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Il licenziamento è l'atto con cui il datore risolve il rapporto di lavoro. Esistono diverse motivazioni: libero
con preavviso, per giusta causa, giustificato motivo soggettivo/oggettivo, scadenza del periodo di comporto.
Il licenziamento è soggetto ad una pluralità di regimi.
Si può fare una prima distinzione fra licenziamento individuale, disciplinato da una serie di leggi
susseguitesi nel tempo, e il licenziamento collettivo, regolato dalla legge 223/91
A) IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE
Il recesso è un negozio unilaterale recettizio, che per diventare efficace deve essere portato a conoscenza
dell’altra parte.
A tutela della parte che subisce questo recesso è previsto il preavviso la cui durata viene fissata dai contratti
collettivi, che di solito la differenziano in base all’anzianità di servizio e alla qualifica del lavoratore.
In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità di mancato preavviso
equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata al periodo di preavviso.
La stessa indennità è dovuta al datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di
lavoro.
Inoltre, l’articolo 2110 del codice civile dice che "il lavoratore malato non può essere licenziato fino alla
scadenza del periodo di comporto", fino alla quale il licenziamento viene considerato
temporaneamente inefficace.
C'è anche da dire però, che se il recedente sceglie di corrispondere l'indennità ha il potere di far cessare
immediatamente il rapporto senza il consenso dell'altra parte.
L’indennità è una penale, ovvero una somma dovuta in misura prestabilita in base alla retribuzione non data.
Per calcolare l'indennità di mancato preavviso l'art. 2121 codice civile parla di "retribuzione globale di fatto,
ossia ogni compenso di carattere continuativo (provvigioni, partecipazione agli utili o ai prodotti, premi di
produzione, ecc), compreso l'equivalente per vitto e alloggio, prendendo a riferimento la media delle
retribuzioni degli ultimi 3 anni.
Dal computo rimangono esclusi i rimborsi spese e tutti quegli elementi che non sono percepiti mensilmente o
in ogni caso con continuità".
Dopo la riforma Fornero, può dirsi che il licenziamento libero, senza preavviso, che non richiede alcuna
giustificazione necessaria e che non dà luogo né alla tutela reale né a quella obbligatoria, è ormai possibile
solo in alcune ipotesi residuali, ossia per i dirigenti, per i lavoratori in prova, per i domestici, per gli atleti
professionisti, per i lavoratori ultrasessantenni che abbiano già maturato il diritto alla pensione di vecchiaia.
Nei confronti di questi ultimi, la maturazione del diritto alla pensione non determina automaticamente
l'estinzione del rapporto, ma libera il datore dal vincolo della giustificazione e rende possibile il
licenziamento in qualunque motivo, salvo che per motivi discriminatori. Prima l'età pensionabile era 60 anni
per gli uomini e 55 per le donne, nel 1990 divenne 60 anni per entrambi, e nel 2011 divenne 67 per entrambi.
Il licenziamento deve essere giustificato dal datore di lavoro, secondo la regola di giustificazione necessaria,
introdotta prima da accordi interconfederali e poi dalla legge n. 604/1966. Ciò al fine di tutelare il lavoratore,
sia con questa regola sia con la previsione di sanzioni a carico del datore che non la applica. Del resto, la
regola di giustificazione necessaria del licenziamento trova fondamento nella Costituzione (come statuito
dalla Corte Costituzionale nel 2000) in base ai principi della tutela della parte debole e della tutela del lavoro.
"L'onere di allegazione e prova della giusta causa grava sul datore" (art. 5 legge 604/1966):
nel contratto a tempo indeterminato, poiché il lavoratore viene privato del diritto di preavviso;
nel contratto a tempo determinato, altrimenti il licenziamento è inefficace e il rapporto di lavoro
prosegue fino a scadenza pattuita.
Nel lavoro pubblico, invece, la legge prevede le ipotesi tassative di cause di licenziamento, con
l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori a tutte le PA, a prescindere dal numero dei dipendenti:
il rapporto di lavoro pubblico, quindi, anche dopo la privatizzazione, è caratterizzato da una maggiore
stabilità, ad eccezione di alcune ipotesi di licenziamento libero (paragrafo 71.3).
La definizione di giusta causa, è descritta dall’articolo 2119 del codice civile, come la "causa talmente
grave che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto" e indica la particolare
rilevanza e urgenza della situazione considerata.
Per questo il licenziamento per giusta causa è ammesso solo se è rispettato il principio di immediatezza,
ovvero solo se avviene nell'immediatezza del fatto o della sua conoscenza da parte del datore, ovviamente
intesa in senso relativo poiché il datore deve avere un lasso di tempo in cui compiere gli accertamenti
necessari ed eventualmente procedere alla sospensione cautelare del lavoratore (continuando però a
retribuirlo) se reputi che la sua presenza in azienda possa pregiudicare il regolare svolgimento dell'attività di
questa, ecc. Nel settore pubblico, la sospensione cautelare è obbligatoria in caso di condanna penale non
definitiva per reati di peculato, concussione e corruzione.
In ogni caso, la nozione di giusta causa è fissata dalla legge, per cui le descrizioni operate nei contratti
collettivi non vincolano il giudice, ma il lavoratore dovrà provare le circostanze per le quali non dovrebbero
applicarsi le tipizzazioni (individuazione dei fatti-tipo che possono valere come giusta causa) della giusta
causa, fissate nei contratti collettivi.
Tuttavia, per dare maggiore importanza a queste tipizzazioni, l’art. 30 comma 3 della l. 183/2010, dispone
che nel valutare le motivazioni poste a base licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta
causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati più
rappresentativi o nei contratti individuali di lavoro, stipulati con l’assistenza e la consulenza delle
commissioni di certificazione.
Si applicano, comunque, le clausole collettive o individuali di miglior favore per il lavoratore.
Per quanto riguarda i fatti che rappresentano giusta causa, essi sono i gravi inadempimenti contrattuali del
dipendente o altri fatti estranei allo svolgimento del rapporto, che facciano venir meno l’idoneità del
lavoratore all’esecuzione della prestazione dedotta in contratto.
Anche per i fatti-reato non scatta automaticamente il licenziamento, ma occorre verificare se essi abbiano
escluso l’idoneità del lavoratore ad eseguire la prestazione contrattuale.
Il datore può ritenere venuta meno tale idoneità e licenziare il lavoratore anche prima della fine del processo
penale.
Inoltre, il giudicato di assoluzione secondo cui il fatto non sussiste o non è stato commesso dal lavoratore
imputato vincola il datore di lavoro solo se questi ha partecipato al processo penale. L’altro tipo di
giudicato, ossia l’assoluzione perché il fatto sussiste ma non costituisce reato, non esclude che il giudice
civile possa qualificare il medesimo fatto come giusta causa di licenziamento.
Per quanto riguarda il patteggiamento, la relativa sentenza, salvo apposite clausole del contratto collettivo,
non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile relativo al lavoro privato (invece, nel lavoro pubblico, la sen-
tenza di patteggiamento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile), per cui si dovranno accertare tutti i fatti
invocati come giusta causa di licenziamento.
Il processo civile sul licenziamento deve essere sospeso per la contemporanea pendenza del processo penale,
se questo può dar luogo ad una sentenza avente efficacia di giudicato nell’altro processo.
Se si accerta che il licenziamento comminato per giusta causa era sorretto da un fatto non costituente giusta
causa, lo stesso licenziamento può rimanere efficace se era consentito il licenziamento libero ex art.
2118 cod. civile. Il licenziamento resta efficace se si accerta che il fatto, pur non costituendo giusta causa,
era qualificabile come giustificato motivo.
Tra i fatti estranei allo svolgimento del rapporto, idonei a costituire giusta causa di licenziamento ricordiamo:
l’uso di stupefacenti
il possesso illegittimo di armi
la falsa testimonianza contro il datore
la relazione sessuale con la moglie del datore.
Emissioni di assegni a vuoto
Ripetuta guida in stato di ebrezza
Tra i fatti costituenti inadempimenti del contratto di lavoro, ricordiamo le assenze ingiustificate, la
distruzione o il furto di beni aziendali, la falsificazione di certificati medici, le ingiurie o aggressioni nei
confronti di superiori gerarchici, l’ubriachezza sul luogo di lavoro, ecc.
Il giustificato motivo, che richiede comunque un periodo di preavviso, può essere (art. 3 legge 604/1966):
SOGGETTIVO (licenziamento disciplinare): se determinato da un notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali del prestatore di lavoro; nel settore pubblico costituisce motivo di giustificato motivo soggettivo
per licenziamento l'insufficiente rendimento per almeno un biennio dovuto alla reiterata violazione di
obblighi inerenti la prestazione lavorativa.
Naturalmente spetta al giudice valutare caso per caso, se un dato fatto è talmente grave da essere giusta
causa, o meno grave da essere giustificato motivo soggettivo; anche qui vige il principio di immediatezza,
perché far passare troppo tempo fa presumere che il datore abbia considerato il fatto del lavoratore
compatibile con la prosecuzione del rapporto di lavoro;
OGGETTIVO (licenziamento economico): per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del
lavoro e al regolare funzionamento di essa (es. riorganizzazione, riduzione di personale, chiusura aziendale).
In questo caso il giudice non può sindacare sulle scelte economico-organizzative del datore ma deve
limitarsi a verificarne il nesso causale con il licenziamento.
Il datore, in particolare, dovrà provare la reale soppressione del posto di lavoro occupato dal lavoratore
necessario e dimostrare la reale inutilizzabilità di quest'ultimo in altre posizioni equivalenti.
Il giudice quindi può intervenire solo sulle condizioni di legittimità e non sulle questioni di merito.
Nel giustificato motivo oggettivo possono essere comprese anche vicende personali del lavoratore, ma
sempre relative all'organizzazione aziendale, come:
1) sopravvenuta inidoneità fisica, che sia di durata imprevedibile e non derivante da infortunio o
malattia professionale, ammesso che il lavoratore non possa essere utilizzato per mansioni
inferiori. Altra ipotesi riguarda la perdita dei requisiti soggettivi indispensabili per il lavoro (es.
revoca della patente nel caso in cui il lavoratore faccia l'autista);
2) carcerazione preventiva solo nel caso in cui l'assenza del lavoratore determini problemi
organizzativi non fronteggiabili con altro personale o faccia venir meno l'interesse a svolgere
ulteriori prestazioni.
Un orientamento giurisprudenziale, contrario a quello che ora si è consolidato, aveva imposto al datore
l’obbligo, anche in assenza di espressa previsione da parte del contratto collettivo, di assegnare al
lavoratore, ove disponibili, diverse mansioni anche inferiori, compatibili con il suo stato fisico.
Questo principio è stato poi recepito dal legislatore, che ammette il licenziamento per impossibilità
sopravvenuta solo se sia impossibile usare il lavoratore in mansioni equivalenti o inferiori (ed in caso di
assegnazione a mansioni inferiori permane il diritto alla conservazione del trattamento della precedente
qualifica).
L'ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto non rientra tra il giustificato motivo in
quanto ricondotto alla disciplina speciale dell'art. 2110 codice civile (in realtà vi è contraddizione tra due
sentenze del Tribunale di Milano del 2013 (5 marzo e 22 marzo) in cui si contraddicevano una dicendo che ci
rientra e l'altra no, quindi una diceva di esperire il tentativo di conciliazione e l'altro no). Se rientrasse nel
giustificato motivo si applicherebbe la tutela reintegratoria attenuata.
Per quanto riguarda la malattia, bisogna fare una grande distinzione, cioè:
licenziamento durante lo stato di malattia ma dovuto a casi diversi dalla malattia: l’art. 2110
prevede una particolare tutela che non permette al datore di licenziare fino alla scadenza del periodo
di comporto. Il lavoratore non può essere licenziato tranne nei casi di giusta causa, mentre invece se
è un licenziamento disciplinare con preavviso allora si ha la tutela (il licenziamento intimato con
preavviso, e quindi anche quello per giustificato motivo, non è efficace nel periodo di tutela, e viene
differito dopo la scadenza).
licenziamento a causa della malattia è il licenziamento per scadenza del periodo di comporto: il
lavoratore ha diritto alla tutela, però per un periodo determinato, che può essere uno unico oppure
può riguardare il comporto per sommatoria (periodi di più malattie sommati fra loro). mSe il datore
licenzia prima della scadenza si ha il licenziamento dovuto alla malattia ed è nullo per violazione di
norma imperativa.
Questo tipo di licenziamento non è assoggettato al giustificato motivo oggettivo, e quindi se il
comporto è scaduto, il datore può attivare il licenziamento con preavviso per il sol fatto che è
scaduto il periodo di comporto, non essendo necessario che provi il riflesso negativo
sull’organizzazione aziendale del fatto che il lavoratore è stato assente.
Nei casi di eccessiva morbilità: durante il periodo di comporto il datore può̀ far valere il giustificato
motivo oggettivo, provando la disorganizzazione che si è verificata.
Poi la giurisprudenza è cambiata e si è detto che la tutela opera impedendo la rilevanza come giustificato
motivo oggettivo delle assenze per eccessiva morbilità.
Poi la giurisprudenza sembra sia ulteriormente mutata con sentenza recente del 2014 n°18178 in cui sembra
risolvere quella soluzione per cui anche se non è scaduto il comporto si può licenziare il lavoratore per
eccessiva morbilità, con motivazione non perspicua in cui si fa valere il fatto che la prestazione deve
raggiungere una minima utilità per il datore, e che non può essere fatta valere con un lavoratore con queste
continue assenze.
Per quanto riguarda l'onere della prova in giudizio tra lavoratore e datore, l'iter è il seguente:
- il datore deve provare che il licenziamento è giustificato;
- il lavoratore, se il datore non fornisce questa prova, deve provare che non vi è ingiustificatezza ordinaria,
ma che ricorre una delle 3 ipotesi di ingiustificatezza qualificata.
Le 3 modalità di ingiustificatezza qualificata introdotte dalla riforma Fornero che fanno scattare la tutela
reale sono:
a) nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo
1. insussistenza del fatto contestato: il fatto addebitato al lavoratore non esiste, perciò si applica la
tutela reale. Quest'ultima si applica anche nel caso in cui il fatto contestato è vero, ma è
manifestamente insufficiente a giustificare il licenziamento (si pensi al ritardo di pochi minuti
del lavoratore),
2. il fatto contestato rientra tra quelli per i quali i contratti collettivi prevedono una sanzione
conservativa, ossia sanzioni che non compromettono la conservazione del posto di lavoro.
Il giudizio, in base all'esito delle prove raccolte, può avere i seguenti esiti:
a) il giudice ritiene che il licenziamento sia giustificato: sono rigettate tutte le domande del lavoratore;
b) il giudice ritiene che i fatti posti a base del licenziamento siano manifestamente insussistenti: viene
raccolta la domanda di tutela reale del lavoratore;
c) il giudice ritiene che il datore non ha provato che il licenziamento è giustificato e che il lavoratore
non ha provato la manifesta insussistenza dei fatti per cui il datore ha applicato il licenziamento: il
giudice rigetta la domanda del datore di accertamento della giustificatezza del licenziamento, rigetta
la domanda del lavoratore di accertamento di ingiustificatezza qualificata del licenziamento, e
riconosce a lavoratore una tutela indennitaria per l'ingiustificatezza semplice.
I°PROFILO Se la clausola del contratto collettivo non corrisponde alle previsioni della legge è nulla per
violazione di norme inderogabili, e non è quindi operativa quella clausola.
Il giudice nel momento in cui valuta l’esistenza della giusta causa, esercita la sua discrezionalità̀ , ma deve
sempre tenere presente i dati di tipicità̀ sociale, cioè̀ di quel che avviene nell’ambito del settore a cui si
riferisce quel rapporto di lavoro.
Questi dati sono alla base ad esempio della retribuzione, dove il giudice per decidere le soglie minime non
può̀ decidere in modo totalmente arbitrario.
intervento legislatore nell’ambito di un intervento legislativo che era diretto a favorire la certezza del
diritto e a ridurre la discrezionalità̀ del giudice, in particolare art. 30 co.3 l.183/10 (collegato lavoro) nel
valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa
e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati più̀ rappresentativi.
Quindi la norma impone al giudice di tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo
presenti nel contratto collettivo.
“Tenerne conto” = significa che non è che sia privato del potere di dire che la tipizzazione sia in conflitto con
la legge, ma si dice che è obbligato a considerare il contratto collettivo, e se la tipizzazione è in contrasto con
la legge bisogna motivare.
Questa è la prima norma in questo tema, prima non c’era.
Nell’art. 30 della legge 183/2010, si dice anche che il giudice deve tenere conto della giusta causa e
giustificato motivo contenuti nei contratti individuali, ove questi siano stipulati con l’ausilio delle
commissioni di certificazione.
II°PROFILO le clausole del contratto collettivo prevedono la possibilità̀ di licenziare quando invece non
ricorre la gravità della mancanza, la clausola è nulla;
però nel caso in cui la previsione del contratto collettivo individui una mancanza e stabilisca che può̀ dar
luogo a sanzione solo conservativa, però considerando che quella mancanza potrebbe dar luogo anche al
licenziamento secondo la legge, in questo caso si applica il criterio del favore, = si applica il caso più̀
favorevole al lavoratore, e il giudice è vincolato a far valere questo principio.
Altro aspetto interessante è la possibilità̀ di far riferimento ad ipotesi di giusta causa o giustificato motivo,
tipizzate nel contratto collettivo, per valutare la gravità della mancanza con riferimento a casi non tipizzati.
LICENZIAMENTO VERBALE
Il licenziamento verbale (o orale) si verifica quando il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza
alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera o altro). La legge impone al datore di lavoro di
comunicare il licenziamento per iscritto, perciò il licenziamento verbale è inefficace: ciò significa che non
produce alcun effetto e, in particolare, non interrompe il rapporto di lavoro tra le
parti, perciò il datore di lavoro è tenuto a continuare a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando
non sopravvenga un’efficace causa di risoluzione o estinzione del rapporto di lavoro o l’effettiva
riassunzione. In questi casi è necessario che il lavoratore faccia pervenire immediatamente una raccomandata
A/R (di cui si deve tenere copia) nella quale lo stesso si mette a disposizione per la ripresa immediata
dell’attività dando conto del fatto di essere stato allontanato dal datore di lavoro.
I DIVIETI DI LICENZIAMENTO
Caratteristiche comuni a questi divieti sono l'onere della prova a carico del lavoratore della situazione
fondante, che il lavoratore ha interesse ad invocare sia nei rapporti a regime di licenziamento libero sia di
giustificazione necessaria ma con tutela debole sia nei rapporti con tutela reale per la sola ingiustificatezza
qualificata.
Al lavoratore attualmente conviene sempre invocare la nullità del licenziamento, nullità che se accertata
garantisce al lavoratore la conservazione del posto di lavoro.
Per i lavoratori assunti dopo l'entrata in vigore del d. lgs. 23/2015 i licenziamenti discriminatori o nulli o
intimati in forma orale sono assistiti dalla tutela reale, quasi identica a quella prevista dall'art. 18 Statuto dei
lavoratori
IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
La legge considera discriminatorio, vietandolo, il licenziamento solo quando determinato da ragioni
tassativamente previste (sindacali, politiche, religiose, etniche, di lingua, di sesso, di convinzioni personali,
di età, di tendenze).
In tali ipotesi, e non in altre, il licenziamento si considera discriminatorio ed è nullo, con applicazione della
tutela reale ex art. 18 Stat. Lav. L’onere della prova circa le ragioni discriminatorie è a carico del lavoratore.
Con la riforma Fornero si aggiunge anche il caso del “licenziamento per ritorsione” alle voci riguardanti il
licenziamento discriminatorio, che consiste nel licenziamento per comportamenti sgraditi al datore.
La tutela è valida per le cause tipizzate di discriminazione (quindi non rileva qualunque altra ragione non
illecita di differenziazione del trattamento) e non rileva l’intento discriminatorio ma la circostanza che fa
verificare la discriminazione.
Il licenziamento è nullo a prescindere dall’intenzionalità̀ e non occorre che sia l’unico motivo determinante
per cui in presenza di una giusta causa o giustificato motivo, se pongo in essere il licenziamento per il fatto
che vi sia appunto una discriminazione, rileva il carattere discriminatorio.
Ad esempio, se si ha la discriminazione per sesso e la lavoratrice è anche inadempiente, il licenziamento è
nullo per discriminazione, quindi non rileva il motivo legittimo.
Anche qui l’onere della prova è a carico del lavoratore e quindi anche qui si nota la netta differenza con la
tutela per la giustificazione necessaria, ma tuttavia per la difficoltà del provare una discriminazione il
legislatore opera una distinzione ovvero:
attua un’inversione dell’onere della prova per ragioni di sesso, sulla base di una prova presuntiva
speciale,
per le altre discriminazioni opera una presunzione semplice.
Il licenziamento discriminatorio è nullo ed è sottoposto alla tutela reale prevista dall’art. 18 statuto dei
lavoratori che in questo caso si applica anche ai dirigenti, ai lavoratori domestici, ai lavoratori pensionabili e
alle minori aziende produttive.
Una grande distinzione fra le tutele sia nell’ambito dei regimi preesistenti a quello delle tutele crescenti sia
nel sistema delle tutele crescenti, riguarda la distinzione fra:
TUTELA REALE DEL POSTO DI LAVORO ipotesi in cui il licenziamento illegittimo sia
invalido e comportano la reintegra del posto di lavoro con effetto retroattivo
TUTELA OBBLIGATORIA tutela indennitaria, e costituisce l’estinzione del rapporto di lavoro).
La linea seguita dal legislatore è caratterizzata dalla riduzione progressiva dei casi di tutela reale (=tutela
maggiore per il lavoratore) e in parallelo l’estensione dei casi di tutela obbligatoria.
Il principio informatore che spiega dove sia mantenuta la tutela reale o meno è che la tutela reale permane
nelle ipotesi in cui il licenziamento è idoneo a colpire beni costituzionalmente garantiti al lavoratore
(licenziamento discriminatorio ad esempio) e la tutela obbligatoria riguarda i casi di illegittimità̀ che
comportano una lesione del mero interesse del lavoratore alla conservazione del rapporto.
TUTELA OBBLIGATORIA
art.8 l.604/66 In caso di licenziamento ingiustificato il datore è tenuto a riassumere il lavoratore entro 3
giorni oppure a risarcirlo attraverso una indennità̀ , con importo predeterminato dalla legge.
L’indennità̀ è dovuta al posto della riassunzione, e quindi viene intesa come costituzione da quel momento in
poi di un nuovo rapporto di lavoro, a prescindere dalla ragione per la quale non avvenga la riassunzione e
quindi anche se sia il lavoratore a rifiutarla.
Con l’introduzione del regime a tutele crescenti (d.lgs. 23/15), si è modificata la tutela contro i licenziamenti
illegittimi, solo per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore di tale decreto e per i datori che superano il
requisito dimensionale dei 15 dipendenti, introducendo così due regimi diversi, sia per la tutela reale che per
quella obbligatoria. In particolare, per quella obbligatoria si prevede:
Assenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo/soggettivo indennità̀ di importo pari a 2
mensilità̀ per ogni anno di servizio, per un minimo di 4 ed un massimo di 24
Per vizi procedimentali e formali indennità̀ risarcitoria di importo pari ad un mino di 2 ed un
massimo di 12 mensilità̀ .
TUTELA REALE
la l. 92/12 (riforma Fornero) ha novellato l’art. 18 stat. lav., riservando la tutela reale solo nelle ipotesi
tassative di ingiustificatezza qualificata e licenziamenti vietati o orali.
Successivamente il d.lgs. 23/15 ha modificato la tutela reale per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore di
tale decreto, e per i datori che superassero la soglia dei 15 dipendenti, prevedendo tale tutela solo nei casi di:
licenziamenti orali o nulli,
insussistenza del fatto materiale
licenziamenti motivati con l’idoneità̀ fisica o psichica sopravvenuta.
Nelle piccole imprese, invece, si applica la tutela reale solo per i licenziamenti nulli o orali.
Il lavoratore vittorioso in giudizio, ha il dovere di restituire l’indennità̀ di preavviso e il TFR che gli era stato
consegnato al momento del licenziamento illegittimo.
L’ordine di reintegrazione è superato qualora sopraggiunga una causa estintiva del rapporto.
La reintegrazione per licenziamento illegittimo si distingue dalla detenzione ingiusta, in quanto la
detenzione ingiusta non si ha avuto un licenziamento che è invalido, ma la reintegra è dovuta al fatto che la
sentenza ha dichiarato il soggetto innocente e quindi riacquista il diritto a recuperare il suo posto di lavoro
precedente, ma in questo caso non vi è il dolo o la colpa del datore di lavoro.
Nei casi in cui è ancora prevista la tutela reale, il regime per il periodo dal licenziamento all’effettiva
reintegrazione si è sdoppiato, per tutti quei lavoratori assunti dopo tale decreto, e si distingue a seconda che il
licenziamento sia:
licenziamento vietato o orale
vizio di ingiustificatezza qualificata
LICENZIAMENTO VIETATO O MORALE art. 18 co.2. – il giudice con l’ordine di reintegrazione condanna
il datore anche al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia accertata la nullità̀ ,
stabilendo una indennità̀ commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino
all’effettiva reintegrazione.
Da questa somma si detrae quanto il lavoratore abbia guadagnato altrove (aliunde perceptum), mentre non si
detrae ciò̀ che il lavoratore avrebbe potuto guadagnare comunque a prescindere dalla prestazione che svolgeva
(aliunde compatibile).
Infine, in questo regime non si detrae nemmeno il danno che il lavoratore avrebbe potuto evitare usando
l’ordinaria diligenza (aliunde percepiendum).
Questa indennità̀ viene definita come una “PENALE FORFETTARIA”, nel senso che si tratta di un compenso
in misura fissa insuscettibile di qualsiasi riduzione e che ha funzione punitiva dell’illecito commesso dal
datore. Essenziale specificare che tale indennità̀ non può̀ comunque essere inferiore alle 5 mensilità̀ , e
l’eventuale sopravvenienza di un’altra causa estintiva esclude il risarcimento per il periodo successivo, ma
permane comunque il diritto del lavoratore a percepire le 5 mensilità̀ .
VIZIO DI INGIUSTIFICATEZZA QUALIFICATAart.18co.4 – Siamo nei casi di ingiustificatezza
qualificata e licenziamento ingiustificato per asserita inidoneità̀ e scadenza di comporto.
In questi casi si ha una distinzione rispetto alla tutela precedente, in quanto:
Ci sono delle differenze in ambito risarcitorio
Si ha la detrazione anche dell’aliunde percepiendum
Si ha un limite massimo di 12 mensilità̀ per l’indennità̀ risarcitoria
Per quanto riguarda il regime previdenziale è dovuto al datore solo l’importo differenziale tra la
contribuzione che sarebbe dovuta senza licenziamento e l’eventuale contribuzione derivante da altre
attività̀ .
Nei casi di tutela reale, il lavoratore può̀ anche scegliere di non essere reintegrato e di chiedere un’indennità̀
sostitutiva alla reintegrazione pari a 15 mensilità̀ di retribuzione entro 30 giorni dalla comunicazione del
deposito della sentenza che ordina la reintegrazione (art.18 co.5).
Essendo una indennità̀ sostituiva, questo comporta in primis che qualora sopravvenga una causa estintiva che
nega la reintegrazione, viene meno anche la possibilità̀ di ricevere l’indennità̀ sostitutiva, ed in secondo luogo
che se il lavoratore accetta la revoca non ha diritto all’indennità̀ .
Il lavoratore, comunque, può̀ anche anticipare la sua scelta richiedendo l’indennità̀ già̀ nel giudizio di
impugnazione del licenziamento dalla cui illegittimità̀ acquisisce il diritto a tale indennità̀ .
Il rapporto di lavoro si estingue per legge dal momento in cui viene fatta la richiesta di indennità̀ sostitutiva,
che oltretutto non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
Infine, bisogna dire che questa indennità̀ si cumula con quella risarcitoria, e quindi per il periodo del
licenziamento illegittimo fino alla cessazione del rapporto è dovuto al prestatore il risarcimento del danno
secondo l’art. 18 co.4 + l’indennità̀ sostitutiva.
Con il termine licenziamento si intende l’atto unilaterale recettizio (cioè che per avere efficacia deve
pervenire al lavoratore art. 1334 cod. civ.) con cui il datore di lavoro o un legittimo rappresentante,
interrompe il rapporto di lavoro.
Se viene effettata da un soggetto diverso è consentita la ratifica con effetto retroattivo, con la stesa forma
prescritta per il licenziamento.
Il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento al lavoratore, con espressa deroga al
principio di libertà della forma del negozio giuridico, fatta eccezione per i lavoratori in prova, per i
lavoratori domestici, per gli ultrasessantenni con diritto alla pensione.
Inoltre, il licenziamento è un atto unilaterale recettizio: per avere efficacia, deve essere portato a conoscenza
del lavoratore (si presume la conoscenza se l’atto è recapitato al suo indirizzo).
Se il licenziamento è privo della forma scritta, è nullo, con obbligo del lavoratore ad applicare la tutela reale
ex art. 18 Statuto dei Lavoratori
Il datore può sempre emanare un successivo licenziamento scritto, che avrà una sua autonoma efficacia,
rispetto a quello precedente, nullo per mancanza della forma scritta.
LA MOTIVAZIONE
Secondo la legge 604/1966 prima della Riforma Fornero, il licenziamento poteva non contenere i motivi; il
lavoratore poteva richiederli entro 15 giorni e il datore deve dare risposta entro 7 dalla richiesta.
Con la riforma, che ha novellato tale legge, il licenziamento deve essere motivato contestualmente al
licenziamento e in caso di impugnazione il datore non potrà modificare tali motivi in giudizio.
Il licenziamento deve essere motivato, con motivi specifici ed essenziali per far comprendere al lavoratore le
ragioni del recesso.
I motivi possono essere plurimi ed in tal caso la giustificazione del licenziamento può risultare dalla
fondatezza anche di uno solo di essi.
Resta illecito il licenziamento ingiurioso, cioè quello che, a prescindere dalla sua giustificatezza, sia
intimato con modalità tali da ledere l'onore e il decoro del lavoratore, il quale, se prova tali modalità, può
richiedere il risarcimento dei danni conseguenti anche nelle residue ipotesi di licenziamento libero o di
avvenuta decadenza dall'impugnazione.
I motivi sono immodificabili, cosicché il datore non potrà invocarne altri in giudizio, ma solo aggiungere
qualche fatto confermativo o di contorno. Esula dal principio di immodificabilità dei fatti la diversa
qualificazione giuridica dei fatti stessi.
Se il licenziamento non è motivato, scatta l’obbligo di pagamento di una indennità da 6 a 12 mensilità; solo
per alcuni datori, come aziende minori o di tendenza, il licenziamento privo di motivazione è inefficace, con
una tutela reale. Una svista del legislatore ha creato una illogica disparità di trattamento tra datori.
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Il licenziamento disciplinare è una delle più forti sanzioni disciplinari, si applica soprattutto per giusta
causa/giustificato motivo, ed è un licenziamento che si fonda su comportamenti del lavoratore che non
adempie ai propri doveri violando delle norme stabilite dalla legge, dai contratti collettivi e del codice
disciplinare dell’azienda.
Il datore, ai sensi dell’art.7 Statuto dei Lavoratori deve:
affiggere il codice disciplinare;
contestarne preventivamente l’addebito;
consentire al lavoratore di difendersi, prima di adottare la sanzione.
Era prevalsa la tesi che tali regole procedimentali andassero applicate anche nel caso di licenziamento senza
giusta causa o giustificato motivo oggettivo, poiché il licenziamento era pur sempre una reazione del datore
all’inadempimento del lavoratore. In tal senso si era pronunciata anche la Corte Costituzionale, facendo leva
sull’art. 3 Cost. La giurisprudenza, però ha cambiato tale impostazione ritenendo che il licenziamento viziato
da vizio procedimentale non è automaticamente nullo, ma è soggetto alla sanzione d’area, ossia alla sanzione
di volta in volta prevista per la situazione del lavoratore (tutela reale, tutela indennitaria, recesso libero).
La successiva evoluzione legislativa è culminata nella legge 92/2012 (Riforma Fornero): essa ha previsto che
il licenziamento affetto da vizio procedimentale dia luogo alla tutela indennitaria (da 6 a 12 mensilità) in
favore del lavoratore, ma tale vizio non può essere rilevato d’ufficio dal giudice, dovendo essere
espressamente e tempestivamente eccepito dalla parte.
Il datore di lavoro deve portare a conoscenza dei lavoratori le norme disciplinari che se violate
comportano sanzioni disciplinari, non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti
del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito, averlo sentito a sua difesa (per
la quale il lavoratore può scegliere di avvalersi di un rappresentante dell'associazione sindacale) ed
esser passati 5 giorni dalla contestazione del fatto.
Se il licenziamento disciplinare risulta illegittimo, a tutela del lavoratore, nelle imprese con meno
di 15 dipendenti si applica la tutela obbligatoria, in quelli con più si applica l'ambito di applicazione
dell'art. 18 statuto dei lavoratori a seconda del vizio riscontrato.
Riassumendo, le innovazioni introdotte dall'art. 7 Stat. Lav. riguardano: obbligo di pubblicità della normativa
disciplinare, necessità di una preventiva contestazione e suoi requisiti, tempestività della contestazione,
specificità della contestazione, immodificabilità del contenuto della contestazione, necessità della forma
scritta della contestazione, divieto di procedere ad indagini preliminari, rispetto di un criterio di
proporzionalità della sanzione adottata, indicazione di termini e modalità di difesa, divieto di mutamenti
definitivi del rapporto di lavoro, termini per la comminazione del provvedimento, sospensione cautelare, sedi
e modalità di impugnazione della sanzione disciplinare.
La funzione di questo procedimento è quella di evitare le incertezze del regime sanzionatorio previsto per il
licenziamento ingiustificato.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora disposto da un datore di lavoro avente alti
requisiti dimensionali, deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla
Direzione territoriale del lavoro (DTL) del luogo dove il lavoratore presta la sua opera e deve essere
trasmessa per conoscenza al lavoratore.
Nella comunicazione il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per
motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento, nonché le eventuali misure di assistenza alla
ricollocazione del lavoratore interessato.
La Direzione territoriale del lavoro trasmette la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine
perentorio di 7 giorni dalla ricezione della richiesta: l’incontro si svolge dinanzi alla commissione
provinciale di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile.
Tale procedura, durante la quale le parti, con la partecipazione attiva della commissione, procedono ad
esaminare anche soluzioni alternative al recesso, si conclude entro 20 giorni dal momento in cui la Direzione
territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro. Se fallisce il tentativo di conciliazione, il
datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.
Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si applicano
le disposizioni in materia di Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI) e può essere previsto, al fine di
favorire la ricollocazione professionale del lavoratore, l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia interinale.
Inoltre, il comportamento complessivo delle parti, desumibile anche dal verbale redatto in sede di
commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla stessa, è valutato dal
giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 St. lav.
Per evitare che il lavoratore, in vista del licenziamento preannunciato, dichiari una malattia di comodo per
sospendere il decorso del termine di preavviso, il legislatore, con norma antiabuso, prevede che il
licenziamento produca effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato
avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva.
La sanzione per il licenziamento intimato senza tale procedura preventiva è un'indennità da 6 a 12 mensilità.
L'OFFERTA DI CONCILIAZIONE
L'art. 6, d. lgs. 23/2015 prevede un'offerta di conciliazione per i licenziamenti intimati ai lavoratori assunti
dopo l'entrata in vigore di questo decreto. Il datore di lavoro può offrire al lavoratore licenziato, entro 60
giorni dal licenziamento, una somma pari a una mensilità di retribuzione per ogni anno di sevizio e
comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18. La conciliazione deve avvenire nelle sedi assistite previste
dalla legge, la somma deve essere erogata mediante assegno circolare e il lavoratore che accetta questa
somma deve rinunciare all'impugnazione del licenziamento.
IL TERMINE DI DECADENZA
il lavoratore può impugnare il licenziamento sia in via stragiudiziale (con un semplice atto scritto idoneo a
rendere nota la volontà di contestazione del lavoratore, senza richiedere l’intervento del giudice) sia in via
giudiziale, facendo ricorso al giudice del lavoro.
Il procedimento attuale (post riforma Fornero) della legge 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) è:
1) primo termine di decadenza: entro 60 giorni dalla comunicazione scritta del licenziamento e relativi
motivi, "a pena di decadenza, il lavoratore deve impugnare il licenziamento" legge 604/1966 in
modo che il datore sia tutelato sapendo in breve tempo se il licenziamento da lui intimato è o meno
contestato dal lavoratore;
2) secondo termine di decadenza: entro 180 giorni dalla prima impugnazione (270 giorni per i licenziamenti
intimati prima della riforma Fornero) per depositare il ricorso in tribunale, oppure "comunicare al datore di
lavoro la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato" artt. 409 e 410 cod.
proc. civ. (prima tale tentativo era obbligatorio);
3) in questo secondo caso, se la richiesta di conciliazione o arbitrato viene rifiutata oppure non si
raggiunge l’accordo, il lavoratore ha 60 giorni per depositare il ricorso in tribunale.
I termini di decadenza (60 giorni prima per la prima impugnativa e 180 per quella giudiziale successiva)
sono termini di decadenza sostanziale, ossia per essi non operano cause di sospensione o interruzione, ad
eccezione del caso in cui sia richiesto il tentativo di conciliazione. Tale richiesta sospende il decorso di ogni
termine di decadenza per la durata di tale tentativo e per i venti giorni successivi alla sua conclusione.
La decadenza in esame si applica al lavoro sia privato che pubblico, in tutti i casi di invalidità di
licenziamento (discriminatorio, disciplinare, matrimonio, motivo illecito/frode di legge, per scadenza del
comporto di malattia o infortunio) escluso quello orale, nell'impugnazione del trasferimento d'azienda, nella
somministrazione irregolare. Con la riforma del 2012, inoltre, è venuta meno, in ordine alla decadenza, ogni
differenza di disciplina tra licenziamento individuale e collettivo.
Infine, va notato che, una volta scaduti i termini di decadenza, il licenziamento, anche se illegittimo, non
può più essere impugnato, mentre resta possibile solo una eventuale azione per risarcimento danni nei con-
fronti del datore, quando ne ricorrono le condizioni, come potrebbe essere nel caso del licenziamento
ingiurioso, ossia nel licenziamento intimato con modalità da offendere la dignità del lavoratore.
L’AUTORE DELL’IMPUGNAZIONE
L’impugnazione deve sempre essere sottoscritta dal lavoratore ed eventualmente anche dall’avvocato
difensore. L’impugnativa giudiziale può essere sottoscritta dal solo avvocato, al quale il lavoratore abbia
conferito procura alle liti. L'impugnativa stragiudiziale deve essere sottoscritta dal lavoratore, quindi non
basta la sottoscrizione di un legale privo di apposita procura scritta.
Una eccezione a tali principi è quella che consente l’impugnazione attraverso l’intervento dell’organizzazio-
ne sindacale (non è necessaria la procura scritta da parte del lavoratore).
3) TUTELA INDENNITARIA FORTE (comma 5): è prevista solo una indennità onnicomprensiva da 12
a 24 mensilità, in relazione all'anzianità del lavoratore, il numero dei dipendenti, le dimensioni dell'impresa,
il comportamento delle parti e le loro condizioni.
Esempi di applicazione: ingiustificatezza del licenziamento nei casi meno gravi (al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo quando il fatto invocato sia infondato); violazione delle procedure di
licenziamento collettivo.
4) TUTELA INDENNITARIA DEBOLE (comma 6): è prevista solo una indennità onnicomprensiva da 6
a 12 mensilità.
Esempi di applicazione: vizi formali del licenziamento (violazione dell'obbligo di motivazione; della
procedura amministrativa prevista per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo all'art. 7
legge 604/1966; della procedura del licenziamento disciplinare dell'art. 7 stat. Lav.).
Il d. lgs. 23/2015 ha modificato la tutela reale per i lavoratori assunti dopo l'entrata in vigore di questo
decreto e per i datori di lavoro che raggiungeranno i requisiti dimensionali previsti dall'art. 18, c. 8-9, Statuto
dei Lavoratori
In questi casi la tutela reale reintegratoria vige solo per i licenziamenti nulli o intimati in forma orale, per
l'unica ipotesi di ingiustificatezza qualificata o per licenziamenti motivati con l'inidoneità fisica o psichica
sopravvenuta. Le piccole imprese che non raggiungano i requisiti dimensionali previsti applicano la tutela
reale solo per i licenziamenti nulli o orali.
L'obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro sancito nella sentenza di reintegro del lavoratore non può
essere eseguito coattivamente, poiché si tratta di un obbligo di fare infungibile, che può essere eseguito
solo dal datore di lavoro e non da altri soggetti, quindi neppure da ufficiali giudiziari o da altri soggetti
incaricati dal Tribunale.
La reintegra può, dunque, avvenire solo a seguito di una esecuzione spontanea dell’ordine del giudice, da
parte del datore a cui l’ordine è rivolto.
Se il datore non esegue l’ordine, non sorge a suo carico neppure una responsabilità penale, ma il lavoratore
ha diritto a ricevere comunque le retribuzioni e può presentare un’azione risarcitoria per i danni subiti.
Se il datore intende reintegrare il lavoratore, comunicherà al lavoratore un invito a riprendere il servizio e il
lavoratore deve obbedire entro 30 giorni, altrimenti il rapporto si intende automaticamente risolto.
Il lavoratore, che accolga l’invito, deve essere adibito allo stesso posto che occupava prima del
licenziamento, ma il datore, subito dopo la reintegra, può adottare un provvedimento di trasferimento se
ricorre la necessaria giustificazione oppure può adibire il lavoratore a mansioni equivalenti. Il lavoratore
reintegrato, inoltre, deve restituire l’indennità di mancato preavviso e il TFR che aveva ricevuto dopo il
licenziamento, poi dichiarato illegittimo.
L'ordine di reintegrazione è precluso o superato qualora sopravvenga un fatto estintivo del rapporto, come
la morte o le dimissioni del lavoratore, la risoluzione automatica del rapporto oppure un nuovo licenziamento
non impugnato nel medesimo processo.
In tal caso il giudice che accerti l'illegittimità con tutela reale del licenziamento originario deve limitarsi alla
condanna risarcitoria fino al momento della sopravvenuta causa estintiva.
Può accadere che la sentenza di primo grado abbia disposto il reintegro e che il datore lo abbia eseguito, ma
successivamente la sentenza di secondo grado accerta che il licenziamento era giustificato e che non doveva
esservi alcun reintegro (riforma della sentenza): in tal caso, il datore, senza dovere attendere che la nuova
sentenza passi in giudicato, può subito allontanare nuovamente il lavoratore, senza la necessità di un nuovo
formale licenziamento.
Quando sussista un periculum in mora, di natura alimentare o per l'immagine di solito, il lavoratore poteva
avvalersi del procedimento d'urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., per ottenere la sospensione dell'efficacia
del licenziamento.
Dopo il 2012 e l'introduzione del rito speciale, questo a tutela cautelare è diventata del
tutto eccezionale.
In definita, il lavoratore vittima di un licenziamento illegittimo, può presentare un ricorso, con queste
domande conclusive:
in via principale, richiedere l’applicazione della tutela reale per i licenziamenti vietati o orali (art. 18,
c. 1 St. lav.);
in via subordinata, richiedere la tutela reale della ingiustificatezza qualificata;
in via subordinata, richiedere la tutela indennitaria dell’ingiustificatezza semplice;
chiedere la tutela indennitaria dimezzata (che prevede un’indennità minore rispetto alle altre ipotesi)
per eventuale vizio procedimentale.
Il d. lgs. 23/2015 ha modificato la tutela reale per i lavoratori assunti dopo l'entrata in vigore di questo
decreto e per i datori di lavoro che raggiungeranno i requisiti dimensionali previsti dall'art. 18, c. 8-9, Statuto
dei Lavoratori
LE TUTELE GENERALI
Per i licenziamenti vietati o orali è sempre applicabile l'apposita tutela reale. Anche la regola di
giustificazione necessaria del licenziamento è stata generalizzata a prescindere da ogni limite dimensionale,
con la sola eccezione dei residui casi di licenziamento libero.
Intendendo per tutela reale, la tutela consistente nel diritto al reintegro nel posto di lavoro in favore del la-
voratore licenziato e nel pagamento di una indennità risarcitoria, essa, all’esito della riforma Fornero si ap-
plica nei seguenti casi:
In tutti i casi in cui non si applica la tutela reale speciale, il lavoratore potrà avere diritto solo ad
un’indennità, ma non al reintegro nel posto di lavoro (es. licenziamento privo di motivazione, licenziamento
ingiustificato nelle minori organizzazioni).
Rientra nelle maggiori organizzazioni il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che occupa alle
sue dipendenze, nella sede o unità produttiva in cui è avvenuto il licenziamento, più di 15 lavoratori o più di
5 se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che
nell’ambito dello stesso comune occupa più di 15 dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito
territoriale occupa più di 5 dipendenti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore,
che, indipendentemente dal numero di lavoratori occupati per ciascuna unità produttiva, occupa più di 60
dipendenti.
Il riferimento al numero dei dipendenti, invece che ad altri elementi, appare congruo sia per l'identificazione
dell'unità produttiva sia per l'individuazione del datore di lavoro ritenuto in grado di sopportare il costo
aggiuntivo del risarcimento fino all'effettiva reintegrazione e dell'indennità sostitutiva di questa richiesta del
lavoratore.
Unità produttiva (art. 18, c. 1, Stat. Lav.): articolazione organizzativa (sede, stabilimento, ufficio, reparto)
idonea a conseguire anche in parte, con autonomia amministrativa e funzionale, lo scopo del datore di lavoro,
secondo una definizione valida per tutte le disposizioni che riferiscono a tale
unità.
Ai fini del computo dal numero dei dipendenti in ciascuna unità produttiva, si considerano i dipendenti e i
prestatori occupati alle dipendenze del datore di lavoro, con esclusione dei lavoratori non subordinati
(lavoratori autonomi, parasubordinati, amministratori, soci di cooperative).
L'organico da prendere in considerazione è quello normale, costante nel tempo, con irrilevanza dei fattori di
variabilità transitoria.
I lavoratori a termine sono computabili solo quando siano addetti ad esigenze non provvisorie ed occasionali.
Si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario
effettivamente svolto e i lavoratori in trasferta e quelli che operano normalmente all'esterno dell'unità
produttiva di appartenenza.
Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea
collaterale. Non si computano neppure gli apprendisti, i lavoratori con contratto di formazione e lavoro, i
lavoratori somministrati, i lavoratori a domicilio subordinati.
I dipendenti di società collegate, le quali sono soggetti giuridici distinti con la conseguente autonomia dei
rispettivi rapporti di lavoro, non possono cumularsi tra loro, salvo l'accertamento di una effettiva volontà di
costituzione di tutti i rapporti con un unico datore di lavoro o di una utilizzazione fraudolenta dello schema
societario (unica struttura organizzativa e unico centro decisionale, con adibizione mista dei dipendenti).
La tutela reale, dunque, non si applica alle minori organizzazioni, ma non si applica neppure, qualunque sia
la loro dimensione, alle organizzazioni di tendenza, ossia i datori di lavoro non imprenditori che svolgono
senza fini di lucro attività di natura, politica, sindacale, culturale, di religione.
A tali organizzazioni¸ così come a quelle di minori dimensioni, si applica la tutela obbligatoria, ossia la tutela
indennitaria minore prevista dall’art. 8 della legge 604/1966, già indicata (vedi par. 69.2).
La tutela reale, inoltre, a prescindere dalle dimensioni dell’organizzazione, si applica nei casi indicati dal-
l’art.18 Stat. lav. commi 1-3, ossia al licenziamento orale, discriminatorio, per motivo illecito, nei periodi di
interdizione per matrimonio e maternità, ed anche ai rapporti di lavoro pubblico privatizzati (per questi ulti -
mi è prevista l’applicazione della tutela reale ex. art. 18 Stat. lav. a prescindere dal numero dei dipendenti).
Il licenziamento libero è previsto anche per i lavoratori ultrasessantenni che abbiano già maturato il diritto
alla pensione di vecchiaia, avendo essi raggiunto il reddito previdenziale, che rende tollerabile la perdita
eventuale del posto di lavoro anche se priva di giustificazione. Nei confronti di questi ultimi, la maturazione
del diritto alla pensione non determina automaticamente l’estinzione del rapporto, ma libera il datore dal
vincolo della giustificazione e rende possibile il licenziamento in qualunque momento, salvo che per motivi
discriminatori.
Peraltro, allorché esisteva una diversa età pensionabile per uomini (60 anni) e donne (55 anni), le donne
potevano essere sfavorite perché maturando prima il diritto alla pensione, esse potevano essere licenziate
liberamente dal datore prima rispetto agli uomini.
Questa disparità di trattamento fu dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale ed una legge del 1990
previde che anche per le donne la possibilità del licenziamento libero dovesse attivarsi solo al compimento
del 60° anno di età.
La disparità era stata reintrodotta da ulteriori leggi, ma la situazione può dirsi definitivamente risolta in
radice dalla legge 214 del 2011 che ha fissato un’unica età pensionabile (67 anni) per uomini e donne.
Per i rapporti di lavoro con la PA, non opera il licenziamento libero per i lavoratori pensionabili, ma i
contratti collettivi prevedono che il dipendente, raggiunta l’età del pensionamento, venga collocato a riposo
obbligatorio senza preavviso e non è consentita una ulteriore prosecuzione del rapporto che, invece, è
possibile nel lavoro privato, finché nessuna delle due parti eserciti il recesso.
È fatta comunque salva la possibilità (esclusa solo per magistrati, dirigenti medici e professori universitari)
che l’amministrazione risolva unilateralmente il rapporto con un preavviso di 6 mesi, nel caso di
compimento dell’anzianità massima di servizio effettivo di 40 anni.
I dirigenti medici e del ruolo sanitario del SSN hanno diritto a rimanere in servizio oltre i 65 e al massimo
fino ai 70 anni di età al fine di raggiungere i 40 anni di servizio effettivo.
B) IL LICENZIAMENTO COLLETTIVO
Prima della legge 223/1991, la disciplina del licenziamento collettivo era affidata agli accordi
interconfederali per l’industria del 20 dicembre 1950 e del 5 maggio 1965, che prevedevano un’apposita
procedura sindacale. L’Italia era stata anche sanzionata dalla Corte di Giustizia europea per non aver attuato
una direttiva comunitaria del 1975, ma in realtà si era sviluppata una seria protezione contro il licenziamento
collettivo, ritenuta conforme alla Costituzione della Corte Costituzionale (1985).
In base a tale disciplina, il licenziamento era considerato collettivo, anche in settori privi di accordo
collettivo, solo in presenza dei seguenti requisiti: pluralità di licenziamenti; scelta datoriale di riduzione o
trasformazione di attività o lavoro; nesso di causalità tra l’insindacabile scelta economica e la soppressione di
un certo numero e posti di lavoro; rispetto delle procedure sindacali applicabili.
La legge 223 del 1991 disciplina il licenziamento collettivo e il collocamento in mobilità: tale collocamento
è anch’esso un licenziamento collettivo, che prende il nome di collocamento di mobilità quando viene
intimato, quando viene applicato da un’impresa già ammessa al trattamento di integrazione salariale
straordinaria a quei lavoratori sospesi che divengano definitivamente esuberanti, ossia non più riassumibili.
Le uniche differenze attengono al fatto che per il collocamento in mobilità non è richiesto il numero minimo
di 5 licenziamenti ed al fatto che l’indennità di mobilità è sempre dovuta ai lavoratori collocati in mobilità,
mentre i lavoratori soggetti al licenziamento collettivo hanno diritto a tale indennità solo se l’azienda rientri
in astratto nel campo di applicazione della CIGS.
La legge si applica alle imprese che occupino più di 15 dipendenti e, limitatamente al collocamento in
mobilità, alle imprese che abbiano occupato mediamente più di 15 lavoratori nel sempre precedente la data di
presentazione della richiesta.
La legge si applica anche ai datori non imprenditori. Sono esclusi, quindi, i datori di lavoro, imprenditori
e non, con meno di 16 dipendenti, i quali possono intimare solo licenziamenti sottoposti alla disciplina legale
del licenziamento individuale.
I presupposti per il licenziamento collettivo sono gli stessi indicati dai precedenti accordi interconfederali
(pluralità di licenziamenti; scelta datoriale di riduzione o trasformazione di attività o lavoro; nesso di
causalità tra l’insindacabile scelta economica e la soppressione di un certo numero e posti di lavoro; rispetto
delle procedure sindacali applicabili) ma con la peculiarità che i licenziamenti devono essere almeno 5,
limite richiesto per il licenziamento collettivo, ma non anche per il collocamento in mobilità.
In ogni caso, la valutazione del datore che effettua il licenziamento collettivo circa l’impossibilità di utilizza-
zioni alternative dei lavoratori licenziati rappresenta un giudizio di convenienza economica che il giudice
non può sindacare.
LA PROCEDURA
Al fine di consentire il controllo sindacale sui licenziamenti collettivi, la legge impone una procedura molto
articolata: il mancato rispetto della procedura comporta l’inefficacia dei licenziamenti intimati e
l’eventuale condotta antisindacale del datore.
In particolare, la procedura prevede le seguenti fasi:
1. Comunicazione obbligatoria Il datore deve comunicare la sua intenzione di procedere al
licenziamento collettivo, alle r.s.a., dove esistenti, ed ai sindacati territoriali, nonché alla Direzione
regionale del Lavoro. In tale comunicazione, Il datore deve indicare perché è inevitabile il
licenziamento collettivo, quali posizioni lavorative intende sopprimere, quali sono i tempi previsti
per i licenziamenti e con quali misure intende affrontare le conseguenze sul piano sociale.
Le informazioni contenute in tale comunicazione sono immodificabili, anche nel giudizio di
impugnazione dei licenziamenti. Il datore, inoltre, se rientrante nel campo di applicazione della
CIGS, deve allegare alla comunicazione la prova del pagamento del contributo previdenziale,
anticipato rispetto agli oneri contributivi legati all’indennità di mobilità.
2. Esame congiunto. Entro 7 giorni dalla comunicazione, r.s.a. e sindacati territoriali possono chiedere
un esame congiunto della situazione per verificare le cause dell’eccedenza di personale e tutte le
misure adottabili per aiutare e riqualificare i lavoratori licenziati.
Se l’esame congiunto tra datore, r.s.a. e sindacati territoriali non sfocia in un accordo entro 45 giorni,
la Regione, che può formulare anche sue proposte, riconvoca le parti per un ulteriore esame, al fine
di raggiungere un accordo entro i successivi 30 giorni (NB. I termini sono ridotti alla metà se le
eccedenze sono inferiori a 10 ed il termine per la consultazione sindacale di 45 giorni è ridotto a 30
giorni per le imprese sottoposte a procedura concorsuale).
Il datore di lavoro, a pena di violazione delle procedure e conseguente inefficacia dei licenziamenti,
deve condurre la consultazione in entrambe le fasi secondo correttezza e buona fede, senza sottrarsi
alle richieste di chiarimenti o di informazioni e ad un leale confronto con i sindacati, le cui proposte
devono essere prese in considerazione.
3. L’accordo. il datore non è obbligato a raggiungere un accordo con i sindacati per la determinazione
delle modalità di licenziamento. Tuttavia, il datore è incoraggiato a concludere l’accorso attraverso
varie previsioni incentivanti, come la possibilità di accordare un’indennità di mobilità di importo
inferiore, la possibilità di adibire i lavoratori anche a mansioni inferiori, la possibilità di modificare il
termine ordinario di 120 giorni entro cui vanno intimati i licenziamenti, dopo la conclusione della
procedura. I vizi della procedura possono essere sanati ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un
accordo sindacale concluso nel corso della procedura. Circa l’efficacia, la Corte Costituzionale
ritiene che tali accordi possano avere efficacia generale senza violare l’art. 39 Cost.: tali accordi non
sono contratti normativi in quanto non fanno uso di un autonomo potere normativo ma stabiliscono
criteri, per le procedure di mobilità, in applicazione di una norma di legge.
Una volta conclusa la procedura, il datore può procedere, nel termine di 120 giorni, ad intimare per iscritto
e con preavviso i licenziamenti ai lavoratori.
La scelta di quali lavoratori licenziare deve avvenire, a pena di nullità, secondo i criteri previsti dai contratti
collettivi, o in mancanza, secondo i criteri indicati dalla legge.
Il licenziamento collettivo della lavoratrice madre è consentito solo in caso di cessazione dell'attività
dell'azienda. In ogni caso deve essere salvaguardata la proporzione della manodopera femminile occupata
nelle mansioni esuberanti, essendo vietata ogni discriminazione per sesso, diretta e indiretta.
I criteri sono quelli già indicati nei precedenti accordi interconfederali e devono essere generali ed obiettivi,
non possono violare norme imperative né il divieto di discriminazioni e possono prevedere la prevalenza
delle esigenze tecnico produttive e l'espulsione prioritaria dei lavoratori prepensionabili; si devono tenere
presenti, anche in concorso tra loro, 3 criteri:
i carichi di famiglia;
l’anzianità di servizio;
esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
Il datore deve poi comunicare ai sindacati l’elenco dei lavoratori scelti e le modalità di applicazione dei
criteri di scelta. Tali dichiarazioni sono immodificabili nell’eventuale successivo giudizio di impugnazione.
In ogni caso, se tale comunicazione non viene fatta, i licenziamenti restano efficaci, ma per la violazione
della procedura è prevista una tutela indennitaria.
A ciò va aggiunto che i lavoratori licenziati collettivamente hanno diritto di precedenza in caso di nuove
assunzioni effettuate dal medesimo datore di lavoro entro 6 mesi dal licenziamento.
LE SANZIONI
Per la forma e i termini di impugnazione dei licenziamenti collettivi si applicano le regole previste per il
licenziamento individuale. Inoltre, al licenziamento collettivo intimato senza la forma scritta, si applica il
regime di tutela reale ex. art. 18 Statuto dei Lavoratori.
Il licenziamento viziato nella forma, sia esso collettivo o individuale, può essere ripetuto nel rispetto della
forma prescritta, non essendo un ostacolo per il periodo massimo di conclusione della procedura per il
licenziamento collettivo.
Nel caso di violazione delle procedure, la sanzione è quella dell’indennità da 12 a 24 mensilità ed è quindi
prevista la stessa sanzione sancita per l’ingiustificatezza semplice del licenziamento individuale.
Per la violazione dei criteri di scelta, si applica la stessa tutela reale prevista per l’ingiustificatezza qualificata
del licenziamento individuale.
Nel caso che invece si accerti che i licenziamenti collettivi non avevano presupposti sostanziali per esse tali,
ad essi si applicherà la normativa propria dei licenziamenti individuali.
Al recesso intimato da datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura
politica, sindacale, culturale, di istruzione oppure di religione o di culto si applicano le disposizioni di cui
alla legge 15 luglio 1966, n. 604.
Quindi, nelle aziende di tendenza la tutela reale si applica solo per il vizio di forma e per i licenziamenti
vietati dall’art. 18 Stat. lav. comma 1 (discriminatori, per motivo illecito, ecc.).
I lavoratori licenziati collettivamente e collocati in mobilità, possono contare sugli ammortizzatori sociali
(Casse integrazione), grazie ai quali sono inseriti nelle liste di mobilità, per agevolare il loro inserimento nel
mercato del lavoro e favorendo una ricollocazione congrua al profilo professionale del lavoratore stesso, e
hanno diritto ad uno speciale sussidio di disoccupazione (indennità di mobilità) in attesa della nuova
occupazione.
L'indennità non è prevista nel settore bancario ed assicurativo.
Nel caso in cui ci siano i presupposti sostanziali del licenziamento collettivo, ma uno o più licenziamenti
siano viziati per violazione dei criteri di scelta con conseguente reintegrazione dei lavoratori illegittimamente
licenziati, il datore di lavoro ha facoltà di licenziare un numero di lavoratori pari a quello dei lavoratori
reintegrati senza dovere porre in essere una nuova procedura, purché lo comunichi alle r.s.a.
Va ricordato, infine, che i contratti collettivi aziendali e territoriali stipulati dai sindacati maggiormente rap-
presentativi possono derogare alle disposizioni di legge relative alle conseguenze del licenziamento, per cui
possono, anche per il licenziamento collettivo, escludere la tutela reale o l’indennità sostitutiva di reintegra-
zione.
LE DIMISSIONI
Il rapporto di lavoro si estingue inoltre in un'altra serie di ipotesi previste specificatamente previste dalla
legge, come la mancata tempestiva ripresa del servizio da parte del lavoratore in seguito a reintegrazione
giudiziale, la mancata ripresa del servizio da parte del lavoratore al termine del servizio militare, la condanna
irrevocabile del pubblico dipendente ad almeno 3 anni di reclusione per alcuni reati contro la PA.