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L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

Il licenziamento è l'atto con cui il datore risolve il rapporto di lavoro. Esistono diverse motivazioni: libero
con preavviso, per giusta causa, giustificato motivo soggettivo/oggettivo, scadenza del periodo di comporto.
Il licenziamento è soggetto ad una pluralità di regimi.
Si può fare una prima distinzione fra licenziamento individuale, disciplinato da una serie di leggi
susseguitesi nel tempo, e il licenziamento collettivo, regolato dalla legge 223/91

A) IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE

Nel licenziamento individuale vi sono due tipi di regime:


a) REGIME DEL CODICE CIVILE  previsto nel codice civile agli articoli 2118 e 2119 dove si
prevedono in particolare il recesso dal contratto a tempo determinato/indeterminato
b) REGIME DELLE LEGGI SPECIALI IN TEMA DI LICENZIAMENTO  le principali sono:
 Legge 604/1966 che riguarda solo i contratti a tempo indeterminato, prevedendo
l’esigenza di un giustificato motivo di licenziamento
 Lo statuto dei lavoratori, in particolare l’articolo 18, modificato poi dalla legge 92/2012
(legge Fornero che interviene sulla tutela reale per quanto riguarda i divieti, il procedimento
disciplinare e il giustificato motivo)
 Il d.lgs 23/15 che disciplina il licenziamento nel contratto indeterminato prevedendo il
regime delle tutele crescenti dei lavoratori

Inoltre, nel regime del codice civile si distingue:


1. il licenziamento ordinario, detto anche libero
e
2. il licenziamento straordinario, che riguarda il recesso per giusta causa.

1. LICENZIAMENTO LIBERO CON PREAVVISO


In base all’art. 2118 codice civile, ciascuno dei contraenti può recedere, ad nutum (ossia con un solo cenno,
senza necessità di giustificazione) dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel
termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità.
Si chiama libero proprio perché si deve consentire alle parti di recedere da un rapporto che non può
vincolarle per tutta la vita.
Tuttavia, anche se è prevista la libertà di licenziamento, vale comunque il principio secondo cui ciascuna
delle parti deve comportarsi secondo correttezza e buona fede.

Il recesso è un negozio unilaterale recettizio, che per diventare efficace deve essere portato a conoscenza
dell’altra parte.
A tutela della parte che subisce questo recesso è previsto il preavviso la cui durata viene fissata dai contratti
collettivi, che di solito la differenziano in base all’anzianità di servizio e alla qualifica del lavoratore.
In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità di mancato preavviso
equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata al periodo di preavviso.
La stessa indennità è dovuta al datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di
lavoro.
Inoltre, l’articolo 2110 del codice civile dice che "il lavoratore malato non può essere licenziato fino alla
scadenza del periodo di comporto", fino alla quale il licenziamento viene considerato
temporaneamente inefficace.
C'è anche da dire però, che se il recedente sceglie di corrispondere l'indennità ha il potere di far cessare
immediatamente il rapporto senza il consenso dell'altra parte.
L’indennità è una penale, ovvero una somma dovuta in misura prestabilita in base alla retribuzione non data.
Per calcolare l'indennità di mancato preavviso l'art. 2121 codice civile parla di "retribuzione globale di fatto,
ossia ogni compenso di carattere continuativo (provvigioni, partecipazione agli utili o ai prodotti, premi di
produzione, ecc), compreso l'equivalente per vitto e alloggio, prendendo a riferimento la media delle
retribuzioni degli ultimi 3 anni.
Dal computo rimangono esclusi i rimborsi spese e tutti quegli elementi che non sono percepiti mensilmente o
in ogni caso con continuità".
Dopo la riforma Fornero, può dirsi che il licenziamento libero, senza preavviso, che non richiede alcuna
giustificazione necessaria e che non dà luogo né alla tutela reale né a quella obbligatoria, è ormai possibile
solo in alcune ipotesi residuali, ossia per i dirigenti, per i lavoratori in prova, per i domestici, per gli atleti
professionisti, per i lavoratori ultrasessantenni che abbiano già maturato il diritto alla pensione di vecchiaia.
Nei confronti di questi ultimi, la maturazione del diritto alla pensione non determina automaticamente
l'estinzione del rapporto, ma libera il datore dal vincolo della giustificazione e rende possibile il
licenziamento in qualunque motivo, salvo che per motivi discriminatori. Prima l'età pensionabile era 60 anni
per gli uomini e 55 per le donne, nel 1990 divenne 60 anni per entrambi, e nel 2011 divenne 67 per entrambi.

2. IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA


Il licenziamento per giusta causa riguarda non solo il contratto a tempo indeterminato, ma anche quello a
tempo determinato.
Secondo l’art. 2119 codice civile, ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza
del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato,
qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.
Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete
una indennità pari a quella del mancato preavviso. Se il datore, anche nel contratto a termine, non prova
la sussistenza della giusta causa, il licenziamento è inefficace e il rapporto di lavoro prosegue fino alla
scadenza pattuita.

Il licenziamento deve essere giustificato dal datore di lavoro, secondo la regola di giustificazione necessaria,
introdotta prima da accordi interconfederali e poi dalla legge n. 604/1966. Ciò al fine di tutelare il lavoratore,
sia con questa regola sia con la previsione di sanzioni a carico del datore che non la applica. Del resto, la
regola di giustificazione necessaria del licenziamento trova fondamento nella Costituzione (come statuito
dalla Corte Costituzionale nel 2000) in base ai principi della tutela della parte debole e della tutela del lavoro.
"L'onere di allegazione e prova della giusta causa grava sul datore" (art. 5 legge 604/1966):
 nel contratto a tempo indeterminato, poiché il lavoratore viene privato del diritto di preavviso;
 nel contratto a tempo determinato, altrimenti il licenziamento è inefficace e il rapporto di lavoro
prosegue fino a scadenza pattuita.
Nel lavoro pubblico, invece, la legge prevede le ipotesi tassative di cause di licenziamento, con
l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori a tutte le PA, a prescindere dal numero dei dipendenti:
il rapporto di lavoro pubblico, quindi, anche dopo la privatizzazione, è caratterizzato da una maggiore
stabilità, ad eccezione di alcune ipotesi di licenziamento libero (paragrafo 71.3).

La definizione di giusta causa, è descritta dall’articolo 2119 del codice civile, come la "causa talmente
grave che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto" e indica la particolare
rilevanza e urgenza della situazione considerata.
Per questo il licenziamento per giusta causa è ammesso solo se è rispettato il principio di immediatezza,
ovvero solo se avviene nell'immediatezza del fatto o della sua conoscenza da parte del datore, ovviamente
intesa in senso relativo poiché il datore deve avere un lasso di tempo in cui compiere gli accertamenti
necessari ed eventualmente procedere alla sospensione cautelare del lavoratore (continuando però a
retribuirlo) se reputi che la sua presenza in azienda possa pregiudicare il regolare svolgimento dell'attività di
questa, ecc. Nel settore pubblico, la sospensione cautelare è obbligatoria in caso di condanna penale non
definitiva per reati di peculato, concussione e corruzione.

In ogni caso, la nozione di giusta causa è fissata dalla legge, per cui le descrizioni operate nei contratti
collettivi non vincolano il giudice, ma il lavoratore dovrà provare le circostanze per le quali non dovrebbero
applicarsi le tipizzazioni (individuazione dei fatti-tipo che possono valere come giusta causa) della giusta
causa, fissate nei contratti collettivi.
Tuttavia, per dare maggiore importanza a queste tipizzazioni, l’art. 30 comma 3 della l. 183/2010, dispone
che nel valutare le motivazioni poste a base licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta
causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati più
rappresentativi o nei contratti individuali di lavoro, stipulati con l’assistenza e la consulenza delle
commissioni di certificazione.
Si applicano, comunque, le clausole collettive o individuali di miglior favore per il lavoratore.
Per quanto riguarda i fatti che rappresentano giusta causa, essi sono i gravi inadempimenti contrattuali del
dipendente o altri fatti estranei allo svolgimento del rapporto, che facciano venir meno l’idoneità del
lavoratore all’esecuzione della prestazione dedotta in contratto.

Anche per i fatti-reato non scatta automaticamente il licenziamento, ma occorre verificare se essi abbiano
escluso l’idoneità del lavoratore ad eseguire la prestazione contrattuale.
Il datore può ritenere venuta meno tale idoneità e licenziare il lavoratore anche prima della fine del processo
penale.
Inoltre, il giudicato di assoluzione secondo cui il fatto non sussiste o non è stato commesso dal lavoratore
imputato vincola il datore di lavoro solo se questi ha partecipato al processo penale. L’altro tipo di
giudicato, ossia l’assoluzione perché il fatto sussiste ma non costituisce reato, non esclude che il giudice
civile possa qualificare il medesimo fatto come giusta causa di licenziamento.
Per quanto riguarda il patteggiamento, la relativa sentenza, salvo apposite clausole del contratto collettivo,
non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile relativo al lavoro privato (invece, nel lavoro pubblico, la sen-
tenza di patteggiamento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile), per cui si dovranno accertare tutti i fatti
invocati come giusta causa di licenziamento.
Il processo civile sul licenziamento deve essere sospeso per la contemporanea pendenza del processo penale,
se questo può dar luogo ad una sentenza avente efficacia di giudicato nell’altro processo.

Se si accerta che il licenziamento comminato per giusta causa era sorretto da un fatto non costituente giusta
causa, lo stesso licenziamento può rimanere efficace se era consentito il licenziamento libero ex art.
2118 cod. civile. Il licenziamento resta efficace se si accerta che il fatto, pur non costituendo giusta causa,
era qualificabile come giustificato motivo.

Tra i fatti estranei allo svolgimento del rapporto, idonei a costituire giusta causa di licenziamento ricordiamo:
 l’uso di stupefacenti
 il possesso illegittimo di armi
 la falsa testimonianza contro il datore
 la relazione sessuale con la moglie del datore.
 Emissioni di assegni a vuoto
 Ripetuta guida in stato di ebrezza

Tra i fatti costituenti inadempimenti del contratto di lavoro, ricordiamo le assenze ingiustificate, la
distruzione o il furto di beni aziendali, la falsificazione di certificati medici, le ingiurie o aggressioni nei
confronti di superiori gerarchici, l’ubriachezza sul luogo di lavoro, ecc.

IL GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO E IL GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO


L'art. 1 legge 604/1966, (legge che disciplina il licenziamento individuale) afferma che "la regola di
giustificazione necessaria per il licenziamento nel rapporto a tempo indeterminato, è rispettata in presenza
di giusta causa ma anche per giustificato motivo".
La differenza sostanziale tra i due è nel profilo quantitativo (maggiore o minore gravità), inoltre:
 per giusta causa si intende una situazione talmente grave da compromettere il rapporto fiduciario
tra datore e lavoratore, da giustificare l’immediata interruzione del rapporto di lavoro e l’impossibilità di
proseguirlo, anche se solo provvisoriamente; il datore di lavoro non è obbligato a fornire il pe-
riodo di preavviso al dipendente né a riconoscergli l’indennità di mancato preavviso (cosiddetto
licenziamento in tronco);
 per giustificato motivo consiste in un inadempimento meno grave degli obblighi contrattuali da
parte del lavoratore, ad esempio l’abbandono del posto di lavoro senza giustificazioni, ripetute violazioni del
codice disciplinare, ecc; il datore di lavoro è obbligato a concedere al dipendente il periodo di preavviso
o, in alternativa, a corrispondergli l’indennità di mancato preavviso.

Il giustificato motivo, che richiede comunque un periodo di preavviso, può essere (art. 3 legge 604/1966):
SOGGETTIVO (licenziamento disciplinare): se determinato da un notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali del prestatore di lavoro; nel settore pubblico costituisce motivo di giustificato motivo soggettivo
per licenziamento l'insufficiente rendimento per almeno un biennio dovuto alla reiterata violazione di
obblighi inerenti la prestazione lavorativa.
Naturalmente spetta al giudice valutare caso per caso, se un dato fatto è talmente grave da essere giusta
causa, o meno grave da essere giustificato motivo soggettivo; anche qui vige il principio di immediatezza,
perché far passare troppo tempo fa presumere che il datore abbia considerato il fatto del lavoratore
compatibile con la prosecuzione del rapporto di lavoro;

OGGETTIVO (licenziamento economico): per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del
lavoro e al regolare funzionamento di essa (es. riorganizzazione, riduzione di personale, chiusura aziendale).
In questo caso il giudice non può sindacare sulle scelte economico-organizzative del datore ma deve
limitarsi a verificarne il nesso causale con il licenziamento.
Il datore, in particolare, dovrà provare la reale soppressione del posto di lavoro occupato dal lavoratore
necessario e dimostrare la reale inutilizzabilità di quest'ultimo in altre posizioni equivalenti.
Il giudice quindi può intervenire solo sulle condizioni di legittimità e non sulle questioni di merito.

La giurisprudenza ha individuato 5 profili di valutazione di legittimità:


 La scelta economica alla base del licenziamento è libera ma il datore deve indicare questa scelta ed
essa deve corrispondere al vero, non deve essere un pretesto per liberarsi del lavoratore.
In genere si guarda se dopo tempi brevi viene assunto un altro lavoratore
 Attualità dell’esigenza Non può essere licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato
oggi per sopperire a situazioni di esigenze future.
 Non temporaneità dell’esigenza Se è temporaneo si deve mantenere il posto di lavoro.
Viene valutata in base alla ragionevole prospettazione da parte del datore della non temporaneità
dell’esigenza al momento dell’intimazione del licenziamento.
 Nesso di causalità tra l’esigenza aziendale e il lavoratore licenziato (=soppressione di posto legata
all’introduzione di un macchinario, il nesso non sussiste se si licenzia il lavoratore di un altro reparto).
Sotto questo profilo rileva anche, in presenza di più lavoratori che si trovano nelle stesse condizioni,
se bisogna sopprimere solo un posto in questo caso si pone il problema di quale lavoratore licenziare
fra i tre licenziabili.
Sono criteri regolati dalla l.223/91.
 Onere di ripescaggio: spostare, se possibile, il lavoratore ad altre mansioni, per non intaccare il diritto
alla conservazione del rapporto.
Quindi il datore deve dimostrare che non sia possibile usare il lavoratore in altre mansioni equivalenti
(extrema ratio).
Lo spostamento va considerato in relazione all’intera organizzazione aziendale, quindi che riguarda
anche altre unità produttive.
Lo spostamento può avvenire anche in mansioni inferiori, sia nel rispetto della categoria sia in una
categoria inferiore, a volte anche con sacrificio di retribuzione.

Nel giustificato motivo oggettivo possono essere comprese anche vicende personali del lavoratore, ma
sempre relative all'organizzazione aziendale, come:
1) sopravvenuta inidoneità fisica, che sia di durata imprevedibile e non derivante da infortunio o
malattia professionale, ammesso che il lavoratore non possa essere utilizzato per mansioni
inferiori. Altra ipotesi riguarda la perdita dei requisiti soggettivi indispensabili per il lavoro (es.
revoca della patente nel caso in cui il lavoratore faccia l'autista);

2) carcerazione preventiva solo nel caso in cui l'assenza del lavoratore determini problemi
organizzativi non fronteggiabili con altro personale o faccia venir meno l'interesse a svolgere
ulteriori prestazioni.

Un orientamento giurisprudenziale, contrario a quello che ora si è consolidato, aveva imposto al datore
l’obbligo, anche in assenza di espressa previsione da parte del contratto collettivo, di assegnare al
lavoratore, ove disponibili, diverse mansioni anche inferiori, compatibili con il suo stato fisico.
Questo principio è stato poi recepito dal legislatore, che ammette il licenziamento per impossibilità
sopravvenuta solo se sia impossibile usare il lavoratore in mansioni equivalenti o inferiori (ed in caso di
assegnazione a mansioni inferiori permane il diritto alla conservazione del trattamento della precedente
qualifica).
L'ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto non rientra tra il giustificato motivo in
quanto ricondotto alla disciplina speciale dell'art. 2110 codice civile (in realtà vi è contraddizione tra due
sentenze del Tribunale di Milano del 2013 (5 marzo e 22 marzo) in cui si contraddicevano una dicendo che ci
rientra e l'altra no, quindi una diceva di esperire il tentativo di conciliazione e l'altro no). Se rientrasse nel
giustificato motivo si applicherebbe la tutela reintegratoria attenuata.

Per quanto riguarda la malattia, bisogna fare una grande distinzione, cioè:
 licenziamento durante lo stato di malattia ma dovuto a casi diversi dalla malattia: l’art. 2110
prevede una particolare tutela che non permette al datore di licenziare fino alla scadenza del periodo
di comporto. Il lavoratore non può essere licenziato tranne nei casi di giusta causa, mentre invece se
è un licenziamento disciplinare con preavviso allora si ha la tutela (il licenziamento intimato con
preavviso, e quindi anche quello per giustificato motivo, non è efficace nel periodo di tutela, e viene
differito dopo la scadenza).
 licenziamento a causa della malattia è il licenziamento per scadenza del periodo di comporto: il
lavoratore ha diritto alla tutela, però per un periodo determinato, che può essere uno unico oppure
può riguardare il comporto per sommatoria (periodi di più malattie sommati fra loro). mSe il datore
licenzia prima della scadenza si ha il licenziamento dovuto alla malattia ed è nullo per violazione di
norma imperativa.
Questo tipo di licenziamento non è assoggettato al giustificato motivo oggettivo, e quindi se il
comporto è scaduto, il datore può attivare il licenziamento con preavviso per il sol fatto che è
scaduto il periodo di comporto, non essendo necessario che provi il riflesso negativo
sull’organizzazione aziendale del fatto che il lavoratore è stato assente.

Nei casi di eccessiva morbilità: durante il periodo di comporto il datore può̀ far valere il giustificato
motivo oggettivo, provando la disorganizzazione che si è verificata.
Poi la giurisprudenza è cambiata e si è detto che la tutela opera impedendo la rilevanza come giustificato
motivo oggettivo delle assenze per eccessiva morbilità.
Poi la giurisprudenza sembra sia ulteriormente mutata con sentenza recente del 2014 n°18178 in cui sembra
risolvere quella soluzione per cui anche se non è scaduto il comporto si può licenziare il lavoratore per
eccessiva morbilità, con motivazione non perspicua in cui si fa valere il fatto che la prestazione deve
raggiungere una minima utilità per il datore, e che non può essere fatta valere con un lavoratore con queste
continue assenze.

L’INGIUSTIFICATEZZA QUALIFICATA (LA RIFORMA FORNERO, LEGGE 92/2012)


Mentre nell'art. 2118 cod. civile è riconosciuto al datore di lavoro il potere di recedere liberamente con
preavviso, con la legge 92/2012, la cosiddetta Riforma Fornero, sono stati modificati gli artt. 6 e 7 della
legge 604/1966 e l’art. 18 statuto dei lavoratori (legge 300/1970), in materia di licenziamenti individuali.
In tal modo, è stato introdotto nel nostro ordinamento il principio della ingiustificatezza del licenziamento,
cioè il licenziamento del lavoratore subordinato deve essere giustificato, contestualmente al licenziamento,
con una giustificazione obiettiva (cioè non riconducibile alla mera discrezionalità del datore di lavoro) e deve
essere oggetto di una possibile valutazione da parte di un terzo imparziale (il giudice) che possa stabilire se
la giustificazione c’è oppure no, e la motivazione del licenziamento deve essere sindacabile (quindi
dev'esserci un metro oggettivo con il quale valutarla).
Ciò al fine di tutelare il lavoratore, sia con questa regola sia con la previsione di sanzioni a carico
del datore che l'applica.
Per effetto di tale riforma, il licenziamento ingiustificato può essere caratterizzato da:
 ingiustificatezza semplice: per il quale il lavoratore può avere solo un'indennità risarcitoria (tutela
indennitaria);
 ingiustificatezza qualificata
 : per la quale il lavoratore ha una tutela reale, ossia il diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro,
previsto dall'art. 18 comma 4 statuto dei lavoratori.

Per quanto riguarda l'onere della prova in giudizio tra lavoratore e datore, l'iter è il seguente:
- il datore deve provare che il licenziamento è giustificato;
- il lavoratore, se il datore non fornisce questa prova, deve provare che non vi è ingiustificatezza ordinaria,
ma che ricorre una delle 3 ipotesi di ingiustificatezza qualificata.
Le 3 modalità di ingiustificatezza qualificata introdotte dalla riforma Fornero che fanno scattare la tutela
reale sono:
a) nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo
1. insussistenza del fatto contestato: il fatto addebitato al lavoratore non esiste, perciò si applica la
tutela reale. Quest'ultima si applica anche nel caso in cui il fatto contestato è vero, ma è
manifestamente insufficiente a giustificare il licenziamento (si pensi al ritardo di pochi minuti
del lavoratore),
2. il fatto contestato rientra tra quelli per i quali i contratti collettivi prevedono una sanzione
conservativa, ossia sanzioni che non compromettono la conservazione del posto di lavoro.

b) nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo


3. la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento non è sufficiente ad aver
diritto alla tutela reale, bensì si necessita di un ulteriore valutazione del giudice, che può (e non
"è obbligato a") applicare la tutela reale.

Il giudizio, in base all'esito delle prove raccolte, può avere i seguenti esiti:
a) il giudice ritiene che il licenziamento sia giustificato: sono rigettate tutte le domande del lavoratore;
b) il giudice ritiene che i fatti posti a base del licenziamento siano manifestamente insussistenti: viene
raccolta la domanda di tutela reale del lavoratore;
c) il giudice ritiene che il datore non ha provato che il licenziamento è giustificato e che il lavoratore
non ha provato la manifesta insussistenza dei fatti per cui il datore ha applicato il licenziamento: il
giudice rigetta la domanda del datore di accertamento della giustificatezza del licenziamento, rigetta
la domanda del lavoratore di accertamento di ingiustificatezza qualificata del licenziamento, e
riconosce a lavoratore una tutela indennitaria per l'ingiustificatezza semplice.

GIUSTA CAUSA e GIUSTIFICATO MOTIVO presentano un PROBLEMA derivante dalla natura


delle norme del 2119 c.c. e art.3 l.604 cosiddette a precetto generico.
La norma a precetto generico ha:
 vantaggio di comprendere più ipotesi delle norme tipizzate
 svantaggio per i contratti a termine e non favorisce la certezza del diritto.
D’altro canto, la genericità amplia il potere del giudice di individuare le fattispecie concrete che sono
riconducibili alla norma a precetto generico.
I contratti collettivi spesso prevedono il licenziamento come sanzione disciplinare, però si die che il contratto
collettivo è un atto di autonomia privata subordinata alla legge inderogabile, e quindi sarebbe sempre
possibile il controllo del giudice la verifica della mancanza se è tale da giustificare il licenziamento in base a
quello che prevede la legge.

I°PROFILO Se la clausola del contratto collettivo non corrisponde alle previsioni della legge è nulla per
violazione di norme inderogabili, e non è quindi operativa quella clausola.
Il giudice nel momento in cui valuta l’esistenza della giusta causa, esercita la sua discrezionalità̀ , ma deve
sempre tenere presente i dati di tipicità̀ sociale, cioè̀ di quel che avviene nell’ambito del settore a cui si
riferisce quel rapporto di lavoro.
Questi dati sono alla base ad esempio della retribuzione, dove il giudice per decidere le soglie minime non
può̀ decidere in modo totalmente arbitrario.

intervento legislatore nell’ambito di un intervento legislativo che era diretto a favorire la certezza del
diritto e a ridurre la discrezionalità̀ del giudice, in particolare art. 30 co.3 l.183/10 (collegato lavoro) nel
valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa
e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati più̀ rappresentativi.
Quindi la norma impone al giudice di tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo
presenti nel contratto collettivo.
“Tenerne conto” = significa che non è che sia privato del potere di dire che la tipizzazione sia in conflitto con
la legge, ma si dice che è obbligato a considerare il contratto collettivo, e se la tipizzazione è in contrasto con
la legge bisogna motivare.
Questa è la prima norma in questo tema, prima non c’era.

Nell’art. 30 della legge 183/2010, si dice anche che il giudice deve tenere conto della giusta causa e
giustificato motivo contenuti nei contratti individuali, ove questi siano stipulati con l’ausilio delle
commissioni di certificazione.

II°PROFILO le clausole del contratto collettivo prevedono la possibilità̀ di licenziare quando invece non
ricorre la gravità della mancanza, la clausola è nulla;
però nel caso in cui la previsione del contratto collettivo individui una mancanza e stabilisca che può̀ dar
luogo a sanzione solo conservativa, però considerando che quella mancanza potrebbe dar luogo anche al
licenziamento secondo la legge, in questo caso si applica il criterio del favore, = si applica il caso più̀
favorevole al lavoratore, e il giudice è vincolato a far valere questo principio.

Altro aspetto interessante è la possibilità̀ di far riferimento ad ipotesi di giusta causa o giustificato motivo,
tipizzate nel contratto collettivo, per valutare la gravità della mancanza con riferimento a casi non tipizzati.

LICENZIAMENTO VERBALE
Il licenziamento verbale (o orale) si verifica quando il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza
alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera o altro). La legge impone al datore di lavoro di
comunicare il licenziamento per iscritto, perciò il licenziamento verbale è inefficace: ciò significa che non
produce alcun effetto e, in particolare, non interrompe il rapporto di lavoro tra le
parti, perciò il datore di lavoro è tenuto a continuare a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando
non sopravvenga un’efficace causa di risoluzione o estinzione del rapporto di lavoro o l’effettiva
riassunzione. In questi casi è necessario che il lavoratore faccia pervenire immediatamente una raccomandata
A/R (di cui si deve tenere copia) nella quale lo stesso si mette a disposizione per la ripresa immediata
dell’attività dando conto del fatto di essere stato allontanato dal datore di lavoro.

I DIVIETI DI LICENZIAMENTO
Caratteristiche comuni a questi divieti sono l'onere della prova a carico del lavoratore della situazione
fondante, che il lavoratore ha interesse ad invocare sia nei rapporti a regime di licenziamento libero sia di
giustificazione necessaria ma con tutela debole sia nei rapporti con tutela reale per la sola ingiustificatezza
qualificata.
Al lavoratore attualmente conviene sempre invocare la nullità del licenziamento, nullità che se accertata
garantisce al lavoratore la conservazione del posto di lavoro.

I divieti di licenziamento riguardano solo i casi previsti tassativamente dalla legge:


 licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio
 licenziamento della lavoratrice madre
 licenziamento discriminatorio
 licenziamento per motivo illecito
 licenziamento in frode alla legge
 licenziamento per violazione di norme imperative

Per i lavoratori assunti dopo l'entrata in vigore del d. lgs. 23/2015 i licenziamenti discriminatori o nulli o
intimati in forma orale sono assistiti dalla tutela reale, quasi identica a quella prevista dall'art. 18 Statuto dei
lavoratori

IL LICENZIAMENTO DELLE LAVORATRICI MADRI E CAUSE DEL MATRIMONIO


È vietato il licenziamento della lavoratrice nel periodo che va dal giorno della richiesta di pubblicazioni di
matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione, nonché dall’inizio della gestazione fino al compimento di
un anno del bambino (si applica anche al padre lavoratore che si astenga dal lavoro nei primi 3 mesi del
figlio in mancanza della madre). In questi periodi, il licenziamento è ammesso solo per colpa grave della
lavoratrice costituente giusta causa oppure per cessazione dell’attività aziendale. In tutte le altre ipotesi, il
licenziamento, comminato nei suddetti periodi, è nullo.
Si tratta di una tutela speciale, che presenta il rischio di poter disincentivare l’occupazione femminile, poi-
ché nessun datore può gradire di assumere un dipendente che, per effetto del matrimonio e delle gestazioni,
può rimanere assente per lunghi periodi al luogo di lavoro.

IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
La legge considera discriminatorio, vietandolo, il licenziamento solo quando determinato da ragioni
tassativamente previste (sindacali, politiche, religiose, etniche, di lingua, di sesso, di convinzioni personali,
di età, di tendenze).
In tali ipotesi, e non in altre, il licenziamento si considera discriminatorio ed è nullo, con applicazione della
tutela reale ex art. 18 Stat. Lav. L’onere della prova circa le ragioni discriminatorie è a carico del lavoratore.

Con la riforma Fornero si aggiunge anche il caso del “licenziamento per ritorsione” alle voci riguardanti il
licenziamento discriminatorio, che consiste nel licenziamento per comportamenti sgraditi al datore.
La tutela è valida per le cause tipizzate di discriminazione (quindi non rileva qualunque altra ragione non
illecita di differenziazione del trattamento) e non rileva l’intento discriminatorio ma la circostanza che fa
verificare la discriminazione.
Il licenziamento è nullo a prescindere dall’intenzionalità̀ e non occorre che sia l’unico motivo determinante
per cui in presenza di una giusta causa o giustificato motivo, se pongo in essere il licenziamento per il fatto
che vi sia appunto una discriminazione, rileva il carattere discriminatorio.
Ad esempio, se si ha la discriminazione per sesso e la lavoratrice è anche inadempiente, il licenziamento è
nullo per discriminazione, quindi non rileva il motivo legittimo.

Anche qui l’onere della prova è a carico del lavoratore e quindi anche qui si nota la netta differenza con la
tutela per la giustificazione necessaria, ma tuttavia per la difficoltà del provare una discriminazione il
legislatore opera una distinzione ovvero:
 attua un’inversione dell’onere della prova per ragioni di sesso, sulla base di una prova presuntiva
speciale,
 per le altre discriminazioni opera una presunzione semplice.
Il licenziamento discriminatorio è nullo ed è sottoposto alla tutela reale prevista dall’art. 18 statuto dei
lavoratori che in questo caso si applica anche ai dirigenti, ai lavoratori domestici, ai lavoratori pensionabili e
alle minori aziende produttive.

IL LICENZIAMENTO PER MOTIVO ILLECITO E IN FRODE ALLA LEGGE


"Il licenziamento si considera disposto per motivo illecito se è contrario a norme imperative, all'ordine
pubblico ed al buon costume" (art. 1345 cod. civ.) e determina la nullità del licenziamento solo se
quell’illecito è l’unico determinante, sicché è efficace il licenziamento disposto sia per un motivo illecito
che per un altro giustificato motivo.
Quanto alle conseguenze, il licenziamento per motivo illecito, è nullo; dopo la riforma del 2012, tale
licenziamento è soggetto alla tutela speciale reale prevista dall’art. 18 commi da 1 a 3, Stat. Lav.
L’onere della prova circa il motivo illecito grava sul lavoratore, che può provarlo anche tramite presunzioni.
Rimane l'obbligo del risarcimento del danno da parte del datore di lavoro, inoltre il lavoratore ha diritto alla
reintegrazione del posto o, in alternativa, un'indennità (da richiedere entro 30 giorni dalla sentenza) pari a 15
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di
lavoro.
Se c’è un motivo legittimo che concorre, non si può far valere il motivo illecito.
È da considerarsi certamente nullo il licenziamento in frode alla legge, ossia diretto ad eludere
l’applicazione di norma imperativa (ad es. quello disposto prima del trasferimento d’azienda e seguito da
immediata riassunzione, per eludere le norme dell’art. 2112 sulla responsabilità solidale dell’acquirente e
sulla conservazione del precedente trattamento). Le conseguenze sono le stesse già viste per il licenziamento
per motivo illecito.
LICENZIAMENTO PER VIOLAZIONE DI NORME IMPERATIVE
ipotesi di licenziamento per il sol fatto del trasferimento, che prevedrebbe la continuazione del rapporto.
Altro esempio è il licenziamento per il fatto dello sciopero dei servizi pubblici essenziali il lavoratore in
questo caso può essere solo sanzionato con sanzione conservativa.
Altra ipotesi è anche il licenziamento del lavoratore per scadenza del periodo di comporto quando questo
none era ancora scaduto.

Casi di illegittimità̀ di licenziamento del lavoratore con contratto a tempo indeterminato:


 mancanza forma scritta  Licenziamento illegittimo perché́ senza la forma scritta nei casi in cui
opera la forma scritta, che viene definito dalla legge inefficace.
 Nullità Licenziamento illegittimo perché́ nullo.
 Ingiustificatezza Licenziamento illegittimo perché́ ingiustificato (difetta la giusta causa o
giustificato motivo).
 Vizio del procedimento preventivo Licenziamento illegittimo perché́ viziato nel procedimento
preventivo rispetto all’intimazione del licenziamento (vizi del procedimento disciplinare,
procedimento del giustificato motivo che non c’è più̀ ).
 Vizio di difetto di motivazione Licenziamento illegittimo perché́ intimato con difetto di
motivazione e quindi indicazione di giustificatezza.
Quindi l’ipotesi di illegittimità̀ è polisensa, nel senso che si riferisce a più̀ casi, ed è giusto distinguerle
perché́ sono trattate poi in modo diverso.

Le CONSEGUENZE DELL’ILLEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO con riferimento ai contratti a


tempo indeterminato, per quanto riguarda l’ambito di applicazione, oggi bisogna considerare la distinzione
fra il regime previsto per i:
 lavoratori assunti prima del 7/03/15 (vecchi assunti)
 lavoratori assunti dopo il 7/03/2015 si applica il regime delle tutele crescenti).

Inoltre, bisogna distinguere se il lavoratore sia dipendente di:


 datore “piccolo” (ha meno di 60 dipendenti)
 datore con più di 60 dipendenti, e questo è dovuto al fatto che siccome alcune tutele sono molto gravose
per il datore il legislatore preferisce gravare sul datore che abbia più dipendenti rispetto al datore che
ne ha meno.
Ma questa ratio non corrisponde sempre ad una disciplina che la rispetta.
Il regime del numero di dipendenti permane sia per i vecchi assunti che per i nuovi assunti.

Una grande distinzione fra le tutele sia nell’ambito dei regimi preesistenti a quello delle tutele crescenti sia
nel sistema delle tutele crescenti, riguarda la distinzione fra:
 TUTELA REALE DEL POSTO DI LAVORO ipotesi in cui il licenziamento illegittimo sia
invalido e comportano la reintegra del posto di lavoro con effetto retroattivo
 TUTELA OBBLIGATORIA  tutela indennitaria, e costituisce l’estinzione del rapporto di lavoro).

La linea seguita dal legislatore è caratterizzata dalla riduzione progressiva dei casi di tutela reale (=tutela
maggiore per il lavoratore) e in parallelo l’estensione dei casi di tutela obbligatoria.
Il principio informatore che spiega dove sia mantenuta la tutela reale o meno è che la tutela reale permane
nelle ipotesi in cui il licenziamento è idoneo a colpire beni costituzionalmente garantiti al lavoratore
(licenziamento discriminatorio ad esempio) e la tutela obbligatoria riguarda i casi di illegittimità̀ che
comportano una lesione del mero interesse del lavoratore alla conservazione del rapporto.

TUTELA OBBLIGATORIA
art.8 l.604/66 In caso di licenziamento ingiustificato il datore è tenuto a riassumere il lavoratore entro 3
giorni oppure a risarcirlo attraverso una indennità̀ , con importo predeterminato dalla legge.
L’indennità̀ è dovuta al posto della riassunzione, e quindi viene intesa come costituzione da quel momento in
poi di un nuovo rapporto di lavoro, a prescindere dalla ragione per la quale non avvenga la riassunzione e
quindi anche se sia il lavoratore a rifiutarla.

MINORI ORGANIZZAZIONI l’importo varia da un minimo di 2,5 mensilità̀ ad un massimo di 6


dall’ultima retribuzione globale di fatto, tenuto conto del numero di dipendenti occupati, delle dimensioni
dell’impresa, dell’anzianità̀ di servizio, dal comportamento e dalle condizioni delle parti.
L’indennità̀ è aumentata fino a 10 mensilità̀ o fino a 14 per i dipendenti di elevata anzianità̀ di servizio.
In considerazione del modesto importo dell’indennità̀ , la legge impone un previo tentativo di conciliazione in
sede amministrativa o sindacale, a pena di improcedibilità̀ del giudizio in cui si invochi la tutela obbligatoria.
La finalità̀ è quella di incentivare la soluzione stragiudiziale.
In caso di mancata conciliazione è previsto anche un arbitrato, ma questo è facoltativo.

MAGGIORI ORGANIZZAZIONI l.92/12.


Anche nelle maggiori organizzazioni o unità produttive, per cui prima era prevista la tutela reale contro il
licenziamento ingiustificato, ora si prevede solo una tutela indennitaria, mantenendo la tutela reale solo per i
3 casi di ingiustificatezza qualificata.
Quindi, l’assenza di giustificazione lascia fermo l’effetto estintivo del rapporto, spettando al lavoratore una
tutela indennitaria risarcitoria onnicomprensiva tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità̀ dall’ultima
retribuzione globale di fatto.
Anche per i vizi procedimentali è prevista una tutela indennitaria, ma questa volta compresa fra le 6 e le 12
mensilità̀ .
Per vizi procedimentali intendiamo:
 difetto di motivazione contestuale,
 difetto di procedura disciplinare
 difetto della procedura preventiva.

Con l’introduzione del regime a tutele crescenti (d.lgs. 23/15), si è modificata la tutela contro i licenziamenti
illegittimi, solo per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore di tale decreto e per i datori che superano il
requisito dimensionale dei 15 dipendenti, introducendo così due regimi diversi, sia per la tutela reale che per
quella obbligatoria. In particolare, per quella obbligatoria si prevede:
 Assenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo/soggettivo indennità̀ di importo pari a 2
mensilità̀ per ogni anno di servizio, per un minimo di 4 ed un massimo di 24
 Per vizi procedimentali e formali indennità̀ risarcitoria di importo pari ad un mino di 2 ed un
massimo di 12 mensilità̀ .

TUTELA REALE
la l. 92/12 (riforma Fornero) ha novellato l’art. 18 stat. lav., riservando la tutela reale solo nelle ipotesi
tassative di ingiustificatezza qualificata e licenziamenti vietati o orali.
Successivamente il d.lgs. 23/15 ha modificato la tutela reale per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore di
tale decreto, e per i datori che superassero la soglia dei 15 dipendenti, prevedendo tale tutela solo nei casi di:
 licenziamenti orali o nulli,
 insussistenza del fatto materiale
 licenziamenti motivati con l’idoneità̀ fisica o psichica sopravvenuta.
Nelle piccole imprese, invece, si applica la tutela reale solo per i licenziamenti nulli o orali.
Il lavoratore vittorioso in giudizio, ha il dovere di restituire l’indennità̀ di preavviso e il TFR che gli era stato
consegnato al momento del licenziamento illegittimo.
L’ordine di reintegrazione è superato qualora sopraggiunga una causa estintiva del rapporto.
La reintegrazione per licenziamento illegittimo si distingue dalla detenzione ingiusta, in quanto la
detenzione ingiusta non si ha avuto un licenziamento che è invalido, ma la reintegra è dovuta al fatto che la
sentenza ha dichiarato il soggetto innocente e quindi riacquista il diritto a recuperare il suo posto di lavoro
precedente, ma in questo caso non vi è il dolo o la colpa del datore di lavoro.
Nei casi in cui è ancora prevista la tutela reale, il regime per il periodo dal licenziamento all’effettiva
reintegrazione si è sdoppiato, per tutti quei lavoratori assunti dopo tale decreto, e si distingue a seconda che il
licenziamento sia:
 licenziamento vietato o orale
 vizio di ingiustificatezza qualificata

LICENZIAMENTO VIETATO O MORALE  art. 18 co.2. – il giudice con l’ordine di reintegrazione condanna
il datore anche al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia accertata la nullità̀ ,
stabilendo una indennità̀ commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino
all’effettiva reintegrazione.
Da questa somma si detrae quanto il lavoratore abbia guadagnato altrove (aliunde perceptum), mentre non si
detrae ciò̀ che il lavoratore avrebbe potuto guadagnare comunque a prescindere dalla prestazione che svolgeva
(aliunde compatibile).
Infine, in questo regime non si detrae nemmeno il danno che il lavoratore avrebbe potuto evitare usando
l’ordinaria diligenza (aliunde percepiendum).
Questa indennità̀ viene definita come una “PENALE FORFETTARIA”, nel senso che si tratta di un compenso
in misura fissa insuscettibile di qualsiasi riduzione e che ha funzione punitiva dell’illecito commesso dal
datore. Essenziale specificare che tale indennità̀ non può̀ comunque essere inferiore alle 5 mensilità̀ , e
l’eventuale sopravvenienza di un’altra causa estintiva esclude il risarcimento per il periodo successivo, ma
permane comunque il diritto del lavoratore a percepire le 5 mensilità̀ .
VIZIO DI INGIUSTIFICATEZZA QUALIFICATAart.18co.4 – Siamo nei casi di ingiustificatezza
qualificata e licenziamento ingiustificato per asserita inidoneità̀ e scadenza di comporto.
In questi casi si ha una distinzione rispetto alla tutela precedente, in quanto:
 Ci sono delle differenze in ambito risarcitorio
 Si ha la detrazione anche dell’aliunde percepiendum
 Si ha un limite massimo di 12 mensilità̀ per l’indennità̀ risarcitoria
 Per quanto riguarda il regime previdenziale è dovuto al datore solo l’importo differenziale tra la
contribuzione che sarebbe dovuta senza licenziamento e l’eventuale contribuzione derivante da altre
attività̀ .

Nei casi di tutela reale, il lavoratore può̀ anche scegliere di non essere reintegrato e di chiedere un’indennità̀
sostitutiva alla reintegrazione pari a 15 mensilità̀ di retribuzione entro 30 giorni dalla comunicazione del
deposito della sentenza che ordina la reintegrazione (art.18 co.5).
Essendo una indennità̀ sostituiva, questo comporta in primis che qualora sopravvenga una causa estintiva che
nega la reintegrazione, viene meno anche la possibilità̀ di ricevere l’indennità̀ sostitutiva, ed in secondo luogo
che se il lavoratore accetta la revoca non ha diritto all’indennità̀ .
Il lavoratore, comunque, può̀ anche anticipare la sua scelta richiedendo l’indennità̀ già̀ nel giudizio di
impugnazione del licenziamento dalla cui illegittimità̀ acquisisce il diritto a tale indennità̀ .
Il rapporto di lavoro si estingue per legge dal momento in cui viene fatta la richiesta di indennità̀ sostitutiva,
che oltretutto non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
Infine, bisogna dire che questa indennità̀ si cumula con quella risarcitoria, e quindi per il periodo del
licenziamento illegittimo fino alla cessazione del rapporto è dovuto al prestatore il risarcimento del danno
secondo l’art. 18 co.4 + l’indennità̀ sostitutiva.

LE ASSENZE CON DIRITTO ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO


In determinate ipotesi, il lavoratore, anche se non esegue la prestazione lavorativa, ha diritto alla
conservazione del posto di lavoro (ad es. richiamo alle armi, chiamata a funzioni pubbliche).
Durante il periodo di sospensione, il datore non può recedere dal contratto, ma può solo licenziare il
lavoratore se ricorre una giusta causa o se vi è cessazione dell’attività aziendale.
L’INTIMAZIONE DEL LICENZIAMENTO

Con il termine licenziamento si intende l’atto unilaterale recettizio (cioè che per avere efficacia deve
pervenire al lavoratore art. 1334 cod. civ.) con cui il datore di lavoro o un legittimo rappresentante,
interrompe il rapporto di lavoro.
Se viene effettata da un soggetto diverso è consentita la ratifica con effetto retroattivo, con la stesa forma
prescritta per il licenziamento.
Il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento al lavoratore, con espressa deroga al
principio di libertà della forma del negozio giuridico, fatta eccezione per i lavoratori in prova, per i
lavoratori domestici, per gli ultrasessantenni con diritto alla pensione.
Inoltre, il licenziamento è un atto unilaterale recettizio: per avere efficacia, deve essere portato a conoscenza
del lavoratore (si presume la conoscenza se l’atto è recapitato al suo indirizzo).
Se il licenziamento è privo della forma scritta, è nullo, con obbligo del lavoratore ad applicare la tutela reale
ex art. 18 Statuto dei Lavoratori
Il datore può sempre emanare un successivo licenziamento scritto, che avrà una sua autonoma efficacia,
rispetto a quello precedente, nullo per mancanza della forma scritta.

LA MOTIVAZIONE
Secondo la legge 604/1966 prima della Riforma Fornero, il licenziamento poteva non contenere i motivi; il
lavoratore poteva richiederli entro 15 giorni e il datore deve dare risposta entro 7 dalla richiesta.
Con la riforma, che ha novellato tale legge, il licenziamento deve essere motivato contestualmente al
licenziamento e in caso di impugnazione il datore non potrà modificare tali motivi in giudizio.
Il licenziamento deve essere motivato, con motivi specifici ed essenziali per far comprendere al lavoratore le
ragioni del recesso.
I motivi possono essere plurimi ed in tal caso la giustificazione del licenziamento può risultare dalla
fondatezza anche di uno solo di essi.
Resta illecito il licenziamento ingiurioso, cioè quello che, a prescindere dalla sua giustificatezza, sia
intimato con modalità tali da ledere l'onore e il decoro del lavoratore, il quale, se prova tali modalità, può
richiedere il risarcimento dei danni conseguenti anche nelle residue ipotesi di licenziamento libero o di
avvenuta decadenza dall'impugnazione.
I motivi sono immodificabili, cosicché il datore non potrà invocarne altri in giudizio, ma solo aggiungere
qualche fatto confermativo o di contorno. Esula dal principio di immodificabilità dei fatti la diversa
qualificazione giuridica dei fatti stessi.
Se il licenziamento non è motivato, scatta l’obbligo di pagamento di una indennità da 6 a 12 mensilità; solo
per alcuni datori, come aziende minori o di tendenza, il licenziamento privo di motivazione è inefficace, con
una tutela reale. Una svista del legislatore ha creato una illogica disparità di trattamento tra datori.

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Il licenziamento disciplinare è una delle più forti sanzioni disciplinari, si applica soprattutto per giusta
causa/giustificato motivo, ed è un licenziamento che si fonda su comportamenti del lavoratore che non
adempie ai propri doveri violando delle norme stabilite dalla legge, dai contratti collettivi e del codice
disciplinare dell’azienda.
Il datore, ai sensi dell’art.7 Statuto dei Lavoratori deve:
 affiggere il codice disciplinare;
 contestarne preventivamente l’addebito;
 consentire al lavoratore di difendersi, prima di adottare la sanzione.
Era prevalsa la tesi che tali regole procedimentali andassero applicate anche nel caso di licenziamento senza
giusta causa o giustificato motivo oggettivo, poiché il licenziamento era pur sempre una reazione del datore
all’inadempimento del lavoratore. In tal senso si era pronunciata anche la Corte Costituzionale, facendo leva
sull’art. 3 Cost. La giurisprudenza, però ha cambiato tale impostazione ritenendo che il licenziamento viziato
da vizio procedimentale non è automaticamente nullo, ma è soggetto alla sanzione d’area, ossia alla sanzione
di volta in volta prevista per la situazione del lavoratore (tutela reale, tutela indennitaria, recesso libero).
La successiva evoluzione legislativa è culminata nella legge 92/2012 (Riforma Fornero): essa ha previsto che
il licenziamento affetto da vizio procedimentale dia luogo alla tutela indennitaria (da 6 a 12 mensilità) in
favore del lavoratore, ma tale vizio non può essere rilevato d’ufficio dal giudice, dovendo essere
espressamente e tempestivamente eccepito dalla parte.
Il datore di lavoro deve portare a conoscenza dei lavoratori le norme disciplinari che se violate
comportano sanzioni disciplinari, non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti
del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito, averlo sentito a sua difesa (per
la quale il lavoratore può scegliere di avvalersi di un rappresentante dell'associazione sindacale) ed
esser passati 5 giorni dalla contestazione del fatto.
Se il licenziamento disciplinare risulta illegittimo, a tutela del lavoratore, nelle imprese con meno
di 15 dipendenti si applica la tutela obbligatoria, in quelli con più si applica l'ambito di applicazione
dell'art. 18 statuto dei lavoratori a seconda del vizio riscontrato.
Riassumendo, le innovazioni introdotte dall'art. 7 Stat. Lav. riguardano: obbligo di pubblicità della normativa
disciplinare, necessità di una preventiva contestazione e suoi requisiti, tempestività della contestazione,
specificità della contestazione, immodificabilità del contenuto della contestazione, necessità della forma
scritta della contestazione, divieto di procedere ad indagini preliminari, rispetto di un criterio di
proporzionalità della sanzione adottata, indicazione di termini e modalità di difesa, divieto di mutamenti
definitivi del rapporto di lavoro, termini per la comminazione del provvedimento, sospensione cautelare, sedi
e modalità di impugnazione della sanzione disciplinare.

LA RIPETIZIONE DEL LICENZIAMENTO


In presenza di un licenziamento illegittimo, il datore ha la possibilità di disporre un secondo licenziamento.
Se il vizio del primo licenziamento era un vizio di forma, il datore può ripetere ex nunc (senza efficacia
retroattiva) il licenziamento, per gli stessi motivi sostanziali, ma rispettando la forma precedentemente
violata. Se il vizio del primo licenziamento è un vizio sostanziale, il nuovo licenziamento è ammesso solo
per altri motivi sostanziali.
In entrambi i casi non occorre né attendere il provvedimento di reintegrazione in servizio del lavoratore, né
che il datore di lavoro revochi o rinunci a difendere il primo licenziamento, la cui eventuale legittimità
renderebbe inutile il successivo recesso.

IL PROCEDIMENTO PREVENTIVO AL LICENZIAMENTO PER MOTIVO OGGETTIVO


NELLE MAGGIORI ORGANIZZAZIONI
Il legislatore ha previsto un procedimento conciliativo obbligatorio, preventivo rispetto all'intimazione di
licenziamento.
Il procedimento riguarda solo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, solo per i datori di lavoro
aventi requisiti dimensionali (esclusi i datori minori e le organizzazioni di tendenza) per l'applicazione delle
disposizioni dell'art. 18 Statuto dei lavoratori.
Sono previste, però, tre eccezioni per i datori di lavoro maggiori:
1) licenziamento per superamento del periodo di comporto, rappresenta una fattispecie peculiare
disciplinata dall'art. 2110 cod. civ. e non un licenziamento per giustificato motivo oggettivo;
2) cambio appalto, se il nuovo appalto è modificato oppure il nuovo appaltatore non applica il contratto
collettivo di diritto comune, i dipendenti rimangono in forza al precedente appaltatore che potrebbe
licenziarli, anche collettivamente se sono almeno 5, se mancano le possibilità di utilizzarli
nell'organizzazione;
3) licenziamenti o interruzioni per “fine lavori” nelle costruzioni edili.

La funzione di questo procedimento è quella di evitare le incertezze del regime sanzionatorio previsto per il
licenziamento ingiustificato.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora disposto da un datore di lavoro avente alti
requisiti dimensionali, deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla
Direzione territoriale del lavoro (DTL) del luogo dove il lavoratore presta la sua opera e deve essere
trasmessa per conoscenza al lavoratore.
Nella comunicazione il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per
motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento, nonché le eventuali misure di assistenza alla
ricollocazione del lavoratore interessato.
La Direzione territoriale del lavoro trasmette la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine
perentorio di 7 giorni dalla ricezione della richiesta: l’incontro si svolge dinanzi alla commissione
provinciale di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile.
Tale procedura, durante la quale le parti, con la partecipazione attiva della commissione, procedono ad
esaminare anche soluzioni alternative al recesso, si conclude entro 20 giorni dal momento in cui la Direzione
territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro. Se fallisce il tentativo di conciliazione, il
datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.
Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si applicano
le disposizioni in materia di Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI) e può essere previsto, al fine di
favorire la ricollocazione professionale del lavoratore, l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia interinale.
Inoltre, il comportamento complessivo delle parti, desumibile anche dal verbale redatto in sede di
commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla stessa, è valutato dal
giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 St. lav.

Per evitare che il lavoratore, in vista del licenziamento preannunciato, dichiari una malattia di comodo per
sospendere il decorso del termine di preavviso, il legislatore, con norma antiabuso, prevede che il
licenziamento produca effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato
avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva.
La sanzione per il licenziamento intimato senza tale procedura preventiva è un'indennità da 6 a 12 mensilità.

LA REVOCA DEL LICENZIAMENTO


Il licenziamento come atto unilaterale recettizio non era revocabile dal datore, dopo essere pervenuto al
lavoratore.
Invece, per effetto della riforma Fornero, il licenziamento è revocabile entro 15 giorni da quando il datore ha
ricevuto comunicazione dell’impugnazione da parte del lavoratore del medesimo licenziamento.
La revoca, che richiede la forma scritta, produce l’effetto che il rapporto di lavoro si considera come mai
interrotto e al lavoratore spetta la retribuzione, anche per il periodo precedente alla revoca.
Quest’ultima quindi, producendo effetti senza la necessità di accettazione del lavoratore, si comporta come
un diritto potestativo del datore.
È escluso qualsiasi regime sanzionatorio del licenziamento e sempre per lo stesso motivo il rifiuto del
lavoratore di riprendere servizio costituisce inadempimento, con ogni conseguenza sul piano disciplinare fino
al licenziamento, se l’assenza ingiustificata dura per un certo tempo.
La disciplina della revoca descritta si applica soltanto ai licenziamenti regolati dall’art. 18 Statuto dei
lavoratori.

L'OFFERTA DI CONCILIAZIONE
L'art. 6, d. lgs. 23/2015 prevede un'offerta di conciliazione per i licenziamenti intimati ai lavoratori assunti
dopo l'entrata in vigore di questo decreto. Il datore di lavoro può offrire al lavoratore licenziato, entro 60
giorni dal licenziamento, una somma pari a una mensilità di retribuzione per ogni anno di sevizio e
comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18. La conciliazione deve avvenire nelle sedi assistite previste
dalla legge, la somma deve essere erogata mediante assegno circolare e il lavoratore che accetta questa
somma deve rinunciare all'impugnazione del licenziamento.

L’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO

IL TERMINE DI DECADENZA
il lavoratore può impugnare il licenziamento sia in via stragiudiziale (con un semplice atto scritto idoneo a
rendere nota la volontà di contestazione del lavoratore, senza richiedere l’intervento del giudice) sia in via
giudiziale, facendo ricorso al giudice del lavoro.
Il procedimento attuale (post riforma Fornero) della legge 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) è:
1) primo termine di decadenza: entro 60 giorni dalla comunicazione scritta del licenziamento e relativi
motivi, "a pena di decadenza, il lavoratore deve impugnare il licenziamento" legge 604/1966 in
modo che il datore sia tutelato sapendo in breve tempo se il licenziamento da lui intimato è o meno
contestato dal lavoratore;
2) secondo termine di decadenza: entro 180 giorni dalla prima impugnazione (270 giorni per i licenziamenti
intimati prima della riforma Fornero) per depositare il ricorso in tribunale, oppure "comunicare al datore di
lavoro la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato" artt. 409 e 410 cod.
proc. civ. (prima tale tentativo era obbligatorio);
3) in questo secondo caso, se la richiesta di conciliazione o arbitrato viene rifiutata oppure non si
raggiunge l’accordo, il lavoratore ha 60 giorni per depositare il ricorso in tribunale.
I termini di decadenza (60 giorni prima per la prima impugnativa e 180 per quella giudiziale successiva)
sono termini di decadenza sostanziale, ossia per essi non operano cause di sospensione o interruzione, ad
eccezione del caso in cui sia richiesto il tentativo di conciliazione. Tale richiesta sospende il decorso di ogni
termine di decadenza per la durata di tale tentativo e per i venti giorni successivi alla sua conclusione.
La decadenza in esame si applica al lavoro sia privato che pubblico, in tutti i casi di invalidità di
licenziamento (discriminatorio, disciplinare, matrimonio, motivo illecito/frode di legge, per scadenza del
comporto di malattia o infortunio) escluso quello orale, nell'impugnazione del trasferimento d'azienda, nella
somministrazione irregolare. Con la riforma del 2012, inoltre, è venuta meno, in ordine alla decadenza, ogni
differenza di disciplina tra licenziamento individuale e collettivo.
Infine, va notato che, una volta scaduti i termini di decadenza, il licenziamento, anche se illegittimo, non
può più essere impugnato, mentre resta possibile solo una eventuale azione per risarcimento danni nei con-
fronti del datore, quando ne ricorrono le condizioni, come potrebbe essere nel caso del licenziamento
ingiurioso, ossia nel licenziamento intimato con modalità da offendere la dignità del lavoratore.

L’IMPUGNATIVA STRAGIUDIZIALE E GIUDIZIALE


Per quanto attiene all’IMPUGNATIVA STRAGIUDIZIALE, essa può avvenire con qualsiasi scritto idoneo
a rendere chiara la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento. Entro il termine di 60 giorni,
secondo l’autore, in contrasto con l’orientamento della Cassazione, non basta che l’atto sia spedito, ma deve
essere ricevuto dal lavoratore, perché l’impugnazione è un atto recettizio. Pertanto, anche nel caso in cui il
lavoratore scelga di presentare direttamente ricorso giudiziale senza previa impugnativa stragiudiziale, è
necessario che nel termine di 60 giorni il ricorso, con il decreto giudiziale di fissazione dell’udienza, sia
notificato al datore, non essendo sufficiente che entro quel termine sia solo depositato in Tribunale. Per
quanto riguarda l’IMPUGNATIVA GIUDIZIALE, nel termine di 180 giorni deve essere depositato il ricorso
presso il Tribunale o deve essere depositata la richiesta di conciliazione (oppure arbitrato). Nel ricorso va
indicato il tipo di vizio di licenziamento (difetto di forma, ingiustificatezza, vizio procedimentale, ecc.),
essendo preclusa una tardiva deduzione di un vizio non tempestivamente reso noto.
Nel giudizio instaurato con il ricorso, il lavoratore dovrà provare l’esistenza del licenziamento; se il datore
prova a sostenere l’inesistenza del licenziamento, il lavoratore potrà osservare che allora il lavoro è
proseguito, richiedendo in subordine il pagamento delle retribuzioni. In ogni caso, il lavoratore può sempre
rinunciare all’impugnazione, il che generalmente avviene in cambio del versamento di una somma, che gode
di agevolazioni contributive e fiscali.

L’AUTORE DELL’IMPUGNAZIONE
L’impugnazione deve sempre essere sottoscritta dal lavoratore ed eventualmente anche dall’avvocato
difensore. L’impugnativa giudiziale può essere sottoscritta dal solo avvocato, al quale il lavoratore abbia
conferito procura alle liti. L'impugnativa stragiudiziale deve essere sottoscritta dal lavoratore, quindi non
basta la sottoscrizione di un legale privo di apposita procura scritta.
Una eccezione a tali principi è quella che consente l’impugnazione attraverso l’intervento dell’organizzazio-
ne sindacale (non è necessaria la procura scritta da parte del lavoratore).

IL RITO SPECIALE PER LE CONTROVERSIE NEI LICENZIAMENTI REGOLATI DALL’ART.


18 STATUTO DEI LAVORATORI

LE CONTROVERSIE ALLE QUALI SI APPLICA IL RITO SPECIALE


Il rito speciale, introdotto dalla riforma Fornero, si applica alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa
dei licenziamenti, nelle ipotesi regolate dall’art. 18 Statuto dei Lavoratori (con esclusione dei licenziamenti
soggetti a tutela obbligatoria per il modesto organico dei datori o perché trattasi di organizzazione di
tendenza), anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
Sono ammesse anche altre domande fondate sugli identici fatti costitutivi, davvero difficili da ipotizzare.
Quanto al regime intertemporale, c'è la previsione espressa per cui il rito speciale si applica solo alle
controversie instaurate successivamente all'entrata in vigore della legge.
COME SI SVOLGE LA FASE SOMMARIA
La domanda si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro.
A seguito della presentazione del ricorso, il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti.
L’udienza deve essere fissata non oltre 40 giorni dal deposito del ricorso.
Il giudice assegna un termine per la notifica del ricorso e del decreto non inferiore a 25 giorni prima
dell’udienza, nonché un termine, non inferiore a 5 giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del
resistente.
La notificazione è a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata. Si tratta di una fase
sommaria perché l'istruttoria è limitata ai soli atti indispensabili e non agli atti ammissibili e rilevanti, come
previsto per la fase di opposizione.
Pertanto, in questa fase, il convincimento in fatto è superficiale.
I tempi della fase sommaria non sono strettissimi, essendo previsti 40 giorni per l'udienza, non molto riduci-
bili per il termine minimo di 25 giorni da rispettare, oltre al tempo necessario per l'eventuale istruttoria.
Non può escludersi un ricordo cautelare ex art. 700 codice procedura civile.
Qualora, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che
ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio e provvede,
con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda. L’efficacia esecutiva
dell’ordinanza non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice
definisce il giudizio.

L’EVENTUALE FASE DI OPPOSIZIONE


Contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto può essere proposta opposizione con ricorso (contenente i
requisiti dell'art. 414 cod. proc. civ.) da depositare innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento op-
posto, a pena di decadenza, entro 30 giorni dalla notificazione dello stesso o dalla comunicazione, se ante -
riore. All’udienza fissata dal giudice, il giudice stesso, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale
al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti
richiesti dalle parti, nonché disposti d’ufficio.
I termini sono:
 60 giorni per la fissazione dell'udienza;
 notifica di ricorso e decreto all'opposto almeno 30 giorni prima dell'udienza;
 costituzione dell'opposto fino a 10 giorni prima dell'udienza.
Successivamente provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, la quale deve essere
depositata in cancelleria entro 10 giorni dall'udienza di discussione. La sentenza è provvisoriamente
esecutiva e costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

LE IMPUGNAZIONI IN CORTE D’APPELLO E IN CASSAZIONE


Contro la sentenza che decide sul ricorso è ammesso reclamo davanti alla corte d’appello. Il reclamo si
propone con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro 30 giorni dalla comunicazione o dalla notifica-
zione se anteriore. È anche ammesso il ricorso per cassazione contro la sentenza, che deve essere proposto,
a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione se anteriore.
La sospensione dell’efficacia della sentenza deve essere chiesta alla corte d’appello.
L’autore osserva che questo rito speciale rende ormai del tutto eccezionale l’ipotesi, prima molto frequente,
di impugnativa del licenziamento attraverso la procedura d’urgenza es art. 700 C.P.C.

IL REGIME DI TUTELA OBBLIGATORIA

LA TUTELA OBBLIGATORIA PER LE MINORI ORGANIZZAZIONI


La tutela obbligatoria è prevista dalla legge 604/1966 e si applica ai datori di lavoro che alle proprie
dipendenze abbiano meno di 15 dipendenti per unità produttiva o 60 complessivamente.
Il datore è tenuto:
 al reintegro del lavoratore entro 3 giorni
 in alternativa e a sua preferenza, a risarcire il danno da questi patito, versandogli un’indennità tra 2,5
e 6 mensilità (per un organico aziendale superiore a 15 dipendenti e anzianità di servizio superiore a
10 anni = 10 mensilità; se l'anzianità di servizio supera i 20 anni = 14 mensilità) dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni
dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni
delle parti.
Si applica in caso di ingiustificatezza del licenziamento (ovvero se non ricorrono gli estremi per ritenere
legittimo il licenziamento per giusta causa/giustificato motivo) e per inefficacia del licenziamento per vizio
formale.
Per ingiustificatezza del licenziamento dei dirigenti, a loro favore si applica un'ulteriore indennità
supplementare (tra 10 e 30 mensilità) che si aggiunge a quella di mancato preavviso e al TFR.
Prima di esperire il giudizio per la tutela obbligatoria, è obbligatorio effettuare un tentativo di conciliazione
in sede amministrativa o sindacale, a pena di improcedibilità del giudizio. In caso di mancata conciliazione, è
previsto un arbitrato facoltativo.

LA TUTELA INDENNITARIA PER LE MAGGIORI ORGANIZZAZIONI


Con la L. 92/2012, anche nelle maggiori organizzazioni (con almeno 16 dipendenti), il lavoratore licenziato
può ricevere una tutela solo indennitaria (riceve solo un’indennità risarcitoria, ma non conserva il posto di
lavoro) e per quanto riguarda la tutela reale, ossia il diritto alla reintegra nel posto di lavoro in caso di
licenziamento ingiustificato, essa opera solo:
 nelle 3 ipotesi di ingiustificatezza (par. 65.5);
 perché si accerta che il lavoratore, considerato fisicamente inidoneo dal datore, è in realtà idoneo;
 perché si accerta che il periodo di comporto, considerato scaduto dal datore, in realtà non è scaduto.
Al di fuori di queste ipotesi, anche nelle maggiori organizzazioni, il lavoratore, ingiustificatamente
licenziato, non ha diritto alla conservazione del posto, ma ha diritto a un’indennità risarcitoria
onnicomprensiva (= assorbe ogni risarcimento di eventuali danni anche non patrimoniali), tra un minimo di
12 ed un massimo di 24 mensilità, ciascuna pari all’ultima retribuzione globale di fatto.
Anche per i licenziamenti con vizi procedimentali, nelle maggiori organizzazioni, è solo prevista una tutela
indennitaria, ossia una indennità tra un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità.
I vizi procedimentali sono: difetto di motivazione contestuale, difetto di procedura disciplinare, difetto della
procedura preventiva per il giustificato motivo oggettivo.

LA TUTELA INDENNITARIA PER I NUOVI ASSUNTI


Il d. lgs. 23/2015 ha modificato la tutela contro i licenziamenti illegittimi soltanto per i lavoratori assunti
dopo l'entrata in vigore di questo decreto e per i datori di lavoro che superano il requisito dimensionale
previsto dall'art. 18 Statuto dei Lavoratori.
La tutela indennitaria si applica ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e ai licenziamenti per
giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.
L'indennità, esente dai contributi previdenziali, è pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione per ogni anno di
servizio (tutela crescente), non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.
Per i lavoratori che hanno un'anzianità di servizio superiore a 12 anni spetta il massimo dell'indennità.
Mentre per i vecchi assunti l'indennità andava dalle 12 alle 24 mensilità.
Per i datori di lavoro che non raggiungono i requisiti dimensionali dell'art. 18 Stat. Lav. non si applica la
tutela reale per il licenziamento viziato da ingiustificatezza qualificata e l'indennità è dimezzata (non può
superare le 6 mensilità).
Per i vizi formali e procedurali è prevista un'indennità pari ad una mensilità di retribuzione per ogni anno di
servizio non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità, salvo che il giudice accolga la domanda del
lavoratore per la tutela reale o per la tutela obbligatoria contro il licenziamento illegittimo.
Nel caso di subentro nell'appalto, l'anzianità di servizio del lavoratore si computa tenendo conto di tutto il
periodo in cui il lavoratore era adibito all'appalto.

LA TUTELA OBBLIGATORIA DI FONTE COLLETTIVA PER I DIRIGENTI


La legge non prevede la tutela reale per i dirigenti licenziati ingiustificatamente, ma i contratti collettivi
prevedono a loro favore un’indennità supplementare (che va da un minimo di 10 ad un massimo di 30
mensilità), che si aggiunge alla indennità per mancato preavviso e al TFR. Per stabilire questa indennità
supplementare, è previsto un arbitrato irrituale, che ciascuna parte può accettare o rifiutare. Se entrambe lo
accettano, non è più possibile ricorrere alla giustizia ordinaria.
Alcuni contratti collettivi prevedono in alternativa all'indennità per licenziamento ingiustificato, un'indennità
automaticamente dovuta per i licenziamenti determinati da crisi aziendale accertata in via amministrativa.
IL REGIME DI TUTELA REALE
Si applica ai datori di lavoro che alle proprie dipendenze abbiano più di 15 dipendenti per unità produttiva o
più di 60 complessivamente. La vecchia disciplina dell'art. 18 statuto dei lavoratori prevedeva una tutela
reale unica per tutti i licenziamenti illegittimi, costituita dal reintegro del lavoratore e da un risarcimento
(non inferiore alle 5 mensilità) corrispondendogli tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento sino al
giorno della effettiva reintegrazione al lavoro, compreso il versamento dei contributi previdenziali ed
assistenziali.
Con la riforma Fornero le tutele sono state modulate in base al vizio di licenziamento e la reintegrazione è
stata mantenuta in alcuni casi soltanto, distinguendo 4 regimi.

1) TUTELA REINTEGRATORIA PIENA (commi 1-2-3 art. 18): reintegrazione/indennità sostitutiva +


risarcimento del danno, quest'ultimo quantificabile dal giudice con una somma compresa tra un minimo di 5
mensilità di retribuzione e l'ammontare di tutte le retribuzioni perdute (compresi i contributi previdenziali e
assistenziali) dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione, dedotto solo l'aliunde perceptum
(ovvero le retribuzioni percepite per altri lavori).
In alternativa al reintegro, il lavoratore può chiedere, entro 30 giorni dal deposito della sentenza,
un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la
risoluzione del rapporto di lavoro.
Esempi di applicazione: licenziamento orale, illecito, discriminatorio, matrimonio, maternità.

2) TUTELA REINTEGRATORIA ATTENUATA (comma 4): reintegrazione/indennità sostitutiva +


risarcimento del danno, che però non ha più un limite minimo, bensì un limite massimo di 12 mensilità e si
deve tener conto non solo dell'aliunde perceptum, ma anche dell'aliunde percipiendum, cioè delle
retribuzioni che "avrebbe potuto" percepire dedicandosi alla ricerca di altra occupazione (sarà quindi
necessario provvedere in modo da poter documentare come il lavoratore si sia adoperato per
cercare un nuovo lavoro).
Esempi di applicazione: vizi sostanziali del licenziamento più gravi, quindi nei 3 casi di ingiustificatezza
qualificata, ovvero di licenziamento disciplinare per giusta causa/giustificato motivo illegittimo
(se il fatto contestato non sussiste o se il fatto contestato rientra in una delle condotte punibili con sanzioni
conservative) e in caso in cui il giustificato motivo oggettivo sia manifestamente infondato; violazione dei
criteri di scelta nei licenziamenti collettivi.

3) TUTELA INDENNITARIA FORTE (comma 5): è prevista solo una indennità onnicomprensiva da 12
a 24 mensilità, in relazione all'anzianità del lavoratore, il numero dei dipendenti, le dimensioni dell'impresa,
il comportamento delle parti e le loro condizioni.
Esempi di applicazione: ingiustificatezza del licenziamento nei casi meno gravi (al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo quando il fatto invocato sia infondato); violazione delle procedure di
licenziamento collettivo.

4) TUTELA INDENNITARIA DEBOLE (comma 6): è prevista solo una indennità onnicomprensiva da 6
a 12 mensilità.
Esempi di applicazione: vizi formali del licenziamento (violazione dell'obbligo di motivazione; della
procedura amministrativa prevista per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo all'art. 7
legge 604/1966; della procedura del licenziamento disciplinare dell'art. 7 stat. Lav.).
Il d. lgs. 23/2015 ha modificato la tutela reale per i lavoratori assunti dopo l'entrata in vigore di questo
decreto e per i datori di lavoro che raggiungeranno i requisiti dimensionali previsti dall'art. 18, c. 8-9, Statuto
dei Lavoratori
In questi casi la tutela reale reintegratoria vige solo per i licenziamenti nulli o intimati in forma orale, per
l'unica ipotesi di ingiustificatezza qualificata o per licenziamenti motivati con l'inidoneità fisica o psichica
sopravvenuta. Le piccole imprese che non raggiungano i requisiti dimensionali previsti applicano la tutela
reale solo per i licenziamenti nulli o orali.
L'obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro sancito nella sentenza di reintegro del lavoratore non può
essere eseguito coattivamente, poiché si tratta di un obbligo di fare infungibile, che può essere eseguito
solo dal datore di lavoro e non da altri soggetti, quindi neppure da ufficiali giudiziari o da altri soggetti
incaricati dal Tribunale.
La reintegra può, dunque, avvenire solo a seguito di una esecuzione spontanea dell’ordine del giudice, da
parte del datore a cui l’ordine è rivolto.
Se il datore non esegue l’ordine, non sorge a suo carico neppure una responsabilità penale, ma il lavoratore
ha diritto a ricevere comunque le retribuzioni e può presentare un’azione risarcitoria per i danni subiti.
Se il datore intende reintegrare il lavoratore, comunicherà al lavoratore un invito a riprendere il servizio e il
lavoratore deve obbedire entro 30 giorni, altrimenti il rapporto si intende automaticamente risolto.
Il lavoratore, che accolga l’invito, deve essere adibito allo stesso posto che occupava prima del
licenziamento, ma il datore, subito dopo la reintegra, può adottare un provvedimento di trasferimento se
ricorre la necessaria giustificazione oppure può adibire il lavoratore a mansioni equivalenti. Il lavoratore
reintegrato, inoltre, deve restituire l’indennità di mancato preavviso e il TFR che aveva ricevuto dopo il
licenziamento, poi dichiarato illegittimo.
L'ordine di reintegrazione è precluso o superato qualora sopravvenga un fatto estintivo del rapporto, come
la morte o le dimissioni del lavoratore, la risoluzione automatica del rapporto oppure un nuovo licenziamento
non impugnato nel medesimo processo.
In tal caso il giudice che accerti l'illegittimità con tutela reale del licenziamento originario deve limitarsi alla
condanna risarcitoria fino al momento della sopravvenuta causa estintiva.
Può accadere che la sentenza di primo grado abbia disposto il reintegro e che il datore lo abbia eseguito, ma
successivamente la sentenza di secondo grado accerta che il licenziamento era giustificato e che non doveva
esservi alcun reintegro (riforma della sentenza): in tal caso, il datore, senza dovere attendere che la nuova
sentenza passi in giudicato, può subito allontanare nuovamente il lavoratore, senza la necessità di un nuovo
formale licenziamento.
Quando sussista un periculum in mora, di natura alimentare o per l'immagine di solito, il lavoratore poteva
avvalersi del procedimento d'urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., per ottenere la sospensione dell'efficacia
del licenziamento.
Dopo il 2012 e l'introduzione del rito speciale, questo a tutela cautelare è diventata del
tutto eccezionale.

LA DISCIPLINA DAL PERIODO DI LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO ALL’EFFETTIVA


REINTEGRAZIONE
La disciplina dal periodo del licenziamento all’effettiva reintegra è diversificata in 2 ipotesi.
1. Licenziamenti vietati dall’art. 18 comma 1 St. lav. (discriminatori, motivo illecito, violazione delle
norme su paternità e maternità) e licenziamenti orali

Il lavoratore licenziato ha diritto:


a) al reintegro o in alternativa ad un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro e che non è
assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro 30
giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere
servizio, se anteriore alla predetta comunicazione;
b) oltre al reintegro o all’indennità sostitutiva, eventualmente scelta dal lavoratore, lo stesso ha diritto al
risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità,
pari un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno
del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito (al
risarcimento del danno, viene sottratto l’aliunde perceptum, ossia quanto concretamente percepito
dal lavoratore svolgendo altri lavori nello stesso periodo.
Non si sottrae, però, ciò che il lavoratore avrebbe astrattamente potuto percepire con altri lavoro
usando l’ordinaria diligenza), nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività
lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità della
retribuzione globale di fatto.
Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi
previdenziali e assistenziali.

2. Licenziamenti avvenuti con ingiustificatezza qualificata


Anche in tal caso il lavoratore ha diritto alla reintegra o, a sua scelta, ad un’indennità sostitutiva ed
ha inoltre diritto a un’indennità risarcitoria. Rispetto ai licenziamenti di cui al punto 1), però, vi sono
le seguenti differenze:
 non è previsto che l’indennità risarcitoria sia minimo di 5 mensilità, ma è previsto che al massimo
sia di 12 mensilità, per il periodo dal licenziamento al provvedimento giudiziale che dispone la
reintegra;
 da tale indennità risarcitoria va detratto sia l’aliunde perceptum, sia l’aliunde percipiendum, cioè sia
ciò che il lavoratore abbia concretamente percepito con altri lavori, sia ciò che avrebbe potuto
percepire usando la norma diligenza;
 il datore non è tenuto, per il periodo dal licenziamento alla reintegra, a versare tutti i contributi, ma
solo la differenza tra i contributi che avrebbe versato in mancanza del licenziamento e quelli dovuti
da altri datori per i quali abbia lavorato il lavoratore nello stesso periodo.

In definita, il lavoratore vittima di un licenziamento illegittimo, può presentare un ricorso, con queste
domande conclusive:
 in via principale, richiedere l’applicazione della tutela reale per i licenziamenti vietati o orali (art. 18,
c. 1 St. lav.);
 in via subordinata, richiedere la tutela reale della ingiustificatezza qualificata;
 in via subordinata, richiedere la tutela indennitaria dell’ingiustificatezza semplice;
 chiedere la tutela indennitaria dimezzata (che prevede un’indennità minore rispetto alle altre ipotesi)
per eventuale vizio procedimentale.

Il d. lgs. 23/2015 ha modificato la tutela reale per i lavoratori assunti dopo l'entrata in vigore di questo
decreto e per i datori di lavoro che raggiungeranno i requisiti dimensionali previsti dall'art. 18, c. 8-9, Statuto
dei Lavoratori

L’INDENNITÀ SOSTITUTIVA DELLA REINTEGRAZIONE


Si è già detto che il lavoratore, in alternativa al reintegro, può scegliere un’indennità sostitutiva pari a 15
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La scelta tra prosecuzione del rapporto e indennità spetta solo al lavoratore e non anche al datore, come
invece nel regime di tutela obbligatoria.
Sussiste, quindi, un’obbligazione con facoltà alternative dal lato del creditore: se viene meno l’obbligo di
reintegra (es. morte del datore), viene anche meno l’obbligo alternativo di pagare l’indennità sostitutiva.
La richiesta va fatta entro 30 giorni dalla sentenza e determina l’immediata estinzione del rapporto di
lavoro. Questa indennità sostitutiva, che si riferisce al periodo dal licenziamento illegittimo fino
all’estinzione del rapporto di lavoro, si aggiunge all’indennità risarcitoria: come spiegato dalla Corte
Costituzionale, le due indennità sono cumulabili, avendo funzioni diverse (sostituzione del
reintegro non scelto e valore risarcitorio).

LA SCOMPARSA DELLA TUTELA REALE LEGALE DI DIRITTO COMUNE


Prima della riforma Fornero, esistevano dei licenziamenti ai quali non si applicava né la tutela obbligatoria
né quella reale prevista dall’art.18 St. Lav., ma una tutela di diritto comune, consistente nella nullità o
nell’inefficacia del licenziamento e con prosecuzione del rapporto (si pensi al licenziamento discriminatorio,
illecito, in occasione del matrimonio, o viziato nella forma).
Ora anche queste ipotesi sono attratte nella tutela speciale reale, prevista dai primi 3 commi dell’art. 18, che
per tali ipotesi prevede comunque l’obbligo di reintegro e una indennità risarcitoria.
Solo per il licenziamento privo di motivazione, è prevista solamente una tutela indennitaria.

IL CAMPO DI APPLICAZIONE DEI DIVERSI REGIMI

LE TUTELE GENERALI
Per i licenziamenti vietati o orali è sempre applicabile l'apposita tutela reale. Anche la regola di
giustificazione necessaria del licenziamento è stata generalizzata a prescindere da ogni limite dimensionale,
con la sola eccezione dei residui casi di licenziamento libero.
Intendendo per tutela reale, la tutela consistente nel diritto al reintegro nel posto di lavoro in favore del la-
voratore licenziato e nel pagamento di una indennità risarcitoria, essa, all’esito della riforma Fornero si ap-
plica nei seguenti casi:

a) nel caso di licenziamento ingiustificato, nelle 3 ipotesi di ingiustificatezza qualificata, nell’ambito


delle maggiori organizzazioni;
b) nel caso di errore del datore nel considerare inidoneo fisicamente il lavoratore e nel ritenere scaduto
il periodo di comporto, nell’ambito delle maggiori organizzazioni;
c) nei casi indicati dai primi 3 commi dell'art. 18 St. Lav., indipendentemente dalle dimensioni
dell’organizzazione datoriale, ossia nei casi di licenziamento discriminatorio, o intimato a causa del
matrimonio, o per motivo illecito, o in violazione delle norme di tutela per la maternità e per la
paternità, di licenziamento.

In tutti i casi in cui non si applica la tutela reale speciale, il lavoratore potrà avere diritto solo ad
un’indennità, ma non al reintegro nel posto di lavoro (es. licenziamento privo di motivazione, licenziamento
ingiustificato nelle minori organizzazioni).

LE TUTELE COLLEGATE ALLE DIMENSIONI DELL’ORGANICO


Per le maggiori organizzazioni opera:
 la tutela reale nei casi di ingiustificatezza qualificata e di inesistenza dell'inidoneità fisica o della
scadenza del periodo di comporto;
 la tutela indennitaria maggiore (con indennità più elevata) nei casi di ingiustificatezza semplice del
licenziamento;
 la tutela indennitaria dimezzata (con indennità meno elevata) per i vizi procedimentali.

Rientra nelle maggiori organizzazioni il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che occupa alle
sue dipendenze, nella sede o unità produttiva in cui è avvenuto il licenziamento, più di 15 lavoratori o più di
5 se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che
nell’ambito dello stesso comune occupa più di 15 dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito
territoriale occupa più di 5 dipendenti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore,
che, indipendentemente dal numero di lavoratori occupati per ciascuna unità produttiva, occupa più di 60
dipendenti.
Il riferimento al numero dei dipendenti, invece che ad altri elementi, appare congruo sia per l'identificazione
dell'unità produttiva sia per l'individuazione del datore di lavoro ritenuto in grado di sopportare il costo
aggiuntivo del risarcimento fino all'effettiva reintegrazione e dell'indennità sostitutiva di questa richiesta del
lavoratore.
Unità produttiva (art. 18, c. 1, Stat. Lav.): articolazione organizzativa (sede, stabilimento, ufficio, reparto)
idonea a conseguire anche in parte, con autonomia amministrativa e funzionale, lo scopo del datore di lavoro,
secondo una definizione valida per tutte le disposizioni che riferiscono a tale
unità.
Ai fini del computo dal numero dei dipendenti in ciascuna unità produttiva, si considerano i dipendenti e i
prestatori occupati alle dipendenze del datore di lavoro, con esclusione dei lavoratori non subordinati
(lavoratori autonomi, parasubordinati, amministratori, soci di cooperative).
L'organico da prendere in considerazione è quello normale, costante nel tempo, con irrilevanza dei fattori di
variabilità transitoria.
I lavoratori a termine sono computabili solo quando siano addetti ad esigenze non provvisorie ed occasionali.
Si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario
effettivamente svolto e i lavoratori in trasferta e quelli che operano normalmente all'esterno dell'unità
produttiva di appartenenza.
Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea
collaterale. Non si computano neppure gli apprendisti, i lavoratori con contratto di formazione e lavoro, i
lavoratori somministrati, i lavoratori a domicilio subordinati.
I dipendenti di società collegate, le quali sono soggetti giuridici distinti con la conseguente autonomia dei
rispettivi rapporti di lavoro, non possono cumularsi tra loro, salvo l'accertamento di una effettiva volontà di
costituzione di tutti i rapporti con un unico datore di lavoro o di una utilizzazione fraudolenta dello schema
societario (unica struttura organizzativa e unico centro decisionale, con adibizione mista dei dipendenti).
La tutela reale, dunque, non si applica alle minori organizzazioni, ma non si applica neppure, qualunque sia
la loro dimensione, alle organizzazioni di tendenza, ossia i datori di lavoro non imprenditori che svolgono
senza fini di lucro attività di natura, politica, sindacale, culturale, di religione.
A tali organizzazioni¸ così come a quelle di minori dimensioni, si applica la tutela obbligatoria, ossia la tutela
indennitaria minore prevista dall’art. 8 della legge 604/1966, già indicata (vedi par. 69.2).
La tutela reale, inoltre, a prescindere dalle dimensioni dell’organizzazione, si applica nei casi indicati dal-
l’art.18 Stat. lav. commi 1-3, ossia al licenziamento orale, discriminatorio, per motivo illecito, nei periodi di
interdizione per matrimonio e maternità, ed anche ai rapporti di lavoro pubblico privatizzati (per questi ulti -
mi è prevista l’applicazione della tutela reale ex. art. 18 Stat. lav. a prescindere dal numero dei dipendenti).

LE IPOTESI RESIDUE DI LICENZIAMENTO LIBERO


Dopo la riforma del 2012, può dirsi che il licenziamento libero, senza preavviso, che non richiede alcuna
giustificazione necessaria e che non dà luogo né alla tutela reale né a quella obbligatoria, è ormai possibile
solo in alcune ipotesi residuali, ossia per:
 dirigenti, tale eccezione riguarda tutti i veri dirigenti, apicali e minori, rientranti nella definizione
collettiva della categoria, mentre non si applica agli pseudo dirigenti, che hanno solo il nome e il
trattamento ma non la posizione del dirigente. L'esclusione è inapplicabile ai dirigenti pubblici con
riferimento al recesso dal rapporto fondamentale a tempo indeterminato;
 lavoratori in prova, per tutta la durata di questa fino ad un massimo di 6 mesi, pertanto il datore di
lavoro non deve intimare per iscritto e giustificare il recesso per valutazione negativa
dell'esperimento, che può avvenire senza preavviso (consentita l'impugnazione da parte del
lavoratore se dimostra il motivo illecito o discriminato o il mancato svolgimento della prova);
 domestici,
 atleti professionisti.

Il licenziamento libero è previsto anche per i lavoratori ultrasessantenni che abbiano già maturato il diritto
alla pensione di vecchiaia, avendo essi raggiunto il reddito previdenziale, che rende tollerabile la perdita
eventuale del posto di lavoro anche se priva di giustificazione. Nei confronti di questi ultimi, la maturazione
del diritto alla pensione non determina automaticamente l’estinzione del rapporto, ma libera il datore dal
vincolo della giustificazione e rende possibile il licenziamento in qualunque momento, salvo che per motivi
discriminatori.
Peraltro, allorché esisteva una diversa età pensionabile per uomini (60 anni) e donne (55 anni), le donne
potevano essere sfavorite perché maturando prima il diritto alla pensione, esse potevano essere licenziate
liberamente dal datore prima rispetto agli uomini.
Questa disparità di trattamento fu dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale ed una legge del 1990
previde che anche per le donne la possibilità del licenziamento libero dovesse attivarsi solo al compimento
del 60° anno di età.
La disparità era stata reintrodotta da ulteriori leggi, ma la situazione può dirsi definitivamente risolta in
radice dalla legge 214 del 2011 che ha fissato un’unica età pensionabile (67 anni) per uomini e donne.
Per i rapporti di lavoro con la PA, non opera il licenziamento libero per i lavoratori pensionabili, ma i
contratti collettivi prevedono che il dipendente, raggiunta l’età del pensionamento, venga collocato a riposo
obbligatorio senza preavviso e non è consentita una ulteriore prosecuzione del rapporto che, invece, è
possibile nel lavoro privato, finché nessuna delle due parti eserciti il recesso.
È fatta comunque salva la possibilità (esclusa solo per magistrati, dirigenti medici e professori universitari)
che l’amministrazione risolva unilateralmente il rapporto con un preavviso di 6 mesi, nel caso di
compimento dell’anzianità massima di servizio effettivo di 40 anni.
I dirigenti medici e del ruolo sanitario del SSN hanno diritto a rimanere in servizio oltre i 65 e al massimo
fino ai 70 anni di età al fine di raggiungere i 40 anni di servizio effettivo.

B) IL LICENZIAMENTO COLLETTIVO

LA RILEVANZA SOCIALE DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO E LE RISPOSTE


DELL’ORDINAMENTO
Il licenziamento collettivo, coinvolgendo una pluralità di lavoratori, ha un significativo impatto sociale, per
evitare o attenuare il quale sono previsti specifici rimedi. Un primo filtro, creato dagli accordi collettivi e poi
recepito dalla legge, è costituito dalla procedura sindacale preventiva, nel corso della quale il confronto tra
imprenditore e sindacati può far emergere soluzioni idonee al riassorbimento dell'eccedenza di personale.
L'accordo eventualmente raggiunto può ridurre o eliminare le rigidità organizzative o normative oppure, se
l'esubero di personale risulta inevitabile, può limitarne le conseguenze pregiudizievoli per i lavoratori.
Il principale ammortizzatore sociale delle eccedenze di personale è stato la Cassa Integrazione Guadagni
Straordinaria (CIGS), la quale consente al datore di lavoro di evitare il licenziamento collettivo, conservando
i lavoratori non utilizzati e corrispondendo loro una integrazione salariale per il periodo non lavorato.
Con il tempo, è apparso ingiusto corrispondere senza un limite di durata l’integrazione salariale a lavoratori
non utilizzati: per questo motivo, la legge 223/1991 ha limitato l’integrazione salariale ad un periodo di
tempo ragionevole, e alle sole ipotesi in cui sia prevedibile un rientro dei lavoratori sospesi.
Inoltre, quando viene disposto il licenziamento collettivo, i licenziati hanno diritto a ricevere un’indennità
di mobilità.
Anche questa soluzione creava, però, delle disparità, in quanto l’indennità di mobilità era prevista solo per i
lavoratori rientrati in un’area assistita (lavoratori in Cassa integrazione e comunque dipendenti di imprese
rientranti nel campo di applicazione della CIGS) e non anche per gli altri lavoratori. Questa ingiusta
separazione tra area assistita ed area non assistita è stata definitivamente superata dalla legge 92/2012
(Riforma Fornero): essa ha generalizzato il sostegno al reddito in costanza di rapporto e, per il periodo
successivo al licenziamento collettivo, ha abrogato l’indennità di mobilità, sostituendola con una tutela
contro la disoccupazione valida per tutti i lavoratori, tutela denominata Aspi.

Prima della legge 223/1991, la disciplina del licenziamento collettivo era affidata agli accordi
interconfederali per l’industria del 20 dicembre 1950 e del 5 maggio 1965, che prevedevano un’apposita
procedura sindacale. L’Italia era stata anche sanzionata dalla Corte di Giustizia europea per non aver attuato
una direttiva comunitaria del 1975, ma in realtà si era sviluppata una seria protezione contro il licenziamento
collettivo, ritenuta conforme alla Costituzione della Corte Costituzionale (1985).
In base a tale disciplina, il licenziamento era considerato collettivo, anche in settori privi di accordo
collettivo, solo in presenza dei seguenti requisiti: pluralità di licenziamenti; scelta datoriale di riduzione o
trasformazione di attività o lavoro; nesso di causalità tra l’insindacabile scelta economica e la soppressione di
un certo numero e posti di lavoro; rispetto delle procedure sindacali applicabili.

La legge 223 del 1991 disciplina il licenziamento collettivo e il collocamento in mobilità: tale collocamento
è anch’esso un licenziamento collettivo, che prende il nome di collocamento di mobilità quando viene
intimato, quando viene applicato da un’impresa già ammessa al trattamento di integrazione salariale
straordinaria a quei lavoratori sospesi che divengano definitivamente esuberanti, ossia non più riassumibili.
Le uniche differenze attengono al fatto che per il collocamento in mobilità non è richiesto il numero minimo
di 5 licenziamenti ed al fatto che l’indennità di mobilità è sempre dovuta ai lavoratori collocati in mobilità,
mentre i lavoratori soggetti al licenziamento collettivo hanno diritto a tale indennità solo se l’azienda rientri
in astratto nel campo di applicazione della CIGS.
La legge si applica alle imprese che occupino più di 15 dipendenti e, limitatamente al collocamento in
mobilità, alle imprese che abbiano occupato mediamente più di 15 lavoratori nel sempre precedente la data di
presentazione della richiesta.
La legge si applica anche ai datori non imprenditori. Sono esclusi, quindi, i datori di lavoro, imprenditori
e non, con meno di 16 dipendenti, i quali possono intimare solo licenziamenti sottoposti alla disciplina legale
del licenziamento individuale.
I presupposti per il licenziamento collettivo sono gli stessi indicati dai precedenti accordi interconfederali
(pluralità di licenziamenti; scelta datoriale di riduzione o trasformazione di attività o lavoro; nesso di
causalità tra l’insindacabile scelta economica e la soppressione di un certo numero e posti di lavoro; rispetto
delle procedure sindacali applicabili) ma con la peculiarità che i licenziamenti devono essere almeno 5,
limite richiesto per il licenziamento collettivo, ma non anche per il collocamento in mobilità.
In ogni caso, la valutazione del datore che effettua il licenziamento collettivo circa l’impossibilità di utilizza-
zioni alternative dei lavoratori licenziati rappresenta un giudizio di convenienza economica che il giudice
non può sindacare.

LA PROCEDURA
Al fine di consentire il controllo sindacale sui licenziamenti collettivi, la legge impone una procedura molto
articolata: il mancato rispetto della procedura comporta l’inefficacia dei licenziamenti intimati e
l’eventuale condotta antisindacale del datore.
In particolare, la procedura prevede le seguenti fasi:
1. Comunicazione obbligatoria Il datore deve comunicare la sua intenzione di procedere al
licenziamento collettivo, alle r.s.a., dove esistenti, ed ai sindacati territoriali, nonché alla Direzione
regionale del Lavoro. In tale comunicazione, Il datore deve indicare perché è inevitabile il
licenziamento collettivo, quali posizioni lavorative intende sopprimere, quali sono i tempi previsti
per i licenziamenti e con quali misure intende affrontare le conseguenze sul piano sociale.
Le informazioni contenute in tale comunicazione sono immodificabili, anche nel giudizio di
impugnazione dei licenziamenti. Il datore, inoltre, se rientrante nel campo di applicazione della
CIGS, deve allegare alla comunicazione la prova del pagamento del contributo previdenziale,
anticipato rispetto agli oneri contributivi legati all’indennità di mobilità.

2. Esame congiunto. Entro 7 giorni dalla comunicazione, r.s.a. e sindacati territoriali possono chiedere
un esame congiunto della situazione per verificare le cause dell’eccedenza di personale e tutte le
misure adottabili per aiutare e riqualificare i lavoratori licenziati.
Se l’esame congiunto tra datore, r.s.a. e sindacati territoriali non sfocia in un accordo entro 45 giorni,
la Regione, che può formulare anche sue proposte, riconvoca le parti per un ulteriore esame, al fine
di raggiungere un accordo entro i successivi 30 giorni (NB. I termini sono ridotti alla metà se le
eccedenze sono inferiori a 10 ed il termine per la consultazione sindacale di 45 giorni è ridotto a 30
giorni per le imprese sottoposte a procedura concorsuale).
Il datore di lavoro, a pena di violazione delle procedure e conseguente inefficacia dei licenziamenti,
deve condurre la consultazione in entrambe le fasi secondo correttezza e buona fede, senza sottrarsi
alle richieste di chiarimenti o di informazioni e ad un leale confronto con i sindacati, le cui proposte
devono essere prese in considerazione.

3. L’accordo. il datore non è obbligato a raggiungere un accordo con i sindacati per la determinazione
delle modalità di licenziamento. Tuttavia, il datore è incoraggiato a concludere l’accorso attraverso
varie previsioni incentivanti, come la possibilità di accordare un’indennità di mobilità di importo
inferiore, la possibilità di adibire i lavoratori anche a mansioni inferiori, la possibilità di modificare il
termine ordinario di 120 giorni entro cui vanno intimati i licenziamenti, dopo la conclusione della
procedura. I vizi della procedura possono essere sanati ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un
accordo sindacale concluso nel corso della procedura. Circa l’efficacia, la Corte Costituzionale
ritiene che tali accordi possano avere efficacia generale senza violare l’art. 39 Cost.: tali accordi non
sono contratti normativi in quanto non fanno uso di un autonomo potere normativo ma stabiliscono
criteri, per le procedure di mobilità, in applicazione di una norma di legge.

Una volta conclusa la procedura, il datore può procedere, nel termine di 120 giorni, ad intimare per iscritto
e con preavviso i licenziamenti ai lavoratori.
La scelta di quali lavoratori licenziare deve avvenire, a pena di nullità, secondo i criteri previsti dai contratti
collettivi, o in mancanza, secondo i criteri indicati dalla legge.
Il licenziamento collettivo della lavoratrice madre è consentito solo in caso di cessazione dell'attività
dell'azienda. In ogni caso deve essere salvaguardata la proporzione della manodopera femminile occupata
nelle mansioni esuberanti, essendo vietata ogni discriminazione per sesso, diretta e indiretta.
I criteri sono quelli già indicati nei precedenti accordi interconfederali e devono essere generali ed obiettivi,
non possono violare norme imperative né il divieto di discriminazioni e possono prevedere la prevalenza
delle esigenze tecnico produttive e l'espulsione prioritaria dei lavoratori prepensionabili; si devono tenere
presenti, anche in concorso tra loro, 3 criteri:
 i carichi di famiglia;
 l’anzianità di servizio;
 esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
Il datore deve poi comunicare ai sindacati l’elenco dei lavoratori scelti e le modalità di applicazione dei
criteri di scelta. Tali dichiarazioni sono immodificabili nell’eventuale successivo giudizio di impugnazione.
In ogni caso, se tale comunicazione non viene fatta, i licenziamenti restano efficaci, ma per la violazione
della procedura è prevista una tutela indennitaria.
A ciò va aggiunto che i lavoratori licenziati collettivamente hanno diritto di precedenza in caso di nuove
assunzioni effettuate dal medesimo datore di lavoro entro 6 mesi dal licenziamento.

LE SANZIONI
Per la forma e i termini di impugnazione dei licenziamenti collettivi si applicano le regole previste per il
licenziamento individuale. Inoltre, al licenziamento collettivo intimato senza la forma scritta, si applica il
regime di tutela reale ex. art. 18 Statuto dei Lavoratori.
Il licenziamento viziato nella forma, sia esso collettivo o individuale, può essere ripetuto nel rispetto della
forma prescritta, non essendo un ostacolo per il periodo massimo di conclusione della procedura per il
licenziamento collettivo.
Nel caso di violazione delle procedure, la sanzione è quella dell’indennità da 12 a 24 mensilità ed è quindi
prevista la stessa sanzione sancita per l’ingiustificatezza semplice del licenziamento individuale.
Per la violazione dei criteri di scelta, si applica la stessa tutela reale prevista per l’ingiustificatezza qualificata
del licenziamento individuale.
Nel caso che invece si accerti che i licenziamenti collettivi non avevano presupposti sostanziali per esse tali,
ad essi si applicherà la normativa propria dei licenziamenti individuali.
Al recesso intimato da datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura
politica, sindacale, culturale, di istruzione oppure di religione o di culto si applicano le disposizioni di cui
alla legge 15 luglio 1966, n. 604.
Quindi, nelle aziende di tendenza la tutela reale si applica solo per il vizio di forma e per i licenziamenti
vietati dall’art. 18 Stat. lav. comma 1 (discriminatori, per motivo illecito, ecc.).
I lavoratori licenziati collettivamente e collocati in mobilità, possono contare sugli ammortizzatori sociali
(Casse integrazione), grazie ai quali sono inseriti nelle liste di mobilità, per agevolare il loro inserimento nel
mercato del lavoro e favorendo una ricollocazione congrua al profilo professionale del lavoratore stesso, e
hanno diritto ad uno speciale sussidio di disoccupazione (indennità di mobilità) in attesa della nuova
occupazione.
L'indennità non è prevista nel settore bancario ed assicurativo.
Nel caso in cui ci siano i presupposti sostanziali del licenziamento collettivo, ma uno o più licenziamenti
siano viziati per violazione dei criteri di scelta con conseguente reintegrazione dei lavoratori illegittimamente
licenziati, il datore di lavoro ha facoltà di licenziare un numero di lavoratori pari a quello dei lavoratori
reintegrati senza dovere porre in essere una nuova procedura, purché lo comunichi alle r.s.a.
Va ricordato, infine, che i contratti collettivi aziendali e territoriali stipulati dai sindacati maggiormente rap-
presentativi possono derogare alle disposizioni di legge relative alle conseguenze del licenziamento, per cui
possono, anche per il licenziamento collettivo, escludere la tutela reale o l’indennità sostitutiva di reintegra-
zione.

C) ALTRE CAUSE DI ESTINZIONE DEL RAPPORTO

LE DIMISSIONI

LE DIMISSIONI LIBERE CON PREAVVISO -


La libertà personale del lavoratore esige che questi possa recedere dal contratto a tempo indeterminato in
qualsiasi momento, rispettando l'obbligo di preavviso a tutela del datore di lavoro.
Quindi, per le dimissioni si applica il regime codicistico (art. 2118 cod. civ.), che è stato quasi
completamente superato per i licenziamenti.
Le dimissioni sono un negozio unilaterale recettizio, che richiedono la sola conoscenza da parte del datore di
lavoro per avere effetto. La revoca delle dimissioni è efficace solo se giunge al datore di lavoro prima delle
dimissioni stesse.
L’art. 2118 cod. civ. prevede che ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo
indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti. In mancanza di preavviso, il recedente è
tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il
periodo di preavviso.
Con la legge 188/2007 si è cercato di risolvere i problemi relativi alle dimissioni orali o per fatti concludenti
e alle dimissioni scritte senza data consegnate al datore, imponendo, a pena di nullità, che le dimissioni
fossero rassegnate in forma scritta su un apposito modulo di data certa valido per soli 15 giorni dalla sua
emissione. Questa legge è stata subito abrogata.
La materia delle dimissioni è stata integrata dalla legge 92/2012 e dal d. lgs. 151/2015: le dimissioni e la
risoluzione consensuale devono avvenire a pena di inefficacia esclusivamente con modalità telematiche, su
appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro.
La trasmissione dei moduli al datore e alla Direzione territoriale del lavoro competente può essere effettuata
anche attraverso i patronati, i sindacati, gli enti bilaterali e le commissioni di certificazione.
Entro 7 giorni dalla data di trasmissione del modulo, il lavoratore può revocare le dimissioni e la risoluzione
consensuale con le stesse modalità.
- Queste norme non si applicano al lavoro domestico e quando le dimissioni o la risoluzione consensuale
intervengono in sede assistita o avanti alla commissione di certificazione.
- Per il datore che alteri i moduli è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria, da 5.000 a 30.000 euro,
salvo che il fatto costituisca reato.
È considerata legittima la pattuizione di un periodo di durata minima del rapporto, con clausola penale in
caso di dimissioni anticipate ed è ammissibile la pattuizione di un compenso superminimale (premio di
fedeltà) collegato ad una determinata durata del rapporto.

LE DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA


Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo
determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una giusta causa,
ossia una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Non costituisce giusta
causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa
dell’azienda.
In base al principio di immediatezza elaborato dalla giurisprudenza, il recesso per giusta causa deve avvenire
subito dopo il verificarsi del fatto che lo ha causato, anche se va comunque riconosciuto un minimo lasso di
tempo per tutte le valutazioni del caso da parte del lavoratore.
In ogni caso, se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa
compete l’indennità pari a quella di mancato preavviso.

LE DIMISSIONI IN SITUAZIONI TIPICHE


1) Per causa di matrimonio = dimissioni rassegnate dalla dipendente nel periodo tra il giorno della richiesta
delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione dello stesso, le quali devono essere
confermate entro un mese presso la Direzione territoriale del lavoro al fine di garantire l'effettiva volontà
della lavoratrice.
2) In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto il divieto di
licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il
caso di licenziamento.
Si fa riferimento alle dimissioni della lavoratrice in gravidanza e dei genitori naturali, affidatari o adottivi,
per cui è disposta analoga tutela prevista per il caso precedente (necessaria convalida del servizio ispettivo
presso la Direzione territoriale del lavoro) per 3 anni dalla nascita o dall’ingresso del bambino in famiglia,
con l’espressa previsione che la mancanza di convalida determina non la nullità, ma la sospensione
dell’efficacia delle dimissioni. Questa disposizione si applica anche al padre lavoratore che ha fruito del
congedo di paternità, nonché alla lavoratrice licenziata a causa di matrimonio ed invitata a riprendere
servizio.
3) Il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui
condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei 3 mesi successivi al trasferimento d’azienda può
rassegnare le proprie dimissioni.
4) Per i dirigenti, alcuni contratti collettivi (es. aziende industriali) disciplinano in modo specifico le
dimissioni per determinati motivi, quali il mutamento di proprietà dell’azienda, il trasferimento del dirigente.

L’ANNULLAMENTO DELLE DIMISSIONI


Le dimissioni sono un atto unilaterale recettizio, al quale si applicano le norme civilistiche sui vizi della
volontà (errore, dolo, violenza) e sull’incapacità di intendere e di volere. L’annullamento si prescrive nel
termine di 5 anni, entro il quale occorre iniziare il giudizio.
Le dimissioni sono comunque dirette all’estinzione del rapporto e non alla rinuncia di singoli diritti derivanti
dal rapporto, per cui l’art 2113 sull’impugnabilità delle rinunce non si applica alle dimissioni.

ALTRE IPOTESI DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO


Il rapporto di lavoro può estinguersi non solo per dimissioni o per licenziamento, ma anche per altre cause.
 La risoluzione consensuale delle parti → Il rapporto di lavoro può estinguersi per mutuo consenso.
Questo mezzo di estinzione del rapporto era riguardato con un certo sospetto, temendo che potesse
rappresentare un tentativo di elusione della disciplina limitativa del licenziamento oppure
dell’obbligo di preavviso. Così è intervenuto il legislatore prevedendo per la risoluzione consensuale
le stesse regole contestualmente imposte per le dimissioni in generale e per le dimissioni della
lavoratrice in gravidanza e dei genitori naturali o adottivi. Gli eventuali vizi della volontà del
lavoratore (errore, violenza, dolo, incapacità) possono essere fatti valere secondo le regole del diritto
comune, come avviene per le dimissioni. La risoluzione consensuale è agevolata mediante un regime
previdenziale e fiscale di favore.
 Il verificarsi di un dato evento previsto in clausole di risoluzione automatica → Le clausole di
risoluzione automatica sono spesso inserite nei contratti collettivi e prevedono la futura cessazione
del rapporto al verificarsi di un determinato evento, senza necessità di recesso e di preavviso.
 La scadenza del termine → Nel contratto a tempo determinato la scadenza del termine comporta di
per sé l’estinzione del rapporto senza necessità di alcuna manifestazione di volontà.
 La morte del lavoratore → Estingue il rapporto in considerazione del carattere personale della
prestazione dedotta in contratto. La legge prevede, a tutela dei familiari superstiti, l’obbligo del
datore di lavoro di corrispondere loro, oltre al TFR, anche l’indennità sostitutiva del preavviso,
accomunati nella cosiddetta indennità in caso di morte.
 La morte del datore di lavoro → Non determina cessazione del rapporto quando permane
l’organizzazione nella quale è inserito il lavoratore.

Il rapporto di lavoro si estingue inoltre in un'altra serie di ipotesi previste specificatamente previste dalla
legge, come la mancata tempestiva ripresa del servizio da parte del lavoratore in seguito a reintegrazione
giudiziale, la mancata ripresa del servizio da parte del lavoratore al termine del servizio militare, la condanna
irrevocabile del pubblico dipendente ad almeno 3 anni di reclusione per alcuni reati contro la PA.

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