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11 - La stabilizzazione di co. co. co. e titolari di partita IVA (art 54) ................................................................................. 81
12 - Il lavoro ripartito (job sharing): la scelta di delegificare (art 55, comma 1, lett d) ................................................... 84
Di qui lo sviluppo di politiche volte a realizzare la strategia della flessicurezza: forme contrattuali flessibili e affidabili,
realizzate attraverso una normativa del lavoro, contrattazioni collettive e un’organizzazione del lavoro moderne,
strategie integrate di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, efficaci politiche attive del mercato del lavoro, che
aiutino le persone a fare fronte ai cambiamenti rapidi e riducano in periodi di disoccupazione, sistemi moderni di
sicurezza sociale che forniscano un adeguato supporto al reddito, incoraggino l’occupazione e agevolino la mobilità sul
mercato del lavoro.
Certo, si può anche criticare la politica dei due tempi (prima flessibilità e poi sicurezza), ma non sembra ci
siano strade alternative a quella indicata dal modello europeo di flexicurity.
2. La prima fase del Jobs Act
Per illustrare la complessità della riforma del cd Jobs Act è possibile scandirla in più fasi.
La I fase è stata quella sul contratto a termine, con la dilatazione della cd acausalità del contratto fino a 36
mesi, con il DL 34/2014 (cd “decreto Poletti”, convertito in legge 78/2014), con lo scopo di dare una fiammata
alle nuove assunzioni. Tale disciplina è poi stata sostanzialmente confermata dal d lgs 81/2015.
Non c’è da stupirsi del perché: se si muove dal presupposto (avallato dalla teoria economica) che una certa quota di
contratti di lavoro non standard (in particolare, quelli a termine) sia ormai strutturale nel sistema, il problema della
protezione sociale dei lavoratori coinvolti in queste forme di lavoro concerne l’integrazione del reddito (e la conseguente
copertura previdenziale) e la formazione professionale (in modo da mantenere inalterate e, anzi, aumentare le capacità
professionali). Ora, anziché adottare una logica punitiva verso il contratto a termine, si tratta di prevenire gli abusi
(evitando che il lavoratore non standard cada nella trappola della precarietà) e comunque garantire una tutela sul piano
del sostegno al reddito e degli strumenti che facilitino le transizioni da un impiego ad un altro.
Ci si può chiedere se con il decreto sulla NASPI (DL 22/2015), ci si stia muovendo, proprio per questo segmento, sulla
linea della flessicurezza (che richiede di promuovere insieme alla flessibilità, la sicurezza del reddito e dell’occupazione).
E ancor di più ci si può domandare se la riforma dei servizi per l’impiego (d lgs 150/2015) sarà all’altezza delle aspettative.
3. La seconda fase del Jobs Act e la centralità sistematica del cd Codice dei contratti
La II fase del Jobs act è stata segnata dalla legge delega 183/2014 e dall’insieme dei decreti legislativi da essa
previsti, che rappresentano il più ampio programma di riforma del diritto del lavoro attuato dopo lo Statuto
dei lavoratori. Per ordinare questo insieme di provvedimenti legislativi, occorre partire dal d lgs 81/2015,
contenente la disciplina organica dei contratti di lavoro, perché esso ci delinea la nuova tassonomia dei
rapporti di lavoro, attorno a cui si dispone l’intero programma di riforma. Il decreto legislativo ha un impianto
interessante, a metà strada tra un codice (di cui forse costituisce l’archetipo o l’ossatura) ed un Testo Unico.
Non è chiaramente leggibile nella legge 183/2014 una delega alla redazione di un Codice unico semplificato del lavoro
(alla Ichino), volto a far fronte al fenomeno della complessità e della dispersione del diritto del lavoro. La legge-delega
fa riferimento ad uno o più decreti legislativi di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle
tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro (art 1, comma 7, legge 183/2014), in cui sembra più facile leggere il
riferimento ad un eventuale disboscamento e riscrittura delle tipologie conosciute nel nostro sistema. Del resto, l’idea
di far confluire tutto il diritto del lavoro in un codice del lavoro non sembra ad oggi realistica. Molto più praticabile è
l’ipotesi di adottare discipline organiche parziali (come per la Cassa Integrazione, istituto caratterizzato da un’elevata
stratificazione normativa, nonché per il cd Codice dei contratti).
A seguire, l’art 2 pone la disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, mentre l’art 3 riguarda
la disciplina delle mansioni.
Il Capo II (lavoro a orario ridotto e flessibile) si articola al suo interno in 2 Sezioni: lavoro a tempo parziale e
lavoro intermittente. Il Capo III è dedicato al lavoro a tempo determinato; il Capo IV alla somministrazione; il
Capo V all’apprendistato; il Capo VI al lavoro accessorio.
Nel Capo VII si trovano le disposizioni finali (comprese le abrogazioni).
Considerando sinotticamente le disposizioni sulle abrogazioni e quelle sui rapporti di lavoro non standard, risulta che
l’unica figura a venir meno è il cd job sharing (lavoro ripartito). Ma il fatto che la relativa normativa sia stata abrogata
non implica che non si possa far ricorso al job sharing, tornando alla situazione ante-legge Biagi. La questione non
sembra di grande importanza pratica, visto che l’istituto non ha mai attecchito realmente. Ma appunto, l’argomento è
reversibile: perché mai eliminare la disciplina?
Ora, è lo stesso legislatore che presuppone la natura non subordinata (o non qualificata) di questi contratti,
nel momento in cui afferma che la disciplina del lavoro subordinato si applica anche ad essi. Nella relazione
illustrativa allo schema del decreto legislativo, si legge: lo schema interviene in materia di collaborazioni
coordinate e continuative e di lavoro autonomo, al fine di estendere le tutele del lavoro subordinato ad
alcuni tipi di collaborazioni morfologicamente contigue al lavoro subordinato.
È probabile che il legislatore muova dalla concezione della subordinazione intesa come eterodirezione e
voglia allargare lo statuto protettivo del lavoro subordinato a tutti i casi in cui il prestatore, pur non
sottoposto al potere direttivo, sia comunque assoggettato al potere organizzativo del committente.
Il termine organizzare ha però, in sé, scarso valore qualificatorio: l’attività organizzativa è un elemento
strutturale intrinseco all’attività d’impresa e va integrato con fattori qualificanti più specifici. Ai fini della
norma, non basta una generica eterorganizzazione, occorre l’organizzazione (da parte del committente) delle
modalità di esecuzione della prestazione anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro.
La distinzione tra eterodirezione ed eterorganizzazione è comunque difficile da tracciare: la sovrabbondanza
terminologica della giurisprudenza nel descrivere la nozione di subordinazione1 nasconde una sostanziale
coincidenza tra potere organizzativo e potere direttivo. In ogni caso, la difficoltà della distinzione sembra non
porre particolari problemi: ai rapporti eterorganizzati si applica la stessa disciplina del lavoro subordinato.
Ciò anche se qualcuno in dottrina si domanda se, sul presupposto che resti autonomo, al lavoro eterorganizzato si
applichi l’integrale statuto del lavoro subordinato (compreso il regime previdenziale e assistenziale). Anche qui però è
imprescindibile il dato letterale, che rende applicabile a questi rapporti l’intera disciplina del lavoro subordinato.
1
Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come lavoro subordinato valore determinante deve assegnarsi alla
subordinazione, cioè a quel vincolo di natura personale che assoggetta il prestatore d’opera ad un potere direttivo del
datore di lavoro con conseguente limitazione della sua libertà, mentre altri elementi - quali la collaborazione, l’assenza
di rischio economico, la natura dell’oggetto della prestazione, la continuità di esso, l’inserimento della prestazione
medesima nell’organizzazione aziendale, la forma della retribuzione e l’osservanza di un orario - possono avere una
portata soltanto sussidiaria e non già decisiva ai fini della individuazione del lavoro subordinato e della distinzione
rispetto a quello autonomo (Cass., 27 febbraio 2007, n. 4500)
separata, la normativa sugli assegni familiari e l’indennità di maternità o paternità), la normativa in materia
di dimissioni e quella sui termini decadenziali di cui all’art 6 della legge 604/1966, nonché la tutela contro la
disoccupazione involontaria (DIS-COLL).
Anche il coordinamento comporta l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e un certo grado
di ingerenza del committente sulle modalità (anche spazio-temporali) di esecuzione della prestazione.
Tuttavia, è possibile sostenere che, mentre nella coordinazione le modalità di tempo e di luogo devono
essere concordate (negozialmente) dalle parti (nel contratto o anche durante lo svolgimento del rapporto),
nella eterorganizzazione compete sempre al committente un potere (unilaterale) di determinare e imporre
le modalità di tempo e di luogo della prestazione.
L’art 15 della legge 81/2017 (cd Jobs Act del lavoro autonomo), sotto la rubrica modifiche al codice di procedura civile
nell’art 409, n.3 c.p.c., dopo aver precisato che per altri rapporti di collaborazione continuativa e coordinata s’intende
la prestazione d’opera prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato) aggiunge un ulteriore
precisazione: la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di
comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa. L’accento viene così posto
sulla definizione concordata dalle parti delle modalità di coordinamento (non senza richiamare l’autonomia del
prestatore nell’organizzare la propria attività lavorativa).
In realtà, se dal punto di vista concettuale può essere agevole distinguere il lavoro organizzato dal
committente dal lavoro coordinato, nel concreto svolgimento del rapporto anche questa distinzione può
sfumare, per cui la definizione continua a ribadire il requisito dell’autonoma organizzazione della propria
attività lavorativa da parte del collaboratore. Si ritorna dunque in un certo senso daccapo.
9. Le esclusioni
L’art 2, comma 2 tratta di ipotesi (disomogenee tra loro) che trovano un minimo comun denominatore nel
fatto di riprendere alcune di quelle per cui l’art 61 del d lgs 276/2003 escludeva il requisito del progetto:
le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi
professionali (le quali deducono nel contratto di collaborazione prestazioni esclusive, ossia tipiche e
tassativamente proprie della professione protetta);
le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione
e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
le collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche
affiliate alle federazioni sportive nazionali;
le collaborazioni prestate nell’ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli da parte
delle fondazioni di cui al d lgs 367/1996 (fondazioni lirico-sinfoniche, di diritto privato);
le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche
riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive
ed organizzative del relativo settore.
Diverso è il problema del lavoro occasionale, che deve ritenersi escluso dal campo di applicazione dell’art 2, comma 1,
nella misura in cui difetti il requisito della continuatività. Vi è ovviamente il problema di individuare quando la
prestazione deve considerarsi occasionale, una volta venute meno le soglie indicate dall’abrogato art 61 del d lgs
276/2003 (che prevedeva il limite quantitativo dei 5 000 € solo ai fini dell’iscrizione alla gestione separata INPS).
Sebbene tragga ispirazione dal caso call center, la disposizione assume una portata più ampia, consentendo
ai contratti collettivi (stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi) di graduare il trattamento
economico e normativo dei lavoratori impiegati in rapporti di collaborazione, adattando la disciplina, al di là
degli schemi legali tipici, in varie direzioni e su aspetti diversi.
Per gli operatori telefonici di call center in modalità outbound2, a seguito di un’intricata vicenda, venne consentito il
ricorso a contratti di collaborazione a progetto, ma sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva
nazionale di riferimento (art 61, comma 1, d lgs 276/2003, come modificato dall’art 24-bis, comma 7 DL 83/2012,
convertito nella legge 134/2012). In seguito (2015), sono stati stipulati 2 accordi collettivi (CCNL telecomunicazioni) che
hanno stabilito che i trattamenti economici e normativi fissati nei precedenti accordi collettivi (2013) per la disciplina
del lavoro a progetto dovessero intendersi riferiti ai contratti di collaborazione esclusivamente personale e continuativa
per lo svolgimento delle stesse attività outbound ivi regolate e continuassero ad applicarsi ai contratti di lavoro a
progetto già in atto alla data di entrata in vigore del d lgs 81/20015.
La contrattazione (nazionale) può così utilizzare la delega per escludere in tutto o in parte alcune ipotesi di
collaborazione dalla disciplina del lavoro subordinato. Ma il testo non esclude che la contrattazione possa
anche individuare tipi di collaborazione da ricondurre all’area del lavoro subordinato. In ogni caso, tra le
condizioni specificate per la non applicazione dell’art 2, comma 1 vi sono le particolari esigenze produttive e
organizzative del settore, nonché l’esistenza di un regolamento del trattamento sia economico sia normativo.
In mancanza, se questi rapporti presentano le caratteristiche tipologiche della subordinazione, saranno
attratti nel campo di applicazione della relativa disciplina.
Non sembra che la deroga sia irragionevole: le fattispecie escluse non esprimono quel bisogno di protezione
che ha indotto il legislatore ad estendere (comma 1) la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
10. Segue: le attuali declinazioni contrattuali dell’art 2, comma 2
Anche volendo ritenere che l’art 2 venga a consacrare una definizione “aggiornata” di subordinazione, la
norma di cui all’art 2, comma 2 conserverebbe un autonomo valore precettivo proprio nella misura in cui
consente ai contratti collettivi (in presenza dei requisiti indicati) di “sterilizzare” l’applicazione dello statuto
protettivo del lavoro subordinato.
Il giudice avrebbe dunque solo il compito di accertare se ricorrono i requisiti tipologici indicati nelle norme collettive: se
tali requisiti non ricorrono, egli potrà qualificare il collaboratore come lavoratore subordinato.
A ciò non vale opporre la cd indisponibilità del tipo del lavoro subordinato (anche ad opera del legislatore ordinario):
non vi sono vincoli costituzionali (a meno di non ritenere costituzionalizzata la definizione di lavoro subordinato di cui
all’art 2094 cc o che vi sia una nozione ontologica di subordinazione nell’ordinamento e consacrata in Costituzione) ad
una revisione delle categorie, ossia delle fattispecie e dei criteri di imputazione delle tutele, salvo il limite della
ragionevolezza (art 3 Cost) delle differenziazioni di trattamento (Corte Cost 121/1993 e 115/1994).
Esiste un variegato spettro di contratti collettivi (oltre al settore degli operatori telefonici di call center
outbound) riferito a diverse figure professionali presenti in diversi contesti, specie nel mondo dei servizi
(collaboratori nella scuola non statale, negli enti di ricerca privati, Istituti di Ricovero e Cura a Carattere
Scientifico e strutture sanitarie private, nelle università non statali, nelle Organizzazioni Non Governative,
negli Enti di Formazione professionale, nel settore delle radiotelevisioni private).
Sono soprattutto interessanti gli accordi relativi a quei settori in cui i contratti di collaborazione sono
compresenti con contratti di lavoro subordinato, in relazione a identiche o analoghe figure professionali. Qui
particolare attenzione è prestata nel ribadire che le modalità di coordinamento, stabilite dall’accordo delle
parti, non devono compromettere il requisito fondamentale dell’autonomia. Dal punto di vista regolativo, le
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In termini di marketing, per inbound si intende l’attività commerciale svolta per attrarre i clienti, nel senso di farsi
trovare (nel call center, l’operatore “riceve” le telefonate provenienti dal cliente), mentre per outbound si intende
l’attività promozionale che mira a trovare i clienti (nel call center, l’operatore “chiama” il cliente: sono telefonate in
uscita).
varie garanzie concernono di norma la forma scritta del contratto, le ipotesi di malattia e infortunio,
gravidanza e puerperio, le cause di cessazione del rapporto, la protezione della salute e della sicurezza,
nonché il compenso, variamente determinato, ma comunque non inferiore ai minimi retributivi previsti dal
CCNL per le figure professionali analoghe dei lavoratori dipendenti.
11. Il regime transitorio
La nuova normativa trova applicazione a decorrere dal 1 gennaio 2016 (art 2, comma 1), mentre alla data di entrata in
vigore del decreto (25 giugno 2015) cessa la disciplina sul lavoro a progetto (artt 61 – 69-bis del d lgs 276/2003), che
continuerà ad applicarsi solo per i contratti in corso fino alla loro scadenza.
Il decreto legislativo incentiva la stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi a progetto (sebbene solo dal
1 gennaio 2016, per ragioni finanziarie), attraverso la previsione, in presenza di alcune condizioni, dell’estinzione degli
illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro, fatti salvi gli illeciti
accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione (art 54).
Peraltro, già dalla data del 1 gennaio 2015 (art 1, comma 118, legge 190/2014) l’assunzione dei collaboratori coordinati
e continuativi e dei titolari di partita IVA con contratto a tutele crescenti dava diritto ai benefici contributivi previsti dalla
legge di stabilità.
È chiaro il disegno sotteso alla seconda fase del Jobs Act: rimodellare la disciplina del lavoro subordinato a tempo
indeterminato per consentire il “travaso” in esso, non solo dei rapporti di lavoro subordinato cd precario (contratto a
termine), ma anche delle collaborazioni coordinate e continuative.
D’altra parte, le restrizioni apportate dalla legge Fornero al lavoro a progetto e l’innalzamento dell’aliquota contributiva
avevano già in larga misura bonificato il campo.
Il legislatore torna quindi sulla distinzione tra eterorganizzazione e coordinamento. Poiché parte delle norme di tutela
concernono solo i collaboratori continuativi, non sembra scomparsa del tutto dall’orizzonte l’idea del lavoro
economicamente dipendente da tempo discussa in dottrina. Se questo è vero, non potrà che determinarsi un nuovo
rimescolamento delle carte: per questo si sconsiglia di edificare, sui nuovi concetti apparsi nel d lgs 81/2015, ardite e
impegnative costruzioni.
Ma, su questa materia, quantomeno il legislatore si è sempre premurato di salvaguardare la sistematicità dei
rinvii e delle deroghe, predisponendo nel dettato del d lgs 165/2001 un chiaro quadro di disciplina specifica
per il settore pubblico (in particolare, l’art 7, comma 6 e seguenti) che blocchi l’estensione di una disciplina
dettata per il rapporto di lavoro subordinato nell’impresa (art 2, comma 2).
Parlare di deroghe consentite potrebbe indurre a ritenere che, trattandosi in questo caso di rapporti di
collaborazione (che tali restano anche se ad essi si applica dal 1 gennaio 2016 la disciplina del rapporto di
lavoro subordinato), la mancata estensione al lavoro pubblico debba ritenersi una valutazione “fuori sistema”
del legislatore, analoga a quella già adottata dal d lgs 276/2003 (art 1, comma 2), che aveva introdotto il
contratto a progetto in luogo della collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art 409, n 3 c.p.c.
In realtà, l’art 36 del d lgs 165/2001 (Personale a tempo determinato o assunto con forme di lavoro flessibile)
preclude la possibilità per le amministrazioni pubbliche di impiegare contratti di lavoro che non siano
subordinati e a tempo indeterminato se non per rispondere a comprovate esigenze di carattere
esclusivamente temporaneo o eccezionale. Inoltre, tra le tipologie consentite di forme contrattuali flessibili
non si prevede il lavoro parasubordinato regolato (ante-Jobs Act) dal d lgs 276/2003. Pertanto, occorre
concludere che è sul combinato disposto delle due norme che si fonda la cautela con cui il legislatore anche
questa volta abbia preferito confermare lo statuto distintivo che ancora caratterizza il lavoro pubblico
rispetto al privato.
Per spiegare l’incipit dell’art 2, comma 4 (fino al completo riordino della disciplina dell'utilizzo dei contratti di
lavoro flessibile da parte delle pubbliche amministrazioni …) bisogna richiamare i criteri di cui all’art 17 della
legge-delega 124/2015 (cd riforma Madia): a proposito delle tipologie contrattuali nell’ambito del riordino
della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, si afferma quello della disciplina
delle forme di lavoro flessibile, con individuazione di limitate e tassative fattispecie, caratterizzate dalla
compatibilità con la peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e con
le esigenze organizzative e funzionali di queste ultime anche al fine di prevenire il precariato (comma 11). Tale
parsimoniosa tassatività nell’individuazione delle forme flessibili di lavoro da parte del legislatore non si
giustifica tanto in termini di funzionalità istituzionale delle amministrazioni (a tale scopo supplisce il principio
costituzionale dell’accesso tramite concorso), quanto nell’intento di evitare che, attraverso un abuso del
ricorso alle forme flessibili di lavoro, si creino sacche di precariato che finiscono per trasformarsi in pressioni
sociali per la stabilizzazione (cui il legislatore ha spesso dovuto far fronte, sotto l’occhio attento della Corte
costituzionale).
Tradizionalmente, il settore pubblico ha sempre privilegiato la tipologia classica di rapporto di lavoro, basata
sul tempo pieno e indeterminato, non senza qualche ragione di funzionalità sociale.
Per questo la Corte costituzionale ha spesso sottolineato il valore della preventiva valutazione delle esigenze
organizzative del personale per l’esercizio delle funzioni pubbliche, al punto tale da implicare una valutazione oggettiva
del personale necessario a svolgerle, per non contraddire il principio del buon andamento (art 97 Cost). Da ciò è possibile
ricavare il principio organizzativo per cui a funzioni stabili debbano rispondere rapporti stabili, mentre a funzioni
temporanee possano (e debbano) corrispondere rapporti di lavoro flessibili.
Secondo la Corte dei Conti (Sezione Centrale del Controllo di Legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni
dello Stato: 2012), la necessità di ricorrere ad un incarico di collaborazione di tipo coordinato e continuativo deve
costituire un rimedio eccezionale per far fronte ad esigenze peculiari, per le quali l’Amministrazione necessiti
dell’apporto di specifiche competenze professionali esterne, in quanto non rinvenibili al suo interno.
Anche se va detto che il criterio secondo cui per esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le
pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro a tempo indeterminato (art 36,
comma 1 del d lgs 165/2001), pur ricavabile dalla giurisprudenza costituzionale che, a sua volta, lo deriva dal
principio del buon andamento, trova sempre più difficoltà ad essere rispettato, per via di quel blocco del
turnover cui non ha mai corrisposto una riorganizzazione istituzionale e funzionale delle amministrazioni.
2. La progressiva legificazione della giurisprudenza contabile
Resta allora solo l’art 7, comma 6 (e seguenti) del d lgs 165/2001 (gestione del personale) a definire tipologie
e requisiti per l’impiego di contratti autonomi (lavoro occasionale o coordinato e continuativo) da parte delle
amministrazioni pubbliche, con un dettato che ha sempre più precisato e reso stringenti i casi in cui sia loro
consentito di stipulare un contratto di lavoro non subordinato. Su tale percorso emendativo un ruolo
fondamentale lo ha esercitato la Corte dei Conti (in sede giurisdizionale o in sede di controllo), che ha
elaborato puntuali criteri di legittimità cui le amministrazioni devono attenersi prima di stipulare un contratto
di collaborazione e che sono poi stati trasposti nell’attuale art 7, comma 6.
Per comprendere le ragioni della deroga (ribadita anche dall’art 2, comma 4 del d lgs 81/2015) è necessario
ripercorrere gli elementi caratterizzanti l’attuale disciplina dei contratti di lavoro autonomo applicabile nel
settore del lavoro pubblico
Innanzitutto, anche per l’attivazione di questa tipologia di contratto è richiesta una procedura selettiva che
assolva l’obbligo previsto in generale dall’art 97 Cost (e sancito anche dall’art 7, comma 6-bis del d lgs
165/2001: le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti,
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione).
Primo pilastro per la verifica di legittimità è l’obbligatorio accertamento della carenza di risorse interne per
sopperire a quella specifica esigenza organizzativa o professionale (l’impossibilità oggettiva di utilizzare le
risorse umane disponibili al suo interno).
In secondo luogo, non deve sussistere, all’interno dell’amministrazione, la figura professionale idonea (deve
trattarsi di specifiche esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio).
A ciò si somma l’obbligo di motivazione, che giustifichi la scelta di affidare all’esterno l’incarico rispetto
all’alternativa di valorizzare le risorse interne.
La mancanza di questi prerequisiti, che implicano una specifica analisi organizzativa dell’ente e gestionale del
personale, è già di per sé sufficiente a configurare una responsabilità amministrativa del dirigente e a
giustificare l’azione di risarcimento del danno erariale prodotto.
Una ulteriore limitazione riguarda l’oggetto della prestazione, che non deve rientrare nelle funzioni ordinarie
e nelle mansioni istituzionali dell’amministrazione, per le quali è obbligatorio servirsi solo di personale
dipendente (il cd fabbisogno ordinario: art 36, comma 13): di qui il riferimento ad obiettivi e progetti specifici
e determinati.
Inoltre, occorre che la prestazione corrisponda alla competenza attribuita all’amministrazione conferente,
ovvero sia funzionale alle attività istituzionali stabilite dalla legge o dall’ordinamento delle amministrazioni.
L’art 7 a prevede che siano specificamente indicati:
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per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente
con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall'art 35
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(comma 6): si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti
di collaborazione per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino
nel campo dell'arte, dello spettacolo dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività
didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di
cui al d lgs 276/2003, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità
di accertare la maturata esperienza nel settore
Inoltre, va ricordato che anche le collaborazioni coordinate e continuative sono sottoposti ai limiti di
assunzione e di spesa di cui all’art 9, comma 28 del DL 78/2010, che blocca il turnover delle collaborazioni
nelle stesse percentuali in cui blocca il reclutamento con contratti di lavoro subordinato.
Art 7, comma 6. Fermo restando quanto previsto dal comma 5-bis5, per specifiche esigenze cui non possono far fronte
con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire esclusivamente incarichi individuali, con
contratti di lavoro autonomo, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza
dei seguenti presupposti di legittimità:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione
conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità
dell'amministrazione conferente;
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno;
d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione; non è ammesso il
rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto
e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento
dell’incarico.
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Il divieto di utilizzo di collaborazioni organizzate dal committente (art 2, comma 1 del d lgs 81/2015)
Il divieto è assoluto, al punto tale da far ricadere l’eventuale stipulazione di un contratto di collaborazione
organizzata dal committente nel sistema delle sanzioni della legge 165/2001 (artt 7, comma 66 e 36, comma
5-quater7), fermo il divieto di conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato (art 36, comma 5)8.
Pertanto, la ratio dell’art 2, comma 4 è sostanzialmente conservativa della disciplina specifica di settore, che
vuole che alle pubbliche amministrazioni continui ad applicarsi l’art 7 del d lgs 165/2001, con tutti i vincoli
previsti e con l’ulteriore precisazione per cui nemmeno un riordino completo della disciplina lavoristica del
settore pubblico potrà condurre all’unificazione completa dei due settori.
Di recente il d lgs 75/2017 (cd riforma Madia) ha aggiunto all’art 7 d lgs 165/2001 il comma 5-bis: è fatto divieto alle
amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro
esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con
riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. I contratti posti in essere in violazione del presente comma sono nulli e
determinano responsabilità erariale. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente comma sono,
altresì, responsabili ai sensi dell'art 21 e ad essi non può essere erogata la retribuzione di risultato. Resta fermo che la
disposizione di cui all'art 2, comma 1, del d lgs 81/2015 non si applica alle pubbliche amministrazioni.
il comma 2 viene sostituito come segue: le amministrazioni pubbliche possono stipulare contratti di lavoro subordinato
a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato,
nonché avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro
nell'impresa, esclusivamente nei limiti e con le modalità in cui se ne preveda l'applicazione nelle amministrazioni
pubbliche. Le amministrazioni pubbliche possono stipulare i contratti di cui al primo periodo del presente comma soltanto
per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale e nel rispetto delle condizioni e
modalità di reclutamento stabilite dall'art 35. I contratti di lavoro subordinato a tempo determinato possono essere
stipulati nel rispetto degli artt 19 e seguenti del d lgs 81/2015, escluso il diritto di precedenza che si applica al solo
personale reclutato secondo le procedure di cui all'art 35, comma 1, lettera b), del presente decreto. I contratti di
somministrazione di lavoro a tempo determinato sono disciplinati dagli artt 30 e seguenti del d lgs 81/1015, fatta salva
la disciplina ulteriore eventualmente prevista dai contratti collettivi nazionali d lavoro.
Inoltre, viene inserito il comma 5-quinquies. Il presente articolo, fatto salvo il comma 5, non si applica al reclutamento
del personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA), a tempo determinato presso le istituzioni
scolastiche ed educative statali e degli enti locali, le istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica. Per gli
enti di ricerca pubblici di cui agli artt 1, comma 1, e 19, comma 4, del d lgs 218/2016, rimane fermo quanto stabilito dal
medesimo decreto.
6
art 7, comma 6 Il ricorso ai contratti di cui al presente comma per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei
soggetti incaricati ai sensi del medesimo comma come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa
per il dirigente che ha stipulato i contratti (…) fermo restando il divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato, si applica quanto previsto dal citato art 36, comma 5-quater.
7
art 36, comma 5-quater I contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere in violazione del presente articolo
sono nulli e determinano responsabilità erariale. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente
articolo sono, altresì, responsabili ai sensi dell'articolo 21 (la responsabilità dirigenziale determina l’impossibilità del
rinnovo dell’incarico dirigenziale o la revoca dello stesso). Al dirigente responsabile di irregolarità nell'utilizzo del lavoro
flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato.
8
art 36, comma 5: In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori,
da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore
interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni
imperative. Le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti
responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni
del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell'art 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in
sede di valutazione dell'operato del dirigente ai sensi dell'art 5 del d lgs 286/1999.
3 - La nuova disciplina del lavoro a tempo parziale (artt 4 – 12)
1. Introduzione
Con l’entrata in vigore del d lgs 81/2015 viene finalmente concesso al d lgs 61/2000 quell’onore delle armi
auspicato da tempo, prevedendone la completa abrogazione. La soluzione appare condivisibile: tale decreto
(con cui l’ordinamento italiano aveva recepito la direttiva 97/81/CE) era ormai divenuto, dopo un
quindicennio di modifiche legislative, un testo rabberciato e di non facile lettura.
Il contratto a tempo parziale reca con sé una pluralità di problematiche a livello di sistema che lo rendono un
caso di studio peculiare attraverso cui saggiare la tenuta di alcuni principi cardine del nostro ordinamento,
stretto com’è tra esigenze di individualizzazione e un’indubbia necessità di tutela eteronoma.
Il punto di partenza, tutt’ora valido, è la sentenza 210/ 1992 della Corte costituzionale, ove si afferma che la mancata
corresponsione di una retribuzione conforme ai principi di cui all’art 36 Cost, derivante da un contratto a tempo parziale,
è legittimata nella misura in cui sia permesso al lavoratore di programmare altre attività lavorative, attraverso le quali
integrare il reddito.
Evidentemente, tale necessità non potrebbe essere soddisfatta se all’interno del contratto part time fossero riconosciuti
al datore di lavoro gli stessi poteri in ordine alla collocazione della prestazione lavorativa di cui gode nello svolgimento
di un contratto full time, laddove tale modifica unilaterale appare conseguenza naturale del potere dell’imprenditore di
organizzare l’attività aziendale (artt 2086 e 2094 cc) e, in sostanza, ha quale unico limite il rispetto dei principi di
correttezza e buona fede.
2. La definizione legale
Il tempo parziale, le cui prime regolamentazioni nella contrattazione collettiva risalgono agli anni ’70, non
trae la sua legittimità dalla norma legislativa, che lo ha previsto espressamente solo con la legge 863/1984.
L’art 4 dispone: nel rapporto di lavoro subordinato, anche a tempo determinato, l’assunzione può avvenire
a tempo pieno, ai sensi dell’art 3 del d lgs 66/20039, o a tempo parziale. Tale previsione (non dissimile da
quella dell’art 1 del d lgs 61/2001) non esprime solo un mero riconoscimento formale dell’esistenza del
rapporto a tempo parziale: essa rappresenta, in un’ottica di equiparazione tra tempo pieno e tempo parziale,
la definizione del contratto a tempo parziale quale “modalità” di organizzazione dell’orario di lavoro nel
contratto di lavoro subordinato.
Un contratto è part time per il fatto che l’orario concordato per lo svolgimento della prestazione lavorativa è
“parziale” rispetto al tempo pieno: non è il nomen iuris che determina l’orario parziale, bensì è l’orario
parziale che determina il nomen iuris.
Non compaiono più le definizioni “classiche” di tempo parziale di cui all’art 1, comma 2 del d lgs 61/2000:
part time orizzontale (la riduzione di orario è prevista in relazione all’orario normale giornaliero di lavoro);
part time verticale (l’attività lavorativa è svolta a tempo pieno, ma limitatamente a periodi predeterminati nel
corso della settimana, del mese o dell’anno);
part time misto (la prestazione lavorativa si svolge secondo una combinazione delle altre due modalità).
Nulla è però mutato in ordine alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, per cui si può continuare a usare
la tripartizione precedente, anche perché a tali concetti corrispondono ben specifiche modalità di organizzazione del
lavoro a tempo parziale, istituite e conosciute dalla prassi e presenti nella contrattazione collettiva.
Una delle principali questioni sviluppatesi già in seguito alla legge 863/1984 riguardava la forma scritta del
contratto a tempo parziale: un serrato dibattito aveva impegnato dottrina e giurisprudenza in ordine agli
9
L’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali.
effetti della violazione della disposizione, ossia se il requisito fosse richiesto ad substantiam o ad probationem
(oppure quale mero requisito di regolarità amministrativa dell’atto).
Sebbene dottrina e giurisprudenza fossero per lo più coesi nel ritenere la forma scritta quale condizione di validità della
pattuizione, a ciò non seguiva un’uniformità di giudizio sulle conseguenze dell’inosservanza del requisito.
La giurisprudenza maggioritaria, riteneva che alla mancanza della forma scritta dovesse conseguire la rigida applicazione
dei principi civilistici in tema di nullità: al lavoratore spettava solo il diritto alle prestazioni già eseguite (art 2126 cc).
Tuttavia, l’inosservanza della forma scritta, paradossalmente, finiva per ritorcersi contro lo stesso contraente debole,
chiamato a pagare il prezzo della violazione di una regola che, viceversa, ambiva a tutelarlo. Pertanto, vi era in dottrina
chi sosteneva il principio della conservazione del contratto. Di qui, parte della giurisprudenza di merito (minoritaria)
riteneva di poter evincere una presunzione legale di tempo pieno e, dal momento che quest’ultimo sarebbe l’idealtipo
presupposto dal legislatore, il giudice convertiva il contratto in full time.
Infine, il d lgs 61/2000 ha esplicitato la valenza del requisito della forma scritta come ad probationem.
Ora, il d lgs 81/2015 dispone: il contratto di lavoro a tempo parziale è stipulato in forma scritta ai fini di prova
(art 5, comma 1)
L’art 10, comma 1 prevede la sanzione della trasformazione del contratto in tempo pieno (ex nunc): in difetto di prova
in ordine alla stipulazione a tempo parziale del contratto di lavoro, su domanda del lavoratore è dichiarata la
sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno, fermo restando, per il periodo antecedente alla data della
pronuncia giudiziale, il diritto alla retribuzione ed al versamento dei contributi previdenziali dovuti per le prestazioni
effettivamente rese.
Analogamente, qualora nel contratto scritto non sia determinata la durata della prestazione, su domanda del
lavoratore è dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla pronuncia.
Altra ipotesi è invece quella in cui l’omissione riguardi la sola collocazione temporale dell’orario: in questo
caso, non si dà luogo a trasformazione del contratto, ma il giudice determina le modalità temporali di
svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, tenendo conto di alcuni elementi a favore del
lavoratore (responsabilità familiari e necessità di integrare il reddito), ma anche delle esigenze del datore di
lavoro.
Per il periodo antecedente alla pronuncia, il lavoratore ha in entrambi i casi diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta
per le prestazioni effettivamente rese, a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno (art 10, comma 2)
Già il d lgs 276/2003 aveva abrogato il previgente obbligo del datore di lavoro di dare comunicazione dell’assunzione a
tempo parziale alla DPL competente per territorio, mediante invio di copia del contratto entro 30 gg dalla stipulazione.
Ora, viene meno anche la disposizione che prevedeva l’onere per il datore di lavoro di informare le RSA, ove esistenti,
con cadenza annuale, sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, la relativa tipologia e il ricorso al
supplementare. La norma (già prevista nella direttiva 97/81/CE) consentiva un controllo ex post da parte del sindacato.
Sebbene il legislatore non facesse discendere dall’inosservanza dell’onere di informazione alcuna sanzione, era opinione
diffusa che fosse possibile esperire un ricorso ex art 28 Stat Lav, per violazione dei diritti sindacali di informazione.
Circa i contenuti del contratto, l’art 5, comma 2 specifica: nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta
puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell'orario
con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.
L’art 5, comma 3 aggiunge che quando l'organizzazione del lavoro è articolata in turni, l'indicazione della
collocazione temporale dell’orario di lavoro può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di
lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.
L’unico riferimento che l’ordinamento fa al lavoro a turni è contenuto all’art 1, comma 2 lett f) del d lgs 66/2003, che lo
definisce come qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro anche a squadre in base al quale dei lavoratori siano
successivamente occupati negli stessi posti di lavoro, secondo un determinato ritmo, compreso quello rotativo che può
essere di tipo continuo o discontinuo e il quale comporti la necessità per i lavoratori di compiere un lavoro a ore differenti
su un periodo determinato di giorni o di settimane.
Già la circolare 9/2004 del Ministero del Lavoro evidenziava come le previsioni contrattuali (anche di carattere
aziendale) potessero prevedere la programmabilità delle prestazioni a tempo parziale con riferimento a turni articolati
su fasce orarie prestabilite in modo tale che, ove tale indicazione fosse recepita nel contratto individuale, risultasse
soddisfatto il requisito della puntuale indicazione della collocazione temporale della prestazione con riferimento al
giorno, alla settimana, al mese e all’anno.
Di recente, la Corte di Cassazione (sentenza 17009/2014) ha statuito che il contratto di lavoro part time debba ritenersi
valido allorché preveda una precisa e predeterminata articolazione della prestazione a turni, sì che il lavoratore sia posto
in grado di conoscere con esattezza il tempo del suo impiego lavorativo.
Il requisito dell’art 5 di certo non sarebbe soddisfatto ove il rinvio ai turni avvenisse a discrezione del datore di lavoro
(già la giurisprudenza di merito aveva evidenziato come i turni dovessero essere concordati preventivamente, a livello
individuale o collettivo, oltre a determinare le fasce orarie entro cui potesse essere collocata la prestazione). La sentenza
della Cassazione, nel ribadire la necessità che il lavoratore abbia previa conoscenza del periodo di svolgimento della sua
prestazione, aggiungeva che il contratto di lavoro a tempo parziale è compatibile con un’organizzazione del lavoro
articolata su turni predefiniti, purché ciò abbia carattere convenzionale, sottraendosi ad ogni variazione unilaterale del
datore di lavoro.
Quella che potrebbe apparire una modifica di dettaglio (in fin dei conti, il legislatore parrebbe limitarsi a
recepire un orientamento già fatto proprio dall’Amministrazione e dalla giurisprudenza) va debitamente
tenuto in considerazione: proprio dal corretto esplicarsi di tale previsione dipende l’effettiva tenuta del
principio della reale prevedibilità del tempo di lavoro. L’effettiva programmabilità della prestazione lavorativa
del prestatore part time appare in bilico nel suo concreto atteggiarsi, stretta com’è tra il rinvio ai turni
(concordati con il datore) e la previsione legale della puntuale indicazione della durata e della collocazione
temporale dell’orario. In nessun caso la previsione del rinvio (che comunque trova il suo ambito
d’applicazione solo per l’organizzazione del lavoro articolata in turni) potrà considerarsi come un
“grimaldello” per scardinare il principio della programmabilità del tempo di lavoro (o per eludere la disciplina
delle clausole elastiche).
3. Il trattamento del lavoratore a tempo parziale
Passate di moda le suggestioni della dottrina di classificare part time quale rapporto speciale (ossia, un
contratto avente una particolare causa, distinta dalla categoria generale del contratto di lavoro subordinato)
risulta assodata fin dalla prima regolamentazione legislativa la circostanza per cui non si rintraccia nel tempo
parziale alcuna deviazione dal tipo del lavoro subordinato.10
L’art 7, comma 1 (trattamento del lavoratore a tempo parziale), ispirato al principio di non discriminazione
contenuto nella direttiva 97/81/CE, non ne fa però espressa menzione (cosa che invece il legislatore fa all’art
17 per il lavoro intermittente e all’art 25 per i lavoratori a tempo determinato): il lavoratore a tempo parziale
non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari
inquadramento.
Il comma 2 dispone: il lavoratore a tempo parziale ha i medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno
comparabile ed il suo trattamento economico e normativo è riproporzionato in ragione della ridotta entità
della prestazione lavorativa.
10
L’applicazione della disciplina tipica del part time non è dunque limitata dal criterio qualitativo della compatibilità con
la natura del rapporto (che non è diversa da quella del rapporto a tempo pieno), bensì dal criterio quantitativo della
proporzione all’orario ridotto (Mengoni).
Nella vecchia disciplina, si era affermato che il pari trattamento riguardava soli i trattamenti normativi e
implicava la regola del riproporzionamento dei trattamenti economici.11
Secondo il legislatore del 2015 invece anche il trattamento normativo è riproporzionato: i contratti collettivi
possono modulare la durata del periodo di prova, del periodo di preavviso in caso di licenziamento o dimissioni
e quella del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia e infortunio in relazione
all'articolazione dell'orario di lavoro.
È abrogata la previgente ammissione della facoltà per il contratto individuale o il contratto collettivo di prevedere la
corresponsione ai lavoratori a tempo parziale di emolumenti retributivi (in particolare, la parte variabile) in misura più
che proporzionale.
Tale deroga in melius era stata ritenuta dalla giurisprudenza come pienamente legittima, già sotto la vigenza della prima
disciplina legislativa del 1984: la Corte di Cassazione (sentenza 10029/1994) si era espressa favorevolmente circa la
previsione di emolumenti volti a compensare gli aspetti qualitativi della prestazione lavorativa a svantaggio di quelli
quantitativi, purché ciò fosse fatto per favorire il lavoratore, oltre che alla previsione di condizioni più favorevoli rispetto
alla mera automaticità del principio di proporzionalità.
In sostanza, la corresponsione di tali emolumenti potrà essere ancora prevista dal contratto individuale, sulla scorta del
generale principio di cui all’art 2077 cc (efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale).
Ai fini della applicazione di qualsiasi disciplina (legale o contrattuale) l’art 9 dispone in ordine ai criteri di
computo dei lavoratori part time, in modo non dissimile dalla precedente normativa: i lavoratori a tempo
parziale sono computati in proporzione all'orario svolto, rapportato al tempo pieno. A tal fine,
l'arrotondamento opera per le frazioni di orario che eccedono la somma degli orari a tempo parziale
corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno. Rimane quindi vigente il criterio del computo
proporzionale rispetto all’orario svolto.
Il d lgs 61/2000 aveva previsto un importante eccezione alla regola della proporzionalità, disponendo che ai soli fini
dell’applicabilità della disciplina di cui al Titolo III della legge 300/1970, i lavoratori a tempo parziale si computassero
come unità intere, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa. La ratio era intesa valorizzare la
presenza sul luogo di lavoro della persona in sé, a prescindere dalla durata della prestazione.
La novella del 2003 era poi intervenuta abrogando tale disposizione, che non si è mai più riproposta. Attualmente, risulta
estendersi anche nell’ambito dei diritti sindacali la regola generale del computo proporzionato all’orario di lavoro.
11
In dottrina, vi è chi fa discendere la regola del riproporzionamento fra trattamenti (senza distinguere fra quelli
economici e quelli normativi) dalla presenza di un nesso di stretta corrispettività fra trattamento dovuto al lavoratore e
l’estensione temporale della prestazione lavorativa nell’unità di tempo (Ichino).
il lavoratore affetto da patologie oncologiche 12.
il lavoratore affetto da altre patologie cronico-degenerative ingravescenti, per i quali residui una
ridotta capacità lavorativa.
In questi casi, la trasformazione è reversibile, a richiesta del lavoratore
L’art 8, comma 7 prevede poi specificamente che il lavoratore possa chiedere, per una sola volta, in
luogo del congedo parentale o entro i limiti del congedo ancora spettante ai sensi del Capo V del d
lgs 151/2001, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale,
purché con una riduzione d'orario non superiore al 50%. Il datore di lavoro è tenuto a dar corso alla
trasformazione entro 15 gg dalla richiesta.
5. La trasformazione del rapporto di lavoro
L’art 8, comma 1 prevede che il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo
pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
La disposizione (che ripropone la lettera dell’art 5, comma 1 del d lgs 61/2001) ha una matrice europea
(clausola 5.2 della direttiva 97/81/CE), ma va correttamente intesa: essa non prevede un divieto assoluto di
risoluzione del rapporto di lavoro, ma solo che il rifiuto del lavoratore non può giustificare di per sé il recesso
del datore di lavoro.
Parafrasando l’analoga regola (anch’essa di matrice comunitaria) dettata in tema di trasferimento d’azienda, si può
affermare che il rifiuto della trasformazione non costituisce di per sé motivo di licenziamento, ma resta salva la facoltà
di un valido recesso ai sensi della normativa in tema di licenziamenti (art 47, comma 4, legge 428/1990).
Già la legge 863/1984 prevedeva per la riduzione oraria la convalida dell’Ufficio del lavoro, in seguito alla verifica della
libertà e consapevolezza della determinazione del lavoratore.
Il d lgs 61/2001 prevedeva l’accordo tra datore di lavoro e lavoratore risultante da atto scritto, redatto su richiesta del
lavoratore, con l’assistenza di un componente della RSA da lui indicato: in mancanza di RSA nell’unità produttiva,
l’accordo doveva essere convalidato dalla DPL competente per territorio.
Con il d lgs 276/2003 viene soppresso il riferimento all’assistenza sindacale: l’unica sede idonea ad avallare la modifica
negoziale diveniva la sede amministrativa.
Il cd Collegato lavoro (legge 183/2010, art 22, comma 4) cancella anche la convalida in sede amministrativa.
Secondo l’art 8, comma 2 su accordo delle parti, risultante da atto scritto, è ammessa la trasformazione del
rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale. Il cd accordo di trasformazione è dunque nella
piena disponibilità contrattuale delle parti: da un lato, non rilevando pretese a un diritto generale al part
time; dall’altro, non potendosi ammettere alcuna determinazione unilaterale del datore di lavoro (occorre il
consenso del lavoratore).
12
Questa norma, che trovava espressa applicazione dapprima solo per il settore privato, a seguito dell’art 1, comma 44
della legge 247/2007, è stata estesa ai lavoratori del settore pubblico.
Il datore di lavoro, per il soddisfare le proprie esigenze tecnico-organizzative, potrà modificare i rapporti di
lavoro già instaurati, da part time a full time e viceversa.
Il rifiuto del lavoratore potrà determinare (indirettamente) il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fermo
restando l’onere della prova in capo al datore di lavoro circa la sussistenza delle ragioni tecnico-organizzative che
determinano la “soppressione” del posto di lavoro a tempo pieno.
Sulla base della nozione di diligenza imprenditoriale, il datore di lavoro dovrà provare che le circostanze economiche o
produttive in cui si è venuta a trovare l’impresa avrebbero condotto un imprenditore ragionevole all’adozione, fra le
possibili misure, di quel provvedimento poi in concreto adottato, ossia la soppressione del posto di lavoro a tempo pieno
e l’offerta al lavoratore della modifica a tempo parziale, con il conseguente (in caso di rifiuto) licenziamento.
Nel caso inverso (in cui non vi sia soppressione del posto di lavoro, ma anzi vi è una fase di espansione), invece, poiché
il datore di lavoro avrebbe comunque l’alternativa di assumere altri lavoratori a part-time per disporre di tutta la forza
lavoro occorrente a ricoprire la posizione lavorativa, il rifiuto del lavoratore di passare a tempo pieno non potrebbe
giustificare un licenziamento legittimo: in questo caso, non sussiste giustificato motivo oggettivo.
Se l’iniziativa per la trasformazione del rapporto proviene dal lavoratore, il legislatore detta alcune
disposizioni (dal flebile contenuto precettivo) a tutela di tale interesse, derivanti dalla direttiva 97/81/CE, la
quale (clausola 5.3) prevede un generico obbligo di prendere in considerazione le richieste dei lavoratori,
nonché la diffusione in tempo utile di informazioni sugli eventuali posti a tempo parziale disponibili.
Il legislatore nazionale ha “ricalcato” queste disposizioni all’art 8, comma 8: in caso di assunzione di personale
a tempo parziale il datore di lavoro è tenuto a darne tempestiva informazione al personale già dipendente
con rapporto a tempo pieno occupato in unità produttive site nello stesso ambito comunale, anche mediante
comunicazione scritta in luogo accessibile a tutti nei locali dell'impresa, ed a prendere in considerazione le
domande di trasformazione a tempo parziale dei rapporti dei dipendenti a tempo pieno.
Pertanto, pur in presenza di un (minima) proceduralizzazione del potere datoriale, va riscontrata una mera
aspettativa del lavoratore (al part time).
Il d lgs 61/2000 prevedeva un rinvio alla contrattazione collettiva per l’individuazione di criteri applicativi con riguardo
a quelle che si possono definire forme di prelazione per la trasformazione dal tempo pieno al part time.
La previsione trovava la sua ratio solo nella formula originaria della norma, che presupponeva che il rifiuto del datore di
lavoro dovesse essere motivato. Tale inciso venne abrogato già dal d lgs 276/2003.
Circa l’informazione, la norma non prevede tanto un diritto d’informazione in capo al lavoratore che aspiri al
part time, quanto un onere del datore di lavoro (peraltro, privo di sanzione).
Circa l’esistenza di un obbligo del datore di lavoro di considerare la domanda di trasformazione, la norma
non appare in alcun modo giustiziabile, salvo le ipotesi (ricalcate dal vecchio art 12-bis del d lgs 61/2001)
delle patologie oncologiche e delle gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti (art 8, comma 4),
nonché del figlio convivente di età non superiore a 13 anni o portatore di handicap, ai sensi dell’art 3 della
legge 104/1992 (art 8, comma 5: qui però è riconosciuta solo una priorità nella trasformazione del contratto
di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.).
5.2 … dal contratto a tempo parziale al full time
La trasformazione del rapporto di lavoro da part time in tempo pieno (che è sempre sfuggita a quelle cautele
approntate alla fattispecie opposta) richiede l’accordo delle parti o un comportamento concludente, senza
ulteriori obblighi né di forma né di convalida in sede amministrativa. Secondo la giurisprudenza, in base alla
continua prestazione di un orario di lavoro pari a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, il rapporto di
lavoro nato a tempo parziale può trasformarsi in un rapporto di lavoro a tempo pieno, nonostante la
difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non occorrendo alcun requisito formale per
l’automatica trasformazione del rapporto. Ciò avviene per fatti concludenti, in relazione alla prestazione
lavorativa resa, costantemente, secondo l’orario normale o addirittura superiore.
Lungi però dal ritenere tale passaggio come ontologicamente conveniente (per le implicazioni che possono
aversi in caso di un ulteriore lavoro o per questioni personali di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro), la
scelta di rifiutare il passaggio da part time a tempo pieno è soggetta alla stessa tutela dell’art 8, comma 1: il
rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale,
o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento).
1) In giurisprudenza, alcune pronunce ritengono legittimo un eventuale licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
determinato dal rifiuto del lavoratore part time di modificare il proprio rapporto di lavoro in tempo pieno, ritenendo
insindacabile la scelta organizzativa del datore di lavoro di avvalersi della prestazione di un solo dipendente full time
per quella mansione, anziché avvalersi (e ricercare) di un ulteriore dipendente disponibile a lavorare a tempo parziale:
il controllo giudiziale non potrebbe spingersi a sindacare profili di opportunità della scelta.
2) Un più robusto filone giurisprudenziale richiede la prova, da parte dell’impresa, in ordine alle ragioni organizzative
che impongono di coprire l’intero arco della giornata con un solo dipendente, all’inutile ricerca di altro personale a
tempo parziale da collocare in posizione complementare e all’incompatibilità tra l’assunzione di personale a tempo
pieno e il mantenimento del lavoratore a tempo parziale.
3) Un terzo filone giurisprudenziale (minoritario) è stato rinverdito da una recente pronuncia (Cassazione 20016/2012)
il cui iter argomentativo prevede che non ci si trovi nell’ambito di un giudizio di sindacabilità della scelta datoriale, ma
in un momento logico precedente: fermo l’onere della prova del datore di lavoro circa le ragioni tecniche organizzative,
spetta al giudice di verificare il nesso eziologico tra tali ragioni e la decisione dell’imprenditore. Se ai fini della legittimità
del licenziamento per giustificato motivo oggettivo vi deve essere anche uno stretto nesso di consequenzialità e
necessità tra esigenze produttive ed eliminazione del rapporto lavorativo, tanto comporta che la sussistenza di tale
nesso è sottoposta alla verifica giudiziale, la quale però non intacca l’autonomia dell’imprenditore, in quanto egli rimane
pur sempre libero di assumere le sue scelte (insindacabili nella loro opportunità) ritenute maggiormente idonee ai fini
della gestione dell’impresa. In altri termini, quello che viene in considerazione, ai fini di cui trattasi, non è l’opportunità
della determinazione datoriale, quanto piuttosto l’effettività della ragione posta a fondamento della scelta e il nesso di
questa con il singolo rapporto di lavoro coinvolto dalla scelta. In sostanza, a fronte di esigenze organizzative che anziché
determinare la soppressione di una posizione lavorativa ne impongano il suo potenziamento, sembrerebbe potersi
negare la sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento: in tal caso, l’opzione del datore di lavoro (sostituire con
un rapporto a tempo pieno più rapporti di lavoro a tempo parziale) risponderebbe a mere valutazioni economiche e non
a scelte organizzative funzionali.
In ogni caso, non si può escludere in via assoluta la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo: non potrà
essere negata al datore di lavoro la possibilità di allegare e provare, su basi oggettive, l’esistenza di
insuperabili disagi di carattere organizzativo (non semplicemente economico) legati al fatto di dover fare
affidamento su 2 lavoratori part time in luogo di 1 unico lavoratore a tempo pieno (da cui la legittimità del
licenziamento conseguente al rifiuto del lavoratore part time di trasformare il proprio rapporto in full time).
6. Diritto di precedenza
Non si rinviene nel testo legislativo (nemmeno nella normativa abrogata) alcun generale diritto di precedenza
dei lavoratori part-time nelle assunzioni a tempo pieno: solo per il lavoratore il cui rapporto sia trasformato
da tempo pieno in tempo parziale è previsto il diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo
pieno per l'espletamento delle stesse mansioni o di mansioni di pari livello e categoria legale rispetto a quelle
oggetto del rapporto di lavoro a tempo parziale (art 8, comma 6).
Al momento della redazione della legge 863/1984, si poteva notare, nella contrattazione collettiva, la comparsa con
notevole frequenza della clausola che attribuisce ai lavoratori part time un diritto di priorità per il passaggio a full time
in caso di assunzioni per posizioni di analogo contenuto professionale. Pertanto, era previsto il diritto di precedenza nei
confronti dei lavoratori con contratto a tempo parziale, con priorità per coloro che, già dipendenti, avevano trasformato
il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Il diritto appare però estremamente generico, non essendo in
alcun modo esplicato né quali tipologie di assunzione determinassero il diritto, né una procedimentalizzazione
nell’esercizio dello stesso. Inoltre, non erano specificate le sanzioni civilistiche in caso di violazione.
Il problema viene risolto dal d lgs 61/2000, il quale prevedeva un diritto al risarcimento per il lavoratore in misura
corrispondente alla differenza tra l’importo della retribuzione percepita e quella che avrebbe percepito nei 6 mesi
successivi al passaggio dal tempo parziale al tempo pieno. Inoltre, si pone al diritto di precedenza un duplice limite:
1) il diritto spetta ai lavoratori part time in attività preso unità produttive site entro 100 km dall’unità produttiva
interessata alla programmata assunzione (tale raggio di operatività è stato poi ridotto a 50 km dal d lgs 100/2001);
2) il diritto spetta ai lavoratori part time adibiti alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti rispetto a quelle con
riguardo alle quali è prevista l’assunzione.
Tra i soggetti titolari del diritto di precedenza, il legislatore prevedeva poi una priorità assoluta per i dipendenti che
avessero già effettuato una trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, rispetto ad altri lavoratori
assunti fin dall’inizio a orario ridotto.
Il d lgs 276/2003 modifica in profondità l’assetto normativo: il diritto di precedenza non discende più dalla legge, ma
può essere previsto da una clausola del contratto individuale; inoltre, fermo il requisito della identità o equivalenza delle
mansioni rispetto a quelle per le quali è prevista l’assunzione, l’eventuale diritto di precedenza spetta solo in favore dei
lavoratori assunti a tempo parziale in attività presso unità produttive site nello stesso ambito comunale, riducendone
così in modo rilevante l’ambito territoriale di efficacia.
La legge 247/2007 interviene in modo tecnicamente più complesso. Si introduce un diritto di precedenza di fonte legale
(art 12-bis del d lgs 61/2001), sempre in relazione alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti a quelle oggetto del
rapporto part time, ma titolari di tale diritto erano solo i dipendenti che già avevano trasformato in part time un
precedente contratto a tempo pieno. Inoltre, non vi è alcun accenno all’ambito territoriale, né alcuna scadenza
temporale, né sono esplicitati dal legislatore i criteri che il datore di lavoro deve utilizzare per operare la scelta qualora
vi fossero più lavoratori già trasformati in part time a poter vantare il diritto di precedenza.
7. La flessibilità interna
L’altra tematica che da sempre rappresenta uno dei principali snodi teorici del lavoro a tempo parziale è
quella di una flessibilità ulteriore rispetto alla semplice stipulazione del contratto: nel d lgs 81/1015, si tratta
dell’art 6 (lavoro supplementare, lavoro straordinario, clausole elastiche).
Da un punto di vista di sistema, dottrina e giurisprudenza nel corso del tempo hanno articolato le diverse
declinazioni dell’unitaria nozione di potere direttivo dell’imprenditore (non specificato dal codice civile)
segnalando come alcune manifestazioni di tale potere abbiano un impatto differente a seconda che vengano
esercitate all’interno di un contratto con un orario di lavoro a tempo pieno o a tempo parziale. Si tratta della
possibilità di determinare la collocazione oraria della prestazione di lavoro: mentre tale manifestazione del
potere datoriale è libera nel rapporto di lavoro a tempo pieno, per il part time, il legislatore ha positivizzato
precisi vincoli (derivanti dalla sentenza della Corte costituzionale 210/1992):
1) il contratto deve recare puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione
temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno (art 5, comma 2);
2) tale indicazione può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce
orarie prestabilite (art 5, comma 3), quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni.
Nella versione originaria del d lgs 61/2001 (art 3, comma 7) i contratti collettivi potevano prevedere clausole flessibili 13
e clausole elastiche14 determinando le condizioni e le modalità con cui il datore di lavoro poteva modificare la
collocazione temporale o variare la durata della prestazione lavorativa, rispetto a quella inizialmente concordata.
Superato il filtro posto dalla contrattazione collettiva, restava il profilo concernente l’autonomia individuale:
l’apposizione delle clausole richiedeva il consenso del lavoratore formalizzato in uno specifico patto scritto, anche
contestuale al contratto di lavoro, reso, su richiesta del lavoratore, con l'assistenza di un componente della RSA indicato
dal lavoratore medesimo (art 3, comma 9).
Era poi previsto anche una sorta di ripensamento, (art 3, comma 10) che si atteggiava a facoltà per il prestatore di lavoro
di recedere unilateralmente dalla clausola, a determinate condizioni 15.
Per l’orario supplementare, ancora una volta, veniva assegnato un ruolo rilevante alla contrattazione collettiva, a cui era
demandato di fissare le modalità di effettuazione dell’orario eccedente, stabilendo (art 3, comma 2):
1) il numero massimo di ore di lavoro supplementari effettuabili in ragione d’anno e nella singola giornata lavorativa
2) le causali per le quali si può richiedere ad un lavoratore a tempo parziale lo svolgimento di lavoro supplementare.
Ma, anche in questo caso, al primo filtro di matrice collettiva, il legislatore ne aggiungeva un secondo di carattere
individuale (art 3, comma 3), prevedendo che per l'effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare occorresse in
ogni caso il consenso del lavoratore interessato. L'eventuale rifiuto dello stesso non costituisce infrazione disciplinare, né
integra gli estremi del giustificato motivo di licenziamento.
Un punto di rottura si ebbe con il d lgs 276/2003: in tema di clausole flessibili ed elastiche, la norma continuava a rinviare
alla contrattazione collettiva, ma in assenza di contratti collettivi, l’apposizione delle clausole era demandata alla libertà
delle parti (il legislatore puntava di fatto a deregolare l’istituto).
Nel precedente sistema a “doppia chiave”, a fronte della regolamentazione collettiva del lavoro supplementare, il
consenso del lavoratore era richiesto in ogni caso, non potendo essere imposta l’effettuazione di ore di lavoro in più
rispetto a quanto concordato in sede di contratto individuale, quale che fosse in materia la disciplina collettiva. Inoltre,
la tutela dell’eventuale dissenso era rafforzata dalla previsione per cui il rifiuto non poteva costituire infrazione
disciplinare, né integrare gli estremi del giustificato motivo di licenziamento.
Ora, a seguito della riforma, il consenso individuale diventava eventuale, potendo essere sostituito dalla contrattazione
collettiva (secondo una modalità paradossale per una normativa che nasce con l’intento di enfatizzare il ruolo e il libero
esplicarsi dell’autonomia individuale rispetto alla tanto contestata disciplina previgente).
In tema delle clausole flessibili ed elastiche, la legge 247/2007 riformula l’art 3, comma 7 del d lgs 61/2000 e attribuisce
la possibilità di concordare clausole flessibili ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
L’autonomia collettiva riacquistava la sua funzione autorizzatoria, ritornando ad essere necessaria (ma non sufficiente)
per l’introduzione delle clausole, potendo altresì stabilire le condizioni e le modalità in relazione alle quali il datore di
lavoro poteva modificare la collocazione e la durata temporale, oltre che i limiti massimi di variabilità in aumento della
prestazione lavorativa. Non era consentita una pattuizione individuale delle clausole, essendo stata disposta
l’abrogazione dell’art 8, comma 2-ter del d lgs 61/2000, il quale prevedeva che, in assenza di contratti collettivi, il datore
di lavoro e il prestatore potessero concordare direttamente l’adozione delle clausole.
13
Le clausole flessibili prevedono la possibilità di modificare la collocazione temporale della prestazione di lavoro e
possono essere contenute in tutte e tre le tipologie di contratto part-time.
14
Le clausole elastiche prevedono la possibilità di aumentare la durata della prestazione di lavoro rispetto a quanto
fissato originariamente e possono essere stipulate nei rapporti di part-time verticale o misto.
15
Il lavoratore avrebbe potuto denunciare il patto per una delle seguenti ragioni: a) esigenze di carattere familiare; b)
esigenze di tutela della salute certificate dal competente Servizio sanitario pubblico; c) necessità di attendere ad altra
attività lavorativa subordinata o autonoma. I contratti collettivi avrebbero potuto disciplinare criteri e modalità per
l'esercizio della denuncia anche nel caso di esigenze di studio o di formazione e anche per ulteriori ragioni obiettive.
La legge 183/2011 ha abrogato le modifiche del legislatore del 2007, facendo riacquistare efficacia le disposizioni
introdotte dal d lgs 276/2003: anche in assenza di contratti collettivi, datore di lavoro e prestatore possono concordare
direttamente l’adozione delle clausole e il preavviso legale torna ad essere di 2 giorni.
Anche la legge 92/2012 interviene sul contratto a tempo parziale, ma questa volta opera sul diritto di ripensamento, in
virtù del quale un lavoratore ha il diritto potestativo di ritirare il consenso prestato alla flessibilità oraria. Il legislatore
delega la contrattazione collettiva a stabilire le condizioni e le modalità che consentono al lavoratore di richiedere
l’eliminazione o la modifica delle clausole flessibili ed elastiche, ma prevede un diritto di ripensamento immediatamente
esigibile solo in due casi:
2 - per i lavoratori studenti di cui all’art 10, comma 1 della legge 300/1970.
Nel d lgs 81/2015, un’importante novità è rappresentata dall’abbandono della nozione di clausole flessibili:
il legislatore dà ora una definizione unitaria che assorbe nell’unica fattispecie delle clausole elastiche sia
quelle relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa sia quelle
concernenti la variazione in aumento della sua durata).
Si tratta di uno snodo centrale della disciplina: tali clausole attribuiscono al datore di lavoro un potere
unilaterale (ius variandi) di modificare la durata o la collocazione temporale della prestazione lavorativa, il
che rappresenta una risorsa in termini di flessibilità, ma anche una compressione della programmabilità dei
tempi di vita e di lavoro per il lavoratore.
Tali clausole possono essere stipulate dalle parti nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi.
A) Ove disciplinate dai contratti collettivi, le parti del contratto di lavoro a tempo parziale possono pattuire,
per iscritto, clausole elastiche (art 6, comma 4).
Naturalmente, il rifiuto dal lavoratore di concordare variazioni dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo
di licenziamento (art 6, comma 8).
In ogni caso, il lavoratore ha diritto a un preavviso di 2 giorni lavorativi, fatte salve le diverse intese tra le parti, nonché
a specifiche compensazioni, nella misura ovvero nelle forme determinate dai contratti collettivi (art 6, comma 5)
B) Ove i contratti collettivi non contengano alcuna regolamentazione sulla materia, salta il meccanismo della
“doppia chiave”: l’art 6, comma 6 dispone che la disciplina possa essere pattuita tra le parti stesse, ma
prevede che la sottoscrizione delle clausole avvenga avanti alle commissioni di certificazione, con facoltà del
lavoratore di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce
mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Inoltre, è previsto un contenuto minimo delle
clausole (a pena di nullità):
le condizioni e le modalità con le quali il datore di lavoro, con preavviso di 2 giorni lavorativi, può
modificare la collocazione temporale della prestazione e variarne in aumento la durata,
la misura massima dell'aumento, che non può eccedere il limite del 25% della normale prestazione
annua a tempo parziale
una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell'incidenza
della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti.
L’art 6, comma 7 prevede solo alcune fattispecie per revoca del consenso alle clausole elastiche:
1) i lavoratori studenti
2) i lavoratori con patologie oncologiche o che assistono persone con patologie oncologiche o disabilità grave.
È previsto anche un regime sanzionatorio: lo svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche
senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e dei limiti previsti dalla legge o dai contratti collettivi
comporta il diritto del lavoratore, in aggiunta alla retribuzione dovuta, a un'ulteriore somma a titolo di
risarcimento del danno (art 10, comma 3).
Il legislatore definisce come prestazioni supplementari quelle svolte oltre l'orario concordato fra le parti ai
sensi dell'art 5, comma 2, anche in relazione alle giornate, alle settimane o ai mesi (art 6, comma 1).
A) Il lavoro supplementare è obbligatorio nel caso in cui sia disciplinato dal contratto collettivo applicato.
B) L’art 6, comma 2 specifica che ove il contratto collettivo applicato non disciplini il lavoro supplementare,
il datore di lavoro può richiedere al lavoratore lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare: in
questo caso, il lavoro supplementare è obbligatorio, ma in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro
settimanali concordate. Inoltre, il lavoro supplementare è retribuito con una maggiorazione del 15% della
retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell'incidenza della retribuzione delle ore supplementari
sugli istituti retributivi indiretti e differiti.
Il d lgs 61/2000 prevedeva il consenso del lavoratore interessato e tutelava il rifiuto da parte del lavoratore,
che non poteva integrare in nessun caso gli estremi del giustificato motivo di licenziamento. Tale tutela è
stata abrogata e non è più prevista: il lavoratore può rifiutare lo svolgimento del lavoro supplementare ove
giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale.
Circa il problema dello svolgimento endemico e strutturale del lavoro supplementare, il d lgs 61/2001 prevedeva il diritto
al consolidamento dell’orario di lavoro, su richiesta del lavoratore: tale norma è stato abrogata dal d lgs 276/2007 e non
è più stata riproposta dal legislatore.
8. La disciplina previdenziale
Le norme previdenziali che si applicano al part time sono le stesse fin dalla prima regolamentazione
dell’istituto: l’art 11 riprende integralmente il precedente art 9 del d lgs 61/2000, a sua volta ispirato dall’art
5, comma 11 della legge 863/1984.
Decisiva nel mancato sviluppo della fattispecie del tempo parziale era stata, in passato, proprio l’incidenza
estremamente negativa della disciplina previdenziale, la quale avendo a paradigma di riferimento il rapporto a tempo
pieno, comportava pesanti conseguenze sia per il datore di lavoro sia per il lavoratore part time.
Il problema era rappresentato dalla presenza del minimo retributivo giornaliero imponibile, per il quale prevaleva in
giurisprudenza l’orientamento circa la sua infrazionabilità (tesi sostenuta anche dall’INPS): ai fini del calcolo dei
contributi previdenziali nel contratto part time sussisteva l’obbligo di osservare il minimale giornaliero di retribuzione,
non riducibile in proporzione all’eventuale orario ridotto osservato. Per il datore di lavoro, un rapporto di lavoro a tempo
parziale era, sotto questo aspetto, tutt’altro che conveniente, comportando oneri contributivi proporzionalmente
superiori rispetto a una prestazione ad orario pieno. Implicazioni ancora più rilevanti riguardavano il lavoratore ove la
trasformazione da tempo pieno a part time fosse avvenuta a ridosso del pensionamento, stante il calcolo con metodo
retributivo: quell’ammontare avrebbe avuto una ripercussione permanente in termini di ammontare della pensione.
L’art 5, comma 11 della legge 863/1984 superava la rigida regola dell’infrazionabilità del minimale giornaliero di
retribuzione (e quindi di contribuzione), rendendo possibile la sua frazionabilità in proporzione alle ore di lavoro
effettivamente svolte (tale minimale si ottiene rapportando il minimale giornaliero alle giornate di lavoro settimanale
a orario normale e dividendo l'importo così ottenuto con il numero delle ore settimanali previste per il tempo pieno: se
il lavoratore è retribuito mensilmente e lavora con settimana corta, le giornate da considerare sono sempre 6, mentre
se è retribuito a ore, il sabato non lavorativo è escluso). Inoltre, si stabiliva che la retribuzione minima oraria, da
prendere a riferimento quale base di calcolo dei contributi previdenziali, doveva rapportarsi ad 1/6 del minimale
giornaliero di cui all’art 7, comma 11 della legge 638/1983 (stabilito dall'INPS nel mese di gennaio di ciascun anno e pari
al 9,50% dell'importo del trattamento minimo di pensione in vigore al 1° gennaio).
L’art 11 comma 1 del d lgs 81/2015 non innova alcunché in materia: la retribuzione minima oraria, da assumere quale
base per il calcolo dei contributi previdenziali dovuti per i lavoratori a tempo parziale, si determina rapportando alle
giornate di lavoro settimanale ad orario normale il minimale giornaliero di cui all'art 7 del DL 463/1983, convertito, con
modificazioni, dalla legge 638/1983, e dividendo l'importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale
settimanale previsto dal contratto collettivo nazionale di categoria per i lavoratori a tempo pieno.
Inoltre, il comma 4 prevede: nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a
tempo parziale e viceversa, ai fini della determinazione dell'ammontare del trattamento di pensione si computa per
intero l'anzianità relativa ai periodi di lavoro a tempo pieno e, in proporzione all'orario effettivamente svolto, l'anzianità
inerente ai periodi di lavoro a tempo parziale.
Dapprima, il comma 58 prevedeva che la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale
avvenisse entro 60 gg dalla domanda. Ciò faceva ritenere che la trasformazione avvenisse automaticamente al 61°
giorno dalla richiesta del dipendente, in caso di silenzio dell’ente, indipendentemente dalla stipulazione del contratto
individuale (la cui forma scritta è richiesta, tenuto conto di quanto previsto dal lgs 61/2000, ad probationem). Entro il
termine di 60 gg, l’Amministrazione poteva esercitare, con provvedimento motivato, un mero differimento della
trasformazione, per un periodo comunque non superiore 6 mesi, nel solo caso in cui la trasformazione comportasse, in
relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, grave pregiudizio alla funzionalità
dell’amministrazione stessa.
Con la novella legislativa del 2008, le previsioni mutano radicalmente: la trasformazione può essere concessa
dall’amministrazione, la quale dunque utilizzerà il proprio potere di valutazione discrezionale della domanda (sebbene
il legislatore mantenga il termine di 60 gg entro cui l’ente deve rispondere). Secondo il comma 58 della legge 662/1996
la domanda di conversione sarà accolta laddove, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal
dipendente, la trasformazione non rechi pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa.
Il legislatore non si è limitato a questo. Il cd Collegato lavoro (legge 183/2010), attraverso una disposizione transitoria
(art 16), aveva previsto una sorta di diritto di ripensamento in capo alle amministrazioni, rispetto ai provvedimenti di
concessione di trasformazione in tempo parziale già posti in essere ai sensi della previgente disciplina, prevedendo un
duplice limite:
1) temporale, poiché la nuova valutazione con cui si poteva imporre la ritrasformazione del rapporto di lavoro doveva
avvenire entro 180 gg dall’entrata in vigore della legge;
2) sostanziale, poiché il legislatore precisava che tale valutazione dovesse avvenire nel rispetto dei principi di correttezza
e buona fede.
Dall’applicazione di questa disposizione è scaturito un vivace contrasto giurisprudenziale e, da ultimo, sulla vicenda si è
pronunciata la Corte di Giustizia, la quale ha valutato conforme alla direttiva una normativa che permette al datore di
lavoro di disporre, per ragioni obiettive, la trasformazione del contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in
contratto a tempo pieno senza il consenso del lavoratore interessato, ritenendo che una situazione in cui il contratto di
lavoro a tempo parziale è trasformato in un contratto di lavoro a tempo pieno senza l’accordo del lavoratore interessato
e una situazione in cui un lavoratore vede il suo contratto di lavoro a tempo pieno trasformato in un contratto di lavoro
a tempo parziale contro la sua volontà non possono essere considerate situazioni comparabili, dato che la riduzione del
tempo di lavoro non comporta le stesse conseguenze del suo aumento, in particolare a livello di remunerazione del
lavoratore, che rappresenta la contropartita della prestazione lavorativa.
La Corte sembra ritenere che la trasformazione in tempo pieno non possa che risultare di per sé positiva ed esente da
problemi per il lavoratore interessato, per il solo fatto che determinerebbe una maggiore retribuzione, con buona pace
delle complesse problematiche relative alle scelte di vita dei lavoratori stessi.
A conclusioni non dissimili era comunque giunta anche la Corte costituzionale (sentenza 224/2013) avendo ritenuto che
la normativa (che dava la possibilità di ritrasformare il rapporto di lavoro in tempo pieno entro 180 gg dall’entrata in
vigore della legge) fosse compatibile con i principi della clausola 5.2 dell’accordo quadro, interpretando la norma nel
senso che il lavoratore non è assoggettato incondizionatamente alle determinazioni unilaterali del datore di lavoro
pubblico ai fini della trasformazione del rapporto di lavoro da part time a full time. In mancanza di tali presupposti, il
dipendente può legittimamente rifiutare di passare al tempo pieno e, per ciò solo, non può mai essere licenziato.
Nell’attuale assetto del tempo parziale nel pubblico impiego, non vi è dubbio che viene ad essere nuovamente espansa
la sfera di discrezionalità della PA, dal momento che il legislatore attribuisce prevalenza alle ragioni organizzative
dell’amministrazione. Tuttavia, non si tratta di una prevalenza assoluta sulle ragioni del dipendente, poiché l’eventuale
diniego non è insindacabile, come si deduce dall’obbligo in capo all’amministrazione di motivare il rifiuto del part time.
La Corte ritenne le clausole elastiche, che attribuivano al datore la possibilità di determinare unilateralmente la
collocazione della prestazione lavorativa, nulle, in quanto contrarie alla lettera e alla ratio dell’art 5 legge 863/1984 e
comunque in contrasto con diversi parametri costituzionali (in primis, l’art 36, comma 1 Cost), nella misura in cui tali
pattuizioni impedivano al lavoratore di programmare altre attività con le quali integrare il reddito lavorativo ricavato
dal rapporto a tempo parziale. Tuttavia, la Corte fu più possibilista circa l’assoggettamento del lavoratore ad un potere
di chiamata esercitabile non ad libitum, bensì entro coordinate temporali contrattualmente predeterminate od
oggettivamente predeterminabili.
Ciò permise al legislatore di regolare espressamente le clausole elastiche nella disciplina del part-time.
Con il d lgs 61/2000, in occasione del recepimento della direttiva 97/81/CE e in ossequio alla decisione della Corte
costituzionale, fu imposto alle parti di dare nel contratto puntuale indicazione della durata della prestazione e della
collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. Al contempo, venne
introdotta la possibilità per le parti di stipulare clausole elastiche (il datore di lavoro avrebbe potuto variare la
collocazione dell’orario di lavoro in origine indicata nel contratto individuale), ma circondandole di grandi cautele:
potevano essere concluse solo se regolate dalla contrattazione collettiva, richiedevano il consenso del lavoratore
(revocabile), davano diritto a una maggiorazione retributiva.
Il sistema raggiunse un assetto che può definirsi stabile con il d lgs 276/2003.
Da un lato, venne novellata la disciplina del part time, liberalizzando le clausole elastiche: fu consentita la
stipulazione anche in assenza di regolazione dei contratti collettivi e venne eliminata la facoltà del lavoratore
di revoca del proprio consenso.
Dall’altro, gli artt 33 – 40 introdussero l’istituto del lavoro intermittente.
2. Il lavoro intermittente nel d lgs 276/2003: navigazione in tempesta, naufragio, riemersione e restyling
Nonostante il lavoro intermittente sia stato fin da subito stigmatizzato come l’emblema stesso della
precarietà introdotta dalla cd legge Biagi, tale tipologia contrattuale venne dapprima assai poco utilizzata. Al
punto che il legislatore del 2005 eliminò i requisiti soggettivi (sopprimendo il carattere sperimentale del
contratto stipulato in base a tali presupposti: art 1-bis DL 32/2005, convertito in legge 80/2005).
Si spiega quasi esclusivamente con un’operazione di natura ideologica l’abolizione dell’istituto da parte della
legge 247/2007 (Governo Prodi): l’art 1, comma 45 abrogò gli artt 33 – 40 d lgs 276/2003, mentre i commi
47 – 50 reintrodussero invece una fattispecie molto limitata di lavoro intermittente, consegnando la
regolazione di dettaglio all’autonomia collettiva.
Il contratto poteva avere ad oggetto prestazioni di carattere discontinuo esclusivamente nei settori del turismo e dello
spettacolo, segnatamente durante il fine settimana, nelle festività, nei periodi di vacanze scolastiche e per ulteriori casi
identificati dalla contrattazione collettiva e poteva declinarsi sia nella fattispecie con obbligo del lavoratore di rispondere
alla chiamata (con indennità di disponibilità) sia in quella priva di tale obbligo. L’istituto aveva carattere sperimentale
(era prevista una verifica tra Ministero del Lavoro e parti sociali decorsi 2 anni dall’emanazione delle disposizioni
contrattuali di attuazione) e sarebbe stato attivato solo nel caso in cui la contrattazione collettiva avesse provveduto a
precisarne la regolazione.
Pochi mesi dopo la loro abrogazione, gli artt 33 – 40 d lgs 276/2003 furono però riportati in vita dal Governo
di centro-destra (art 39, comma 11 DL 112/2008, convertito in legge 133/2008).
Negli anni successivi, si assistette ad un deciso incremento nell’utilizzo del lavoro intermittente, complice
anche la grave crisi economico-finanziaria che proprio nel 2008 cominciava ad affacciarsi.
Una prassi disinvolta dell’istituto scoprì quanto un paio di decenni prima era già stato segnalato nella
giurisprudenza del Tribunale federale tedesco del lavoro: il contratto di lavoro a chiamata può facilmente
essere utilizzato per aggirare la tutela dei licenziamenti. In particolare, la variante senza obbligo di chiamata,
consentiva al datore di lavoro di liberarsi di un lavoratore divenuto sgradito senza nemmeno bisogno di
ricorrere al recesso, potendosi limitare a non convocare più il dipendente, senza alcuna conseguenza di
carattere economico o normativo.
Più in generale, la tipologia contrattuale del lavoro a chiamata è in grado di spostare il rischio dell’assenza di
lavoro totalmente in capo al prestatore, con esiti precarizzanti che nessun legislatore, nemmeno il più
liberista, può sottovalutare.
Si spiegano così le cautele introdotte dalla legge Fornero (legge 92/2012), in cui obiettivo di politica del diritto
consisteva nel riequilibrio tra flessibilità in entrata e flessibilità in uscita nell’ottica europea di flessicurezza.
Vennero introdotte modifiche volte unicamente a ridurre la ipotesi di abuso del contratto intermittente.
a) Circa il requisito oggettivo, l’abrogazione dell’art 37 d lgs 276/2003 sottrasse all’autonomia individuale la
possibilità di concludere il contratto per prestazioni da rendersi durante il fine settimana, le ferie estive, le
vacanze pasquali e natalizie, attribuendo ai contratti collettivi la facoltà di individuare i periodi predeterminati
della settimana, del mese e dell’anno durante i quali sarebbe stato possibile svolgere lavoro intermittente
[art 1, comma 21, lett a) n 1 e lett c)].
b) Circa il requisito soggettivo (che consentiva la stipulazione del contratto anche al di fuori delle esigenze di
carattere discontinuo o intermittente individuate dalla contrattazione collettiva o dall’intervento sostitutivo
del Ministero del Lavoro), il contratto avrebbe potuto essere concluso solo con soggetti di meno di 24 anni
di età, purché le prestazioni fossero svolte entro il 25° anno, nonché a partire dal 45° anno di età [art 34,
comma 2, d lgs 276/2003 come sostituito dall’art 1, comma 21 lett a) n 2 legge 92/2012].
c) Fu infine introdotto un obbligo di comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro, mediante sms, fax o
posta elettronica prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata
non superiore a 30 giorni (la violazione era punita con sanzione amministrativa).
Il decreto Giovannini (DL 76/2013, convertito in legge 99/ 2013) completò il restyling del lavoro intermittente,
introducendo un limite quantitativo al suo utilizzo [art 7, comma 2, lett a) che introduceva nell’art 34 d lgs
276/2003 un nuovo comma 2-bis]. Ad eccezione dei settori turismo, pubblici esercizi e spettacolo, un
lavoratore avrebbe potuto essere impiegato presso il medesimo settore con tale tipologia contrattuale per
un periodo complessivamente non superiore alle 400 giornate in un triennio (al superamento del limite il
rapporto sarebbe divenuto a tempo pieno e indeterminato).
3. Il d lgs 81/2015: molte conferme e un paio di smentite
La direttrice di semplificazione del d lgs 81/2015 ha investito massicciamente taluni istituti (part time,
somministrazione a tempo indeterminato), altri sono stati sensibilmente modificati (apprendistato), qualcuno
perfino abolito (lavoro ripartito, lavoro a progetto, associazione in partecipazione con apporto di lavoro).
Invece, il contratto di lavoro intermittente si colloca tra i pochi, insieme al contratto a termine, alla
somministrazione a tempo determinato e al lavoro accessorio, che hanno subito solo alcuni ritocchi. Sono
solo 2 le modifiche di un certo rilievo per quanto riguarda il lavoro intermittente.
Una riformulazione dell’art 34, comma 1 d lgs 276/2003 fuga ogni dubbio sul fatto che l’individuazione dei
periodi nell’arco della settimana, del mese o dell’anno durante i quali si può fare uso di prestazioni
intermittenti è rimessa ai contratti collettivi o in via sostitutiva all’intervento ministeriale: non può essere
effettuata dall’autonomia individuale (art 13, comma 1).
Nella tipologia con obbligo di rispondere alla chiamata, non è più previsto il risarcimento del danno in favore
del datore per il caso di rifiuto ingiustificato del lavoratore a rendere la prestazione, prima stabilito dall’art
36, comma 6 d lgs 276/2003 (art 16).
In altri casi si tratta di cambiamenti più marginali o di restyling, con un impatto più limitato sulla disciplina.
Lo strumento antielusivo dell’art 34, comma 2-bis d lgs 276/2003, che innesca la conversione in contratto standard al
superamento delle 400 giornate di effettivo lavoro nel triennio (DL 76/2013), viene conservato dall’art 13, comma 3,
ma viene espunta la precisazione fermi restando i presupposti di instaurazione del rapporto di lavoro intermittente.
Nell’art 13, comma 4 non viene riproposto l’inciso secondo cui il prestatore con obbligo di risposta alla chiamata non è
titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati durante il periodo di disponibilità (diversamente dall’art
38, comma 3 d lgs 276/2003).
In materia di divieti di stipulazione [art 34, comma 3 lett b) d lgs 276/2003], viene soppressa la possibilità per la
contrattazione collettiva di derogare al divieto operante quando nei 6 mesi precedenti siano stati effettuati
licenziamenti collettivi o siano in atto sospensioni del rapporto o riduzioni dell’orario con diritto al trattamento di
integrazione salariale per dipendenti con le stesse mansioni [art 14, comma 1 lett b)].
Si è discusso in dottrina se al contratto a lavoro intermittente stipulato a termine si applichi, in quanto compatibile,
anche la disciplina (e soprattutto i limiti) del contratto a tempo determinato. La risposta è SI, per almeno 2 ragioni.
La prima è di carattere sistematico, a fronte del principio generale secondo cui il contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro (art 1), tale favor del legislatore per il tempo
indeterminato induce a propendere per l’assoggettamento del lavoro intermittente a termine alle regole di cui agli artt
19 – 29 del d lgs 81/2015, tanto più che l’istituto non compare tra le esclusioni e le discipline specifiche di cui all’art 29.
La seconda ragione tiene conto dell’evoluzione normativa dei contratti a termine. L’incompatibilità dell’apposizione del
termine al lavoro intermittente veniva affermata in relazione alle causali, che avevano poco senso rispetto ad un
rapporto contrattuale caratterizzato da prestazioni intermittenti o discontinue. Ora che i limiti posti al contratto a
termine attengono unicamente alla sua durata e al contingentamento, non si ravvisano più vincoli di sorta all’estensione
selettiva della disciplina ai lavoratori intermittenti, che saranno così computati pro quota (art 18) ai fini del
raggiungimento della percentuale massima consentita nell’impiego di lavoratori a termine.
La stipulazione di un contratto intermittente non è sempre consentita: devono sussistere requisiti oggettivi
e, alternativamente, requisiti soggettivi.
I requisiti oggettivi attengono alle esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla
possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno
(art 13, comma 1). Tali esigenze devono essere relative a prestazioni di lavoro discontinuo o intermittente:
dunque ragioni produttive od organizzative di carattere discontinuo, che spetta ai contratti collettivi16
concretizzare (con riserva di controllo giudiziale).
In mancanza di determinazioni da parte del contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente,
compresi anche i periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno sono individuati con
decreto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
Il decreto ministeriale si caratterizza per la cedevolezza: esso lascerà il posto ai contratti collettiva quando la disciplina
sarà posta in essere. A seguito di un interpello proposto da Federalberghi (2016), il Ministero del Lavoro ha chiarito che
il decreto in questione è il DM 23 ottobre 2004, che rinvia alle ipotesi previste dal RD 2657/1923.
Ove non sussista alcun requisito oggettivo, il datore di lavoro potrà in ogni caso stipulare contratti di lavoro
intermittente con lavoratori rientranti nelle fasce di età di cui all’art 13, comma 2 (requisito soggettivo):
meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il 25° anno e più di 55 anni. Con
questi limiti il legislatore persegue il fine di evitare che nella fascia centrale di età siano impiegati con lavoro
a chiamata soggetti che potrebbero (o dovrebbero) conseguire una stabile occupazione, nonché, al tempo
stesso, di facilitare l’inserimento al lavoro dei giovani e delle persone prossime alla pensione, categorie per
le quali la precarietà connessa al lavoro intermittente è considerata più tollerabile.
Poiché in questo caso non sono richieste le esigenze di carattere discontinuo o intermittente né i periodi predeterminati
nell’arco della settimana, del mese o dell’anno (quindi appaiono più elevati i rischi di abuso del lavoro a chiamata), già
con la legge 92/2012 la platea dei beneficiari venne ristretta, elevando l’età di accesso dei più anziani da 45 a 55 anni e
precisando che il contratto perde efficacia per i più giovani al compimento del 25° anno.
16
I contratti collettivi cui è affidato il compito di identificare i requisiti oggettivi sono quelli nazionali, territoriali o
aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti
collettivi aziendali stipulati dalle loro RSA ovvero dalla RSU (art 51).
Il decreto ribadisce 4 divieti di utilizzo del lavoro intermittente già presenti nel d lgs 276/2003:
Rispetto alla nuova disciplina dei licenziamenti (d lgs 23/2015), va considerato che i periodi non lavorati non
contribuiscono ad accrescere l’anzianità aziendale, su cui è calcolata l’indennità risarcitoria, che ora costituisce il rimedio
principale al recesso datoriale ingiustificato. L’indennità di disponibilità non entra nel calcolo della retribuzione utile per
determinare l’importo dell’indennità, parametrata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR
Se il prestatore ha garantito la risposta alla chiamata, l’inadempimento impatta sul sinallagma funzionale.
In caso di temporanea indisponibilità, per a malattia o altro evento (deve trattarsi di impossibilità assoluta:
infortunio, maternità), il lavoratore è tenuto ad informarne tempestivamente il datore di lavoro,
specificando la durata dell’impedimento: in tale periodo non matura l’indennità di disponibilità. Se il
lavoratore non informa il datore di lavoro del proprio impedimento, perde il diritto all’indennità per un
periodo di 15 gg, salvo che il contratto individuale preveda diversamente (art 16, comma 4).
Il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può costituire motivo di licenziamento e comportare la
restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto (art 16, comma 5).
Evidentemente, quest’ultima precisazione ha senso ove l’indennità sia stata corrisposta anticipatamente
(all’inizio del mese).
Il restyling operato dal d lgs 81/2015 ha smorzato un certo ingiustificato rigore nei confronti del dipendente che
percorreva l’art 33, comma 6 D lgs 276/2003. In primo luogo, sparisce il riferimento alla risoluzione del contratto: più
correttamente, il datore procederà, se lo ritiene, ad irrogare un licenziamento disciplinare.
Viene eliminato anche il diritto del datore al risarcimento del danno: pareva davvero sproporzionato nell’ambito di una
tipologia contrattuale in cui il lavoratore si trova già in una posizione di notevole debolezza.
Circa gli eventi, oltre la malattia, che giustificano l’indisponibilità del lavoratore: deve trattarsi di ipotesi di
impossibilità o, almeno, inesigibilità della prestazione, in quanto solo in casi di questo tipo il licenziamento
disciplinare non troverebbe fondamento.
La misura dell’indennità di disponibilità: divisibile in quote orarie, è determinata dai contratti collettivi e non
è comunque inferiore all'importo fissato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentite
le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art 16, comma 1).
Il DM 10 marzo 2004 fissa un livello minimo pari al 20% della retribuzione prevista dal CCNL applicato (gli elementi della
retribuzione presi in considerazione sono: minimo tabellare, indennità di contingenza, EDR e ratei di mensilità
aggiuntive). L’indennità è frazionabile per consentire di rapportarla all’effettiva disponibilità del lavoratore e, ponendosi
a corrispettivo della disponibilità, rimarrà invariata anche durante i periodi di lavoro effettivo.
Non sembra corretto vagliare l’importo dell’indennità alla luce dell’art 36, comma 1 Cost: l’emolumento è infatti
corrisposto a remunerazione della disponibilità alla chiamata e non dell’attività lavorativa. Il tempo trascorso in
disponibilità è tecnicamente “tempo libero”, non tempo di lavoro.
Sul piano previdenziale, l’indennità è assoggettata a contribuzione per il suo effettivo ammontare, in deroga alla
normativa in materia di minimale contributivo (art 16, comma 3).
Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze
(Decreto interministeriale 30 dicembre 2004) è stabilita la misura della retribuzione convenzionale in riferimento alla
quale il lavoratore intermittente può versare la differenza contributiva per i periodi in cui ha percepito una retribuzione
inferiore a quella convenzionale ovvero ha usufruito dell'indennità di disponibilità fino a concorrenza del medesimo
importo. Ciò è possibile anche per i lavoratori che non obbligati a rispondere alla chiamata, per i periodi in cui hanno
percepito una retribuzione inferiore a quella convenzionale.
L’art 17, comma 1, in applicazione del principio di non discriminazione, stabilisce: il lavoratore intermittente
non deve ricevere, per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte, un trattamento economico e normativo
complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello.
Il comma 2 prevede un’applicazione a tutto campo del principio del pro rata temporis: il trattamento
economico, normativo e previdenziale del lavoratore intermittente, è riproporzionato in ragione della
prestazione lavorativa effettivamente eseguita, in particolare per quanto riguarda l'importo della retribuzione
globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia e infortunio,
congedo di maternità e parentale. Tuttavia, taluni diritti non tollerano l’applicazione di tale principio, per loro
stessa configurazione o per espressa disposizione di legge (congedo di maternità o diritto di sciopero).
Il principio del pro rata temporis si applica a qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia
rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro: il lavoratore intermittente è computato nell'organico
dell'impresa in proporzione all'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre (art 18).
6. Strumenti antiabusivi, sanzioni e controlli
L’art 13, comma 3 ripropone il limite totale complessivo introdotto dal cd “decreto Giovannini” (DL 76/2013):
ad eccezione dei settori turismo, pubblici esercizi e spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è
ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non
superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell'arco di 3 anni solari. In caso di superamento del predetto
periodo il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. La ratio di
questo limite quantitativo è piuttosto chiaramente quella di evitare il ricorso abusivo al lavoro intermittente
quando l’occasione di lavoro abbia il carattere della stabilità.
Resta da capire cosa accade in difetto dei requisiti oggettivi o soggettivi o in violazione dei divieti di utilizzo
del lavoro intermittente (art 14) o ancora se, pur non essendo superate le 400 giornate di lavoro, il rapporto
non sia di fatto caratterizzato da prestazioni discontinue o intermittenti.
Qualora siano assenti i presupposti oggettivi o soggettivi, il contratto intermittente non potrà venire
validamente ad esistenza: si tratta infatti di condizioni di legittimità. In considerazione del favor espresso da
legislatore per il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (art 1), il lavoratore potrà giovarsi
della presunzione (relativa) che il rapporto di fatto instaurato corrisponda al tipo standard.
Se sono violati i divieti di utilizzo del lavoro intermittente, il contratto sarà nullo per contrasto con norma
imperativa: anche in questo caso, il lavoratore potrà richiedere al giudice di dichiarare che il rapporto è di
lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato. Il datore potrà però dimostrare l’assenza di
subordinazione (occasionalità della prestazione lavorativa) o la sussistenza di un rapporto di lavoro part time.
Se le prestazioni sono effettuate con continuità e secondo le modalità di un ordinario rapporto di lavoro
subordinato, pur non essendosi valicata la soglia delle 400 giornate di lavoro effettivo nel triennio, il giudice,
in conformità con la relazione contrattuale posta in essere di fatto, procederà a riqualificare il rapporto. Il
prestatore potrà agire per vedersi riconoscere la sussistenza di un contratto part time, qualora le prestazioni,
pur di durata inferiore al tempo pieno, mostrino una regolarità incompatibile con il lavoro intermittente
(anche qualora il lavoratore sia stato utilizzato nei settori turismo, spettacolo e pubblici esercizi).
Viene conservata la speciale comunicazione introdotta dalla legge 92/2012. L’art 15, comma 3 prescrive:
prima dell'inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30
giorni, il datore di lavoro è tenuto a comunicarne la durata alla direzione territoriale del lavoro competente
per territorio, mediante sms o posta elettronica. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali,
di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, possono essere individuate
modalità applicative della disposizione di cui al primo periodo, nonché ulteriori modalità di comunicazione in
funzione dello sviluppo delle tecnologie. In caso di violazione degli obblighi di cui al presente comma si applica
la sanzione amministrativa da 400 € a 2.400 € in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la
comunicazione. È chiaro l’intento di impedire (o limitare il più possibile) l’effettuazione di prestazioni
“informali”, per le quali il contratto di lavoro intermittente poteva fungere da “copertura” da esibirsi in caso
di ispezione: nella misura in cui il contratto sussista e sia validamente stipulato, non si può immaginare altra
conseguenza per la mancata comunicazione se non l’irrogazione della sanzione amministrativa. La
comunicazione svolge indirettamente anche un’utile funzione per il lavoratore, nella misura in cui egli potrà
conoscere la durata delle singole prestazioni: ciò gli permetterà di far valere più efficacemente i propri diritti
nei casi di sospensione del rapporto intervenuti durante la fase attiva dello stesso.
Come per tutti i contratti di lavoro speciale, anche per il lavoro intermittente il legislatore stabilisce una forma
di controllo sindacale: il datore di lavoro è tenuto a informare con cadenza annuale le RSA o la RSU
sull'andamento del ricorso al contratto di lavoro intermittente (art 15, comma 2).
7. Il lavoro intermittente nella giurisprudenza e nei contratti collettivi: chi l’ha visto?
La giurisprudenza sul lavoro intermittente è davvero esigua. Prevedibilmente, si è posta la questione relativa
alle conseguenze della stipulazione in assenza dei requisiti legali, risolta in modo diametralmente opposto.
Da un lato, una pronuncia (Tribunale di Milano, 2009) ha dichiarato la nullità del contratto intermittente e
l’instaurazione in via di fatto di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (nonché
a tempo pieno, in difetto di prova dell’esistenza di accordi sul part time)
A questa decisione se ne contrappone però un’altra (Tribunale di Monza, 2012) che ha liquidato solo un
risarcimento del danno in via equitativa, essendo la conversione del contratto intermittente in contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato limitata alle ipotesi legislativamente previste.
In un’altra sentenza (Tribunale di Milano, 2014) la mancata indicazione del presupposto soggettivo nel testo
contrattuale non avrebbe influenza sulla validità del contratto di lavoro intermittente: il giudice ha ritenuto
che la condizione personale del lavoratore rilevi oggettivamente ed indipendentemente dalla menzione di
tale condizione nel corpo del contratto. Appare però discutibile un altro punto della decisione, laddove si
sostiene che il carattere della discontinuità vada riferita alla tipologia di attività cui è adibito il prestatore di
lavoro, non anche alle concrete modalità di svolgimento della prestazione.
Ora, la nozione del contratto di lavoro intermittente implica l’utilizzo della prestazione lavorativa in modo
discontinuo o intermittente e ciò vale in presenza del requisito oggettivo, ma anche quando sussista solo il
requisito soggettivo: sarebbe proprio l’uso continuativo del lavoratore attuato in concreto (per eludere la
tutela contro il licenziamento) a dover condurre il giudice alla riqualificazione del contratto.
Una pronuncia della Corte d’Appello (di Milano, 2014) ha ritenuto i requisiti soggettivi per il ricorso al lavoro
intermittente contrari al principio di non discriminazione in base all’età, radicato nel diritto UE: la Corte ha
disapplicato l’art 34, comma 2 d lgs 276/2003 e riqualificato il contratto di lavoro intermittente in uno
ordinario a tempo indeterminato (part time).
Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, balza immediatamente all’occhio il sostanziale disinteresse
delle parti sociali per l’istituto: i CCNL che se ne occupano sono pochi (commercio, turismo e spettacolo) e
ancor meno quelli sottoscritti da CGIL, CISL e UIL (alimentaristi, piccola industria, 2010).
Quanto ai contenuti, accanto alla determinazione delle esigenze delle imprese e dei periodi predeterminati
che giustificano il ricorso alla forma contrattuale, spiccano l’attuazione in concreto del pari trattamento con
riferimento ai vari istituti contrattuali e la fissazione dell’indennità di disponibilità (in un range del 20 – 30 %).
5 - Il contratto a tempo determinato (artt 19 – 29)
1. Il trapianto delle regole sul contratto a termine dal d lgs 368/2001 al d lgs 81/2015
Assurto a principale protagonista della I fase del disegno riformatore del Jobs Act, con il DL 34/2014 (cd
“decreto Poletti”, convertito in legge 78/2014), il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato gioca
ora un ruolo di comprimario nella II fase del Jobs Act, sul cui proscenio il ruolo del protagonista è assunto da
altri temi (il contratto a tutele crescenti, le collaborazioni coordinate e continuative, la nuova disciplina delle
mansioni, la modifica del sistema degli ammortizzatori sociali).
La disciplina del contratto a termine viene comunque interessata da svariate modifiche. Le regole dettate in
precedenza dal d lgs 368/2001 (nella versione aggiornata, da ultimo, dal DL 34/2014) vengono trasfuse nel
più ampio contenitore del d lgs 81/2015 (artt 19 – 29).
La riforma attuata con il d lgs 368/2001 partiva da un’impostazione basata su un limite qualitativo del
contratto a termine, legittimato solo dalla presenza di ragioni giustificative specificate nel contratto (dunque
soggetto a limiti anche nella possibilità di proroga del termine iniziale), nonché, sempre a garanzia della
genuinità delle ragioni giustificatrici, astretto dall’imposizione di intervalli tra un contratto e il successivo.
La tappa intermedia (legge 247/2007, poi rivisitata dal DL 112/2008, convertito dalla legge 133/2008) si
caratterizzava per l’aggiunta di un limite quantitativo, ossia la durata massima complessiva di 36 mesi dei
contratti a termine, comprensiva di proroghe e rinnovi.
Si giunge poi alla “riforma a metà”, in relazione al primo contratto a termine liberato dalle causali, attuata
con la legge Fornero del 2012 e le successive correzioni apportate dal DL 76/2013 (convertito in legge
99/2013). Ma si trattava di una rotta ancora incerta.
Infine, il DL 34/2014, attua un approccio fondato su criteri quantitativi: il contratto a termine viene liberato
dal vaglio delle causali di giustificazione, ossia da quelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo
o sostitutivo in cui si esprimeva il controllo qualitativo affidato ex post al giudice.
Il d lgs 81/2015 prosegue in questa impostazione, dando vita ad un progetto di sostanziale semplificazione
dell’esistente, volto, nelle intenzioni del legislatore, anche a superare alcuni dubbi interpretativi.
2. La conferma della forma scritta ad substantiam
Accorpando disposizioni che nell’art 1 del d lgs 368/2001 occupavano ben 3 commi, il nuovo decreto
stabilisce: con l'eccezione dei rapporti di lavoro di durata non superiore a 12 giorni17, l'apposizione del
termine al contratto è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente18, da atto scritto, una
copia del quale deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro 5 giorni lavorativi dall'inizio
della prestazione (art 19, comma 4).
In caso di violazione della forma scritta, l’apposizione del termine è priva di effetto: il contratto di lavoro si
reputa stipulato a tempo indeterminato. Come negli altri casi in cui la forma scritta è prevista ad substantiam,
l’apposizione scritta del termine è un onere che grava sul datore di lavoro: egli non potrà ricorrere alla prova
testimoniale per dimostrare l’esistenza del termine, salvo che abbia perduto senza colpa il documento scritto
(artt 2724 – 2725 cc).
17
Non compare più l’inciso puramente occasionale (contenuto nel d lgs 368/2001): non essendo più previsto l’onere di
giustificare il ricorso al contratto a termine, ad escludere l’obbligo della forma scritta basta la mera durata oggettiva del
rapporto, senza necessità di ulteriori condizioni.
18
L’apposizione del termine può risultare anche in via induttiva dall’insieme delle previsioni contrattuali, come quando
si fa riferimento ad un evento futuro e certo (nell’an) o quando il contratto, effettuato in sostituzione di lavoratore
assente, riferisce il termine al momento del rientro in servizio di tale lavoratore.
La facoltà19 del datore di lavoro di consegnare copia dell’atto scritto al lavoratore entro 5 giorni lavorativi
dall’inizio della prestazione (non già dalla sottoscrizione del contratto) presuppone comunque la formazione
dell’atto scritto in data anteriore, o quantomeno contestuale all’inizio dell’attività da parte del lavoratore.
3. La nuova formula sul limite di durata dei 36 mesi
Il d lgs 81/2015 conferma all’art 19, comma 1 la durata massima in 36 mesi per il contratto unico20: al
contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a 36 mesi). Tale limite
opera anche per il singolo primo contratto.
Nell’art 19, comma 2 trova disciplina il complesso tema della successione di una pluralità di contratti21. La
disciplina (già dettata dall’art 5 d lgs 368/2001) è ora “spacchettata” in 2 diversi articoli:
l’art 19, comma 2 detta la durata massima complessiva (e la relativa sanzione in caso di sforamento);
l’art 21, comma 2, che ripropone il sistema degli intervalli (cd stop and go) tra un contratto a termine
e il successivo stipulato con il medesimo lavoratore.
Quanto al primo aspetto, l’art 19, comma 2 (oltre a confermare anche per la successione dei contratti a
termine la stessa durata complessiva massima di 36 mesi, prevista al comma 1 per il contratto unico) per
espressa previsione (fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi) delega, come già in precedenza,
alla contrattazione collettiva22 il potere di disporre limiti diversi. La delega è però concessa solo in relazione
alla durata complessiva dei distinti contratti a termine stipulati tra stesso datore di lavoro e stesso lavoratore
(dunque una successione di contratti): il singolo contratto incontra il limite legale dei 36 mesi.
In ogni caso, il limite legale di durata non trova applicazione per le attività stagionali.
L’ampia formula della delega legislativa induce a ritenere che la contrattazione collettiva possa intervenire sui limiti di
durata abbreviando o ampliando il termine legale dei 36 mesi, a prevedere la fissazione di un numero massimo di rinnovi
o anche a definire il limite massimo temporale tra un contratto a termine e il successivo (superato il quale il conteggio
dei 36 mesi riprende a decorrere daccapo). La contrattazione collettiva ha già fornito diffusa prova di interventi del
genere, introducendo limiti diversi in caso di utilizzo di soli contratti a tempo determinato o anche in relazione all’utilizzo
di lavoratori in somministrazione, che si attestano di solito sui 44 mesi (metalmeccanici, energia, orafi, gomma-plastica,
ceramica, vetro), sebbene si arrivi anche fino a 60 mesi (grafici). In taluni casi si è giunti a prevedere anche l’eliminazione
di ogni limite di durata complessiva dei contratti stipulati tra le medesime parti (turismo).
Ai fini del computo dei 36 mesi, si fa ora riferimento alla successione di contratti a termine conclusi per lo
svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale. La nuova formula si rifà alla modifica della
disciplina delle mansioni operata dall’art 3 (e al superamento del concetto di equivalenza). La norma ha una
funzione anti-fraudolenta: evitare l’aggiramento del limite di durata attraverso la semplice assegnazione a
19
La previsione (già presente all’art 1, comma 3, d lgs 368/2001) appare sfornita di specifica sanzione. Tale
interpretazione aveva già ricevuto l'avallo della Corte di Cassazione (sentenza 4582/1998): il mancato rispetto della
norma, posta dall'art. 1, comma 4, legge 230/1962, che prescrive la consegna al lavoratore di una copia dell'atto scritto
in caso di assunzione con contratto a termine, non determina la nullità dell'apposizione del termine, perché tale
sanzione non è prevista dalla legge (diversamente che per la mancata redazione dell'atto scritto) e, d'altra parte, tale
adempimento costituisce un elemento del tutto estrinseco ai requisiti essenziali del contratto.
20
Con ciò si superano le perplessità palesate dalla dottrina sulla più incerta formula previgente: l’art 4, comma 1 d lgs
368/2001, relativo alla proroga del contratto, sembrava lasciare aperta la possibilità per il contratto unico di poter
superare il limite dei 3 anni.
21
L’espressione successione di contratti, appare preferibile al più generico termine rinnovi adottato nella terminologia
della direttiva 99/70/CE, che valeva ad individuare sia le proroghe sia le successioni di contratti a termine.
22
Una novità di non poco conto risiede nella possibilità che gli spazi di intervento della contrattazione collettiva delegati
dal legislatore possano essere riempiti indifferentemente in sede nazionale, territoriale o aziendale, sempre se stipulati
dalle organizzazioni sindacali (dei datori di lavoro e dei lavoratori) comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale (art 51).
mansioni diverse. Per questo, il richiamo espresso allo svolgimento delle mansioni induce a riferirsi non solo
al profilo di inquadramento (formale), ma alle mansioni effettivamente svolte.
La riscrittura dell’art 2103 cc fa emergere problemi che prima non si ponevano. A seguito di modifiche degli assetti
organizzativi o di fattispecie previste dai contratti collettivi, il datore di lavoro può assegnare al lavoratore mansioni di
livello di inquadramento inferiore.
Ciò risulta irrilevante al fine di stabilire se il singolo contratto a termine abbia superato il limite dei 36 mesi: l’art 19,
comma 1 è formulato in modo da dare rilievo alla semplice durata del contratto, al di là dei contenuti che l’obbligazione
lavorativa viene ad assumere in executivis. Il problema emerge in caso di successione di una pluralità di contratti, in
quanto la disciplina dà rilievo alle mansioni svolte dal lavoratore nella fase di esecuzione del contratto e consente di
cumulare i periodi di esecuzione di diversi contratti a termine ove riguardino mansioni di pari livello e categoria legale:
ove sia cessato un contratto che abbia comportato lo svolgimento di mansioni appartenenti a diversi livelli di
inquadramento, per verificare se un ulteriore contratto superi o meno il limite di durata complessiva, il contratto
caratterizzato da eterogeneità delle mansioni svolte va considerato per la sua intera durata o solo per il periodo in cui
ha comportato mansioni di pari livello e categoria di quelle comportate dal nuovo contratto?
Nella formula legislativa, il riferimento ai rapporti conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale
potrebbe far pensare che si sia voluto dar rilevanza solo alle mansioni attribuite in sede di stipulazione del contratto e
non anche alle dinamiche avutesi in seguito. In base a questa interpretazione, il periodo di esecuzione del contratto
successivo concluso per lo svolgimento di mansioni di un livello diverso da quello del contratto precedente non sarebbe
cumulabile, risultando subito evidenti le tensioni che ne deriverebbero (il nuovo contratto potrebbe comportare lo
svolgimento anche di mansioni di livello inferiore rispetto al livello in cui lo stesso lavoratore era stato in precedenza
inquadrato).
Si è indotti a ritenere che la cumulabilità del periodo di esecuzione di un contratto possa essere valutata in relazione a
mansioni svolte in esecuzione del contratto precedente dopo l’accordo di modifica. Il nuovo contratto, peraltro,
potrebbe comportare mansioni dello stesso livello di inquadramento del precedente contratto prima della modifica e
non quelle del livello di inquadramento successivo all’accordo di modifica: in questo caso, non si vede perché escludere
il cumulo di periodi di svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale.
Il riferimento allo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale amplia la cumulabilità dei periodi di
esecuzione dei contratti a termine: prima, ad escludere il cumulo, bastava che le mansioni non fossero equivalenti; ora,
le mansioni svolte in esecuzione di più contratti a termine possono anche non essere equivalenti, ma se appartengono
allo stesso livello di inquadramento, concorrono al computo del limite.
Il d lgs 81/2015 include nel periodo dei 36 mesi (come in precedenza) anche i periodi di missione, sempre
aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di
somministrazioni.
Come in passato, il rilievo dei periodi di somministrazione è circoscritto all’utilizzo del contratto di lavoro a
termine: poiché non sono previsti limiti di durata complessivi ai contratti in somministrazione con il medesimo
lavoratore23, va precisato che il superamento del tetto deve avvenire con un contratto di lavoro a termine,
che sarà l’ultimo rilevante della sequenza, giacché il limite resta stabilito per il contratto a termine, non per
le missioni in somministrazione. Se attraverso precedenti contratti a termine si è raggiunta una soglia di 35
mesi, un ulteriore utilizzo del medesimo lavoratore attraverso un contratto di somministrazione di lavoro per
2 mesi non determina il superamento del limite.
Sulle conseguenze del superamento del limite temporale per effetto di un unico contratto o di una
successione di contratti, la nuova normativa dell’art 19, comma 2 prescrive che il contratto si trasforma in
23
Art 34, comma 2: in caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è
soggetto alla disciplina di cui al Capo III per quanto compatibile, con esclusione delle disposizioni di cui agli artt 19,
commi 1, 2 e 3, 21, 23 e 24.
contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento. Tale formulazione incide sulla questione
dell’individuazione del momento in cui la sanzione vada applicata.
Il d lgs 368/2001 legava l’effetto al superamento di un ulteriore periodo di 30 giorni.
Ora, al superamento dei 36 mesi scatta la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Questa lettura trova conferma nella nuova disciplina sulla continuazione del rapporto oltre la scadenza del
termine (cd prosecuzione di fatto), la quale opera fermi i limiti di durata massima di cui all’art 19 (art 22,
comma 1), negando così la possibilità di estenderli ai periodi in cui il rapporto a termine sia di fatto proseguito
(e inducendo dunque a conteggiare quei periodi nel limite dei 36 mesi).
Resta comunque ferma la possibilità di stipulare con il medesimo lavoratore un ulteriore contratto a tempo
determinato della durata massima di 12 mesi in sede di negoziazione assistita presso la direzione territoriale
del lavoro competente per territorio (art 19, comma 3)24. Per accedere alla stipula di questo ulteriore
contratto, alcuni ritengono che il contratto precedente si debba essere estinto, senza superare il limite legale,
(che potrebbe essere stato comunque raggiunto). Si ritiene che l’accordo possa intervenire anche in costanza
di un rapporto di lavoro a termine che si avvicina alla scadenza dei 36 mesi (ossia, in prevenzione).
In caso di mancato rispetto della procedura, come di superamento del termine stabilito nel medesimo
contratto, lo stesso si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data della stipulazione.
Il legislatore del 2015 non chiarisce la questione relativa al lasso temporale entro cui effettuare il computo
dei 36 mesi: sarebbe quindi possibile sommare tra loro contratti a termine anche molto distanti tra loro.
4. La conferma del regime degli intervalli in caso di successione dei contratti a termine
Sebbene formalmente collocato in un articolo distante dall’art 19, il tema degli intervalli completa il quadro
in tema di successioni dei contratti a termine. Viene confermato il sistema del necessario stop and go tra un
contratto e l’altro (almeno 10 gg dalla data di scadenza di un contratto inferiore a 6 mesi e almeno 20 gg per
un contratto di durata superiore ai 6 mesi). In difetto, il secondo contratto si trasforma in un contratto a
tempo indeterminato (art 21, comma 2).
In origine, il regime degli intervalli rappresentava, insieme alla causale generale, una rilevante misura contro l’abuso dei
contratti a termine: sulla causale si reggeva anche il meccanismo dell’intervallo, a conferma dell’esigenza temporanea
che il contratto a termine doveva soddisfare. Venuta meno la causale con il DL 34/2014, si dovrebbe dire simul stabunt
simul cadent. Nel sistema attuale, che prevede solo limiti esterni (di durata e quantitativi), la normativa sugli intervalli
appare “eccentrica”. Andrebbe eliminata.
Di sicuro si mettono in difficoltà le aziende, tentate, in caso di difficoltà o impossibilità di sospendere le prestazioni
lavorative per i 10 o 20 giorni previsti, di rivolgersi altrove per assumere un altro lavoratore al posto di quello a cui il
contratto a termine sia scaduto, rivelando l’eterogenesi dei fini della norma rispetto alla prospettiva di favorire
l’occupazione stabile, cui anche la normativa sul contratto a termine è chiamata.
In ogni caso, il meccanismo non si applica per le attività stagionali ed è comunque una norma semi-imperativa.
Dimostrando sul punto un’attenzione maggiore di quella del legislatore, la contrattazione collettiva è intervenuta in
molti settori a ridurre i periodi di stop, a disporne il superamento, in presenza di esigenze sostitutive o anche in altre
ipotesi (edili, grafici, ceramica, energia), o ad eliminare del tutto l’obbligo del rispetto degli intervalli (studi professionali).
24
Non è più riproposta la necessaria l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore fosse iscritto o avesse conferito mandato.
Inoltre, il limite all’ulteriore durata è ora fissato dalla ex lege (12 mesi) e non più affidato alle determinazioni della
contrattazione collettiva, come in precedenza.
5. Le novità in tema di divieti
Anche in tema di divieti, la nuova normativa ribadisce nel suo complesso l’assetto precedente. Così rimane
non ammessa l’apposizione del termine al contratto di lavoro (art 20):
a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
b) presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi a
norma degli artt 4 e 24 della legge 223/1991, che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui
si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che il contratto sia concluso per provvedere alla
sostituzione di lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, o abbia una durata
iniziale non superiore a 3 mesi;25
c) presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in
regime di CIG, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato;
d) da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della
normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
In caso di violazione dei divieti, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Si tratta di una
soluzione a cui si poteva giungere già in precedenza, considerando la clausola di apposizione del termine
come nulla, in applicazione dell’art 1419, comma 2 cc (e che la giurisprudenza ha fatto propria).
6. Le precisazioni in tema di proroghe del contratto
L’art 21, comma 1 specifica il numero delle proroghe consentite per un massimo di 5 volte, a prescindere
dal numero dei contratti: le 5 proroghe sono spendibili rispetto all’insieme dei contratti a termine stipulati
con il medesimo lavoratore.
Ad esempio, se il primo contratto a termine, stipulato per 1 anno, viene prorogato di 3 mesi per 3 volte, residuerà in
generale la possibilità di 2 altre proroghe da spendere nei successivi possibili altri contratti a termine stipulati con il
medesimo soggetto, nell’arco dei 36 mesi della loro complessiva durata massima.
Viene meno la condizione che voleva le proroghe riferite alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato
stipulato a tempo determinato (art 4, comma 1 d lgs 368/2001, ora abrogato), che risultava un retaggio della vecchia
impostazione causale del contratto a termine. Secondo tale impostazione, il criterio poteva essere letto come volto ad
evitare che, esauritasi l’oggettiva esigenza aziendale che legittimava l’assunzione a termine, il contratto venisse
prorogato senza il sostegno di una giustificazione o per il sorgere di una nuova e diversa esigenza, tale da richiedere un
altro autonomo contratto a termine. Nel contesto del contratto a termine acausale (introdotto dal DL 34/2014), lo
stesso requisito avrebbe potuto assumere un altro significato, ossia legittimare ulteriori 5 proroghe ad ogni mutamento
dell’attività lavorativa oggetto di contratti a termine successivamente stipulati con il medesimo lavoratore. In ogni caso,
l’eliminazione del riferimento alla stessa attività consente di fugare ogni dubbio sulla acausalità anche del ricorso alle
proroghe del contratto che, nei limiti (quantitativi) di 5 volte, non devono essere giustificate da parte del datore di
lavoro (in termini qualitativi).
Il legislatore non precisa il regime formale a cui è sottoposta la proroga del contratto: la forma scritta è
prescritta solo per l’apposizione del termine al contratto (all’atto della stipula: art 19, comma 4).
In giurisprudenza si riscontrano orientamenti difformi: si è ritenuta non necessaria la forma scritta (in mancanza,
appunto, di specifica prescrizione normativa), ma si è anche giunti a qualificare la proroga come un negozio bilaterale
25
Il divieto di assunzione a termine in caso di licenziamenti collettivi effettuati nell’arco dei 6 mesi precedenti è
facilmente eludibile: la legge consente di stipulare un contratto a termine con durata inziale non superiore a 3 mesi.
Tale ipotesi era dotata di una sua logica nell’ambito della previgente normativa (che consentiva solo 1 proroga per ogni
singolo contratto a termine e in ogni caso giustificata dalle medesime ragioni oggettive dell’originario contratto). Ora,
per superare il divieto basta stipulare un contratto a termine di durata inferiore ai 3 mesi e poi prorogarlo (senza causale)
fino a 5 volte, fino a raggiungere agevolmente il consueto termine massimo di 36 mesi.
di secondo grado, incidente su un elemento essenziale del contratto (il termine), tanto da assumere come necessaria la
forma scritta.
In ogni caso, se la forma scritta della proroga quale requisito essenziale imposto a pena di nullità può restare dubbia,
essa comunque risponde a esigenze di certezza del diritto e assume carattere dirimente nel distinguere l’ipotesi della
proroga dalla prosecuzione di fatto. Altrimenti, può risultare davvero difficile raggiungere la certezza in merito alla
fattispecie che ricorre nel caso concreto.
L’art 21, comma 1 specifica che qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in
contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della sesta proroga.
Rappresenta una novità l’espressa esclusione del regime delle proroghe per le imprese start-up innovative, (art 21,
comma 3), per il periodo di 4 anni dalla costituzione della società o per un più limitato periodo per le società già costituite
(3 anni se è stata costituita nei 3 anni precedenti o 2 anni se è stata costituita entro i 4 anni precedenti).
26
Ove il datore di lavoro abbia iniziato l’attività nel corso dell’anno solare, la base di calcolo è costituita dal numero dei
lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell’assunzione (del lavoratore a termine) e non già sui lavoratori
in forza al 1 gennaio dell’anno di assunzione.
Viene in ogni caso ribadito che per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile
stipulare 1 contratto di lavoro a tempo determinato: ciò consente alle cd micro-imprese comunque
un’assunzione a termine.
Resta nella disponibilità della contrattazione collettiva l’introduzione di limiti quantitativi diversi rispetto al
20% fissato dalla legge, al di sotto della soglia ma anche al di sopra: il limite legale assume carattere
sussidiario (applicabile solo in assenza di apposita regolamentazione della contrattazione collettiva).
L’art 23, comma 2 prevede che siano esenti dal limite di cui al comma 1 (fonte legale), nonché da eventuali
limitazioni quantitative previste da contratti collettivi, i contratti a temine stipulati:
nella fase di avvio di nuove attività,
per le imprese start-up innovative di cui all'art 25, commi 2 e 3, del DL 179/2012 (convertito, con
modificazioni, dalla legge 221/2012), per il periodo di 4 anni dalla costituzione della società (o per il
più limitato periodo previsto dal comma 3 dell’art 25 per le società già costituite);
per lo svolgimento di attività stagionali,
per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi.
per la sostituzione di lavoratori assenti,
con lavoratori di età superiore a 50 anni27
A presidio del rispetto dei limiti percentuali all’utilizzo del contratto a termine viene ora chiaramente
individuata la sola sanzione amministrativa pecuniaria. La modifica viene incontro ai timori dei datori di
lavoro e sembra apprezzabile anche sul piano sistematico, quale conferma del limite percentuale come
“limite esterno”, che non assurge a requisito del contratto a termine, alle sorti del quale l’eventuale
superamento del limite resta indifferente. Si deve peraltro ritenere che il lavoratore non risulti legittimato
all’azione, sicché l’effettività di un tale sistema sanzionatorio resta affidata agli organismi di vigilanza pubblici.
Le sanzioni trovano applicazione anche in caso di violazione dei limiti quantitativi eventualmente fissati dalla
contrattazione collettiva.
9. Le nuove formulazioni legislative sui diritti d’informazione
La legge impone al datore di lavoro di informare i lavoratori nonché le RSA o la RSU circa i posti vacanti che
si rendono disponibili nell’impresa, delegando ai contratti collettivi (di qualunque livello) l’individuazione delle
modalità dell’informativa (art 19, comma 5). La disposizione va letta insieme a quelle sui diritti di precedenza
che, nei casi previsti, offrono tutela alle aspettative dei lavoratori a termine.
Una formula più generica prevede la delega ai contratti collettivi di modalità e contenuti delle informazioni
da rendere alle RSA o alla RSU in merito all’utilizzo del lavoro a tempo determinato (art 23, comma 5).
10. La conferma dei diritti di precedenza
Il legislatore ribadisce il sistema di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, già delineato
nell’ambito del d lgs 368/2001. La condizione sostanziale per la maturazione del diritto di precedenza rimane
l’aver prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi (art 24, comma 1) nell’esecuzione di
uno o più contratti a termine (salvo diversa disposizione dei contratti collettivi).
È necessario che le nuove assunzioni riguardino le mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a
termine. Si attribuisce così la precedenza a lavoratori già sperimentati su specifiche mansioni, divenute ad un
certo punto di stabile interesse aziendale.
27
L’abbassamento dell’età dei lavoratori assumibili a termine al di fuori di limiti quantitativi (da 55 a 50 anni), rimarca
la chiara finalità occupazionale di tale ipotesi soggettiva.
Ai fini della formazione del periodo superiore a 6 mesi per il perfezionamento del diritto, conta sia il periodo
iniziale del contratto sia il successivo periodo di attività conseguente ad una proroga della durata iniziale, sia
la prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro (nei limiti in cui essa non comporta direttamente il passaggio
al tempo indeterminato). Inoltre, in mancanza di limiti temporali, la distanza più o meno lunga fra un
contratto e l’altro (intervallo) non impedisce il cumulo fra i periodi di lavoro che essi hanno comportato.
La permanenza nel tempo del diritto di precedenza è fissato dalla legge entro i successivi 12 mesi, dalla
cessazione del rapporto a termine: se entro 12 mesi l’azienda decide di procedere ad una assunzione a tempo
indeterminato, essa ha l’obbligo di privilegiare il suo ex dipendente.
Per le lavoratrici che usufruiscono del congedo di maternità, l’art 24, comma 2 prevede che tale periodo (il periodo di
interdizione obbligatoria, ma anche tutti i congedi di maternità di cui alla legge 151/2001) concorre a determinare il
periodo di attività lavorativa a termine richiesto per poter acquisire il diritto di precedenza. Per tali lavoratrici,
l’estensione del diritto di precedenza (che vale per 12 mesi) riguarda assunzioni relative a mansioni già espletate in
esecuzione di precedenti rapporti a termine.
Resta fermo anche il diritto di precedenza riconosciuto al lavoratore utilizzato a termine per attività stagionali, rispetto
a nuove assunzioni a termine effettuate dallo stesso datore di lavoro (art 24, comma 3). La disposizione parla di
medesime attività stagionali, senza riferimenti alla qualifica e alle mansioni espletate: se ne ricava un’estensione più
ampia del diritto, non sottoposto ai limiti previsti in generale.
Viene confermato l’obbligo del datore di lavoro di curare che sia richiamato espressamente nell’atto scritto
in cui è inserita la clausola appositiva del termine, il diritto di precedenza che il lavoratore può maturare.
Per usufruire del diritto di precedenza, il lavoratore deve manifestare al datore di lavoro l’interesse alla
precedenza entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro (3 mesi, in caso di attività stagionali).
Combinando questa regola con quella che fa durare il diritto di precedenza per 12 mesi (a partire dalla
cessazione del rapporto di lavoro), si arriva alla conclusione che il ritardo del lavoratore nel far fronte
all’onere in questione accorcia, in pratica, il periodo in cui lo stesso può appellarsi al diritto di precedenza.
Circa l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo del richiamo espresso del diritto di precedenza nel contratto,
mancano indicazioni da parte del legislatore. Non pare ci siano le condizioni per giungere alla conversione del contratto
in contratto a tempo indeterminato. In effetti, non sembra che si tratti di un requisito essenziale del contratto a termine,
per cui può parlarsi di mera irregolarità. Tuttavia, poiché in mancanza del riferimento al diritto di precedenza nel
contratto è da escludere che decorra il tempo di 6 mesi (o 3 mesi) per la manifestazione di volontà richiesta al lavoratore,
resta fermo che il diritto di precedenza possa essere esercitato entro 12 mesi dalla cessazione del rapporto e non può
escludersi la possibilità del lavoratore di richiedere il risarcimento di eventuali danni subiti: il lavoratore, intempestivo
nell’esercitare il relativo diritto, potrebbe sostenere che la mancata espressione della volontà di avvalersi della
precedenza è dipesa dalla carenza informativa al momento dell’assunzione.
Una volta che il lavoratore abbia esercitato il diritto di precedenza, in caso di inadempimento del datore di
lavoro (che abbia assunto un diverso lavoratore), la giurisprudenza prevede che il lavoratore pretermesso
abbia diritto al risarcimento del danno da liquidare in via equitativa (commisurando la retribuzione che
sarebbe stata corrisposta al lavoratore ove fosse stato rispettato il diritto di prelazione).
L’esecuzione in forma specifica (art 2932 cc) del diritto di precedenza appare di problematico impiego.
Diversi contratti collettivi sono intervenuti in materia, introducendo regole peculiari ad integrazione delle norme legali.
Il lavoro in somministrazione e l’apprendistato hanno già specifiche discipline nel quadro del d lgs 81/2015: ciò le mette
al riparo dal coinvolgimento nella disciplina del contratto a tempo determinato.
L’art 29, comma 1 definisce un primo gruppo di ipotesi, escluse in quanto già disciplinate da specifiche normative:.
i contratti a termine stipulati con i lavoratori in mobilità28. Per tali lavoratori non è necessario il rispetto degli
intervalli (cd stop and go), purché nei limiti dei 12 mesi. Inoltre, il contratto resta sempre prorogabile e in caso
di prosecuzione di fatto il lavoratore avrà diritto alle retribuzioni per il lavoro prestato, ma senza maggiorazioni.
28
Tale tipologia di assunzione è venuta meno dal 1 gennaio 2017, in conseguenza del superamento dell’istituto della
mobilità, prima dal sistema ASPI (legge 92/2012) e poi dalla NASPI (d lgs 22/2015).
Superato il limite dei 12 mesi, di diritto (a causa di proroga o successione del contratto) o di fatto (prosecuzione),
tornano a trovare applicazione tutte le prescrizioni imposte in generale dalla legge.
i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell’agricoltura e gli operai a tempo determinato (così come definiti
dall’art 12, comma 2 del d lgs 375/1993);
i richiamati in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco.
i dirigenti (i contratti dei dirigenti non possono avere una durata superiore a 5 anni, salvo il diritto di recesso a
norma dell'art 2118 cc dopo 3 anni), anche se possono essere computabili nell’organico aziendale;
i rapporti per l’esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a 3 giorni, nel settore del turismo e dei
pubblici esercizi, nei casi individuati dai contratti collettivi, fermo l’obbligo di comunicare l’instaurazione del
rapporto di lavoro entro il giorno antecedente;
il personale docente ed ATA e il personale sanitario, anche dirigente, del SSN;
i contratti a tempo determinato di cui alla legge 240/2010 (legge Gelmini): assegni di ricerca, ricercatori, lettori).
L’art 29, comma 3 ribadisce che al personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale non si applicano
le disposizioni sulla durata massima (art 19, coma 1 e 2) e quelle in tema di proroghe e rinnovi (art 21).
Sebbene non espressamente menzionati dalla legge, si ritiene che restino esclusi dal campo di applicazione del d lgs
81/2015 anche i contratti a termine stipulati con i marittimi e con gli sportivi professionisti, in quanto regolati da
specifiche disposizioni.
parte della giurisprudenza resta legata alla quantificazione del risarcimento del danno in senso stretto, ponendo a carico
del lavoratore l’onere di provare il danno effettivamente patito per effetto dell’illegittima apposizione del termine;
la più recente giurisprudenza, appare volta a configurare un’ipotesi di danno punitivo, posto ex lege a carico del datore
di lavoro (se il datore di lavoro può provare l’esistenza di eventuali ripercussioni negative evitabili dall’interessato, che
possano essere escluse, sul lavoratore grava solo la prova dell’illegittimità del contratto a termine, essendo esonerato
dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova del danno effettivamente subito).
Circa la quantificazione, recentemente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 5072/2016) ha scelto
di utilizzare la regola di cui all’art 32, comma 5 della legge 183/2010 (ora trasfusa nell’art 28, comma 2).
1) si è iniziato introducendo nell’art 20 del d lgs 276/2003 il comma 5-bis, relativo alla somministrazione a termine di
lavoratori in mobilità (allo scopo di agevolarne il reinserimento lavorativo), per i quali non si richiedeva la sussistenza di
ragioni oggettive legittimanti;
2) si è proseguito con l’art 8 del DL 138/2011, attribuendo ai cd contratti di prossimità la facoltà di derogare alla disciplina
legale in ordine ai casi di ricorso alla somministrazione;
3) il d lgs 24/2012 (in attuazione della direttiva 2008/104/CE) ha aggiunto all’art 20 del d lgs 276/2003 i commi 5-ter e
5-quater, ammettendo contratti di somministrazione acausali in relazione a certe caratteristiche soggettive30 dei
lavoratori da somministrare (per evidenti ragioni di sostegno all’inserimento o reinserimento lavorativo) e devolvendo
29
A seguito della sentenza della Corte di Giustizia nel caso Mascolo (2013), in cui la normativa nazionale italiana è stata
dichiarata non conforme alla direttiva 70/1999/CE, in quanto consente il rinnovo di contratti a tempo determinato in
attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, senza
indicare tempi certi per tali procedure ed escludendo la possibilità di ottenere un risarcimento del danno, il Governo
italiano ha varato il cd provvedimento sulla “buona scuola” (legge 107/2015), ove si legge: a decorrere dal 1 settembre
2016, i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il personale docente, educativo, amministrativo, tecnico e
ausiliario presso le istituzioni scolastiche ed educative statali, per la copertura di posti vacanti e disponibili, non possono
superare la durata complessiva di 36 mesi, anche non continuativi (art 1, comma 131).
30
disoccupati da almeno 6 mesi; percettori di ammortizzatori sociali, anche in deroga, da almeno 6 mesi; lavoratori
definiti svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi del regolamento 800/2008/CE (poi sostituito dal regolamento
651/2014/UE).
ai contratti collettivi (di qualsivoglia livello), stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative, la facoltà di individuare ulteriori ipotesi di ricorso alla somministrazione in carenza di ragioni oggettive;
4) infine, con un intervento in 2 tempi, realizzato con la legge 92/2012 (riforma Fornero) e il DL 76/2013 (cd “decreto
Giovannini”, convertito in legge 99/2013), è stato incorporato nell’art 1 del d lgs 368/2001 (contratto a termine), il
comma 1-bis, che introduceva nell’ambito della somministrazione l’acausalità della prima missione (purché di durata
non superiore a 12 mesi).
A questa costellazione di deroghe ha fatto poi seguito uno “strappo” più violento: il DL 34/2014 (cd “decreto Poletti”,
convertito in legge 78/2014) ha previsto la generale acausalità della somministrazione a termine, con il solo limite
(esogeno) del rispetto di tetti quantitativi, rimessi, per la loro determinazione, alla contrattazione collettiva. Da
strumento eccezionale, riguardato dall’ordinamento con speciale cautela, la somministrazione a termine diventava un
mezzo capace di partecipare alle finalità pro-occupazionali perseguite dal legislatore.
Quanto allo staff leasing, dopo una sua breve sparizione (abrogato dalla legge 247/2007) e il suo successivo recupero
(art 2, comma 143, legge 191/2009), viene conservato il contorno dei requisiti oggettivi di ammissibilità, con la
previsione di un “catalogo” (pur ampliabile dalla contrattazione collettiva) di casi tassativi di legittimo ricorso all’istituto
(mantenuto fino al 2015).
A fronte di ciò, se per la somministrazione a tempo determinato il d lgs 81/2015 semplicemente conferma la
liberalizzazione sancita dal DL 34/2014, per la somministrazione a tempo indeterminato l’impatto innovativo si dispiega
in misura assai più consistente: viene ammesso il ricorso acausale, con il solo limite di un contingentamento quantitativo
di fonte legale (va precisato però che l’art 31, comma 4 sottrae le pubbliche amministrazioni dal campo di applicazione
della disciplina dello staff leasing).
Circa la somministrazione a termine, il legislatore mostra soprattutto di voler eliminare talune vischiosità
concettuali e certe sovrapposizioni problematiche con la disciplina del contratto a tempo determinato (già
regolato dal d lgs 368/2001).
La legge 92/2012 (riforma Fornero) alimentava non indifferenti problemi ricostruttivi, non solo di carattere esegetico e
applicativo, ma anche sul piano della ricostruzione concettuale. La scelta di collocare una disciplina sulla
somministrazione acausale all’interno del corpus normativo del d lgs 368/2001 non poteva certo ritenersi felice dal
punto di vista della sedes materiae: essa concorreva ad avallare diffusi fraintendimenti della disciplina dell’istituto,
spesso appiattito dagli interpreti (anche ai fini del controllo giudiziale dei requisiti di ammissibilità) sulle categorie del
lavoro a termine (dunque in relazione ad un contratto di lavoro e non ad un contratto commerciale quale è il contratto
di somministrazione). Tale errore prospettico era stato iterato anche dal DL 34/2014, nel quale la somministrazione
continuava ad essere trattata come una mera “appendice” del contratto a termine.
Oggi, la somministrazione, di cui viene ribadita l’autonomia concettuale e l’ontologica distinzione dalla
disciplina del contratto a termine, sembra avere finalmente raggiunto (con la sua pressoché integrale
liberalizzazione quanto a fruibilità dell’istituto, ma con la conferma del suo apparato protettivo dei diritti del
lavoratore somministrati) una sorta di “maggiore età”, sicché ad essa l’ordinamento riconosce piena
cittadinanza nel mercato de lavoro. In particolare, l’ordinamento mostra di aver voluto definitivamente
rimuovere le riserve indotte da una “atavica diffidenza” del diritto del lavoro italiano verso i fenomeni
interpositori (legata ad un’idea di pericolosità sociale del fenomeno in sé considerato).
Il d lgs 81/2015 segna il definitivo superamento del dogma dell’inscindibilità fra creditore della prestazione di
lavoro e utilizzatore della stessa.
Anche dopo l’entrata in vigore del d lgs 276/2003, larga parte della dottrina riteneva insito nell’impianto
dell’ordinamento giuslavoristico italiano un generale divieto di interposizione cui la somministrazione faceva
“eccezione”. In letteratura il dibattito contrapponeva l’idea secondo cui la legge 1369/1960 avrebbe solo rafforzato, sul
piano sanzionatorio, il disposto dell’art 2094 cc, (essendo la necessaria coincidenza tra titolarità del rapporto ed
esercizio delle prerogative datoriali regola coessenziale alla subordinazione, imposta da un principio di trasparenza
nell’acquisizione del fattore lavoro) e la posizione che riteneva non incompatibile con lo schema negoziale del lavoro
subordinato (salvo espresso divieto) la deviazione degli effetti contrattuali in capo ad un terzo.
Il dato presenta le sembianze di una rilevante svolta culturale: in conformità all’impostazione europea
(direttiva 2008/104/CE), più che preoccuparsi di circoscriverne e limitarne l’utilizzo, il legislatore del 2015
(fermi i limiti quantitativi e i divieti oggi racchiusi negli artt 31 e 32) incentra il nucleo regolativo essenziale
della somministrazione sul sistema delle tutele del lavoratore somministrato (garanzia patrimoniale
rafforzata del somministratore, solidarietà passiva tra somministratore e utilizzatore, pari trattamento
nell’indennità di disponibilità nella somministrazione a tempo indeterminato). Se ne ricava che, volendo
riprendere uno slogan che accompagnò l’entrata in vigore della legge 92/2012, la somministrazione viene
ora ascritta dal legislatore al circuito della “flessibilità buona”.
D’altra parte, la direttiva 2008/104/CE, oltre all’obiettivo di rimuovere dalle legislazioni nazionali le
“restrizioni ingiustificate” al ricorso alla somministrazione, evidenzia la preoccupazione di garantire il rispetto
di condizioni di lavoro e di occupazione ispirate al principio di parità di trattamento, senza imporre filtri per
l’accesso all’istituto, né misure inerenti alla reiterazione dei contratti di somministrazione (come invece si
riscontra nella direttiva 1999/70/CE).
2. Dalle ragioni oggettive legittimanti ai limiti quantitativi
L’intero sistema normativo della somministrazione ha sempre poggiato (e continua a poggiare) sulla
precondizione che il somministratore faccia parte della cerchia dei soggetti abilitati a mezzo di autorizzazione
ministeriale, per il rilascio della quale l’ordinamento continua esigere requisiti soggettivi di solvibilità e
consistenza patrimoniale previsti dal combinato disposto degli artt 4 e 5 del d lgs 276/2003 (oltre che di
ulteriori requisiti organizzativo-professionali di cui al DM 5 maggio 2004)31.
L’abrogazione degli artt 20-28 del d lgs 276/2003 non inficia la persistente vigenza degli artt 4 e 5: nel definire il contratto
di somministrazione, l’art 30 sottolinea che l’agenzia somministratrice è autorizzata ai sensi del d lgs 276/2003.
A presidio dell’effettività della selezione soggettiva degli operatori abilitati alla somministrazione, continua a svolgere il
proprio ruolo l’art 18 del d lgs 276/2003, con il suo articolato corredo di sanzioni penali per le varie ipotesi di esercizio
non autorizzato delle attività (tra cui la somministrazione di lavoro) di cui all’art 4, comma 1. Né deve trarre in inganno
l’intervenuta abrogazione dei commi 3 e 3-bis dell’art 18: la previsione delle sanzioni amministrative in essi contenuta
è in realtà oggi riprodotta, in termini sostanzialmente coincidenti, nell’art 40 del d lgs 81/2015.
Il nucleo centrale dei problemi giuridici della somministrazione, nel previgente regime normativo, si è però
addensato attorno all’individuazione dei requisiti oggettivi, ossia dei casi di legittimo ricorso all’istituto (filtro
che è venuto meno con la rimozione del sistema delle causali generali nella somministrazione a termine e
delle fattispecie tipizzate previste per la somministrazione a tempo indeterminato).
A fronte della rimossa necessità di addurre ragioni giustificative, il contrappeso residuo è oggi rappresentato
dalla previsione di tetti di contingentamento). Si tratta di previsioni di notevole rilievo, non solo in quanto
essi rappresentano la più importante delle residue barriere erette dall’ordinamento rispetto alla piena
fungibilità tra assunzione diretta di dipendenti e ricorso al lavoro somministrato, ma anche perché, sul piano
generale dei rapporti tra ordinamento interno e diritto sovranazionale, tali limiti quantitativi contribuiscono
a inverare l’enunciato (presente nella direttiva 2008/104/CE e ribadito nell’art 1 del d lgs 81/2015) per cui il
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro.
31
Il DM 5 maggio 2004 ha stabilito che, ai fini del rilascio dell’autorizzazione ministeriale, l’agenzia per il lavoro deve
essere presente sul territorio in almeno 4 regioni, con non meno di 4 unità di personale qualificato (ossia, in possesso
delle competenze professionali di cui all’art 1, comma 2 del decreto) nella sede principale e almeno 2 unità di personale
qualificato in ogni unità organizzativa in ciascuna regione.
Gli strumenti introdotti dal diritto UE non hanno affatto funzionato da limiti32 al processo di progressiva
“liberalizzazione” del lavoro non standard. Piuttosto, il diritto europeo ha contribuito a diffondere la
consapevolezza, in senso esattamente inverso, della “specificità” della somministrazione e della sua
estraneità al tema della prevenzione di abusi derivanti dalla reiterazione dei contratti a termine, nonché della
sua refrattarietà ad introiettare nel diritto sovranazionale l’avversione ai fenomeni interpositori
(atteggiamento tutto italiano, derivante dalle sue proprie radici storiche).
In dottrina si è sostenuto che lo sganciamento della somministrazione dalla sussistenza di requisiti oggettivi giustificativi,
contrasterebbe con la direttiva 2008/104/CE nella parte in cui raccomanda la prevenzione degli abusi (art 4, § 1 e art 5,
§ 5). In realtà, tale obiettivo della direttiva, appare riferito più che al piano dei requisiti di accesso all’istituto, a quello
del trattamento economico e normativo del lavoratore somministrato.
L’art 5 è relativo al tema della parità di trattamento con i dipendenti comparabili dell’utilizzatore e investe quindi la
questione della determinazione delle condizioni di lavoro e di occupazione (come indica l’intitolazione del Capo II della
direttiva: Condizioni di lavoro e d’occupazione);
l’art 4 presenta un impianto chiaramente funzionale alla limitazione dei divieti, ossia all’allargamento (non alla
restrizione) delle condizioni entro cui le imprese utilizzatrici possono avvalersi della fornitura di manodopera da parte
delle agenzie per il lavoro. In una logica esattamente inversa a quella adottata dall’ordinamento italiano con la legge
1369/1960, il legislatore europeo puntualizza che possono essere consentite (in via di eccezione) talune restrizioni al
ricorso al lavoro interinale. Le ragioni d’interesse generale che possono giustificare tali restrizioni (§ 1) paiono riferirsi
ad interessi di natura latu sensu pubblica (salute e sicurezza sul lavoro, buon funzionamento del mercato del lavoro).
Pertanto, la tutela dei lavoratori interinali, evocata dalla norma quale possibile ragione giustificativa di eventuali limiti
nazionali all’accesso alla somministrazione, non può comprendere la pretesa necessità di ancorare la legittimità della
somministrazione a specifici presupposti causali, né, tantomeno, al requisito della temporaneità delle esigenze
imprenditoriali che essa intende soddisfare. All’interno dell’art 4 si può scorgere un duplice angolo visuale:
il § 4, mettendo a fuoco la figura del somministratore, si preoccupa di precisare, per ragioni di ordine pubblico del
mercato, che essa lascia impregiudicati i limiti soggettivi fissati dai legislatori nazionali.
il § 1, disciplina le condizioni d’uso dell’istituto del ricorso al lavoro interinale da parte dell’utilizzatore, ma a differenza
della direttiva 1999/70/CE (contratto a termine) non associa la nozione di abuso alla successione di contratti, né indica
misure antiabusive che gli Stati membri dovrebbero adottare e ciò rappresenta un ulteriore indice del favor del
legislatore europeo verso la somministrazione, in quanto consente al lavoratore di reperire un’occupazione (per quanto
instabile) e al contempo di procurarsi un’occasione d’incontro con l’utilizzatore, potenzialmente foriera di successive
opportunità di impiego stabile.
Il d lgs 81/105 manifesta evidente adesione al punto di vista europeo, giacché ridimensiona la centralità delle
questioni legate all’accesso alla fattispecie, equipara somministrazione a termine e somministrazione a
tempo indeterminato nell’eliminazione di ogni ragione giustificativa (mantenendo distinto il contenuto delle
discipline solo in ordine alla fonte, legale o contrattuale, di regolazione del contingentamento quantitativo)
e si concentra soprattutto sul mantenimento di un insieme di regole ad hoc per il lavoratore somministrato,
relative al rapporto di lavoro instaurato per la missione, salvo la residua e peculiare previsione (a limitazione
dello stato di precarietà in cui versa il lavoratore) della destinazione dello staff leasing a lavoratori assunti a
tempo indeterminato dal somministratore.
L’art 31, comma 1 pone fine ad ogni discussione sulla utilizzabilità o meno, nell’ambito della somministrazione a tempo
indeterminato, di lavoratori assunti a termine: possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i
lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato. Tale disposizione disvela la chiara tendenza del
32
In principio, si trattava della cd clausola di non regresso, poi la prevenzione degli abusi (evocata nelle direttive sul
lavoro a termine e sulla somministrazione) e, infine, l’enunciato-manifesto del lavoro subordinato a tempo
indeterminato come forma comune dei rapporti di lavoro.
legislatore a “circoscrivere” il proprio sfavore per il lavoro a termine sul solo terreno dello staff leasing, incoraggiando
(anzi, imponendo) l’assunzione a tempo indeterminato da parte del somministratore, sul presupposto (implicito) che
sarà l’interesse economico a collocare utilmente il lavoratore presso l’utilizzatore (onde venir sgravato del costo
corrispondente all’indennità di disponibilità) a fungere di per sé da incentivo per il reperimento delle occasioni d’impiego
(non necessariamente presso il medesimo utilizzatore).
In questi termini, il disegno normativo sembra seguire una logica piuttosto chiara. Tuttavia, sembra potersi poi cogliere
una certa incoerenza nel presidio sanzionatorio dell’art 38, comma 2. In caso di violazione dell’art 31, comma 1, il
lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell'utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle
dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione. Tale soluzione accomuna qualsiasi violazione
di somministrazione irregolare, senza distinguere tra violazioni imputabili all’una o all’altra parte del contratto di
somministrazione. Il fatto che l’ordinamento faccia gravare sull’utilizzatore il sistema dei rimedi, a fronte di accertate
patologie, poteva ritenersi ragionevole nel previgente sistema, imperniato sulla necessità di comprovare l’esistenza di
ragioni giustificative attinenti al ciclo produttivo-organizzativo dell’utilizzatore (così come oggi deve ritenersi
ragionevole che il superamento dei tetti quantitativi gravi sull’utilizzatore, che può e deve averne contezza, assai più del
somministratore). Ma nel caso della somministrazione a tempo indeterminato di lavoratori assunti a termine, la
violazione sembra tutta imputabile al somministratore, il che rende “distonica” la conseguenza prevista dalla legge a
carico dell’utilizzatore.
Conformemente all’interpretazione prevalsa a margine del DL 34/2014 (sussistendo identità di ratio tra l’art 31 del d lgs
81/2015 e l’abrogato art 1, comma 1 del d lgs 368/2001) è ragionevole ritenere che il rispetto del limite percentuale
vada verificato in relazione all’intero organico dell’impresa (e non a quello della singola unità produttiva cui sono adibiti
i lavoratori): il che appare coerente con la finalità assegnata dall’ordinamento alle norme in materia di
contingentamento, ossia sorvegliare, a fini generali di governo del mercato del lavoro, la diffusione del lavoro flessibile.
L’autonomia collettiva non è priva di potestà normativa nemmeno per lo staff leasing: l’art 31 comma 1
esplicita che il limite legale opera salvo diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall’utilizzatore,
sancendone così il rango di norma semi-imperativa.
Sul punto va precisato che la facoltà di deroga da parte dell’autonomia collettiva, stando al tenore letterale dell’art 31,
comma 1, risulta circoscritta al solo staff leasing, non potendosi estendere all’introduzione di limitazioni ulteriori che
giungano sino al punto di impedire del tutto l’utilizzo dell’istituto della somministrazione o di circoscriverlo sulla base di
causali o ragioni legittimanti. Tale lettura s’impone non solo per la lettera della disposizione (oltre che per un’esigenza
di coerenza rispetto alle chiare finalità pro-occupazionali e al connesso favor che l’ordinamento riconosce ormai alla
somministrazione), ma anche per la necessità di orientare l’interpretazione alla luce della direttiva 2008/104/CE, la
quale contrasta espressamente i limiti ingiustificati alla diffusione della somministrazione, circoscrivendone la legittima
apponibilità da parte degli Stati membri.
La sopravvenuta acausalità dello staff leasing finisce per produrre una riduzione del ruolo assegnato alle parti
sociali in materia, in quanto ne esce soppiantata la tecnica normativa su cui l’istituto poggiava: tale tecnica
rispondeva al modello della flessibilità socialmente controllata, che delegava ai contratti collettivi (anche
aziendali) la potestà di introdurre ulteriori casi di somministrazione a tempo indeterminato, in aggiunta alle
fattispecie di matrice legale contenute nella medesima disposizione di legge rinviante.
Peraltro, l’intreccio tra le fonti (legale e contrattuale) non si indirizza univocamente, nella trama del d lgs
81/2015, nella direzione del depotenziamento della contrattazione collettiva. Un certo ampliamento delle
potestà regolative delle parti sociali è rinvenibile nella somministrazione a tempo determinato: qui non vi è
alcun limite quantitativo di legge, ma si affida il contingentamento alla contrattazione collettiva, attraverso
l’esplicito rinvio di cui all’art 31, comma 2. E se si compara il tenore di questa disposizione con quello
dell’abrogato art 20, comma 4 del d lgs 276/2003 (che con l’entrata in vigore del DL 34/2014, deprivato dei
limiti causali alla somministrazione, si era ridotto a mera norma di rinvio alla contrattazione collettiva) ci si
avvede che il rinvio del legislatore del 2015 è meno selettivo circa i livelli della contrattazione, poiché si
indirizza ai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore (anche territoriali e aziendali). Dal che si desume
un’ampliata apertura di credito verso la contrattazione collettiva.
Ovviamente, valgono anche qui le osservazioni svolte in relazione allo staff leasing. L’ambito oggettivo su cui tali
contratti sono abilitati ad intervenire è quello del contingentamento quantitativo, dovendosi escludere la validità di
clausole contrattuali volte a limitare o a impedire il ricorso alla somministrazione in relazione a ragioni oggettive
giustificative o a specifiche mansioni, ovvero a circoscriverne la durata.
Fatte salve le ipotesi di esenzione ex lege dai limiti quantitativi (art 31, comma 2: gli iscritti alle liste di
mobilità, i percettori da almeno 6 mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori
sociali, nonché i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati di cui al regolamento 651/2014/UE)33 alle parti
sociali viene affidato il compito di definire la misura (e la possibile incidenza) della somministrazione a
termine nell’organizzazione produttiva dell’impresa utilizzatrice (e, di conseguenza, nel mercato del lavoro).
L’art 51 può far sorgere considerevoli questioni: salvo diversa previsione, i contratti collettivi di cui parla il decreto
legislativo devono essere intesi come i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni
sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro
RSA o dalla RSU. Non è del tutto chiaro quale significato possa assumere questa norma di carattere generale una volta
proiettata specificamente sui contratti collettivi evocati dall’art 31, comma 1 e 2.
Per i contratti collettivi in materia di staff leasing, si può comprendere che il legislatore si preoccupi di rinviare alla
contrattazione collettiva in maniera selettiva, posto che tali contratti potrebbero derogare al limite legale,
eventualmente innalzandolo.
33
(punto 99: lavoratore molto svantaggiato) a) lavoratore privo da almeno 24 mesi di impiego regolarmente retribuito
o b) lavoratore privo da almeno 12 mesi di impiego regolarmente retribuito che appartiene a una delle categorie di cui
alle lettere da b) a g) della definizione di lavoratore svantaggiato; (punto 4: lavoratore svantaggiato) a) non avere un
impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi; b) avere un'età compresa tra i 15 e i 24 anni; c) non possedere un
diploma di scuola media superiore o professionale (livello ISCED 3) o aver completato la formazione a tempo pieno da
non più di 2 anni e non avere ancora ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito; d) aver superato i 50 anni di
età; e) essere un adulto che vive solo con una o più persone a carico; f) essere occupato in professioni o settori
caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25 % la disparità media uomo-donna in tutti
i settori economici dello Stato membro interessato se il lavoratore interessato appartiene al genere sottorappresentato;
g) appartenere a una minoranza etnica di uno Stato membro e avere la necessità di migliorare la propria formazione
linguistica e professionale o la propria esperienza lavorativa per aumentare le prospettive di accesso ad un'occupazione
stabile.
Per i contratti collettivi in materia di somministrazione a termine, risulta meno immediato cogliere la ratio della
selezione, poiché, in carenza di un contingentamento di fonte legale, qualsiasi limite negoziale, applicabile secondo il
diritto comune e a prescindere dalle qualità rappresentative degli stipulanti, dovrebbe essere accolto favorevolmente
dall’ordinamento.
La lettera dell’art 51 non sembra però consentire all’interprete di sottrarre i contratti collettivi cui si riferisce l’art 31 dal
suo campo di applicazione: la clausola di salvaguardia posta dalla legge (in forza della quale la portata precettiva della
disposizione opera salvo diversa previsione) esigerebbe un’esplicita deroga, che nell’art 31 non è rinvenibile.
Se si prendono in esame le indicazioni contenute nell’art 51, ci si avvede che, per quanto riguarda i contratti collettivi
nazionali e territoriali, il richiamo al criterio della maggiore rappresentatività comparata viene utilizzato nella sua
accezione originaria, ossia in funzione della “selezione” del contratto collettivo idoneo a riempire il contenuto del rinvio
legale. Il richiamo al criterio della maggiore rappresentatività comparata appare invece meno comprensibile laddove il
dettato dell’art 51 si riferisce alla conclusione di contratti collettivi aziendali, poiché in tal caso non si porrà tanto il
problema della scelta del contratto, quanto quello assicurare un livello adeguato di rappresentatività del “sindacato
esterno” che stipula il contratto aziendale, per cui la locuzione usata nella norma sembra dover essere intesa come
equivalente all’antica formula del sindacato maggiormente rappresentativo.
In effetti, è la nozione stessa di maggiore rappresentatività comparata a prestarsi assai malamente al governo dei rinvii
legali alla contrattazione aziendale. L’intendimento della legge è quello di circoscrivere la portata del rinvio legale a
processi negoziali in cui si dispieghi un’adeguata capacità rappresentativa degli stipulanti. Senonché non si può non
rilevare come il legislatore miri solo a garantire al sistema un obiettivo minimale, ossia che gli accordi collettivi siano
sottoscritti da agenti negoziali capaci di soddisfare alcuni requisiti necessari di rappresentatività (come minimo quelli di
cui all’art 19 Stat. Lav.), senza che ciò implichi di affrontare (e tantomeno risolvere) il problema della misurazione del
consenso formatosi attorno all’accordo, delle fratture del fronte sindacale, della consistenza maggioritaria o meno delle
rappresentanze che stipulano il contratto. Tutto questo insieme di questioni trova una regolazione pattizia allorché il
contratto sia sottoscritto dalla RSU, mentre in caso di contratto stipulato da RSA, l’art 51 non richiede una misurazione
della rappresentatività in funzione del raggiungimento di una maggioranza, lasciando così aperto il problema della
determinazione del suo ambito soggettivo di efficacia.
Piuttosto, nel tessuto del d lgs 81/2015 resta privo di esplicita risposta un quesito di significativa importanza.
Che ne è del contingentamento quantitativo della somministrazione a termine qualora i contratti collettivi
applicati dall’utilizzatore nulla dispongano? La clausola di contingentamento è essenziale al fine di accedere
alla somministrazione oppure il ricorso alla somministrazione può ritenersi privo di limiti quantitativi?
Ritenere che, nel silenzio del contratto collettivo, la somministrazione a termine sia integralmente inibita significherebbe
pervenire a una soluzione incompatibile con le previsioni della direttiva 2008/104/CE, la quale chiede agli Stati membri
di rimuovere le restrizioni ingiustificate alla diffusione dell’istituto. Una lettura dell’art 31, comma 2 che ritenga
imprescindibile la fissazione di un limite quantitativo di fonte negoziale implicherebbe attribuire ai contratti collettivi il
potere di decidere persino di escludere l’an (non solo governare il quantum) del ricorso legittimo alla somministrazione
a tempo determinato.
D’altra parte, non sembra possibile pervenire alla lettura opposta, nel senso dell’assoluta accidentalità del
contingentamento di fonte collettiva, per cui la somministrazione a termine sarebbe fruibile ad libitum.
Qui interviene il richiamo al carattere di forma comune di rapporto di lavoro del contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato (art 1): il limite implicito all’utilizzo della somministrazione a termine
sarà circoscritto in misura almeno inferiore a quella del lavoro subordinato a tempo indeterminato.
I limiti quantitativi sono il più significativo fattore di limitazione del ricorso alla somministrazione. Ad essi si
aggiungono però gli espliciti divieti di utilizzazione della somministrazione di cui all’art 32 (che ricalca il
tenore dell’abrogato art 20, comma 5 d lgs 276/2003). Il divieto continua ad operare:
a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano in diritto di sciopero;
b) nelle unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi
degli artt 4 e 24 della legge n. 223 del 1991, che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui
si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro, salvo che il contratto sia concluso per provvedere alla
sostituzione di lavoratori assenti o abbia una durata iniziale non superiore a 3 mesi;
c) nelle unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in
regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce
il contratto di somministrazione di lavoro;
d) nei confronti degli utilizzatori che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della
normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
In realtà, circa i divieti legali in questione, l’aderenza testuale tra vecchia e nuova disciplina non è integrale.
Innanzitutto, l’effetto impeditivo generato dalla circostanza che il datore di lavoro abbia proceduto a recenti
licenziamenti collettivi o stia fruendo dell’accesso ad un regime di integrazione salariale, non è più derogabile
dall’autonomia collettiva, come avveniva nel regime precedente.
Inoltre, nella norma che sancisce il divieto di ricorrere alla somministrazione per le stesse mansioni già svolte da
lavoratori espulsi tramite licenziamento collettivo, scompare l’eccezione (contenuta nell’art 20, comma 5 del d lgs
276/2003) riferita ai lavoratori provenienti dalle liste di mobilità, i quali dunque non possono più essere somministrati
in presenza della ragione ostativa in questione.
Solo nel caso di assunzioni funzionali alla somministrazione a tempo indeterminato il legislatore ha ritenuto di vincolare
il somministratore ad assumere il lavoratore con contratto a tempo indeterminato, legificando (art 31, comma 1) una
previsione già introdotta dalla contrattazione collettiva (CCNL agenzie di somministrazione, 2014). Nella
somministrazione a termine, la scelta della durata del contratto di lavoro è invece libera.
L’art 34, comma 2, nel rinviare alla disciplina del lavoro a termine, ripropone il filtro già contenuto
nell’abrogato art 22, comma 2 d lgs 276/2003, ma lo arricchisce di alcune specificazioni, ribadendo
l’inapplicabilità al rapporto tra lavoratore e agenzia:
1) del limite di durata complessiva di 36 mesi (art 19, comma 1, 2 e 3);
2) della disciplina inerente a proroghe e rinnovi (art 21);
3) delle limitazioni quantitative (art 23);
4) del diritto di precedenza nelle eventuali successioni a tempo indeterminato (art 24)34.
Inoltre, è rimesso al contratto collettivo applicato dal somministratore il compito di governare i casi e la
durata delle proroghe del contratto di lavoro a termine stipulato dall’agenzia. La materia è oggi regolata dal
CCNL delle agenzie per il lavoro, nel quale si prevede un numero massimo di 6 proroghe nell’arco di 36 mesi.
Ad uno sguardo d’insieme, colpisce il fatto che il favor del legislatore per il lavoro a tempo indeterminato si
realizzi nelle forme del lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell’agenzia di somministrazione (art
31, comma 1), come pure nell’utilizzabilità (volontaria, ancorché incentivata dalla contrattazione collettiva)
del lavoro a tempo indeterminato nella somministrazione a termine, con indennità di disponibilità (art 34,
comma 1). Ciò testimonia ulteriormente come la somministrazione si sia del tutto affrancata, nella visuale
dell’ordinamento, da quel giudizio di tendenziale disvalore che l’ha lungamente accompagnata. Il legislatore
sembra aver maturato piena consapevolezza che il lavoratore somministrato, spesso percepito come
l’archetipo di tutte le forme di precariato, è invece destinatario di un regime protettivo alquanto rilevante.
E ciò non solo per il regime di rafforzata garanzia patrimoniale del somministratore (che già di per sé rende piuttosto
illogico concepire quale “privilegiata” forma di tutela l’imputazione forzosa del rapporto in capo a soggetti
economicamente assai meno solidi, come nel caso delle piccole imprese utilizzatrici), ma anche perché, sul piano
dell’occupabilità e delle aspettative di continuità d’impiego del lavoratore, il vigente sistema delle tutele di matrice
bilaterale-collettiva dovrebbe giustificare da parte dell’ordinamento un tendenziale favor verso la somministrazione
(meglio se con assunzione a tempo indeterminato) rispetto alle altre forme di lavoro flessibile.
La stabilizzazione presso l’utilizzatore sembra invece concepita dal legislatore per lo più come rimedio alle
patologie contrattuali.
Nella fisiologia delle dinamiche della somministrazione la disciplina legale spinge assai più debolmente verso
l’assunzione a tempo indeterminato da parte dell’utilizzatore.
Le norme che muovono in questa direzione sono limitate alla previsione (art 35, comma 8) della nullità per la clausola
diretta a limitare, anche indirettamente, la facoltà dell’utilizzatore di assumere il lavoratore al termine della missione
(fatta salva l'ipotesi in cui al lavoratore sia corrisposta una adeguata indennità, secondo quanto stabilito dal contratto
collettivo applicabile al somministratore), nonché al riconoscimento ai lavoratori somministrati (art 31, comma 3) del
diritto ad essere informati dall’utilizzatore dell’esistenza di posti vacanti (presidiato dall’applicabilità di una sanzione
amministrativa, ai sensi dell’art 40, comma 1). Ma a tale diritto d’informazione non segue poi l’attribuzione al lavoratore
di un diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni a tempo indeterminato effettuate dall’utilizzatore (stante
l’espressa esclusione dell’art 34, comma 2).
In definitiva, il legislatore del 2015 mostra di voler lasciare allo spontaneo svolgimento del mercato
l’eventualità che l’utilizzatore assuma, in un secondo momento, il lavoratore somministrato, concedendo una
sostanziale apertura di credito alle capacità della somministrazione di propiziare un primo incontro tra
lavoratore e utilizzatore, foriero di evoluzioni più stabili allorché l’utilizzatore apprezzi le qualità professionali
del lavoratore (e cessi di apparirgli utile o necessario sostenere ulteriormente nel tempo il maggior costo del
lavoro corrispondente al margine di profitto dell’agenzia).
Ad accrescere il favor verso la somministrazione concorre poi l’innovativa previsione dell’art 34, comma 3, in
base alla quale (in deroga alla non computabilità del lavoratore somministrato nell’organico dell’utilizzatore)
del lavoratore si tiene conto non più solo ai fini dell’applicabilità delle norme in materia di tutela della salute
34
La sperimentazione contrattuale è varia e interessante. Il CCNL agenzie per il lavoro prevede un incentivo economico,
finanziato dall’Ente bilaterale per il lavoro temporaneo (Ebitemp) a vantaggio delle agenzie che assumano lavoratori a
tempo indeterminato o trasformino contratti a termine già stipulati per somministrazioni a tempo determinato.
e della sicurezza sul lavoro, ma anche in caso di somministrazione di lavoratori disabili, per missioni di durata
non inferiore a 12 mesi, ai fini del soddisfacimento della quota di riserva di cui alla legge 68/1999.
Per il resto, la disciplina del rapporto di lavoro vede confermata (art 34, comma 4) l’inapplicabilità delle
norme in materia di licenziamento collettivo in caso cessazione del rapporto di somministrazione a tempo
indeterminato (si applica l’art 3 della legge 604/1966)
5. Diritti e tutele del lavoratore somministrato
Il cuore dell’apparato protettivo dettato dalla legge in materia di somministrazione va rinvenuto (più che
nelle limitazioni al suo utilizzo, ormai grandemente allentate) nella disciplina sostanziale e nelle tutele
applicabili al rapporto di lavoro ed esigibili in larga parte anche nei confronti dell’utilizzatore.
Negli artt 35 – 37 si ritrovano, con minime modifiche, regole già contenute negli artt 23 – 26 d lgs 276/2003:
responsabilità solidale di somministratore e utilizzatore in ordine al pagamento della retribuzione e al
versamento dei contributi previdenziali (art 35, comma 2);
principio di pari trattamento con i dipendenti comparabili dell’utilizzatore, da riferirsi a condizioni economiche
e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello a livello dell’utilizzatore (art
35, comma 1);
diritto dei lavoratori somministrati a percepire le voci retributive variabili (correlate ai risultati conseguiti nella
realizzazione di programmi concordati tra le parti o collegati all'andamento economico dell'impresa)
disciplinate dai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore, come pure ad accedere ai servizi sociali e
assistenziali di cui godono i dipendenti dell'utilizzatore addetti alla stessa unità produttiva, dispensati dal
welfare aziendale (art 35, comma 3);
ripartizione delle responsabilità in tema di obbligazione di sicurezza, inclusa la possibilità che il contratto
commerciale di somministrazione possa delegare all’utilizzatore (che osserva nei confronti dei lavoratori
somministrati gli obblighi di prevenzione e protezione cui è tenuto, per legge e contratto collettivo, nei confronti
dei propri dipendenti) l’informazione e la formazione su rischi e attrezzature di lavoro (art 35, comma 4);
modalità di esercizio del potere disciplinare (ai fini dell'esercizio del potere disciplinare, che è riservato al
somministratore, l'utilizzatore comunica al somministratore gli elementi che formeranno oggetto della
contestazione ai sensi dell'art 7 della legge. 300/1970: art 35, comma 6);
esenzione del somministratore da responsabilità in caso di assegnazione a mansioni diverse da quelle dedotte
in contratto (l'utilizzatore deve darne immediata comunicazione scritta al somministratore: diversamente,
risponde in via esclusiva per le differenze retributive spettanti al lavoratore occupato in mansioni superiori e per
l'eventuale risarcimento del danno derivante dall'assegnazione a mansioni inferiori: art 35, comma 5);
responsabilità civile dell’utilizzatore per i danni a terzi arrecati dal lavoratore (art 35, comma 7);
godimento dei diritti sindacali da parte dei lavoratori somministrati, nei confronti del proprio datore di lavoro
(art 36, comma 1) o presso l’utilizzatore (art 36, comma 2);
contenuti (determinati in relazione al tipo e al rischio delle lavorazioni svolte) e modalità (a carico del
somministratore) della copertura previdenziale dei lavoratori (art 37).
6. L’apparato sanzionatorio
L’osservanza delle norme in materia di somministrazione è garantita, nelle intenzioni del legislatore, da una
triade di risposte sanzionatorie:
quelle penali, contenute nell’art 18 del d lgs 276/2003, per il caso di esercizio non autorizzato dell’attività di
somministrazione di manodopera (con sanzioni a carico del somministratore e dell’utilizzatore);
quelle amministrative, oggi racchiuse nell’art 40, a fronte di una serie variegata di infrazioni, con previsione
di sanzioni, a seconda dei casi, a carico del somministratore, dell’utilizzatore, o di entrambi;
i rimedi civilistici, operanti in base agli artt 38 e 39 sul rapporto di lavoro a fronte della multiforme fattispecie
della somministrazione irregolare.
Sul piano pubblicistico, l’irrogazione di sanzioni amministrative è prefigurato in relazione:
alla carenza dei requisiti formali e sostanziali del contratto di somministrazione
l’art 33, comma 1 esige che il contratto di somministrazione sia stipulato in forma scritta e contenga una serie di
elementi essenziali, volti a garantire la trasparenza dell’operazione contrattuale: sanzioni a carico di entrambe le parti;
L’obbligo di informazione nei confronti del lavoratore (elementi relativi al contratto di somministrazione, inizio e durata
della missione: art 33, comma 3) genera sanzioni a carico del somministratore (titolare del contratto di lavoro)
alla violazione dei limiti quantitativi (art 31) e dei divieti legali (art 32)35,
all’impiego nell’ambito di uno staff leasing di lavoratori assunti a tempo determinato (“illogica” la sanzione
a carico dell’utilizzatore: l’assunzione a termine, in violazione dell’art 31, comma 1, è stata posta in essere
dal somministratore)
alla violazione del principio di parità di trattamento (art 35, comma 1): sanzione a carico di entrambe le parti
del contratto di somministrazione
al mancato riconoscimento ai lavoratori somministrati del welfare aziendale erogato ai dipendenti
dell’utilizzatore (art 35, comma 3): sanzione a carico dell’utilizzatore
all’omissione da parte dell’utilizzatore dell’informativa sindacale (art 36, comma 3) su quantità, durata e
composizione professionale della forza-lavoro somministrata: sanzione a carico dell’utilizzatore.
Al di là delle sanzioni di tipo pubblicistico, l’attenzione dell’interprete finisce soprattutto per essere catturata
dal piano delle conseguenze sulla posizione soggettiva del lavoratore.
L’art 38 unifica nella figura della somministrazione irregolare tutti i vizi del contratto di somministrazione.
Il vizio formale (comma 1: in mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo) costituisce
una sub-fattispecie di somministrazione irregolare: la nullità del contratto di somministrazione comporta la conseguenza
che i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore. Rimosso il contratto di
somministrazione, l’aver svolto attività lavorativa sotto la direzione dell’utilizzatore implica l’imputazione ex lege del
rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, il che si potrebbe desumere (ove, per assurdo, l’art 38, comma 1 non esistesse)
anche dall’art 2094 cc in relazione alla circostanza dell’esercizio del potere direttivo da parte dell’utilizzatore.
La relativa azione si configura come un’azione di nullità, tesa ad ottenere di una pronuncia dichiarativa (come avveniva
nel vigore della legge 1369/1960, che prevedeva analogo impianto). L’azione può essere proposta (anche nei confronti
del solo utilizzatore) da chiunque vi abbia interesse ed è imprescrittibile (dunque sottratta al rispetto dei termini
decadenziali di cui all’art 39, comma 1).
Il comma 2 riguarda il caso della somministrazione che, seppur in forma scritta e ad opera di un’agenzia
regolarmente autorizzata, avvenga in violazione degli altri limiti: tetti quantitativi (art 31, comma 1 e 2),
somministrazione a tempo indeterminato di lavoratori assunti a termine (art 31, comma 1), divieti legali (art
32), omessa indicazione nel contratto commerciale degli elementi essenziali (art 33, comma 1).
Come nel regime normativo anteriore, l’irregolarità della somministrazione comporta che il lavoratore possa
ottenere la costituzione (ex tunc) di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore36 (il termine
35
Con sanzioni a carico del solo utilizzatore, dato che limiti quantitativi e divieti legali sono costruiti dalla legge con
riferimento al ciclo produttivo e all’organizzazione dell’utilizzatore.
36
Ciò è esplicitamente escluso nei riguardi delle pubbliche amministrazioni (art 38, comma 4). Ma si tratta di una
previsione ridondante: già l’art 36, comma 5 del d lgs 165/2001 lo esclude in via generale: la violazione di disposizioni
imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può
comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Del resto, tale previsione si pone in coerenza
con i principi dell’accesso agli impieghi pubblici tramite concorso (art 97, comma 3 Cost), con il buon andamento della
apposto al contratto di lavoro s’intende caducato: la pronuncia giudiziale costituisce un rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, con effetto dall’inizio della somministrazione).
La retroattività degli effetti costitutivi della sentenza spiega anche perché, ai sensi del comma 3, tutti i pagamenti, a
titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, effettuati dal somministratore, valgono a liberare l’utilizzatore (dai
debiti derivanti dal rapporto di lavoro che gli viene imputato) e perché tutti gli atti compiuti o ricevuti dal
somministratore nella costituzione e nella gestione del rapporto di lavoro, finché la somministrazione irregolare ha avuto
svolgimento, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione.
L’art 39, comma 1 prevede un doppio termine (decadenziale) entro cui il lavoratore ha l’onere di far valere
l’irregolarità della somministrazione: 60 giorni per la reazione stragiudiziale (art 6, legge 604/1966), a
decorrere dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore, cui va
fatta seguire, entro i successivi 180 giorni, l’azione giudiziaria.
A ciò si accompagna la previsione (art 39, comma 2) del diritto del lavoratore alla percezione di un’indennità
onnicomprensiva, compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione (non la retribuzione globale di
fatto, ma quella di riferimento per il calcolo del TFR), a copertura del pregiudizio sofferto dal lavoratore per
la mancata esecuzione del rapporto di lavoro nel periodo compreso tra la cessazione di fatto dell’attività
lavorativa presso l’utilizzatore e la sentenza costitutiva di cui all’art 38, comma 2.
Trova qui conferma, con il crisma autorevole del precetto legale, l’applicabilità, anche alla somministrazione, di una
riparazione patrimoniale forfettizzata [nei termini di cui all’art 32, comma 5 della legge 183/2010, a sua volta
esplicitamente abrogato dall’art 55, comma 1 lett f) d lgs 81/2015] per i casi di conversione del contratto a termine.
PA (art 97, comma 1 Cost), nonché con le esigenze di controllo e contenimento della spesa pubblica (ricavabili, seppure
indirettamente, dall’art 81 Cost)
Dall’analisi dei dati statistici emerge però che l’apprendistato professionalizzante ha continuato nel tempo
ad affermarsi come il tipo di apprendistato di gran lunga più utilizzato, mentre gli altri tipi hanno
progressivamente perduto consistenza. Ciò ha spinto il legislatore a rivedere ulteriormente la disciplina
dell’istituto, al fine di rafforzare l’appetibilità dell’apprendistato del primo e del terzo tipo e di avviare la
costruzione del sistema italiano di formazione duale.
2. Le finalità perseguite dal d lgs 81/2015 e dal d lgs 150/2015
Il legislatore del 2015 ritorna sul tema con 2 importanti provvedimenti:
il d lgs 81/2015, che nell’ambito della nuova disciplina organica dei contratti di lavoro riscrive integralmente
(artt 41 – 47) la disciplina dell’apprendistato, abrogando il relativo TU (d lgs 167/2011);
il d lgs 150/2015, che incentiva (art 32) il ricorso al contratto di apprendistato del I e del III tipo, mediante
consistenti benefici economici, avviando altresì una sperimentazione dotata di specifici finanziamenti per
percorsi formativi specifici di alternanza scuola – lavoro.
L’apprendistato permane articolato in 3 tipi, ma al suo interno emerge, con sempre maggiore evidenza, la
distinzione tra 2 filoni:
a) quello professionalizzante, erede della tradizione dell’apprendistato italiano, che si caratterizza per
essere rivolto (in prevalenza) a giovani lavoratori che svolgono anche attività formative per il
conseguimento di una qualificazione contrattuale ai fini professionali;
b) gli apprendistati di I e III tipo, che concretano la “via italiana” al modello duale, inteso come
opportunità offerta a chi studia di ottenere (in alternanza studio – lavoro) titoli di studio del nostro
sistema educativo. In questo senso, gli apprendistati appartenenti a questo secondo filone possono
essere ricondotti alla definizione di apprendistati per l’acquisizione di titoli di studio.
Per rilanciare questo secondo filone occorre una forte intesa fra istituzioni formative e imprese. Opportunamente, il
decreto interministeriale 12 ottobre 2015 richiede l’individuazione di un tutor formativo e di un tutor aziendale,
individuati, rispettivamente, nell’area formativa e presso il datore di lavoro. Occorre però considerare che la ridotta
dimensione media dell’impresa italiana aumenta le difficoltà dei datori di lavoro a gestire gli aspetti formativi e
burocratici connessi ad un apprendistato genuinamente orientato a perseguire finalità formative.
L’aver specificato che la forma scritta ad probationem per il contratto è senz’altro un’innovazione rispetto agli
orientamenti di giurisprudenza e dottrina (che, nel silenzio del legislatore, propendevano per la tesi secondo cui la forma
scritta fosse richiesta ad substantiam). Non sembra aver rilievo, invece, l’obiezione in merito al patto di prova: la forma
scritta è già richiesta dall’art 2096 cc. Né tantomeno, si può pensare che tale omissione sia da interpretare come
negazione della facoltà di inserire il patto di prova nel contratto di apprendistato. Le obiezioni circa la mancata espressa
previsione della forma scritta per la validità del piano formativo individuale appaiono deboli. Nell’apprendistato per
l’acquisizione di titoli di studio, il piano formativo individuale è predisposto dalla istituzione formativa con il
coinvolgimento dell’impresa e in esso sono stabiliti il contenuto e la durata degli obblighi formativi. Nell’apprendistato
professionalizzante, spetta al datore di lavoro stendere il piano formativo individuale, anche avvalendosi di moduli o
formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva, ma esso è anche contenuto, in forma sintetica, nel contratto di lavoro
(art 42, comma 1). Pertanto, il piano formativo individuale deve necessariamente rivestire forma scritta.
L’art 42, comma 5, lett a) – h) circoscrive il mandato alla fonte collettiva. Si tratta di principi da tempo
presenti nella legislazione in materia. Per alcuni di essi non è chiaro perché il legislatore abbia scelto di
utilizzare la formula del rinvio alla contrattazione collettiva: non vi sono margini per declinare in sede
contrattuale quanto affermato dal legislatore (il divieto di retribuzione a cottimo, la presenza del tutor
aziendale, la possibilità di finanziamento dei percorsi formativi aziendali attraverso Fondi paritetici
interprofessionali, la registrazione nel libretto formativo del cittadino della formazione effettuata e della
qualificazione professionale eventualmente acquisita ai fini contrattuali).
Proprio in ragione dei poteri devoluti alla contrattazione collettiva, non può non essere affrontato il problema
di quale sia la disciplina applicabile al contratto di apprendistato stipulato da un datore di lavoro che non
aderisce ad un contratto collettivo stipulato da organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale.
L’apprendistato è un contratto di lavoro caratterizzato da finalità formative e occupazionali, dunque
portatore di specifici benefici (gli incentivi economici e normativi ad esso collegati). A garanzia del “genuino”
perseguimento di tali finalità, il legislatore non si limita a dettare direttamente alcune norme, ma devolve a
soggetti sindacali selezionati il potere di completare la disciplina del contratto, inquadrandone l’opera entro
determinati principi.
Il datore di lavoro è “libero” di non accedere ai benefici di questo particolare contratto di lavoro
(fiscalizzazione degli oneri formativi, sgravi contributivi, salario d’ingresso, incentivi normativi).
Tuttavia, se intende utilizzare il contratto di apprendistato (e godere dei vantaggi di cui esso è portatore)
deve necessariamente applicare un accordo interconfederale o un contratto collettivo stipulato da soggetti
sindacali selezionati o sottoscrivere nel contratto individuale una clausola di adesione alla disciplina in
materia di apprendistato prevista da tali accordi o contratti.
3.2. La definizione del contratto di apprendistato come contratto di lavoro a tempo indeterminato
L’apprendistato è definito, in continuità con il d lgs 167/2011 un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
In dottrina è stata segnalata la necessità di assegnare al processo formativo una durata determinata o
determinabile. Tuttavia, appare più convincente l’orientamento che ritiene non incompatibile la durata
indeterminata del contratto con la previsione di una durata minima e massima dell’apprendistato, in quanto
quest’ultima è da ritenere riferita alla sola componente formativa e volta quindi a delimitare esclusivamente
il periodo di apprendimento.
Vi è chi interpreta tale definizione come una trasformazione dell’apprendistato da contratto tipizzato a mero
patto inerente a un contratto a tempo indeterminato e avente ad oggetto un periodo di formazione finalizzato
al proseguimento (eventuale) del rapporto presso lo stesso datore.
È preferibile invece leggere la normativa come una conferma della specialità dell’apprendistato, un contratto
di lavoro subordinato in cui la causa tipica (lo scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione) è integrata
con altre finalità (la formazione e l’occupazione).
Lo testimoniano la peculiare disciplina degli obblighi e dei doveri formativi posti in capo alle parti e le regole
in materia di licenziamenti individuali.
In particolare, il legislatore mantiene ferma la facoltà delle parti di recedere liberamente al termine del
periodo di apprendistato: l’art 42, comma 4 afferma che al termine del periodo di apprendistato le parti
possono recedere dal contratto, ai sensi dell'art 2118 del codice civile, con preavviso decorrente dal
medesimo termine, mentre se nessuna delle parti recede il rapporto prosegue come ordinario rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato. Pertanto, la disciplina del recesso o del licenziamento individuale
nel contratto di apprendistato muta in relazione ai diversi periodi che vive il contratto
a) durante il periodo formativo, si applica la disciplina comune (contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato);
b) al termine di tale periodo, opera la libera recedibilità (art 2118 cc), ma qualora le parti optino per la prosecuzione del
rapporto di lavoro torna ad applicarsi la disciplina restrittiva del potere di licenziamento.
Ciò conferma la specialità di un contratto di lavoro che non assume in toto né le regole dei contratti a tempo
indeterminato, né quelle dei contratti a tempo determinato. La definizione del legislatore va dunque letta
nel suo insieme: l’apprendistato è un contratto di lavoro che, in ragione delle specifiche finalità formative e
occupazionali che lo caratterizzano, è assoggettato, su aspetti fondamentali del rapporto, ad una disciplina
del tutto peculiare.
3.3 Il licenziamento durante il periodo di apprendistato e la facoltà di recesso al termine di tale periodo
Il legislatore distingue tra:
licenziamento illegittimo posto in essere durante il periodo di apprendistato (art 42, comma 3);
recesso al termine del periodo di apprendistato (art 42, comma 4).
Nella sentenza 169/1973, la Corte costituzionale aveva considerato distintamente le 2 ipotesi affermando:
a) l’illegittimità costituzionale dell’art 10 della legge 604/1966, nella parte in cui escludeva gli apprendisti
dall’applicabilità della tutela contro i licenziamenti individuali illegittimi adottati nel corso del periodo di apprendistato;
b) la legittimità costituzionale dell’art 19 della legge 25/1955, che consentiva al datore di lavoro di scegliere liberamente
se, al termine dell’apprendistato, mantenere in servizio il lavoratore con la qualifica conseguita o recedere ai sensi
dell’art 2118 cc.
L’art 42, comma 3 conferma l’applicazione, durante il periodo di apprendistato, della disciplina generale dei
licenziamenti: il licenziamento sarà legittimo solo se sostenuto da giusta causa o da giustificato motivo e
privo di vizi formali o procedurali (sarà invece da considerare nullo se intimato per motivi discriminatori, per
altre cause di nullità previste ex lege o intimato in forma orale). A questo quadro si aggiunge una peculiare
indicazione, coerente con le finalità formative perseguite: nel contratto di apprendistato del primo tipo (per
la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di
specializzazione tecnica superiore): costituisce giustificato motivo di licenziamento il mancato
raggiungimento degli obiettivi formativi come attestato dall'istituzione formativa.
A fronte della mancata diligenza da parte dell’apprendista nel partecipare alle attività formative (come in caso di
reiterate assenze prive di giustificazione) e ove l’istituzione formativa formalizzasse al datore di lavoro il mancato
raggiungimento degli obiettivi formativi, verrebbe a configurarsi un giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento.
Pertanto, il percorso formativo può essere interrotto anticipatamente qualora non siano raggiunti, anno dopo anno, gli
obiettivi previsti dalla struttura del percorso formativo per il passaggio da un livello a quello superiore: sarà l’istituzione
formativa a certificare l’insuccesso formativo che il datore di lavoro può porre a fondamento del licenziamento.
L’art 42, comma 4 disciplina il recesso al termine del periodo di apprendistato. Le parti possono recedere
dal contratto, ai sensi dell'art 2118 del codice civile, con preavviso decorrente dal medesimo termine. Durante
il periodo di preavviso, continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato.
In assenza di recesso, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato (sostenuto dagli incentivi).
3.4 L’ampliamento del campo di applicazione e i limiti alla facoltà di assunzione
Il d lgs 81/2015 conferma la tendenza espansiva dell’ambito di applicazione dell’apprendistato, già avviata
dal TU del 2011 e che proietta l’istituto ben oltre i tradizionali confini.
La più importante disposizione è quella che ammette il contratto di apprendistato professionalizzante, senza
limiti di età, per i lavoratori in mobilità o beneficiari di un trattamento di disoccupazione al fine di consentire
la qualificazione o riqualificazione professionale (art 47, comma 4). Tra l’altro, per essi trovano applicazione,
in deroga alle previsioni di cui all'art 42, comma 4 (recesso al termine del periodo formativo) le disposizioni
in materia di licenziamenti individuali. Ciò “scardina” il requisito soggettivo dell’età, che in passato è stato
un elemento fondamentale per l’individuazione dei potenziali beneficiari dell’istituto.
Così disciplinato, l’apprendistato professionalizzante persegue finalità che in altri Paesi sono affidate a specifici contratti
di lavoro. In particolare, la legislazione francese, oltre al tradizionale apprendistato (contrat d’apprentissage), disciplina
il contrat de professionnalisation, un contratto di lavoro rivolto, oltre ai giovani, anche ai disoccupati con più di 26 anni
di età, in cui è prevista la formazione in alternanza sulla base di una convenzione stipulata tra il datore di lavoro e
l’organismo incaricato dalla formazione.
Altrettanto suggestiva (ma ancora deludente sul piano dei risultati) è la norma che consente il ricorso
all’apprendistato di alta formazione e ricerca per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche
(art 45, comma 1).
Il DM 12 ottobre 2015, che all’art 5, commi 9 e 11, nel riconoscere la specificità delle fattispecie in esame, stabilisce che
gli standard formativi, i contenuti e la durata della formazione sono definiti dal piano formativo individuale, in coerenza
con i rispettivi ordinamenti professionali e la contrattazione collettiva. Il decreto precisa, inoltre, che la durata del
contratto di apprendistato per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche non può essere inferiore a 6
mesi, mentre la durata massima è definita in rapporto al conseguimento dell’attestato di compiuta pratica per
l’ammissione all’Esame di Stato. Risentono di questa impostazione anche le altre disposizioni relative alla formazione:
la formazione interna non può essere inferiore al 20% del monte orario annuale contrattualmente previsto, mentre la
formazione esterna non è obbligatoria.
A far da contrappeso a questa tendenza espansiva, il legislatore pone alcuni limiti alla facoltà di assunzione
con contratto di apprendistato, nell’intento di assicurare l’effettivo perseguimento delle finalità formative.
Un primo limite quantitativo richiede al datore di lavoro che intenda stipulare contratti di apprendistato per
l’acquisizione di titoli di studio il possesso di determinati requisiti tecnici e organizzativi (art 42, comma 7). Il
numero complessivo che un datore di lavoro può assumere direttamente o indirettamente per il tramite di
agenzie di somministrazione autorizzate non può superare il rapporto di 3 a 2, fra apprendisti e maestranze
specializzate e qualificate in servizio presso lo stesso datore di lavoro. Tale rapporto non può superare il 100%
per i datori di lavoro che occupano un numero di lavoratori inferiore a 10 unità. Il datore di lavoro che non
abbia alle proprie dipendenze lavoratori qualificati o specializzati, o comunque ne abbia in numero inferiore
a 3, può assumere apprendisti in numero non superiore a 3.
Particolare attenzione è riservata al settore artigiano, tradizionale bacino di assunzioni con apprendistato. In questo
settore si applica l’art 4 della legge 443/1985, che stabilisce il numero degli apprendisti nel settore (min 5, max 24), a
seconda dell’attività d’impresa (lavorazioni in serie o lavorazioni non in serie o lavorazioni artistiche, tradizionali e
dell’abbigliamento su misura).
Ulteriori limiti, finalizzati al raggiungimento di risultati sul fronte della stabilizzazione occupazionale (cd
clausole di stabilizzazione), sono stati introdotti, seppure solo nell’ apprendistato professionalizzante.
L’art 42, comma 8, con riferimento ai datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti, subordina la
facoltà di effettuare nuove assunzioni in apprendistato alla stabilizzazione di almeno il 20% degli apprendisti,
tra quelli assunti nei 36 mesi precedenti. Qualora non sia rispettata la predetta percentuale, è in ogni caso
consentita l'assunzione di 1 apprendista con contratto professionalizzante. Resta ferma la possibilità per i
contratti collettivi (nazionali) stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale di individuare limiti diversi. Dal computo sono esclusi i rapporti cessati per recesso in prova,
dimissioni o licenziamento per giusta causa.
Il mancato rispetto dei limiti è sanzionato con la qualificazione del rapporto di lavoro come normale rapporto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione del rapporto.
Il legislatore “promuove” (non impone) la stabilizzazione degli apprendisti. Il mantenimento in servizio al
termine del periodo di apprendistato costituisce solo un requisito per poter procedere legittimamente
all’assunzione di nuovi apprendisti. In sintesi, il legislatore sostiene la stabilizzazione degli apprendisti
facendo leva, da un lato, sui limiti in caso di nuove assunzioni e, dall’altro, sulla concessione di consistenti
incentivi economici: si tratta di un interessante esempio di bilanciamento tra logiche vincolistiche e logiche
premiali volte al perseguimento di obiettivi occupazionali.
3.5 La formazione; le disposizioni volte a garantirne la qualità (i requisiti richiesti al datore di lavoro, i due
tutor, il PFI) nonché le sanzioni in caso di inadempimento degli obblighi formativi
Nella disciplina possono essere individuati alcuni elementi comuni ai tre tipi di apprendistato diretti ad
assicurare la qualità della formazione.
Il piano formativo individuale (PFI) è volto a stabilire i contenuti e la struttura del percorso formativo, gli
obiettivi formativi da raggiungere e le modalità della formazione (art 42, comma 1).
Nell’apprendistato per l’acquisizione di titoli di studio, il piano formativo individuale è predisposto
dall’istituzione formativa con il coinvolgimento dell’impresa.
Nell’apprendistato professionalizzante, è il datore di lavoro che predispone il PFI: nell’ottica della
semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese, il legislatore ha disposto che esso venga redatto,
nell’ambito del contratto individuale di lavoro, in forma sintetica e definito anche sulla base di moduli e
formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali.
Il percorso formativo può essere svolto all’esterno o all’interno dell’impresa. Nell’intento di potenziare
l’offerta formativa aziendale (promossa e finanziata dal datore di lavoro) e di alleggerire l’onere economico
(che ricade sul datore di lavoro), è previsto il sostegno dei fondi paritetici interprofessionali, anche mediante
accordi con le Regioni [art 42, comma 5, lett d)].
Il legislatore indica anche le sanzioni in caso di constatato inadempimento nella erogazione della formazione
a carico del datore di lavoro di cui egli sia esclusivamente responsabile e che sia tale da impedire la
realizzazione delle finalità di cui agli artt 43, 44 e 45 (art 47, comma 1): il datore di lavoro è tenuto a versare
la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento
contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato,
maggiorata del 100%, con esclusione di qualsiasi sanzione per omessa contribuzione.
Resta la questione delle ulteriori possibili conseguenze a fronte di un inadempimento dell’obbligo formativo
imputabile al datore di lavoro. Ci si può chiedere infatti se vi siano gli estremi anche per la riqualificazione del
contratto di apprendistato in un normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (nonché il
riconoscimento al lavoratore della differenza tra retribuzioni percepite e quelle relative al livello retributivo
del lavoratore qualificato).
La Cassazione ha ritenuto (sotto la disciplina previgente, sul punto sostanzialmente identica a quella attuale)
che, venuta meno l’attività formativa, debba essere rimessa al giudice di merito la ricostruzione degli
elementi di fatto da cui può anche emergere, sul piano del concreto atteggiarsi del rapporto, la sussistenza
di un normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ciò rafforza la teoria che il contratto di apprendistato è un contratto a causa mista, per cui l’assenza della
formazione implica inevitabilmente la trasformazione in un normale contratto di lavoro subordinato.
3.6 La valutazione e la certificazione delle competenze
Poiché l’apprendistato è, oltre che un contratto di lavoro, anche un canale del II ciclo del sistema educativo
di istruzione e formazione, sono previsti, per i contratti di apprendistato per l’acquisizione di titoli di studio,
standard formativi che costituiscono livelli essenziali delle prestazioni ai sensi dell’art 16 del d lgs 226/2005.
Tali standard sono adottati con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il
MIUR e con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano (art 46, comma1).
Sul versante dell’apprendistato professionalizzante, il legislatore sollecita le parti sociali a disciplinare il
riconoscimento, sulla base dei requisiti conseguiti nel percorso di formazione esterna e interna all’impresa,
della qualificazione professionale ai fini contrattuali e delle competenze acquisite ai fini del proseguimento
degli studi nonché nei percorsi di istruzione degli adulti [art 42, comma 5 lett e)].
Si pone il problema di assicurare il dialogo tra i due mondi della formazione: quello privato, governato dalla
contrattazione collettiva e con effetti sul rapporto di lavoro (sull’inquadramento) e quello pubblico (statale e regionale),
che verifica, valida e certifica il possesso di competenze anche al fine di rilasciare titoli di studio (qualifiche e diplomi).
Allo scopo di armonizzare le competenze acquisite in apprendistato mediante il raggiungimento dei diversi titoli di studio
o le diverse qualificazioni contrattuali e consentire una correlazione tra standard formativi e standard professionali, è
prevista l’istituzione del Repertorio delle professioni, costituito da un apposito organismo tecnico di cui fanno parte il
MIUR, le associazioni dei datori di lavoro e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, nonché i rappresentanti della Conferenza Stato-Regioni (art 46, comma 3).
Le competenze acquisite dall'apprendista sono certificate dall'istituzione formativa di provenienza dello studente
secondo le disposizioni di cui al d lgs 13/2013, e, in particolare, nel rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni ivi
disciplinati (art 46, comma 4).
Del percorso formativo svolto e dei suoi esiti resta traccia nel libretto formativo del cittadino, ai sensi del d lgs 13/201337:
la registrazione nel libretto formativo del cittadino è di competenza:
a) del datore di lavoro, nel contratto di apprendistato professionalizzante, per quanto riguarda la formazione effettuata
per il conseguimento della qualificazione professionale ai fini contrattuali;
b) dell'istituzione formativa o ente di ricerca di appartenenza dello studente, nel contratto di apprendistato per la
qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica
superiore e nel contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca (art 46, comma 2).
Una novità riguarda i l’apprendistato per il titolo di studio (del I e del III tipo: art 43, comma 7 e art 45, comma 3).
a) il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa
b) al lavoratore, per le ore di formazione a carico del datore di lavoro (svolte in azienda) va una retribuzione pari al 10%
di quella che gli sarebbe dovuta.
L’art 47, comma 10 rinvia all’art 32 del d lgs 150/2015 (riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di
politiche attive), che ridefinisce gli incentivi ai datori di lavoro che assumono con apprendistato del I e del III tipo. A titolo
sperimentale, fino al 31 dicembre 2016:
a) non trova applicazione il contributo di licenziamento di cui all’art 2 comma 31 e 32 della legge 92/2012;
b) l’aliquota contributiva è ridotta dal 10% al 5% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per la determinazione
della contribuzione dovuta dai datori di lavoro per gli apprendisti;
c) è riconosciuto lo sgravio totale dei contributi a carico del datore di lavoro di finanziamento dell’ASPI (ora, NASPI) e
dello 0,30% previsto dall’art 25 della legge 845/1978 (formazione professionale)
37
Il libretto formativo è stato sostituito dal fascicolo elettronico del lavoratore, istituito dall’art 14 d lgs 150/2015,
contenente le informazioni relative ai percorsi educativi e formativi de lavoratore.
38
per le aziende fino a 9 dipendenti (dal 1 gennaio 2012 al 21 dicembre 2016) la fiscalizzazione dei contributi è totale
per i primi 3 anni di contratto e la contribuzione sale al 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per i periodi
successivi al terzo anno; per le aziende superiori ai 9 dipendenti, l’aliquota è stabilita fin dall’inizio del contratto di lavoro
al 10% della retribuzione imponibile.
Tali incentivi cessano allo scadere del periodo formativo, essendo esclusi dal disposto dell’art 47, comma 7.
39
Nel settore dell’artigianato, fanno eccezione al limite triennale i profili professionali caratterizzanti la figura
dell’artigiano individuati dalla contrattazione collettiva: per questi profili è possibile una durata fino a 5 anni.
qualificazioni. La “via italiana” al sistema duale trova nell’art 41, comma 3 (nonché negli artt 43 – 45 del d
lgs 81/2015 e nell’art 32 del d lgs 150/2015) la sua affermazione più esplicita.
Il secondo filone disciplina l’apprendistato professionalizzante (art 44), quale erede della lunga tradizione di
interventi legislativi volti a promuovere la formazione professionale dei giovani lavoratori nell’ambito di un
contratto di lavoro.
4.1 L’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore
e il certificato di specializzazione tecnica superiore
La definizione del legislatore (art 43, comma 1) esprime l’intento di coniugare i percorsi esterni all’azienda,
di istruzione e formazione professionale (erogati dalle istituzioni formative operanti nell’ambito dei sistemi
regionali di istruzione e formazione) o di istruzione (facenti capo alle istituzioni scolastiche), con la formazione
svolta all’interno dell’azienda.
Questo tipo di contratto è utilizzabile dai datori di lavoro in tutti i settori di attività.
Circa l’età minima del lavoratore, si conferma la facoltà di assumere giovani a partire dal 15° anno di età, per
favorire l’obbligo di istruzione40. L’età massima resta fissata al compimento dei 25 anni.
La durata del contratto varia in relazione alla qualifica o diploma professionale da conseguire, ma non può
superare 3 anni per la qualifica professionale o 4 anni per il diploma professionale (art 43, comma 2).
Il legislatore ammette la proroga della formazione fino a 1 anno nei seguenti casi (art 43, comma 4):
A riprova della diversità degli obiettivi conseguiti dal contratto di cui all’art 43 (il titolo di studio) e dal contratto di cui
all’art 44 (l’affinamento delle competenze), l’art 43, comma 9 prevede che, successivamente al conseguimento della
qualifica o diploma professionale ai sensi del d lgs 226/2005, nonché del diploma di scuola secondaria superiore, sia
possibile la trasformazione del contratto in apprendistato professionalizzante, per conseguire la qualificazione
professionale ai fini contrattuali: in tal caso, la durata massima complessiva dei due periodi di apprendistato non può
eccedere quella individuata dalla contrattazione collettiva.
Per i percorsi di istruzione e formazione professionale (regionale) finalizzati all’acquisizione della qualifica o del diploma,
tali standard sono definiti dagli artt 17 e 18 del d lgs 226/2005: le Regioni assicurano, quali livelli essenziali (orario
minimo annuale e articolazione dei percorsi formativi), un orario complessivo obbligatorio dei percorsi formativi di
almeno 990 ore annue (cd orario ordinamentale).
L’apprendista sarà dunque impegnato nella formazione esterna all’azienda (comunque in misura non superiore al 60%
dell’orario ordinamentale) e nella formazione interna, mentre per le restanti ore, fino al raggiungimento del normale
monte ore annuo, saranno qualificate come attività di lavoro. L’ulteriore regolamentazione del percorso formativo è
rimessa alle Regioni e alle Province autonome.
40
L’ammissione al lavoro è subordinato al possesso di 2 requisiti: 1) aver assolto l’obbligo d’istruzione; 2) aver compiuto
16 anni, essendo possibile abbassare l’età minima a 15 anni in caso di stipulazione di contratto di apprendistato per la
qualifica e il diploma professionale.
Il d lgs 81/2015 investe anche il sistema di istruzione (art 43, comma 5), consentendo l’assunzione con questo
tipo di contratto di apprendistato di giovani studenti, a partire dal 2° anno dei percorsi di istruzione
secondaria superiore e per una durata non superiore a 4 anni per l’acquisizione, oltre che di un diploma di
istruzione secondaria superiore, di ulteriori competenze tecnico-professionali rispetto a quelle già previste dai
regolamenti scolastici, utili anche ai fini del conseguimento del certificato di specializzazione tecnica
superiore (IFTS).
Il legislatore disciplina altresì le modalità operative per l’attuazione del contratto di apprendistato. Ove
intenda assumere uno studente con il contratto di cui all’art 43, il datore di lavoro sottoscrive un protocollo
con l’istituzione formativa cui lo studente è iscritto, redatto sulla base di uno schema definito con decreto
interministeriale, che stabilisce i criteri generali per la realizzazione dei percorsi di apprendistato, con
particolare riferimento ai requisiti delle imprese, al monte orario massimo del percorso scolastico che può
essere svolto in apprendistato e al numero delle ore da effettuarsi in azienda (art 43, comma 6).
4.2 L’apprendistato di alta formazione e di ricerca
I percorsi di apprendistato in alta formazione (art 45) mirano al conseguimento di un titolo di studio di livello
universitario (laurea di primo livello, laurea magistrale o master universitari) e di alta formazione (diplomi
relativi ai percorsi degli istituti tecnici superiori: ITS).
Questo tipo di contratto si rivolge ai datori di lavoro (pubblici e privati) operanti in tutti i settori di attività.
Possono essere assunti giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni in possesso di diploma di istruzione
secondaria superiore o di un diploma professionale conseguito nei percorsi di istruzione e formazione
professionale integrato da un certificato di specializzazione tecnica superiore (IFTS) o del diploma di maturità
professionale (all’esito del corso annuale integrativo).
Poiché il contratto di apprendistato di cui all’art 45, così come il contratto di apprendistato di cui all’art 43,
integra organicamente in un sistema duale formazione e lavoro (art 41, comma 3), il datore di lavoro
sottoscrive un protocollo con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto o con l’ente di ricerca, stipulato
sulla base di uno schema definito con decreto interministeriale. Tale protocollo traccia le linee di fondo entro
cui si svolge la formazione: stabilisce la durata e le modalità, anche temporali, della formazione a carico del
datore di lavoro, nonché il numero di crediti formativi riconoscibili a ciascuno studente per la formazione a
carico del datore di lavoro, sulla base del numero delle ore di formazione svolte in azienda.
L’art 45, comma 4 prevede che la durata massima del periodo di apprendistato in alta formazione e la residua
disciplina degli aspetti formativi siano rimessi alle Regioni (sentite le associazioni territoriali dei datori di
lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative e le università, gli istituti tecnici superiori e le
istituzioni formative interessate).
In assenza di regolamentazioni regionali, l’attivazione dell’apprendistato di alta formazione è rimessa ad apposite
convenzioni stipulate dai singoli datori di lavoro (o dalle loro associazioni) con le università, gli istituti tecnici superiori e
le altre istituzioni formative interessate.
Il legislatore precisa, in ogni caso, che la formazione esterna all’azienda, svolta nell’istituzione formativa a cui lo studente
è iscritto e nei percorsi di istruzione tecnica superiore (ITS) non può, di norma, essere superiore al 60% dell’orario
ordinamentale (art 45, comma 2).
4.3 L’apprendistato professionalizzante
Il legislatore indirizza le assunzioni mediante contratto di apprendistato professionalizzante (art 44) verso i
giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni41, in tutti i settori di attività (pubblici e privati).
Questo contratto mira al raggiungimento di una qualificazione professionale ai fini contrattuali: non è volto
all’acquisizione di un titolo di studio del sistema educativo, ma ad accompagnare il lavoratore verso un livello
di competenze riconosciuto dai sistemi di inquadramento del personale di cui alla contrattazione collettiva.
Qui si riscontra l’ampio ruolo delle parti sociali nella costruzione del sistema di formazione degli apprendisti: i percorsi
formativi portano al raggiungimento di una qualificazione professionale ai fini contrattuali, mediante l’acquisizione di
competenze tecnico-professionali e specialistiche sulla base dei profili o qualificazioni professionali previsti per il settore
di riferimento dai sistemi di inquadramento del personale di cui ai contratti collettivi (art 44, comma 1)42.
Tale tipo di formazione, che si svolge sotto la diretta responsabilità del datore di lavoro, viene poi “integrata” dalla cd
offerta formativa pubblica (interna o esterna all’azienda), finalizzata ad acquisire competenze di base e trasversali per
un monte ore complessivo non superiore a 120 ore per la durata del triennio. Essa è disciplinata dalle Regioni e dalle
Province autonome di Trento e Bolzano (sentite le parti sociali e nei limiti delle risorse annualmente disponibili) ed è
svolta tenuto conto del titolo di studio e delle competenze dell’apprendista (art 44, comma 3).
41
L’età minima può scendere a 17 anni se il giovane è in possesso di una qualifica professionale conseguita ai sensi del
d lgs 226/2005.
42
In alcuni contratti collettivi (nazionali) le parti sociali hanno stabilito che la durata dell’attività formativa finalizzata
all’acquisizione di competenze tecnico-professionali e specialistiche, debba essere non inferiore ad 80 ore annue.
dettagliatamente dal d lgs 148/2015); nel caso dell’apprendistato di primo e terzo tipo, la giustificazione si rinviene nella
volontà della Repubblica di favorire l’acquisizione di un titolo di studio (in attuazione degli artt 34 e 35, comma 2 Cost).
Circa il quantum della retribuzione dell’apprendista per l’attività svolta in azienda, l’art 42, comma 5 lett b),
l’art 43, comma 7 e l’art 45, comma 3 formano un mosaico che distingue:
a) per le ore di lavoro si può ricorrere all’inquadramento inferiore (fino a 2 livelli inferiori rispetto a quello
spettante ai lavoratori addetti a mansioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al cui
conseguimento è preordinato il contratto) o, in alternativa, alla percentualizzazione della retribuzione
spettante al lavoratore in possesso della qualificazione [art 45, comma 5 lett b)];
b) per le ore di formazione interna (l’apprendistato formale sul posto di lavoro) la retribuzione è pari al 10%
di quanto stabilito per le per le ore di lavoro, sempre fatte salve diverse previsioni dei contratti collettivi (art
43, comma 7 e art 45, comma 3).
D’altra parte, tale contratto implica un forte impegno del giovane e del datore di lavoro per raggiungere
obiettivi che richiedono percorsi formativi corposi. I percorsi per la qualifica e il diploma professionale hanno
una durata di almeno 990 ore annue, di cui non oltre il 60% di formazione esterna all’azienda: non a caso,
questi apprendisti non hanno avuto, finora, il gradimento del mercato.
Con la riforma Biagi, (quando ebbe inizio la storia del lavoro accessorio) e per almeno un decennio, le prestazioni di
lavoro accessorio erano state pensate come lavoro non subordinato e occasionale, legittimamente dedotto in
obbligazione in piena autonomia contrattuale, acconsentendo ad una forma di pagamento non in contrasto con la
disciplina del contratto d’opera (art 2222 cc), la quale in effetti prevede solo che lo scambio avvenga con un corrispettivo.
Pur con tutta una serie di limiti nel campo d’applicazione (soggettivo e per settori e attività), le peculiarità del lavoro
accessorio si riducevano ad una disciplina innovativa della forma del compenso (l’uso dei vouchers).
Nella definizione di cui all’art 70, comma 1 d lgs 276/2003) era fermo il richiamo alla natura meramente occasionale del
lavoro accessorio, che la dottrina ha sempre considerato un richiamo implicito (ma evidente) alla natura autonoma del
rapporto di lavoro. Anche la riforma Fornero (legge 92/2012), nel riformulare l’art 70 ha mantenuto il riferimento al
fatto che per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale.
La natura meramente occasionale del lavoro accessorio viene meno nelle parole del legislatore del 2013 [art 7, comma
2 lett e) DL 76/2013, cd “decreto Giovannini”, convertito con modifiche dalla legge 99/2013], che interviene ancora
sull’art 70, comma 1 del d lgs 276/2003.
Nella nozione di lavoro accessorio del Jobs Act (art 48, comma 1), per prestazioni di lavoro accessorio si
intendono attività lavorative (non più di natura meramente occasionale). Se la fattispecie ha continuato a
rappresentare una forma tipica di lavoro autonomo, nei suoi principali effetti normativi il lavoro accessorio
soggiaceva agli artt 2222 cc e seguenti nei limiti compatibili con la peculiarità dell’aspetto riguardante il
quomodo (e indirettamente il quantum) del corrispettivo: essendo espressamente disciplinata una forma
originale di controprestazione sotto forma di buoni che le parti avevano preferito ab initio e che trovava i
suoi dettagli applicativi nella legge stessa.
La sorte degli artt 70 – 74 della legge Biagi (disposizioni ora tutte abrogate, dopo essere state modificate svariate volte
dagli interventi legislativi precedenti) rappresenta una sorta di linea del tempo delle alterne fortune dell’istituto.
L’art 70 (definizione e campo d’applicazione) vigeva nella forma sostituita dalla legge Fornero e rivista anche nel 2013;
l’art 72 (disciplina del lavoro accessorio) era stato sostituito fin dal decreto correttivo della legge Biagi (d lgs 251/2004)
e aveva subìto l’inserimento di un comma 4-bis sulla applicabilità a categorie di soggetti particolarmente deboli (disabili,
detenuti, tossicodipendenti).
Restavamo inalterati gli artt 73 (coordinamento informativo a fini previdenziali) e 74 (prestazioni che esulano dal
mercato del lavoro).
L’art 71 (prestatori di lavoro accessorio) era stato abrogato dalla manovra del 2008. La novità dell’intervento era stata
la rimozione di quella restrizione all’accesso al lavoro accessorio che era stata stabilita per particolari categorie di
soggetti deboli sul mercato del lavoro: disoccupati da oltre 1 anno, casalinghe, studenti e pensionati; disabili e soggetti
in comunità di recupero; lavoratori extra-comunitari, regolarmente soggiornanti in Italia, nei 6 mesi successivi alla
perdita del lavoro. Tali erano le persone che l’art 71 immaginava come prestatori di lavoro accessorio, avendo la
disposizione da tempo perso di razionalità selettiva, sicché era caduta con la riforma dell’estate del 2008, determinando
un’apertura di taglio generalista del campo di applicazione soggettiva.
Nonostante questo iter, non è mai stato revocato in dubbio che si trattasse di lavoro autonomo e, in particolare di una
specie del genus del contratto d’opera (art 2222 cc).
Nel d lgs 81/2015, il lavoro accessorio si conferma come una modalità di lavoro che si direbbe autonomo
(considerando l’uso del termine committente per indicare la controparte), ma che il legislatore non definisce
mai espressamente come tale, lasciandosi aperta la strada per ricondurvi anche prestazioni tecnicamente
subordinate, per le quali le parti abbiano preferito la forma del corrispettivo secondo il modello dei vouchers.
Tale ipotesi si fonderebbe anche sull’argomento per cui ora (a differenza del passato) occorre acquistare
carnet di buoni orari il cui valore nominale è fissato (con decreto ministeriale) tenendo conto della media
delle retribuzioni rilevate per le diverse attività lavorative, oltre che dalle risultanze istruttorie del confronto
con le parti sociali (art 49, comma 1).
2. La forma del corrispettivo nella autonomia contrattuale delle parti
Non necessariamente autonomo e non più occasionale, il lavoro accessorio diventa una forma di lavoro dove
l’elemento caratteristico è la preferenza accordata dalle parti alla modalità di erogazione del corrispettivo in
forma di vouchers. L’importanza sistematica della definizione rifluisce dunque nell’analisi di una disciplina
che si configura come speciale rispetto alla generalità della forma retribuzione (se si fa riferimento al lavoro
subordinato, secondo le forme individuate nell’art 2099 cc), o della forma corrispettivo, prevista nelle
disposizioni generali sull’adempimento delle obbligazioni (Libro IV del codice civile).
La doppia ipotesi (lavoro autonomo o lavoro subordinato) sarebbe coerente con le disposizioni sul lavoro accessorio in
agricoltura: il valore nominale del buono orario è fissato in 10 euro e nel settore agricolo è pari all’importo della
retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni
sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art 49, comma 2).
Ciò è coerente con il diverso approccio del legislatore del 2015: la definizione di lavoro accessorio è incentrata
non sulla fattispecie lavoristica, ma sulla nozione di prestazione di lavoro accessorio, formulata con mero
riferimento al massimale del corrispettivo annuale (dunque una inversione logica e linguistica). Non tanto se
si tratti di lavoro accessorio allora le parti possono scegliere la modalità alternativa di pagamento ivi prevista,
quanto piuttosto per prestazioni di lavoro accessorio si intendono le attività lavorative che non danno luogo,
con riferimento alla totalità di committenti, a compensi superiori a 7 000 € nel corso di un anno civile
annualmente rivalutati sulla base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli
operai e degli impiegati (art 48, comma 1).
D’altronde, reciprocamente, qualunque attività di lavoro che dia luogo a compensi fino a 7 000 € può svolgersi
sotto lo schema causale dell’art 2094 cc o meno (dunque in autonomia).
La stessa alternativa, del lavoro promesso in regime di sottordinazione a poteri datoriali o definito in oggetto tramite
l’individuazione autonoma ab initio dell’opera o servizio dedotti in contratto, può ripetersi per i compensi oltre 7 000 €,
che, se resi fuori subordinazione, non per questo sono riconducibili automaticamente né all’autonomia continuativa né
all’autonomia occasionale (per i rispettivi effetti di cui all’art 2 del d lgs 81/2015).
Del resto, il lavoro accessorio interessa per la modalità del tutto specifica dell’erogazione del corrispettivo e
per i vantaggi previdenziali e fiscali che implica. Ed è su questi aspetti che l’interprete deve considerare la
disciplina, al di là della questione dell’appartenenza del tipo al genus dell’art 2094 cc o dell’art 2222 cc.
3. I limiti all’utilizzo di prestazioni di lavoro accessorio
Confrontando l’art 70, comma 1 del d lgs 276/2003 e l’art 48, comma 1 2 sono le novità che risaltano.
La più consistente riguarda il massimale del compenso, che sale da 5 000 a 7 000 euro nel corso di un anno.
Ciò va ulteriormente specificato: nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti, le attività lavorative
possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro; per i
committenti non imprenditori o professionisti invece è possibile compensare con i vouchers uno stesso lavoratore
nell’anno civile per tutto l’ammontare generale di 7 000.
La seconda novità si individua nella sostituzione del riferimento all’anno solare (inteso dall’amministrazione
e dalla giurisprudenza come un periodo di 365 giorni, che può decorre da qualsiasi giorno del calendario) con
quello all’anno civile (periodo dal 1 gennaio al 31 dicembre), mentre cade l’aggettivo commerciali, che
accompagnava la nozione dei committenti imprenditori (dunque viene ricompresa nella nozione
l’imprenditore agricolo).
È all’art 48, comma 2 che si trova la disposizione più interessante, relativa alla compatibilità del lavoro
accessorio con la percezione di ammortizzatori sociali.
Già prevista dall’art 8, comma 2-ter del DL 150/2013, convertito dalla legge 15/2014, ma solo per gli anni
2013 e 2014, ora, la norma è resa strutturale: prestazioni di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in
tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 € di compenso per anno civile,
rivalutati ai sensi del comma 1, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito.
L'INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di
sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio.
Sono così indotti comportamenti virtuosi di proattività del lavoratore percettore di sussidi anche nella forma
del lavoro accessorio senza per questo la perdita del sostegno stesso o dello stato di disoccupazione. Tale
effetto è specificato dall’art 49, comma 4: il compenso non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del
prestatore di lavoro accessorio.
In agricoltura (dunque con riferimento agli imprenditori agricoli) il lavoro accessorio trova un’applicazione
peculiare (art 48, comma 3), essendo limitato a 2 ipotesi:
a) alle attività lavorative di natura occasionale rese nell'ambito delle attività agricole di carattere stagionale
effettuate da pensionati e da giovani con meno di 25 anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi
presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in
qualunque periodo dell'anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l'università;
b) alle attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all'art 34, comma 6, del DPR 633/1972 (ossia,
produttori agricoli che nell’anno solare precedente hanno realizzato o, in caso di inizio attività, prevedono di
realizzare, un volume d’affari non superiore a 7 000 euro, costituito per almeno 2/3 da cessioni di prodotti)
che non possono, tuttavia, essere svolte da soggetti iscritti l'anno precedente negli elenchi anagrafici dei
lavoratori agricoli.
Anche nel regolare l’utilizzo del lavoro accessorio da parte di un committente pubblico43 , la disciplina non ha
subìto modifiche, considerato che l’art 48, comma 4 ripete la lettera di quanto previsto dall’art 70 del d lgs
276/2003: il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico è consentito nel
rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove
previsto, dal patto di stabilità interno.
Viene altresì confermato all’art 48, comma 5 quanto previsto dall’art 70, comma 4 del d lgs 276/2003: i
compensi da lavoro accessorio sono computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio
o il rinnovo del permesso di soggiorno.
È nuovo invece il divieto di lavoro accessorio nell’esecuzione di appalti di opere o servizi (art 48, comma 6).
4. Aspetti tecnici della nuova disciplina
L’art 49 tratta le modalità d’acquisto dei vouchers (comma 1), il valore nominale del buono (comma 2), la
comunicazione preventiva da parte dei committenti imprenditori o professionisti (comma 3),
l’accreditamento, la percezione e l’esenzione fiscale del compenso (comma 4), la disciplina dei pagamenti e
dei versamenti previdenziali da parte del concessionario (comma 5).
Tra gli obblighi per l’uso di prestazioni di lavoro accessorio ha particolare rilievo quello imposto ai soli
committenti imprenditori non agricoli44 o professionisti di comunicazione preventiva (almeno 60 minuti prima
dell'inizio della prestazione e da effettuarsi mediante sms o posta elettronica) dei dati del lavoratore nonché
del luogo e del tempo della prestazione. La disposizione (che non si applica ai committenti privati) riprende
in parte quanto già disponeva la legge 92/2012.
Gli aspetti fiscali e previdenziali del lavoro accessorio completano in quadro normativo (ma in verità
rappresentano il cuore della disciplina).
Secondo l’art 49, comma 4, il compenso percepito da parte del concessionario (previo accreditamento dei
buoni da parte del beneficiario della prestazione di lavoro) è esente da qualsiasi imposizione fiscale (oltre a
non incidere sullo status occupazionale del lavoratore), a conferma di una linea politica di attivazione
dell’istituto risalente e che passa senz’altro dalla leva fiscale.
D’altra parte, l’art 49, comma 5 conferma la destinazione a fini previdenziali di quota parte del valore
nominale del buono nella misura del 13% all’INPS e del 7% all’INAIL.
43
Nelle pubbliche amministrazioni il lavoro accessorio ha conosciuto una diffusione non uniforme ma importante.
Opportunamente, l’art 48, comma 7 fa salva l’applicabilità dell’art 36 del d lgs 165/2001.
44
I committenti imprenditori agricoli sono tenuti a comunicare luogo e durata della prestazione con riferimento ad un
arco temporale non superiore a 3 giorni.
45
Infatti, ha subìto alcune modifiche rilevanti, anche se di origine e contenuto eterogenei. Si tratta delle modifiche del
Jobs Act relative ad alcune norme sul rapporto di lavoro (art 13 e art 18), di innovazioni (controverse, ma non smentite)
Lo Statuto dei Lavoratori si era astenuto dal regolare le relazioni industriali, essendo allora diffuso il convincimento che
queste potessero autoregolarsi in via contrattuale. In effetti, diversi tentativi di autoregolazione si sono susseguiti nel
tempo: dal patto sociale del 1993 agli accordi interconfederali più recenti (raccolti nel TU sulla Rappresentanza del 10
gennaio 2014 e ripresi con modifiche nell’ultimo accordo fra CGIL, CISL e UIL del 14 gennaio 2016).
Le regole previste da questi accordi hanno contenuti importanti, ma presentano la debolezza intrinseca di essere
vincolanti solo per chi li accetta. Inoltre, faticano ad essere applicati nella pratica anche per la persistente precarietà del
consenso fra i sindacati su alcuni punti critici. Ciò è confermato dal succedersi di questi accordi interconfederali dal 2011
ad oggi, con contenuti via via meglio precisati ma non ancora definitivi: tant’è che anche l’ultimo accordo del 2016 rinvia
molti aspetti non secondari alla contrattazione di categoria.
In questo contesto di ancora prevalente astensionismo legislativo, l’art 51 assume un significato di sistema.
Esso condivide con l’art 8 della legge 148/2011 lo stesso obiettivo di favor per la contrattazione decentrata,
ma lo persegue con modalità e tecniche diverse.
L’art 51 (norme di rinvio alla contrattazione collettiva) non riguarda in generale la contrattazione collettiva,
ma si riferisce ad un particolare tipo di contrattazione, dove il legislatore delega il potere di integrare e
modificare in vario modo disposizioni di legge. A tal proposito, si parla di rinvio regolamentare della legge: il
contratto collettivo, pur restando un atto di autonomia privata, diviene elemento della fattispecie legale,
acquisendo così efficacia generale in forza della legge che lo richiama.
2. I rinvii legislativi alla contrattazione collettiva: dagli anni ’80 alla legge 148/2011
La tipologia dei rinvii operati dalla legge alla contrattazione è alquanto diversificata sotto vari aspetti: le
materie oggetto del rinvio, i livelli di contrattazione cui questo è riferito e i possibili effetti conseguenti
all’intervento contrattuale.
Con tali norme il legislatore attribuisce alla contrattazione il compito di modificare o attenuare determinate
“rigidità” legislative, ritenendo lo strumento contrattuale più adatto a “flessibilizzare” responsabilmente i
vincoli legali, in cambio sia di benefici relativi a diversi istituti sia di garanzie occupazionali.
Questi rinvii regolamentari alla contrattazione sono risalenti nel tempo, almeno ai primi anni ’80, quando si
cominciò a parlare a questo proposito, non di una flessibilità tout court, ma di una flessibilità negoziale.
Il rinvio ha riguardato nel tempo materie diverse, attinenti sia alla tipologia di contratto e dei rapporti di
lavoro, sia ai contenuti e alla gestione del rapporto, in particolare orario di lavoro, mobilità professionale,
controlli sul lavoro, concetto di retribuzione (ove la contrattazione fu determinante nel superare la nozione
legale onnicomprensiva di retribuzione utile al computo di vari istituti).
Altrettanto variabili sono state le indicazioni relative ai livelli della contrattazione collettiva (nazionale,
territoriale, aziendale) cui il legislatore ha riconosciuto il potere di modificare le normative sul lavoro.
La scelta dei livelli ha un rilievo di sistema, perché interviene su una questione tradizionalmente riservata
all’autonomia contrattuale. Ciò è tanto più significativo, in quanto i rapporti fra i vari livelli contrattuali
incidono sull’equilibrio del sistema contrattuale ed economico in tutti gli ordinamenti contrattuali plurilivello
(e proprio per questo sono stati oggetto di discussioni e controversie fra le parti sociali, spesso coinvolgendo
le istituzioni di governo).
Le diverse indicazioni del legislatore circa i livelli competenti ad esercitare tali poteri derogatori riflettono
anche i diversi orientamenti e preoccupazioni delle parti. Le organizzazioni sindacali hanno tendenzialmente
come quelle dell’art 8 della legge 148/2011, su un punto fino allora non regolato per legge (la cd contrattazione di
prossimità) e dell’alterazione (prima per via referendaria e poi giurisprudenziale) delle norme cardine sulla
rappresentatività sindacale.
privilegiato la scelta della contrattazione nazionale, in quanto ritenuta più adatta a fornire indirizzi omogenei
per bilanciare i vari interessi in gioco nella gestione di queste forme di flessibilità. Ma d’altra parte la
regolazione delle flessibilità riguardanti l’organizzazione del lavoro e la gestione del rapporto, si presta a
essere meglio affidata alla contrattazione vicina ai luoghi di lavoro dove si misurano e controllano gli effetti
concreti delle scelte regolative.
La diversità di posizioni sul punto risulta evidente dalla sequenza degli interventi legislativi degli ultimi anni.
La legge 30/2003 contiene diversi rinvii alla contrattazione nella regolazione delle flessibilità. Il legislatore ha
evitato di confermare la preferenza per i livelli nazionali della contrattazione, tradizionalmente privilegiati
negli interventi di sostegno alla regolazione della flessibilità. Talora ha invertito tale preferenza, operando
rinvii alla contrattazione decentrata, aziendale e talora territoriale (che trova qui uno dei primi riconoscimenti
normativi espliciti).
La differenza degli approcci è rilevante. L’individuazione privilegiata del livello nazionale risponde all’esigenza
che la regolazione delle flessibilità avvenga secondo criteri comuni a tutto il territorio nazionale. La normativa
del 2003 segnala, invece, sia pure indirettamente, il favore per un decentramento contrattuale non nella
versione controllata (Accordo del 1993), ma potenzialmente anche al di fuori di un coordinamento centrale.
L’impatto delle scelte legislative del 2003 è risultato più contenuto del previsto, anche perché il ricorso ai
nuovi strumenti di flessibilità ha incontrato la resistenza sindacale (e non solo della CGIL).
Questo è uno dei motivi per cui in seguito il legislatore (2006 – 2007) non ha ritenuto di intervenire nei
rapporti fra legge e contrattazione collettiva, né sul ruolo di regolazione della flessibilità (salvo ribadire il
ruolo della contrattazione nel part time).
Il favor per il decentramento è più netto nell’art 8 della legge 148/2011. Ma qui il legislatore non si occupa
solo del rapporto fra livelli di contrattazione, bensì modifica anche il rapporto fra contrattazione e legge. In
realtà nel nuovo testo sono cambiati logica e senso dell’intervento.
Il peso della crisi economica si fa sentire sull’intero sistema e sui contenuti della contrattazione, che si
concentrano sulla difesa dell’occupazione nelle sempre più frequenti situazioni di crisi aziendale. Non a caso,
i poteri di deroga attribuiti alla cd contrattazione di prossimità sono giustificati (con formula alquanto
generica) in quanto gli accordi siano finalizzati alla maggiore occupazione, agli incrementi di competitività e
di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività.
La norma è stata criticata per l’ampiezza del potere di deroga concesso alla contrattazione decentrata nei
confronti non solo dei contratti nazionali, ma della legge, compresa gran parte della tradizionale disciplina di
tutela. L’intervento derogatorio è di dimensioni senza precedenti e se non ha sovvertito il tradizionale assetto
delle fonti del diritto del lavoro, ne ha fortemente alterato la tradizionale uniformità e rigidità. Tanto più che
nel mutato contesto della crisi l’intervento legislativo non ha solo favorito la gestione contrattuale di specifici
spazi di flessibilità, ma ha permesso di concordare fra le parti deroghe in pejus a quasi tutte le condizioni
legali e contrattuali riguardanti le condizioni di lavoro.
3. I rinvii della legge 92/2012 e della legge 99/2013
Le leggi successive dei cd governi tecnici usano formule diverse sui vari temi: indicano sovente la competenza
dei contratti nazionali, ma specificano la possibilità di delegare l’esercizio del potere regolatorio ai contratti
decentrati. Ciò corrisponde all’intenzione delle parti sociali di affidare alla contrattazione nazionale il compito
di definire ambiti e oggetti della contrattazione di secondo livello (decentramento organizzato).
Per altro verso, la legge 92/2012 rinvia ai contratti aziendali il potere di definire le forme di partecipazione dei lavoratori
all’impresa (art 4, comma 62): un’indicazione che sembra accentuare il carattere sperimentale e non ancora di sistema
della scelta partecipativa. Meno chiara è la ratio dell’art 4, comma 1, che, in tema di prepensionamenti, rinvia agli accordi
fra datori di lavoro e organizzazioni sindacali rappresentative a livello aziendale. Altre volte si fa riferimento ai contratti
stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale, ad esempio per stabilire la competenza
sui fondi di solidarietà e per identificare le professionalità elevate cui non si applica la presunzione prevista per i contratti
a progetto. Queste norme non specificano il livello contrattuale di riferimento affidandone la scelta alle organizzazioni
nazionali (con un avallo del modello di decentramento controllato).
In altri casi ancora la legge 99/2013 [art 7, lett b)] indica esplicitamente entrambi i livelli contrattuali e aziendali, con
una norma che sembra porli sullo stesso piano (come poi farà l’art 51).
I decreti applicativi del Jobs Act confermano la scelta di politica del diritto di attribuire ai contratti collettivi
ampi poteri di integrazione o modifica della disciplina legislativa. La molteplicità dei temi affrontati da questi
decreti sollecita a compiere scelte diverse in ordine ai livelli contrattuali competenti ad intervenire. Ma in
realtà le norme del d lgs 81/2015 operano un rinvio generico ai contratti collettivi, senza specificare i livelli,
con 2 importanti eccezioni:
L’art 2553 cc poi precisa che, salvo patto contrario (ad esempio, la cointeressenza agli utili prevista senza partecipazione
alle perdite di cui all’art 2554 cc) l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, ma le
perdite non possono superare il valore del suo apporto.
Su tale assetto normativo ha inciso l’art 86, comma 2 del d lgs 276/2003.
Tale disposizione, pur senza modificare il dettato del codice civile, al fine di evitare fenomeni elusivi della
disciplina di legge e contratto collettivo, riconosceva al lavoratore, in caso di rapporti di associazione resi
senza una effettiva partecipazione e adeguate erogazioni, il diritto ai trattamenti contributivi, economici e
normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione
corrispondente nel medesimo settore di attività o, in mancanza di contratto collettivo, in settore analogo.
La previsione non trovava applicazione ove il datore di lavoro o committente o altrimenti utilizzatore avesse
comprovato, con idonee attestazioni e documentazioni, che la prestazione rientrava in una delle tipologie di
lavoro disciplinate nel presente decreto ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare
disciplina o in un contratto nominato di lavoro autonomo o in un altro contratto espressamente previsto
nell’ordinamento.
La norma ha introdotto il duplice requisito della effettiva partecipazione e delle adeguate erogazioni, quali
indici discretivi della “genuinità” dell’associazione in partecipazione, la cui sussistenza impediva
l’applicazione dei trattamenti normativi, economici e contributivi stabiliti dai contratti collettivi o dalla legge
per il lavoro subordinato.
Circa il requisito della effettiva partecipazione, parte della dottrina interpretava l’intenzione del legislatore
come quella di rafforzare la posizione dell’associato, assicurandogli poteri di controllo più incisivi sulla
gestione dell’impresa o dell’affare rispetto a quelli già previsti dalla disciplina codicistica. Altri autori
ritenevano la disposizione meramente ripetitiva del dettato legislativo e delle successive elaborazioni
giurisprudenziali. Tale opzione ermeneutica sembra preferibile alla luce della collocazione sistematica dell’art
86 nel d lgs 276/2003 e della ratio complessiva della legge Biagi. La scelta di ricomprendere la norma tra le
disposizioni transitorie e finali (anziché tra quelle dedicate alle tipologie contrattuali) e la mancata menzione
dell’istituto nella legge 30/2003 paiono significative in relazione all’introduzione del contratto a progetto:
l’impossibilità di ricondurre talune forme di collaborazione coordinata e continuativa ad un progetto avrebbe
potuto determinare una fuga verso l’associazione in partecipazione, utilizzato dalla prassi per celare un
rapporto di lavoro subordinato.
Tale impostazione sembra trovare conforto anche nel requisito delle adeguate erogazioni, sebbene non sia
chiaro che cosa il legislatore abbia inteso con tale formula. Per un verso, l’espressione sembra confermare
quell’indirizzo giurisprudenziale che ammetteva la pattuizione di un minimo garantito a favore dell’associato
o la possibilità di escluderlo dalla partecipazione alle perdite; per altro verso, pare istituire un criterio di
proporzionalità tra i proventi e il valore dell’apporto lavorativo. Tuttavia, il requisito sembra introdurre una
deroga parziale sia all’art 2549 cc, che prevede la partecipazione agli utili quale corrispettivo dell’apporto, in
linea con la natura “aleatoria” del contratto, sia all’art 2553 cc, che fissa un principio di congruità con
esclusivo riguardo alla partecipazione alle perdite, limitata al valore dell’apporto.
Tutto ciò induce perciò a ritenere che, attraverso il requisito delle adeguate erogazioni e della effettiva
partecipazione, il legislatore abbia inteso derogare alla disciplina codicistica qualora l’apporto dell’associato
fosse consistito in una prestazione di lavoro (anche personale), ricavando così, all’interno dell’istituto
generale dell’associazione in partecipazione, una fattispecie speciale e autonoma.
Se la disposizione viene così intesa, il principio di adeguatezza delle erogazioni (a prima vista contrastante
con la natura aleatoria del contratto) si giustifica in relazione alla posizione di debolezza dell’associato il cui
apporto consista in una prestazione lavorativa anche personale. Fermo restando, però, che la pattuizione di
una quota minima garantita a favore dell’associato deve accompagnarsi ad una parte variabile, da
determinarsi sulla base degli utili eventualmente conseguiti (pena lo snaturamento del contratto stesso).
2. La legge 92/2012
Lo spunto offerto dal legislatore del 2003, teso ad individuare una fattispecie speciale all’interno del più
ampio genus dell’associazione in partecipazione, è stato poi ripreso dalla legge 92/2012.
Con un mutamento di tecnica normativa, la riforma ha direttamente inciso sul dettato del codice civile,
dettando regole peculiari allorché l’apporto conferito in associazione fosse consistito anche in una
prestazione di lavoro.
L’art 2549, comma 2 cc (introdotto dall’art 1, comma 28 della legge 92/2012) ha previsto che il numero degli
associati impegnati in una medesima attività non può essere superiore a 3, indipendentemente dal numero
degli associanti, pena la riqualificazione legale del rapporto in lavoro subordinato a tempo indeterminato
(escludendo tale presunzione ove gli associati fossero legati all’associante da rapporto coniugale, di
parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo).
La norma ha sollevato taluni dubbi di legittimità costituzionale.
Per un verso, si è ritenuto che la fissazione di un “arbitrario” limite numerico introducesse una significativa
compressione dell’autonomia negoziale delle parti rispetto ad una fattispecie contrattuale ammessa
dall’ordinamento.
Per altro verso, si era criticata la scelta di tale criterio quantitativo senza tener conto delle dimensioni e
dell’organico complessivo dell’impresa, così determinando una irragionevole disparità di trattamento tra
piccole e grandi realtà produttive.
Ma è la sanzione prevista in caso di superamento di tale soglia a destare maggiori perplessità. Con la
presunzione legale di subordinazione, tutti i rapporti di associazione in partecipazione stipulati oltre il limite
quantitativo venivano forzatamente ricondotti entro le maglie dell’art 2094 cc. E ciò al di là della sussistenza
degli indici tipici della subordinazione (ossia, senza l’accertamento della “genuinità” del rapporto di
associazione). Secondo il legislatore, la semplice violazione del tetto numerico era di per sé sufficiente a
giustificare la conversione di tutti i rapporti di associazione (anche quelli già in corso di esecuzione: l’art 1,
comma 29 della legge 92/2012 faceva salvi fino a cessazione, solo i contratti che, alla data di entrata in vigore
della legge, fossero stati certificati ai sensi degli artt 75 e seguenti del d lgs 276/2003).
In dottrina si è ritenuto che la previsione legislativa violasse il principio della cd indisponibilità del tipo. A ben vedere,
però, il rilievo non appare conferente: il principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale fa divieto al legislatore
di qualificare ex lege come lavoro autonomo rapporti che a tutti gli effetti corrispondano alla fattispecie del lavoro
subordinato di cui all’art 2094 cc.
La presunzione prevista dall’art 2549, comma 2 cc sembra contrastare il principio di eguaglianza (art 3 Cost):
trattare come lavoro subordinato rapporti che tali non sono equivale a trattare in modo eguale situazioni
differenti (e viceversa).
La giurisprudenza ha sempre distinto l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro dalla prestazione
di lavoro subordinato.
L’associazione in partecipazione si caratterizza per la sussistenza in capo all’associante del potere di gestione
dell’impresa o dell’affare, che si estrinseca anche nel potere di impartire direttive all’associato, ma anche per
l’obbligo di rendiconto, che consente all’associato un potere di controllo sulla gestione dell’impresa o
dell’affare e per l’aleatorietà del corrispettivo, da cui la soggezione dell’associato al rischio d’impresa.
Nel lavoro subordinato vi è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo
del datore di lavoro e l’assenza del rischio d’impresa, essendo certa la corresponsione della retribuzione.
Non è la sussistenza dell’eterodirezione (intesa come potere direttivo dell’associante sull’associato) a segnare
il criterio discretivo, ma l’esistenza degli elementi tipici della dell’associazione in partecipazione (genuina).
Ciò sembra confermato, dall’art 1, comma 30 della legge 92/2012, che nel sostituire l’art 86, comma 2 del d
lgs 276/2003 (abrogato dal comma 31) stabilisce che i rapporti di associazione in partecipazione con apporto
di lavoro instaurati o attuati senza che un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o
dell’affare (ossia, senza consegna del rendiconto di cui all’art 2552 cc), si presumono, salvo prova contraria,
rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Così, la norma recuperava gli elementi tipici del
rapporto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, al contempo eliminando il discusso
riferimento alle adeguate erogazioni.
A poco più di un anno di distanza dall’entrata in vigore della legge 92/2012, il legislatore tornava ad occuparsi
dell’associazione in partecipazione con il DL 76/2013 (convertito con modificazioni dalla legge 99/2013). L’art 7, comma
5 modificava l’art 1, comma 28 della legge 92/2012, con l’aggiunta di un comma 3 all’art 2459 cc, per il quale la
presunzione assoluta di subordinazione di cui al comma 2 non si sarebbe applicata, limitatamente alle imprese a scopo
mutualistico, agli associati individuati mediante elezione dell’organo assembleare di cui all’art 2450 il cui contratto sia
certificato dagli organismi di cui all’art 76 del d lgs 276/2003, nonché per il rapporto fra produttori e artisti, interpreti ed
esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o si sequenze di immagini in movimento. Con tale
disposizione, il legislatore individuava due deroghe alla presunzione assoluta di subordinazione ulteriori rispetto a quelle
di cui alla legge 92/2012 (e previste dal comma 2).
3. Il d lgs 81/2015
La tendenza limitativa del legislatore nei confronti dell’istituto, originata dalle sue potenzialità fraudolente,
sembra trovare il suo apice nel d lgs 81/2015.
L’art 53, comma 1 (superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro):
1) modifica l’art 2549, comma 2 cc, specificando che nel caso in cui l’associato sia una persona fisica,
l’apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro;
2) abroga il comma 3 (relativo alle eccezioni introdotte dal DL 76/2013, convertito in legge 99/2013).
A fronte dei diversi tentativi legislativi susseguitisi nel corso del tempo, un intervento così tranchant può dirsi
coerente sia con il trend limitativo che ha caratterizzato la storia dell’associazione in partecipazione, sia con
quello che ha accompagnato l’evoluzione delle collaborazioni coordinate e continuative nel nostro
ordinamento.
Sotto il primo profilo, le modifiche che hanno inciso sull’istituto a partire dal 2003 testimoniano lo sforzo del
legislatore di individuare una sotto-fattispecie all’interno del genus disciplinato dalle norme codicistiche.
Sotto il secondo profilo, non dovrebbe sorprendere che al “superamento” dell’associazione in partecipazione
con apporto di lavoro si accompagni nell’ambito del d lgs 81/2017 la più “stringente” disciplina delle
collaborazioni coordinate e continuative (con l’abrogazione del lavoro a progetto e delle partite IVA).
L’art 53, comma 2 limita l’applicabilità delle nuove regole ai contratti di associazione in partecipazione con
apporto di lavoro stipulati a partire dalla data di entrata in vigore del decreto (25 giugno 2015), mentre quelli
già in corso di esecuzione restano assoggettati, fino a cessazione, alla previgente disciplina.
Quanto al divieto di cui all’art 53, comma 1, l’espresso riferimento all’associato persona fisica induce a
ritenere che un’associazione in partecipazione con apporto di lavoro conferito da una persona giuridica possa
essere ammissibile.
Non paiono condivisibili le perplessità di parte della dottrina, che ritiene possibile usare la veste di società unipersonali
per celare il conferimento di prestazioni di lavoro. E ciò perché in queste ipotesi la necessaria coincidenza tra
imprenditore – socio e prestatore di lavoro integrerebbe comunque gli estremi del divieto di cui all’art 53, posto che
(nonostante la forma societaria) l’apporto di lavoro materialmente proverrebbe da una persona fisica.
Resta da capire quali siano le conseguenze in caso di violazione del divieto posto dall’art 53.
Trattandosi di norma imperativa, non vi è dubbio che il contratto sia nullo (art 1418 cc). Quel che è meno
certo sono le ricadute della declaratoria di nullità sulla prestazione lavorativa dell’associato. Esclusa la
possibilità di una riconduzione forzata del rapporto di associazione al lavoro subordinato, la qualificazione
del rapporto spetterà al giudice, che lo ascriverà alla subordinazione se avente ad oggetto una prestazione
di lavoro eterodeterminata.
Qualche difficoltà si avrebbe per la prestazione esclusivamente personale e organizzata dall’associante: ai
sensi dell’art 2, comma 1 dovrebbe applicarsi la disciplina del lavoro subordinato.
Qui, si potrebbero sollevare le stesse obiezioni mosse verso la presunzione assoluta di subordinazione
introdotta dalla legge 92/2012, nonché qualche dubbio di legittimità costituzionale rispetto all’art 3 Cost,
stante l’irragionevolezza di ricondurre (integralmente) un rapporto di lavoro autonomo ad una disciplina
diversa da quella coerente con tale fattispecie.
L’art 7-bis del DL 76/2013 (cd decreto Giovannini), convertito in legge 99/2913, consentiva ai datori di lavoro di
beneficiare dell’estinzione di eventuali illeciti amministrativi, contributivi e fiscali mediante la stipulazione, con le
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (tra i 1 giugno 2013 e il 31 marzo 2014)
di contratti collettivi che prevedessero l’assunzione a tempo indeterminato, entro 3 mesi dalla loro stipulazione, di
soggetti già parti di contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro. La sanatoria era anche in
quell’ipotesi condizionata alla sottoscrizione, da parte degli associati in partecipazione interessati all’assunzione, di atti
di conciliazione relativi ai pregressi rapporti di associazione, al divieto di recesso dal rapporto di lavoro da parte del
datore di lavoro, nei 6 mesi successivi alle assunzioni (salvo per giusta causa o giustificato motivo soggettivo); nonché
del versamento, da parte del datore di lavoro, di una somma pari al 5% della quota di contribuzione a carico degli
associati per i periodi di vigenza dei contratti di associazione in partecipazione (per un periodo comunque non superiore
a 6 mesi).
Ora, il d lgs 81/2015, muovendosi nel solco di tali disposizioni, prevede una procedura stabilizzatrice che
attribuisce significativi vantaggi ai datori di lavoro che assumono a contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato co. co. co. e titolari di partita IVA. Vantaggi, a ben vedere, maggiori di quelli riconosciuti nelle
precedenti stabilizzazioni di collaboratori e associati in partecipazione: per effetto dell’art 54, i datori di
lavoro beneficiano della sanatoria senza alcun limite temporale e senza che sia posta a loro carico alcun
versamento contributivo.
2. Le condizioni richieste per l’operatività della sanatoria
In primo luogo, l’art 54 subordina la sanatoria all’assunzione da parte dei datori di lavoro, con un contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato, di persone già parti di un contratto di collaborazione
coordinata e continuativa (anche a progetto) e titolari di partita IVA con cui gli stessi abbiano intrattenuto
rapporti di lavoro autonomo.
L’espressione adottata dal legislatore deve ragionevolmente essere intesa nel senso che la stabilizzazione
opera sia nei confronti di lavoratori con cui in precedenza era stato instaurato un rapporto di collaborazione
poi cessato, sia in costanza di rapporto di collaborazione.
Ciò in coerenza con quanto era stato affermato, in ordine alla procedura di stabilizzazione prevista per gli associati in
partecipazione dal d lgs 76/2013, dal Ministero del Lavoro, che aveva precisato che il beneficio dell’estinzione degli
illeciti si applicava ai datori di lavoro a fronte dell’assunzione a tempo indeterminato di associati in partecipazione anche
cessati.
Inoltre, la norma estende del suo campo di applicazione alle persone titolari di partita IVA.
Tale categoria ricomprende non solo i lavoratori iscritti ad albi professionali, bensì anche coloro che
esercitano abitualmente attività non organizzate in albi professionali e aprono la partita IVA al fine di
instaurare un rapporto di collaborazione con il proprio committente. Frequentemente, tali persone, per poter
svolgere l’attività lavorativa, stipulano un contratto di collaborazione o un contratto a progetto. Per effetto
dell’art 54, tali soggetti possono (a far data 1 gennaio 2016) beneficiare della procedura di stabilizzazione ed
essere assunti con contratto a tempo subordinato, così sottraendosi ai più gravosi obblighi fiscali e contabili
connessi al regime tributario della partita IVA.
Né può tralasciarsi il fatto che la disposizione persegue l’obiettivo di assicurare il corretto utilizzo dei contratti
di lavoro autonomo, sicché deve ritenersi che siano interessati dalla stabilizzazione anche i titolari di partita
IVA non qualificabili come lavoratori autonomi “puri”, ma che svolgono la prestazione lavorativa con le
modalità tipiche della subordinazione (dunque i possessori di partita IVA le cui prestazioni presentino gli
elementi presuntivi di cui all’art 69-bis del d lgs 276/2003, ora abrogato).
Ulteriore condizione richiesta dall’art 54 per l’operatività della sanatoria è la sottoscrizione, da parte dei
lavoratori interessati, di atti di conciliazione dinnanzi alle commissioni di certificazione (art 76 d lgs 276/2003)
o, in forza del richiamo all’art 2113, comma 4 cc, presso le commissioni di conciliazione costituite presso la
Direzione Territoriale del Lavoro, in sede sindacale, presso i collegi di conciliazione e arbitrato di cui all’art
412-quater c.p.c., nonché dinnanzi al giudice presso cui sia pendente un giudizio di accertamento della natura
subordinata del rapporto pregresso.
La norma, esigendo che la conciliazione riguardi tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del
pregresso rapporto di lavoro, presuppone evidentemente che il lavoratore abbia piena consapevolezza che,
con la sottoscrizione della stessa, finisce per precludersi qualsivoglia rivendicazione in ordine al precedente
rapporto di lavoro, dovendo egli sottoscrivere una conciliazione tombale.
Inoltre, dalla sottoscrizione della conciliazione è evidente che si viene a costituire con il lavoratore un
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti (d lgs 23/2015): per effetto delle
rinunce contenute nell’accordo conciliativo, si instaura un rapporto di lavoro avente efficacia ex nunc.
Circa la condizione consistente nell’assenza di recesso dal rapporto di lavoro, da parte del datore di lavoro,
nei 12 mesi successivi all’assunzione, l’art 54 fa salva l’ipotesi in cui il recesso intervenga per giusta causa o
giustificato motivo soggettivo. La sanatoria non può trovare applicazione laddove il datore di lavoro licenzi il
lavoratore per giustificato motivo oggettivo (anche nell’ambito di una procedura collettiva di riduzione del
personale); né tantomeno qualora il datore di lavoro licenzi un lavoratore per giusta causa o giustificato
motivo soggettivo di cui venga eventualmente accertata in sede giudiziale l’illegittimità.
3. Il regime intertemporale
Lo schema del decreto legislativo disponeva che i datori di lavoro avrebbero beneficiato dell’estinzione degli illeciti in
caso di assunzione a tempo indeterminato di collaboratori e titolari di partita IVA nel periodo compreso fra l’entrata in
vigore del decreto (25 giugno 2015) e il 31 dicembre 2015. La finalità che il legislatore intendeva perseguire era quella
di incentivare i datori di lavoro a stabilizzare tali lavoratori entro la fine del 2015, in modo da beneficiare sia dell’esonero
contributivo previsto per le nuove assunzioni a tempo indeterminato dalla legge di stabilità 2015, sia della sanatoria
delle eventuali violazioni amministrative, contributive e fiscali introdotta dal l lgs 81/2015.
Tuttavia, il testo è stato modificato in sede di approvazione definitiva, a fronte delle perplessità sollevate dalla
Ragioneria Generale dello Stato, che aveva rilevato come l’eventuale cumulo di tali misure avrebbe comportato una
mancanza di gettito in favore dello Stato. Si è così previsto che la sanatoria operi, senza alcun limite temporale, solo in
favore dei datori di lavoro che procedono a nuove assunzioni a tempo indeterminato a far data dal 1 gennaio 2016.
Stante la correzione apportata alla norma, nulla ha impedito ai committenti di effettuare, entro il 31 dicembre 2015,
assunzioni a tempo indeterminato di collaboratori coordinati e continuativi e titolari di partita IVA, in modo da
conseguire l’esonero contributivo previsto dalla legge di stabilità 2015. Tuttavia, in tale ipotesi, essi non hanno potuto
beneficiare contestualmente di alcuna sanatoria per illeciti amministrativi, contributivi e fiscali eventualmente
commessi, con il rischio, non solo di subire l’applicazione delle sanzioni previste per tali illeciti, ma anche di perdere il
beneficio contributivo ottenuto, qualora, a seguito di ispezioni degli organismi di vigilanza, fosse stata accertata
l’illegittimità del rapporto di collaborazione e la sua riconducibilità nell’alveo della subordinazione.
L’effettiva utilità dell’art 54 va valutata in relazione ai benefici contributivi contenuti nella legge di stabilità.
In quest’ottica, è significativo che la legge di stabilità 2016 abbia riconosciuto (nel periodo tra il 1 gennaio 2016 e il 31
dicembre 2016) un esonero contributivo per 24 mesi, pari al 40% dei complessivi contributi previdenziali (nel limite
massimo di 3 250 euro annui).
È ragionevole ritenere che i datori di lavoro possano cumulare i due benefici (esonero contributivo e sanatoria). Ciò in
quanto, da un lato, non può applicarsi alla fattispecie in questione l’art 31 del d lgs 150/2015 (che esclude l’attribuzione
di incentivi ove l’assunzione da parte del datore di lavoro costituisca attuazione di un obbligo preesistente stabilito da
norme di legge o della contrattazione collettiva), poiché la procedura di stabilizzazione di cui all’art 54 si attiva solo su
espressa volontà delle parti; dall’altro, tale procedura rappresenta una delle iniziative legislative all’interno di un più
ampio disegno riformatore volto ad incrementare l’utilizzo dei contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato,
sicché sarebbe incoerente negare l’esonero contributivo ai datori di lavoro che si avvalgano della sanatoria prevista dal
decreto.
L’esclusione del pubblico impiego dal campo di applicazione dell’art 54 va valutata alla luce della parallela
esclusione dell’art 2, comma 1 (che, dal 1 gennaio 2016, prevede l’applicazione della disciplina del rapporto
di lavoro subordinato alle collaborazioni eterorganizzate).
La volontà legislativa va intesa nel senso di consentire alla pubblica amministrazione di stipulare ancora
contratti di collaborazione coordinata e continuativa per tutto il 2016 (pur nel rispetto della disciplina di cui
all’art 7, comma 6 del d lgs 165/2001): l’art 2, comma 4 prevede il divieto assoluto di stipulare contratti di
collaborazione eterorganizzata nel settore pubblico, a far data dal 1 gennaio 2017.
12 - Il lavoro ripartito (job sharing): la scelta di delegificare (art 55, comma 1, lett d)
1. L’abrogazione esplicita come rinuncia a disciplinare la materia
Tra le disposizioni del d lgs 81/2015 ha trovato spazio l’art 55 (abrogazioni e norma transitorie), con il quale
il legislatore si è espressamente preoccupato di chiarire i termini della propria scelta innovatrice e di risolvere
a monte eventuali problemi di diritto intertemporale.
L’abrogazione delle previgenti norme in tema di lavoro ripartito (art 41 – 45 del d lgs 276/2003) rientra nel
genus delle cd abrogazioni esplicite.
Tale scelta si imponeva per il fatto che il legislatore non ha voluto introdurre una nuova disciplina, ma ha
semplicemente voluto rinunciare ad un intervento nel settore allo scopo di conseguire obiettivi di
semplificazione e razionalizzazione, superando tipologie contrattuali ritenute non più coerenti con il tessuto
occupazionale e il contesto produttivo. Si determina così una situazione definibile come praeter legem, nel
senso che il contratto di lavoro ripartito cessa di essere destinatario di obblighi o divieti di fonte legislativa.
2. Il problema della reviviscenza della normativa abrogata
Già il d lgs 276/2003 aveva disposto l’abrogazione di tutte le disposizioni legislative e regolamentari
incompatibili con il decreto, a far data dalla sua entrata in vigore. Con gli artt 41 – 45 non solo si introduceva
una disciplina positiva del contratto di lavoro ripartito, ma si dichiarava non più applicabile la diversa
normativa eventualmente esistente e si colmavano eventuali lacune dell’ordinamento in materia. Le parti
interessate alla stipulazione di un contratto di lavoro ripartito erano avvertite che il testo di riferimento, in
caso di lacune o antinomie era, a partire dalla sua entrata in vigore, il d lgs 276/2003.
Prima del d lgs 276/2003, in assenza di una normativa specifica in materia, l’emergevano i primi tentativi di disciplinare
l’istituto da parte della contrattazione collettiva, la quale, accogliendo specifiche esigenze di flessibilità provenienti dal
tessuto produttivo, iniziava a prevedere e regolare tali rapporti.
Lo stesso Ministero del Lavoro (circolare 43/1998) ne ammetteva l’applicabilità nell’ordinamento, rispondendo ad un
duplice interesse: attraverso la ripartizione della prestazione e la reciproca sostituibilità, riconosceva ai prestatori
d’opera ampia libertà nella gestione dei propri tempi di vita e di lavoro, mentre al contempo salvaguardava il datore di
lavoro da eventuali cause di impossibilità sopravvenuta, garantendo la produttività attraverso la riduzione delle assenze.
L’art 55 abroga gli artt 41 – 45 del d lgs 276/2003, cosicché abroga una normativa a sua volta abrogatrice
della preesistente disciplina. L’abrogazione espressa non solo toglie efficacia per il futuro alla normativa
abrogata, ma la esclude espressamente dall’ordinamento giuridico, cosicché non è più rinvenibile nel diritto
positivo: la reviviscenza di norme abrogate da una disciplina a sua volta abrogata è da escludere.
Dopo l’art 55, il contratto di lavoro ripartito non sarebbe contra legem (non c’è una norma che ne vieti la
stipula), né sarebbe secundum legem (manca un quadro normativo che ne disciplini la stipula e gli effetti). La
scelta della delegificazione non porta affatto all’espunzione dall’ordinamento giuridico della tipologia
contrattuale del lavoro ripartito (e quindi non implica l’impossibilità di ricorrervi), ma sottolinea come tutto
venga, d’ora innanzi, ad essere affidato all’autonomia delle parti, alla libertà dell’iniziativa privata in campo
economico che conosce così la sua massima espansione.
Il legislatore si ritira e confida nella corretta ed equilibrata estrinsecazione della volontà delle parti (datore di
lavoro e lavoratori), ma resta inteso che tale volontà non potrà mai essere così libera da ignorare i limiti
derivanti all’autonomia privata dalle norme imperative di legge.
3. Il lavoro ripartito tra legislazione e deregulation
L’art 55 fa un riferimento in rubrica anche a norme transitorie, il che lascia intendere che il legislatore si sia
posto il problema del diritto intertemporale, ossia quale sorte debbano avere determinati contratti stipulati
e regolati dalla normativa oggetto di abrogazione espressa.
Ciò non ha riguardato la tipologia dei contratti di lavoro ripartito, destinatari di esplicita rinuncia a
disciplinarli, ma lasciati al vuoto giuridico venuto a determinarsi. La scelta abrogatrice non equivale ad
introduzione di un divieto di stipulare contratti di lavoro ripartito né equivale a dichiarare l’illegittimità
costituzionale della normativa in questione.
L’abrogazione degli artt 41 – 45 del d lgs 276/2003 non implica necessariamente la cessazione dell’efficacia
delle norme abrogate con riguardo alle situazioni in essere né esclude una loro circoscritta efficacia fino ad
esaurimento dell’ambito temporale previsto.
4. Il futuro del lavoro ripartito
Escluso che l’abrogazione di cui all’art 55 abbia un’efficacia retroattiva idonea a travolgere i contratti
pendenti inter partes e legittimamente stipulati in conformità della normativa allora vigente, occorre anche
esaminare se tale abrogazione espressa abbia un’efficacia per il futuro, tale da impedire che la volontà delle
parti si orienti verso la stipula di un contratto di lavoro ripartito, pur in assenza di una disciplina legislativa in
materia.
Se è vero che ogni legge opera nel periodo di tempo compreso tra la sua entrata in vigore e la sua
abrogazione, è anche vero che talvolta si configurano ipotesi di ultrattività (sopravvivenza della normativa
anteriore in modo da avere efficacia per un periodo di tempo successivo a quello della sua abrogazione). Ora,
non vi è alcun dato normativo che consenta di affermare un’ultrattività per il d lgs 276/2003.
Per il futuro, i contratti di lavoro ripartito stipulati dopo l’entrata in vigore del d lgs 81/276 non trovano alcun
vincolo nella normativa abrogante e quindi possono assumere contenuti giuridici difformi. Analogamente, le
parti possono liberamente scegliere di regolare i loro rapporti lavorativi come se il d lgs 276/2003 fosse
ancora in vigore, ma questa scelta sarebbe espressione di autonomia privata e non l’adozione di un
comportamento secundum legem.
La rinuncia del legislatore a disciplinare la materia del contratto di lavoro ripartito pone in prima fila la volontà
delle parti contraenti e la contrattazione collettiva, ma non segna la estromissione totale di questa tipologia
contrattuale dall’ordinamento. Si può parlare di un ritorno al quadro normativo ante-legge Biagi, ove già si
riteneva configurabile un’obbligazione di lavoro subordinato solidale ex parte debitoris, qualora la fungibilità
della prestazione trovasse il consenso del datore di lavoro.
Posta l’ammissibilità in astratto di prestazioni ripartite fra due (o più) lavoratori, obbligati in solido verso un
datore di lavoro per l’esecuzione di un’unica prestazione lavorativa, resta il fatto che il nuovo contratto di
lavoro ripartito riacquista spazi applicativi negatigli durante la vigenza del d lgs 276/2003: ciò fa tornare di
attualità alcune considerazioni a suo tempo sviluppate in dottrina e giurisprudenza, prima della riforma.
Il punto di riferimento non potrà che essere la normativa sul lavoro subordinato (art 2094 cc), rispetto alla
quale sarà necessario calibrare le peculiarità del contratto di lavoro ripartito nel rispetto delle tutele dovute
ai prestatori d’opera.
Da qui, l’importanza di un atto scritto a finalità probatoria, dove si rinvengono i nominativi dei lavoratori
coobbligati (e il loro consenso alla particolare tipologia contrattuale), nonché la collocazione oraria e la
ripartizione (modificabile con adeguato preavviso) del lavoro.
Riprendendo il passato dibattito, va tutt’ora condivisa l’idea che il contratto di lavoro ripartito non possa
prescindere dalla previsione della assicurazione generale e obbligatoria IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti),
della indennità di malattia e di ogni altra prestazione previdenziale e assistenziale: determinante sarà, ai fini
della determinazione delle relative contribuzioni, la durata della prestazione lavorativa, con riguardo non
solo ai lavoratori contitolari di questo speciale contratto, ma anche a chi abbia effettivamente adempiuto
all’obbligazione lavorativa. Il vincolo di solidarietà tra i lavoratori obbligati è elemento costitutivo del
rapporto contrattuale, ma lo è anche la valorizzazione dell’attività di chi, a seguito della ripartizione in
concreto, abbia adempiuto, sollevando gli altri lavoratori dal relativo onere.
Di primaria importanza rimane il principio di non discriminazione, di cui va data attuazione per quanto
concerne il trattamento economico e normativo (con particolare riguardo alle lavoratrici donne).
Parimenti da riconoscere (ma da concordare quanto a limite complessivo e criterio di ripartizione tra i
lavoratori coobbligati) è il diritto alle riunioni assembleari di cu all’art 20 Stat. Lav.
Permane la regola che il rischio della impossibilità della prestazione per fatti attinenti ad uno dei coobbligati
non fa venir meno la pari obbligazione in capo all’altro o agli altri obbligati. In caso di impedimento di tutti i
coobbligati solidali, varrà la disciplina dell’art 1256 cc.
Le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori obbligati non implica necessariamente l’estinzione
dell’intero vincolo contrattuale: il datore di lavoro potrebbe avere interesse a che comunque la prestazione
lavorativa sia resa dall’unico prestatore restante.
È da ritenere che la mancanza (anche sopravvenuta) della pluralità di lavoratori impegnati in solido faccia
venir meno il contratto di lavoro ripartito ed implichi la (possibile ma non scontata) trasformazione in un
normale contratto di lavoro soggetto alla normativa generale del lavoro subordinato.
Da adeguare alla normativa prevenzionistica vigente sono, invece, le misure di sicurezza generali e specifiche
imposte dal tipo di attività dedotta in contratto: troverà piena applicazione il d lgs 81/2008, il datore di lavoro
dovrà valutare i rischi connessi anche a tale tipologia contrattuale per ciascuno dei soggetti obbligati (siano
essi due o più) e dei terzi sostituti (se previsti, ovviamente con il consenso datoriale) e dovrà prevedere un
modello organizzativo che tenga conto di questa tipologia contrattuale, che prevede la discrezionalità degli
stessi lavoratori obbligati a sostituirsi tra loro in qualsiasi momento e di modificare la distribuzione dell’orario
di lavoro (dietro preventiva e tempestiva informazione al datore di lavoro), fermo restando che ogni
lavoratore rimane personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione
lavorativa, quale che sia l’esercizio in concreto dello ius variandi contrattualmente a loro riconosciuto
In conclusione, il venir meno della fattispecie legale tipica non esclude che una disciplina assimilabile al lavoro
ripartito possa ancora trovare cittadinanza nell’ordinamento, specie in sede di contrattazione collettiva.
Nei fatti, l’intervento di semplificazione e riordino attuata con il Jobs Act, abrogando le norme previgenti,
obbliga le parti che se ne volessero ancora servire in futuro ad un’ampia e puntuale regolazione, priva di
sicuri riferimenti normativi e sempre più esposta ad un ampio contenzioso.