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LA TUTELA DEI DIRITTI DEI LAVORATORI

185. Inderogabilità e identità del diritto del lavoro.

Il diritto del lavoro è tradizionalmente e necessariamente inderogabile perché, se ciò non fosse, il datore di
lavoro potrebbe agevolmente strumentalizzare la sua posizione e spingere i lavoratori, in concorrenza tra
loro per un'occupazione, ad accettare qualsiasi condizione di lavoro, anche disumana. Questa situazione è
stata già sperimentata in Europa all'indomani della prima e seconda industrializzazione ed ancora oggi è
presente in gran parte dei paesi sottosviluppati. L'inderogabilità del diritto del lavoro è una conquista
conseguita sul campo e non è un caso che l'ordinamento italiano la riconosca prima ancora dell'entrata in
vigore della Costituzione. Ma è anche vero che l'inderogabilità oggi non può più essere data per scontata; la
globalizzazione ha determinato una concorrenza al ribasso sul costo dei lavoratori che era stata proprio
scongiurata dalla inderogabilità. Le imprese delocalizzano trasferendo la produzione in paesi dove è
pressoché inesistente un sistema di protezione sociale. Ne consegue che per fronteggiare la situazione di
svantaggio in termini di costo del lavoro, in Europa è in atto un processo di ripensamento della normativa
inderogabile a protezione del lavoratore o comunque una graduale riduzione degli effetti della
inderogabilità. In sostanza, di fronte all'alternativa impietosa di tassi crescenti di disoccupazione, gli
ordinamenti europei, così come quello italiano, si stanno attrezzando con l'introduzione di normative e
strumenti che, per specifici contesti e motivi, possano consentire di sospendere temporalmente l'efficacia
della inderogabilità delle norme a protezione dei lavoratori dettate dalla legge e dalla contrattazione
collettiva, per dare spazio a forme limitate di derogabilità "protettiva".

186. Inderogabilità, nullità parziale di protezione e conformazione del contratto individuale.

La garanzia del legislatore per l’inderogabilità della normativa a protezione del lavoratore è la nullità per
contrasto a norme imperative, cioè norme a tutela di beni fondamentali per la vita quali la dignità, la libertà
o la salute del lavoratore. Nel caso in cui la nullità di una clausola del contratto di lavoro derivi da
contrarietà a norme imperative poste a tutela del lavoratore, la nullità subisce degli adattamenti finalizzati
ad evitare che si verifichi la nullità integrale del contratto e con quella la perdita dell’occupazione. Nullità
integrale che di fatto nuocerebbe anziché giovare al lavoratore, cosa che invece il legislatore intende
proteggere. Motivo per cui nel diritto del lavoro, per garantire la salvezza dell’occupazione, si fa ricorso alla
nullità parziale unitamente alla sostituzione delle clausole nulle, senza invalidare il contratto. Allo stesso
tempo, nel diritto del lavoro, è previsto anche l’impiego delle nullità relative, dettate a tutela di una
soltanto delle parti del contratto, il contraente debole, ossia il lavoratore, e perciò azionabili soltanto da
questi. Dunque, nullità parziale e relative, cosiddette di protezione, intendono tutelare una categoria
predefinita di contraenti onde ristabilire le condizioni minime per un equilibrio di mercato socialmente
accettabile. Ne deriva che il rapporto di lavoro, pur originando dal contratto, è regolato soprattutto da fonti
esterne rispetto al contratto, e cioè a prescindere dalla volontà dei contraenti e perfino contro quella
volontà. E si dimostra così la tendenza dell’ordinamento ad utilizzare la tecnica della nullità in relazione alle
specifiche necessità di tutela della persona che lavora.

187. Invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratore.

L’art. 2113 c.c. prevede che non sono valide le rinunzie (il fatto di rinunciare a cosa che si possiede o che
spetterebbe, o a compiere un'azione che si avrebbe il diritto di fare) e le transazioni (accordo concluso tra
datore e lavoratore i quali, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o
prevengono una lite che può sorgere tra loro) del lavoratore se queste hanno per oggetto diritti del
prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dei contratti collettivi. Il giudice finisce nel
configurare in capo al lavoratore una posizione di sostanziale ed oggettiva irrinunciabilità rispetto ai diritti,
c.d. minimi di trattamento normativo ed economico, che discendono dalla legge o dal contratto collettivo. Di
contro, è certamente valida la rinunzia del lavoratore a diritti ulteriori rispetto ai minimi di trattamento
normativo ed economico, come ad esempio il superminimo retributivo. Sempre l’art. 2113 c.c. sanzione le
rinunzie e transazioni del lavoratore facendo un generico rinvio alla categoria delle invalidità e allo stesso
tempo onera il lavoratore ad impugnare con un atto scritto, anche solo in via stragiudiziale, la rinunzia o la
transazione entro 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro o dalla data della rinunzia o della
transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. Decorso tale termine, il lavoratore
decade da questa facoltà e la rinunzia o la transazione divengono efficaci ed inoppugnabili. Sia la
giurisprudenza che la dottrina ritengono che la sanzione dell’invalidità prevista dal legislatore debba essere
qualificata come annullabilità e non con la nullità, per la c.d. relatività d’azione e dell’efficacia invalidante
che soltanto il lavoratore è legittimato a chiedere. Secondo una diversa impostazione, se la rinunzia o la
transazione verte sul diritto fondamentale, c.d. diritto primario, che discende da una norma inderogabile,
opera la disciplina della nullità nei patti contrari; mentre se questa riguarda la conseguenza patrimoniali o
risarcitorie della violazione di quel medesimo diritto, c.d. diritto secondario come, ad esempio, l’indennità
per ferie non godute, si darebbe applicazione all’annullabilità. Resta, però, in sostanza la difficoltà di
distinguere una rinunzia o una transazione avente oggetto diritti che derivano da disposizioni inderogabili di
legge da un negozio o patto contrario a norme imperative. Infine, la disciplina delle rinunzie e transazioni
non si applica alle transazioni o conciliazioni intervenute nelle c.d. sedi tutelate, ovvero la sede sindacale,
giudiziale o amministrativa in cui la volontà del lavoratore è sorretta o assistita dall’ausilio e dal controllo di
soggetti che possono informarlo tempestivamente per impedire che vengano accettati o proposti abusi in
suo danno. Sono quindi pienamente valide le rinunzie e le transazioni che intervengono nel processo di
lavoro; quelle avvenute presso la Direzione territoriale del lavoro, oppure quelle sottoscritte in sede
sindacale (ovvero quelle che intervengono nel rispetto dei requisiti e delle procedure stabiliti dal contratto
collettivo in forza al quale il conciliatore trae i suoi poteri).

188. La derogabilità veicolata dalla contrattazione collettiva e l’art. 8, d.l. n.198/2011 conv. Dalla l. n.
148/2011.

L’art. 2113 c.c. riconosce anche alla disciplina dettata dalla contrattazione collettiva la qualità della
inderogabilità, questo perché il legislatore sa perfettamente di non essere in grado di determinare e poi
regolare, aggiornandolo costantemente, il trattamento minimo di ciascuna categoria merceologica di
ciascun lavoratore. In sostanza, per effetto della inettitudine e intempestività della legge, l’ordinamento
investe sul contratto e sceglie di assecondare la naturale vocazione della contrattazione collettiva a
costituire il più attendibile determinatore della normativa protettiva dei lavoratori, riconoscendole un grado
di competenza che non sarebbe neppure immaginabile per le fonti del diritto. Ma l’ordinamento, inoltre,
sfrutta a fondo la competenza ed il dinamismo della contrattazione collettiva, anche rimandando ad essa il
compito di ridefinire l’assetto dei diritti dei lavoratori. In tal senso va letta per la contrattazione collettiva la
possibilità di realizzare “specifiche intese” finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti del
lavoro, agli investimenti e all’avvio di nuove attività, agli incrementi degli stipendi etc. Queste specifiche
intese infatti, una volta sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle rappresentanze
sindacali, oltre ad essere efficaci nei confronti di tutti i lavoratori interessati, possono anche derogare sia
alle previsioni di legge che al contratto collettivo nazionale in un vasto arco di materie come l’introduzione
di nuove tecnologie, le mansioni, la classificazione e l’inquadramento etc. È stato dunque attribuito alla
contrattazione collettiva un vasto potere di derogazione della disciplina di regolazione del rapporto di
lavoro, che però ovviamente non riguarda le norme di attuazione della Costituzione e le normative che
ottemperano ai vincoli derivanti dagli obblighi comunitari e alle convenzioni internazionali sul lavoro.
Inoltre, fanno eccezione anche le discipline di licenziamento discriminatorio, per matrimonio, maternità
etc. Infine, con il potere derogatorio assegnato alla contrattazione collettiva non va confuso il fenomeno
delle transazioni collettive, che sono contratti collettivi che regolano i rapporti di lavoro all’interno di una
determinata impresa e come tale sfuggono al campo di applicazione delle rinunce e delle transazioni prima
analizzate.
189. La certificazione dei contratti di lavoro.

La caratteristica inderogabilità della normativa posta a protezione del lavoratore ha alimentato nel tempo
un dibattito in merito alla opportunità di prevedere meccanismi che consentano, anche a livello di
negoziazione individuale, alcune forme di disponibilità assistita dei diritti che discendono dal contratto di
lavoro. Ciò per favorire l’ingresso nel mercato di lavoro anche per coloro che ne restano ai margini e
soprattutto per preservare possibilità di occupazione altrimenti a rischio. Questo dibattito della c.d. volontà
assistita si riflette solo marginalmente nella scelta del legislatore di istituire un meccanismo di
certificazione dei contratti di lavoro in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di
lavoro al fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro. Si tratta di una procedura volontaria, consensuale
ed eventuale; attivabile esclusivamente attraverso una istanza scritta comune delle parti del contratto di
lavoro che debba essere gestita da un organo di certificazione pubblico o privato preposto dalla legge
presso cui è abilitata una commissione di certificazione e che, in caso di esito positivo, origina un atto
amministrativo motivato che accerta la corretta qualificazione del contratto di lavoro. L’obiettivo finale di
ridurre il contenzioso si realizza con ciò che il contratto, una volta certificato, produce nei confronti sia delle
parti che dei terzi eventualmente interessati (INPS, INAIL, Ministero del lavoro, ecc.). In particolare, le
commissioni di certificazione possono essere istituite presso gli enti bilaterali, le Direzioni Territoriali del
Lavoro, le Università pubbliche e private, i consigli provinciali dei consulenti del lavoro. L’istanza
consensuale di certificazione deve essere compilata da ambe le parti (ad es. collaboratore continuato e
continuativo/committente, agenzia di somministrazione/utilizzatore) su un apposito modulo cui va allegata
copia del contratto di lavoro da certificare e può anche essere proposta alle organizzazioni sindacali quando
si intende certificare uno schema contrattuale generale uniforme. L’inizio del procedimento deve essere
comunicato anche alla Direzione Territoriale del Lavoro che provvederà ad inoltrare la comunicazione alle
autorità pubbliche nei confronti delle quali l’atto di certificazione è destinato a produrre effetti. L’esito della
certificazione dipende dalla corrispondenza che riscontra la commissione tra il contratto da certificare e i
vari tipi negoziali vigenti. L’atto di certificazione è sempre motivato e deve contenere il termine per
l’impugnazione e l’indicazione dell’autorità presso cui può essere impugnato e rimane conservato presso la
sede di certificazione per almeno cinque anni. Gli effetti della certificazione sono essenzialmente due: da un
lato produce una sorta di inversione dell’onere della prova, nel senso che il contratto certificato è assistito
da una speciale attendibilità che fa gravare su chi lo contesta l’obbligo di dimostrarne invalidità; dall’altro
tale certificazione inibisce alle autorità pubbliche la facoltà di adottare provvedimenti amministrativi sulla
base di una qualificazione del contratto di lavoro diversa rispetto a quella certificata, almeno fin quando
non viene travolta da una sentenza del giudice.

191. La decadenza nel diritto del lavoro.

Effetto della decadenza è la preclusione per il creditore della possibilità di esercitare un diritto, come
conseguenza del mancato compimento di un’attività o di un atto nel termine previsto dalla legge. Il fine è
sempre la certezza del diritto ma la decisione del creditore è all’interno di un termine molto più breve
rispetto alla prescrizione e che, di norma, non ammette sospensioni o interruzioni. Un esempio può essere
proprio il termine di decadenza per l’impugnazione delle rinunzie e transazioni che deve essere proposta
entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro o dalla data della rinunzia o della transazione,
se queste intervenute dopo la cessazione medesima. Ma il più importante esempio di decadenza è quello
previsto per i licenziamenti. Ovvero un licenziamento può essere impugnato, a pena di decadenza, con
qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, entro 60 giorni dalla data di ricezione della sua comunicazione
formale e a sua volta l’impugnazione giudiziale deve essere eseguita, sempre a pena di decadenza, entro
180 giorni dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla
comunicazione della controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrario. Questa complessa
disciplina risponde alla logica di tutelare l’interesse del datore ad avere, in un tempo ragionevole, certezza
del fatto che il lavoratore intenda o meno impugnare il licenziamento.
191. La speciale tutela dei crediti di lavoro.

La speciale rilevanza che nell’ordinamento costituzionale contraddistingue il diritto alla retribuzione impone
specifiche tutele finalizzate a garantire il soddisfacimento dei crediti del lavoratore. Una tra le tecniche
efficaci con cui il legislatore tenta di preservare i crediti dei lavoratori dal possibile inadempimento del
datore di lavoro è, ad esempio, quella del coinvolgimento nell’obbligazione di tutti i soggetti che hanno
beneficiato della prestazione di lavoro e che possono essere chiamati a rispondere solidamente anche del
credito che quella prestazione ha generato. Ciò accade in caso di trasferimento d’azienda, laddove cedente
e cessionario restano obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento,
salvo che intervengano procedure a liberare il cedente. Anche ai dipendenti impiegati in un appalto l’art.
1676 c.c. consente di proporre azione diretta nei confronti del committente, onde reclamare da questi il
pagamento dei crediti vantati dall’appaltatore nei suoi confronti. Ma ciò soltanto nel limite della
concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore al momento in cui si propone la domanda.
Così ancora nella somministrazione l’utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a
corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e a versare i relativi contributi previdenziali, salvo il
diritto di rivalsa verso il somministratore. La rilevanza costituzionale della retribuzione giustifica la deroga
in favore dei lavoratori nel caso in cui il datore risulti insolvente. Pertanto, nel riparto dei crediti
l’ordinamento riconosce a quelli di lavoro un privilegio rispetto agli altri crediti pecuniari. Il privilegio
consente al lavoratore di incrementare le possibilità di soddisfare il proprio credito in sede di liquidazione
volontaria ovvero coattiva, prevalendo sul diritto degli altri creditori privi di legittima prelazione. Il privilegio
è, del resto, un diritto di prelazione accordato dalla legge in considerazione della causa del credito e può
essere generale, quando si esercita su tutti i beni mobili del debitore, oppure speciale, quando si concentra
su determinati beni mobili o immobili. I lavoratori subordinati beneficiano, di norma, di un privilegio
generale sui beni mobili collocato al secondo grado, subito dopo le spese di giustizia. Si tratta però di un
beneficio più apparente che reale in quanto ineffettivo visto che l’azienda attinge ai beni mobili e alla
liquidità non appena si profilano le prime difficoltà e tra l’altro questi beni sono facilmente occultabili; per i
beni immobili il tutto è vanificato dalla legittima prevalenza delle prelazioni ipotecarie. A tutto va aggiunto
l’obbligo di pagare, prima di ogni credito privilegiato, i c.d. crediti che vanno per legge in prededuzione
(detrazione preventiva di una determinata somma da un dato ammontare prima di operare su questo
successive operazioni contabili). L’elenco dei crediti di lavoro che godono di privilegio generale sui beni
mobili comprende le retribuzioni ai lavoratori subordinati e tutte le indennità loro dovute per cessazione di
rapporto di lavoro, il credito del lavoratore per i danni conseguenti alla mancata corresponsione dei
contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori, il credito per il risarcimento del danno subito per
licenziamento inefficace, nullo o annullabile. Solo dopo che sono stati soddisfatti i crediti dei lavoratori
subordinati potranno essere pagati i crediti, anch’essi privilegiati, per i compensi dei lavoratori autonomi,
compresi i collaboratori coordinati e continuativi. La speciale tutela del credito da lavoro si manifesta anche
nella peculiare resistenza che gli viene riconosciuta dalla legge rispetto alle istanze dei soggetti dei quali il
lavoratore è debitore. Le retribuzioni e le indennità possono essere pignorate o sequestrate dai creditori
soltanto nella misura del quinto del loro ammontare. In caso di simultaneo concorso di più di una causa, il
pignoramento complessivo non può comunque eccedere il quinto, elevabile alla metà quando concorrono
crediti alimentari oppure per tributi dovuti allo Stato ed altri enti locali. Anche considerate tali limitazioni, la
giurisprudenza ha introdotto il c.d. minimo vitale di sussistenza del debitore ed ha dichiarato assolutamente
impignorabili gli importi della pensione necessari per assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita con la
conseguenza della pignorabilità nella misura massima del quinto delle somme eccedenti tali importi. I
dipendenti delle P.A. e privati con contratto indeterminato possono contrarre prestiti con restituzione in
massimo dieci anni sempre entro il tetto massimo del quinto. Analoga disposizione è prevista anche per i
contratti a termine e i co.co.co., questi ultimi con almeno un anno di contratto che garantisca compensi
certi e continuativi. Il legislatore ha subordinato il meccanismo della cessione del quinto dello stipendio alla
condizione che, al momento della stipula del prestito, il lavoratore sottoscriva una assicurazione sulla vita o
sulla perdita dell’occupazione a garanzia del prestito. Anche il TFR può essere soggetto di pignoramento,
senza il limite del quinto ed il lavoratore può vincolarlo a garanzia di un prestito personale. Da ultimo, per
conservare nel tempo l’effettivo valore dei crediti del lavoratore, la legge prevede la condanna del datore al
pagamento delle somme per crediti di lavoro comprensiva, oltre che di interessi, anche del maggior danno
eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito.

LA PRESCRIZIONE BISOGNA FARLA DALLA VIDEOLEZIONE DEL PROFESSORE MAIO (LA SPIEGA MOLTO BENE).

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