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Il patto di non concorrenza:

26 Gennaio 2022
l'evoluzione
 giurisprudenziale

Patto di concorrenza: ambito di Patto di concorrenza: la La violazione del patto di non


applicazione ed elementi determinazione del concorrenza
essenziali corrispettivo


Circolari 24 Lavoro / Il Sole 24 ORE 26 Gennaio 2022

RAPPORTO DI LAVORO

Patto di concorrenza: ambito di applicazione ed


elementi essenziali
A CHI SI RIVOLGE

 DATORI DI LAVORO  LAVORATORI  PROFESSIONISTI


Tutti i datori di lavoro privati In costanza e dopo la Consulenti del Lavoro,
cessazione del rapporto di Avvocati, Commercialisti
lavoro

ABSTRACT
Il rapporto di lavoro tra lavoratore e datore di lavoro rinviene la
propria fonte principale nel contratto individuale di lavoro, accordo
sinallagmatico ed a titolo oneroso da cui discendono diritti ed
obblighi in capo ad entrambe le parti. Gli obblighi del prestatore di
lavoro, contraente debole del rapporto, sono enucleati dagli artt.
2104 e segg. cod. civ.: obbligo di diligenza (art. 2104, c. 1, c.c. );
obbligo di obbedienza (art. 2104, c. 2, c.c. ); obbligo di fedeltà (art.
2105 c.c. ). L'obbligazione che rileva in tal sede è quella di fedeltà,
che si articola, a sua volta, in due distinti doveri: il dovere di
segretezza, in ossequio al quale è vietata la divulgazione nonché
l'utilizzo di notizie attinenti all' organizzazione ed ai metodi di
produzione dell'impresa; il divieto di concorrenza con
l'imprenditore, essendo preclusa al lavoratore la trattazione di
affari, per conto proprio o di terzi, allorquando concorrenziali
rispetto all'attività espletata dal datore di lavoro (a cura di Massimo
Braghin e Innocenzo Megali)

COMMENTO
Il divieto di concorrenza permane per tutta la durata del rapporto di lavoro e, di regola, decade
con la sua cessazione (venendo meno l'operatività dell'art. 2105 c.c. ).
La legge, tuttavia, accorda all'autonomia negoziale delle parti la facoltà di concludere un
"patto di non concorrenza", definibile come accordo scritto intercorrente tra datore di lavoro e
lavoratore con il quale quest'ultimo si vincola, verso la corresponsione di una somma di
denaro o di altra utilità, ad astenersi, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto
lavorativo, dallo svolgimento di attività, in proprio o alle dipendenze di altri, in concorrenza

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con il precedente datore di lavoro.


Il patto di non concorrenza ha natura giuridica di contratto a prestazioni corrispettive ed a
titolo oneroso. La causa tipica, dunque, consiste nello scambio sinallagmatico tra
un'obbligazione di non facere ed il pagamento di un compenso.
Tale accordo può essere raggiunto in qualsiasi momento dello svolgimento del rapporto
(anche posteriormente alla sua conclusione) e può essere stipulato tanto nell'ambito di un
rapporto di lavoro subordinato, quanto in ipotesi di lavoro autonomo o parasubordinato.
Il patto di non concorrenza è uno strumento astrattamente idoneo ad arrecare un
apprezzabile pregiudizio al lavoratore. Ed invero, allorquando l'oggetto dell'accordo sia
eccessivamente ampio, potrebbe impedire al lavoratore di esplicare la propria professionalità,
al punto di comprometterne ogni potenzialità reddituale (in spregio all' art. 36 della
Costituzione).
Per le ragioni sopra addotte il legislatore ha limitato l'autonomia negoziale delle parti
prevedendo, per il contratto in esame, dei requisiti a pena di nullità (art. 2125 c.c. ):

1) forma scritta ab substantiam;


2) definizione dell'oggetto, ossia delle specifiche attività precluse al lavoratore;
3) durata predefinita;
4) individuazione di un ambito territoriale di operatività;
5) determinazione di un corrispettivo a favore del lavoratore (verrà analizzato nella seconda
parte).

La ratio di tale disposizione normativa va rivenuta nell'esigenza di contemperare due


contrapposti diritti, entrambi di rango costituzionale: garantire all'imprenditore la tutela del
proprio patrimonio immateriale (bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo
successo rispetto alle imprese concorrenti) e, contestualmente, assicurare al prestatore di
lavoro la possibilità di trovare una nuova e soddisfacente occupazione con salvaguardia del
patrimonio professionale; in altre parole, la facoltà di continuare ad espletare attività coerenti
con le attitudini e capacità professionali medio tempore acquisite.

Gli elementi essenziali del patto di non concorrenza

1. La forma scritta
Il patto deve risultare da atto scritto, con sottoscrizione di entrambe le parti, a pena di nullità.
L'accordo può essere contenuto nel contratto individuale di lavoro o formare oggetto di
separata pattuizione, stante la sua natura contrattuale ed essendo dotato di causa autonoma.
La giurisprudenza di merito ha chiarito come, ai fini della validità del suddetto contratto, non
sia necessaria la specifica approvazione per iscritto ai sensi dell'art. 1341, c.2., c.c. . Tale
seconda sottoscrizione, tuttavia, diviene imprescindibile per la validità del patto qualora il
medesimo sia inserito in un complesso di condizioni contrattuali, come nell'ipotesi di
contratto concluso tramite moduli o formulari (ex multis Trib. Milano 27 settembre 2005;
Trib. Milano 22 ottobre 2003).

2. L'oggetto definito: predeterminazione delle attività precluse


Altro requisito imprescindibile di validità del patto è l'accurata previsione delle attività

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oggetto dell'obbligazione di non facere assunta dal lavoratore.


La limitazione può concernere le mansioni svolte nel corso del rapporto di lavoro, ma altresì
tutte quelle attività lavorative idonee, seppur astrattamente, a competere con quella
imprenditoriale.
Devono tuttavia escludersi tutte quelle attività estranee allo specifico settore produttivo o
commerciale nel quale opera il datore di lavoro, in quanto inidonee ad integrare concorrenza
(cfr. Cass. Sent. 19 novembre 2014, n. 24662 ).
Stante la potenziale ampiezza dell'oggetto del patto, la giurisprudenza è intervenuta in
plurime occasioni a tutela del lavoratore al fine di impedire un'eccessiva estensione del
vincolo: secondo l'orientamento pressoché unanime in seno alla giurisprudenza di legittimità,
il patto di non concorrenza è nullo allorquando reprima l'estrinsecazione della capacità
professionale del lavoratore impedendogli altresì di produrre ricchezza (cfr. Cass. Ord.10
luglio 2020, n. 9790 ; Cass. Sent. 4 aprile 2006, n. 7835 ; Cass. Sent. 10 settembre 2003, n.
13283 ).
Tale tesi è stata pacificamente accolta anche dalla giurisprudenza di merito (cfr. Corte
d'Appello di Milano, 11 settembre 2019 ; Tribunale di Firenze, 19 settembre 2019 ; Tribunale di
Pordenone, 4 novembre 2011).
Preme infine evidenziare come, mediante tale contratto, il lavoratore possa altresì obbligarsi
a non svolgere determinate attività a favore di specifici soggetti.

3. La durata predefinita
Il divieto di concorrenza deve essere circoscritto entro determinati limiti di tempo.
La durata del vincolo non può essere superiore a 5 anni se il lavoratore appartiene alla
categoria professionale dei dirigenti, e ad anni 3 nelle altre ipotesi.
Il termine di durata del contratto decorre dal primo giorno successivo alla cessazione
dell'attività lavorativa.
Qualora le parti pattuiscano una durata maggiore a quella normativamente prevista, essa si
riduce ope legis nelle misure suindicate (art. 2125, c. 2., c.c. ).
È rimessa al giudice di merito la valutazione sulla congruità della durata pattuita, fermo
restando il pedissequo rispetto dei suddetti limiti.

4. Ambito territoriale di operatività circoscritto


L'obbligo di non facere gravante sul lavoratore deve essere circoscritto a specifici e
predeterminati ambiti territoriali. Un tanto a pena di nullità.
A titolo esemplificativo, il giudice potrebbe accertare e dichiarare la nullità del patto
allorquando le indicazioni territoriali siano eccessivamente generiche o troppo estese (cfr.
Trib. Pordenone, 5 giugno 2014 ; Trib. Ravenna, 24 marzo 2005 ).
Con riferimento a tale, essenziale, requisito non ci si può esimere dallo specificare come la sua
sussistenza e, dunque, la consequenziale validità del patto di non concorrenza, vada accertata
facendo riferimento alle specifiche circostanze della fattispecie concreta, non essendo agevole
fornire indicazioni generiche.
Ed invero, l'indicazione di una circoscrizione territoriale prima facie esorbitante potrebbe
essere contemperata da un oggetto ristretto, con conseguente legittimità del patto. Per

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converso, un oggetto piuttosto ampio potrebbe essere ritenuto legittimo se contenuto in uno
spazio geografico esiguo.
Anche in tale ipotesi la valutazione di congruità del patto è demandata all'organo giudicante
ed è frutto di un contemperamento tra le esigenze dell'azienda ed il diritto del dipendente di
produrre un reddito idoneo a garantirgli un'esistenza libera e dignitosa.

SI RICORDA CHE
Nell'ipotesi di lavoro subordinato ai sensi dell' art. 2094 c.c. , destinatari dell'obbligo possono
essere tanto dirigenti e soggetti apicali quanto operai e commessi (cfr. Cass. Sent. 10
settembre 2003 n. 13283 ); allorquando le mansioni abbiano carattere esecutivo, la valida
stipula di un patto di non concorrenza presuppone, in capo al prestatore di lavoro, i requisiti
dell'esperienza e della capacità di attrarre clientela (cfr. Cass. Sent. 19 aprile 2002 n. 5691 ).

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RAPPORTO DI LAVORO

Patto di concorrenza: la determinazione del


corrispettivo
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lavoro

ABSTRACT
Il patto di non concorrenza è un contratto sinallagmatico a titolo
oneroso: ne consegue la necessaria pattuizione di un corrispettivo a
fronte dell'obbligo di non facere assunto dal lavoratore, senza cui il
patto si palesa irrimediabilmente nullo (a cura di Massimo Braghin
e Innocenzo Megali)

COMMENTO
Le caratteristiche del corrispettivo
Affinché il patto di non concorrenza sia valido il corrispettivo convenzionalmente stabilito
deve essere:

A) determinato (o quantomeno determinabile ex art. 1346 c.c. ) nel suo ammontare al


momento della stipulazione del patto;
B) congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore, costituendo il prezzo di una parziale
rinuncia al diritto al lavoro costituzionalmente garantito (ex multis Cass., Sent. 1°marzo 2021
n. 5540 ).

L'entità del compenso va parametrata agli altri elementi essenziali del patto di non
concorrenza e dovrà essere tanto maggiore quanto più sia:

– elevata la posizione gerarchica del lavoratore e la retribuzione;


– ampio il vincolo territoriale;
– ampio il novero delle attività individuate come concorrenti;
– estesa la durata.

Ne discende la nullità del patto allorquando il predetto compenso sia:

– meramente simbolico;

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– manifestamente iniquo o sproporzionato rispetto al sacrificio a cui si vincola il prestatore di


lavoro a fronte della sottoscrizione del contratto stesso.

Preme altresì rilevare come, nell'ipotesi di squilibrio economico dell'assetto negoziale, il


lavoratore potrebbe astrattamente attivare, allorquando ne sussistano presupposti, i rimedi di
diritto comune, agendo per la rescissione del patto ai sensi dell'art. 1448 c.c. o per la
risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell'art. 1467 c.c. Una tale
eventualità è tuttavia remota a causa delle rigorose condizioni richieste dalle disposizioni
normative succitate: si ritiene pertanto preferibile agire per l'accertamento giudiziale della
nullità del patto per iniquità ai sensi dell'art. 2125 c.c. .

Questioni giurisprudenziali sulla determinatezza e congruità del corrispettivo


Secondo la giurisprudenza di merito ad oggi prevalente, l'entità del corrispettivo non può
essere ancorata alla durata del rapporto di lavoro, per due distinte ragioni: una tale previsione
sarebbe manifestamente aleatoria nonché indeterminata; il corrispettivo non assolverebbe
più alla sua funzione tipica - compensare il lavoratore per il sacrificio che si vincola a
sopportare – divenendo mero strumento finalizzato a premiare la fedeltà del prestatore di
lavoro (cfr. Corte d'Appello di Venezia, Sent. 12 settembre 2019 ; Corte d'Appello di Milano,
Sez, Lav., 28 dicembre 2017 n. 1884 ; Trib. Milano, Sez. Lav., 28 settembre 2010; Trib. Milano,
Sez. Lav., 19 marzo 2008; Trib. Milano, Sez. Lav., 18 giugno 2001). Le predette pronunce,
pertanto, hanno ritenuto nullo il patto di concorrenza per aleatorietà, indeterminatezza ed
incongruità del corrispettivo versato in costanza di rapporto di lavoro.
La questione, tuttavia, è ancora controversa.
Dalla tesi poc'anzi prospettata si è in parte discostata la Corte di Cassazione, chiarendo come
la nullità di una simile pattuizione non possa essere presunta, ma vada accertata in relazione
alle peculiarità del caso concreto. In altre parole, allorquando il corrispettivo non sia certo nel
suo ammontare ma dipenda dalla durata del rapporto di lavoro, il patto di concorrenza è
affetto da nullità solo se, all'esito di una sua analisi sistematica, risulta l'indeterminatezza o
l'incongruità del compenso stesso. Nelle altre ipotesi il contratto è, per converso, valido ed
efficace (cfr. Cass., Ord. 1° marzo 2021 n. 5540 ).
Il Supremo Collegio ha inoltre ritenuto legittima la previsione di un compenso in costanza di
rapporto destinato ad aumentare con la durata dello stesso, in quanto idonea a contemperare
l'interesse delle parti. Nel caso di specie, la Corte ha rilevato come una più lunga permanenza
in un posto di lavoro specializzante possa rendere più difficile una nuova collocazione sul
mercato (cfr. Cass., Sent. 25 agosto 2021 n. 23418 ).

Tempi e modalità di corresponsione


Nel silenzio della legge possono considerarsi leciti i pagamenti:

– effettuati in costanza di rapporto di lavoro (purché l'importo sia determinato o


determinabile nonché proporzionale), anche rateali;
– versati all'atto della cessazione del rapporto di lavoro (modalità che, di regola, andrebbe
preferita);
– rateali con decorrenza dalla cessazione del rapporto e per tutta la durata del vincolo (con
saldo entro lo spirare del termine finale);

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– corresponsione dell'intero importo una volta cessato il vincolo.

Di regola, tuttavia, il pagamento del corrispettivo dovrebbe avvenire al momento della


cessazione del rapporto di lavoro.
Come già appurato rimane controversa l'ammissibilità del pagamento del corrispettivo
dell'obbligazione di non concorrenza in costanza di rapporto (prima ipotesi enucleta). La
Corte di Cassazione più recente ammette tale eventualità previa verifica della determinatezza
e della congruità del compenso.

Profili contributivi e fiscali


Il trattamento contributivo e fiscale del corrispettivo del patto di non concorrenza è correlato
alle modalità di pagamento.
È anzitutto necessario distinguere tre distinte ipotesi:

a) Corresponsione del compenso in costanza di rapporto.


In tal caso il corrispettivo assume natura retributiva ai sensi dell'art. 51 del testo Unico delle
imposte sui redditi (c.d. TUIR), in ossequio al quale concorrono alla formazione del reddito da
lavoro dipendente "tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel
periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro".
Ne consegue che, in virtù del principio di onnicomprensività e armonizzazione della base
impunibile previdenziale e fiscale, quanto corrisposto al lavoratore a titolo di corrispettivo in
ottemperanza al patto di non concorrenza:

– è ricompreso nell'imponibile previdenziale ed è soggetto a contribuzione;


– è sottoposto a tassazione fiscale ordinaria al pari della normale retribuzione erogata
mensilmente dal datore di lavoro (per la tassazione, dunque, ci si avvarrà della aliquote per
scaglioni di reddito);
– è computabile nel trattamento di fine rapporto.

b) Corresponsione del compenso all'atto della cessazione del rapporto lavorativo, in


adempimento al patto sottoscritto in costanza di rapporto.
La Corte di Cassazione (ex multis Cass. Sent. 15 luglio 2009 n. 16489 ), stante la diretta
riconducibilità del corrispettivo al rapporto di lavoro, ritiene quest'ultimo soggetto a
contribuzione previdenziale.
Per quanto attiene al profilo fiscale, il compenso è soggetto a tassazione separata ai sensi
dell'art. 17, c. 1, lett. a) , in ossequio al quale le somme "attribuite a fronte dell'obbligo di non
concorrenza ai sensi dell'art. 2125 c.c. " rientrano tra le "altre indennità e somme percepite
una volta tanto in dipendenza della cessazione dei rapporti di lavoro dipendente" cui deve
essere riservato il predetto trattamento fiscale.
L'importo così percepito, infine, non sarà computato quale retribuzione utile ai fini del calcolo
del TFR, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2120 c.c. , salvo diversa previsione della
contrattazione collettiva o del contratto individuale di lavoro.

c) Corresponsione del corrispettivo del patto di non concorrenza al di fuori del rapporto di
lavoro

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In merito occorre dapprima osservare come, nell'ipotesi in esame, di patto di non concorrenza
intervenga in assenza di rapporto di lavoro tra le parti, essendo dunque disciplinato dall'art.
2596 c.c. , rubricato "limiti contrattuali alla concorrenza": "il patto che limita la concorrenza
deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una
determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. Se la durata del patto non è
determinata o è stabilita per un periodo superiore a 5 anni, il patto è valido per la durata di un
quinquennio".
Ne discende l'esenzione di tale emolumento, non qualificabile quale elemento retributivo,
dalla contribuzione previdenziale.
Per quel che concerne il trattamento fiscale, l'importo va qualificato come reddito derivante
dalla "assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere" ai sensi dell'art. 67, c. 1, lett. l),
TUIR : colui che versa il corrispettivo è dunque vincolato ad operare, all'atto del pagamento,
una ritenuta del 20 per cento a titolo di acconto dell'Irpef dovuta dai percipienti, con l'obbligo
di rivalsa (art. 25, D.P.R. 600/1973 ).

SI RICORDA CHE
Natura del corrispettivo: il compenso può concretizzarsi tanto nella corresponsione di una
somma di denaro o altra utilità, quanto, a titolo esemplificativo e non esaustivo, nella
remissione di un debito, purché siano rispettati i requisiti già enucleati (determinatezza e
congruità).

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RAPPORTO DI LAVORO

La violazione del patto di non concorrenza


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ABSTRACT
La violazione del patto di non concorrenza costituisce
inadempimento contrattuale e legittima le richieste di adempimento
o di risoluzione del contratto, fatto salvo il diritto ad agire per il
risarcimento del danno patito ai sensi degli artt. 1218 e 1223 c.c. (a
cura di Massimo Braghin e Innocenzo Megali)

COMMENTO
È sempre più frequente l'inserimento nell'accordo di clausole penali, unanimemente ritenute
legittime, fatta salva la facoltà per il giudice di ridurne l'entità qualora sia eccessiva, così come
la richiesta di inibitoria giudiziale di prosecuzione dell'attività concorrenziale.
Ed invero, allorquando il lavoratore violi il patto di non concorrenza, è ammesso il ricorso
d'urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.c. prodromico all'ottenimento di un'Ordinanza di
cessazione dell'attività. Devono ovviamente sussistere i requisiti del fumus boni iuris e del
periculum in mora.
Nel caso in cui il patto sia dichiarato nullo, il datore di lavoro può esercitare l'azione di
ripetizione delle somme corrisposte al lavoratore in esecuzione del patto.

Le vexatae quaestiones in seno alla giurisprudenza

1. Quaestio iuris: il datore di lavoro può recedere unilateralmente dal patto di non concorrenza,
prima della naturale scadenza del termine di durata, in presenza di una clausola contrattuale
che gli attutisca tale potere?
La giurisprudenza (di legittimità nonché di merito) è concorde nel ritenere detta clausola
affetta da nullità per contrarietà a norme imperative, non potendosi concedere al datore di
lavoro il potere unilaterale (nonché arbitrario) di incidere sulla durata temporale del vincolo o
di caducare l'attribuzione patrimoniale pattuita (in tal senso Cass. n. 9491/2003 ; Cass. n.
15952/2004 ; Cass. n. 10535/2020 ).

2. Quaestio iuris: è legittima l'attribuzione al datore di lavoro del diritto potestativo di


concludere, discrezionalmente, il patto di non concorrenza?

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Una tale attribuzione, secondo parte della giurisprudenza, può ritenersi legittima solo
allorquando avvenga ai sensi e nel rispetto dell'art. 1331 c.c. (c.d. contratto d'opzione).
Mediante il contratto d'opzione, una parte, detta promittente (nel caso di specie, il lavoratore)
attribuisce all'opzionario (nella fattispecie de qua, il datore di lavoro) il diritto potestativo di
concludere un contratto - e, pertanto, anche un patto di non concorrenza – attraverso una
dichiarazione unilaterale e recettizia.
Tale diritto potestativo, tuttavia, deve essere esercitato dall'opzionario entro un termine (di
efficacia) fissato nello stesso contratto d'opzione: decorso inutilmente il predetto termine,
l'opzione cesserà di avere efficacia.
Potrebbe astrattamente ritenersi valida ed efficace la stipulazione di un patto di concorrenza
(comprensivo di tutti i requisiti richiesti a pena di nullità) contenente una clausola del
seguente tenore: "il perfezionamento del presente accordo è subordinato all'esercizio, da
parte della Società datrice di lavoro, della facoltà di opzione ai sensi dell'art. 1331 c.c. prima
della cessazione del rapporto di lavoro, unitamente al preavviso in caso di licenziamento o
entro…giorni dalla ricezione delle dimissioni…….".
Una tale formulazione può trovare la propria causa nell'esigenza di riservarsi, al momento
della cessazione del rapporto di lavoro, la concreta valutazione delle potenzialità dannose del
dipendente in termini di concorrenza.
A riconoscere la legittimità del diritto d'opzione concesso al datore di lavoro in subiecta
materia è la stessa Corte di Cassazione con recente Sentenza (cfr. Cass. 26 ottobre 2017, n.
25462 ).
È tuttavia necessario il pedissequo ed ossequioso rispetto dello schema contrattuale
dell'opzione previsto dall'art. 1331 c.c. , altrimenti la clausola attributiva del diritto potrebbe
risultare affetta da nullità. Specificatamente:
- è fondamentale che la clausola apposta abbia ad oggetto l'attribuzione di un diritto
(potestativo) d'opzione e non di un diritto di recesso unilaterale (ex multis Cass. 13 giugno
2003, n. 9491 ; Cass., Ord. 3 giugno 2020, n. 10535 );
- non deve esser pattuito alcun corrispettivo né alcuna prestazione in favore del lavoratore
per l'attribuzione del diritto potestativo: un tanto determinerebbe la violazione della natura
del contratto d'opzione con sua conseguenziale nullità (cfr. Cass. 3 gennaio 2018, n. 3 ).
La giurisprudenza maggioritaria, pertanto, ha accolto la validità della suddetta operazione
negoziale, ma è pur vero che residuano pronunce che corroborano l'orientamento opposto (a
titolo esemplificativo Cass. 17 maggio 2018, n. 12090 ), secondo cui la clausola d'opzione
apposta ad un patto di non concorrenza va qualificata alla stregua di una "condizione
sospensiva meramente potestativa", come tale affetta da nullità.
Si rischia, dunque, di subire la caducazione della "clausola d'opzione", soprattutto se
l'esercizio del diritto potestativo soggiace al mero arbitrio datoriale, senza essere ancorato a
presupposti di carattere oggettivo.
La giurisprudenza (di legittimità come di merito) non è ancora unanime sul punto, né le
Sezioni Unite sono intervenute per dirimere il contrasto insorto.

3. Questio iuris: rapporti tra il patto di non concorrenza ed il divieto di storno di dipendenti
Prima di addivenire al merito della questione si rende necessaria una premessa.
Con l'espressione "storno di dipendenti" ci si riferisce ad un fenomeno di matrice
giurisprudenziale, non espressamente disciplinato dal legislatore, che si configura

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allorquando un datore di lavoro sottragga dipendenti ad un imprenditore concorrente al solo


scopo di danneggiarlo (con "animus nocendi"). Oltre all'elemento soggettivo in capo al
"danneggiante", è altresì richiesta l'idoneità e univocità della sua condotta a cagionare un
pregiudizio all'impresa concorrente, a cui è stato "sottratto" il lavoratore.
Un tale comportamento è all'evidenza connotato da illeceità.
Per quanto attiene ai rapporti tra il divieto di storno di dipendenti, pattuito contrattualmente
dalle parti, ed il patto di non concorrenza la giurisprudenza ha sviluppato due orientamenti
differenti:
- secondo talune sentenze di merito il divieto di storno andrebbe ricondotto all'interno
dell'alveo applicativo dell'art. 2125 c.c. (cfr. Trib. Milano 17 marzo 2008);
- l'opposto orientamento ha individuato un discrimen tra le due fattispecie, qualificando il
divieto di storno alla stregua di un atto di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598, c. 3, c.c. La
clausola contrattuale avente ad oggetto il divieto di storno non sarebbe dunque soggetta al
dettato normativo di cui all'art. 2125 c.c. (Trib. Milano 25 novembre 2014).
L'Ordinanza n. 22247/2021 della Suprema Corte ha composto il contrasto sussistente in seno
alla giurisprudenza di merito, accogliendo la seconda tesi prospettata con taluni correttivi.
Il Supremo Collegio evidenzia come i due divieti - di non concorrenza e di storno – si
riferiscano a due condotte distinte: il patto di non concorrenza vieta lo svolgimento di affari
concorrenziali con la società datrice dopo la cessazione del rapporto di lavoro, ed ha durata
limitata (art. 2125 c.c. ); la pattuizione del divieto di storno, invece, impedisce il compimento
di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela storica verso un'altra impresa,
sfruttando il rapporto di fiducia instaurato e consolidato durante il periodo di dipendenza con
la prima impresa. . Il divieto di storno di clientela mira, poi, a garantire la tutela
dell'avviamento della società stipulante, dal momento che esso concorre al mantenimento e
alla consolidazione di buoni rapporti con il portafoglio di clienti acquisiti nel corso del tempo.
Un tale divieto, inoltre, non può essere soggetto ai termini di durata previsti per il patto di non
concorrenza.
Posta la differente natura dei due istituti giuridici, la Corte di Cassazione è arrivata alla
conclusione dell'impossibilità di estendere il regime normativo stabilito dall'art. 2125 c.c.
anche al divieto di storno.

SI RICORDA CHE
Grava sul datore di lavoro l'onere di provare la violazione del patto da parte del lavoratore.

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