insignita per questo del titolo nobiliare, René Descartes riceve la sua prima formazione
al Collegio dei gesuiti di La Flèche. Dei suoi studi giovanili darà un profilo nella I Parte
del Discorso sul metodo (1637), ove il suo ricordo si colloca nella prospettiva della
maturità e delle esperienze di vita e di ricerca successivi all’uscita dal Collegio.
Il curriculum scolastico dei gesuiti comprendeva 6 anni di studi di grammatica e
retorica (con lettura dei prosatori e poeti latini) e poi 3 anni di filosofia (logica, fisica,
matematica, morale e metafisica). Si studiava la filosofia aristotelico-tomistica,
fondata sulla lettura di Aristotele. Descartes studiò anche algebra leggendo Clavius,
nonostante non fosse tra i manuali usati per l’insegnamento delle matematiche 2.
Quanto alla filosofia, Descartes se ne sentiva insoddisfatto perché non vi trovava
alcuna certezza3. Inoltre, Descartes ricorda (p. 5) di avere «scorso tutti i libri» che
trattavano le scienze «più curiose e rare»: in un ambito vastissimo, dagli studi di ottica
e di prospettiva, alle pratiche e tecniche di magia naturale. Per queste scienze curiose4
(ove ai più rigorosi studi di matematica e di fisica si coniugava la ricerca di effetti
sorprendenti e di macchine meravigliose) gli studi giovanili di Descartes manifestano
puntuale interesse.
Uscito dal Collegio, Cartesio si addottorò in utroque iure (diritto civile e canonico)
nel 1616 a Poitiers. Poco dopo, nei Paesi bassi, si arruolò (1618) nell’esercito del
principe Maurizio di Nassau, sull’esempio di molti gentiluomini francesi.
Cominciava così un lungo periodo di viaggi, che culmina con un incontro di
fondamentale importanza per la vita di Cartesio: l’incontro con Isaac Beeckmann 5. Dal
suo Diario, confrontato con le Cogitationes privatae (pervenutoci in una copia di
Leibniz), gli appunti giovanili di Cartesio, iniziati nel 1619, possono essere delineati i
primi interessi del filosofo francese: il problema della caduta dei gravi, la pressione dei
liquidi e diverse dimostrazioni matematiche, relative alla trisezione dell’angolo e la alla
risoluzione di alcune equazioni cubiche.
1
Provincia francese situata nel bacino della Loira, con capoluogo Tours. È celebre per i suoi
castelli.
2
«Mi interessavo soprattutto alla matematica, per via dell’evidenza e della certezza delle
sue ragioni; ma non afferravo ancora la vera funzione e, supponendo che servisse alle arti
meccaniche, mi stupivo che su basi tanto stabili e salde non si fosse costruito qualcosa di più
importante» (p. 7).
3
«Della filosofia non dirò nulla; solo che, vedendola coltivata dai più eccelsi ingegni che ci
siano stati da molti secoli in qua senza che tuttavia niente ancora vi si trovi su cui non si
discuta, e che non si revochi quindi in dubbio, non ero abbastanza presuntuoso da sperare di
avere in proposito miglior fortuna degli altri; e, considerando quante opinioni diverse si
possono avere su una stessa cosa, tutte sostenute da persone dotte, mentre non possono
esservene più di una che sia vera, ritenevo a un dipresso falso tutto ciò che era solo
verosimile» (p. 8).
4
Nel Seicento si chiamavano scienze curiose le scienze «note a pochi, in possesso di segreti
particolari, come la chimica, quella parte dell’ottica che fa vedere cose straordinarie mediante
specchi e lenti, e molte scienze vane per mezzo delle quali si crede di vedere il futuro, come
l’astrologia giudiziaria, la chiromanzia, la geomanzia, a cui si unirono anche la cabala, la magia
ecc.» (dal dizionario del Furetière).
5
Beeckmann aveva studiato a Leida, poi in Francia, addottorandosi a Caen: interessato a
problemi di matematica e fisica, artigiano e commerciante. Dal suo Diario emerge un figura di
singolare importanza, di scienziato in aperta polemica con la fisica scolastica: sostenitore di
una fisica corpuscolare con l’ammissione del vuoto (inconcepibile per la fisica aristotelica), già
nel 1613-14 formulava il principio della conservazione del movimento («ogni cosa, una volta
mossa, non si ferma se non per un impedimento esterno […]. Così una pietra, lanciata nel
vuoto si muove in perpetuo».
1
Nel 1619, Cartesio lascia l’Olanda e inizia un lungo viaggio, attraverso Danimarca e
Ungheria, fino a giungere a Francoforte, per assistere all’incoronazione dell’imperatore
Ferdinando, re di Boemia e d’Ungheria. Frattanto, aveva abbandonato l’armata
protestante di Maurizio di Nassau per arruolarsi in quella cattolica di Massimiliano di
Baviera.
Trovandosi in Germania (nei pressi di Ulm), nella «stanza ben riscaldata» da una
stufa in maiolica, di cui parla nel Discorso6, Cartesio ebbe un sogno (il 10 novembre:
così negli appunti giovanili dal titolo Olympica) legato alla visione dell’unità delle
scienze e all’approfondimento dei «fondamenti di una scienza meravigliosa».
Difficile definire il senso esatto di quella scientia mirabilis. Se nel Discorso Descartes
fa risalire a quegli anni la decisione di liberarsi dalla «scienza dei libri» e dalla cultura
ricevuta a scuola, per seguire «da solo nelle tenebre» (p. 17) la luce della propria
ragione applicando alcuni semplici precetti metodici onde «condurre a ordine» i propri
pensieri, occorre però analizzare gli studi affrontati nel periodo tra il 1619 e il 1620:
problemi di matematica e di fisica (la costruzione con una parabola di tutti i problemi
solidi che riconducono a equazioni di terzo e quarto grado, lo studio di curve
complesse con l’uso di compassi di sua invenzione, studi di ottica e di prospettiva
anche per la fabbricazione delle lenti), ma anche questioni più generali, nel tentativo
di costruire una scienza unitaria e completa (una scientia penitus nova «che
permetteva di risolvere in generale tutti i problemi che possono proporsi per qualsiasi
quantità, sia continua che discontinua», in modo che «quasi nulla rimanga più da
scoprire in geometria»: così in una lettera a Beeckmann). Una scienza nuova dunque,
secondo «regole certe» che permettessero di cogliere la concatenazione di tutte le
scienze (catena scientiarum).
Negli anni successivi, Cartesio prosegue nei suoi viaggi. Rientra in Francia nel 1622.
A Parigi incontra Marin Mersenne, che resterà per lui il corrispondente e l’amico più
sicuro. Nel 1623, è in Italia e poi, dal 1625 e 1628 di nuovo in Francia, a Parigi. Il
soggiorno parigino è di particolare importanza, per la fitta rede di rapporti con
l’ambiente di uomini di scienze e di lettere che gravitava soprattutto attorno a Marin
Mersenne.
Negli anni 1627 – 1628 inizia a scrivere le Regulae ad directionem ingenii
(incompiuta), tentando una sistemazione di una teoria della conoscenza rapportata al
concetto di scienza e di metodo. Il problema centrale è la definizione di quella scientia
penitus nova su cui Descartes meditava da anni. Un tema è fondamentale: non si
tratta di analizzare e praticare le singole scienze, ma di riportarle tutte al loro
fondamento unitario nel soggetto conoscente, la ragione: «tutte le scienze sono così
connesse tra loro» che per cogliere «la verità delle cose» non si devono affrontare
problemi particolari, ma si deve invece «aumentare il lume naturale della ragione».
Posto che la scienza è «conoscenza certa ed evidente», si dovranno anzitutto
rifiutare le «cognizioni soltanto probabili» e occuparsi solo di «quegli oggetti alla cui
conoscenza certa e indubitabile sembra sia sufficiente il nostro ingegno»: «coloro che
conoscano la retta via della verità non debbono interessarsi ad alcun altro oggetto di
6
«Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre che ancora non sono finite;
mentre tornavo all’esercito dall’incoronazione dell’imperatore, fui bloccato dall’inverno in un
quartiere dove, in mancanza di qualunque conversazione che mi distraesse, e per fortuna
anche di preoccupazioni o passioni che mi turbassero, me ne stavo tutto il giorno da solo,
chiuso in una stanza ben riscaldata, e là avevo tutto il tempo di restare immerso nei miei
pensieri» (p. 11).
2
cui non possano avere una certezza pari alle dimostrazioni dell’Aritmetica e della
Geometria».
Descartes determina come unici «atti del nostro intelletto» capaci di darci una
conoscenza chiara ed evidente, l’intuito e la deduzione:
«per intuito non intendo la mutevole attestazione dei sensi né il giudizio fallace di
un’immaginazione che non sa comporre, bensì la concezione di una mente pura e
attenta, concezione così facile e distinta che non resti proprio alcun dubbio intorno a
ciò che comprendiamo»;
la deduzione è «uno sviluppo continuo e ininterrotto del pensiero che intuisce con
trasparenza [perspicue] le singole cose», in una successione con cui alcune verità
discendono necessariamente da altre «conosciute con certezza», ovvero «da principi
veri e noti».
La deduzione si riconduce all’intuito, come unico atto dell’intelletto capace di
cogliere la verità: essa è una successione di atti intuitivi, in quanto ogni momento
della deduzione consiste nel cogliere con evidenza (intuire) il nesso fra una verità e
quella da cui dipende immediatamente: «la deduzione di una cosa da un’altra avviene
per intuito». La differenza sta nel fatto che l’intuito coglie in un atto solo e semplice,
mentre la deduzione comporta una successione di intuizioni, «un movimento del
nostro ingegno che inferisce una cosa da un’altra». Inoltre, «per la deduzione non è
necessaria un’evidenza attuale, come per l’intuito, poiché essa trae la propria certezza
piuttosto dalla memoria».
In sostanza, «si può certamente dire che quelle proposizioni che si ricavano
immediatamente dai primi principi (…) sono conosciute ora per intuito ora per
deduzione; i primi principi invero solo per intuito, mentre le conclusioni lontane solo
per deduzione».
Indicati così i due soli atti dell’intelletto attraverso cui possiamo giungere alla
conoscenza delle cose senza tema di errore, Descartes definisce il metodo come
l’insieme delle «regole certe e facili, grazie alle quali chiunque le avrà rispettate in
modo esatto, non assumerà mai il falso come vero e, senza stancare la mente con
sforzi inutili, ma sempre aumentando per gradi il sapere, perverrà alla vera cognizione
di tutte le cose di cui sarà capace».
Nelle Regulae è definita la priorità di una matematica universale intesa come
«scienza generale che spieghi tutto ciò che può esser richiesto intorno all’ ordine e alla
misura, senza riferirla ad una speciale materia»; tale scienza è quella che «con un
termine barbaro» si chiama algebra, ma che si deve «liberare dai molteplici numeri e
dalle inesplicabili figure sotto i quali è sepolta». È quanto Descartes si era impegnato a
realizzare anche con un nuovo tipo di notazione algebrica.
Alla definizione del metodo seguono alcune altre regole: la necessità di ridurre
«gradualmente le proposizioni involute ed oscure ad altre più semplici e di disporre
tutte le cose (…) in certe serie», abbandonando la classificazione per categorie
prodotte dalla scolastica: queste classificano «secondo qualche genere di ente»,
mentre Descartes fa riferimento al nostro modo di conoscere, che impone di
organizzare le conoscenze in ordine seriale, in modo che «la conoscenza delle une
derivi da quella delle altre» secondo rapporti stabiliti dall’intuito e dalla deduzione. Il
«segreto dell’arte» consiste nel definire questo ordine: «in ogni serie di cose in cui
abbiamo dedotto un certo numero di verità direttamente le une dalle altre», si deve
individuare «quale sia la più semplice».
3
Infine, è necessario procedere ad una enumerazione completa: «per il compimento
della scienza è necessario percorrere con un moto continuo e ininterrotto del pensiero
una per una tutte le cose che si riferiscono al nostro scopo e abbracciarle in una
enumerazione sufficiente e ordinata». Tale enumerazione, opposta alle catene di
sillogismi della filosofia scolastica, assume particolare importanza nelle Regulae (è
trattata più sommariamente nel Discorso): «per enumerazione sufficiente o induzione
intendiamo solamente quella dalla quale si perviene alla verità con maggior certezza
che mediante ogni altro genere di prova, ad eccezione del semplice intuito: tutte le
volte in cui una conoscenza non si può ridurre ad esso, rigettate le catene dei
sillogismi, non ci resta che questa sola via cui accordare interamente la nostra
fiducia». L’enumerazione diviene così uno strumento metodologico per garantire la
continuità e la completezza del processo deduttivo (che è una successione di atti
intuitivi).
Nello sviluppo essenzialmente epistemologico e metodologico delle Regulae, si
individuano altresì alcuni temi che costituiscono il nucleo delle dottrine metafisiche
che Descartes andava elaborando in quegli anni. Innanzitutto, è importante il concetto
delle nature semplici «per sé note» (evidenti), «la cui conoscenza è così trasparente e
distinta che non possono essere divise dalla mente ulteriormente»; esse costituiscono
l’inizio di quelle catene di ragioni con cui si costruisce la scienza: «tutta la scienza
dell’uomo consiste soltanto in questo, nel vedere cioè in modo distinto come queste
nature semplici concorrano insieme alla composizione di altre cose».
Le nature semplici si coordinano fra loro secondo rapporti necessari o contingenti:
fra i rapporti necessari, Descartes indica non solo i rapporti matematici, ma anche
alcune altre proposizioni: «se Socrate dice di dubitare di tutto, da ciò segue
necessariamente: dunque questo almeno intende, che dubita; parimenti sa pertanto
che qualcosa può essere vera o falsa (…)»; inoltre, «io sono, dunque Dio è»; o anche,
«io comprendo, dunque ho una mente distinta dal corpo».
Descartes aveva anche affermato, analizzando la facoltà del conoscere, che l’uomo
è dotato di una «forza» connotata dall’essere «puramente spirituale e distinta da tutto
il corpo» e che a questa nell’uomo si riconducono anche le facoltà sensibili, la fantasia,
l’immaginazione, la memoria: «questa medesima [forza] secondo diverse funzioni si
chiama o intelletto puro o immaginazione o memoria o senso; in modo appropriato è
chiamata poi ingegno, quando o forma idee nuove nella fantasia o si rifà a quelle già
formate». L’autonomia dell’anima (o mente) rispetto al corpo elimina l’apporto dei
sensi nei processi conoscitivi e assicura la priorità dell’intuito intellettuale come il solo
capace di cogliere la verità con evidenza.
7
Il termine philosopus allude allo statuto legale di uno studente che intendeva compiere un
curriculum nella Facoltà delle Arti, in cui si insegnava, appunto, anche la filosofia.
4
di fisica celeste e ottica: cominciano a delinearsi i due trattati che usciranno più tardi
con il Discorso sul metodo (Le meteore e La diottrica). Al contempo, decide di scrivere
un’opera di fisica generale, Il Mondo o Trattato della luce. L’opera è terminata nel
1633, ma Cartesio decide di non pubblicarla: la condanna di Galileo colpiva anche il
suo sistema, in cui tutta la fisica scolastica con la concezione aristotelico-tolemaica del
mondo era abbandonata e l’affermazione del moto della Terra attorno al Sole aveva
un’importanza centrale. Tuttavia, i temi principali della sua fisica, svolti nel Mondo e
nell’Uomo (due parti della stessa opera) sono ormai definiti: torneranno in rapida
sintesi nella V Parte del Discorso sul metodo (1637) e poi più ampiamente nei Principi
di filosofia (1644).
A) Nel Mondo si definisce con chiarezza la critica della teoria scolastica delle qualità,
delle forme sostanziali e della dottrina aristotelica del movimento. La fisica della
scuola è ormai abbandonata: la nuova fisica non vuole avere più nulla a che fare con
forme, essenze e qualità, vuole invece svolgere un discorso fondato su un minimo di
nozioni chiare ed evidenti. Per proporre la sua nuova fisica in tutta libertà, senza
essere obbligato a raffronti diretti con la cosmologia della Bibbia e la teologia
scolastica, Cartesio avverte di non voler spiegare come questo mondo è stato fatto,
ma come avrebbe potuto essere creato da Dio negli «spazi immaginari», ossia quegli
spazi che i filosofi ponevano fuori dal mondo fisico 9. Viene dunque presentata la
“favola” del mondo, ma dietro la favola è facile leggere la realtà, quella che è per
Cartesio l’unica fisica vera.
Immaginiamo che Dio abbia creato una materia tale che nulla sia più facile a
conoscersi:
vero corpo perfettamente solido che riempie allo stesso modo tutte le lunghezze,
larghezze e profondità del grande spazio in mezzo a cui ci siamo fermati col pensiero.
La materia, privata delle forme e qualità della fisica scolastica (presenti nel
soggetto senziente, ma non inerenti ai corpi, bensì effetti di esteriori azioni
meccaniche sugli organi di senso: stati mentali provocati dalle modificazioni che il
corpo subisce per l’incontro con i corpi esterni), è diventata pura estensione o
quantità, dove l’estensione non è un accidente, ma la vera forma ed essenza della
materia stessa. Alla materia, Dio ha impresso il movimento, retto dalle tre leggi
fondamentali che Cartesio presenta come dedotte dall’idea stessa dell’immutabilità
divina:
8
Il parelio è un fenomeno ottico atmosferico dovuto alla rifrazione della luce solare da parte
dei piccoli cristalli di ghiaccio sospesi nell'atmosfera. Essi appaiono tipicamente come macchie
luminose e colorate nel cielo, più sulla sinistra e/o destra del Sole. Responsabili di questo
fenomeno sono cristalli di ghiaccio di forma esagonale e spessi 0,5 – 1 mm.: fungendo da
prismi, questi rifrangono la luce del sole in molte direzioni, ma con un minimo angolo di
deviazione di circa 158°, che causa la formazione di pareli a circa 22° gradi dal Sole. La
rifrazione dipende dalla lunghezza d'onda, così i pareli hanno la parte interna rossa e altri colori
nelle parti più esterne, smorzati dalla reciproca sovrapposizione. Anche l'altezza del Sole è
importante: i pareli si allontanano da esso al crescere della sua altezza.
9
Si tratta di un esperimento mentale, che a partire dall’ipotesi della creazione della materia
estesa, divisa in parti e messa in movimento da Dio, ricostruisce la genesi dell’Universo,
mostrandone la formazione in tutti i suoi dettagli, senza che alcuna verifica empirica sia
ritenuta necessaria.
5
Suppongo come seconda regola [conservazione della quantità di
moto] che, quando un corpo ne spinge un altro, non possa
comunicargli alcun movimento senza perderne contemporaneamente
altrettanto del proprio; né sottrarglielo senza aumentare il proprio
nella stessa misura (…).
Suppongo che il corpo altro non sia se non una statua o macchina di
terra che Dio forma espressamente per renderla più che possibile a noi
somigliante: dimodoché, non solo le dà esteriormente il colorito e la
forma di tutte le nostre membra, ma colloca nel suo interno tutte le
parti richieste perché possa comminare, mangiare, respirare, imitare,
infine tutte quelle nostre funzioni che si può immaginare procedano
dalla materia e dipendano soltanto dalla disposizione degli organi.
Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine siffatte
che, pur essendo opera di uomini, hanno tuttavia la forza di muoversi
da sé in più modi; e in questa macchina, che suppongo fatta dalle
mani di Dio, non potrei – mi pare – supporre tanta varietà di movimenti
e tanto artifizio da impedirvi di pensare che possano essergliene
attribuite anche di più.
L’insistenza sulle macchine, sugli automi come schemi interpretativi del mondo
fisico e dell’uomo resterà fondamentale in Cartesio: così nel Discorso e nei Principia
Philosophiae, quando dirà che nello spiegare le funzioni del corpo umano si è servito
esclusivamente di funzioni «chiare e distinte che possono essere nel nostro intelletto
riguardo alle cose materiali», ossia figure, grandezze, movimenti e con le leggi
fondamentali della geometria e della meccanica11.
Si tratta sempre di moti meccanici non volontari, determinati dal gioco di azione
dell’impressione sensibile e reazione della materia cerebrale. Al centro del cervello sta
una ghiandola (conarium o ghiandola pineale, centrale nella fisiologia di Cartesio, ma
anche nella sua metafisica) a cui, attraverso il cervello, affluiscono dai sensi esterni gli
stimoli degli oggetti (che sono dunque meccanici: passano attraverso i nervi),
imprimendo le idee o forme degli oggetti nella ghiandola stessa che «è la sede
dell’immaginazione e del senso comune». Identica la spiegazione dell’origine dei
sentimenti interni o passioni: sono i medesimi spiriti animali che provocano nella
macchina del corpo
EVIDENZA 1) non accogliere mai come vera nessuna cosa che non
conoscessi evidentemente esser tale (…) giudicando esclusivamente
di ciò che si presentasse alla mia mente in modo così chiaro e
distinto13da non offrire alcuna occasione di essere revocato in dubbio;
12
Il Discorso è stato scritto nell’arco di alcuni anni (1635 – 1637). È probabile che in un
primo tempo Descartes abbia adattato quella che è oggi la VI Parte ad introduzione dei due
scritti scientifici Diottrica e Meteore. Presa poi maggiore consapevolezza dell’unità delle proprie
ricerche e del metodo seguito, Descartes avrebbe progettato un più ampio trattato che
servisse di introduzione non solo ai due scritti sopracitati, ma anche alla grande Geometria.
13
Secondo Cartesio è chiara la percezione “presente e manifesta a uno spirito attento”;
distinta è la percezione che “essendo chiara, è da tutte le altre così disgiunta e separata da
non contenere assolutamente in sé nient'altro che quel che è chiaro”. Chiaro è ciò che è intuito
direttamente e immediatamente, distinto ciò che è pensato in modo così preciso da
differenziarsi da ogni altra percezione. Per Cartesio chiarezza e distinzione sono le note
caratteristiche dell'evidenza. Esse sono disgiungibili: è possibile che un'idea chiara non sia
distinta, ma non è possibile l'inverso. La distinzione indica un grado di percezione superiore alla
chiarezza.
8
ANALISI 2) dividere ciascuna delle difficoltà che esaminavo in
quante più parti era possibile, in vista di una miglior soluzione;
15
«per tenerle [le linee] a mente (…) dovevo esprimerle con cifre, le più compendiose che
fosse possibile» (p. 20).
16
«con questo mezzo avrei preso tutto il meglio dell’analisi geometrica e dell’algebra, e
avrei corretto con l’aiuto dell’una tutti i difetti dell’altra» (p. 20).
10
a genio a tutti» (p. 31), rinviano al Trattato di metafisica, contenente le dimostrazioni
dell’esistenza di Dio e dell’immaterialità (e immortalità) dell’anima.
Il programma è definito: se nel comportamento morale è necessario seguire «come
indubitabile» anche opinioni «incerte», nella «ricerca della verità» si deve invece
assumere l’atteggiamento opposto: «rifiutando come assolutamente falso tutto ciò in
cui potessi immaginare il minimo motivo di dubbio, per vedere se, dopo un tale rifiuto,
qualcosa sarebbe rimasto a godere la mia fiducia come del tutto indubitabile» (p. 31).
È la regola dell’evidenza che impone questa scelta.
Per la verifica della validità o falsità delle conoscenze, secondo Descartes, non è
necessario esaminarle singolarmente, basterà vederne l’origine, ossia esaminare gli
strumenti della conoscenza. Si rivela qui la forza radicale del dubbio metodico, in
quanto orientato a ricercare un fondamento valido per tutto il sapere. Descartes
riprende qui un’antica tematica scettica:
nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava
necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando
che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non
poter vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli
scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo
principio della filosofia che cercavo.
Posso fingere di non avere un corpo, che non esista il mondo esterno, nonostante la
testimonianza dei sensi, ma non posso fingere di non esistere, se dubito e dunque
penso: il mio stesso pensiero mi rende intuitivamente certo della mia esistenza (e se
non pensassi, nessuna certezza potrebbe sussistere).
17
Alle ragioni elencate nel Discorso (e presenti in tutta la tradizione scettica), si aggiunge la
ben più radicale ipotesi teologica, secondo cui Dio, nella sua onnipotenza, potrebbe avermi
fatto tale da ingannarmi sempre. Più limitatamente, potremmo anche essere vittime degli
inganni di un «genio maligno» (il diavolo), che ha la facoltà di ingannare in tutte le conoscenze
relative al mondo esterno. Tali motivi di dubbio sono omessi volutamente da Descartes in un
testo scritto in francese e destinato ad un più largo pubblico, non sempre in grado di fare buon
uso del dubbio e piuttosto incline a restarne invischiato.
11
Pertanto, il pensiero è un attributo che mi appartiene necessariamente e che rinvia
a un esistente, dunque a una sostanza (il nulla non ha proprietà, mentre un’attività
rinvia sempre a un esistente). Non solo quindi penso (cogito), ma sono una cosa che
pensa (nelle Meditationes: res cogitans).
12
sono uguali a due angoli retti (la dimostrazione dell’esistenza di Dio ha una certezza
pari a quella di una dimostrazione matematica).
Alle prime due prove (a posteriori), si aggiunge la terza prova (di Anselmo di Aosta,
detta poi da Kant, che la critica, argomento ontologico 18.
Con la dimostrazione dell’esistenza di Dio, Descartes attinge, fuori dal cogito, una
realtà assoluta, perfetta, da cui dipende ogni altra realtà, imperfetta: non è più «solo
al mondo» ed inoltre è in possesso di due verità, il cogito e Dio. Tutto il resto (il mondo
degli oggetti di conoscenza sensibile) resta sospeso dal dubbio, privo di «certezza
metafisica» (nel Discorso non vi è dimostrazione dell’esistenza del mondo fisico).
D’altra parte, l’esistenza di Dio garante come certa la regola dell’ evidenza che
Descartes aveva tratto dall’evidenza della proposizione «io penso dunque sono».
Più in generale, le nostre idee (che Descartes concepisce come «cose pensate»,
dotate di realtà propria e dunque «cose reali») provengono da Dio e, in quanto chiare
e distinte, sono vere perché «messe in noi» da Dio, dal quale le idee presenti nel
nostro pensiero dipendono. Dottrina tipicamente cartesiana questa, che implica alcuni
presupposti:
a) che le idee siano realtà, indipendentemente dai sensi (sono «messe in noi» dal
Creatore), respingendo così l’assioma scolastico nihil est in intellectu quod prius non
fuerit in sensu;
b) che ogni realtà dipende da Dio come causa (anche le verità matematiche e le
«verità eterne», come le altre creature).
Pertanto, se l’uomo sbaglia, ciò avviene quando le idee si presentano a lui non chiare
e distinte, ma confuse e oscure: ciò dipende dall’imperfezione dell’uomo. Di qui
l’affermazione cruciale:
se non sapessimo che quanto vi è in noi di reale e di vero viene da un essere perfetto e infinito, per chiare e
distinte che fossero le nostre idee, non avremmo nessuna ragione di essere certi che posseggono la perfezione
di essere vere (p. 39).
È stato obiettato a Cartesio, anche dai suoi contemporanei (obiezioni alle
Meditationes), che qui sembra esservi un circolo vizioso: affermiamo di essere certi
che le idee concepite in modo chiaro e distinto sono vere perché Dio esiste e non è
ingannatore; d’altra parte, abbiamo dimostrato che Dio esiste usando il canone
dell’evidenza. Tale problema sembra far oscillare Cartesio nel porre a fondamento
primo della certezza ora il cogito ora Dio.
Cartesio riafferma il valore primario del cogito e della regola dell’evidenza, che ne
deriva. Il cogito è indipendente dalla veracità di Dio e la regola dell’evidenza è vera
indipendentemente dall’esistenza di Dio. Tuttavia, l’evidenza del cogito non è
sufficiente a fondare una scienza oggettivamente valida, perché la regola
dell’evidenza è valida solo per le verità attuali e immediatamente percepite. Ma la
scienza non è fatta solo di verità attualmente percepite: nel moto del pensiero, nel
processo deduttivo, un’idea attualmente percepita con evidenza viene dopo un’altra
che è stata prima percepita con evidenza, ma adesso non più presente allo spirito con
la stessa evidenza attuale, essendo passata nella memoria. Ora, il dubbio su
un’evidenza passata nella memoria è sempre possibile: qui è necessario il ricorso a
18
Essa trova la sua forza nel principio, espresso da Descartes nelle Risposte alla II Obiezioni
alle Meditazioni, secondo cui «ciò che chiaramente intendiamo appartenere alla natura di
qualche cosa, si può affermare con verità di quella cosa (…). Ora appartiene alla natura di Dio
l’esistere, dal che è manifesto che si debba concludere, come ho concluso: dunque si può con
verità affermare che Dio esiste».
13
Dio che ci garantisce della nostra facoltà di ragionare e di non essere ingannati e
quindi anche della verità di quello che abbiamo in passato concepito con evidenza e
che non è attualmente presente con evidenza al nostro spirito. In altri termini, se il
cogito costituisce il fondamento di un scienza soggettivamente valida, Dio è il
fondamento di una scienza oggettivamente valida e necessaria: non si potrebbe uscire
dalla soggettiva certezza del cogito se Dio non garantisse che le verità percepite con
evidenza sono oggettivamente, realmente, vere.
Resi certi dalla regola dell’evidenza, è possibile superare anche il dubbio introdotto
dall’incerta distinzione fra sonno e veglia. La regola dell’evidenza è comunque valida:
«svegli o addormentati, non dobbiamo mai lasciarci persuadere se non dall’evidenza
della nostra ragione» (p. 39). Così sempre la regola dell’evidenza rende possibile
riconoscere che i sogni che immaginiamo nel sonno non debbono indurci a porre in
dubbio la verità dei pensieri che abbiamo da svegli.
Svolto il nucleo metafisico della sua filosofia (assai più ampia sistemazione si avrà
con le Meditationes de prima philosophia e con le Risposte alle Obiezioni), Descartes
indica sommariamente «la catena delle verità che ho dedotte da queste prime» (p.
40). È infatti sulle prime verità metafisiche, dimostrate con la regola dell’evidenza, che
Descartes ritiene di dover fondare la sua fisica:
mi sono sempre tenuto fermo alla decisione che avevo preso di non supporre altro principio se non quello
di cui mi sono or ora servito per dimostrare l’esistenza di Dio e dell’anima, e di non accogliere come vera
nessuna cosa che non mi sembrasse più chiara e certa di quanto mi si fossero presentate per l’addietro le
dimostrazioni dei geometri. (p. 41).
Ma di tutta la fisica Descartes dà solo «un’esposizione sommaria», un rapido
riassunto di quanto svolto in «un trattato [il Mondo] che certe considerazioni mi
impediscono di pubblicare» (p. 41). La condanna di Galileo coinvolgeva tutta la sua
filosofia. Nel Discorso il ricorso della sentenza contro il pisano è preciso, pur senza
farne nome.
tre anni or sono ero arrivato alla fine del trattato in cui sono contenute tutte le cose esposte, e cominciato
a rivederlo per affidarlo alle stampe, quando appresi che persone per cui nutro particolare rispetto e la cui
autorità non pesa sulle mie azioni meno di quanto la mia ragione non pesi sui miei pensieri, avevano
disapprovato un’opinione in materia di fisica pubblicata poco prima da altri [Galileo]; né voglio dire che io
la condividessi, ma solo che prima della loro censura non vi avevo rilevato nulla che potessi immaginare
pregiudizievole per la religione o per lo Stato; nulla quindi mi avrebbe impedito di esprimerla nei miei scritti,
se per via di ragione me ne fossi persuaso (p. 60).
Qui non può sfuggire la precisa distinzione fra autorità religiosa, la cui competenza
attiene alle «mie azioni» e ragione, sovrana dei «miei pensieri»: ciò significa limitare la
competenza della prima sfera (quella del pratico, dei comportamenti: secondo le
regole della morale di Descartes, si deve seguire il costume e la religione del proprio
paese) e affermare la libertà della ragione, che risponde solo all’evidenza delle
dimostrazioni.
Tracciate le linee della sua filosofia (dalla metafisica alla fisica), Descartes indica
nella VI Parte il programma di ricerca, non senza un’accentuata polemica contro
l’aristotelismo scolastico, contento di ripetere gli insegnamenti di Aristotele,
caratteristica di «spiriti molto mediocri»: riproponendo temi polemici umanistici e
contemporanei, Descartes oppone alle «tenebre» (un sotterraneo molto oscuro) e alla
«cecità» degli aristotelici, la propria filosofia come luce liberatrice 21:
Con accenti che ricordano Francis Bacon, Descartes insiste sulla necessità del
«lavoro nei molti» per «passar oltre» (p. 63) accumulando esperienze e conoscenze
per il «bene comune» e per renderci «signori e padroni della natura»:
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«mi contentavo di supporre che Dio formasse il corpo di un uomo in tutto e per tutto
simile a uno dei nostri, tanto nella figura esteriore delle membra come nella conformazione
interna degli organi, componendolo soltanto della materia che avevo descritto, e senza mettere
inizialmente in lui nessuna anima ragionevole, né altro che potesse fungere da anima
vegetativa o sensitiva, limitandosi a suscitare nel suo cuore uno di quei fuochi senza luce che
già avevo spiegato, e che non concepivo di natura diversa dal fuoco che scalda il fieno riposto
al chiuso prima che sia secco, o che fa ribollire il vino nuovo quando lo si lascia fermentare sui
raspi».
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Nella fisiologia meccanicistica cartesiana occupa un posto centrale la teoria della
circolazione del sangue, sulla scorta della Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in
animalibus di William Harvey (1628), cui Descartes riconosce il merito della scoperta, ma da cui
se ne distacca, perché concepisce il cuore come un muscolo passivo (mosso dagli spiriti
animali, agenti attivi), mentre Harvey ne aveva correttamente dimostrato l’attività nei moti di
diastole e sistole.
21
«posso dire che costoro hanno interesse a che io non renda pubblica ragione dei principi
della filosofia di cui mi servo, perché, essendo, come sono, semplicissimi ed evidentissimi, se li
pubblicassi, sarebbe quasi come se aprissi delle finestre e facessi entrar luce nel sotterraneo
dove sono scesi per battersi» (p. 71).
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è possibile giungere a cognizioni utilissime alla vita e (…) al posto di quella filosofia speculativa che si
insegna nelle scuole, se ne può trovare una pratica mediante la quale, conoscendo la forza e le azioni del
fuoco, dell’acqua, dell’aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi che ci circondano , così distintamente
come conosciamo le tecniche dei nostri artigiani, noi potremmo servircene nello stesso modo per tutti gli usi
a cui si adattano, rendendoci così quasi signori e padroni della natura (p. 62)
Soprattutto Descartes insiste sul valore pratico della nuova filosofia, che deve avere
come scopo il rinnovamento della medicina al fine di migliorare la condizione umana e
prolungare la vita.
Tuttavia, Descartes preferisce una ricerca personale (evitando inutili polemiche di
scuola), procedendo alla costruzione di una filosofia fondata sull’idea di Dio e su alcuni
principi evidenti (che «sono naturalmente nelle nostre anime») da cui dedurre tutti gli
effetti particolari. Pur convinto della necessità di «comunicare» al pubblico le proprie
scoperte per il bene di tutti, egli dichiara di aver deciso di non pubblicare per ora «i
fondamenti della mia fisica», benché siano «tutti così evidenti che basta sentirli
enunciare per accettarli» (p. 68), limitandosi a darne solo delle anticipazioni nei Saggi,
di cui il Discorso sul metodo rappresenta, a sua volta, l’introduzione.
La sentenza contro Galileo l’aveva già dissuaso a pubblicare il Mondo. Qui si
aggiunge il desiderio di non trovarsi impegnato in polemiche inutili, per dedicarsi con
«riposo» alle sue ricerche, sperando di suscitare interesse, in attesa di migliori
condizioni per pubblicare la sua fisica. Tutto questo lo ha indotto a preferire di
procedere da solo, con la collaborazione di tecnici e artigiani da lui istruiti e
remunerati, per portare a termine un programma che ormai lo impegna da vent’anni.
Tale programma egli intende svolgere rivolgendosi a tutti gli uomini di «buon senso»,
non certo ai dotti che si attengono alla tradizione e sono incapaci di percorrere sentieri
nuovi (p. 76 – 77). Proprio per avere un pubblico più vasto di quello cui si rivolgono i
trattati in latino, Descartes scrive in francese, la lingua capace di essere intesa da
quanto abbiano l’uso della ragione (p. 77 – 78).
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