulato, col quale fosse stato
convenuto che al verificarsi di una certa condizione, la stpulato non avesse più effetti: la stpulato, iure civili,
sarebbe stata del tutto valida e pura, ma il pretore avrebbe dato l’excepto pact convent contro l’azione dello
stipulante esercitata dopo l’avveramento della condizione.

Circa i patti aggiunti a negozi che davano luogo a iudicia bonae fidei, alla parte convenuta in spregio al patto non
sarebbe occorso opporre excepto (perché la bona fides esigeva in sé che ai patti si desse corso, da cui l’effetto
ipso iure); inoltre, i patti convenuti contestualmente al relativo contratto (in contnent) avrebbero potuto
eventualmente essere fatti valere in via di azione, con la stessa “azione” propria del contratto, del quale erano
considerati parte integrante (l’acto empt o l’acto vendit nel caso di compravendita, l’acto mandat per il
mandato ecc

Con riguardo alla “compravendita”, si fa tradizionalmente questione se l’avveramento della condizione


apposta al patto risolutivo avesse effetti reali oppure obbligatori. Nel diritto classico, gli effetti erano
obbligatori. I “patti risolutivi” erano aggiunti alla “compravendita” e non al “negozio traslativo” della proprietà
(mancipato, in iure cessio, tradito): l’avveramento della condizione aggiunta al patto risolutivo non avrebbe
potuto che incidere sugli effetti della vendita (che erano obbligatori). Nel “patto commissorio” (per il quale la
vendita si sarebbe risolta se il compratore non avesse pagato il prezzo entro il termine), in caso di mancato
pagamento il venditore che avesse intanto trasferito la proprietà non sarebbe automaticamente tornato
proprietario (“effetto reale”), ma sarebbe divenuto “creditore” (“effetto obbligatorio”) potendo esigere dal
compratore il compimento di un negozio idoneo a ritrasferirgli al proprietà.

In alcuni testi, tuttavia, all’avveramento della condizione del patto risolutivo sono attribuiti effetti reali. Probabilmente,
questi testi non sono genuini, essendo stati interpolati dei compilatori giustinianei. Sono questi, d’altra parte, i passi da
cui ha preso avvio la dottrina moderna per attribuire di regola all’avveramento della condizione risolutiva effetti reali.

§ 70 – Il termine
Anche il termine, come la condizione, si configura quel elemento accidentale del negozio giuridico,
come una clausola che le parti, nei casi concreti di specie, possono volere o meno. Il termine definisce
una clausola che prevede un avvenimento “futuro” e “certo” dal quale si fanno dipendere gli effetti del
negozio.

Nelle fonti giuridiche romane si parla di dies: una “data del calendario” (dies certus an certus quando), o di un
“evento” (dies certus an incertus quando), ma in questo caso si tratta di una “condizione”. Il termine poteva
essere iniziale (dies a quo) o finale (dies ad quem).

Il negozio con termine iniziale (ex die) non produceva effetti: li avrebbe prodotti alla scadenza, una
volta verificato l’evento.

Il negozio con termine finale (ad diem) produceva immediatamente effetti, che sarebbero cessati alla
scadenza.

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L’aggiunta di termini iniziali e finali non dava luogo generalmente a difficoltà. V’erano, tuttavia, negozi
che non tolleravano aggiunta di termini. Tra questi gli actus legitmi: per essi l’apposizione di un
termine (iniziale o finale) dava luogo a nullità dell’atto.

In taluni negozi (es. istituzione di erede, tradito, stpulato), il termine iniziale era ammesso, mentre il
termine finale si considerava come non apposto e l’atto restava valido.

Quanto alla stpulato, però, il pretore diede pratica rilevanza al termine finale, concedendo al promittente
l’excepto doli o l’excepto pact convent, contro lo stipulante che esercitasse l’acto ex stpulatu dopo la
scadenza del termine.

Stpulato e mandato destinati ad avere effetti post mortem di una parte (= nei confronti di eredi) e legati,
manumissioni e tutoris dato testamentaria post mortem heredis sarebbero stati, in realtà, negozi a termine
iniziale; ma in virtù di antiche regole erano vietati e pertanto nulli. Il divieto fu abolito da Giustiniano.

In considerazione della certezza che l’evento si sarebbe verificato, il debitore ex die che avesse adempiuto
“prima” della scadenza non avrebbe potuto pretendere la restituzione di quanto prestato: aveva, infatti,
prestato quanto dovuto assolvendo un debito (non pagando un indebito: non avrebbe potuto, pertanto, pure se
la prestazione era di dare, fare ricorso alla condicto indebit).

A maggior ragione, il negozio ex die era considerato esistente sotto ogni altro riguardo: es. il debito ex die
avrebbe potuto essere oggetto di acceptlato e di novazione (con effetti ritardati alla scadenza del termine); il
legatario ex die avrebbe potuto pretendere dall’erede la prestazione della cauto legatorum servandorum causa
e, se del caso, la missio in possessionem legatorum servandorum causa (come per la condizione sospensiva
durante la pendenza); il rapporto ex die si trasmetteva agli eredi in ogni caso, sia che derivasse da un atto inter
vivos sia che derivasse da una disposizione morts causa.

§ 72 – Imputazione degli effetti negoziali. La “rappresentanza”.


Se si prescinde da eventuali effetti riflessi, che possono riguardare anche i terzi (es. l’accettazione
d’eredità si riflette su creditori e debitori ereditari, i quali per effetto dell’accettazione diventano
automaticamente creditori e debitori degli eredi del defunto), gli effetti principali del negozio
giuridico, vengono solitamente imputati in via diretta ed esclusiva alle “parti” del negozio (quando si
tratta di negozi unilaterali, anche ai “destinatari”: es. le disposizioni testamentarie, una volta efficaci,
hanno effetti nei confronti di eredi, legatari, servi manomessi nel testamento).

Il nuntius. Non rappresenta eccezione alla regola il nuntus (= messaggero), che, in quanto semplice portavoce
che riferisce puntualmente quanto è stato invitato a riferire è un mero “strumento materiale” (da considerare
alla stregua di una lettera). Il nuntus non può essere detto l’autore del negozio, perché non dichiara una
volontà propria; colui che del nuntus si avvale non può essere considerato terzo estraneo al negozio, perché in
effetti ne è egli stesso l’autore (ed è per questo che è a lui e non al nuntus che si collegano direttamente gli
effetti dell’atto).

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Non tutti i negozi potevano a Roma essere compiuti mediante nuntus: non era possibile per i negozi formali e
solenni (mancipato, in iure cessio, stpulato), che esigevano la presenza delle parti. Ciò a differenza dei
“contratti consensuali” e dei “patti”, che potevano essere conclusi pure tra persone assenti (inter absentes) e
quindi, all’occorrenza, anche mediante nuntus.

La rappresentanza organica. Responsabilità adiettizia. Altro è il caso della persona fisica che agisce (e conclude
negozi) quale “organo” di collettività alle quali viene riconosciuta una soggettività giuridica, fondamentalmente
riconducibile allo schema nostro della “persona giuridica” (corporazioni: civitates e collegia). Queste persone,
dette “legali rappresentanti” (i Romani parlavano di actores), esprimono una volontà propria, ma gli effetti
dell’atto si producono direttamente ed esclusivamente in capo all’ente. Essi non agiscono come soggetti
autonomi, ma quali “organi” di un altro soggetto, il quale diversamente (per la sua natura) non potrebbe
operare nel mondo giuridico. Fanno parte della relativa organizzazione e sono soggette alle regole di essa. La
dottrina moderna parla in proposito di “rappresentanza organica”.

Lo schema della “rappresentanza organica” viene riferita dagli studiosi di diritto romano l’ipotesi dei negozi
d’acquisto conclusi da soggetti alieni iuris (sia in nome proprio sia in nome dell’avente potestà). Questi negozi
erano validi ed efficaci, solo che ad acquistare (la proprietà, l’eredità, il credito) non era lo schiavo o i filius
familias (o altro soggetto alieni iuris) ma direttamente ed esclusivamente il dominus, il pater familias e
comunque l’avente potestà. I soggetti alieni iuris (privi di “capacità giuridica”, sicché nulla potevano acquistare
validamente per sé stessi) erano, sotto l’aspetto giuridico, inseriti nella famiglia, sotto la potestas del pater
familias, del quale erano in sostanza “organi di acquisto”. Di qui, l’inquadramento degli atti d’acquisto conclusi
da questi soggetti nello schema moderno della “rappresentanza organica”.

Nel caso della responsabilità adiettizia, gli effetti principali del negozio si imputavano direttamente sia agli
autori del negozio sia a terzi: se ad assumere obbligazione fosse stata una persona “soggetta a potestà” ne
veniva vincolato sia lo stesso alieni iuris sia l’avente potestà (dominus, pater familias).

La rappresentanza (diretta). Non è un concetto romano, ma elaborato dai giuristi moderni, che ne
hanno precisato i caratteri in relazione ad una fenomeno per il quale un soggetto autonomo e
giuridicamente capace (rappresentante) conclude un negozio esprimendo una propria volontà in
nome (= spendendo il nome altrui o contemplato domini) e per conto di un “altro soggetto”
(rappresentato), con effetti in via immediata, diretta ed esclusiva non in capo a sé stesso, ma in capo al
rappresentato.

La rappresentanza si distingue in volontaria e legale: si ha rappresentanza volontaria, quando i poteri


al rappresentante sono conferiti dal rappresentato con un “atto volontario”; rappresentanza legale,
negli altri casi (es. il tutore: per diritto romano, nella misura in cui gli effetti dei negozi da lui compiuti,
per conto del pupillo, si imputino direttamente ed esclusivamente al pupillo stesso).

Non rientrano nello schema della rappresentanza, né l’ipotesi del nuntus (non esprime una volontà propria), né
l’ipotesi della “rappresentanza organica” (a concludere il negozio non è un soggetto autonomo), né il l’ipotesi
della “rappresentanza adiettizia” (dove gli effetti negoziali si imputano sia al dichiarante sia a un terzo, non
esclusivamente al terzo).
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Quanto agli acquisti alieni iuris, va notato che il dichiarante era privo di capacità giuridica, per cui l’effetto
acquisitivo non era subordinato al fatto che agisse a nome dell’avente potestà: l’alieni iuris acquistava
all’avente potestà pure se non ne spendeva il nome e persino se agiva in nome proprio; nonché, pure se
acquistava all’insaputa dell’avente potestà e pure se il terzo ignorava di aver negoziato con un alieni iuris.

I Romani furono tendenzialmente contrari a riconoscere effetti negoziali imputati direttamente a terzi
secondo la schema della rappresentanza. Le ragioni di questa tendenziale esclusione del criterio della
rappresentanza sono state scorte nell’individualismo proprio dei Romani, che non avrebbe tollerato
intromissioni negli affari altrui. Ma è forse meglio cercarne il motivo nel carattere formale e solenne
dei più antichi negozi del ius civile, che non potevano non esigere la “presenza” delle persone
partecipi degli effetti dell’atto che si compiva. Del resto, la società romana antica (dove le grandi
famiglie erano fondamentalmente autosufficienti e dove il commercio era poco diffuso) non dovette
avvertire la necessità di un istituto come quello della rappresentanza, anche perché a risolvere tante
delle esigenze soddisfatte dallo schema della rappresentanza provvedevano schiavi e filii familias (che
acquistavano all’avente potestà).

La rappresentanza indiretta. Per le stesse esigenze si fece, tuttavia, ricorso (fra estranei) ad un facile
espediente (per cui oggi si parla di “rappresentanza indiretta”), consistente nel concludere un negozio
per conto altrui ma in nome proprio, con effetti che si imputano al dichiarante, salvo poi, da un lato, il
dovere del dichiarante di “trasferire” al terzo (per conto del quale ha concluso il negozio) i diritti
acquistati e, dall’altro, il dovere del terzo di addossarsi gli obblighi con lo stesso negozio assunti dal
dichiarante. Non si tratta di vera rappresentanza, in quanto né direttamente né immediatamente gli
effetti del negozio si imputano all’interessato, ma per la “mediazione” di chi partecipa effettivamente
al negozio e a seguito di “idonei atti di trasferimento”. Pertanto, si parla di rappresentanza indiretta in
modo improprio. In ogni caso, per distinguerla da questa ipotesi, la rappresentanza in senso proprio è
detta rappresentanza diretta. Alla rappresentanza indiretta i Romani fecero ricorso in tema di
mandato, di gestione di affari altrui e di tutela.

Alla “rappresentanza diretta” I Romani erano tendenzialmente contrari. L’ammisero, tuttavia, con
riguardo al curator furiosi, avendo le XII Tavole riconosciuto la legittimazione ad alienare (anche con
mancipato e in iure cessio) i beni del furiosus.

Questo potere in età classica venne limitato, perché al curator furiosi fu esteso il divieto di alienare fondi rustici
e suburbani stabilito per i tutori degli impuberi dall’oratio Severi (del 195 d.C.)

Altra deroga riguardò il “possesso”. La legittimazione ad acquistare e trasferire il “possesso” con effetti
diretti in capo ai propri amministrati fu riconosciuta, sin da età arcaica, al tutor impuberis e ai
curatores furiosi e prodigi, poi anche al curator minoris (= curatore del minore di 25 anni). La stessa
legittimazione si riconobbe anche al procurator omnium bonorum (= procuratore di tutti i beni), una
figura di amministratore generale noto da età preclassica, cui il pater familias affidava genericamente

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l’amministrazione del proprio patrimonio e che sceglieva, dapprima, tra i propri libert (fu uso poi
sceglierlo anche fra estranei vicini all’ambito familiare). Nel corso dell’età classica, la legittimazione ad
acquistare e trasmettere il “possesso”, con effetti in capo ai terzi fu estesa al procurator nominato di
volta in volta per singoli negozi (procurator unius rei). Un ulteriore passo avanti nella stessa direzione
fu fatto, sempre in età classica, quando si ammise che ad acquistare il possesso a un terzo potesse
essere ogni persona libera, persino se agiva ad insaputa del terzo.

Questo riconoscimento in materia possessoria (di quella che viene chiamata attualmente
“rappresentanza diretta”) deve essere valutato nella sua effettiva portata. La “proprietà” delle res nec
mancipi si trasmetteva con tradito (che era un negozio a base possessoria): essa si effettuava con la
“consegna” della cosa, che comportava acquisto e trasmissione del “possesso” dal tradens
all’accipiens. Dunque, permettere acquisto e trasmissione del “possesso” direttamente per mezzo di
procuratore, tutore ecc. significò ammettere al contempo che si acquistasse e si trasferisse anche la
“proprietà” delle res nec mancipi. D’altro canto, in età postclassica andarono scomparendo i negozi
solenni del ius civile (mancipato, in iure cessio), cosicché venuta meno la distinzione tra res mancipi e
res nec mancipi, la tradito divenne il modo generale di trasferimento di ogni bene suscettibile di
“proprietà”. Ne conseguì automaticamente il riconoscimento che la “proprietà” di qualsiasi cosa
potesse trasferirsi e acquistarsi attraverso “rappresentanti”.

Assimilabile è anche l’ipotesi del creditore pignoratizio, che vendeva e conseguentemente faceva tradito
all’acquirente della cosa avuta in pegno (= cosa appartenente ad altri), così traferendone il “possesso” e,
trattandosi di res nec mancipi, anche la “proprietà” (da età postclassica, trasferendone in ogni caso la
proprietà).

§ 73 – Patti e contratti “a favore di terzi”.


Per antica regola erano vietati, a pena di nullità, patti e “contratti a favore di terzi”: le parti non
potevano convenire che dal negozio (obbligatorio) che andavano a compiere potessero nascere crediti
a favore di terzi (estranei al negozio). Questa regola fu espressa fra i giuristi di età repubblicana
riguardo alla stpulato (alteri stpulari nemo potest). Una stpulato a favore di terzo (pertanto senza
effetti) sarebbe stata la seguente: “Centum Sempronio dare promittis ? Promitto. (Tizio = stipulante;
Caio = promittente; Sempronio = terzo). La regola aveva una doppia valenza: da una stpulato a favore
di terzi “non nasceva azione” né a favore dello stipulante (non aveva interesse che il promittente
adempisse a un terzo) né a favore del terzo (non aveva partecipato alla stpulato). Ora, negando che il
terzo potesse agire direttamente contro il promittente, al contempo si negava, in sostanza, che un
negozio obbligatorio avesse direttamente effetti in capo a un terzo.

Al divieto di patti e contratti a favore di terzi si derogò, tuttavia, nel tardo diritto romano, ad opera di
costituzioni imperiali, che concessero a terzi actones utles e in factum. Un caso è quello di donazione reale
con modus a favore del terzo, al quale si diede un’acto utlis contro il donatario per l’adempimento del
modus. Soluzioni analoghe furono adottate in materia di deposito (tra deponente e depositario si conviene
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che il depositario restituisca a un terzo la cosa depositata), dote (tra costituente di dote e il marito si conviene
che il marito, sciolto il matrimonio, restituisca alla moglie la dote) e pegno (tra creditore pignoratizio e
compratore dell’oggetto pignorato si conviene un patto di riscatto in favore del debitore). Cosicché, al terzo
contro il depositario e alla moglie contro il marito (o i suoi eredi) si diedero azione utili; al debitore
pignoratizio contro il compratore (per il recupero della cosa oppignorata e previa restituzione del prezzo) si
diede un’azione in factum.

§74 – Il cognitor, il procurator ad litem e altri sostituti processuali


Per le figure processuali del cognitor e del procurator ad litem si riscontra un fenomeno analogo a
quello della “rappresentanza negoziale”. L’esigenza che, in giudizio, l’una o l’altra parte, anziché
comparire personalmente, si facesse “sostituire” sin dall’inizio della lite, poco o niente avvertita nelle
leges actones, fu tenuta presente nel processo formulare.

Il cognitor era un “sostituto processuale” nominato direttamente dalla persona che desiderava farsi
sostituire nel processo (dominus lits), con “pronunzia orale e solenne” (certs verbis) rivolta
direttamente all’avversario. Il cognitor poteva partecipare al giudizio nel ruolo di attore o di convenuto
e vi interveniva nomine alieno (= in nome altrui). Il cognitor contestava la lite (lits contestato) con
l’avversario (sicuro questi di avere dinanzi a sé un sostituto debitamente “autorizzato”), ma non era il
legittimato (attivo o passivo) della situazione giuridica per cui si litigava: in un acto in personam, se
interveniva nel ruolo di attore, non era lui il preteso creditore, ma il dominus lits; viceversa,
intervenendo nel ruolo di convenuto non era lui il preteso debitore, ma il dominus lits. Pertanto,
nell’intento della formula stava il nome del dominus lits (in caso di rivendica, con il cognitor nel ruolo
di convenuto, nella formula era espresso solo il nome dell’attore): il nome del cognitor figurava nella
condemnato: era in suo favore (o in suo danno) che il giudice in caso di accoglimento della pretesa
attrice pronunziava la sentenza di condanna. La formula adottata era pertanto con trasposizione di
soggetto: il giudice accertava il diritto o il dovere in capo al dominus lits e pronunziava condanna in
favore del cognitor (o contro di lui).

Taluni effetti dell’azione promossa da o contro il cognitor si producevano, tuttavia, direttamente ed


esclusivamente nei confronti del dominus lits: una volta contestata la lite con il cognitor, (per l’effetto
preclusivo della lits contestato) la stessa lite non poteva essere ripetuta né da parte del dominus lits
né contro di lui (il cognitor deduceva in giudizio il rapporto sostanziale); al dominus lits giovavano gli
effetti conservativi della lits contestato; una volta emanata una sentenza di condanna, l’acto iudicat
spettava direttamente ed esclusivamente al dominus lits (o contro di lui).

Diversa la posizione del procurator ad litem, nominato in maniera “informale” e, solitamente, in


assenza dell’altra parte. Anche in questo caso la formula era con trasposizione di soggetti.

Gli effetti dell’azione promossa dal procurator non erano però gli stessi: in particolare, il procurator
non deduceva in giudizio il rapporto sostanziale, sicché il dominus lits, non ostando l’effetto preclusivo
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della lits contestato, avrebbe potuto ripetere la lite, qualunque ne fosse stato l’esito. Inoltre, una
volta che il giudizio promosso dal procurator avesse avuto esito positivo, all’esercizio dell’acto iudicat
sarebbe stato attivamente legittimato lo stesso procurator.

Il convenuto, pertanto, sin dall’inizio della lite, ancor prima di procedere alla lits contestato, avrebbe
dovuto pretendere dal procurator la prestazione della cautio ratam rem dominum habiturum 195
ossia una stpulato con la quale il procurator prometteva che avrebbe risarcito l’avversario qualora il
dominus lits, riproponendo l’azione, avesse mostrato di non ratificare il giudizio promosso dal
procurator. Se il procurator sosteneva la lite nel ruolo di convenuto, contro di lui l’attore consumava
l’azione (e gli era precluso di ripeterla contro il dominus lits) ma in caso di condanna, l’acto iudicat
non si dava contro il dominus lits, ma contro il procurator. Dal momento che questo poteva non dare
affidamento di solvibilità, l’attore poteva esigere dal procurator ad litem, sin dall’inizio della lite e
ancor prima della lits contestato, la prestazione della cautio iudicatum solvi 189: con essa il
procurator assumeva l’impegno che l’eventuale sentenza di condanna sarebbe stata comunque
adempiuta.

Anche nelle “azioni reali”, il convenuto avrebbe dovuto comunque prestare la cauto iudicatum solvi (se
interveniva un cognitor, a prestare cauto sarebbe stato lo stesso dominus lits): si trattava di una stpulato con
l’intervento di “garanti” che rafforzava la posizione dell’attore: una volta prevalso in giudizio egli avrebbe avuto
sia l’acto iudicat contro il soccombente, sia l’acto ex stpulatu contro il soccombente e contro i garanti.

Già nel corso dell’età classica, ebbe inizio una evoluzione, che si concluse in età classica avanzata, per cui la
figura del procurator (purché “autorizzato”= non falsus procurator) fu assimilata a quella del cognitor. Nelle
fonti giustinianee del cognitor non vi è più traccia.

Cognitor e procurator ad litem erano figure emblematiche di sostituti processuali, ma non le sole: altri
possibili sostituti processuali erano il tutore dell’impubere, i curatores furiosi, prodigi e adulescents, il
defensor (come defensor absents interveniva in giudizio per sostenne la lite nel suolo di convenuto al
posto di persona lontana dalla località dove doveva aver luogo la lite) e persino il filius familias. Il
regime giuridico, nei diversi casi, non era uniforme: ricalcava, grosso modo, ora quello relativo al
cognitor ora quello relativo al procurator ad litem.

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