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DISPENSA DI DIRITTO CIVILE

L’EFFICACIA DEL CONTRATTO E IL RUOLO DELLE


SOPRAVVENIENZE NELLA STAGIONE DELLA CAUSA IN
CONCRETO

Francesco Caringella

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Indice

SCHEMA DELLA LEZIONE

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

1. PROMESSA DEL FATTO DEL TERZO E GARANZIA FIDEIUSSORIA: Cassazione


Civile, 14 aprile 2016, n. 7376.

2. CONTRATTO A FAVORE DI TERZO E CONTRATTO AD EFFETTI PROTETTIVI


VERSO TERZI: Cassazione Civile, 12 maggio 2014, n. 10272.

3. OBBLIGO DI COMUNICAZIONE AL TERZO DELLA STIPULAZIONE A SUO


FAVORE: Cassazione Civile, 12 dicembre 2017, n. 29636.

4. CONTRATTO PER PERSONA DA NOMINARE: TARDIVITÀ DELLA ELECTIO AMICI:


Cassazione Civile, 28 novembre 2017, n. 28394.

5. CESSIONE DEL CONTRATTO E CESSIONE DEL CREDITO: Cassazione Civile, Ord., 26


luglio 2018, n. 19849.

6. SOPRAVVENUTO DIFETTO DELL’ELEMENTO FUNZIONALE DEL CONTRATTO


PER SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI UTILIZZAZIONE DELLA
PRESTAZIONE: Cassazione Civile, 24 luglio 2007, n. 16315.

7. USURA SOPRAVVENUTA: Cassazione Civile, Sezioni Unite, 19 ottobre 2017, n. 24675.

8. DOMANDA DI ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA E POTERE DEL CURATORE


FALLIMENTARE DI SCIOGLIERSI DAL CONTRATTO: Cassazione Civile, 30 maggio
2018, n. 13687.

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9. ILLEGITTIMA TRASCRIZIONE DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO
DELL’ESISTENZA DI UN PATTO DI PRELAZIONE E RELATIVE CONSEGUENZE:
Cassazione, Sezioni Unite, 23 marzo 2011, n. 6597.

10. DOMANDA DI RISOLUZIONE DEGLI EFFETTI DELLA SENTENZA COSTITUTIVA


EX ART. 2932 C.C. E CONSEGUENZE DELLA SUA MANCATA TRASCRIZIONE:
Cassazione Civile, 30 maggio, n, 13577.

11. VENDITA DELL’IMMOBILE COSTITUITO IN FONDO PATRIMONIALE: Cassazione


Civile, 30 agosto 2018, n. 21385.
SCHEMA DELLA LEZIONE

1.Efficacian, perfezione e validità


1.1.Classificazione dei contratti in base agli effetti: il principio consensualistico: trasferimento del
diritto e passaggio del rischio.
2.Impegnatività e vincolatività: rilevanza della distinzione.
3.Le manovre delle parti sugli effetti contrattuali: contratti di accertaneto e nromativi
3.Gli elementi accidentali: Gli obblighi comportamentali delle parti in pendenza.
4.La fissazione degli effetti contrattuali: interpretazione e integrazione.
4.1. La buona fede contrattuale.
5.La divergenza tra effetti dichiarati ed effetti voluti: la simulazione
5.1. I trasferimenti fiduciari: interposizione fittizia e reale. Il trust.
6.Gli effetti del contratto tra le parti: l’articolo 1372 sancisce la forza di legge. La relatività del
contratto.
6.1..Eccezionalità del recesso e ruolo del mutuo dissenso. Lo ius variandi
7.Gli effetti del contratto verso i terzi: effetti diretti, effetti riflessi e opponibilità.
7.1.Il contratto a favore di terzi
7.2. I terzi protetti dal contratto
7.3. La promessa del fatto del terzo
7.4.La trascrizione
8.La cessione del contratto
9. Il subcontratto
10 Il patto di non alienare

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11. Le sopravvenienze: rimedi demolitori e manutentivi
11.1. Sopravvenienze tipiche: la risoluzione
11.2. Sopravvenienze atipiche: presupposizione e venir meno della causa in concreto
11.3. Il problema della rinegoziazione e lo spazio di intervento del giudice

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CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

La disciplina degli effetti del contratto fra le parti e nei confronti dei terzi assume un ruolo di evidente
centralità nell’esame dell’istituto del contratto in generale. Ciò emerge già dalla lettura dell’art.
1321 c.c. che, definendo il contratto quale accordo di due o più parti per costituire, regolare o
estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale, ne individua la funzione nella produzione
di effetti giuridici incidenti sulla preesistente situazione di diritto. La fase dell’efficacia è, in
ultima istanza, il momento in cui il contratto prende vita attuando l’assetto degli interessi voluto dalle
parti e dalle stesse trasposto nel programma negoziale. In questo senso, l’efficacia del contratto si
atteggia a tema ampio e sfaccettato che, lungi dal restare circoscritto alle disposizioni del codice ad
esso specificamente dedicate (artt. 1372 – 1386 c.c.), costituisce il filo conduttore dell’intera trama
del Titolo II del Libro IV, fino a fondare il collegamento con istituti, come la trascrizione, che nella
topografia del codice trovano disciplina molto dopo le norme dedicate al contratto in generale.
La disposizione fondamentale da cui prende le mosse lo stesso legislatore al Capo V del Libro
IV, è quella dell’art. 1372 c.c. ai sensi del quale “il contratto ha forza di legge fra le parti”. Con
la stipulazione del contratto, ed in forza del principio – prima etico che giuridico – per cui pacta sunt
servanda, le parti si vincolano agli effetti dalle stesse programmati ed a quelli (cd. integrativi)
inderogabilmente ricollegati dalla legge al contratto medesimo. Pertanto, se l’espressione “forza di
legge” di cui all’art. 1372 c.c. è certamente atecnica (perché l’atto di autonomia negoziale non è una
norma di legge), essa si giustifica in ragione del suo carattere fortemente enfatico e della sua aderenza
all’etimologia del sostantivo “autonomia” (negoziale, in questo caso) che, dal greco αυτóς – νóμος,
indica il potere del soggetto di decidere della propria sfera giuridica attraverso il compimento di atti
di autoregolamentazione di interessi. Può, cioè, dirsi che il contratto è l’espressione di autonomia
negoziale per antonomasia nella misura in cui con esso le parti determinano e impongono a se stesse
la regola iuris del loro rapporto, la “legge” del caso concreto. Alla stipulazione del vincolo
contrattuale, come prima conseguenza tangibile della forza dallo stesso esplicata fra le parti, si
accompagna un effetto di irretrattabilità dell’impegno assunto. Salvo che la legge o le parti stesse non
abbiano disposto diversamente, nessuno dei contraenti può imporre unilateralmente all’altro
modifiche o integrazioni del programma negoziale, né, tantomeno, sciogliersi unilateralmente dal
vincolo. Sotto tale profilo, lo stesso art. 1372 c.c. sancisce che, fatta eccezione per le ipotesi di recesso
unilaterale di previsione legale o convenzionale, il contratto non può sciogliersi se non per mutuo
dissenso (ossia, in applicazione del principio del contrarius actus, mediante un secondo contratto di
tipo estintivo che determini la risoluzione convenzionale del rapporto fra le parti).

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Se il generale principio di irretrattabilità è comprensibilmente volto a garantire la serietà del vincolo
contrattuale evitando che lo stesso sia svilito dall’esposizione al mero capriccio dei singoli contraenti,
è, però, innegabile che nel corso dell’esecuzione possono talora intervenire profondi mutamenti delle
circostanze di fatto e di diritto sussistenti al momento della stipulazione. È, cioè, possibile che
l’adeguatezza del programma negoziale originario sia messa in crisi dall’avvento di cd.
sopravvenienze che, trasformando il contesto fattuale e/o giuridico tenuto presente dalle parti al
tempo della stipulazione, non lo rendano più idoneo a realizzare l’assetto di interessi voluto dalle
parti. In tali casi, evidentemente, si tratta di far fronte ad anomalie funzionali del negozio che se è
stato volontariamente stipulato per il conseguimento di un certo assetto di interessi, non può
trasformarsi in un giogo che imbriglia le parti anche quando tale funzione non possa più essere assolta
nei termini originari. Alla luce di tali premesse, emerge con evidenza l’insufficienza del dato
normativo che risponde al fenomeno delle sopravvenienze mediante la positivizzazione di due soli
rimedi legali dall’ambito operativo assai circoscritto: la risoluzione per impossibilità sopravvenuta e
quella per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Se, dunque, in base a quanto fin qui detto, la nozione di autonomia negoziale fonda e giustifica
la forza vincolante del contratto fra le parti ex art. 1372, co.1 c.c., ad essa va ricondotta anche
la ratio del principio di relatività degli effetti del contratto, in forza del quale, ai sensi del comma
2 dell’art. 1372 c.c., “Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla
legge”. L’autonomia contrattuale implica, infatti, non solo la derivazione del vincolo contrattuale
dalla volontà delle parti che, per tal via, regolamentano i propri interessi in modo, appunto, autonomo,
ma anche, in negativo, l’impossibilità che il regolamento negoziale esplichi effetti diretti nella sfera
giuridica di soggetti terzi per i quali, se così fosse, il contratto si trasformerebbe da strumento di
autonomia ad atto di eteronomia, fonte, cioè, di modificazioni della propria sfera giuridica da altri
determinate.
Costituiscono estrinsecazione del principio di relatività degli effetti del contratto le disposizioni di
cui agli artt. 1379 e 1381 c.c. che disciplinano, rispettivamente, il pactum de non alienando e la
promessa del fatto o dell’obbligazione del terzo. In entrambe le fattispecie, infatti, il terzo non resta
vincolato dalla pattuizione inter alios. Nel primo caso, il terzo manterrà la proprietà del bene
trasferitogli e colui che ha stipulato il patto di non alienazione potrà soltanto ottenere il risarcimento
del danno dal contraente inadempiente; nel secondo caso, invece, il terzo potrà legittimamente
rifiutarsi di tenere la condotta oggetto della promessa ed al promissario, in tale eventualità, non resterà
che pretendere l’indennizzo dal promittente.
Tra i casi in cui, invece, la legge – come espressamente consentito dal comma 2 dell’art. 1372 c.c. –
prevede che il contratto produca effetti diretti nei confronti di un soggetto terzo, v’è, senz’altro la

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fattispecie del contratto a favore di terzo di cui agli artt. 1411 ss. c.c. Con tali disposizioni, infatti, il
legislatore ha codificato non uno strumento contrattuale tipico, bensì uno schema negoziale di
carattere generale che consente alle parti di inserire in qualsiasi contratto, sia tipico che atipico, una
clausola (cd. stipulazione) con la quale disporre che gli effetti favorevoli del contratto si producano
in via diretta e immediata nel patrimonio di un terzo beneficiario. Questi potrà rifiutare la stipulazione
a suo favore o renderla definitiva attraverso la dichiarazione di volerne profittare. La circostanza che
il beneficiario della stipulazione intervenuta inter alios acquisti il diritto alla prestazione nei confronti
del promittente mantenendo una posizione di terzietà, senza, cioè, diventare parte del rapporto
contrattuale, segna la differenza più radicale con le figure del contratto per persona da nominare e
della cessione del contratto. Nel primo caso, a seguito di una tempestiva dichiarazione di nomina
accompagnata dall’accettazione dell’electus, quest’ultimo si considera come fosse stato sin
dall’origine l’unica parte del contratto. Lo stipulante autore della dichiarazione di nomina resta
estraneo al contratto che produce, ex tunc, i suoi effetti positivi e negativi nella sfera giuridica
dell’electus senza che sia ravvisabile alcuna successione del secondo nella posizione del primo. Nel
caso della cessione del contratto, invece, si assiste al subentro del terzo cessionario nella complessiva
posizione contrattuale del cedente con successione dell’uno all’altro nell’insieme dei rapporti, attivi
e passivi, derivanti dal contratto ceduto.
Le considerazioni svolte in ordine al principio di relatività del contratto riguardano, peraltro,
la sola efficacia diretta del contratto, ossia gli effetti come atto negoziale di
autoregolamentazione di interessi privati.
Sottratta al principio di relatività è, invece, la cd. efficacia riflessa del contratto che si specifica nella
rilevanza esterna dello stesso e nella sua opponibilità in caso di conflitto con diritti incompatibili di
terzi soggetti. Quanto al primo profilo, è evidente che se i terzi non sono interessati dagli effetti che
promanano dal regolamento contrattuale e, dunque, dal contratto come negozio, per gli stessi
l’esistenza di un contratto fra due o più soggetti rileva, quantomeno, come mero fatto giuridico. Si
pensi, da un lato, alla tutela aquiliana dei diritti di credito e al conseguente obbligo della generalità
dei consociati di astenersi da condotte lesive dei diritti dei contraenti, dall’altro, ai casi in cui la stipula
di un contratto in sé è fonte di un danno per il terzo, come nelle ipotesi di doppia alienazione
immobiliare o di contratto finale concluso in violazione di un vincolo precontrattuale assunto nei
confronti di un diverso soggetto. Infine, è ben possibile che le posizioni contrattuali siano elevate
dalla legge a presupposto di pretese, poteri, obblighi, soggezioni al di fuori del rapporto contrattuale
e nei confronti di terzi soggetti. Si pensi, tipicamente, ai casi di contratto concluso in violazione di un
diritto di prelazione legale in cui il fatto in sé della stipulazione legittima il terzo prelazionario ad
esercitare il potere di riscatto del bene.

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Se per l’efficacia riflessa del contratto sub specie di rilevanza esterna dello stesso, la legge non
prevede particolari requisiti, sicché chiunque, salvo l’ineliminabile onere probatorio ex art. 2697 c.c.,
potrà far valere verso i terzi o verso le parti un diritto avente a presupposto un determinato contratto,
discorso diverso deve farsi per il profilo dell’opponibilità del contratto nel conflitto con diritti di terzi
soggetti. Posto, cioè, che per opponibilità del contratto si intende la prevalenza del titolo contrattuale
di acquisto sul titolo incompatibile vantato da terzi, l’esigenza di garantire la certezza dei rapporti
giuridici, impone di superare il semplicistico principio del prior in tempore potior in iure, risolvendo
i potenziali conflitti fra titolari di diritti incompatibili alla luce di appositi criteri ispirati a logiche latu
sensu pubblicitarie. Nel caso di contratti mobiliari, il generale requisito di opponibilità è costituito
dalla consegna che assolve alla predetta funzione latamente pubblicitaria nella misura in cui,
implicando lo spossessamento del tradens e il passaggio del bene nella sfera di controllo
dell’accipiens, costitusce un dato estrinseco conoscibile dalla generalità dei consociati. Nei contratti
aventi ad oggetto diritti di credito, requisito generale di opponibilità è la notificazione (cfr. cessione
del credito ex art. 1260 c.c.), mentre nel caso di conflitto tra più diritti personali di godimento, il
criterio ex art. 1380 c.c. è ancora una volta quello estrinseco e di immediata tangibilità per i terzi della
priorità nell’immissione nel godimento del bene. Quando, invece, si tratti di beni immobili (o mobili
registrati) i conflitti fra più acquirenti dal medesimo titolare o fra titolari di diritti incompatibili viene
risolto in base alla trascrizione quale forma di pubblicità dichiarativa di atti con cui si realizza la
circolazione di diritti, per lo più reali, aventi ad oggetto, appunto, beni immobili. Se, dunque, ex art.
1376 c.c., l’acquisto del diritto si realizza fra le parti immediatamente e direttamente al momento del
consenso, la sua opponibilità ai terzi controinteressati resta subordinata alla trascrizione dell’atto su
cui si fonda. Ad una peculiare funzione prenotativa rispondono, invece, la trascrizione del preliminare
(ex art. 2645bis c.c.) e delle domande giudiziali (ex artt. 2652 e 2653 c.c.). In tali casi, infatti, gli
effetti rispettivamente del contratto definitivo (o della sentenza costitutiva ex. art. 2932 c.c.) e della
sentenza di accoglimento retroagiscono al momento della trascrizione del preliminare o della
domanda giudiziale, assicurando la prevalenza del trascrivente su tutti i terzi che abbiano trascritto o
inscritto atti di acquisto successivamente a tale momento.

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1. PROMESSA DEL FATTO DEL TERZO E GARANZIA FIDEIUSSORIA: Cassazione
Civile, 14 aprile 2016, n. 7376.

Introduzione

Con la pronuncia in esame la Suprema Corte ha chiarito la differenza intercorrente fra la promessa
del fatto o dell’obbligazione del terzo ex art. 1381 c.c., da un lato, e la garanzia fideiussoria,
dall’altro. Mentre, infatti, la fideiussione è un’obbligazione accessoria di garanzia mediante la quale
il fideiussore si obbliga in proprio verso il creditore a garantire l’adempimento di una preesistente
obbligazione altrui, la fattispecie di cui all’art. 1381 c.c. contempla, in capo al promittente,
un’obbligazione avente natura giuridica autonoma. Più precisamente, con la promessa di cui all’art.
1381 c.c., il promittente assume una prima obbligazione di facere consistente nell’adoperarsi affinché
il terzo si obblighi a fare o faccia ciò che il promittente medesimo ha promesso alla propria
controparte, ed una obbligazione di dare avente ad oggetto la corresponsione di un indennizzo per
l’ipotesi in cui, nonostante gli sforzi profusi in tal senso, il terzo rifiuti di tenere il comportamento
promesso.
Se la differenza fra le due fattispecie è di immediata evidenza quando manchi del tutto un qualche
precedente vincolo giuridico fra il terzo ed il promissario, non potendosi concepire, con riguardo alla
fideiussione, un’obbligazione accessoria in mancanza della obbligazione principale di garanzia, la
differenza permane anche nel caso in cui preesista una obbligazione del terzo nei confronti del
promissario ed il promittente si impegni nei confronti di quest’ultimo ad adoperarsi perché il terzo
adempia.
Mentre, dunque, la garanzia fideiussoria si caratterizza per l’identità dell’obbligazione
principale garantita rispetto a quella assunta in proprio dal fideiussore a titolo di garanzia,
l’obbligazione (di facere) del promittente ha un contenuto diverso da quella di cui il terzo sia
già titolare nei confronti del promissario, sostanziandosi nel mero impegno ad adoperarsi
perché il terzo stesso provveda ad adempiere. Conferma ne è il fatto che, qualora il terzo non
adempia all’obbligazione da lui precedentemente assunta nei confronti del promissario nonostante il
promittente si sia diligentemente adoperato in tal senso, quest’ultimo non sarà tenuto – come un
fideiussore – ad eseguire la prestazione non ottemperata dal terzo, ma sarà chiamato ex art. 1381 c.c.
al solo pagamento di un indennizzo.

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Massima

A escludere la configurabilità di una promessa ex art. 1381 c.c. non è sufficiente il solo elemento
della preesistenza di una obbligazione del terzo ovvero la semplice e generica correlazione tra questa
e l'impegno assunto dal promittente. Infatti, tale impegno può avere a oggetto l'assunzione di
un'obbligazione o anche il compimento di un "fatto" da parte del terzo; inoltre l'obbligazione (di
facere) assunta dal promittente consiste soltanto nell'adoperarsi affinché il terzo si impegni o tenga
il comportamento promesso, onde soddisfare l'interesse del promissario, e nel corrispondere (cioè
nel dare) l'indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di obbligarsi o di
tenere il comportamento oggetto della promessa.

Sentenza

(omissis)
A fondamento della decisione, con la quale la domanda della FIRS è stata rigettata, è stato applicato
il principio, più volte enunciato da questa Corte, secondo il quale, nella promessa dell'obbligazione
o del fatto del terzo, disciplinata dall'art. 1381 c.c., l'obbligo assunto dal promittente verso il
promissario consiste nell'adoperarsi affinché il terzo si obblighi a fare ovvero faccia ciò che il
promittente medesimo ha promesso alla propria controparte, sicché il rifiuto del terzo non
libera il primo, il quale è tenuto a indennizzare il promissario, mentre la fideiussione assolve
alla funzione di garantire un obbligo altrui già (pre)esistente, secondo lo schema previsto
dall'art. 1936 c.c., affiancando al primo un secondo debitore di pari o diverso grado (v. Cass. n.
16225/2003); pertanto, nel caso in cui taluno promette che altri adempia ad un'obbligazione che questi
ha già validamente assunto, non è configurabile una promessa, ai sensi dell'art. 1381, ma una
fideiussione (v. Cass. n. 15235/2001, n. 2965/1990, n. 1081/1982). Per poter applicare il suddetto
principio, tuttavia, i giudici di merito avrebbero dovuto accertare in fatto e adeguatamente motivare
sulla identità tra l'obbligazione del terzo (ipoteticamente promessa dalla GBN) e l'obbligazione della
Ederil verso la FIRS, preesistente e ipotizzata come garantita (oggetto, in tesi, di una fideiussione),
poiché solo la perfetta identità delle due obbligazioni, ovvero delle relative prestazioni, potrebbe
giustificare la corretta applicazione del principio sopra richiamato (una fideiussione è
riconoscibile, infatti, a condizione che l'obbligazione del fideiussore abbia lo stesso contenuto
dell'obbligazione garantita, non potendo, fra l'altro, eccedere ciò che è dovuto dal debitore
principale, a norma dell'art. 1941 c.c., comma 1). E' proprio questo accertamento che è mancato,
con la conseguenza che la decisione risulta priva di un logico supporto motivazionale e, quindi,

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sostanzialmente apodittica. L'identità tra l'oggetto della promessa che la ricorrente ritiene assunta
dalla GBN e il contenuto dell'obbligazione della Ederil nell'operazione di vendita alla FIRS delle
partecipazioni nelle società Ita115, Ita116 e Ita126, non costituisce un dato di immediata evidenza,
se si considera che, come risulta dalle note del 4 dicembre 1991 e 22 giugno 1992 (il cui contenuto è
stato trascritto in ricorso), la GBN aveva dichiarato di attivarsi perché quelle partecipazioni "siano
annullate e sostituite con partecipazioni che soddisfino i criteri richiesti per le riserve tecniche" e a
mettere "a breve, a disposizione di questa FIRS il controvalore in beni immobili per un ammontare
di Lit. 25 miliardi, destinato a sostituire le partecipazioni che Ederil doveva mettere a disposizione di
FIRS a titolo di riserve tecniche". Dal contenuto della nota del 5 giugno 1992 (trascritta in ricorso)
risulta, invece, che l'obbligazione (inadempiuta) della Ederil avesse ad oggetto "l'annullamento" e la
"restituzione del prezzo di acquisto" di quelle partecipazioni, come rilevato dai giudici di merito che
hanno individuato un obbligo della Ederil di riconsegna dei titoli e di restituzione dell'acconto del
prezzo di vendita delle azioni.
Inoltre, la Corte romana, con la sentenza impugnata, ha ritenuto di desumere dall'inesistenza
dell'accordo FIRS-Edirel per la cessione delle menzionate partecipazioni sociali un argomento utile
a dimostrare, in via derivata, la nullità ex art. 1346 c.c. dell'impegno assunto da GBN per impossibilità
o illiceità dell'oggetto. Questa conclusione sarebbe condivisibile se si accettasse la premessa, cioè che
la GBN aveva assunto un'obbligazione fideiussoria volta semplicemente a garantire l'obbligazione
propria della Ederil, ma compito dei giudici di merito era proprio quello di giustificare in modo
adeguato la predetta qualificazione giuridica del contestato impegno assunto dalla GBN. Nel
ragionamento della Corte si annida la contraddizione di ritenere inesistente l'obbligazione garantita
e, allo stesso tempo, esistente ed accessoria l'obbligazione della GBN, considerata come fideiussoria.
Se la cessione delle partecipazioni era simulata e, quindi, nulla (secondo la prevalente giurisprudenza:
v. Cass. n. 382 e 7682 del 1997), difficilmente essa avrebbe potuto ritenersi garantita dalla GBN,
tenuto conto che la fideiussione è valida se è esistente e valida l'obbligazione garantita (art. 1938 c.c.),
e in questa prospettiva la FIRS sostiene che sarebbe proprio la fittizietà o inesistenza delle predette
partecipazioni societarie a costituire causa dell'impegno assunto dalla GBN, al fine di evitare il
proprio commissariamento.
In realtà, ad escludere la configurabilità di una promessa ex art. 1381 c.c. non è sufficiente il
solo elemento della preesistenza di una obbligazione del terzo ovvero la semplice e generica
correlazione tra questa e l'impegno assunto dal promittente. Infatti, tale impegno può avere ad
oggetto l'assunzione di un'obbligazione o anche il compimento di un "fatto" da parte del terzo;
inoltre l'obbligazione (di "facere") assunta dal promittente consiste soltanto nell'adoperarsi
affinché il terzo si impegni o tenga il comportamento promesso, onde soddisfare l'interesse del

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promissario, e nel corrispondere (cioè nel "dare") l'indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia
adoperato, il terzo si rifiuti di obbligarsi o di tenere il comportamento oggetto della promessa
(v. Cass. n. 24853/2014, n. 13105/2004).

2. CONTRATTO A FAVORE DI TERZO E CONTRATTO AD EFFETTI PROTETTIVI


VERSO TERZI: Cassazione Civile, 12 maggio 2014, n. 10272.

Introduzione

La generale previsione normativa di cui all’art. 1411 c.c. consente alle parti di inserire in un
qualsiasi contratto tipico o atipico una clausola (cd. “stipulazione”) mediante la quale disporre
che gli effetti del contratto medesimo si producano in via diretta ed immediata – ancorché,
almeno inizialmente, provvisoria – nella sfera giuridica di un terzo soggetto. Quest’ultimo, senza
diventare parte del rapporto contrattuale né in senso formale né in senso sostanziale, assume ab
externo la veste di creditore del promittente nei cui confronti potrà agire in via diretta per ottenere
l’adempimento della prestazione pattuita a suo favore. Sulla base di tali premesse, la pronuncia in
esame opera due puntuali precisazioni.
In primo luogo, per la configurabilità di un contratto a favore di terzo non è sufficiente che il terzo
sia destinatario di un mero vantaggio economico indiretto derivante dal contratto. Perché sia
applicabile la disciplina di cui agli artt. 1411 ss. c.c. è, infatti, necessario che le parti abbiano inteso
attribuire ad un terzo estraneo al contratto la titolarità di un vero e proprio diritto ad una prestazione
per il cui adempimento potrà agire direttamente nei confronti del promittente obbligato.
In secondo luogo, deve escludersi la possibilità di ravvisare un contratto ex art. 1411 c.c. anche in
tutte quelle ipotesi in cui, a seguito della stipulazione intervenuta inter alios, il terzo non acquisti la
titolarità del diritto ad una prestazione, bensì, più latamente, della pretesa a che l’esecuzione della
prestazione dovuta nei confronti del contraente creditore non gli arrechi danno. In tali casi, infatti,
ricorre la diversa figura del cd. contratto con effetti protettivi verso i terzi connotata dalla circostanza
che la clausola generale di buona fede oggettiva impone alle parti di adoperare la diligenza necessaria
ad evitare la lesione non solo della posizione contrattuale della controparte e, dunque, degli interessi
della stessa direttamente dedotti in obbligazione, ma anche di quei soggetti terzi che, per ragioni di
parentela, servizio od ospitalità, si trovano in una relazione differenziata, di inerenza o prossimità,
con la parte contraente.

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Massima

Ai sensi dell'art. 1411 c.c., il contratto a favore di terzo, non ricorre né quando il diritto attribuito al
terzo sorga per legge, né qualora il terzo sia destinatario degli effetti economici vantaggiosi della
prestazione, ma non acquisti il diritto a pretenderla, salvo il diverso diritto, eventualmente desumibile
dal contratto, a che la prestazione, ove effettuata, sia eseguita in maniera diligente al fine di evitargli
un danno. In tale ultimo caso, si configurerebbe, piuttosto, un contratto con effetti protettivi nei
confronti del terzo.

Sentenza

(omissis)
Il contratto a favore del terzo, previsto dall'art. 1411 c.c., ricorre allorché i contraenti, mediante
un'apposita stipulazione si accordino per attribuire ad un terzo estraneo alla convenzione uno
o più diritti derivanti dal contratto stesso. Pertanto, detta fattispecie ipotetica non ricorre né
allorquando il diritto attribuito al terzo sorga per legge, né ove il terzo sia destinatario degli
effetti economici vantaggiosi della prestazione ma non acquisti il diritto a pretenderla, salvo il
diverso diritto, eventualmente desumibile dal contratto, a che la prestazione ove effettuata sia
eseguita in maniera diligente al fine di evitargli un danno (nel qual caso è corretta, piuttosto, la
configurazione di contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha accertato - con motivazione congrua e logica che come s'è
detto resiste alla critica formulata nel motivo - unicamente che il contratto d'opera era stato stipulato
tra A.E., fratello dell'odierno ricorrente, e S.O., da una parte, e lo studio CPPTU di A. V. e P.,
dall'altra; non anche che esso attribuisse alla Vermat il diritto a esigere la prestazione professionale.
Pertanto, il fatto che detta società fosse proprietaria dell'area da edificare da un lato non è ragione
sufficiente, in base alle superiori ragioni di diritto, per configurare la fattispecie come contratto a
favore del terzo; dall'altro, non pone minimamente in crisi la logicità della ricostruzione storica
operata dalla Corte bresciana, che l'incarico non presuppone la proprietà dell'oggetto materiale su cui
la prestazione professionale è destinata ad operare.

3. OBBLIGO DI COMUNICAZIONE AL TERZO DELLA STIPULAZIONE A SUO


FAVORE: Cassazione Civile, 12 dicembre 2017, n. 29636.

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Introduzione

Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte prende posizione sulla questione – trascurata dal
codice – concernente la sussistenza, in capo alle parti di un contratto concluso ai sensi dell’art.
1411 c.c., dell’obbligo di comunicare al terzo beneficiario la stipulazione a sua favore. La
risposta fornita dai giudici di legittimità è, condivisibilmente, di segno positivo. Qualora, infatti,
il terzo rimanesse all’oscuro della stipulazione di cui è beneficiario, non potrebbe esercitare né la
facoltà di rendere definitiva e irrevocabile la stessa mediante la dichiarazione di volerne profittare,
né, evidentemente, quella di opporre il proprio rifiuto, risolvendo gli effetti che la stipulazione ha già
prodotto nella sua sfera giuridica in via provvisoria.

Massima

In tema di contratto di assicurazione a favore di terzo, il diritto di quest'ultimo di rendere non


revocabile la stipulazione nei propri confronti è condizionato dalla conoscenza che il terzo stesso
abbia della stipulazione in suo favore, conoscenza che deve essere resa attuale perché egli possa
esercitare il diritto di profittare di tale stipulazione. (Nella specie, relativa ad una richiesta
risarcitoria per l'intervenuta prescrizione del diritto all'indennizzo in relazione ad una polizza
assicurativa stipulata da un Comune a copertura degli infortuni dei propri dipendenti, la S.C. ha
cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso la responsabilità del Comune sul rilievo che il
diritto all'indennizzo era entrato nel patrimonio dei beneficiari e che la mancata conoscenza della
polizza da parte di questi ultimi costituiva un mero impedimento di fatto all'esercizio di tale diritto,
senza tuttavia valutare il comportamento omissivo dello stesso Comune, il quale non aveva
comunicato ai beneficiari l'esistenza della polizza, né aveva compiuto atti interruttivi, così
provocando l'utile esercizio dell'eccezione di prescrizione da parte della compagnia di
assicurazione).

Sentenza

(omissis)
Con il quinto motivo, si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1411 e 1412 c.c. con
riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto l'accertamento se il diritto del terzo assicurato sulla vita
fosse o meno autonomo, o svincolato da qualsiasi comunicazione ai diretti interessati, non costituiva
oggetto dell'appello, essendo, invece, oggetto dell'appello la questione se il Comune avesse o meno

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informato i beneficiari dell'esistenza della polizza. La Corte d'Appello avrebbe omesso di valutare
che in capo al promittente della prestazione nei confronti del terzo sussisteva un obbligo di
informazione verso il terzo stesso in mancanza della quale comunicazione il terzo, cioè gli eredi, non
avrebbero potuto esercitare di fatto il diritto di cui ignoravano l'esistenza, con conseguente perdita
dell'indennizzo dovuto al maturare della prescrizione. La Corte d'Appello avrebbe omesso di valutare
che il Comune, con il proprio comportamento omissivo della comunicazione dell'esistenza di una
polizza e degli atti interruttivi della prescrizione del diritto, avrebbe provocato l'utile esercizio
dell'eccezione di prescrizione da parte della compagnia di assicurazione.
Il motivo è fondato. In effetti la sentenza impugnata nel riconoscere l'esistenza di un diritto proprio
degli eredi, in qualità di terzi beneficiari del contratto di assicurazione, al pagamento dell'indennità
ha escluso la rilevanza della non conoscenza, da parte degli eredi stessi, dell'esistenza della polizza
perché la non conoscenza non avrebbe comunque impedito che il diritto all'indennità entrasse nel loro
patrimonio, costituendo, l'omessa comunicazione, solo un impedimento di fatto al suo esercizio.
Il capo di sentenza merita di essere cassato in quanto nella logica della stipulazione del contratto a
favore di terzo deve ammettersi che, prioritariamente ad ogni altra vicenda, il terzo debba
essere informato dell'esistenza del diritto, senza la quale comunicazione il terzo stesso non può
essere messo in condizioni di esercitare la propria dichiarazione di voler approfittare della
stipulazione in suo favore.
Deve statuirsi, pertanto, il seguente principio di diritto cui la Corte d'Appello dovrà attenersi nel
motivare la sentenza nel giudizio di rinvio: nel contratto di assicurazione il diritto del terzo di
rendere la stipulazione nei propri confronti non revocabile è condizionato dalla conoscenza che
il terzo stesso abbia della stipulazione in suo favore, conoscenza che deve essere resa attuale
perché egli possa esercitare il diritto di profittare della stipulazione in suo favore.

4. CONTRATTO PER PERSONA DA NOMINARE: TARDIVITÀ DELLA ELECTIO


AMICI: Cassazione Civile, 28 novembre 2017, n. 28394.

Introduzione

Come noto, l’art. 1401 c.c. disciplina la figura del contratto per persona da nominare ammettendo
che, al momento della stipulazione di un contratto, una delle parti possa riservarsi la facoltà di
individuare successivamente la persona nella cui sfera giuridica si produrranno gli effetti del negozio.
La riserva della nomina del terzo determina, pertanto, una parziale indeterminatezza

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soggettiva del contratto. Se entro tre giorni (o entro il diverso termine previsto dalle parti, purché
certo e determinato) dalla stipulazione interviene la dichiarazione di nomina (cd. electio amici)
accompagnata dalla dichiarazione di accettazione dell’electus, quest’ultimo acquista ex tunc la
qualifica di soggetto negoziale, sicché tutti gli effetti (positivi e negativi) del contratto si intendono
prodotti sin dalla stipulazione nella sua sfera giuridica. Se, invece, manca una tempestiva e regolare
dichiarazione di nomina, il contratto produce effetti fra i contraenti originari.
Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte ribadisce il principio di ordine processuale in base al
quale la tardività della dichiarazione di nomina, con conseguente decadenza dalla relativa facoltà,
integra il contenuto di un’eccezione in senso stetto, deducibile, come tale, soltanto dall’altro
contraente e non rilevabile ex officio dal giudice. Ne consegue che la tardività della nomina non potrà
essere eccepita per la prima volta in appello, a ciò ostando la previsione dell’art. 345, co. 2 c.p.c.

Massima

In caso di contratto stipulato per sé o per persona da nominare, la tardività della dichiarazione di
nomina non è rilevabile d'ufficio né deducibile da terzi interessati, ma può essere eccepita soltanto
dall'altro contraente.

Sentenza

(omissis)
Il primo motivo è infondato alla luce del principio secondo cui, in caso di contratto stipulato per sè
o per persona da nominare, la tardività della nomina, quale ragione di decadenza della relativa
facoltà, non è rilevabile di ufficio nè deducibile da terzi interessati, ma può essere eccepita
soltanto dall'altro contraente (Cass. 30.5.2007 n. 12741, Cass. 5.6.1984 n. 3401).
Correttamente, pertanto, la Corte di appello ha ritenuto inammissibile ex art. 345 c.p.c. l'eccezione,
sollevata soltanto in appello dalla società convenuta, di illegittimità della nomina della B., effettuata
oltre il termine di tre giorni dalla scrittura del 23.8.2002 e in mancanza di un termine certo pattuito
dalle parti.
Le censure mosse con lo stesso motivo alla sentenza di appello, nella parte in cui, pur rilevando
l'inammissibilità del motivo di appello in esame, ha altresì ritenuto la sua infondatezza nel merito,
sono inammissibili per carenza di interesse, alla luce dei principi affermati da S.U. n. 24469/2013:
qualora il giudice, che abbia ritenuto inammissibile una domanda o un capo di essa o un singolo
motivo di gravame, così spogliandosi della "potestas iudicandi" sul relativo merito, proceda poi

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comunque all'esame di quest'ultimo, è inammissibile per difetto di interesse il motivo di
impugnazione della sentenza che ne contesti solo la motivazione, da considerarsi svolta "ad
abundantiam", su tale ultimo aspetto.

5. CESSIONE DEL CONTRATTO E CESSIONE DEL CREDITO: Cassazione Civile, Ord., 26


luglio 2018, n. 19849.

Introduzione

Con la presente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito la differenza ontologica e strutturale


che intercorre fra la fattispecie della cessione del contratto e quella della cessione del credito. Mentre,
infatti, nel primo caso, oggetto della cessione è la complessiva posizione contrattuale del cedente,
comprensiva di tutti i rapporti, sia attivi che passivi, nascenti dal contratto, nell’ipotesi di cessione
del credito, oggetto del trasferimento è soltanto il lato attivo del rapporto obbligatorio. Di immediata
evidenza sono le conseguenze in punto di rilevanza del consenso del soggetto cd. “ceduto”. Nella
fattispecie di cui agli artt. 1260 ss. c.c., la cessione prescinde integralmente dal consenso del debitore
ceduto per il quale è, in linea di principio, indifferente la persona del creditore. L’accettazione della
cessione da parte del debitore ceduto (al pari della notificazione della cessione) costituisce una mera
condizione di opponibilità del trasferimento del credito a debitore stesso, escludendo l’efficacia
liberatoria del pagamento effettuato nelle mani del vecchio creditore. Al contrario, nella fattispecie
della cessione del contratto, la circostanza che il terzo subentri in un complesso unitario di
situazioni giuridiche di natura anche passiva, rende evidente l’essenzialità del consenso del
contraente ceduto per il quale le condizioni patrimoniali e le qualità personali del cessionario –
nuovo creditore e, al tempo stesso, nuovo debitore – non sono, certamente, indifferenti. In questo
senso, l’art. 1406 c.c., là dove richiede il consenso del contraente ceduto, fa applicazione del principio
di relatività degli effetti del contratto e di intangibilità della altrui sfera giuridica.

La rilevata centralità del consenso del contraente ceduto fonda l’adesione della presente pronuncia
(al pari della dottrina e della giurisprudenza prevalenti) alla tesi che qualifica la cessione del contratto
come negozio trilatero, nel quale il consenso del ceduto non rappresenta un elemento esterno ad un
contratto bilaterale fra cedente e cessionario, ma costituisce elemento essenziale ai fini del
perfezionamento di una fattispecie a struttura plurilaterale.

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Ordinanza

(omissis)
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 1404 c.c. in
relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, perchè il giudice di merito non avrebbe tenuto conto che il contratto
del 24.11.1998 stipulato tra i controricorrenti e la C. prevedeva la facoltà di quest'ultima di indicare
un terzo soggetto in sede di stipula del contratto preliminare. Di conseguenza, ove la predetta scrittura
privata fosse stata interpretata (come avrebbe dovuto essere, ad avviso del ricorrente) come
preliminare, non si configurerebbe una cessione del contratto, ma la semplice indicazione della
FIDIAS ai sensi dell'art.1404 c.c.
La censura non è ammissibile perchè introduce un tema nuovo, che non risulta esser mai stato
precedentemente dedotto nelle fasi di merito e che non può essere conseguentemente allegato per la
prima volta in questa sede. Invero dalla narrativa della vicenda, contenuta sia nel ricorso che nella
sentenza impugnata, si evince che la società ricorrente aveva dedotto di essersi resa cessionaria del
contratto del 24.11.1998, in forza di una separata scrittura da essa conclusa in data 30.7.2001,
comunicata poi ai controricorrenti in data 9.8.2001. Ciò dimostra che FIDIAS aveva proposto una
ricostruzione giuridica della fattispecie in termini di cessione del contratto, e non di mera indicazione
del terzo contraente.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 1264 c.c. in
relazione all'art. 1264 c.c. in quanto il giudice di merito avrebbe erroneamente respinto anche la
domanda subordinata di restituzione della somma di lire 250.000.000 senza tener conto che si trattava
di un diritto di credito, per la cui cessione dalla C. alla FIDIAS non era necessario alcun consenso dei
debitori ceduti.
Il motivo è infondato. La cessione del contratto costituisce evidentemente una fattispecie più
ampia della pura e semplice cessione del credito, posto che con essa il cedente trasferisce al
cessionario l'intero complesso delle obbligazioni nascenti dal contratto oggetto di cessione. La
circostanza che in tale complesso siano comprese anche pretese creditorie non esclude la
necessità del consenso del contraente ceduto, prevista chiaramente dall'art. 1406 c.c..
La giurisprudenza è costante nel ritenere che la cessione del contratto costituisce un contratto
plurilaterale, che si perfeziona quando il proponente (o i proponenti, nel caso di proposta
comune tra cedente e cessionario) ha notizia dell'accettazione dell'ultimo dei due destinatari,
assumendo pertanto imprescindibile rilievo al riguardo (pure) il consenso del contraente
ceduto, che, così come quello delle altre parti, può essere espresso anche tacitamente (salvo che

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per il contratto ceduto siano richiesti particolari requisiti di forma, in tal caso da osservarsi
anche per la cessione del contratto, e, quindi, anche da parte del ceduto medesimo) ed in un
momento successivo all'accordo tra cedente e cessionario, sempre che quest'ultimo non sia
venuto meno (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5244 del 15/03/2004, Rv.571160; cfr. anche Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 6157 del 16/03/2007, Rv.595523).
La differenza tra le due figure (cessione del credito e cessione del contratto) sta anzitutto
nell'oggetto: con la cessione del credito si cede solo il lato attivo del rapporto, mentre con la
cessione del contratto si cede tutta la posizione contrattuale, compresi oneri accessori,
prestazioni secondarie, eccetera.
Inoltre, la differenza è ravvisabile nelle azioni ed eccezioni trasferite ed esercitabili dal
cessionario: con la cessione del credito si cedono solo le azioni volte a recuperare il credito
(azione di adempimento e garanzie correlate), mentre con la cessione del contratto si cedono tutte
le azioni relative al contratto (incluse quelle di risoluzione, rescissione, eccetera). La differenza
strutturale e funzionale tra le due distinte fattispecie è stata colta e chiarita da Cass. Sez. 2, Sentenza
n. 7752 del 24/06/1992 (Rv. 477899) secondo la quale il consenso del contraente ceduto costituisce
elemento costitutivo del negozio complesso di cessione del contratto, al pari del consenso degli altri
due soggetti del rapporto (cedente e cessionario), a differenza della cessione del credito, nella quale
il consenso del debitore ceduto è invece estrinseco alla convenzione.
Proprio in funzione della natura complessa e della struttura unitaria e necessariamente trilaterale del
negozio di cessione del contratto, si ritiene che esso non sia più possibile nell'ipotesi in cui, in un
contratto a prestazioni corrispettive, una delle parti abbia adempiuto a tutte le proprie obbligazioni,
sicchè il contraente ceduto sia rimasto solo creditore o solo debitore del cedente, perchè in tal caso
non è ravvisabile la condizione necessaria della cessione del contratto, che deve avere per oggetto la
complessiva posizione attiva e passiva del contraente ceduto (Cass. Sez. 2, Sentenza n.11847 del
29/11/1993, Rv.484548).

6. SOPRAVVENUTO DIFETTO DELL’ELEMENTO FUNZIONALE DEL CONTRATTO


PER SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI UTILIZZAZIONE DELLA
PRESTAZIONE: Cassazione Civile, 24 luglio 2007, n. 16315.

Introduzione

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Con la nota pronuncia in esame concernente un caso di contratto di viaggio cd. “tutto compreso”, la
Suprema Corte ha affrontato il fenomeno delle sopravvenienze contrattuali alla luce della moderna
nozione di causa, interrogandosi sulla sorte del contratto nell’ipotesi in cui, per effetto di circostanze
sopravvenute alla stipulazione, venga meno la possibilità che si realizzi la causa concreta dello stesso.
Punto di partenza del ragionamento della Suprema Corte è, dunque, la nozione di causa in
concreto che, secondo la definizione datane dalla Cassazione con la altrettanto nota pronuncia
8 maggio 2006, n. 10490, non deve più intendersi quale funzione economico – sociale propria di
un certo tipo contrattuale, bensì come funzione economico – individuale dello specifico negozio
stipulato dalle parti, quale, cioè, sintesi degli interessi reali che il singolo contratto è
concretamente diretto a realizzare a prescindere dal tipo contrattuale astratto.
Orbene, se, come noto, il legislatore, all’art. 1463 c.c., subordina l’estinzione del rapporto
obbligatorio al verificarsi di circostanze sopravvenute che rendano la prestazione dovuta
oggettivamente ed assolutamente impossibile, la Corte di Cassazione conclude nel senso che, pur in
assenza di una esplicita previsione normativa in tal senso, deve ritenersi causa di estinzione
dell’obbligazione anche la diversa ipotesi di sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della
prestazione da parte del creditore. Si tratta, cioè, di tutte quelle ipotesi in cui, pur essendo la
prestazione ancora in astratto eseguibile, l’intervento di vicende sopravvenute fa venire meno
l’idoneità della stessa a realizzare in concreto lo scopo perseguito dalle parti con la stipulazione del
contratto. L’impossibilità sopravvenuta della utilizzabilità della prestazione estingue il rapporto
obbligatorio per il venire meno dell’interesse del creditore, causando, di conseguenza, lo scioglimento
del contratto che dell’obbligazione è fonte per sopravvenuta irrealizzabilità della relativa causa
concreta.
Pertanto, con riferimento allo specifico caso portato all’attenzione dei giudici di legittimità, poiché
lo scopo di svago e piacere sotteso al contratto di viaggio cd. “tutto compreso” non costituisce un
mero, irrilevante motivo soggettivo, ma assurge a causa concreta del contratto, rappresentando lo
scopo precipuo per cui è stato concluso, l’impossibilità della sua realizzazione in ragione di una
sopravvenuta epidemia di dengue emorragica, comporta lo scioglimento del contratto senza che sia
dovuto il pagamento di alcuna penale.

Massima

Nel contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (c.d. "pacchetto turistico" o package, disciplinato
attualmente dagli art. 82 ss. del d.lgs. n. 206 del 2005 - c.d. "codice del consumo"), che si caratterizza
per la prefissata combinazione di almeno due degli elementi rappresentati dal trasporto,

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dall'alloggio e da servizi turistici agli stessi non accessori (itinerario, visite, escursioni con
accompagnatori e guide turistiche, ecc.) costituenti parte significativa di tale contratto, con durata
superiore alle ventiquattro ore ovvero estendentesi per un periodo di tempo comportante almeno un
soggiorno notturno, la "finalità turistica" (o "scopo di piacere") non è un motivo irrilevante ma si
sostanzia nell'interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, connotandone la causa
concreta e determinando, perciò, l'essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla
realizzazione del preminente scopo vacanziero. Ne consegue che l'irrealizzabilità di detta finalità per
sopravvenuto evento non imputabile alle parti determina, in virtù della caducazione dell'elemento
funzionale dell'obbligazione costituito dall'interesse creditorio (ai sensi dell'art. 1174 c.c.),
l'estinzione del contratto per sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione, con
esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni.

Sentenza

(omissis)
Con il 1^ motivo la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1256, 1463
e 1464 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; insufficiente e contraddittoria motivazione
su punto decisivo della controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si duole essere
stata nel caso erroneamente ritenuta integrata un'ipotesi di impossibilità sopravvenuta della
prestazione, tale viceversa non essendo la "prestazione dedotta in contratto" (nella specie il viaggio
ed il soggiorno nella destinazione pattuita), in difetto di "prova alcuna dell'esistenza di provvedimenti
di interdizione o di restrizione ai flussi turistici per la destinazione prescelta, ovvero dell'oggettiva
impossibilità di raggiungere e soggiornare nella città di Santiago de Cuba".
Lamenta che si sono a tale stregua privilegiate piuttosto le "finalità ulteriori" in base alle quali
l'acquirente del "pacchetto turistico" si è nel caso indotto ad esercitare il "recesso" dal contratto,
indebitamente assegnandosi rilievo a mere "soggettive valutazioni circa l'opportunità e la
convenienza di effettuare il viaggio (non volendo egli esporsi neppure a rischi modesti)", anzichè
all'"effettiva impossibilità di fruire dei servizi offerti dall'organizzazione in conformità del contratto".
Si duole che non si sia tenuto conto come già "dalla comunicazione in data 17.7.1997 dell'Ambasciata
di Cuba a Roma (doc. 2 del fascicolo di primo grado)", e quindi in epoca precedente all'esercizio del
recesso", la situazione sanitaria risultava essere "totalmente sotto controllo, e ricondotta in condizioni
di normalità", essendosi altresì trascurato di considerare che "il dengue emorragico è malattia
endemica nell'isola di Cuba, mai debellata. Non a caso il Ministero degli Esteri italiano non ha mai
diramato alcuna comunicazione intesa a vietare, o anche solo a sconsigliare, i viaggi verso Cuba e

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verso la città di Santiago de Cuba". Con il 2^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione della
L. n. 1084 del 1977, art. 9, nonchè della specifica disciplina contrattuale in tema di recesso del
viaggiatore", in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Lamenta la violazione nel caso della
disciplina sia convenzionale (art. 5 condizioni generali del contratto di viaggio) che legale (L. n. 1084
del 1977, art. 9) in materia di contratto di viaggio, in base alla quale, a fronte della possibilità per
l'acquirente di "pacchetto turistico" di recedere dal contratto, spetta all'organizzatore del viaggio la
corresponsione "di un corrispettivo via via crescente in relazione all'approssimarsi della data della
prevista partenza". Si duole non essersi dai Giudici di merito altresì considerato che ad "integrazione
del contratto di viaggio oggetto della controversia (doc. n. 4 del fascicolo della fase monitoria)" per
l'ipotesi del recesso del viaggiatore era stato nella specie espressamente previsto il seguente
regolamento convenzionale: "- nessun corrispettivo a carico del viaggiatore nel caso di recesso sino
a 45 giorni lavorativi prima della partenza; - un corrispettivo del 10% del costo del viaggio nel caso
di recesso esercitato tra i 45 ed i 21 giorni lavorativi prima della partenza; un corrispettivo del 50%
da 20 a 11 giorni lavorativi prima della partenza; - un corrispettivo del 75% da 10 a 3 giorni prima
della partenza; l'intero prezzo del viaggio oltre tale ultimo termine".
Lamenta che nel violare "tale assetto", si è nell'impugnata sentenza pervenuti a "porre a carico
dell'organizzatore di viaggi il rischio di qualunque evento, ancorchè non dipendente dalla sua volontà
nè imputabile a sua responsabilità, che sia suscettibile di rendere il viaggio anche solo
soggettivamente meno piacevole per il viaggiatore".
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili ed
in parte infondati nei termini di seguito indicati.
(omissis)
Orbene, va anzitutto posto in rilievo come risulti corretta la qualificazione operata dal giudice
dell'appello della vicenda posta nella specie in essere dalle parti in termini di contratto viaggio
vacanza "tutto compreso" (cd. "pacchetto turistico" o package) previsto dal D.Lgs. n. 111 del
1995, ed ora trasfuso nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 82 e segg. (cd. Codice del Consumo).
Ipotesi che va invero distinta dal contratto di organizzazione (art. 5 e segg.) o di intermediazione (art.
17 e segg.) di viaggio (CCV) di cui alla Conv. Bruxelles del 23/4/1970 (resa esecutiva con L. 27
dicembre 1977, n. 1084), in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso
corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, ecc.) per l'effettuazione di un
viaggio o di un soggiorno. Rispetto a quest'ultimo, in cui le prestazioni ed i servizi si profilano come
separati, e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e
dell'intermediazione (cfr. Cass., 17/7/2001, n. 9691; Cass., 6/11/1996, n. 9643), con applicazione in
particolare della disciplina del trasporto (v. Cass., 6/11/1996, n. 9643; Cass., 26/6/1964, n. 1706)

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ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto dei clienti
- del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi (v. Cass., 23/4/1997, n. 3504; Cass.,
6/1/1982, n. 7; Cass., 28/5/1977, n. 2202), ed al di là del diverso ambito di applicazione derivante dai
(differenti) limiti territoriali, il contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (o di package) si
caratterizza sia sotto il profilo soggettivo che per l'oggetto e la finalità.
Il "pacchetto turistico", che può essere dall'organizzatore alienato direttamente o tramite un venditore
(D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 3, comma 2, ora trasfuso nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 83, comma 2,
- Codice del consumo -), risulta infatti dalla prefissata combinazione di almeno due degli elementi
costituiti dal trasporto, dall'alloggio e da servizi turistici agli stessi non accessori (itinerario, visite,
escursioni con accompagnatori e guide turistiche, ecc.) costituenti parte significativa del "pacchetto
turistico", con durata superiore alle 24 ore ovvero estendentesi per un periodo di tempo comportante
almeno una notte (D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 2 e segg., ora trasfuso nell'art. 84 del Codice del
Consumo).
La pluralità di attività e servizi che compendiano la prestazione valgono in particolare a connotare la
finalità che la stessa è volta a realizzare.
Il trasporto o il soggiorno o il servizio alberghiero assumono infatti al riguardo rilievo non già
singolarmente e separatamente considerati bensì nella loro unitarietà funzionale, non potendo al
riguardo prescindersi dalla considerazione dei medesimi alla stregua della "finalità turistica" che la
prestazione complessa di cui si sostanziano appunto quali elementi costitutivi è funzionalmente volta
a soddisfare.
I plurimi aspetti e profili in cui viene a compendiarsi la complessa prestazione ideata ed organizzata
dal cd. tour operator sono infatti funzionalizzati al soddisfacimento dei profili - da apprezzarsi in
condizioni di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso - di relax, svago, ricreativi,
ludici, culturali, escursionistici, ecc. in cui si sostanzia la "finalità turistica", o lo "scopo di
piacere" assicurato dalla vacanza, che il turista- consumatore in particolare persegue
nell'indursi alla stipulazione del contratto di viaggio vacanza "tutto compreso".
Diversamente da quanto sostenuto dall'odierna ricorrente, la suddetta "finalità turistica" (o "scopo
di piacere") non costituisce pertanto un irrilevante motivo del contratto de quo.
La "finalità turistica" non si sostanzia infatti negli interessi che rimangono nella sfera volitiva
interna dell'acquirente il package costituendo l'impulso psichico che lo spingono alla
stipulazione del contratto, ma viene ad (anche tacitamente) obiettivarsi in tale tipo di contratto,
divenendo interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, pertanto connotandone
la causa concreta (cfr. Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 8/5/2006, n. 10490). Causa concreta che,
da un canto, vale a qualificare il contratto, determinando l'essenzialità di tutte le attività ed i servizi

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strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero, e cioè il benessere psico-fisico che il
pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare. Da altro
canto, assume rilievo quale criterio di adeguamento del contratto.
La causa concreta viene a rivestire, come non si è mancato di osservare in dottrina, decisiva
rilevanza altresì in ordine alla sorte della vicenda contrattuale, in ragione di eventi sopravvenuti
che si ripercuotono sullo svolgimento del rapporto, quali ad es. l'impossibilità o l'aggravio della
prestazione, l'inadempimento, ecc..
Eventi negativamente incidenti sull'interesse creditorio (nel caso, turistico) sino a farlo venire del
tutto meno laddove - in base a criteri di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso -
essi depongano per l'impossibilità della relativa realizzazione. In tal caso, il venir meno
dell'interesse creditorio determina invero l'estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del
sopravvenuto difetto dell'elemento funzionale (art. 1174 c.c.). E ove come nella specie il
rapporto obbligatorio trovi fonte in un contratto, il venir meno dell'interesse creditorio
comporta la irrealizzabilità della causa concreta del medesimo, assumendo conseguentemente
rilievo quale autonoma causa di relativa estinzione. Il venir meno dell'interesse creditorio e
della causa del contratto che ne costituisce la fonte, va al riguardo sottolineato, può essere
invero determinata anche dalla sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione.
Deve trattarsi di impossibilità di utilizzazione della prestazione non imputabile al creditore, incidente
sull'interesse che risulta anche tacitamente obiettivato nel contratto e che ne connota la causa
concreta.
Trattandosi di contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (o di package) la sopravvenuta
impossibilità di utilizzazione della prestazione deve essere come nella specie tale da vanificare o
rendere irrealizzabile la "finalità di vacanza", laddove irrilevanti rimangono viceversa le finalità
ulteriori per le quali il turista si induce a stipulare il contratto (es., desiderio di allontanarsi per un po´
dal coniuge o dalla ci cerchia degli amici o dall'ambiente di lavoro), in cui si sostanziano propriamente
i motivi.
Come è stato posto in rilievo in dottrina, l'impossibilità sopravvenuta di utilizzazione della
prestazione costituisce figura diversa dall'impossibilità sopravvenuta (totale o parziale) della
prestazione, cui non è invero riconducibile.
La totale impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.), che consiste in un impedimento
assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, della prestazione (v. Cass., 16/2/2006, n. 3440; Cass.,
22/10/1982, n. 5496; Cass., 6/2/1979, n. 794; Cass., 27/6/1978, n. 3166; Cass., 8/10/1973, n. 2532;
Cass., 14/10/1970, n. 2018; Cass., 29/10/1962, n. 3076), integra infatti un fenomeno di automatica
estinzione dell'obbligazione e risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte ai sensi dell'art.

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1463 c.c. e art. 1256 c.c., comma 1 (v. Cass., 28/1/1995, n. 1037; Cass., 9/11/1994, n. 9304; Cass.,
24/4/1982, n. 2548; Cass., 14/10/1970, n. 2018), in ragione del venir meno della relazione di
interdipendenza funzionale in cui la medesima si trova con la prestazione della controparte (cd.
sinallagma funzionale), a tale stregua conseguendo la irrealizzabilità della causa concreta del
contratto (cfr. Cass., 24/4/1982, n. 2548; Cass., 15/12/1975, n. 4140; Cass., 26/3/1971, n. 882; Cass.,
14/4/1959, n. 1092; Cass., 26/3/1954, n. 894).
L'impossibilità parziale (art. 1464 c.c.) consiste invece nel deterioramento della cosa dovuta, o più
generalmente nella riduzione materiale della prestazione (cfr. Cass., 10/4/1995, n. 4119) che dà luogo
ad una corrispondente riduzione della controprestazione o al diritto al recesso per la parte che non
abbia un apprezzabile interesse al mantenimento del contratto, laddove la prestazione residua venga
a risultare incompatibile con la causa concreta del contratto (cfr. Cass., 15/12/1975, n. 4140).
Diversamente da tale ipotesi, l'impossibilità di utilizzazione della prestazione non viene in realtà
a sostanziarsi in un impedimento precludente l'attuazione dell'obbligazione, non
presupponendone di per sè l'obiettiva ineseguibilità da parte del debitore. Pur essendo la
prestazione in astratto ancora eseguibile (cfr. Cass., 27/9/1999, n. 10690), il venir meno della
possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto (nel
caso, lo "scopo di piacere" in cui si sostanzia la "finalità turistica"), essa implica il venir meno
dell'interesse creditorio, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera del creditore (in
dottrina si segnala l'esempio secondo cui il fatto che il compratore si sia procurata la merce da altro
fornitore non impedisce al venditore di effettuare la consegna prevista). Come osservato in dottrina,
mentre nelle ipotesi in cui la prestazione diviene impossibile l'obbligazione si estingue per il concorso
delle due cause estintive, l'impossibilità sopravvenuta della utilizzabilità della prestazione
estingue invero il rapporto obbligatorio per il venir dell'interesse creditorio, e di conseguenza
il contratto che dell'obbligazione costituisce la fonte per irrealizzabilità della relativa causa
concreta. La sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione deve dunque distinguersi
dalla sopravvenuta impossibilità della esecuzione della prestazione (v. peraltro ancora Cass.,
2/5/2006, n. 10138) di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c. (v. Cass., 16/2/2006, n. 3440; Cass., 28/1/1995,
n. 1037).
Superando le perplessità in passato avvertite in argomento (v. Cass., 9/11/1994, n. 9304), e in accordo
con quanto anche autorevolmente sostenuto in dottrina, va pertanto affermato che l'impossibilità di
utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non specificamente
prevista, costituisce - analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione - (autonoma)
causa di estinzione dell'obbligazione.

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Nella vicenda che ne occupa, secondo quanto accertato dai Giudici di merito l'epidemia di dengue
emorragico in atto nell'isola di Cuba ha invero indubbiamente determinato nell'acquirente del
"pacchetto turistico" tutto compreso de quo il venir meno dell'interesse pratico che la relativa
complessa prestazione era, nella sua unitaria considerazione, nel caso funzionalmente volta a
soddisfare. Premesso che (anche) l'impossibilità della esecuzione della prestazione complessa del
contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" o package è da valutarsi avuto riguardo allo "scopo
turistico" che il medesimo è funzionalizzato a soddisfare, va sottolineato come nell'impugnata
sentenza risulti in effetti posto in rilievo che il contratto de quo "si sostanziava non nella semplice
messa a disposizione di un pacchetto turistico ma nella necessità di assicurare che quella vacanza
sarebbe stata poi fruita in condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri
di un turista medio".
Il Giudice dell'appello, nell'escludere la ricorrenza nel caso dell'ipotesi di sopravvenuta impossibilità
di esecuzione della prestazione ai sensi dell'art. 1463 c.c., viceversa ravvisata dal Giudice di prime
cure, ha ritenuto nella specie configurabile un'ipotesi di impossibilità parziale ex art. 1464 c.c., della
prestazione, in presenza di prestazione ravvisata effettuabile pur se "monca", stante l'accertata
mancanza degli "adeguati standard di sicurezza sanitaria". Orbene, anche la parziale impossibilità
sopravvenuta della prestazione di cui all'art. 1464 c.c., appare invero nel caso non correttamente
evocata.
L'epidemia di dengue emorragico costituisce infatti evento determinante non già il deterioramento o
la riduzione della prestazione (v. Cass., 17/7/1987, n. 6299) bensì il venir meno del normale standard
di sicurezza sanitaria del luogo di esecuzione della prestazione turistica.
Nella situazione nel caso determinatasi, certamente non deponente per la normalità delle condizioni
igienico-sanitarie dell'Isola di Cuba, l'esecuzione della prestazione turistica è venuta a risultare
infatti comunque inidonea al soddisfacimento dell'interesse del V. al godimento della vacanza
"tutto compreso" nei suoi molteplici aspetti di relax, svago, culturali, ecc., pienamente godibili
solamente in presenza delle imprescindibili condizioni di sicurezza sanitaria, secondo i normali
standard del luogo di destinazione prescelto, come dai Giudici del merito correttamente posto in
rilievo nel sottolineare che l'accertata sussistenza di "focolaio endemico non ... ancora completamente
debellato" non rispondeva alla "necessità di assicurare che quella vacanza sarebbe stata poi fruita in
condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri di un turista medio". Tale
mancanza ha nella specie inciso, in termini di relativo venir meno, sull'interesse creditorio del
suindicato acquirente del "pacchetto turistico", con conseguente sopravvenuta irrealizzabilità
della causa concreta del contratto de quo dal medesimo stipulato. Alla stregua di quanto sopra
esposto va allora affermato che è piuttosto la sopravvenuta impossibilità (non ascrivibile alle

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parti) di utilizzazione della prestazione in argomento da parte del V. a venire nel caso
propriamente in rilievo.
Nell'adeguatamente valorizzare l'interesse creditorio e la causa concreta del contratto di package
anche sotto il profilo della sorte del rapporto obbligatorio e della vicenda contrattuale, tale figura non
privilegia invero la "impossibilità del raggiungimento delle soggettive finalità ulteriori del creditore",
e pertanto i motivi, attribuendo decisivo rilievo al suo "sopravvenuto sgradimento" per "la
destinazione prescelta per il viaggio", ma consente di valorizzare gli specifici ed essenziali interessi
perseguiti mediante la stipulazione di tale tipo di contratto, che ne integrano la causa concreta.
Inconfigurabili soluzioni estreme come quella prevista all'art. 1463 c.c., la figura della sopravvenuta
impossibilità di utilizzazione della prestazione si rivela istituto dotato di flessibilità, là dove consente
di pervenire, nel coerente contemperamento delle diverse esigenze, a soluzioni differenti in presenza
di situazioni diverse, senza che le parti incorrano in responsabilità.
Lo "scopo turistico" consente infatti di spiegare come la relativa persistenza giustifichi l'esecuzione
del contratto in favore del turista che intenda usufruirne, anche a costo di correre il rischio di contrarre
il morbo, senza esporre il tour operator alle conseguenze dell'inadempimento in cui incorrerebbe
laddove intendesse non darvi più attuazione. E al contempo permette al turista che come nella specie
quel rischio non voglia viceversa correre di non avvalersi della prestazione senza essere comunque
tenuto alla corresponsione del corrispettivo.
Emerge con tutta evidenza a tale stregua come, quand'anche obiettivamente eseguibili il trasporto ed
il soggiorno nella loro autonoma e separata considerazione, la complessa prestazione del contratto di
viaggio vacanza "tutto compreso" in questione risulta nel caso divenuta per il V. inutilizzabile, stante
la non disponibilità del medesimo ad usufruirne anche a rischio della contrazione del morbo. Rischio
che, diversamente da quanto sembra invero in qualche modo adombrare l'odierno ricorrente laddove
si duole che "il recesso del viaggiatore era stato dettato esclusivamente da sue soggettive valutazioni
circa l'opportunità e la convenienza di effettuare il viaggio (non volendo egli esporsi neppure a rischi
modesti...."), certamente al medesimo non può invero, quand'anche - in ipotesi - minimo, "imporsi"
di correre. Essendo la prestazione de qua divenuta inidonea a soddisfare l'interesse creditorio,
l'estinzione dello stipulato contratto in argomento per irrealizzabilità della causa concreta
comporta, va infine sottolineato, l'esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni.
Il debitore non è pertanto più tenuto ad eseguirla, ed il creditore non ha l'onere di accettarla.
Non vi è pertanto luogo nel caso alla corresponsione dell'indennità per il recesso di cui alla
evocata disciplina in tema di contratto di viaggio (C.C.V.).

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7. USURA SOPRAVVENUTA: Cassazione Civile, Sezioni Unite, 19 ottobre 2017, n. 24675.

Introduzione

Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite di Cassazione hanno affrontato l’annosa questione
concernente l’ammissibilità e la rilevanza della cd. usura sopravvenuta che ricorre quando il tasso
degli interessi originariamente pattuito dalle parti in misura lecita, venga a superare, nel corso dello
svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della L. 7
marzo 1996, n. 108. Due, in particolare, sono le fattispecie in relazione alle quali si pone il problema
dell’usura sopravvenuta: da un lato, i rapporti contrattuali sorti anteriormente alla L. n. 108/1996 e
destinati ad esaurirsi successivamente alla stessa, nell’ambito dei quali la clausola determinativa degli
interessi diventi usuraria proprio in conseguenza della sopravvenuta entrata in vigore della normativa
citata; dall’altro, i rapporti contrattuali sorti dopo l’intervento della cd. Legge antiusura, nei quali il
tasso degli interessi originariamente pattuito nel rispetto dei limiti legali venga, successivamente, a
superare detti limiti a seguito della rideterminazione trimestrale del tasso soglia da parte del Ministero
del Tesoro.
La questione ruota, evidentemente, attorno al problema dell’individuazione del momento cui
fare riferimento per stabilire l’usurarietà del tasso di interessi convenzionalmente determinato
dalle parti: quello della pattuizione ovvero quello successivo della datio.
L’intervento delle Sezioni Unite si è reso necessario in considerazione del fatto che, nonostante il
legislatore sia intervenuto con una norma di interpretazione autentica apparentemente idonea a
escludere definitivamente la configurabilità della cd. usura sopravvenuta (decreto legge n. 394/2000,
convertito in L. n. 24/2001, in forza del quale “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e dell’art.
1815, co. 2 c.c. si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel
momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal
momento del loro pagamento”), il dibattito sulla questione è rimasto vivo, registrando la tendenza di
una parte della giurisprudenza a sanzionare l’usura sopravvenuta sul piano civilistico attraverso
rimedi alternativi alla nullità testuale di cui all’art. 1815, co. 2 c.c.. È evidente, infatti, che tale ultima
disposizione, laddove prevede non già la automatica sostituzione del tasso legale a quello
convenzionale usuraio, bensì l’integrale gratuità del mutuo, è animata da una funzione sanzionatoria
che si attanaglia al solo caso dell’usura originaria in cui il creditore, abusando della propria posizione
di forza, ha imposto, sin dal momento della pattuizione, un tasso di interesse superiore a quello
consentito.

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Una prima parte della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Civ., 11 gennaio 2013, n. 602 e n. 603),
senza operare alcun riferimento espresso alla citata norma di interpretazione autentica, ha fatto
applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 1419, co. 2 c.c. e 1339 c.c,., e ciò in base alla
premessa di fondo per cui la norma che fissa il tetto massimo del tasso degli interessi deve ritenersi
di natura imperativa. Ne deriva che, ferma l’inapplicabilità della nullità testuale di stampo
sanzionatorio di cui all’art. 1815, co. 2 c.c., la clausola divenuta usuraria nel corso dello svolgimento
del rapporto dovrà ritenersi affetta da una forma di nullità virtuale sopravvenuta per la parte di
interessi che eccedano la misura consentita dalla legge al momento della datio. Pertanto, in ossequio
al disposto dell’art. 1339 c.c. in tema di nullità parziale, il saggio degli interessi convenzionalmente
pattuito sarà automaticamente ridotto al tasso soglia fissato dalla legge. Altra parte della
giurisprudenza (cfr. Cass. Civ., 25 febbraio 2005, n. 4092; Cass. Civ. 25 febbraio 2005, n. 4093;
Cass. Civ., 14 marzo 2013, n. 6550; Cass. Civ., 31 gennaio 2006, n. 2149; Cass. Civ., 22 agosto
2007, n. 17854; Cass. Civ., 17 agosto 2016, n. 17150), invece, sempre senza operare alcun richiamo
espresso alla predetta norma di interpretazione autentica, ha ritenuto che la clausola contrattuale
recante un tasso di interessi divenuto usurario successivamente alla sua pattuizione non sia colpita da
invalidità sub specie di nullità, bensì da inefficacia ex nunc. L’intervenuta sopravvenienza, infatti,
non atterrebbe al piano del contratto inteso come atto, ma a quello del contratto come rapporto e,
dunque, al piano degli effetti dello stesso. Non sono mancate, infine, pronunce di legittimità (cfr.
Cass. Civ., 12 aprile 2017, n. 9405) che, pur prendendo in considerazione esplicitamente la citata
norma di interpretazione autentica, hanno escluso di poter inferire dalla stessa la totale liceità della
pretesa del pagamento di interessi in misura divenuta eccedente alla soglia dell’usura. Secondo questo
ulteriore orientamento giurisprudenziale, infatti, la suddetta norma dovrebbe essere interpretata nel
senso di attribuire rilevanza al momento della pattuizione degli interessi anziché a quello della
successiva datio ai soli fini dell’applicazione della sanzione penale di cui all’art. 644 c.p. e della
sanzione civile dell’integrale gratuità del mutuo di cui all’art. 1815, co. 2 c.c.. La pretesa del
pagamento di interessi ad un tasso divenuto superiore a quello soglia nel corso del rapporto
resterebbe, però, civilmente illecita per contrarietà al permanente e generale divieto di usura sancito
dall’ordinamento con la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 644 c.p. Dovrebbe, dunque,
concludersi, anche in questo caso, per l’operare del meccanismo, ex art. 1339 c.c., della sostituzione
automatica della clausola convenzionale con il tasso-soglia previsto dalla legge.
Quanto alla giurisprudenza di merito, infine, talune delle pronunce intervenute sulla questione hanno
ritenuto di fare applicazione del principio generale di buona fede oggettiva nell’esecuzione dei
contratti ex art. 1375 c.c.. Senza che venga a configurarsi un caso di invalidità, la pretesa del

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pagamento di interessi in una misura superiore a quella ammessa e ritenuta corretta dalla legge al
momento della dazione, sarebbe inesigibile perché violativa del generale divieto di abuso del diritto.
Disattendendo gli orientamenti sopra esposti, le Sezioni Unite hanno definitivamente negato la
configurabilità del fenomeno dell’usura sopravvenuta sul presupposto che – in aderenza a
quando affermato dalla norma di interpretazione autentica, vincolante per il giudice – l’unico
momento rilevante ai fini della valutazione dell’usurarietà del tasso degli interessi è quello della
sua pattuizione.
Secondo il Supremo Consesso, in primo luogo, deve ritenersi del tutto infondata la tesi sopra descritta
che limita la portata della norma di interpretazione autentica alla sola sanzione penale e a quella civile
della integrale gratuità del mutuo concludendo per la permanente illiceità, sul piano civilistico, della
pretesa del pagamento di interessi ad un tasso divenuto usurario. Poiché, infatti, tale presunta illiceità
originerebbe dalla violazione di un divieto, quello di usura, che è contenuto nella fattispecie
incriminatrice di cui all’art. 644 c.p., deve ritenersi che in tanto potrà configurarsi un illecito civile,
in quanto sia stata violata tale disposizione penalistica, la cui concreta applicazione è, però,
subordinata dalla norma di interpretazione autentica (da cui il giudice non può discostarsi) alla
rilevazione del tasso al momento della sua pattuizione, a prescindere a quello successivo della
concreta dazione.
Del pari infondata, ad opinione delle Sezioni Unite, è la tesi, sostenuta da alcune pronunce di merito,
in forza della quale la pretesa del pagamento di interessi divenuti usurari dovrebbe ritenersi in ogni
caso inesigibile per contrarietà al canone generale della buona fede oggettiva ed al connesso divieto
di abuso del diritto.
La Cassazione, infatti, afferma che la clausola generale di buona fede costituisce un criterio di
integrazione del contratto rilevante ai fini dell’esecuzione dello stesso, ossia della realizzazione dei
diritti che dallo stesso discendono; ciò con la conseguenza che la violazione della suddetta clausola
non può essere ricollegata all’esercizio in sé di tali diritti, ma solo alle modalità, eventualmente
scorrette o fraudolente, con cui tale esercizio si realizzi in concreto. Va, dunque, escluso che configuri
violazione del canone della buona fede, paralizzabile con l’eccezione di dolo generale, la pretesa in
sé degli interessi divenuti superiori alla soglia dell’usura, e ciò in quanto tale pretesa corrisponde a
un diritto validamente riconosciuto dal contratto.

Massima

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Nei contratti di mutuo, allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi,
nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell'usura, come determinata in base alle
disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l'inefficacia della clausola
contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all'entrata in vigore
della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia
quale risultante al momento della stipula, né la pretesa del mutuante, di riscuotere gli interessi
secondo il tasso validamente concordato, può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto
superamento di detta soglia, contraria al dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto.

Sentenza

(omissis)
1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando vizio di motivazione e violazione di norme di diritto,
si contesta la qualificazione del mutuo oggetto di causa come fondiario sulla base del solo richiamo,
nel contratto, del D.P.R. n. 7 del 1976, cit., a prescindere dall'accertamento dei necessari requisiti
oggettivi.
2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si
contesta che, comunque, la qualificazione del mutuo come fondiario comporti l'inapplicabilità delle
disposizioni della L. n. 108 del 1996. In base a tali disposizioni si soggiunge - il tasso d'interesse che
al momento della pattuizione non ecceda la soglia dell'usura determinata secondo il meccanismo
previsto dalla medesima legge, ma che superi poi tale soglia nel corso del rapporto, è comunque
illegittimo e comporta la nullità della relativa clausola contrattuale. Il che fa sorgere la necessità di
individuare un tasso sostitutivo ai sensi degli artt. 1419 e 1339 c.c., non essendo invocabile la
previsione di gratuità del mutuo di cui all'art. 1815, comma 2 - come modificato dalla stessa legge
che è esclusa dall'interpretazione autentica di tale disposizione imposta dal D.L. n. 394 del 2000, art.
1, comma 1, cit. Il tasso sostitutivo va individuato - si conclude - quantomeno in quello meno
favorevole al mutuatario, ossia il tasso soglia, come ritenuto dal giudice di primo grado.
3. I due motivi, da esaminare congiuntamente data la loro connessione, non possono trovare
accoglimento, anche se la motivazione della sentenza impugnata va corretta nei sensi che seguono
(art. 384 c.p.c., u.c.).
3.1. E' infatti privo di fondamento - come denunciato nella prima parte del secondo motivo di ricorso
- l'assunto, da cui muove la Corte d'appello, che il carattere fondiario del mutuo dispensi
dall'osservanza delle disposizioni della richiamata legge n. 108 sull'usura. Basterà osservare, in
proposito, che nessuna disposizione o principio normativo (del resto non specificato nella sentenza

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impugnata) giustifica tale assunto e che non v'è, del resto, alcuna ragione per sottrarre l'importante
settore del credito fondiario al divieto di usura e ai meccanismi approntati dalla legge per renderlo
effettivo.
3.2. Conseguentemente il primo motivo di ricorso, attinente alla qualificazione del mutuo come
fondiario, è assorbito.
3.3. Il fondamento, però, della prima parte del secondo motivo di ricorso non è sufficiente a far cadere
la decisione impugnata, essendo infondata, invece, la seconda parte dello stesso motivo, avente ad
oggetto la questione per la quale la Prima Sezione ha ritenuto necessario l'intervento di queste Sezioni
Unite.
Essa riguarda l'applicabilità o meno delle norme della Legge n. 108 del 1996, ai contratti di mutuo
stipulati prima dell'entrata in vigore di quest'ultima e consiste, più precisamente, nel chiarire quale
sia la sorte della pattuizione di un tasso d'interesse che, a seguito dell'operatività del meccanismo
previsto dalla stessa legge per la determinazione della soglia oltre la quale un tasso è da qualificare
usurario, si riveli superiore a detta soglia.
Peraltro la questione della configurabilità di una "usura sopravvenuta" si pone non soltanto con
riferimento ai contratti stipulati prima dell'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, come
nel caso in esame, ma anche con riferimento a contratti successivi all'entrata in vigore della
legge recanti tassi inferiori alla soglia dell'usura, superata poi nel corso del rapporto per effetto
della caduta dei tassi medi di mercato, che sono alla base del meccanismo legale di
determinazione dei tassi usurari: meccanismo basato, appunto, secondo la L. n. 108, art. 2, sulla
rilevazione trimestrale dei tassi medi praticati per le varie categorie di operazioni creditizie, sui
quali viene applicata una determinata maggiorazione. E si pone, in teoria, con riguardo sia ai tassi
contrattuali fissi che a quelli variabili, anche se in pratica sono essenzialmente i primi a fornire la
casistica sinora nota, dato che la variabilità consente normalmente di assorbire gli effetti del calo dei
tassi medi di mercato. La questione sorse immediatamente all'indomani dell'entrata in vigore della L.
n. 108. La giurisprudenza di legittimità iniziò ad orientarsi nel senso dell'applicabilità della legge ai
rapporti pendenti alla data della sua entrata in vigore, con conseguenze sul tasso d'interesse
contrattuale, sia pure riferite alla sola parte del rapporto successiva a tale data (cfr. Cass. Sez. 3^
02/02/2000, n. 1126; Cass. Sez. 1^ 22/10/2000, n. 5286; Cass. Sez. 1^ 17/11/2000, n. 14899).
Ciò indusse il legislatore ad intervenire appunto con la già richiamata norma d'interpretazione
autentica di cui al D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, che recita: "Ai fini dell'applicazione dell'art.
644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito
dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo,
indipendentemente dal momento del loro pagamento". Si determinò, quindi, nella giurisprudenza

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delle sezioni semplici di questa Corte (quasi tutta riferita a contratti stipulati prima dell'entrata in
vigore della L. n. 108 del 1996) il contrasto tra due orientamenti richiamato nell'ordinanza di
rimessione. Un primo orientamento (cfr. Cass. Sez. 3^ 26/06/2001, n. 8742; Cass. Sez. 1^
24/09/2002, n. 13868; Cass. Sez. 3^ 13/12/2002, n. 17813; Cass. Sez. 3^ 25/03/2003, n. 4380; Cass.
Sez. 3^ 08/03/2005, n. 5004; Cass. Sez. 1^ 19/03/2007, n. 6514; Cass. Sez. 3^ 17/12/2009, n. 26499;
Cass. Sez. 1^ 27/09/2013, n. 22204; Cass. Sez. 1^ 19/01/2016, n. 801) dà alla questione della
configurabilità dell' usura sopravvenuta risposta negativa. Ciò in quanto la norma
d'interpretazione autentica attribuisce rilevanza, ai fini della qualificazione del tasso
convenzionale come usurario, al momento della pattuizione dello stesso e non al momento del
pagamento degli interessi; cosicché deve escludersi che il meccanismo dei tassi soglia previsto
dalla legge n. 108 sia applicabile alle pattuizioni di interessi stipulate in data precedente la sua
entrata in vigore, anche se riferite a rapporti ancora in corso a tale data (pacifico essendo,
peraltro, nella giurisprudenza di legittimità, che la L. n. 108 del 1996, non può trovare applicazione
quanto ai rapporti già esauritisi alla medesima data).
In altre decisioni, al contrario, è stata affermata l'incidenza della nuova legge sui contratti in
corso alla data della sua entrata in vigore, omettendo tuttavia di prendere in considerazione la
norma d'interpretazione autentica di cui al D.L. n. 394 del 2000, cit.:
- Cass. Sez. 3^ 13/06/2002, n. 8442; Cass. Sez. 3^ 05/08/2002, n. 11706 e Cass. Sez. 3^ 25/05/2004,
n. 10032 si sono semplicemente richiamate alla giurisprudenza precedente al decreto legge;
- Cass. Sez. 1^ 25/02/2005, n. 4092; Cass. Sez. 1^ 25/02/2005, n. 4093; Cass. Sez. 3^ 14/03/2013, n.
6550; Cass. Sez. 3^ 31/01/2006, n. 2149 e Cass. Sez. 3^ 22/08/2007, n. 17854 hanno precisato (le
prime tre in obiter dicta) che la clausola contrattuale recante un tasso che poi superi il tasso soglia
non diviene, in conseguenza di tale superamento, nulla, bensì inefficace ex nunc, e tale inefficacia
non può essere rilevata d'ufficio;
- Cass. Sez. 1^ 11/01/2013, n. 602 e n. 603 hanno affermato che nei casi di superamento della soglia
del tasso usurario per effetto dell'entrata in vigore della L. n. 108, cit., opera la sostituzione
automatica, ai sensi dell'art. 1319 c.c., e art. 1419 c.c., comma 2, del tasso soglia del tempo al tasso
convenzionale;
- Cass. Sez. 1^ 17/08/2016, n. 17150 sostiene la rilevabilità d'ufficio dell'inefficacia di cui sopra.
Invece Cass. Sez. 1^ 12/04/2017, n. 9405, nell'affermare l'applicabilità del tasso soglia in sostituzione
del tasso contrattuale che sia divenuto superiore ad esso, fa espresso riferimento alla richiamata norma
d'interpretazione autentica, escludendone però la rilevanza in quanto essa non eliminerebbe l'illiceità
della pretesa di un tasso d'interesse ormai eccedente la soglia dell'usura, ma si limiterebbe ad

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escludere l'applicazione delle sanzioni penali e civili di cui all'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma
2, ferme restando le altre sanzioni civili.
Quest'ultima tesi riprende in sostanza i contributi di una parte della dottrina, secondo la quale, mentre
sarebbe sanzionata penalmente - nonché, nel mutuo, con la gratuità - la pattuizione di interessi che
superino la soglia di legge alla data della pattuizione stessa, viceversa la pretesa di pagamento di
interessi a un tasso non usurario alla data della pattuizione, ma divenuto tale nel corso del rapporto,
sarebbe illecita solo civilmente. Le conseguenze di tale illiceità sono diversamente declinate (nullità,
inefficacia ex nunc) nelle varie versioni della tesi in esame, ma comprendono in ogni caso la
sostituzione automatica, ai sensi dell'art. 1339 c.c., del tasso contrattuale o con il tasso soglia (secondo
una versione), o con il tasso legale (secondo un'altra versione).
3.4. E' avviso di queste Sezioni Unite che debba darsi continuità al primo dei due orientamenti
giurisprudenziali sopra richiamati, che nega la configurabilità dell'usura sopravvenuta,
essendo il giudice vincolato all'interpretazione autentica dell'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c.,
comma 2, come modificati dalla L. n. 108 del 1996, (rispettivamente all'art. 1 e all'art. 4),
imposta dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, cit.; interpretazione della quale la Corte
costituzionale ha escluso la sospetta illegittimità, per violazione degli artt. 3,24,47 e 77 Cost.,
con la sentenza 25/02/2002, n. 29, e della quale non può negarsi la rilevanza per la soluzione
della questione in esame.
E' priva di fondamento, infatti, la tesi della illiceità della pretesa del pagamento di interessi a
un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione (con il contratto o con patti
successivi), alla soglia dell'usura definita con il procedimento previsto dalla L. n. 108, superi
tuttavia tale soglia al momento della maturazione o del pagamento degli interessi stessi.
3.4.1. La ragione della illiceità risiederebbe, come si è visto, nella violazione di un divieto
imperativo di legge, il divieto dell'usura, e in particolare il divieto di pretendere un tasso
d'interesse superiore alla soglia dell'usura come fissata in base alla legge.
Sennonché il divieto dell'usura è contenuto nell'art. 644 c.p.; le (altre) disposizioni della L. n.
108, cit., non formulano tale divieto, ma si limitano a prevedere (per quanto qui rileva) un
meccanismo di determinazione del tasso oltre il quale gli interessi sono considerati sempre
usurari a mente, appunto, dell'art. 644 c.p., comma 3, novellato (che recita: "La legge stabilisce
il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari"). La L. n. 108, art. 2, comma 4, cit. (che
recita: "Il limite previsto dall'art. 644 c.p., comma 3, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari,
è stabilito nel tasso...") definisce, sì, il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, ma si
tratta appunto del limite previsto dall'art. 644 c.p., comma 3, essendo la norma penale l'unica che
contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una

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prestazione di denaro o di altra utilità. Una sanzione (che implica il divieto) dell'usura è contenuta,
per l'esattezza, anche nell'art. 1815 c.c., comma 2, - pure oggetto dell'interpretazione autentica
di cui si discute - il quale però presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove,
ossia, di nuovo, nella norma penale integrata dal meccanismo previsto dalla L. n. 108. Sarebbe
pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare applicazione
dell'art. 644 c.p.; "ai fini dell'applicazione" del quale, però, non può farsi a meno perché così
impone la norma d'interpretazione autentica - di considerare il "momento in cui gli interessi
sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento". Non ha perciò
fondamento la tesi che cerca di limitare l'efficacia della norma di interpretazione autentica alla
sola sanzione penale e alla sanzione civile della gratuità del mutuo, perché in tanto è
configurabile un illecito civile, in quanto sia configurabile la violazione dell'art. 644 c.p., come
interpretato dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1. E non è fuori luogo rammentare che anche
la giurisprudenza penale di questa Corte nega la configurabilità dell'usura sopravvenuta (cfr. Cass.
Sez. 5^ pen. 16/01/2013, n. 8353).
Tale esegesi delle disposizioni della L. n. 108, non contrasta, inoltre, con la loro ratio. Una parte della
dottrina attribuisce alla L. n. 108, una ratio calmieratrice del mercato del credito, che imporrebbe il
rispetto in ogni caso del tasso soglia al momento del pagamento degli interessi. Va però osservato
che la ratio delle nuove disposizioni sull'usura consiste invece nell'efficace contrasto di tale
fenomeno, come si legge nella relazione illustrativa del disegno di legge e come ha affermato anche
la Corte costituzionale nella sentenza sopra richiamata. Il meccanismo di definizione del tasso soglia
è basato infatti - lo si è accennato più sopra - sulla rilevazione periodica dei tassi medi praticati dagli
operatori, sicché esso è configurato dalla legge come un effetto, non già una causa, dell'andamento
del mercato. Con tale ratio è senz'altro coerente una disciplina che dà rilievo essenziale al momento
della pattuizione degli interessi, valorizzando in tal modo il profilo della volontà e dunque della
responsabilità dell'agente. Un ulteriore argomento utilizzato dei sostenitori della configurabilità
dell'usura sopravvenuta e ripreso anche da Cass. Sez. 1^ 9405/2017, cit., è basato su un passaggio
della motivazione della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 2002, in cui i giudici,
dopo avere escluso l'irragionevolezza dell'interpretazione autentica e la sua incompatibilità con il dato
testuale, osservano: "Restano, invece, evidentemente estranei all'ambito di applicazione della norma
impugnata gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario, secondo la generale disciplina
codicistica dei rapporti contrattuali". Poiché, si è osservato, tale affermazione non è un mero obiter
dictum, bensì parte della ratio decidendi, essa è vincolante per l'interprete e impone di considerare
illecita - ancorché non penalmente, né a pena della gratuità del contratto ai sensi dell'art. 1815 c.c.,
comma 2, - la pretesa del pagamento di interessi a un tasso convenzionale divenuto nel tempo

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superiore al tasso soglia. Non conta qui approfondire se il passaggio in questione rientri o meno nella
ratio della decisione dalla Corte costituzionale. Basterà osservare che esso contiene un'affermazione
indubbiamente esatta, ma non contrastante con le conclusioni sopra raggiunte circa la validità ed
efficacia della previsione contrattuale di un tasso d'interesse che finisca poi col superare il tasso soglia
nel corso del rapporto. E' evidente, infatti, che far salva la validità ed efficacia della clausola
contrattuale non significa negare la praticabilità di altri strumenti di tutela del mutuatario previsti
dalla legge, ove ne ricorrano gli specifici presupposti; significa soltanto negare che uno di tali
strumenti sia costituito dalla invalidità o inefficacia della clausola in questione.
Deve perciò concludersi che è impossibile affermare, sulla base delle disposizioni della L. n. 108 del
1996, diverse dall'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, come da essa novellati, che il superamento
del tasso soglia dell'usura al tempo del pagamento, da parte del tasso convenzionale inferiore a tale
soglia al momento della pattuizione, comporti la nullità o l'inefficacia della corrispondente clausola
contrattuale o comunque l'illiceità della pretesa del pagamento del creditore.
3.4.2. L'illiceità della pretesa, tuttavia, è stata argomentata da una parte della dottrina anche
su basi diverse, ossia valorizzando, piuttosto che il meccanismo della sostituzione automatica di
clausole ai sensi dell'art. 1339 c.c., e art. 1419 c.c., comma 2, il principio di buona fede oggettiva
nell'esecuzione dei contratti, di cui all'art. 1375 c.c., per il quale sarebbe scorretto pretendere il
pagamento di interessi a un tasso divenuto superiore alla soglia dell'usura come determinata al
momento del pagamento stesso, perché in quel momento quel tasso non potrebbe essere
promesso dal debitore e il denaro frutterebbe al creditore molto di più di quanto frutti agli altri
creditori in genere. Benché non sia questa la tesi sostenuta dalla ricorrente, di essa occorre tuttavia
darsi carico per completezza. Neppure detta tesi persuade. Viene a suo sostegno richiamata la
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il principio di correttezza e buona fede in senso oggettivo
impone un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., per il quale ciascuna delle parti del rapporto
è tenuta ad agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici
obblighi contrattuali o da quanto stabilito da singole norme di legge (Cass. Sez. 3^ 30/07/2004, n.
14605; Cass. Sez. 1^ 06/08/2008, n. 21250; Cass. Sez. U. 25/11/2008, n. 28056; Cass. Sez. 1^
22/01/2009, n. 1618; Cass. Sez. 3^ 10/11/2010, n. 22819). Va però osservato che la buona fede è
criterio di integrazione del contenuto contrattuale rilevante ai fini dell'"esecuzione del
contratto" stesso (art. 1375 c.c.), vale a dire della realizzazione dei diritti da esso scaturenti. La
violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell'esercizio in sé considerato dei diritti
scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in concreto, che siano
appunto scorrette in relazione alle circostanze del caso. In questo senso può allora affermarsi
che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi divenuti

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superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai sensi
dell'art. 1375 c.c.; ma va escluso che sia da qualificare scorretta la pretesa in sé di quegli
interessi, corrispondente a un diritto validamente riconosciuto dal contratto.
3.4.3. Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:
"Allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello
svolgimento del rapporto, la soglia dell'usura come determinata in base alle disposizioni della
L. n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l'inefficacia della clausola contrattuale di
determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all'entrata in vigore della
predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia
quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi
secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto
superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto".

8. DOMANDA DI ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA E POTERE DEL CURATORE


FALLIMENTARE DI SCIOGLIERSI DAL CONTRATTO: Cassazione Civile, 30 maggio
2018, n. 13687.

Introduzione

La recente pronuncia qui in esame aderisce all’ultimo arresto delle Sezioni Unite di Cassazione che,
con la pronuncia 16 settembre 2015, n. 18131, hanno affrontato e risolto il contrasto giurisprudenziale
sorto in merito ai rapporti fra la trascrizione del preliminare ex art. 2652, co.1, n. 2 c.c. ed il potere
del curatore fallimentare di sciogliersi dal contratto ex art. 72 L. fall.. La questione attiene, in
particolare, alla possibilità per il curatore di esercitare tale potere in danno del promissario acquirente
anche quando quest’ultimo abbia trascritto la domanda ex art. 2932 c.c. prima della dichiarazione di
fallimento; nulla quaestio, invece, per il caso in cui la trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. sia
mancata del tutto o sia intervenuta solo successivamente alla dichiarazione di fallimento.
Secondo un primo orientamento a lungo predominante (cfr. Cass., Sez. Un., 14 aprile 1999, n. 239),
la facoltà del curatore di sciogliersi dal contratto preliminare di vendita ex art. 72, co. 4 L. fall. avrebbe
potuto essere dallo stesso liberamente esercitata in modo opponibile al promissario acquirente fino
all’avvenuto trasferimento del bene, ossia fino alla stipulazione del contratto definitivo o al passaggio
in giudicato della sentenza resa ex art. 2932 c.c.. Premesso, cioè, che l’effetto riconosciuto alla
trascrizione ex art. 2652, n. 2 c.c. era esclusivamente quello di rendere opponibile la domanda ed il

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processo al curatore, quest’ultimo, una volta che il giudizio fosse stato riassunto nei suoi confronti,
avrebbe potuto costituirsi e dichiarare lo scioglimento del rapporto contrattuale, determinando il
rigetto della domanda proposta ex art. 2932 c.c.. L’esercizio del potere di cui all’art. 72 L. fall.
avrebbe concretato una ragione ostativa all’accoglimento della domanda e, di conseguenza, avrebbe
determinato l’irrilevanza della sua anteriore trascrizione, in quanto l’effetto prenotativo che le è
proprio presuppone la pronuncia di una sentenza di accoglimento.
Tale orientamento è stato disatteso da un primo intervento delle Sezioni Unite con la sentenza del 7
luglio 2004, n. 12505. Gli orientamenti tutt’altro che univoci espressi dalla giurisprudenza anche
dopo tale pronuncia, hanno condotto ad una nuova rimessione alle Sezioni Unite che, con la citata
sentenza 16 settembre 2015, n. 18131, hanno composto definitivamente i contrasti sul punto,
ribadendo le medesime conclusioni del 2004.
Alla luce della ratio sottesa al sistema di pubblicità delle domande giudiziali (quella, cioè, di evitare
che il tempo del processo torni a danno di chi ha ragione), la Suprema Corte ha operato un
bilanciamento fra la pretesa del promissario acquirente a non veder frustrata e posta nel nulla la
protezione accordatagli dall’art. 2652, n. 2 c.c., da un lato, e il potere di scioglimento del contratto
che, dall’altro, l’ordinamento pur sempre riconosce al curatore fallimentare. La Sezioni Unite hanno
concluso, cioè, nel senso che la trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. prima della
dichiarazione di fallimento non priva, di per sé, il curatore del potere di scioglimento del
contratto, sicché la facoltà di scelta rimessagli all’art. 72 L. fall. rimane inalterata. A seconda,
però, dell’esito del processo, l’esercizio di siffatto potere di scioglimento avrà effetti diversi nei
confronti del promissario acquirente.
Se la domanda viene accolta e la relativa sentenza trascritta, gli effetti costitutivi della stessa
retroagiscono al momento della trascrizione sottraendo il bene promesso in vendita dalla massa attiva
del fallimento in modo opponibile al curatore. Quest’ultimo ben può aver scelto di recedere dal
contratto come consentitogli dall’art. 72 L. fall., ma tale scelta non è opponibile al promissario
acquirente nei cui confronti l’esercizio del potere di scioglimento dal contratto non produrrà effetto.
Il curatore, pertanto, perde il potere di apprensione del bene promesso in vendita dal fallito a fronte
della prioritaria tutela riconosciuta dalla legge al promissario acquirente che, avvalendosi del sistema
pubblicitario di cui all’art. 2652 n. 2 c.c. e del connesso effetto prenotativo, ha cristallizzato al
momento della trascrizione della domanda giudiziale il dies a quo per la decorrenza degli effetti
costitutivi della successiva sentenza di accoglimento. Ove, invece, la domanda venga respinta,
l’effetto prenotativo della trascrizione della domanda cade, sì che divengono opponibili e produttive
di effetti anche nei confronti del promissario acquirente sia la dichiarazione di fallimento sia, di
conseguenza, la scelta eventualmente operata dal curatore di sciogliersi dal rapporto.

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Massima

Il curatore fallimentare del promittente venditore di un immobile non può sciogliersi dal contratto
preliminare ai sensi dell'art. 72 l. fall. con effetto verso il promissario acquirente, se quest'ultimo
abbia trascritto prima del fallimento la domanda ex art. 2932 c.c. e successivamente anche la
sentenza di accoglimento della stessa, in quanto, a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c., detta trascrizione
prevale sull'iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese.

Sentenza

(omissis)
1. - Il primo motivo oppone l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti. Rileva il ricorrente di aver fatto presente, nel corso dell'udienza di discussione
della causa, che la controparte non aveva trascritto la sentenza di primo grado e che, comunque la
trascrizione della pronuncia non era stata provata. Aggiunge che la Corte di appello non aveva preso
in considerazione tale circostanza, che doveva considerarsi decisiva: ove, infatti, la sentenza ex art.
2932 c.c., non venga trascritta, il meccanismo prenotativo previsto dall'art. 2652 c.c., n. 2, non
avrebbe modo operare. Il secondo mezzo denuncia violazione o falsa applicazione del R.D. n. 267
del 1942, artt. 45 e 72, (L. Fall.), nonché dell'art. 2932 c.c., art. 2652 c.c., n. 2, artt. 2653 e 2915 c.c..
Lamenta l'istante che la Corte di merito aveva applicato in modo non corretto la L. Fall. art. 72,
aderendo acriticamente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 12505 del 2004: in tal senso, aveva
sostenuto che poiché la domanda ex art. 2932 c.c., era stata trascritta prima della dichiarazione di
fallimento, la sentenza che l'aveva accolta,, anche se trascritta successivamente, era opponibile alla
massa, dei creditori, impediva l'apprensione del bene da parte del curatore e precludeva a quest'ultimo
di sciogliersi dal contratto. Osserva in proposito il fallimento ricorrente che l'esercizio del potere
previsto dalla L. Fall., art. 72, trovava quale unico elemento ostativo l'avvenuto trasferimento del
bene, che nella specie non si era attuato, non essendo passata in giudicato la sentenza costitutiva con
cui doveva darsi attuazione all'obbligo di concludere il contratto definitivo. Deduce, inoltre, che
l'effetto prenotativo operava al solo fine di regolare il conflitto tra più trascrizioni o iscrizioni eseguite
contro il medesimo soggetto, non anche nel senso di consentire al curatore di affrancarsi dal vincolo
contrattuale. Col terzo motivo è denunciata la violazione dell'art. 92 c.p.c.. Ad avviso del ricorrente
la Corte di merito avrebbe dovuto provvedere all'integrale compensazione delle spese di giudizio: sia
in quanto con riferimento alla questione controversa era da ravvisare un contrasto di giurisprudenza;

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sia in quanto andava considerato l'interesse pubblicistico sotteso al munus publicum della curatela
fallimentare, la quale agisce nell'interesse esclusivo della massa dei creditori, e non di una parte
privata singola.
2. - Nei termini che si vengono ad esporre sono fondati i primi due motivi, che possono esaminarsi
congiuntamente, mentre il terzo, siccome attinente alle spese della fase di gravame, rimane assorbito.
Occorre anzitutto rilevare che secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte il
curatore fallimentare del promittente venditore di un immobile non può sciogliersi dal
contratto preliminare ai sensi della L. Fall. art. 72, con effetto verso il promissario acquirente
ove questi abbia trascritto prima del fallimento la domanda ex art. 2932 c.c., e la domanda
stessa sia stata accolta con sentenza trascritta, in quanto, a norma dell'art. 2652 c.c., n. 2, la
trascrizione della sentenza di accoglimento prevale sull'iscrizione della sentenza di fallimento
nel registro delle imprese (Cass. Sez. U. 16 settembre 2015, n. 18131). Come è stato osservato, L.
Fall., art. 45, va coordinato non solo con gli artt. 2652 e 2653 c.c., ma anche con l'art. 2915,
comma 2, sicché sono opponibili ai creditori fallimentari non solo gli atti posti in essere e
trascritti dal fallito prima della dichiarazione di fallimento, ma anche le sentenze pronunciate
dopo tale data, se le relative domande sono state in precedenza trascritte. Rileva, in proposito,
l'art. 2652 c.c., comma 2, secondo cui la trascrizione della sentenza che accolga la domanda
diretta a ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre "prevale sulle
trascrizioni e iscrizioni eseguite contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda", ivi
compresa l'iscrizione nel registro delle imprese della sentenza di fallimento a norma della L.
Fall., art. 16, comma 3, e art. 17. Dunque, se è vero che, in ipotesi di domanda di esecuzione in
forma specifica proposta anteriormente alla dichiarazione di fallimento del promittente
venditore e riassunta nei confronti del curatore, quest'ultimo, che è terzo in relazione al
rapporto controverso, mantiene la titolarità del diritto di scioglimento dal contratto sulla base
di quanto gli riconosce la L. Fall., art. 72, è altrettanto vero che il detto soggetto non può opporre
tale diritto al promissario acquirente se la domanda ex art. 2932 c.c., sia stata trascritta prima
del fallimento.
Da tale arresto, seguito alle oscillazioni che si erano determinate nella giurisprudenza di legittimità
chiamata a pronunciarsi sul testo dell'art. 72 cit. anteriore alla riforma introdotta col D. Lgs. n. 5 del
2006 (oscillazioni emerse nonostante le Sezioni Unite si fossero già espresse nel senso sopra indicato
con la sentenza n. 12505 del 7 luglio 2004, richiamata dalla Corte di appello di Milano nella sentenza
impugnata nella presente sede), il Collegio non ha motivo di discostarsi. Occorre ora rilevare che il
fallimento, nell'atto di appello, ha dichiarato la propria volontà di sciogliersi dal contratto preliminare,
mentre C.B. ha eccepito che la dichiarazione della curatela non le era opponibile, posto che la

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domanda ex art. 2932 c.c., risultava trascritta in data anteriore al fallimento del promittente venditore.
Ai fini dell'opponibilità rilevava, però, anche l'intervenuta trascrizione della sentenza pronunciata ex
art. 2932 c.c., dal Tribunale, giacché la funzione di prenotazione degli effetti della sentenza, assegnata
alla trascrizione della domanda giudiziale nell'ipotesi prevista dall'art. 2652 c.c., n. 2, presuppone la
trascrizione della relativa sentenza di accoglimento, che, con riferimento a detta ipotesi, costituisce il
titolo del trasferimento (Cass. 7 luglio 1988, n. 4464): e infatti il meccanismo pubblicitario dell'effetto
prenotativo che attua la trascrizione della domanda ex art. 2652 c.c., n. 2, si articola in due momenti:
quello iniziale, costituito dalla trascrizione della domanda giudiziale e quello finale, rappresentato
dalla trascrizione della sentenza di accoglimento (Cass. Sez. U. 16 settembre 2015, n. 18131 cit.). Il
dato della mancata trascrizione della sentenza di primo grado, con cui era stato operato il
trasferimento del bene, è stato evidenziato dall'odierno ricorrente nel corso dell'udienza di discussione
della causa in appello. Deve escludersi che la deduzione fosse tardiva: come si è detto, il promittente
acquirente aveva affermato, in fase di gravame, che la dichiarazione del fallimento diretta allo
scioglimento del contratto non risultava a lui opponibile; egli aveva quindi l'onere di dimostrare che
era intervenuta sia la trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c., che la trascrizione della relativa
sentenza. La denuncia, da parte della curatela, della mancanza di riscontri quanto all'esecuzione del
secondo incombente rappresentava, pertanto, una mera difesa, giacché non contrapponeva all'assunto
attoreo fatti o titoli diversi, ma richiamava l'attenzione del giudice sulla ritenuta insussistenza di uno
degli elementi che consentivano di dar vita all'opponibilità fatta valere da controparte. Né, del resto,
la controricorrente avrebbe potuto ritenersi esonerata dalla produzione della nota di trascrizione in
ragione del fatto che la pronuncia di primo grado era stata impugnata, giacché, come è noto, l'efficacia
della trascrizione di una sentenza prescinde dal passaggio in giudicato di quest'ultima (Cass. 3
febbraio 1969, n. 321).
3. - La Corte di appello, dunque, avrebbe dovuto prendere in considerazione la questione, sollevata
dall'odierna ricorrente, vertente sulla mancata trascrizione della sentenza di prime cure. La pronuncia
impugnata va in conseguenza cassata con rinvio della causa alla Corte di Milano per l'accertamento
inerente all'esecuzione della formalità di cui trattasi; lo stesso giudice del rinvio statuirà sulle spese
del giudizio di cassazione.

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9. ILLEGITTIMA TRASCRIZIONE DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO
DELL’ESISTENZA DI UN PATTO DI PRELAZIONE E RELATIVE CONSEGUENZE:
Cassazione, Sezioni Unite, 23 marzo 2011, n. 6597.

Introduzione

La pronuncia in esame affronta e dirime il contrasto giurisprudenziale insorto in ordine all’ambito


di applicazione dell’art. 96 c.p.c. e alla linea di demarcazione fra la sfera di operatività di
quest’ultimo rispetto a quella dell’art. 2043 c.c. in tema di responsabilità per danni da
trascrizione illegittima.
Occorre preliminarmente considerare come la fattispecie concreta che ha condotto al pronunciamento
della Suprema Corte, attenesse ad un caso di trascrizione della domanda giudiziale di accertamento
dell’esistenza di un patto di prelazione per l’acquisto di un bene immobile, patto, quest’ultimo, che,
nella prospettazione del ricorrente, avrebbe dovuto ritenersi riconducibile alla figura del contratto
preliminare. Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, fatto chiarezza in
ordine alla differenza fra patto di prelazione e contratto preliminare nonché alla conseguente
impossibilità di assimilare il primo al secondo ai fini della trascrizione della relativa domanda
giudiziale. Se, infatti, il contratto preliminare è fonte di un obbligo di futuro trasferimento
dell’immobile, sicché ha senso assicurare al promissario acquirente un effetto prenotativo
attraverso lo strumento della trascrizione della domanda giudiziale ex art. 2932 c.c., lo stesso
non può dirsi per il mero patto di prelazione dal quale non discende un obbligo di futuro
trasferimento del bene. Poiché, dunque, le due figure, per l’evidente differenza strutturale che le
contraddistingue, non possono essere assimilate, deve concludersi che, in un sistema di trascrizione
delle domande giudiziali improntato al principio di tipicità, la domanda di accertamento dell’esistenza
di una patto di prelazione, a differenza di quella costitutiva proposta ex art. 2932 c.c., non può essere
trascritta mancando, all’uopo, apposita previsione normativa.
Poste tali premesse, la questione su cui si concentra l’attenzione della Suprema Corte è quella –
evidentemente consequenziale – dell’individuazione del rimedio con cui l’ordinamento, a tutela del
convenuto, risponde al comportamento di chi illegittimamente trascriva una domanda giudiziale non
rientrante nell’elencazione tassativa di cui agli artt. 2652 e 2653 c.c.. È noto, infatti, come la
trascrizione di una domanda giudiziale, determinando la sostanziale incommerciabilità del bene su
cui incide, sia causa di pregiudizio per il proprietario convenuto. A fronte di contrastanti orientamenti
giurisprudenziali che hanno affermato la risarcibilità del danno da trascrizione illegittima talora ex
art. 2043, tal altra ex art. 96 c.p.c., le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover propendere per la prima

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di dette soluzioni. A rendere inconferente il richiamo all’art. 96 c.p.c. è la circostanza che, nelle ipotesi
tipizzate ai commi 1 e 2 dello stesso articolo, il fatto materiale costitutivo della responsabilità, cioè
l’esistenza o meno del diritto vantato ed il modo con cui è stato processualmente esercitato,
costituiscono l’oggetto della domanda principale. Al contrario, quando venga proposta una domanda
di risarcimento del danno da trascrizione illegittima, l’accertamento che il giudice è chiamato a
compiere – ossia l’esistenza di una norma che consenta o meno la trascrizione della domanda
giudiziale – ha un oggetto diverso da quello proprio della domanda trascritta.

Massime

1- La domanda giudiziale volta ad ottenere l'accertamento dell'esistenza di un patto di


prelazione in caso di vendita di un bene immobile, in assenza di una specifica previsione
normativa al riguardo, non è suscettibile di essere trascritta; il patto di prelazione, infatti,
non può essere assimilato al contratto preliminare, in quanto in quest’ultimo è individuabile
un'obbligazione già esistente, rispetto alla quale ha senso assicurare l'effetto di prenotazione
della trascrizione, effetto che non è invece collegabile al patto di prelazione, che non prevede
alcun obbligo di futuro trasferimento.

2- Qualora la parte che ha promosso un giudizio avente ad oggetto beni immobili abbia
proceduto alla trascrizione della domanda giudiziale al di fuori dei casi di cui agli art. 2652
e 2653 c.c. - cioè compiendo una trascrizione illegittima - in assenza di una specifica
previsione legislativa che radichi presso il medesimo giudice, ai sensi dell'art. 96 c.p.c., la
competenza a decidere anche la domanda di risarcimento danni promossa dalla controparte
in conseguenza di tale illegittima trascrizione, deve ritenersi che quest’ultima domanda possa
essere proposta anche in un diverso giudizio, ai sensi dell'art. 2043 c.c. In questo caso, infatti,
l'accertamento che il giudice è chiamato a compiere - relativo alla verifica dell'esistenza di
una norma sostanziale che consenta o meno la trascrizione della domanda giudiziale - ha per
oggetto un fatto diverso da quello dell'altro giudizio; tale lettura del sistema, idonea alla
maggiore tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantito, consente al danneggiato di
ottenere il risarcimento anche in ipotesi di colpa lieve, che rimarrebbero escluse ove la
domanda risarcitoria fosse proponibile solo in base all'art. 96 c.p.c.

Sentenza

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(omissis)
1. - Con i motivi di ricorso L.I. ha rispettivamente denunciato:
1) violazione dell'art. 96 c.p.c. e art. 2043 c.c. nonchè vizio di motivazione, con riferimento
all'affermata distinzione, ai fini dell'individuazione del giudice competente a decidere sull'istanza
risarcitoria, fra l'ipotesi di domanda giudiziale neppure astrattamente trascrivibile perchè non
compresa fra quelle elencate negli artt. 2652 e 2653 c.c., il cui titolo giuridico sarebbe ravvisabile
nell'art. 2043 c.c., e quella di domanda solo astrattamente trascrivibile, essendo viceversa nel concreto
non trascrivibile per l'insussistenza del diritto azionato, rispetto alla quale troverebbe applicazione
l'art. 96 c.p.c.. La detta distinzione sarebbe infatti errata poichè l'art. 96 c.p.c. si porrebbe con carattere
di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., sicchè la responsabilità aggravata, pur rientrando
concettualmente nel genere della responsabilità per fatto illecito, ricadrebbe interamente in tutte le
sue possibili esplicazioni sotto la disciplina prevista dall'art. 96 c.p.c.. Da ciò dunque discenderebbe
che la domanda di risarcimento avrebbe dovuto essere proposta davanti al giudice della domanda
asseritamente non trascrivibile, funzionalmente competente al riguardo;
2) violazione dell'art. 2645 bis c.c., artt. 2652 e 2653 c.c., in relazione alla pretesa non trascrivibilità
della domanda volta ad accertare l'esistenza di un patto di prelazione. Detto patto sarebbe invero
riconducibile alla figura del contratto preliminare e comunque, pur prescindendo da tale rilievo, non
sarebbe ipotizzabile nel concreto alcun pregiudizio ove dimostrata, come si sarebbe verificato,
l'avvenuta trascrizione di domanda avente ad oggetto l'accertamento di un diritto di prelazione per la
vendita, pattiziamente riconosciuto dal proprietario dell'immobile;
3) violazione dell'art. 2645 bis in relazione all'art. 2652 c.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione, rispetto
all'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale, alla stregua di un pacifico
orientamento giurisprudenziale, non sarebbero trascrivibili nè il patto di prelazione nè la domanda
giudiziale intesa a farlo valere. Non risulterebbe, infatti, l'esistenza di un filone giurisprudenziale
attestatosi nel senso indicato;
4) violazione dell'art. 100 c.p.c. per l'omessa rilevazione della mancanza di interesse ad agire della
B.. Tale mancanza di interesse sarebbe stata invero desumibile sia dal fatto che l'eventuale conferma
della sentenza di primo grado (con la quale era stata rigettata la domanda della L.) avrebbe
automaticamente comportato la cancellazione della trascrizione della domanda, sia dalla possibilità
di pervenire al medesimo risultato facendo ricorso alla procedura per la correzione degli errori
materiali. Inoltre la domanda della B., che contrariamente a quanto da lei sostenuto avrebbe avuto
notizia dell'avvenuta trascrizione, sarebbe stata in ogni modo inammissibile per il potenziale contrasto
di giudicati che avrebbe potuto determinare, e ciò in quanto la cancellazione della trascrizione
disposta nell'ambito di un giudizio definito solo in via provvisoria, e all'epoca ancora pendente,

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avrebbe potuto confliggere con l'esito del giudizio di merito introdotto con la domanda di cui era stata
eseguita la trascrizione;
5) violazione dell'art. 112 c.p.c. e vizio di motivazione sul punto, atteso che la Corte di merito non
avrebbe esaminato il motivo di appello avente ad oggetto la pretesa erroneità della condanna di essa
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, condanna che non sarebbe aderente alle risultanze
processuali emerse.
2. - Con una prima memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c. la ricorrente ha eccepito la tardività
del controricorso, eccezione che risulta infondata perchè il ricorso in esame è stato notificato il 3
dicembre 2004 ed il controricorso, notificato il 13 gennaio 2005, è stato consegnato all'Ufficiale
Giudiziario per il compimento delle operazioni di rito in data ampiamente antecedente, come si evince
dal primo tentativo di notifica rimasto senza effetto, eseguito in data 4 gennaio 2005.
3. - Con l'ordinanza interlocutoria emessa all'esito dell'udienza del 19.11.2009 sopra
richiamata, questa Corte, come detto, ha ravvisato l'opportunità di rimettere il ricorso alle
sezioni unite, in ragione di un rilevato contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa
l'ambito di applicazione dell'art. 96 c.p.c. ed il rapporto intercorrente fra la sfera di operatività
di tale disposizione e quella dell'art. 2043 c.c, in materia di responsabilità per danni da
trascrizione di domanda giudiziale illegittima ovvero ingiusta, profili censurati con il primo
motivo di ricorso.
In particolare, premesso che la prima ipotesi si intende realizzata allorchè, per errata interpretazione
degli artt. 2652 e 2653 c.c., per deliberata mala fede o comunque per qualunque altra causa venga
trascritta una domanda giudiziale non compresa fra quelle per le quali la legge prevede detta
formalità, mentre la seconda appare configurabile quando risulti poi infondata la domanda in
precedenza trascritta, si sarebbero delineati due distinti indirizzi rispetto alla tematica in oggetto.
Secondo un primo orientamento, infatti, la trascrizione illegittima rientrerebbe nel campo di
applicazione dell'art. 96 c.p.c., comma 1 mentre la trascrizione ingiusta sarebbe contemplata
dall'art. 96 c.p.c., comma 2, circostanza da cui discenderebbe che, nel caso di trascrizione di
domanda al di fuori delle ipotesi normativamente previste, l'applicabilità dell'art. 96 c.p.c.,
comma 1, precluderebbe la possibilità di invocare i principi generali della responsabilità per
fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c.. Secondo un diverso orientamento, viceversa, il titolo
giuridico della pretesa ai danni da illegittima trascrizione di una domanda giudiziale non
trascrivibile non sarebbe l'art. 96 c.p.c., ma l'art. 2043 c.c., e la prima disposizione sarebbe
correttamente evocabile soltanto nel caso di trascrizione ingiusta per l'insussistenza del diritto
fatto valere, dovendosi al contrario applicare l'art. 2043 c.c. nel caso di domanda non
trascrivibile in quanto non compresa nell'elencazione contenuta negli artt. 2652 e 2653 c.c..

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4. - Ciò premesso si rileva che con il primo motivo di ricorso la L. ha denunciato l'erroneità della
sentenza impugnata, nella parte in cui nella stessa era stato affermato che la domanda per risarcimento
del danno da responsabilità aggravata poteva essere avanzata anche in giudizio autonomo, rispetto a
quello originato dalla domanda trascritta, censura la cui delibazione presuppone quindi
l'individuazione del giudice competente a decidere. In proposito va osservato che la giurisprudenza
di questa Corte non ha fornito soluzioni univoche al riguardo. Ed infatti: con una prima risalente
decisione è stato implicitamente affermato che la trascrizione illegittima rientra nella previsione
contenuta nell'art. 96, comma 2, (C. 63/2407); con diverse successive statuizioni è stata poi attribuita
all'art. 96 c.p.c. la funzione di costituire "integrale e completa disciplina normativa della
responsabilità processuale, di cui esaurisce tutte le ipotesi " (C. 84/874) ed è stata poi delineata la
distinzione fra le due ipotesi di trascrizione illegittima e ingiusta, con la conseguente ritenuta
applicabilità rispettivamente del 1 e del 2 comma dell'art. 96 (C. 01/4947, C. 00/263, C. 98/4624, C.
94/5022, C. 84/874, C. 76/2967); con altre decisioni è stata viceversa legittimato il potenziale
concorso dell'art. 96 c.p.c. con l'art. 2043 c.c., che sarebbe in particolare applicabile nel caso di
trascrizione illegittima (C. 90/10219, C. 71/680, C. 69/290, C. 66/1983), pronunce alle quali vanno
assimilate anche le successive C. 10/13127 e C. 07/25248 che, pur se in tema di competenza
relativamente alla domanda di cancellazione della trascrizione effettuata al di fuori delle ipotesi
consentite (e non anche, quindi, di richiesta risarcitoria), hanno affermato il medesimo principio
dell'autonomia del detto giudizio rispetto a quello nel quale la trascrizione era stata effettuata; infine
con orientamento sostanzialmente consolidato, sia pur con riferimento ad ipotesi non coincidenti con
quelle oggetto di esame (e quindi con affermazioni di principio inidonee a costituire di per sé
parametro di definizione della controversia nel caso di specie, in cui non è oggetto di contestazione
la configurazione del rapporto fra l'art. 2043 c.c. e l'art. 96 c.p.c., ma l'individuazione della disciplina
concretamente applicabile) è stato reiteratamente ribadito il valore assorbente dell'art. 96 c.p.c.
rispetto all'art. 2043 c.c., che in quanto tale escluderebbe il concorso fra le due disposizioni in
questione (C. 10/5069, C. 08/28226, C. 07/16308, C. 04/13455, C. 03/15551, C. 02/3573, C. 01/5972,
C. 99/253, C. 84/874, C. 83/477, C. 81/6407).
5.1 - Ritiene il Collegio che il primo motivo di censura sia infondato.
5.2 - La Corte di Appello di Genova ha dovuto risolvere la seguente questione: se, proposta domanda
per far accertare che all'attore spetta un diritto di prelazione e negato dal giudice che l'attore abbia un
tale diritto, la parte convenuta possa in un diverso giudizio a sua volta proporre una domanda di
risarcimento del danno, per il fatto che di quella precedente domanda il primo attore ne abbia chiesto
ed ottenuto la trascrizione, sebbene in rapporto al tipo di diritto vantato la trascrizione non fosse
ammessa. La questione è stata sollevata nel secondo giudizio dal primo attore, il quale ha sostenuto

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che, nella situazione descritta, la domanda di risarcimento del danno va dichiarata inammissibile,
perché il potere di conoscerne spetta al giudice della domanda originaria e non può costituire quindi
oggetto di un diverso giudizio. Ciò in applicazione dell'art. 96 c.p.c..
5.3 - E' necessario premettere che l'art. 96 c.p.c. regola la responsabilità conseguente all'aver agito o
resistito in giudizio, restando soccombente, e per un verso completa la responsabilità che deriva dalla
soccombenza, per altro verso disciplina il fatto costitutivo di tale responsabilità in modo speciale
rispetto a quella generale da fatto illecito, perché qui può venire in rilievo non il fatto in sé di avere
difeso il proprio diritto in giudizio, ma la violazione di un connesso reciproco dovere di lealtà delle
parti, nell'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito. Da questo specifico tratto della
disciplina sostanziale della responsabilità processuale aggravata deriva poi il tratto ulteriore, attinente
però alla disciplina processuale, per cui giudice della violazione del dovere di lealtà debba essere
quello che è stato investito dalla originaria domanda. Risponde alla stessa esigenza di concentrazione
che presidia la sua competenza sulle spese processuali, il fatto che, avendo conosciuto del fondo della
domanda, quel giudice conosca delle conseguenze che la parte risultata vincitrice gli espone d'aver
subito, a causa del comportamento sleale dell'altra rimasta invece soccombente. Slealtà che quel
giudice è nella miglior condizione per poter valutare rispetto ad altro.
5.4 - L'art. 96 c.p.c. regola in modo espresso due situazioni. La prima consiste in questo: è accertato
dal giudice cui è stata proposta la domanda di merito che il diritto vantato sussisteva o no e la parte,
nel giudizio in cui la domanda è stata proposta, può chiedere che sia valutato se averla proposta od
avervi resistito ha concretizzato un comportamento caratterizzato da dolo o colpa grave. La condanna
per responsabilità processuale è pronunziata, con liquidazione anche di ufficio, sul presupposto e
come effetto della decisione sul diritto vantato, ed in conseguenza della qualificazione dolosa o
colposa della condotta processuale del soccombente. La seconda consiste in questo: che il vanto del
diritto è attuato non attraverso la sua sola affermazione, bensì aggredendo la sfera patrimoniale
dell'altra parte, sul piano esecutivo o cautelare, o con la trascrizione della domanda od iscrizione di
ipoteca. Qui, accertato che il diritto vantato non sussisteva - accertamento provocato dall'una o
dall'altra parte -, a fondare la responsabilità processuale basterà l'aver agito senza la normale
prudenza, e questo in ragione delle specifiche modalità invasive dell'atto di esercizio del diritto.
5.5 - In ambedue i casi descritti dall'art. 96 il fatto materiale costitutivo della responsabilità,
cioè la esistenza o inesistenza del diritto vantato ed il modo in cui è stato esercitato, costituiscono
l'oggetto della domanda principale. Ci si soffermi ora sul caso che il diritto sia stato vantato in
giudizio in base ad una domanda trascrivibile e che il convenuto di tale domanda abbia chiesto il
rigetto: questa parte, al fine di vedere pronunciata la condanna dell'altra per responsabilità processuale
aggravata non avrà da sollecitare alcun ulteriore accertamento in diritto, ma, in vista di un eventuale

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accoglimento della sua istanza nei soli limiti del comma 2, provare che la domanda trascrivibile di
fatto lo sia stata. Lo stesso non è vero nel caso in cui sia stato vantato in giudizio un diritto in
base a domanda non trascrivibile. In questo caso, da un lato il diritto per cui è stata proposta e
trascritta la domanda può essere accertato esistente, e tuttavia dal fatto della trascrizione può
essere derivato un pregiudizio che rileva come danno risarcibile; dall'altro chi lo ha subito, per
ottenere il risarcimento, deve richiedere al giudice un accertamento, in diritto, su un fatto
diverso dal vanto in giudizio venuto dall'attore e precisamente sulla questione dell'essere dalla
norma sostanziale prevista come non trascrivibile la domanda che l'attore ha proposto.
5.6 - Né si può dire che il caso - cioè il fatto che la domanda sia stata trascritta senza poterlo essere -
ricada nell'ambito di applicazione dell'art. 96, comma 1. La soluzione si espone ad una duplice
obiezione. La prima è che il fatto della trascrizione non consentita dovrebbe essere valutato non in
rapporto al canone della colpa o della omissione di una prudenza normale, ma a quelli del dolo o della
colpa grave. La seconda è che, chi abbia fatto legittimo affidamento sul fatto che la domanda, perché
non trascrivibile, non sia stata trascritta, si vedrebbe preclusa la domanda per danni per non aver
introdotto la relativa istanza nel giudizio promosso dall'attore per vedere accertato il diritto da lui
vantato.
5.7 - La mancanza di una espressa indicazione formale contenuta nella norma e l'assenza del
presupposto necessario per radicare la competenza del giudicante ai sensi dell'art. 96 c.p.c.
(presupposto consistente nella preclusione all'emissione di un giudizio di merito in ordine al
comportamento tenuto dalla L. con la trascrizione della domanda giudiziale) costituiscono dunque
elementi sufficienti per indurre a ritenere che la B. possa far valere autonomamente il pregiudizio
asseritamente subito, ai sensi dell'art. 2043 c.c.. Tuttavia detta conclusione risulta confortata pure per
altro verso, vale a dire in ragione della totale inefficacia che avrebbe la trascrizione di una domanda
giudiziale non compresa fra quelle elencate negli artt. 2652 e 2653 c.c.. Ed invero giova in proposito
rilevare che la funzione della trascrizione va individuata nell'avvertita esigenza di notiziare i terzi
dell'esistenza di contestazioni in ordine alla titolarità di diritti reali (e di altri specificamente indicati)
e di consentire l'effetto retroattivo della sentenza, in modo tale, cioè, da evitare il pregiudizio che le
parti potrebbero subire per effetto del decorso del tempo necessario per la definizione del giudizio, e
comunque per il ritardo nella decisione. Orbene, se va condivisa l'astratta qualificazione della
trascrizione della domanda giudiziale come atto processuale (laddove normativamente prevista) in
quanto posto in essere in funzione di un processo, qualche riserva può fondatamente essere sollevata
nel caso in esame, atteso che l'assenza di una previsione normativa legittimante la trascrizione della
domanda esclude che alla stessa possa essere riconosciuta alcuna valenza processuale, non potendo
ad essa essere attribuito, neppure in via astratta ed ipotetica, alcun effetto sostanziale.

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5. 8 - Se i due rilievi sopra evidenziati (non ravvisabilità nella fattispecie della ratio fondante i poteri
del giudice e irrilevanza processuale della trascrizione), come detto, depongono per la correttezza
della decisione adottata dalla Corte di appello di Genova, detta conclusione risulta pure confortata
sotto altri aspetti. In proposito occorre infatti evidenziare che, come già precedentemente anticipato,
il giudizio di danni ex 96 c.p.c. non viene formulato con modalità identiche e sovrapponibili a quelle
che caratterizzano il giudizio ex art. 2043, da quest'ultimo diversificandosi sia per quanto concerne
l'instaurazione, che per quanto riguarda il parametro di definizione. Sul primo punto l'art. 96, comma
1, stabilisce invero che il giudice pronuncia la condanna su istanza di parte (rispetto alla quale non è
fissato alcun termine per la relativa presentazione) e può procedere alla liquidazione del danno anche
di ufficio, proponendo così una regolamentazione del tutto diversa rispetto alla disciplina dettata in
via ordinaria per le domande giudiziali (con riferimento, in particolare, alla scansione dei tempi di
trattazione del processo e alla necessità di dare dimostrazione della consistenza del pregiudizio
asseritamente subito). Sul secondo aspetto va ricordato che la condanna risarcitoria ex art. 96
presuppone, oltre alla soccombenza della parte, un'azione o una resistenza in giudizio connotata da
mala fede o colpa grave. Nella specie, dunque, è stato stabilito un parametro più rigoroso e riduttivo
rispetto all'ordinario, per quel che concerne il grado di colpa ordinariamente richiesto per la condanna
al risarcimento del danno (ai fini della responsabilità ex art. 2043 è sufficiente la colpa lieve), con la
conseguenza che, ove ritenuta preclusa l'azione ex art. 2043 c.c. per il connotato di specialità attribuito
all'art. 96 c.p.c., il danneggiato sarebbe privato del diritto di azione con riferimento a comportamenti
lesivi, altrimenti punibili, posti in essere nel processo con la semplice colpa lieve. L'assenza di una
specifica previsione del legislatore in ordine alla comprensione dell'ipotesi di trascrizione di domanda
illegittima fra quelle indicate nell'art. 96, comma 1, induce dunque a ritenere che, in mancanza di
indicazioni normative, debba comunque essere privilegiata una interpretazione che sia in sintonia con
il dettato costituzionale (nella specie il riconoscimento e la tutela del diritto di agire in giudizio). Non
sembra infine inutile un'ultima considerazione relativa ai possibili effetti pregiudizievoli riconducibili
ad un'interpretazione che privilegiasse l'assorbente carattere di specialità dell'art. 96 c.p.c. rispetto
all'art. 2043 c.c.. Il citato art. 96 impone, come detto, che l'istanza risarcitoria venga proposta davanti
al giudice del processo in cui si sono manifestati il dolo o la colpa grave di una delle parti. Orbene
nel caso di trascrizione ingiusta (vale a dire avente, ad oggetto atti compresi nell'elencazione di cui
agli artt. 2652 e 2653 c.c.), correttamente possono essere addebitate alla parte che la subisce le
conseguenze derivanti dall'omesso controllo effettuato al riguardo (consistenti nell'impossibilità di
richiedere il risarcimento al di fuori della disciplina dell'art. 96), essendo (o dovendo essere)
conosciuta la potenziale trascrivibilità dell'atto, poiché inserito nell'elenco normativamente previsto.
Diversamente deve invece dirsi per quanto concerne la trascrizione illegittima (cioè di atti non

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compresi nel detto elenco), poiché la mancata previsione normativa sul punto esclude la
configurabilità di un obbligo di verifica a carico della parte che subisce la trascrizione, alla quale non
possono dunque essere addebitate le gravi conseguenza derivanti dall'inosservanza di obblighi cui
non era tenute quali quelli - della preclusione all'esercizio dell'azione risarcitoria nella sede propria.
6. - Il secondo ed il terzo motivo di impugnazione, che devono essere esaminati congiuntamente
perché fra loro connessi, prospettano sostanzialmente la medesima censura, sia pur sotto profili non
coincidenti, consistente sostanzialmente nella pretesa erroneità della decisione, laddove era stata
affermata la non trascrivibilità della domanda avente ad oggetto l'accertamento di un patto di
prelazione ed era stato comunque configurato un pregiudizio per effetto dell'avvenuta trascrizione
della domanda in una ipotesi non contemplata dal codice civile. La detta censura è infondata. Ed
infatti l'assunto secondo il quale la domanda in questione sarebbe stata suscettibile di trascrizione è
basato su una pretesa assimilazione del patto di prelazione al contratto preliminare che, ove sussistenti
le condizioni normativamente previste (stipulazione del contratto con atto pubblico ovvero con
scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente, oggetto del contratto limitato agli immobili di
cui all'art. 2643 c.c., nn. 1, 2, 3, 4, vale a dire contratti ad effetti reali traslativi o costitutivi) sarebbe
trascrivibile (art. 2645 bis c.c.). Detta prospettazione è tuttavia priva di pregio perché, nell'assenza di
una esplicita previsione normativa relativa alla trascrivibilità del patto di prelazione, non ricorrono le
condizioni per operare un accostamento sostanziale fra le due diverse ipotesi prese in considerazione,
e ciò in quanto: a) nel caso del contratto preliminare è individuabile un'obbligazione già esistente,
rispetto alla quale ha senso assicurare un effetto prenotativo, effetto che non è viceversa collegabile
al patto di prelazione, atteso che in tale ultimo caso non vi è alcun accordo preventivo, e quindi alcun
obbligo, per un futuro trasferimento (C. 02/14645, C. 99/3571, C. 82/6005, C. 82/3009); b) la
fattispecie in esame non rientra comunque fra quelle indicate nell'art. 2645 bis c.c. poichè nella specie
non è configurabile alcun contratto ad effetti reali traslativo o costitutivo; c) l'art. 2645 bis non sarebbe
in ogni modo applicabile, atteso che risulta che l'accordo è stato concluso con una semplice scrittura
privata (p. 2 del ricorso).

10. DOMANDA DI RISOLUZIONE DEGLI EFFETTI DELLA SENTENZA COSTITUTIVA


EX ART. 2932 C.C. E CONSEGUENZE DELLA SUA MANCATA TRASCRIZIONE:
Cassazione Civile, 30 maggio, n, 13577.

Introduzione

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Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha chiarito che il passaggio in giudicato della
sentenza ex art. 2932 c.c., determinando la produzione degli effetti propri del contratto di cui tiene
luogo (nel caso di preliminare di compravendita immobiliare, il trasferimento della proprietà del bene
e l’obbligo di corrispondere il saldo del prezzo), instaura fra le parti un rapporto negoziale a tutti gli
effetti equivalente a quello che si sarebbe originato fra le stesse a seguito della stipulazione spontanea
del contratto definitivo. Ne deriva che, in caso di inadempimento di non scarsa importanza degli
obblighi scaturenti dalla sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., potrà trovare del pari applicazione
l’istituto della risoluzione ex art. 1453 c.c. secondo la sua ordinaria disciplina codicistica. Pertanto,
qualora la domanda di risoluzione degli effetti costitutivi della sentenza resa ex art. 2932 c.c.
non sia stata trascritta, restano salvi gli acquisti effettuati da terzi in base ad atti debitamente
trascritti o inscritti, senza che rilevi la circostanza che il titolo d’acquisto del loro dante causa
non risulti trascritto. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 1458, co. 2 e 2652 c.c., infatti,
la salvezza dei diritti dei terzi nei confronti delle parti fra cui interviene la risoluzione è fondata
esclusivamente sulla priorità della trascrizione dell’atto d’acquisto rispetto alla trascrizione
della domanda di risoluzione, senza che venga in rilievo la regola della continuità delle
trascrizioni (continuità che in questo caso sarebbe interrotta dalla mancata trascrizione della
sentenza costitutiva che assurge a titolo di acquisto). Tale regola, infatti, costituisce criterio di
risoluzione del diverso caso di conflitto fra gli aventi causa di chi, a seguito della sentenza costitutiva
ex art. 2932 c.c., ha acquistato la proprietà del bene oggetto di preliminare e gli aventi causa a non
domino di chi, pur essendo già stato spogliato del bene a seguito della sentenza stessa, ne ha
comunque disposto. In tal caso, infatti, la mancata trascrizione della sentenza costitutiva
determinerebbe la soccombenza dei primi rispetto ai secondi che hanno acquistato da chi appare
ancora proprietario dalle risultanze dei registri immobiliari, pur non essendolo più.

Massima

In caso di risoluzione degli effetti della sentenza costitutiva di trasferimento della proprietà di un bene
immobile, emessa ai sensi dell'art. 2932 c.c., in assenza di trascrizione della domanda giudiziale di
risoluzione, restano salvi gli acquisti compiuti dai terzi in base ad atto trascritto o iscritto, non
rilevando ai fini dell'applicazione dell'art. 1458, comma 2, c.c., che non risulti trascritto anche il titolo
di acquisto del loro dante causa.

Sentenza

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(omissis)
2. Al fine di favorire la migliore comprensione delle ragioni della decisione, appare opportuno far
precedere la disamina dei motivi di ricorso, da una ricostruzione cronologica delle vicende oggetto
di causa, attesa la rilevanza che il dato temporale assume nella valutazione della controversia. Con
scrittura privata del 5 gennaio 1995, che il Tribunale di Rieti, nel precedente giudizio intentato dalla
società ricorrente incidentale ai fini dell'esecuzione in forma specifica dell'obbligo a contrarre, ed i
giudici di merito, in entrambi i gradi del presente giudizio, hanno qualificato come contratto
preliminare, Di.An. e P.E. promettevano di vendere alla Copebe S.r.l. un terreno sito in Rieti riportato
in catasto al foglio (OMISSIS), part. (OMISSIS), nonché i diritti pari a 160/1000 della superficie di
terreno destinata a passaggio riportata in catasto con la diversa particella n. (OMISSIS), per un prezzo
complessivo originariamente fissato in Lire 175.000.000, di cui Lire 15.000.000 versati
contestualmente, prevedendosi che la residua somma sarebbe stata versata a stati di avanzamento
ovvero dal momento in cui la società avesse venduto e quindi percepito gli anticipi dal futuro
acquirente (modalità queste relative al pagamento del saldo poi modificata, a detta della stessa società,
con scrittura apposta di seguito al contratto originario, in data 28/4/1995). Il contratto prevedeva
altresì che la promissaria acquirente avrebbe dovuto anche provvedere alla ricostruzione del tetto dei
promittenti venditori, secondo le modalità parimenti indicate nella scrittura.
Con successiva scrittura del 18/1/1995 la società si impegnava a vendere a N.R. una porzione del
fabbricato in corso di costruzione, immettendolo nel possesso del bene in data successiva. La società
con atto di citazione notificato in data 25/9/1996 ha quindi convenuto in giudizio i promittenti
venditori di cui al primo contratto, al fine di ottenere una pronuncia ex art. 2932 c.c., ed il giudizio è
stato definito dal Tribunale di Rieti con sentenza n. 161/1999, del 22 aprile 1999 che non risulta
essere stata impugnata, e quindi da reputarsi passata in cosa giudicata. La sentenza di accoglimento
prevedeva il trasferimento della proprietà del fondo oggetto di causa in favore della promissaria
acquirente, ma prevedeva altresì che il trasferimento fosse condizionato al versamento del saldo del
prezzo pari a Lire 114.000.000 oltre Iva sull'importo globale di Lire 160.000.000, ed al netto dell'IVA
versata sulle fatture emesse dalla società attrice per i lavori inerenti il fabbricato denominato C3,
nonché all'esecuzione dei lavori di rifacimento del tetto, il tutto entro 90 giorni dalla pubblicazione
della sentenza. In data 1/9/1997 la società concludeva con i coniugi L. - D. un contratto, che la
sentenza gravata ha qualificato come vendita definitiva, avente ad oggetto l'altra porzione di
fabbricato edificata sul suolo promesso in vendita dal Di. e dalla P., con successiva immissione delle
controparti nel godimento del bene. In data 6 maggio 1998 i coniugi L. - D., con citazione trascritta
il successivo 13 maggio 1998 ai nn. 2656 del registro generale e n. 2192 del registro particolare,
convenivano in giudizio la società, e richiamando il contenuto del contratto, chiedevano che fosse

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pronunciato in loro favore il trasferimento della proprietà del bene oggetto della scrittura ovvero che
fosse accertata l'autenticità della sottoscrizione delle parti, nel caso in cui si fosse optato per la natura
definitiva dell'atto, domandando in ogni caso di essere garantiti per l'ipotesi di evizione della
proprietà. A tale giudizio veniva poi riunito il successivo giudizio introdotto dal Di. e dalla P. in data
21/6/2001, con il quale si lamentava che la società non aveva tenuto fede agli obblighi imposti dalla
sentenza traslativa della proprietà, e chiedevano pertanto pronunciare la risoluzione del rapporto
oggetto della sentenza costitutiva. Per l'ipotesi di accoglimento della risoluzione chiedevano anche la
condanna del N. e degli odierni ricorrenti principali alla restituzione dei beni ed al pagamento di
un'indennità di occupazione.
(omissis)
5. Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1458,2650 e 2652 c.c.,
laddove la Corte d'Appello ha ritenuto che in ogni caso dovesse prevalere il principio resoluto iure
dantis et resolvitur jus accipientis, così che, una volta intervenuta la risoluzione degli effetti della
sentenza traslativa per l'inadempimento della società agli obblighi previsti in sentenza, la stessa
travolgesse anche l'acquisto operato dai ricorrenti principali, i quali avevano altresì trascritto
anteriormente la domanda introduttiva del loro giudizio.
Il motivo è fondato. A tal fine non appare, infatti, condivisibile la conclusione dei giudici di merito
secondo cui, attesa l'efficacia ultra partes, anche nei confronti degli aventi causa dell'intervenuta
risoluzione degli effetti della sentenza n. 161/99, verrebbe meno anche il diritto dei ricorrenti
principali, dovendosi a tal fine altresì negare che l'unica trascrizione effettuata, e cioè quella della
domanda avanzata dai L. - D. resti priva di ogni efficacia, perché non preceduta dalla trascrizione
della sentenza a favore della medesima società. A tal fine appare opportuno rinviare alla successione
cronologica delle vicende come operata al punto 2, che precede nonché alla qualificazione giuridica
rispettivamente del contratto intercorso tra la società ed i Di. - P., da una parte, e tra la stessa società
ed i ricorrenti principali dall'altra. Attesa la natura preliminare della prima, risulta evidente che alla
data del 1/9/1997, quando è intervenuta la seconda, la società non era divenuta proprietaria
dell'immobile oggetto della compravendita, sicché, stante la natura definitiva della volontà delle parti
di trasferire la proprietà, la vicenda negoziale va correttamente ricondotta ad un'ipotesi di vendita di
cosa altrui ex art. 1478 c.c..
Per tale fattispecie, occorre richiamare la giurisprudenza di questa Corte a mente della quale (cfr.
Cass. n. 15035/2011) nel caso di vendita, definitiva di cosa altrui il venditore è obbligato a procurare
al compratore o al promissario compratore l'acquisto della proprietà della cosa. Tale obbligo può
essere adempiuto sia mediante l'acquisto della proprietà della cosa da parte di tale soggetto, col
successivo trasferimento di essa al compratore, sia mediante la vendita diretta della cosa stessa dal

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terzo al compratore. Laddove poi il venditore consegua la proprietà della cosa si deve ritenere che
(cfr. Cass. n. 984/1998) l'acquisto della proprietà della cosa da parte sua, implichi l'automatico ed
immediato trapasso della proprietà al compratore. Va altresì ricordato che la società è risultata
vittoriosa all'esito del giudizio di esecuzione in forma specifica dell'obbligo a contrarre scaturente dal
primo dei contratti conclusi, sicché atteso il passaggio in giudicato della relativa sentenza n. 161/99,
la stessa società è nelle more divenuta proprietaria proprio del bene che aveva alienato ex art. 1478,
ai ricorrenti principali, ancorché a far data dal passaggio in giudicato della sentenza stessa (cfr. per
l'efficacia costitutiva di tale pronuncia, Cass. n. 3239/1994; Cass. n. 10600/2005). Quanto alla
successiva pronuncia di risoluzione degli effetti del rapporto giuridico nascente dalla sentenza di
trasferimento, va richiamato l'altrettanto pacifico orientamento di questa Corte, per il quale (cfr.
Cass. n. 690/2006) dal momento del passaggio in giudicato della sentenza ex art. 2932 c.c., si
producono gli effetti del negozio comportando, nel caso di vendita, il trasferimento della
proprietà del bene e correlativamente l'obbligo dell'acquirente di versare il prezzo (o il suo
residuo) eventualmente ancora dovuto, obbligo sancito con una pronuncia di accertamento o di
condanna o di subordinazione dell'efficacia traslativa al pagamento. In tal modo si origina un
rapporto di natura negoziale e sinallagmatica suscettibile di risoluzione nel casi di
inadempimento che, ai sensi dell'art. 1455 c.c., sia di non scarsa importanza, il che può verificarsi
anche nel caso di ritardo (rispetto al termine eventualmente fissato nella sentenza o altrimenti in
relazione alla data del suo passaggio in giudicato, come appunto ritenuto dai giudici di appello) che
risulti eccessivo in rapporto al tempo trascorso, all'entità della somma da pagare (in assoluto e in
riferimento all'importo in ipotesi già versato) e a ogni altra circostanza utile ai fini della valutazione
dell'interesse dell'altra parte. Peraltro si è precisato che (cfr. Cass. n. 10605/2016) l'istituto della
risoluzione per inadempimento applicabile per l'ipotesi di inadempimento degli obblighi scaturenti
dalla sentenza costituiva, impedisce che possa farsi applicazione delle diverse previsioni in tema di
condizione risolutiva ex art. 1353 c.c., ancorché impropriamente si parli di trasferimento condizionato
all'adempimento degli obblighi gravanti sul compratore. Ne consegue che correttamente i giudici di
merito hanno valutato la richiesta degli originari proprietari di tenere conto dell'inadempimento della
società facendo applicazione delle norme in tema di risoluzione per inadempimento del contratto, ma
da tale opzione avrebbero dovuto far discendere anche l'applicazione della regola di cui all'art. 1458
c.c., che al secondo comma, per quanto qui rileva, prevede che la risoluzione, pur producendo
efficacia retroattiva tra le parti, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi fatti salvi gli effetti
della trascrizione della domanda di risoluzione. L'art. 2652 c.c., n. 1, che specificamente si
occupa della trascrizione della domanda di risoluzione dei contratti, ma con previsione che deve
reputarsi estesa anche alla risoluzione degli effetti della sentenza traslativa ex art. 2932 c.c.,

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prevede poi che le sentenze che accolgono la domanda di risoluzione non possono pregiudicare
i diritti acquistati dai terzi in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione
della domanda stessa. Tornando al caso in esame, in primo luogo, pur vertendosi in materia di atti
traslativi della proprietà immobiliare, non risulta che sia stata trascritta la domanda di risoluzione
degli effetti della sentenza n. 161/1999, mentre a contrario, si riscontra che i ricorrenti principali
avevano anteriormente rispetto alla stessa proposizione della domanda di risoluzione, trascritto la
loro domanda giudiziale, che ricomprendeva anche l'accertamento dell'autenticità della sottoscrizione
della scrittura di vendita di cosa altrui del 1/9/1997, potendo in tal caso valersi degli effetti di cui
all'art. 2652 c.c., n. 3, quanto alla retroattività della sentenza di accertamento dell'autenticità delle
sottoscrizioni alla data della trascrizione.
Il conflitto tra le pretese degli originari proprietari e quello degli aventi causa della società,
divenuti, come visto proprietari del bene in conseguenza dell'avvenuto acquisto della proprietà
da parte della stessa società, giusta gli effetti della sentenza ex art. 2932 c.c., va quindi risolto
facendo applicazione dei principi espressi dalla norma di cui all'art. 1458 c.c., non potendosi a
tal fine risolvere la questione richiamando il ricordato brocardo, avendo il legislatore dettato
tale specifica disposizione tesa a salvaguardare gli acquisti dei terzi, a determinate condizioni,
pur in caso di accoglimento della domanda di risoluzione del titolo del loro dante causa. Risulta
poi del tutto improprio, al fine del rigetto della pretesa dei ricorrenti, il richiamo alla regola
della continuità delle trascrizioni in ragione della mancata trascrizione della sentenza
costitutiva di trasferimento della proprietà in favore della società, posto che nel caso in esame
la regola di risoluzione del conflitto, come si ricava dal combinato disposto degli artt. 1458 e
2652 c.c., si fonda sul principio della priorità della trascrizione dell'acquisto del terzo rispetto
alla trascrizione, peraltro mai avvenuta, della domanda di risoluzione, ponendosi eventualmente
la necessità di ripristinare il principio di continuità delle trascrizioni, con la conseguente
trascrizione anche della sentenza de qua, nel diverso caso in cui si debba risolvere il conflitto
tra gli odierni ricorrenti e gli eventuali aventi causa del Di., poiché solo in tale ipotesi l'assenza
di un anello della catena delle trascrizioni in favore dei primi ne determinerebbe la
soccombenza rispetto all'acquisto compiuto da chi appare essere tuttora proprietario in base
alle risultanze dei registri immobiliari. In conseguenza dell'accoglimento del motivo, la sentenza
deve essere cassata, con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d'Appello di Roma, che
si atterrà al seguente principio di diritto: "In caso di risoluzione, nel caso di specie, degli effetti della
sentenza costitutiva di trasferimento emessa ai sensi dell'art. 2932 c.c., in assenza di trascrizione della
domanda giudiziale di risoluzione, restano salvi gli acquisti compiuti dai terzi in base ad atto trascritto

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o iscritto, non rilevando ai fini dell'applicazione dell'art. 1458 c.c., comma 2, che non risulti trascritto
anche il titolo di acquisto del loro dante causa".

11. VENDITA DELL’IMMOBILE COSTITUITO IN FONDO PATRIMONIALE: Cassazione


Civile, 30 agosto 2018, n. 21385.

Introduzione

Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha chiarito che dalla combinazione del principio
del consenso traslativo con quello dell’efficacia dichiarativa della trascrizione degli atti di
disposizione di beni immobili deriva che mentre gli effetti dell’atto dispositivo non sono
opponibili al terzo, se per lui pregiudizievoli, fino all’intervenuta trascrizione dell’atto
medesimo, gli effetti che siano a lui favorevoli possono essere dallo stesso legittimamente
invocati sin dal momento in cui si sono prodotti fra le parti ex art. 1376 c.c., e, dunque, a
prescindere dall’intervenuta trascrizione dell’atto.
Nel caso specifico portato alla sua attenzione, la Corte di Cassazione è stata chiamata a stabilire se al
creditore possa essere opposta l’inclusione in un fondo patrimoniale del bene su cui ha inscritto
ipoteca qualora, anteriormente all’inscrizione, il bene sia stato alienato a terzi ancorché in forza di un
atto non ancora trascritto.
Facendo applicazione del principio sopra enunciato, derivante dalla combinazione del disposto
dell’art. 1367 c.c. con l’efficacia dichiarativa della trascrizione dell’atto di compravendita
immobiliare, la Cassazione ha risposto negativamente. Da un lato, il conflitto fra terzo acquirente del
bene ipotecato e creditore ipotecario deve essere risolto in base al principio della anteriorità della
trascrizione. Ne deriva che la mancata trascrizione dell’atto di alienazione del bene rende
inopponibile al creditore ipotecario l’effetto a lui sfavorevole della fuoriuscita del bene dal patrimonio
dei debitori. Dall’altro, nei rapporti fra venditori e creditore ipotecario, quest’ultimo può
legittimamente beneficiare, a prescindere dalla trascrizione dell’atto di alienazione, della fuoriuscita
del bene dal fondo patrimoniale, quale effetto a lui favorevole che l’atto stesso ha già prodotto ex art.
1367 c.c.

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Massima

La vendita di un immobile facente parte di un fondo patrimoniale comporta la sua immediata


fuoriuscita dal fondo stesso, con il conseguente venir meno delle tutele proprie del fondo. L'immobile
in questione, successivamente alla vendita, può essere oggetto di iscrizione ipotecaria proposta del
creditore dei partecipanti del fondo. Tale vendita infatti, fintanto che non viene correttamente
trascritta nei registri immobiliari è comunque efficace a tutti gli effetti. Contemporaneamente, dato
l'obbligo di trascrizione degli atti di vendita immobiliare nei pubblici registri e fintanto che tale
obbligo non viene correttamente adempiuto, la relativa vendita non è opponibile al soggetto che ha
richiesto l'iscrizione ipotecaria se la vendita stessa produce effetti a lui sfavorevoli.

Sentenza

(omissis)
1. Poiché la causa torna innanzi a questa Corte dopo una prima pronuncia di cassazione con rinvio,
in ordine alla composizione del collegio occorre ricordare che le Sezioni unite hanno già chiarito che
lo stesso può essere composto anche con magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio,
ciò non determinando alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice (Sez.
Un., Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627789; v. pure Sez. 3, Ordinanza n. 14655 del
18/07/2016, Rv. 640587; Sez. L, Sentenza n. 3980 del 29/02/2016, Rv. 638848).
2. La sentenza impugnata rileva espressamente "l'inopponibilità alla banca dell'atto di vendita fra i
debitori F.- P. ed il terzo L." (pag. 11), in quanto la trascrizione della compravendita è successiva
all'iscrizione ipotecaria, sebbene il rogito notarile fosse di due giorni precedente. Tale capo della
sentenza non è stato impugnato e quindi il punto non è più controvertibile. La corte territoriale,
tuttavia, ritiene che alla banca fosse però opponibile il vincolo nascente dall'inclusione dell'immobile
nel fondo patrimoniale, non potendo la creditrice invocare che, alla data dell'iscrizione dell'ipoteca,
il bene fosse fuoriuscito dal fondo perché venduto al L., proprio in considerazione della tardiva
trascrizione della compravendita.
3. Contro questa seconda parte della sentenza impugnata si incentrano le censure illustrate, in via
espressamente gradata, dalla ricorrente. In particolare, con il primo motivo si denuncia la violazione
o falsa applicazione degli artt. 1376,2643,2644 e 2647 c.c.. In sostanza, alla Corte viene richiesto
di chiarire se al creditore che iscrive ipoteca possa essere opposta l'inclusione dell'immobile in
un fondo patrimoniale qualora, in data anteriore dell'iscrizione, il bene sia stato alienato a terzi,
ancorché tale alienazione non sia stata ancora trascritta.

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4. Il motivo è fondato.
Anzitutto, va rilevato che il problema dell'opponibilità alla banca dei vincoli nascenti dal fondo
patrimoniale, pur dopo l'alienazione dell'immobile, non deve essere risolta - come invece ha
fatto la corte d'appello - in base al criterio della anteriorità o posteriorità della trascrizione
dell'atto di compravendita, in quanto tale criterio vale nei rapporti fra terzo creditore (Banca
Monte dei Paschi di Siena) e acquirente del bene ipotecato ( L.C.): l'omessa trascrizione rende
l'atto inopponibile al creditore, cioè "contro" di lui. Qui si tratta, invece, di un atto dispositivo
favorevole al creditore, in quanto determina l'immediata fuoriuscita dell'immobile dal fondo
patrimoniale costituito dai coniugi F. e P.. Viene qui in rilievo, invece, il principio
consensualistico, secondo cui, com'è noto, gli effetti del contratto si producono con il semplice
accordo fra le parti (art. 1326 c.c.). Giova, al contempo, rammentare che la trascrizione degli
atti elencati dall'art. 2643 c.c., non è un istituto di pubblicità costitutiva, bensì dichiarativa, e
come tale ha la funzione di rendere opponibile l'atto ai terzi onde dirimere il conflitto tra più
acquirenti dello stesso bene, senza incidere sulla validità ed efficacia dell'atto stesso.
Configurandosi come un onere, essa è, pertanto, un quid pluris rispetto all'atto trascrivendo,
cosicché, ove essa sia necessaria ad integrare una qualsiasi fattispecie normativa, deve essere
oggetto di esplicita previsione (Sez. 3, Sentenza n. 19058 del 12/12/2003, Rv. 568857).
6. Coordinando il principio consensualistico con quello dell'efficacia meramente dichiarativa
della trascrizione della compravendita immobiliare, si ottiene che gli effetti dell'atto dispositivo
non sono opponibili al terzo, se per lui pregiudizievoli, fintanto che l'atto non risulta dai
pubblici registri immobiliari; ma ciò non esclude che il terzo non possa invece avvalersi di
quegli effetti, se per lui favorevoli. Rientra in quest'ultima ipotesi anche il caso, come quello in
esame, in cui l'atto dispositivo del bene determina sia effetti favorevoli (la fuoriuscita
dell'immobile dal fondo patrimoniale nel quale era stato conferito), sia sfavorevoli
(l'alienazione dell'immobile dalla sfera patrimoniale dei debitori). In una simile circostanza,
mentre il conflitto fra terzo acquirente e creditore dell'alienante va risolto secondo il criterio
della priorità della trascrizione (correttamente applicato dalla corte d'appello nel capo della
sentenza non impugnato), nei rapporti fra venditori e creditore i primi non possono opporre al
secondo, quale fattore ostativo all'assoggettamento del bene a pignoramento, la mancata
trascrizione dell'atto nei registri immobiliari. Ciò in quanto, lo si ribadisce, il sistema delle
trascrizioni degli atti dispositivi aventi ad oggetto beni immobili e mobili registrati ha natura
di pubblicità dichiarativa e, come si ricava chiaramente dell'art. 2644 c.c., costituisce un onere
imposto dalla legge a tutela del terzo. Infatti, gli atti soggetti all'onere della trascrizione non
hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in

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base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi. In altri
termini, la trascrizione giova a rendere opponibile al terzo un atto per lui pregiudizievole.
Dunque, l'omesso espletamento della formalità dichiarativa non potrà essere invocato dalle
parti del contratto con una funzione diametralmente opposta a quella che le è propria, ossia a
discapito del terzo estraneo al rapporto, al fine di impedirgli di giovarsi degli effetti di un atto
a lui favorevole.
7. Pertanto, nel caso in esame deve concludersi che la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A., avendo
iscritto l'ipoteca sull'immobile due giorni dopo che lo stesso era stato ceduto dai coniugi F. e P. al L.,
può giovarsi di tale alienazione per dedurre la sopravvenuta inefficacia dei vincoli derivanti
dall'essere appartenuto, tale immobile, all'oggetto di un fondo patrimoniale. Di contro, poiché
l'acquisto del terzo è stato trascritto successivamente all'iscrizione dell'ipoteca, tale acquisto non è
opponibile alla Banca. La censura è quindi fondata e la sentenza impugnata deve essere cassata, con
assorbimento del secondo motivo (relativo alla prova dell'estraneità del credito per il quale si procede
ai fabbisogni familiari).
8. Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, è possibile decidere nel merito, ai sensi
dell'art. 384 c.p.c., comma 2, rigettando l'opposizione proposta dal L.. In ragione della disciplina
applicabile ratione temporis, delle alterne vicende del giudizio e della circostanza che la decisione
verte su una questione di diritto che presenta caratteri di novità, si dispone l'integrale compensazione
delle spese del processo.

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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

L’esame delle sentenze che precedono consente di svolgere alcune considerazioni conclusive.
Innanzitutto, deve darsi atto del fatto che dottrina e giurisprudenza, facendo leva sulla disciplina
normativa del contratto a favore di terzo, sono da tempo pervenute ad una lettura temperata
del principio di intangibilità dell’altrui sfera giuridica, e, di conseguenza, alla relativizzazione
della portata – apparentemente assoluta – dell’art. 1372, co.2 c.c. in funzione della natura degli
effetti che il contratto produce nei confronti dei terzi. Se, infatti, sul piano di principio, la regola
dell’assoluta impermeabilità della sfera giuridica del terzo agli effetti del contratto inter alios appare
coerente con l’esigenza di tutelare appieno la libertà di autodeterminazione individuale, ove ci si
collochi in una prospettiva maggiormente pragmatica, attenta al modo di atteggiarsi in concreto degli
interessi sostanziali, essa si mostra eccessivamente rigorosa sacrificando a priori l’interesse del terzo
a beneficiare degli effetti dell’atto altrui, se favorevoli. Una lettura più moderna del principio di
relatività impone, pertanto, di concludere che se, da un lato, perdura l’inestensibilità ai terzi degli
effetti negativi e pregiudizievoli (pactum de non alienando, promessa del fatto o dell’obbligazione
del terzo), dall’altro le modificazioni migliorative devono ritenersi ammesse senza che sia necessario
il previo consenso del soggetto, ferma restando per quest’ultimo la facoltà di rifiutare gli effetti
favorevoli che il contratto ha già prodotto nei suoi confronti in via solo provvisoria.
Deve, per inciso sottolinearsi – non essendo questo il tema in esame –, come tale relativizzazione del
principio di intangibilità della sfera giuridica dei terzi con riguardo agli effetti favorevoli abbia
giocato un ruolo determinante anche nel superamento della tesi della tipicità delle promesse
unilaterali ex art. 1987 c.c..
Sulla portata del principio di relatività degli effetti del contratto, nel senso di un suo progressivo
temperamento, ha inciso, peraltro, anche l’evoluzione subita, a partire dagli anni ’70, dalla clausola
generale di buona fede oggettiva, intesa non più tanto e solo come mero criterio di valutazione delle
condotte dei contraenti, ma anche e soprattutto quale strumento di integrazione del contratto, capace
di arricchirne il contenuto con obblighi diversi e ulteriori rispetto a quelli espressamente contemplati
dal regolamento negoziale. Sulla scia del modello tedesco, infatti, la dottrina e la giurisprudenza
nazionali sono giunte ad affermare che dalla buona fede come fonte di integrazione del contratto non
sorgono in capo alle parti solamente obblighi prestazionali – ossia obblighi pur sempre funzionali al
soddisfacimento dell’interesse creditorio dedotto in obbligazione – ma anche obblighi di protezione,
finalizzati alla tutela di quegli interessi socialmente apprezzabili che, pur senza essere stati dedotti in
obbligazione, si collegano alla complessiva sfera giuridica della controparte in virtù di rapporti di

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parentela, di servizio o di ospitalità. La clausola della buona fede, cioè, dilata l’orizzonte degli
interessi della controparte rilevanti in sede di esecuzione del contratto, imponendo di adoperarsi non
solo al fine di assicurare il soddisfacimento dell’interesse creditorio alla prestazione in sé, ma anche
allo scopo di evitare la lesione di quei terzi soggetti che, in forza della relazione che li lega ad una
delle parti – si trovano in posizione di cd. proximity (ossia, di prossimità, di inerenza) rispetto al
contratto, rischiando di subire pregiudizio in conseguenza della sua mancata o inesatta esecuzione.
È sulla base di tali premesse che dottrina e giurisprudenza, rimeditando la portata del principio
di relatività degli effetti del contratto, hanno ritagliato la figura del contratto con effetti protettivi
verso terzi. Esemplificazione paradigmatica ne è il contratto di ricovero ospedaliero della gestante,
in forza del quale la struttura ospedaliera si impegna non solo a prestare alla stessa tutte le cure
necessarie a consentire il parto, ma anche a tenere, con la dovuta diligenza, tutti i comportamenti che
si rivelino in concreto necessari per evitare un pregiudizio al feto. Il contratto con effetti protettivi
verso terzi si caratterizza – e , al contempo, si differenzia dalla fattispecie di cui all’art. 1411 c.c. –
per il fatto che il terzo in relazione di prossimità con una delle parti contraenti, non acquista il diritto
ad esigere la prestazione principale, ma diventa destinatario di una serie di obblighi di protezione
della propria sfera giuridica che avendo, pur sempre, fonte nel contratto intervenuto inter alios, lo
legittimeranno, in caso di inadempimento, ad esercitare azione di risarcimento del danno a titolo
contrattuale.
La progressiva valorizzazione della clausola generale di buona fede oggettiva quale fonte di
integrazione del contratto ha, peraltro, sortito effetti anche con riguardo ad un ulteriore profilo
dell’ampia tematica dell’efficacia del contratto, quello delle cd. sopravvenienze. In proposito, infatti,
si è già avuto modo di rilevare l’insufficienza della disciplina codicistica che affronta il fenomeno
delle sopravvenienze mediante la tipizzazione di due soli rimedi legali dall’ambito applicativo quanto
mai limitato. Da un lato, infatti, la risoluzione per impossibilità sopravvenuta presuppone il verificarsi
di una circostanza che impedisca, sul piano naturalistico e/o giuridico, l’esecuzione di una delle
prestazioni contrattuali in modo oggettivo e assoluto; dall’altra, la risoluzione per eccessiva onerosità
sopravvenuta implica che l’equilibrio contrattuale sia stato alterato dal verificarsi di eventi del tutto
straordinari ed imprevedibili. In questo senso, si spiega lo sforzo compiuto nel tempo dalla dottrina e
dalla giurisprudenza per rinvenire in altri istituti codicistici nonché nei principi generali
dell’ordinamento, rimedi ulteriori capaci di tutelare le parti dinnanzi al verificarsi di sopravvenienze
fattuali e/o giuridiche che, pur non integrando i presupposti degli artt. 1463 e 1467 c.c., sono
comunque tali da pregiudicare l’idoneità del regolamento negoziale originario a soddisfare l’assetto
di interessi che con esso le parti intendevano realizzare.

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A tali fini, da un lato, è stata valorizzata la nozione di causa in concreto sino al punto di affermare
che l’obbligazione deve ritenersi estinta ed il contratto conseguentemente risolto per sopravvenuto
difetto dell’elemento funzionale, quando la prestazione, pur ancora possibile, sia inidonea a
soddisfare in concreto lo scopo perseguito dalle parti con il contratto; dall’altro, ancora una volta, è
stata fatta applicazione della clausola generale di buona fede onde inferirne l’esistenza, in capo alle
parti, di un generale obbligo di rinegoziazione. In questo senso, la buona fede implicherebbe non
soltanto l’obbligo per ciascun contraente di tollerare, nei limiti di un sacrificio non significativo,
eventuali varianti nell’esecuzione della prestazione cui ha diritto, ma anche, laddove le
sopravvenienze siano di rilevante entità, l’obbligo di acconsentire alla richiesta della controparte di
pervenire ad una complessiva rinegoziazione del programma negoziale attraverso lo svolgimento di
nuove trattative.
È, infine, pur sempre alla buona fede che parte della giurisprudenza ha ritenuto di potersi
appellare in tema di usura sopravvenuta, al fine di qualificare come abusiva e, pertanto,
inesigibile, la pretesa del pagamento di interessi divenuti, in corso di svolgimento del rapporto,
superiori alla soglia fissata dalla legge. In questo caso, peraltro, la buona fede rileva non nella sua
dimensione positiva di fonte di integrazione del contratto, bensì, nell’accezione negativa di divieto di
abuso del diritto, ossia quale clausola protesa a limitare funzionalmente le pretese creditorie e, in
generale, l’esercizio dei diritti. In proposito, destano perplessità le statuizioni rese dalle Sezioni Unite
di Cassazione nella nota pronuncia 19 ottobre 2017, n. 24675, laddove si afferma che la violazione
della buona fede non può rilevare ai fini dell’esercizio in sé dei diritti derivanti dal contratto, ma solo
con riferimento alle modalità con cui tali diritti vengono in concreto esercitati. Una simile
impostazione appare, infatti, svilire la portata della buona fede riducendola a mero criterio di
esecuzione del contratto, quando, invece, la stessa è clausola che, in applicazione del divieto di abuso
del diritto, può comportare la limitazione dei diritti discendenti dal contratto.

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