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DIRITTO DEL LAVORO

Tradizionalmente, fino a pochi anni fa, il diritto del lavoro, costituito da una
serie di norme di tutela del lavoratore, si applica in via esclusiva al contratto di
lavoro subordinato. Al contratto di lavoro autonomo non si applicavano le
norme di tutela del lavoratore. A partire dagli anni ‘70 si è vista una
espansione del diritto del lavoro ai contratti di lavoro parasubordinato. Negli
ultimi anni vi fu una maggiore espansione delle tutele del lavoro subordinato
anche ai contratti di lavoro autonomo, in particolare ai COCOCO caratterizzati
da eterorganizzazione. Al giorno d’oggi, le norme del diritto del lavoro si
applicano ai rapporti di lavoro subordinato e ai rapporti di collaborazione
collaborativa e continuata caratterizzati da eterorganizzazione.
Il lavoro è tutelato dalla Costituzione e i rapporti di lavoro (subordinati e
autonomi) sono retti dal principio di corrispettività secondo cui a una
prestazione di lavoro corrisponde una controprestazione economica. La causa
comune a tutti i contratti di lavoro è lo scambio tra lavoro e corrispettivo.
Nel nostro ordinamento sono configurabili prestazioni lavorative gratuite, ma a
condizione che entrino in rilievo valori di rango costituzionale paritario o
superiore rispetto alla tutela del lavoro; un esempio è quello della finalità
solidaristica; non è sufficiente che il lavoratore accetti tramite contratto di
rinunciare alla sua retribuzione (principio dell’indisponibilità del tipo
contrattuale); deve essere evidente il fine di solidarietà (nel caso si svolga
un’attività di volontariato). Vi è una normativa ad hoc per il volontariato nel
terzo settore ed entrerà in vigore una normativa sulla prestazione sportiva
amatoriale che non verrà considerata lavoro se produttiva di una rendita
inferiore a 10.000 euro annui.
I contratti di lavoro sono a titolo oneroso e possono essere contratti di
lavoro autonomo e contratti di lavoro subordinato.

Lavoro autonomo e subordinato


Il legislatore affronta per la prima volta il problema della divisione tra
subordinazione e autonomia con il codice civile del 1942. E’ la dottrina che per
prima si occupa di tale distinzione, ricorrendo alle categorie del codice civile
previgente in particolari quelle del contratto di compravendita e della
locazione. Si distingueva tra locatio operis (lavoro autonomo) e locatio
operarum (lavoro subordinato). Si riteneva che il contratto di lavoro autonomo
avesse ad oggetto una singola opera che era il risultato dell’attività (oggetto
del contratto di lavoro autonomo era considerato il contratto di lavoro
subordinato). Il contratto di lavoro subordinato aveva invece ad oggetto non il
risultato, ma le attività messe a disposizione del lavoratore (obbligazione di
mezzi). Tale distinzione venne superata a inizio ‘900. Molti contratti di lavoro
autonomo non hanno ad oggetto il risultato (avvocato, medico etc.). Anche il
lavoratore subordinato garantisce una forma di risultato. A Ludovico Barassi si
deve la ricostruzione dell’elemento caratterizzante del lavoro subordinato nella
eterodirezione: il lavoratore subordinato è diretto dal datore di lavoro, mentre
il lavoratore autonomo non è diretto dal cliente. Tale impostazione si ritrova
nel codice civile del 1942 all’articolo 2094: E' prestatore di lavoro subordinato
chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il
proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione
dell'imprenditore.
L’articolo 2022 c.c. dice che quando una persona si obbliga a compiere verso
un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e
senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le
norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare
nel libro IV. Tale definizione non ci fornisce una corretta definizione del lavoro
autonomo. Per avere una definizione completa bisogna raffrontare tale
articolo con il 2094. Vi sono poi delle nozioni speciali di subordinazione
relativamente al lavoro a domicilio e delle prestazioni sportive. Ancora oggi
una fetta importante del contenzioso in maniera di lavoro, riguarda la
qualificazione del contratto.
In termini concettuali, il lavoratore è subordinato quando è assoggettato ai 3
poteri del datore di lavoro: potere direttivo, potere di controllo e potere
disciplinare. Quando tali poteri non vengono esercitati si ha lavoro
autonomo. Nella svariata gamma di situazioni che si verificano in concreto
non è sempre agevole individuare nel caso concreto l’esercizio dei 3 poteri.
Fino a che punto le direttive sono indicazioni che hanno ad oggetto il risultato
atteso e quando sono invece direttive sulle modalità di svolgimento della
prestazione tipiche del lavoro subordinato. Il lavoratore autonomo si obbliga a
fornire un'opera o un servizio, ma organizzando la propria attività senza
alcuna interferenza del cliente. Il datore di lavoro stabilisce invece tali modalità
di svolgimento e può controllare il concreto svolgimento dell’opera. In
concreto vi sono situazioni in cui è difficile stabilire se vengano impartiti ordini
o date richieste. I giornalisti ad esempio possono essere dipendenti o
autonomi; quelli che lavorano per una testata sono solitamente dipendenti di
quella testata; la subordinazione è in questo caso attenuata, ma pur sempre
presente. I 3 poteri non sono spesso sufficienti a dirimere la singola
controversia. A fine anni ‘60 una parte della dottrina aveva provato ad
allargare il concetto di subordinazione fino a ricomprendere tutti quei rapporti
in cui il lavoratore viene a trovarsi in una situazione di debolezza socio-
economica rispetto al proprio committente ossia quando il lavoratore opera in
regime di monocommittenza. Tale tentativo dottrinale naufragò di fronte a un
intervento del legislatore del 1973 di riforma del processo del lavoro. La
riforma del processo del lavoro attuata con la legge 533 del 1973 previde che
il giudice del lavoro fosse competente a decidere sulle controversie relative ai
rapporti di lavoro subordinato nonché a quelle concernenti contratti di
collaborazione continuativa e coordinata a carattere prevalentemente
personale. Il legislatore stesso prevede una serie di contratti non subordinati
in cui vi è una forma di debolezza socio-economica. Nei contratti di COCOCO
il collaboratore è tendenzialmente in una posizione di debolezza socio-
economica rispetto al committente. La giurisprudenza ha finito per elaborare
una serie di criteri sussidiari che fungono da elementi probatori per far
pendere la bilancia della valutazione del giudice verso la subordinazione o
verso l’autonomia:
● Proprietà degli strumenti di lavoro
● Rischio dell’attività: chi rischia se l’attività non va a buon fine?
● Modalità di determinazione del corrispettivo: se a tempo è tipico del
lavoro subordinato, se legata al risultato si parla di lavoro autonomo
● Presenza di un orario di lavoro: se vi è un orario si dovrebbe essere
potenzialmente di fronte a un rapporto subordinato, al contrario si ha un
contratto di lavoro autonomo
● Continuità delle prestazioni: La continuità è tipica del lavoro
subordinato
● Giustificazione delle assenze
● Esistenza di ferie
● Esclusività della prestazione resa: si lavora in modo esclusivo per un
soggetto (in genere rapporto subordinato) o per più soggetti?
● Nomen Iuris: la definizione che le parti hanno dato di quel contratto;
tale elemento è di scarsa rilevanza perché altrimenti sarebbe facile
qualificare un contratto in un modo per escluderne le tutele. Le parti non
possono qualificare il contratto in un modo se nei fatti il rapporto
dimostra che la sua natura si un’altra.
● Postazione all’interno dell’azienda committente
Quando il giudice decide, effettua una valutazione per approssimazione.
Adotta qui un metodo tipologico, non un metodo sussuntivo (si presuppone
una coincidenza tra il tipo legale astratto e la fattispecie concreta). Il metodo
tipologico permette di qualificare come rapporti di lavoro subordinato anche i
rapporti nei quali emerge l’eterodirezione, ma non necessariamente in modo
pieno. I giudici pesano gli indici della subordinazione emergenti nel caso
concreto e gli vanno a soppesare con gli elementi propri dell’autonomia; se
prevalgono questi ultimi si ha contratto di lavoro autonomo, viceversa il
contratto è subordinato.
Il contenzioso può essere introdotto dal lavoratore che abbia un contratto di
lavoro autonomo, per mettere in discussione la natura del contratto di lavoro.
Il lavoratore deve fornire in giudizio la prova della natura differente rispetto a
quella emersa. Altro caso è quello del contenzioso iniziato a seguito dei
verbali dell’Ispettorato del Lavoro. La Cassazione recentemente tende a far
prevalere le dichiarazioni degli ispettori; tale principio appare non dar credito
alle testimonianze. Il giudice coerentemente con tale principio dovrebbe allora
mandare gli atti alla procura per il reato di falsa testimonianza.
Il nomen iuris non é rilevante perché ciò che conta è l’effettivo svolgimento
della prestazione (principio di effettività).
La Corte Costituzionale è intervenuta nel ‘93 e nel ‘94 sancendo
l’incostituzionalità di due leggi che avevano aprioristicamente qualificato i
rapporti di lavoro con determinati datori di lavoro (in particolare le Ferrovie
dello Stato) . La Corte ne sancì l'incostituzionalità perché qualificando
aprioristicamente il rapporto di lavoro, si escludevano le tutele di rango
costituzionale a determinati lavoratori. Vi sono due leggi speciali che
introducono un concetto speciale di subordinazione quale il lavoro a domicilio
e degli atleti professionisti, ma si è tenuto conto della particolarità del
rapporto. Dire invece aprioristicamente che chi lavori in un determinato
contesto sia automaticamente da considerarsi lavoratore autonomo esclude
quei soggetti dalle tutele del diritto del lavoro.
Quando lavoratore e datore di lavoro stipulano un contratto e lo qualificano in
un modo che non trova riscontro nel concreto svolgimento del rapporto,
prevale dinanzi al giudice il concreto svolgimento del rapporto. Il giudice è
tendenzialmente chiamato a stabilire se un rapporto di lavoro ritenuto
autonomo, abbia natura subordinata. Vi sono rari casi in cui si chiede il
contrario (come nel caso della riconversione del rapporto di lavoro
dell'amministratore unico che può essere dipendente solo qualora vi sia un
CdA che dà le direttive). Qualunque prestazione di lavoro intellettuale o
manuale può essere oggetto tanto di un rapporto subordinato quanto di
rapporto di lavoro autonomo. Anche se chi lavora ha costituito un’impresa
artigiana o si è dotato di partita IVA, non si può escludere a priori il rapporto di
lavoro subordinato. Qualunque lavoratore può essere titolare anche di più
rapporti di lavoro subordinato. L’indisponibilità del tipo contrattuale rimane
quindi un punto fermo. La qualificazione operata dalle parti è un elemento dei
tanti che devono essere presi in considerazione dal giudice.
Il problema della qualificazione avviene quando vi sono contratti di CoCoCo.
Qualunque tipo contrattuale è contraddistinto dalla causa. La causa del
contratto di lavoro autonomo è lo scambio tra il corrispettivo e il lavoro svolto
in autonomia (ciò riguarda anche i CoCoCo); la causa del lavoro subordinato
è lo scambio tra retribuzione e lavoro subordinato alle direttive del datore di
lavoro. Il CoCoCo è lavoro autonomo; tale sottotipo si caratterizza per le
modalità di svolgimento dell’attività lavorativa: la prestazione del lavoratore si
coordina con quella del committente e degli altri lavoratori subordinati o
cococo del committente. L’attività del cococo presuppone un qualche
coordinamento con l’organizzazione dell’impresa. Tale coordinamento
presenta connotati diversi dal rapporto di lavoro subordinato: il coordinamento
dei cococo, non implica che la prestazione sia guidata e diretta dal
committente stesso. Il CoCoCo non è assoggettato ai tre poteri del datore di
lavoro.
La riforma del processo del lavoro del 1973 estende la giurisdizione del
giudice del lavoro anche ai contratti CoCoCo. In quegli anni il legislatore ha
introdotto forti tutele nei confronti del lavoro subordinato ed è cominciato un
tentativo di fuga dal lavoro subordinato. In quel periodo si sono moltiplicati i
contratti CoCoCo. Nel momento in cui si accentua la fuga dal lavoro
subordinato, comincia il dibattito sul cosa fare di questi contratti. Ci si pose un
duplice tipo di approccio:
1. Come risolvere il problema qualificatorio? Come dare al giudice
elementi decisionali più certi.
2. Quali tutele attribuire ai CoCoCo?
Il legislatore ha incominciato con il dare qualche tutela; in particolare una
tutela di tipo previdenziale. Dalla metà degli anni ‘90 si è previsto che anche
per i CoCoCo si debbano versare i contributi all’INPS presso il quale viene
creata una gestione separata rispetto a quella dei lavoratori subordinati. Tali
contributi erano inizialmente molto bassi rispetto a quelli dei lavoratori
autonomi. Ad oggi la contribuzione è di pochi punti percentuali inferiore a
quella del lavoratore subordinato (anche se ancora ad oggi sono a carico del
lavoratore CoCoCo un terzo dei contributi). Vi sono poi ulteriori norme di tutela
quali l’articolo 2113 del codice civile sancisce la regola secondo cui le rinunce
e le transazioni poste in essere dal lavoratore rispetto a diritti riconosciuti da
norme inderogabili di legge e di contratto collettivo sono invalide. Viene estesa
inoltre ai CoCoCo la tutela legislativa della maternità . Si comincia poi a
discutere di una possibile emanazione di uno Statuto dei Lavori: una
normativa volta a introdurre forme di tutela per tutti i rapporti di lavoro
(subordinato e non). Il disegno di legge non taglia il traguardo. E’ condivisa
l'esigenza di un’intervento che porti ad attribuire tutele ai CoCoCo.
Con la riforma Biagi viene elaborato il cd libro bianco con il progetto di riforma
del lavoro del governo Berlusconi che conteneva un intervento volto a ridurre
la fuga dal lavoro subordinato, attribuire maggiori tutele al lavoro
parasubordinato e dare maggiori certezze al giudice e alle parti rispetto alla
qualificazione del rapporto.
Il Libro Bianco risale al 2001, Marco Biagi viene assassinato nel 2002 e la
Riforma Biagi viene attuata mediante il D.lgs. 276/2003. L’idea di Biagi era
quella di tentare la fuga dal lavoro subordinato costringendo le parti nel
momento della stipulazione del contratto di collaborazione a introdurre nel
contratto un preciso progetto (contratto a progetto). Il contratto di
collaborazione deve essere a progetto, salvo alcune situazioni particolari. Per
progetto si intende l’indicazione di un ben preciso programma contrattuale. La
Riforma è riuscita solo in parte a ridurre la fuga dal lavoro subordinato. Il
progetto presuppone che sia individuato un risultato dell’attività; ciò
comportava quantomeno che quel contratto dovesse avere un momento finale
perché una volta completato quel determinato servizio, il contratto non
avrebbe avuto più ragione di esistere.
L’obiettivo di ridurre la fuga dal lavoro subordinato è stato perseguito con
l’imposizione del progetto (artt. 61 ss. D.lgs. 61/2003, abrogati nel 2015):

Art.61

1. Ferma restando la disciplina per gli agenti e i rappresentanti di commercio,


i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente
personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all'articolo 409, n. 3, del
codice di procedura civile devono essere riconducibili a uno o più progetti
specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e
gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto
del coordinamento con la organizzazione del committente e
indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione della attività
lavorativa.

2. Dalla disposizione di cui al comma 1 sono escluse le prestazioni


occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non
superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente,
salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno
solare sia superiore a 5 mila euro, nel qual caso trovano applicazione le
disposizioni contenute nel presente capo.

3. Sono escluse dal campo di applicazione del presente capo le professioni


intellettuali per l'esercizio delle quali e' necessaria l'iscrizione in appositi albi
professionali, esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto
legislativo, nonche' i rapporti e le attività di collaborazione coordinata e
continuativa comunque rese e utilizzate a fini istituzionali in favore delle
associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive
nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva
riconosciute dal C.O.N.I., come individuate e disciplinate dall'articolo 90 della
legge 27 dicembre 2002, n. 289. Sono altresì esclusi dal campo di
applicazione del presente capo i componenti degli organi di amministrazione
e controllo delle società e i partecipanti a collegi e commissioni, nonche'
coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia.

4. Le disposizioni contenute nel presente capo non pregiudicano


l'applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più
favorevoli per il collaboratore a progetto.

Art.62

1. Il contratto di lavoro a progetto e' stipulato in forma scritta e deve


contenere, ai fini della prova, i seguenti elementi:

a) indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di


lavoro;

b) indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuata


nel suo contenuto caratterizzante, che viene dedotto in contratto;

c) il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione, nonche' i tempi e le


modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese;

d) le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla


esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso
non possono essere tali da pregiudicarne l'autonomia nella esecuzione
dell'obbligazione lavorativa;

e) le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a


progetto, fermo restando quanto disposto dall'articolo 66, comma 4.

Tale legge obbliga le parti a delineare un contratto che abbia delle specificità
ben precise. In mancanza di tali elementi quel contratto si sarebbe dovuto
considerare subordinato.

La seconda finalità di tale legge è quella di aggiungere tutele.

Art.63

Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato


alla quantità e qualità del lavoro eseguito, e deve tenere conto dei compensi
normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel
luogo di esecuzione del rapporto. Per il compenso del collaboratore a progetto
si fa riferimento ai minimi stabiliti dai contratti collettivi per i lavoratori
subordinati.

Art. 64

1. Salvo diverso accordo tra le parti il collaboratore a progetto può svolgere la


sua attività a favore di più committenti.

2. Il collaboratore a progetto non deve svolgere attività in concorrenza con i


committenti ne', in ogni caso, diffondere notizie e apprezzamenti attinenti ai
programmi e alla organizzazione di essi, ne' compiere, in qualsiasi modo, atti
in pregiudizio della attività dei committenti medesimi.

Altro obiettivo della legge era quello di dare certezza (artt. 75 e seguenti,
ancora vigenti). Al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei
contratti di lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale e a progetto di cui al
presente decreto, nonche' dei contratti di associazione in partecipazione di cui
agli articoli 2549-2554 del codice civile, le parti possono ottenere la
certificazione del contratto secondo la procedura volontaria stabilita nel
presente Titolo (art.75). Le parti possono quindi decidere di chiedere di
certificare il contratto che si va a stipulare. L’articolo 76 prevede alcuni organi
deputati alla certificazione: Sono organi abilitati alla certificazione dei contratti
di lavoro le commissioni di certificazione istituite presso:

a) gli enti bilaterali costituiti nell'ambito territoriale di riferimento ovvero a


livello nazionale quando la commissione di certificazione sia costituita
nell'ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale;

b) le Direzioni provinciali del lavoro e le province, secondo quanto stabilito da


apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali entro sessanta
giorni dalla entrata in vigore del presente decreto;

c) le università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie,


registrate nell'albo di cui al comma 2, esclusivamente nell'ambito di rapporti di
collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo ai
sensi dell'articolo 66 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio
1980, n. 382.

2. Per essere abilitate alla certificazione ai sensi del comma 1, le università


sono tenute a registrarsi presso un apposito albo istituito presso il Ministero
del lavoro e delle politiche sociali con apposito decreto del Ministro del lavoro
e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell'istruzione, della
università e della ricerca. Per ottenere la registrazione le università sono
tenute a inviare, all'atto della registrazione e ogni sei mesi, studi ed elaborati
contenenti indici e criteri giurisprudenziali di qualificazione dei contratti di
lavoro con riferimento a tipologie di lavoro indicate dal Ministero del lavoro e
delle politiche sociali.

3. Le commissioni istituite ai sensi dei commi che precedono possono


concludere convenzioni con le quali prevedano la costituzione di una
commissione unitaria di certificazione.

Si certifica il contratto nel momento della sua stipulazione. La certificazione è


sul contratto, ma non sull’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa. La
commissione certifica semplicemente che, nel momento in cui si firma, le
clausole del contratto sono proprie del contratto di lavoro autonomo. Tale
istituto non dà una soluzione definitiva. La certificazione produce inoltre effetti
finché non ci sia una sentenza che lo disconosce, ma ciò sarebbe vero anche
senza certificazione; di fatto a una valenza di poco superiore a quella del
nomen juris. Se nei fatti emergesse che comunque vi è subordinazione, la
volontà delle parti cederebbe comunque. La sede in cui sarebbe più
complicato ottenere una certificazione del rapporto di lavoro è quella
dell’ispettorato del lavoro. Altro caso è quello del contratto di appalto nel quale
si possono aprire più fronti oltre a quello giuslavoristico, in particolare quello
fiscale. L’atto di certificazione, che produce effetti fino a che non vi è una
sentenza, potrebbe essere fatto valere di fronte alla commissione tributaria.

Nel 2012 venne varata la Riforma Fornero (L. 92/2012); tale riforma rafforza le
previsioni della riforma biagi e novella alcuni degli articoli da 61 al 69,
aggiungendo un articolo 96-bis che riguarda le collaborazioni a partita; la
mancanza di un progetto scritto che persegue un determinato risultato
comporta l’automatica trasformazione in contratto di lavoro subordinato anche
per le partite iva a due condizioni (vedi articolo 69 bis decreto 276/2003). 1.
Le prestazioni lavorative rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini
dell'imposta sul valore aggiunto sono considerate, salvo che sia fornita
prova contraria da parte del committente, rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa, qualora ricorrano almeno due dei seguenti
presupposti:

a) che la collaborazione abbia una durata complessivamente superiore a


otto mesi nell'arco dell'anno solare;

b) che il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato


a piu' soggetti riconducibili al medesimo centro d'imputazione di interessi,
costituisca piu' dell'80 per cento dei corrispettivi complessivamente percepiti
dal collaboratore nell'arco dello stesso anno solare;

c) che il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso


una delle sedi del committente.
Nel 2015 si ha la riforma Renzi che consta di una legge delega e di 8 decreti
delegati. Il D. lgs. n.81 del 2015. L’articolo 52 prevede l’abrogazione degli
articoli dal 61 al 69-bis del D. lgs. 276/2003. L’articolo 2 prevede l’applicazione
della disciplina dei rapporti di lavoro subordinato anche ai rapporti di
collaborazione caratterizzati da eterorganizzazione. Tale norma prevede due
diversi tipi di CoCoCo: quelle organizzate dal committente e quelle non
organizzate dal committente a cui non si applicano le discipline del lavoro
subordinato. Le eterorganizzate sono parificate al lavoro subordinato. La
dottrina prevalente e la Cassazione hanno ritenuto che l’articolo 2 sia una
norma di disciplina e non di fattispecie: la norma ha infatti modificato il
concetto di subordinazione dell’articolo 2094 del codice civile, fondando la
nuova impostazione sul concetto di eterorganizzazione. Le CoCoCo non
eterorganizzate si sono viste una notevole riduzione delle loro tutele. Quando,
pur essendo autonomo, emerge una forma di organizzazione complessiva
dell’attività da parte del committente, il collaboratore, che rimane autonomo, si
vede applicata la disciplina del lavoro subordinato. L’articolo 2 venne novellato
dalla L. 128/2019 (tale norma disciplina inoltre il lavoro tramite piattaforma
digitale).

A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro
subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in
prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalita'
di esecuzione sono organizzate dal committente [anche con riferimento ai
tempi e al luogo di lavoro (abrogato dalla legge 128/2019)]. (art.2 decreto
81/2015).

Per esserci subordinazione vi deve essere un nucleo minimo di esercizio dei


poteri direttivo e di controllo. L’eterorganizzazione è presente quando l’attività
viene effettivamente integrata nell’organizzazione produttiva del committente.
L’articolo 15 della L. 81/2017 modifica l’articolo 409 del codice di procedura
civile che individua la competenza funzionale del giudice del lavoro. L’articolo
409 si vede inserita da parte dell’articolo 15 dell’articolo 15 della legge
81/2017 quanto segue: la collaborazione si intende coordinata quando, nel
rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo tra le
parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa. Quando vi
è organizzazione del committente si ricade nella disciplina del lavoro
subordinato; se invece l’organizzazione è in qualche modo opera del
collaboratore e questi consensualmente decide con il committente le modalità
di coordinamento tra committente e collaboratore, non vi è
eterorganizzazione. Se tale inserimento nell’organizzazione lascia comunque
al collaboratore la determinazione dell’organizzazione dell’attività non si ha
allora collaborazione eterorganizzata. Per l’applicazione della disciplina del
lavoro subordinata non è necessaria l’eterodirezione, ma è sufficiente
l’eterorganizzazione. Il secondo comma dell’articolo 2 opera delle esclusioni
nella sua applicazione. Il legislatore non ha modificato l’articolo 2094
producendo una norma di fattispecie perché ha previsto una serie di ipotesi di
cococo eterorganizzate per le quali non si applica la disciplina del lavoro
subordinato: La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con
riferimento:

a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da


associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento
economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed
organizzative del relativo settore; tale norma da ampia discrezionalità ai
contratti collettivi.Il contratto collettivo potrebbe prevedere trattamenti
economici diversi ed escludere l’applicazione dell’articolo 2 comma 1.

b) alle collaborazioni prestate nell'esercizio di professioni intellettuali per le


quali e' necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali;

c) alle attivita' prestate nell'esercizio della loro funzione dai componenti degli
organi di amministrazione e controllo delle societa' e dai partecipanti a collegi
e commissioni; Si fa qui riferimento ai componenti del CdA di una società, ai
componenti del collegio sindacale etc.

d) alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e


societa' sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle
discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal
C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall'articolo 90 della legge 27 dicembre
2002,n. 289. L’eterorganizzazione non porta alla disciplina della
subordinazione nell’ambito del dilettantismo per evitare costi elevati
nell’ambito delle associazioni dilettantistiche. Il mondo del dilettantismo è
incredibilmente vasto e il legislatore non ha tenuto conto di tale varietà. La
riforma che entrerà in vigore il 1/01/2023 il legislatore ha previsto che anche
nell’ambito dello sport dilettantistico, le COCOCO eterorganizzate si vedranno
applicare la disciplina dell’articolo 2. Le collaborazioni eterorganizzate anche
nell’ambito dello sport dilettantistico si vedranno applicare la disciplina del
lavoro subordinato.
Con la L. 128/2019 le disposizioni dell’articolo 2 si applicano anche qualora
l’eterorganizzazione avvenga attraverso piattaforme digitali (come nel caso
dei rider). Oltre l’articolo 2, viene introdotto tramite tale legge il Capo V-bis del
decreto 81/2015. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 2, comma 1, le
disposizioni del presente capo stabiliscono livelli minimi di tutela per i
lavoratori autonomi che svolgono attivita' di consegna di beni per conto
altrui,in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore di cui
all'articolo 47, comma 2, lettera a), del codice della strada, di cui al decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, attraverso piattaforme anche digitali
(art.47-bis). E’ difficile trovare il campo di applicazione di tale norma perché si
fa fatica a pensare ad attività di consegna di beni per conto altrui senza
eterorganizzazione, ma il legislatore ha voluto prevedere anche questa
ipotesi. I contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali
comparativamente più rappresentative a livello nazionale possono definire
criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto
delle modalità di svolgimento della prestazione e dell'organizzazione del
committente. (art.47-quater).
Nel 2017 viene emanata la Legge 81 che contiene due nuclei normativi: il
primo quello della tutela del lavoro autonomo, mentre il capo secondo è
dedicato al lavoro agile. E’ importante anche capire come quando si parla di
subordinazione, le modalità di svolgimento dell’attività e i tipi di lavori, sono in
molti casi differenti da quelli dell'industria classica. In molti casi si pone il
problema delle tutele del lavoro subordinato. La legge 81/2017 contiene al
capo primo la previsione di nuove forme di tutela. L’articolo 3 ad esempio
prevede che Si considerano abusive e prive di effetto le clausole che
attribuiscono al committente la facolta' di modificare unilateralmente le
condizioni del contratto o, nel caso di contratto avente ad oggetto una
prestazione continuativa, di recedere da esso senza congruo preavviso
nonche' le clausole mediante le quali le parti concordano termini di
pagamento superiori a sessanta giorni dalla data del ricevimento da parte del
committente della fattura o della richiesta di pagamento (comma 1) Si
considera abusivo il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma
scritta (comma 3). Quello del lavoro autonomo è un settore molto ampio che è
costituito anche da contratti che somigliano al lavoro subordinato. Se vengono
posti in essere contratti di collaborazione caratterizzati da eterorganizzazione
che non ricadano nelle ipotesi di cui al comma 2 dell’art.1, si vedono applicate
la disciplina del lavoro subordinato. La situazione dei rider dipende dalle
modalità di svolgimento della prestazione; non si può infatti individuare a priori
la presenza o meno di forme di eterorganizzazione. La subordinazione non è
un monolite; in alcuni casi si parla di subordinazione attenuata. In passato il
lavorare con un orario fisso nella sede aziendale costituiva un elemento
sintomatico classico aggiuntivo al potere direttivo; ora lo è molto di meno. Il
lavoro agile non è un contratto di lavoro diverso, ma una modalità di
svolgimento della prestazione in un rapporto di lavoro subordinato
caratterizzata da una maggiore autonomia.
La disciplina sulla qualificazione del lavoro vale anche sul lavoro pubblico. Nel
settore pubblico, dove si accede tramite concorso, il contratto di lavoro non si
può riconvertire. Il contratto può essere annullato quando è nullo il concorso.
L’articolo 2126 del codice civile si occupa del caso della prestazione resa di
fatto in virtù di un contratto nullo. Tale prestazione da comunque diritto alla
retribuzione, salvo che intervenga una nullità per contrarietà all’ordine
pubblico e al buon costume. I criteri distintivi sono i medesimi del settore
privato, ma non vi può essere conversione del contratto. Il collaboratore che
abbia collaborato con un’amministrazione può agire in giudizio non per
ottenere la conversione, ma, se il suo compenso è stato inferiore alle
retribuzioni previste dal contratto collettivo, per chiedere la retribuzione. Nel
settore pubblico si può fare ricorso ai cococo soltanto per esigenze
straordinarie e per ricorrere a professionalità non presenti all’interno
dell’amministrazione. Nella maggior parte dei casi, tale situazione eccezionale
non è presente. Vi è un pericolo non indifferente per la dirigenza pubblica nel
momento in cui vengano stipulati contratti di collaborazione illegittimi: la
responsabilità contabile o per danno erariale.
Il lavoratore sportivo è considerato, salvo rari casi, lavoratore subordinato.
Quella di lavoro a domicilio è una nozione speciale prevista dalla Legge
867/1973. Il lavoratore a domicilio, non lavorando nell’azienda, era
assoggettabile al potere direttivo, ma non a quello di controllo. Il controllo
riguardava quindi il prodotto finito, ma non le modalità di svolgimento.
Quando si ha il telelavoro, il lavoratore che lavora a domicilio controllato
mediante computer è considerato lavoratore subordinato.
Nell’ambito del lavoro autonomo è quindi presente una pluralità di sottotipi.

Le prestazioni occasionali
Il lavoro occasionale aveva conosciuto con la riforma Biagi una prima
disciplina. Si parlava di prestazioni sussidiarie rese occasionalmente e pagate
tramite voucher. Tale disciplina venne poi sostituita da quella del D.L. 50/2017
che prevede la possibilità di acquistare delle prestazioni di lavoro occasionale
all’interno dei limiti: nel corso dell’anno civile ciascun prestatore non può
percepire una somma maggiore di 5000 euro con riferimento alla totalità dei
fruitori della prestazione. Il singolo utilizzatore con riferimento alla totalità dei
prestatori non può superare i 5000 euro. Con riferimento alle prestazioni rese
da ogni prestatore di lavoro a favore del medesimo utilizzatore non possono
superare i 2500 euro annui. Possono fare ricorso a tali prestazioni le persone
fisiche non nell’esercizio di un’attività professionale o di impresa e altri
utilizzatori nel limite di quanto previsto dal comma 14 dell’articolo 54 bis che
prevede i divieti. Non può fare ricorso al contratto di prestazione occasionale
l’imprenditore che abbia più di 5 dipendenti ad eccezione delle imprese
alberghiere e di quelle del settore turistico, le imprese del settore agricolo, le
imprese edili e quelle che operano nel settore edile delle miniere , delle cave e
torbiere a altri (vedi bene comma 14 art.54 bis del D.L. 50/2017). Siamo qui
fuori dal lavoro subordinato o autonomo anche se recentemente vi sono state
alcune pronunce giurisprudenziali in materia.

Il lavoro subordinato
La causa del contratto di lavoro subordinato è quella dello scambio tra lavoro
alle dipendenze di un individuo e retribuzione.
E’ importante fare riferimento al cosiddetto lavoro agile. Bisogna distinguere
tra il classico lavoro agile e il lavoro agile emergenziale (lae) a cui si è fatto
un ampio ricorso negli ulti due anni per via della pandemia. La disciplina del
lavoro a domicilio degli anni ‘70 ha introdotto una nozione speciale di
subordinazione perché il lavoro si svolge in un luogo nell’esclusiva
disponibilità del lavoratore; l’assenza del vincolo di coordinamento temporale
della prestazione (il datore di lavoro non vede e non sa quando il lavoratore
svolge la prestazione) e l’assenza del potere di controllo sullo svolgimento
della prestazione (il potere di controllo avrà ad oggetto il prodotto finale).
L’esperienza che si è venuta a realizzare con l’affermarsi dell’informatica è
quella del cosiddetto telelavoro. Si ha telelavoro quando il lavoratore svolge
la propria prestazione in locali diversi da quelli tradizionali dell’impresa o della
pubblica amministrazione di cui si è alle dipendenze. Non si ha un diverso
contratto di lavoro, ma è differente semplicemente la modalità di svolgimento
della prestazione. Tale tipo di prestazione è disciplinata dall’art. 2094 c.c. o
dalla legge sul lavoro a domicilio del 1973? Se il lavoratore è controllabile a
domicilio e quindi vi è coordinamento temporale, si parla di lavoro subordinato
interno. Il lavoro subordinato a domicilio è caratterizzato non soltanto dal
luogo in cui è svolta la prestazione, ma dalle modalità di coordinamento del
lavoratore. Il telelavoratore che lavora nel proprio domicilio, se non è
controllabile, ma riceve delle direttive, potrebbe essere ricondotto nella
fattispecie del lavoro subordinato a domicilio. Nel lavoro a domicilio della
legge del ‘73, il sistema retributivo unico è quello della retribuzione a cottimo.
In tale contesto il legislatore interviene con la legge 81/2017 che regolamenta
il lavoro agile e lo definisce come tale. Prima della pandemia, il lavoro agile
aveva avuto una diffusione molto modesta.
Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitivita'
e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro
agile quale modalita' di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato
stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per
fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il
possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attivita'
lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di
locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli
limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti
dalla legge e dalla contrattazione collettiva (art.18/1 L.81/2017). L’orario di
lavoro è disciplinato da una legge del 2003 e prevede un orario normale e un
orario massimo deducibile dal riposo giornaliero minimo. I contratti collettivi
potrebbero prevedere un cosiddetto orario multiperiodale. Con riguardo al
lavoro agile, i limiti sono solo quelli di durata massima dell’orario di lavoro
giornaliero e settimanale. Il controllo sullo svolgimento della prestazione è
diverso perché il lavoratore presta la propria opera almeno in parti in locali
scelti dal lavoratore stesso come la propria abitazione. Mentre nel telelavoro il
luogo di lavoro viene concordato, nel lavoro agile, il lavoratore può svolgere la
propria prestazione nel luogo che ritiene più opportuno; vi è quindi
un’autonomia di determinazione del luogo di lavoro nettamente maggiore. Vi è
un necessario problema di disconnessione e su questo punto il legislatore è
ancora abbastanza carente. Si accenna alla disconnessione all’art.19/1
L.81/2017:L'accordo relativo alla modalita' di lavoro agile e' stipulato per
iscritto ai fini della regolarita' amministrativa e della prova,e disciplina
l'esecuzione della prestazione lavorativa svolta all'esterno dei locali aziendali,
anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di
lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore. L'accordo individua altresi' i
tempi di riposo del lavoratore nonche' le misure tecniche e organizzative
necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle
strumentazioni tecnologiche di lavoro. Quello della disconnessione è un
problema fondamentale. Molti aspetti della disciplina delle modalità di
svolgimento del lavoro agile sono rimessi al contratto individuale. L’articolo
19/2 prevede che il rapporto di lavoro agile possa essere a tempo determinato
o indeterminato: L'accordo di cui al comma 1 puo' essere a termine o a tempo
indeterminato; in tale ultimo caso, il recesso puo' avvenire con un preavviso
non inferiore a trenta giorni. Nel caso di lavoratori disabili ai sensi dell'articolo
1 della legge 12 marzo 1999, n.68, il termine di preavviso del recesso da
parte del datore di lavoro non puo' essere inferiore a novanta giorni, al fine di
consentire un'adeguata riorganizzazione dei percorsi di lavoro rispetto alle
esigenze di vita e di cura del lavoratore. In presenza di un giustificato motivo,
ciascuno dei contraenti può recedere prima della scadenza del termine nel
caso di accordo a tempo determinato, o senza preavviso nel caso di accordo
a tempo indeterminato. I datori di lavoro pubblici e privati che stipulano
accordi per l'esecuzione della prestazione di lavoro in modalita' agile sono
tenuti in ogni caso a riconoscere priorita' alle richieste di esecuzione del
rapporto di lavoro in modalita' agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni
successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternita' previsto
dall'articolo 16 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela
e sostegno della maternita' e della paternita', di cui al decreto legislativo 26
marzo 2001, n. 151, ovvero dai lavoratori con figli in condizioni di disabilita' ai
sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (art.18/3-
bis). Il datore di lavoro non è in linea di massima obbligato a consentire il
lavoro agile né può obbligare il lavoratore a questa tipologia di modalità di
esecuzione della prestazione. Il datore di lavoro ha il dovere di garantire la
sicurezza degli strumenti e del luogo di lavoro anche quando non è a sua
disposizione. Il datore di lavoro ha qui l’obbligo di formazione e informazione
del lavoratore, ma non può fare nient’altro.
Con l’avvento della pandemia di coronavirus si è qualificata una situazione
emergenziale che ha causato un forte ricorso al lavoro agile emergenziale.
Non hanno diritto di svolgere la propria modalità di lavoro agile coloro che non
sono muniti di green pass, ma solo coloro che non hanno la possibilità di
vaccinarsi. In alcune fasi il datore di lavoro aveva la possibilità di collocare il
lavoratore nel lavoro agile emergenziale senza il consenso del lavoratore. Il
lavoro agile emergenziale è differente rispetto al lavoro agile classico. Spesso
il lae presente più le caratteristiche del telelavoro. Vi sono alcuni avvocati in
giro per l’Italia che sostengono che la normativa sul green pass sia illegittima
perché in contrasto con la normativa europea. Il lavoro agile è stato
certamente una grande risorsa. E’ chiaro che vi siano dei problemi riscontrati
da importanti studi psicologici e sociologici in materia che sconsigliano di
evitare forme di telelavoro o lavoro agile totale. Il Ministro del Lavoro ha
istituito un gruppo di studio che hanno elaborato una relazione che ha poi
collaborato alla stesura del protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile
del 7 dicembre 2021 firmato anche dalle parti sociali (espressione di
concertazione sociale). Si sottolinea la necessità che la contrattazione
collettiva preveda la determinazione della durata dell'orario di lavoro e che
disciplini inoltre il diritto alla disconnessione. Vi è la responsabilità del datore
di lavoro di produrre un’informativa sui rischi generali e specifici relativi al
lavoro agile. La smaterializzazione dei luoghi di lavoro crea una serie di
problematiche in merito alla sicurezza; diventa quindi importante
l’informazione e formazione del lavoratore sui rischi generali e specifici. Sono
stati stipulati una serie di accordi aziendali che prevedono una serie di
determinate soluzioni al problema ambientale anche con riguardo al mezzo di
trasporto (come gli incentivi al lavoratore che raggiunge il posto di lavoro in
bicicletta). Vi è inoltre il problema della violazione dati e della cyber security.
Sono necessarie determinate misure per garantire la conciliazione tra tempi di
vita e di lavoro. Determinate attività di servizi e di imprese produttive possono
essere svolte da remoto senza la necessità di ampliare gli spazi. In
determinati contesti è maggiormente complicato il coordinamento con gli altri
lavoratori nel lavoro da remoto.
https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2015-06-15;81

Il contratto di lavoro a tempo indeterminato e determinato


Il contratto a tempo indeterminato ha una data di inizio, ma non una data di
fine. Il contratto a tempo indeterminato può terminare con un atto di recesso
(licenziamento o dimissioni) o con una risoluzione consensuale. Il
pensionamento non è causa di risoluzione, ma può avere come conseguenza
le dimissioni. Il fallimento non costituisce giusta causa del licenziamento. Il
licenziamento è impugnabile dal lavoratore dinanzi al giudice del lavoro. Il
contratto a tempo indeterminato dà maggiori garanzie al lavoratore circa la
durata del rapporto stesso e circa le tutele relative all’estinzione del rapporto.
Il contratto a tempo determinato o a termine presenta invece un termine
finale allo scadere del quale si estingue il rapporto di lavoro senza bisogno di
un atto di recesso. Il contratto a termine è da un lato un’assunzione precaria
per il lavoratore; dal punto di vista del datore di lavoro il contratto a termine è il
più appetibile perché non presenta rischi di costi alla cessazione dello stesso,
salvo che il contratto non sia legittimo. Tutta l’evoluzione legislativa ruota
attorno a una cruciale questione: a che condizione è legittima l’apposizione
del termine? In presenza di quali presupposti può essere stipulato il contratto
a tempo determinato? In origine il contratto a termine era la regola per via del
timore di vincoli perpetui. Dal codice civile del 1942 in poi, la regola diventa
quella del contratto a tempo indeterminato e il contratto a termine rappresenta
un’eccezione.

La regola generale che opera nel settore privato prevede che se l’apposizione
del termine non è legittima si considera nulla l’apposizione del termine (nullità
parziale) e il contratto si converte in una contratto a tempo indeterminato; nel
settore pubblico si ha invece una nullità totale del contratto per via della
necessità del concorso.
Il codice civile del ‘42 riteneva legittimo il contratto a termine o in presenza
della forma scritta o a fronte di esigenze speciali che consentono legittima
l’apposizione del termine. La regola generale in materia di contratti di lavoro in
termini di forma è quella della forma libera (il contratto di lavoro può essere
stipulato anche oralmente o concluso per fatti concludenti). La forma scritta è
richiesta talora a tutela del lavoratore, in certe situazioni ad esempio con
riguardo a contratti diversi da quello standard. La Legge 230/1962 (rimasta in
vigore fino al 2001) introduce per la prima volta una regola tuttora valida: il
contratto a termine richiede quale condizione di legittimità la forma scritta ad
substantiam in mancanza della quale il contratto si considera a tempo
indeterminato. Il contratto a tempo determinato deve essere firmato prima
dell’inizio della prestazione lavorativa. La L.230/1962 prevedeva che il
contratto a termine potesse essere stipulato solo in alcuni casi tassativamente
previsti dalla legge. La contrattazione collettiva aveva preceduto con accordi
interconfederali la legge 204/1966 introducendo delle limitazioni al potere di
licenziamento. La L.230/1962 richiede la forma scritta e introduce pochi casi
tassativamente previsti dalla legge in cui fosse possibile introdurre un termine
come la sostituzione di un lavoratore a termine, l’attività stagionale (si
intendeva per attività stagionale una delle tante situazioni previste in un
apposito decreto ministeriale del 1963). Negli anni ‘70 il contratto collettivo
venne autorizzato dalla legge a introdurre nuovi casi in cui il contratto a
termine potesse essere concluso. Il principio di esclusiva tassatività legale
viene meno (vi è tassatività legale e contrattuale). Viene poi introdotto il caso
di specifici spettacoli radiofonici e televisivi e quello delle cosiddette punte
stagionali che riguardano un’attività svolta durante tutto l’anno che presenta
dei picchi in certi periodi (le punte stagionali avevano in mente il turismo e
l’industria dolciaria). La ratio della legge 230 e delle sue successive modifiche
sono la tassatività dei casi in cui è possibile apporre un termine. Nel caso
delle punte stagionali si richiede un provvedimento autorizzatorio
dell’ispettorato del lavoro. Non vi era una deregolamentazione selvaggia del
contratto a termine, ma un’apertura controllata o dall’autorità amministrativa o
dalla contrattazione collettiva che poteva aumentare i casi (flessibilità
contrattata o regolata). L’ipotesi venne poi estesa dal settore del turismo e da
tutti i settori. Negli anni ‘80 e negli anni ‘90 si cerca di introdurre qualche
nuova ipotesi anche in funzione di recupero di occupazione persa: la
L.293/1991 disciplina i licenziamenti collettivi e prevede che tutti i lavoratori
licenziati per ragioni oggettive (organizzative) siano iscritti in speciali liste
(liste di mobilità); qualunque impresa può assumere a tempo determinato
per la durata massima di un anno, senza alcuna causale giustificativa con
maggiori vantaggi in ambito contributivo, i lavoratori iscritti nelle liste di
mobilità per cercare di rioccuparli. Nel 2001 viene emanato dal Governo di
centrodestra il D.lgs.368/2001 in attuazione di una direttiva europea (le
direttive europee in materia prevedono un divieto di abuso del ricorso al
contratto a termine, ma con margini di scelta per il legislatore nazionale). Il
contratto a tempo determinato viene a volte utilizzato dalle imprese come
“periodo di prova” (non in senso giuridico). Con il decreto del 2001 si previde
che il contratto a termine (che comunqu
e richiede la forma scritta) potesse essere stipulato a fronte di ragioni di
carattere organizzativo, tecnico, produttivo o sostitutivo; tale soluzione è
prevista nel Libro Bianco scritto in gran parte da Marco Biagi. La formula aprì
una polemica in materia di tecnica giuridica tra Marco Biagi e Pietro Ichino.
Quest’ultimo sostenne che la soluzione di allargare le causali del contratto a
termine fosse buona, mentre la formulazione tecnica utilizzata lasciasse un
ampissimo spazio al contenzioso giuridico per la vasta genericità della norma
(Pietro Ichino parlò di causalone). Nel contratto il requisito formale non
riguarda soltanto la clausola, ma anche la ragione che determina il contratto
stesso. Per ragioni di carattere sostitutivo si intende la sostituzione di un
lavoratore a termine. Più difficile è stabilire le ragioni di carattere
organizzativo, tecnico e produttivo. Si ha nel 2001 un cambio di tecnica
legislativa da un principio di tassatività a una clausola generale che ha
ingenerato un aumento esponenziale del contenzioso giudiziale. Qualora il
contratto a termine venga impugnato il giudice può ritenere nulla la clausola
trasformando il contratto ricostituendo il rapporto di lavoro come a tempo
indeterminato. Il contratto a termine è più attraente per l’impresa perché non è
necessario un licenziamento allo scadere del termine (il termine deve
naturalmente essere legittimo).
La L.183/2010 introduce un termine di decadenza per l’impugnazione del
contratto a termine. Il contratto a termine può essere messo in discussione
purché venga impugnato in un breve termine di impugnazione extragiudiziale
a cui segua una impugnazione in giudizio entro un termine di 180 giorni.
Venendo in discussione la nullità della clausola appositiva del termine, la
prescrizione sarebbe altrimenti quinquennale per l’annullabilità e perpetua per
la nullità.
Nel 2012 con la Riforma Fornero viene prevista la possibilità per il datore di
lavoro di assumere a termine fino ad un anno anche senza una causale
giustificativa. Ai sensi di tale riforma è stata possibile l’assunzione a termine
fino ad un anno senza causale giustificativa di lavoratori che fino ad allora non
avevano avuto alcun rapporto con l’impresa.
Con il D.lgs.81/2015 viene abrogata la norma che prevedeva la causale. Il
datore di lavoro può stipulare contratti a termine senza l’esigenza di una
causale giustificativa. Gli unici limiti presenti erano di durata e quantitativi.
Viene prevista una durata massima di 3 anni che prima non era indicata,
almeno che un quarto anno non sia firmato presso l’ispettorato territoriale del
lavoro. Nessun datore di lavoro può avere alle proprie dipendenze un numero
di lavoratori a termine superiore al 20% dei lavoratori a tempo indeterminato a
meno che il contratto collettivo non preveda percentuali differenti.
Con il cosiddetto Decreto Dignità del 2018 viene ridotto il termine massimo da
36 a 24 mesi. Dopo i primi 12 mesi è inoltre necessaria una ben precisa
causale (si ritorna alla tecnica della tassatività del ‘62 pur non essendoci nel
primo anno necessità di causale). Inizialmente vennero previste due ipotesi di
difficile verificabilità: esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria
attività o esigenze di sostituzione di altri lavoratori; esigenze connesse a
incrementi temporanei significativi e non programmabili dell’attività ordinaria. Il
decreto dignità ha optato tale soluzione per ridurre la precarietà, ma la
conseguenza non è stata quella sperata perché allo scadere del termine, il
datore di lavoro fa risolvere il contratto e stipula un nuovo contratto a termine
con un altro lavoratore. A fine 2021 è stata introdotta un’altra causale che
riecheggia quanto è stato fatto a partire degli anni ‘70: ritorna la possibilità di
stipulare contratti a termine oltre i primi 12 mesi in casi previsti dalla
contrattazione collettiva di ogni livello. In quest’ultimo anno e mezzo il
legislatore dell’emergenza ha consentito proroghe dei contratti a termine
senza causale a fronte dell’emergenza pandemica.
Nel settore pubblico vi sono state molte modifiche, ma il principio rimane
quello della ragione oggettiva quindi rimane sostanzialmente la formula
aperta del 2001, ma non vi è trasformazione in un contratto a tempo
indeterminato. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea non ha mai ritenuto
che il legislatore italiano abbia adottato soluzioni che consentissero un abuso
del contratto a termine; anche quando manca la causale vi è comunque un
limite di durata. Nel settore pubblico abbiamo casi di contratti a termine che
proseguono nel corso di decenni. Non è un danno civilistico, ma è un danno
che ormai la nostra giurisprudenza definisce come danno comunitario che
ha natura sanzionatoria perché viene considerata illegittima la reiterazione di
contratti a termine. La Cassazione impone come sanzione un’indennità tra 2,5
e 12 mensilità. Il legislatore prevede che se il giudice accerta che il termine è
illegittimo trasforma il contratto in un contratto a tempo indeterminato, ma
viene previsto un periodo di indennità tra la scadenza del termine e la
sentenza. Nel settore privato tale indennità si aggiunge alla conversione,
mentre nel settore pubblico rappresenta l’unico rimedio.
La durata massima non riguarda solo il singolo contratto, ma anche la proroga
e l’eventuale rinnovo. Bisogna distinguere tra proroga, continuazione di
fatto e rinnovo. Per proroga si intende il proseguimento del contratto con una
previsione concordata tra le parti. Per rinnovo si intende la stipulazione di un
nuovo contratto a termine in seguito alla scadenza del precedente. Nei limiti di
durata si tiene conto anche dei precedenti contratti a termine purché questi
abbiano ad oggetto le medesime mansioni. Si ha prosecuzione di fatto
quando il lavoratore continua a lavorare per qualche giorno; non vi è qui
automatica trasformazione in contratto a tempo indeterminato, ma il datore di
lavoro è tenuto a versare una maggiorazione (tale continuazione può durare
fino a 30 giorni se il contratto è inferiore a 6 mesi, fino a 50 giorni se il
contratto dura di più). La trasformazione opera quando si supera la durata
massima e quando non vi è la causale se richiesta, mentre se il datore di
lavoro supera il limite quantitativo vi è una sanzione amministrativa rilevante.
In origine anche la riforma del 2001 prevedeva un’unica proroga per la
medesima causale giustificativa, fermo restando la durata massima. Con il
Jobs Act le proroghe diventano 5; con il Decreto Dignità vengono ridotte a 4.
Anche con le proroghe che vi è stata quindi flessibilizzazione poi ridotta.
Vi è un problema di carenza di professionalità tecniche. Vi sono dei divieti di
assunzione a termine previsti dall’articolo 20 del d.lgs.81/2015 (vedi articolo).
Le parti possono recedere prima della scadenza del termine. Se una delle
parti intende recedere prima della scadenza del termine il riferimento è
l’art.2119 c.c. che disciplina il recesso straordinario: Ciascuno dei contraenti
puo' recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto e'
a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto e' a tempo
indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il lavoratore viene licenziato
prima della scadenza del termine senza giusta causa spetterà al lavoratore un
risarcimento equivalente alla retribuzione cui avrebbe avuto diritto se il
rapporto fosse continuato fino alla scadenza meno ciò che abbia percepito
altrove. Se recede il lavoratore senza giusta causa, è molto più difficile
dimostrare e quantificare il danno causato dalla mancata prestazione.
Qualcuno ha provato a introdurre una clausola penale che il lavoratore deve
versare in caso di recesso senza giusta causa e che, se eccessiva, può
essere ridotta dal giudice.
Il contratto a termine ha una stabilità maggiore di quello a tempo
indeterminato durante la sua durata.

Contratto di lavoro a tempo parziale


Il contratto di lavoro a tempo parziale è un contratto che ha un orario di lavoro
ridotto rispetto a quello a tempo pieno. Il contratto a tempo parziale può
configurarsi sia con il contratto a tempo determinato che in quello a tempo
indeterminato.
Il contratto a tempo parziale è regolamentato oggi dagli artt.4 e seguenti del
D.lgs.81/2015. In Italia la prima regolamentazione del part time risale al 1984.
Prima di allora i contratti a tempo parziale esistevano comunque ma non
avevano una disciplina peculiare (erano dei contratti innominati). In Italia vi
è una diffusione inferiore del part time. Giuridicamente il part time è sempre
volontario (anche se spesso nella prassi il lavoratore è costretto ad accettarlo.
L’orario è ridotto rispetto all’orario normale (che fa riferimento a una base
giornaliera, settimanale etc.). Il part time può essere verticale (orario normale
in alcune giornate e zero ore durante altre giornate o alcune settimane al
mese a tempo pieno e altre settimane a zero ore) o orizzontale (si fa un
totale di ore al giorno). Il part time può essere anche misto (alcuni giorni a
tempo pieno e altri giorni a tempo ridotto).Il part time nasce dall’esigenza del
lavoratore di programmare il proprio tempo di non lavoro. Il contratto a tempo
parziale richiede il consenso di entrambe le parti. Il datore di lavoro non ha
diritto di trasformare il contratto da tempo pieno a tempo parziale (o viceversa)
e non ha diritto il lavoratore di pretendere la trasformazione del part time in full
time. Il lavoratore ha l’esigenza di conoscere in anticipo non solo la quantità di
lavoro, ma anche la collocazione esatta delle ore di lavoro.
1. Il contratto di lavoro a tempo parziale e' stipulato in forma scritta ai fini
della prova.
2. Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione
della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale
dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.

3. Quando l'organizzazione del lavoro e' articolata in turni, l'indicazione di


cui al comma 2 puo' avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di
lavoro articolati su fasce orarie prestabilite (art.5 D.lgs.81/2015).

Il part time viene a volte considerato contratto flessibile, ma di fatto non lo è


perché risponde ad esigenze delle parti tra cui quella di poter programmare il
tempo di non lavoro, ma le parti non sono libere di gestire. L’articolo 6 del
Decreto 81/2015 prevede delle clausole elastiche stipulabili dalle parti nel
rispetto dei contratti collettivi e a condizione che sia previsto dal contratto
individuale relative alla variazione della collocazione temporale della
prestazione lavorativa oppure variazione in aumento. Il prestatore di lavoro ha
diritto a un preavviso di 2 giorni lavorativi (salvo diversa pattuizione delle parti)
nonché ad una compensazione nella misura e nelle forme determinate dai
contratti collettivi. Nel caso in cui i contratti collettivi non pattuiscano clausole
elastiche queste possono essere pattuite di fronte alle commissioni di
certificazione.
Il lavoro supplementare si colloca tra l’orario pattuito dalle parti e l’orario
normale stabilito dal contratto collettivo. Il lavoro oltre il normale orario è
lavoro straordinario (pagato maggiormente). L’articolo 6 del d.81/2015 rinvia
in materia alla contrattazione collettiva o alla commissione di certificazione. Il
lavoratore può rifiutare il lavoro supplementare e il lavoro straordinario di
fronte a esigenze lavorative, di formazione professionale, di salute o familiari.

1. Nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro ha


la facolta' di richiedere, entro i limiti dell'orario normale di lavoro di cui
all'articolo 3 del decreto legislativo n. 66 del 2003, lo svolgimento di
prestazioni supplementari, intendendosi per tali quelle svolte oltre l'orario
concordato fra le parti ai sensi dell'articolo 5, comma 2, anche in relazione
alle giornate, alle settimane o ai mesi.
2. Nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non
disciplini il lavoro supplementare, il datore di lavoro puo' richiedere al
lavoratore lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare in misura non
superiore al 25 per cento delle ore di lavoro settimanali concordate. In tale
ipotesi, il lavoratore puo' rifiutare lo svolgimento del lavoro supplementare ove
giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di
formazione. professionale. Il lavoro supplementare è retribuito con una
maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto,
comprensiva dell'incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli
istituti retributivi indiretti e differiti.

Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto da lavoro a tempo


pieno a tempo parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di
licenziamento (art.8).
Hanno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro in part time i lavoratori
affetti da patologie oncologiche e altre gravi patologie. Il lavoratore può poi
richiedere la riconversione del contratto qualora sia di nuovo in grado di
svolgere l’attività a tempo pieno. Alcuni lavoratori possono essere collocati in
priorità (lavoratori che hanno familiari con gravi patologie); il datore di lavoro,
qualora abbia la necessità di un posto part time, dovrà prima accordarsi con
tali lavoratori.
E’ richiesta la forma scritta ad probationem. Se manca la prova scritta del part
time, la trasformazione in un full time non è automatica perché il lavoratore o
la lavoratrice potrebbe essere danneggiato dalla trasformazione. Il rapporto
viene trasformato solo su domanda su domanda del lavoratore. Qualora nel
contratto scritto non sia determinata l’orario della prestazione lavorativa, su
domanda del lavoratore, è dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro a
tempo pieno. Qualora l’omissione riguardi la sola collocazione temporale
dell’orario, il giudice determina le modalità di collocazione dell’orario.

Il contratto di lavoro intermittente o a chiamata


Il contratto di lavoro intermittente può essere a tempo determinato o
indeterminato e con esso il lavoratore si pone a disposizione del datore di
lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o
intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con
riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati
nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. In mancanza di contratti
collettivi è possibile che le esigenze vengano individuate da un decreto del
ministero del lavoro. Tale tipologia di contratto è accusata di precarizzare i
contratti di lavoro, ma al contempo è utile per l’emersione dal lavoro nero.
Si prevede che il datore di lavoro possa chiamare il lavoratore.
Il contratto di lavoro a chiamata può variare a seconda che il lavoratore si
impegni o meno a rispondere alla chiamata. Nel contratto deve essere
previsto il preavviso di chiamata che non può essere inferiore a un giorno
lavorativo. A fronte dell’obbligo di rispondere alla chiamata, il lavoratore ha
diritto all’indennità di disponibilità. In un contratto in cui il datore non ha
l’obbligo di chiamata e il lavoratore non ha l’obbligo di rispondere, l’obbligo
insorge nel momento in cui il lavoratore accetta la domanda. Il secondo tipo
(senza obbligo di risposta) è quello più diffuso per via dell’assenza di
indennità di disponibilità.
Il contratto di lavoro intermittente deve quindi avere ad oggetto una
prestazione discontinua e intermittente e deve essere stipulato a fronte di
determinate esigenze stabilite dal contratto collettivo o da un decreto del
ministero del lavoro.
Il contratto di lavoro intermittente può essere concluso nei confronti di soggetti
con non meno di 24 anni di età e con più di 55.

In ogni caso, con l’eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e
dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è ammesso per un periodo
complessivamente non superiore alle 400 giornate nell’arco di 3 anni solari, in
caso contrario il contratto si trasforma in un contratto a tempo pieno e
indeterminato.
E’ fatto divieto di costituire un contratto intermittente nei casi in cui è vietato
costituire un contratto a termine.
1. Il contratto di lavoro intermittente e' stipulato in forma scritta ai fini della
prova dei seguenti elementi:
a) durata e ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione
del contratto a norma dell'articolo 13;

b) luogo e modalita' della disponibilita', eventualmente garantita dal


lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore, che non puo'
essere inferiore a un giorno lavorativo;

c) trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la


prestazione eseguita e relativa indennita' di disponibilita', ove prevista;

d) forme e modalita', con cui il datore di lavoro e' legittimato a richiedere


l'esecuzione della prestazione di lavoro, nonche' modalita' di rilevazione
della prestazione;

e) tempi e modalita' di pagamento della retribuzione e della indennita' di


disponibilita';

f) misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attivita' dedotta


in contratto.

2. Fatte salve le previsioni più favorevoli dei contratti collettivi, il datore


di lavoro e' tenuto a informare con cadenza annuale le rappresentanze
sindacali aziendali o la rappresentanza sindacale unitaria sull'andamento
del ricorso al contratto di lavoro intermittente.

3. Prima dell'inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di


prestazioni di durata non superiore a trenta giorni, il datore di lavoro e' tenuto
a comunicarne la durata alla direzione territoriale del lavoro competente per
territorio, mediante sms o posta elettronica. Con decreto del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, possono essere individuate
modalita' applicative della disposizione di cui al primo periodo, nonche'
ulteriori modalita' di comunicazione in funzione dello sviluppo delle tecnologie.
In caso di violazione degli obblighi di cui al presente comma si applica la
sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun
lavoratore per cui e' stata omessa la comunicazione. Non si applica la
procedura di diffida di cui all'articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile
2004, n. 124.
Il datore di lavoro può non richiamare il lavoratore senza bisogno di
licenziarlo.
● La flessibilità
Per flessibilità si può intendere quella contrattata (stipulare contratti collettvi iche
possano stipulare deroghe peggiorative), quella in entrata (stipulare contratti diversi
da quello a tempo indeterminato) e quella in uscita (maggiore flessibilità nei
licenziamenti).

Il contratto di apprendistato
Il contratto di apprendistato è stato regolamentato negli anni ‘50 quando
si faceva riferimento al lavoro manuale. E’ stato poi riformato negli ultimi
15 anni. Oggi si fa riferimento agli artt.41 ss. del D.lg.s.81/2015. Il
contratto di apprendistato è un contratto a tempo indeterminato con un
particolarità costituita dal fatto che sia prevista una fase formativa a
tempo determinato, alla scadenza del quale il licenziamento e le
dimissioni sono libere (ad nutum). Le dimissioni possono essere
sempre date senza motivazione previo preavviso, ma il licenziamento
deve essere motivato con una giustificazione pregnante e importante, o
di tipo soggettivo (inadempimenti del lavoratore) o di tipo oggettivo
(quali la soppressione di un posto di lavoro). Nel caso
dell’apprendistato, nell’ultimo giorno della fase di formazione il
licenziamento è libero e non vi è quindi bisogno di una giusta causa. I
motivi possono rilevare solo per illiceità (motivi di discriminazione o di
carattere ritorsivo). Al di fuori del caso del licenziamento nullo perché
discriminatorio o illecito ex art.1345 c.c., il licenziamento è libero (solo
alla fine della fase di formazione). Molti consulenti sono convinti che il
contratto sia a termine. Se il datore di lavoro non licenzia l’ultimo giorno
della fase formativa, il rapporto si considera definitivo non più in
apprendistato. Se il rapporto prosegue qualche giorno oltre la scadenza
(anche solo un giorno), il rapporto è un rapporto a tempo indeterminato
standard. L’articolo 41 comma 1 afferma che l’apprendistato è un
contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e
all’occupazione dei giorni. Possono esserci 3 tipi di contratto di
apprendistato (art.41/2 D.lgs.81/2015):
● L’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale
● L’apprendistato professionalizzante (più diffuso)
● Apprendistato di alta formazione e ricerca o per il conseguimento di titoli
di studio universitario, compresi i dottorati di ricerca in un sistema duale
di formazione e di lavoro.

Vi sono degli elementi comuni a tali 3 tipologie di contratto di apprendistato: è


un contratto a tempo indeterminato, richiede la forma scritta ad probationem e
deve contenere il piano formativo individuale che deve individuare le
modalità della formazione che è duplice (formazione sul lavoro e
formazione teorica). La fase di formazione sul lavoro deve essere svolta con
la presenza di un tutor; vi è quindi una persona deputata a seguire la
formazione dell’apprendista.
Il contratto di apprendistato è un contratto speciale in senso tecnico perché
presenta elementi di specialità innanzitutto nella causa. L’apprendistato è un
contratto a causa mista: lo scambio è tra lavoro e retribuzione +formazione; il
datore di lavoro non si limita a retribuire il lavoratore, ma lo deve anche
formare. Per il contratto a termine, per il lavoro intermittente e a tempo
parziale la causa non è speciale (sempre retribuzione per prestazione
lavorativa) e le discipline speciali sono presenti riguardo alla fine del rapporto
di lavoro e alla libertà del licenziamento e delle dimissioni nel caso del
contratto a termine etc.
Elemento di specialità del contratto di apprendistato è quello per cui debba
contenere il piano formativo individuale. Ulteriore elemento di specialità è
quello sul licenziamento libero alla fine dell’apprendistato. In costanza di
apprendistato (durante la fase formativa) il licenziamento viene regolato dalla
disciplina generale. La libertà di licenziare l’ultimo giorno dell’apprendistato è
libera, fermo restando i limiti previsti dal legislatore per evitare gli abusi del
datore di lavoro; ad esempio, se il datore di lavoro licenzia un certo numero di
apprendisti, non può più stipulare contratti di apprendistato; l’apprendistato
vale solo per i giovani. Per quanto riguarda l’apprendistato del primo tipo l’età
minima parte da 15 anni e l’età massima è di 18 anni. Per gli altri due casi
l’età consentita è tra i 18 e i 29 anni, mentre non sono previsti limiti di età per i
lavoratori iscritti nelle liste di mobilità; ciò vale nel settore privato. Nel settore
pubblico è previsto il contratto di formazione e lavoro.
La durata dell’apprendistato varia a seconda delle previsioni della
contrattazione collettiva. E’ rimessa totalmente alla contrattazione collettiva la
durata massima dei contratti del primo e del secondo tipo, mentre per quelli
del terzo tipo viene data competenza anche alla legislazione regionale. Il
legislatore regionale ha competenza in materia di formazione, quindi può agire
solo nella parte della formazione. Vi è un limite minimo di 6 mesi e massimo di
3 anni per quanto riguarda i contratti del primo tipo che possono diventare 4 o
5 a seconda che si tratti di diploma quadriennale regionale o di qualifiche
professionali dell’artigianato. Non si fa riferimento alla durata massima dei
contratti del secondo tipo. Vi è un numero massimo di apprendisti presso
un’impresa. i datori di lavoro con almeno 50 dipendenti possono assumere
nuovi apprendisti se hanno mantenuto in servizio almeno il 20% degli
apprendisti assunti nei 36 mesi precedenti; non si calcolano gli apprendisti
licenziati per giusta causa o per mancato superamento della prova o dimessi.
Se tale percentuale non è soddisfatta, il datore di lavoro può assumere un
solo apprendista; se non si supera tale soglia, il contratto si considera a tempo
indeterminato. Ogni due lavoratori già qualificati non possono esserci più di 3
apprendisti, fermo restando, che per i datori di lavoro che occupano meno di
10 dipendenti, gli apprendisti non possono superare il 100% dei lavoratori già
formati, se il datore di lavoro non ha lavoratori già formati, non può assumere
nuovi apprendisti. La retribuzione dell’apprendista è più bassa; ciò si giustifica
costituzionalmente con il principio di proporzionalità (vi è una presunzione
assoluta di minore produttività dell’apprendista) e con il fatto che accanto alla
retribuzione si riceva la formazione. Oltre alla retribuzione minore, vi è una
contribuzione ridotta (il lavoratore si vede comunque accreditata una
contribuzione figurativa anche se il datore di lavoro versa meno). Se il
datore di lavoro non forma il lavoratore, si ha inadempimento del lavoratore e
quindi conversione del contratto e versamento della retribuzione del contratto
normale e dei pieni contributi.

Il contratto di lavoro ripartito


Tale tipo di contratto (detto anche job sharing) previsto dalla riforma
Biagi, ma abolito dal riforma Renzi, prevedeva la condivisione di un
medesimo posto di lavoro ripartito tra due lavoratori che si impegnano a
ricoprirlo alternativamente. Vi era responsabilità solidale dei lavoratori.
Tale contratto era sgradito ad alcuni sindacati. Tale contratto non è più
previsto nel nostro ordinamento.

Il datore di lavoro
Chi è il datore di lavoro? In linea di massima, chi assume e chi esercita i 3
poteri.
Capire chi è il datore di lavoro è importante perché, a seconda delle sue
dimensioni, le discipline di tutela dai licenziamenti sono differenti.
La prima differenza rilevante è tra Pubbliche Amministrazioni e datori di lavoro
privati. I datori di lavoro privati non necessariamente sono imprenditori.
L’art.2239 c.c. dice che si applicano ai datori di lavoro non imprenditori le
norme che valgono per l’impresa. Con la privatizzazione dei rapporti di lavoro
nel settore pubblico, non si privatizza il datore di lavoro, ma il rapporto di
lavoro tra le amministrazioni pubbliche e i lavoratori, salvo eccezioni stabilite
dal D.lgs. 165/2001, il rapporto di lavoro segue le logiche del diritto privato.
L’atto estintivo del rapporto dall’atto pubblico, per il personale rimasto in
ambito pubblicistico, è detto destituzione. Salvo eccezioni però, i rapporti di
lavoro sono assoggettati alle logiche del diritto privato. Dal momento in cui ha
termine il concorso con l’approvazione della graduatoria, finisce la fase
pubblicistica; le regole del diritto amministrativo riguardano solamente la fase
concorsuale; il bando di concorso e la graduatoria vanno impugnati dinnanzi
al Giudice Amministrativo. Il rapporto di lavoro nasce però non di un
provvedimento amministrativo, ma di un contratto. Il contratto di lavoro ha
funzione genetica e regolativa del rapporto di lavoro. Nel settore pubblico il
contratto deve essere stipulato per iscritto perché previsto dai contratti
collettivi. Nel settore privato il contratto individuale può regolamentare il
rapporto di lavoro in termini migliorativi rispetto a quanto previsto dalla legge e
dal contratto collettivo; nel settore pubblico il contratto individuale non può
derogare in via assoluta il contratto collettivo o la legge, salvo che non si
pattuiscano determinate modalità di svolgimento del rapporto di lavoro come il
lavoro agile o il part time. Tra le fonti di disciplina abbiamo il contratto
collettivo. Il rapporto viene gestito attraverso atti unilaterali privatistici e non
attraverso provvedimenti amministrativi. L’atto amministrativo è espressione
dell’esercizio della supremazia speciale della P.A. e deve essere motivato. I
negozi giuridici devono essere motivati solo se il legislatore lo richiede. La
teoria dei negozi giuridici si applica agli atti di gestione del rapporto di lavoro
dei dipendenti pubblici. Fino agli anni’90 vi è stata un tendenza di
avvicinamento del lavoro pubblico al lavoro privato. Si ha un progressivo
riallontanamento con la Riforma Biagi, ma non si può parlare di ritorno
all’ambito pubblicistico. Le differenze sono significative a partire dai tipi
contrattuali. Rispetto ai contratti di lavoro, la distinzione tra lavoro subordinato
e lavoro autonomo, è disciplinata dalle stesse regole del settore privata,
anche se nel settore pubblico vi è un criterio di eccezionalità; i criteri distintivi
rimangono i medesimi. La questione dell’eterorganizzazione e della disciplina
del lavoro subordinato è la medesima del settore privato. Nel settore privato,
se emerge la subordinazione in un contratto di lavoro autonomo, agisce la
conversione, mentre nel settore pubblico no. Se il concorso viene annullato, il
contratto di lavoro è nullo. L’effettivo svolgimento della prestazione non sana il
contratto come nel settore privato. Il dipendente pubblico è, in questo caso
meno tutelato, pur avendo più tutele e sotto altri aspetti quali il licenziamento.
il dipendente pubblico, se licenziato in modo illegittimo, ha diritto alla reintegra
e il rapporto di lavoro si ricostituisce (nel privato non è sempre così).
Un’altra differenza riguarda gli altri sottotipi del contratto di lavoro subordinato.
Sul part time vi è qualche differenza di disciplina. Il contratto di lavoro a
chiamata o intermittente vale solo nel settore privato. Il contratto di lavoro
ripartito non era previsto per il settore pubblico.
L’apprendistato è valido solo per il settore privato. Nel settore pubblico sono
stipulabili i contratti di formazione e lavoro: sono contratti a termine (durata di
2 o un anno) a causa mista, con una fase formativa (tale tipo di lavoro è nato
per il settore privato, ma poi sostituito dai contratti di apprendistato), anch’essi
stipulabili a seguito di una procedura concorsuale. Per rispondere ad esigenze
temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi
delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale
previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell'impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Quando un
lavoratore viene adibito a mansioni di livello superiore per più di un certo
periodo, scatta automaticamente la cosiddetta promozione automatica, ha
diritto quindi che quelle mansioni e il relativo inquadramento siano definitive;
nel settore pubblico, la progressione verticale, presuppone a sua volta un
concorso.
Le differenze tra settore pubblico e privato sono numerose in alcuni casi,
minori in altri. Alcuni istituti nascono nel settore pubblico e vengono mutuati
nel settore privato (come le norme a tutela del dipendente che segnala i
colleghi).
Nelle imprese agricole vi sono limiti numerici diversi in materia di
licenziamenti. In materia di licenziamenti le tutele si applicano sopra i 5
dipendenti. Qualche peculiarità riguarda anche le organizzazioni di tendenza
(partiti politici e sindacati) ai cui dipendenti si applica una disciplina in parte
diversa sempre in tema di licenziamenti.
Il divieto di dissociazione

Nel diritto del lavoro vige il principio di effettività sia nell’individuazione della
natura del lavoro, sia nell’individuazione della figura del datore di lavoro. Il
datore di lavoro non è necessariamente chi ha assunto il lavoratore e chi lo
paga, ma bisogna andare a vedere in concreto chi esercita le prerogative
tipiche del datore di lavoro, ossia i poteri direttivo, di controllo e disciplinare. Il
lavoratore è subordinato a chi esercita i poteri nei suoi confronti. Il
ragionamento va fatto prendendo le mosse dalla L.1369/1960. Tale legge
venne abrogata nel 2003 dalla riforma Biagi, ma non nei principi. Tale legge
generalizzò un principio che già aveva fatto capolino nel Codice Civile
all’articolo 2127, ma tale articolo riguardava solo i lavoratori retribuiti a
cottimo. La L.1369 del ‘60 si fonda sul divieto di interposizione tra chi assume
i lavoratori e chi gli utilizza. Quando un soggetto assume il lavoratore, tale
soggetto è anche colui che deve gestire il rapporto di lavoro. Il principio è
quello del divieto di dissociazione tra chi assume e chi riceve la prestazione
lavorativa. Per divieto di interposizione non si intende divieto di appalti: si
intende divieto di interposizione di mere prestazioni di lavoro. Non è vietato
che un soggetto affidi in appalto a un’impresa la realizzazione di un’opera o di
un servizio. La stipulazione di un contratto di appalto è sempre stata legittima.
Il contratto di appalto non significa dissociazione tra chi assume e chi riceve la
prestazione perché l’appaltatore rende il servizio solitamente avvalendosi di
lavoratori assunti dall’appaltatore che li utilizza e li gestisce. L’appaltante gode
dell’opera dell’appaltatore e non dei lavoratori. L’appaltatore è un’impresa che
deve organizzare i fattori produttivi (materiali, attrezzature, strutture
necessarie, lavoratori etc.). L’appalto presuppone e richiede che l’impresa
appaltatrice organizzi i propri dipendenti, ossia non si limiti ad assumerli e a
metterli a disposizione di un altro soggetto. Nell’appalto, l’appaltatore
organizza tutti i propri fattori produttivi a partire dai lavoratori. L’appaltante non
riceve delle prestazioni di lavoro, ma riceve l’opera o il servizio erogato
dall’appaltatore. L’abuso dei contratti di appalto è tuttora ricorrente. Quello che
la legge 1369 del ‘60 e che la Riforma Biagi vieta tuttora non è la stipulazione
di contratti d’appalto, ma la mera fornitura di manodopera. Altra cosa è la
somministrazione di lavoro (o lavoro interinale)che viene svolta da
un’agenzia autorizzata. Il contratto di appalto non è un’eccezione alla regola,
ma la conferma alla regola, perché in tale contratto non vi è dissociazione tra
l’appaltatore e il datore di lavoro. Quando non emerge tale aspetto avremmo
interposizione vietata di manodopera. Il legislatore si preoccupa allora di
introdurre una conseguenza giuridica in termini di effettività: il rapporto di
lavoro si considera vigente tra il lavoratore e lo pseudo appaltante; a quel
punto non avremmo un appaltante che commissiona un’opera o un servizio a
un appaltatore che assume e gestisce i propri dipendenti. Lo pseudo
appaltatore è un soggetto che si interpone tra il vero datore di lavoro e il
lavoratore. Tale interposto giuridicamente ai fini dei rapporti di lavoro deve
essere considerato tamquam non esset. Tale fenomeno è vietato anche da un
punto di vista penale. L’appaltatore deve avere due caratteristiche: deve
organizzare i propri fattori produttivi e deve correre il rischio d’impresa; in
virtù di quel contratto d’appalto quell’imprenditore nella predisposizione
dell’opera o del servizio può guadagnare, fare pareggio o rimetterci; può
correre quindi il rischio che i costi eccedano rispetto ai ricavi. Un’ipotesi di
rischio di impresa zero è quando il corrispettivo dell’appalto viene stabilito in
una cifra che varia con una percentuale aggiuntiva rispetto ai costi del lavoro.
Può capitare che l’appaltatore organizzi i propri fattori produttivi e corra il
rischio d’impresa in alcune opere e non in altre. Bisogna guardare come viene
eseguito ciascun appalto. La genuinità dell’appalto deve essere valutata caso
per caso. Ancora adesso la questione dell’interposizione vietata o meno è una
delle fattispecie più ricorrenti sottoposte di fronte al giudice del lavoro sulla
base di segnalazioni dell’ispettorato del lavoro o dell’INPS o su azione del
lavoratore che chiede il riconoscimento del rapporto di lavoro con lo pseudo-
appaltante. Molti appalti si svolgono nei locali dell’appaltante. Il ricorso così
frequente ai contratti d’appalto è dovuto da un lato alla necessità di rivolgersi
a un’impresa specializzata in determinate tipologie di lavoro e altre volte
all’intento di voler spendere meno o di ottenere una maggiore flessibilità nel
numero di dipendenti. La legittimità di ciò dipende da chi sia chi effettivamente
dà le direttive. La legge del 1960 prevedeva che, nel caso di appalti interni al
ciclo produttivo, i dipendenti dell’appaltatore avevano diritto alle stesse
retribuzioni dei dipendenti dell’appaltante (principio di parità di trattamento). La
Riforma Biagi elimina il principio di parità di trattamento facilitando gli appalti. I
dipendenti dell’impresa appaltatrice avranno diritto ai trattamenti previsti dai
contratti collettivi applicati dall’impresa appaltatrice. Spesso le imprese
appaltatrici sono società cooperative e molto spesso i contratti collettivi delle
cooperative prevedono trattamenti inferiori. Nelle cooperative sono inoltre
molto presenti i cosiddetti contratti pirata (con trattamenti del 30/35% inferiori).
L’appalto presuppone che l’appaltatore veramente sia l’artefice e il gestore di
ciò che conduce quell’opera e quel servizio. Il personale assunto
dall’appaltatore deve essere gestito in tutto e per tutto dall’appaltatore, Se non
è così i lavoratori possono agire nei confronti dell’appaltante per ottenere il
riconoscimento attraverso la sentenza della costituzione dell’esistenza del
rapporto di lavoro con chi si comporta effettivamente da datore di lavoro.
Nella legge del ‘60 vi era una presunzione assoluta di inesistenza dell’appalto
in caso l’appaltatore non avesse avuto a disposizione capitali, macchine e
attrezzature. Nella riforma biagi rimane la regola secondo cui l’appaltatore
deve organizzare i propri produttivi, ma anche gli altri mezzi produttivi.
L’appaltatore deve comunque avere un minimo di ciò che è funzionale allo
svolgimento delle attività. L’appalto classico è quello delle pulizie: i mezzi per
svolgere tale servizio sono solamente pochi, quindi quello che conta è
l’effettiva gestione del personale. Vi sono degli appalti più semplici nei quali si
guarda soprattutto al fattore lavoro. Altro appalto diffuso è quello dei servizi
informatici in cui ci si rivolge a una software house per gestire i servizi
informatici: anche qui i mezzi materiali sono ben pochi; per valutare la
genuinità dell’appalto si guarderà la gestione e l’organizzazione del fattore
lavoro.
Quello che è stato vietato dalla legge del ‘60 prima e dalla Riforma Biagi poi
non è la possibilità di commissionare opere o servizi nella forma del contratto
di appalto; ciò è lecito se ricorre il presupposto della genuinità dell’appalto. E’
vietato il fatto che un soggetto metta a disposizione di un altro non un’opera o
un servizio, ma dei lavoratori. La normativa del ‘60 prevedeva che nel caso di
appalto non genuino le sanzioni fossero di due tipi: una civile (costituzione del
rapporto in capo allo pseudo-appaltante che comporta giuridicamente una
novazione soggettiva ex lege del contratto di lavoro; per il ricorrere di tale
novazione è necessaria una sentenza che si ha se si agisce in giudizio ) e una
penale. Nel caso di appalto genuino l’appalto restava, ma era prevista una
duplice garanzia per i lavoratori: una relativa al trattamento economico in
senso stretto (era garantita la parità di trattamento tra dipendenti
dell’appaltatore e dipendenti dell’appaltante) e una relativa alla solidarietà tra
appaltante e appaltatore (in capo all’appaltante e all’appaltatore esiste
un’obbligazione solidale per i crediti maturati dai lavoratori presso
l’appaltante). Se l’appaltante paga l’obbligazione può rivalersi sull’appaltatore.
Se l’appaltatore è insolvibile, l’appaltante può tutelarsi preventivamente
optando per un interlocutore solido; si può suggerire che l’appaltatore fornisca
il DURC (documento unico di regolarità contributiva) che attesta che
l’appaltatore versi i contributi all’INPS regolarmente. Il DURC attesta la
regolarità di quanto risulta all’INPS potrebbero esserci infatti dei lavoratori in
nero o sottoinquadrati oppure può essere applicato un contratto collettivo
pirata. Una norma del 2006 che nel settore della cooperazione si applichino i
contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi
del settore. Se l’appaltante non versa il corrispettivo all’appaltatore
quest’ultimo non è in grado di pagare i dipendenti che chiedono la retribuzione
all’appaltante. La solidità tra appaltante e appaltatore è stata introdotta anche
se l’appaltante paga il corrispettivo pieno. Il legislatore ha fatto una scelta nel
‘60 ribadita poi nel 2003 per fare in modo che il maggior rischio non ricada sui
lavoratori. Tale problema non si pone se l’appalto non è genuino perché se si
ha uno pseudo-appaltante egli ne risponde come obbligato principale. Se
l’appalto è genuino i dipendenti dell’appaltatore rimangono all’appaltatore;
l’appalto è comunque attraente perché il costo si può abbassare (non vi è
neanche più l’obbligo di parità di trattamento). Se l’appaltante non versa il
corrispettivo, l’appaltatore fa un decreto ingiuntivo all’appaltante che si oppone
sostenendo che l’appaltatore non ha pagato i lavoratori. Nel contenzioso tra
appaltante e appaltatore vi è intervento del giudice civile e non del giudice del
lavoro.
Se l’appalto non è genuino, il lavoratore può agire in giudizio nei confronti
dello pseudo appaltante per ottenere la costituzione del rapporto. Con la legge
183/2010 si è introdotta una clausola di decadenza per agire in giudizio. Dalla
fine dell’appalto inizia a decorrere un termine di decadenza di 60 giorni (basta
l’invio di una lettera) per poter agire in giudizio nei seguenti 180 giorni. L’INPS
può agire per i contributi non pagati dallo pseudo-appaltante (si possono
ovviamente detrarre i contributi versati dallo pseudo-appaltatore).
Da un punto di vista fiscale vi è un contenzioso importante perché se un
appalto non è genuino vi è una falsa fatturazione perché l’IVA scaricata dallo
pseudo-appaltante non andava detratta.
Vi possono essere inoltre una o più ipotesi di reato compresi associazione a
delinquere e truffa.
Nessun servizio può essere escluso a priori dall’oggetto del contratto di
appalto; la condizione è che i dipendenti dell’appaltatore siano gestiti
dall’appaltatore stesso che deve avere un proprio referente al quale
l’appaltante si rivolge se ha richieste da avanzare.
La riforma Biagi ha introdotto l’istituto della certificazione per poter dare
certezza. Tale istituto è stato introdotto per dare certezza sulla natura del
rapporto di lavoro, ma ciò che si certifica è il contratto, non l’effettivo
svolgimento del rapporto.
Il divieto di dissociazione conosce dagli anni ‘90 delle eccezioni, in particolare
la somministrazione di lavoro e il distacco.

La somministrazione di lavoro
Tale strumento è stato istituito con il cosiddetto Pacchetto Treu con il nome di
fornitura di lavoro temporaneo (solo per contratti a termine). Con la riforma
Biagi il nome cambia in somministrazione di lavoro e cambiano i presupposti
per la stipulazione di tale contratto.
Il contratto di somministrazione è un contratto civilistico tra un soggetto
definito utilizzatore (che può essere una qualunque associazione, studio
professionale, impresa o P.A.) e un’impresa detta agenzia di
somministrazione che deve avere determinate caratteristiche a garanzia
della serietà dell’attività svolta dal punto di vista etico (gli amministratori non
devono aver ricevuto condanne relative a reati contro il patrimonio e la
morale) ed economico (garanzie di solvibilità: un capitale sociale di almeno
600.000 euro; una fideiussione bancaria di 300.000). Le agenzie devono
essere presenti in almeno 4 regioni d’Italia e devono ricevere l’autorizzazione
del Ministero del Lavoro, il quale poi controllerà ogni 2 anni che tali
caratteristiche permangano. Il contratto di somministrazione ha ad oggetto la
messa a disposizione di lavoratori dipendenti dell’agenzia di somministrazione
a favore dell’utilizzatore. Tale contratto è civilistico perché non vede
protagonista il lavoratore che viene inviato dall’agenzia all’utilizzatore. Il
lavoratore o i lavoratori costituiscono l’oggetto del contratto, ma i soggetti
stipulanti del contratto sono l’utilizzatore e l’agenzia di somministrazione. Ciò
contrasta con il principio del divieto di dissociazione tra chi assume e chi
gestisce i rapporti di lavoro.
La somministrazione compare in Italia per la prima volta negli anni ‘90, a
differenza di quanto accaduto nei paesi stranieri. L’Unione Europea ha da
tempo emanato una direttiva che contiene il divieto di abuso di contratti di tale
tipo. La preoccupazione dell’UE è che il lavoratore oggetto di
somministrazione, non riceva trattamenti deteriori e che i soggetti che operano
nella somministrazione siano soggetti solidi. Il divieto di abuso riguarda qui i
trattamenti e i soggetti coinvolti nella somministrazione (a differenza del
contratto a termine, dove il divieto di abuso è un divieto temporale). In tale
contesto si hanno due contratti: un contratto civilistico tra utilizzatore e
agenzia di somministrazione e un contratto di lavoro tra agenzia e lavoratore.
Si ha una trilateralità di soggetti: agenzia, lavoratore e utilizzatore. Il triangolo
si chiude con un rapporto tra il lavoratore e l’utilizzatore. Si è affermato che
tale rapporto fosse di fatto, ma è comunque un rapporto giuridico perché
regolamentato dalla legge e inevitabile perché il lavoratore viene assunto da
un’agenzia per lavorare alle dipendenze dell’utilizzatore. L’utilizzatore ha la
piena disponibilità dell’attività del lavoratore anche se quest’ultimo rimane
dipendente dell’agenzia. Si ha dissociazione parziale; vi sono obblighi e poteri
in capo al datore di lavoro. L’agenzia ha l’obbligo di retribuire, formare ai fini e
informare il lavoratore ai fini della sicurezza e della maturazione della capacità
professionale. L’utilizzatore ha l’obbligo di garantire la sicurezza sul posto di
lavoro. L'agenzia deve comunque garantire sia all’utilizzatore che ai lavoratori
di mettere a disposizione dei lavoratori che abbiano comunque una
formazione di base circa l’attività che andranno a svolgere. L’utilizzatore
esercita il potere direttivo perché gestisce la prestazione; esercita anche il
potere di controllo. L’agenzia esercita il potere disciplinare essendo il vero
datore di lavoro; ciò può causare dei contrasti tra agenzia e utilizzatore.
L’agenzia potrebbe chiedere degli elementi per poter richiamare un lavoratore
ritenuto inadatto dall’utilizzatore. Non è del tutto vero che l’agenzia sia
totalmente privata delle caratteristiche e del ruolo del datore di lavoro. Più
della dissociazione vi è una sorta di suddivisione di poteri e obblighi tra
agenzia e utilizzatore. Il lavoratore dipendente dell’agenzia ha diritto alla
medesima retribuzione cui hanno diritto i dipendenti dell’utilizzatore a parità di
mansioni. Opera quindi il principio di parità di trattamento tra i dipendenti
dell’agenzia e i dipendenti dell’utilizzatore. Il lavoratore dipendente
dell’agenzia, qualora lavori presso più utilizzatori non è scontato che riceva la
stessa retribuzione perché ciò dipende dai contratti collettivi.
Al lavoratore costerà di più il contratto di somministrazione. L’utilizzatore può
arrivare a rivolgersi a un’agenzia per la maggiore flessibilità nel cambio di
dipendenti, per l’obbligo dell’agenzia di sostituire lavoratori in malattia; inoltre i
lavoratori utilizzati in somministrazione non si calcolano ai fini di determinare
le dimensioni del soggetto utilizzatore. La somministrazione è un istituto che
non viene visto con sfavore dall’Unione. In Italia vi è stato un forte sospetto
rispetto a tale contratto per via del contrasto con il divieto di dissociazione e
per via del sospetto sul contratto a termine. Le direttive dell’Unione
presentano l’istituto come volto a favorire l’ingresso nel mondo del lavoro. La
somministrazione è spesso utilizzata dalle imprese come una sorta di periodo
di prova lungo. Spesso accade che l’utilizzatore assuma direttamente il
dipendente dell’agenzia quando vede che il lavoratore gli piace e quando
vede che vi è un’esigenza stabile.
Il contratto di somministrazione deve essere stipulato con dei requisiti di legge
a pena di nullità. Nel contratto devono essere indicati i requisiti
dell’autorizzazione ministeriale, l’oggetto della somministrazione etc.. Il
legislatore proprio per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro, si è
preoccupato di sancire il principio secondo cui il patto di non concorrenza tra
lavoratore e agenzia non è valido. Il lavoratore non si può obbligare a non
essere assunto dall’utilizzatore alla scadenza del contratto di
somministrazione (l’agenzia ha diritto a ricevere il corrispettivo fino alla
scadenza del contratto); l’utilizzatore si può impegnare a non assumere
dipendenti dell’agenzia, ma il lavoratore non può farlo perché la ratio della
somministrazione è quella di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro e tutto
ciò che possa pregiudicare la stabilizzazione del lavoro è nullo.
Nel Pacchetto Treu si prevedeva la fornitura di lavoro temporaneo che era
ammessa solo a tempo determinato e per pochissimi casi, salvo quelli
aggiunti dalla contrattazione collettiva (poco propensa a introdurre nuove
ipotesi). Con la riforma Biagi la somministrazione viene ammessa sia a tempo
determinato (nei casi in cui ricorressero necessità di carattere tecnico,
produttivo e organizzativo; le medesime causali del contratto a termine) che a
tempo indeterminato. La Riforma Biagi non ha inciso sulla flessibilità in uscita,
ma da un lato ha tentato di ridurre la fuga dal lavoro subordinato e ha favorito
di contratti diversi da quello a tempo indeterminato pieno. La Riforma Biagi
prevedeva con riguardo alla somministrazione a tempo indeterminato, non
prevedeva delle causali, ma una serie di servizi in cui era ammessa. Con il
D.lgs. 81/2015 si mantiene la distinzione tra somministrazione a termine e a
tempo indeterminato senza causali, ma con soli limiti di carattere quantitativo.
Con il Decreto Dignità la somministrazione a tempo indeterminato rimane
senza causali e senza la previsione di alcun servizio, ma con un limite di
carattere quantitativo (i lavoratori somministrati a tempo indeterminato non
possono essere più del 20% dei lavoratori alle dipendenze dell’utilizzatore); è
previsto per altro che il contratto di lavoro tra lavoratore e agenzia potesse
essere a tempo determinato o a tempo indeterminato. Se il contratto di
somministrazione è a tempo indeterminato, il lavoratore deve essere assunto
a tempo indeterminato dall'agenzia. Se la somministrazione è a tempo
determinato il lavoratore può essere assunto sia a termine che a tempo
indeterminato dall’agenzia. Se la somministrazione è a tempo determinato, la
durata è presumibilmente corrispondente a quella del contratto di
somministrazione a termine. Se il contratto è a tempo indeterminato, una volta
scaduto il contratto di lavoro con l’utilizzatore, il lavoratore rimane disponibile
e finché non vi è un nuovo contratto ha diritto a un’indennità di disponibilità.
Il decreto dignità ha posto un limite ai contratti di somminitrazione per ridurre
la precarietà; si è lasciata intatta la disciplina della somminsistrazione a tempo
indeterminato, ma su quella a termine vi sono limiti di carattere quantitativo (il
numero dei lavoratori assunti e somministrati a tempo determinato non
possono superare il 30% dei lavoratori a tempo indterminato salvo diversa
previsione dei contratti collettivi). E’ necessaria una causale per la
somminsitrazione a tempo indeterminato? E’ inoltre prevista una durata
massima? La durata massima della somministrazione a termine si può
dedurre dall’art.31/1 che prevede che a termine si possa utilizzare un
lavoratore per più di 24 mesi se questi è assunto a tempo indeterminato (si
deduce quindi che se il lavoratore è assunto a tempo determinato, il periodo
massimo è di 24 mesi) nel 2021 si afferma che le disposizioni di tale comma
saranno in vigore sino al 30 settembre 2022 (ciò fa pensare a imminenti
modifiche). Vi è una forte richiesta da parte delle imprese di togliere il limite
del 30 settembre. Un termine massimo per la somministrazione a tempo
determinato dovrebbe comunque essere introdotto. La legge non fa
riferimento a necessità di causali per la stipulazione di un contratto di
somministrazione. L’articolo 19 del medesimo decreto, che riguarda il
contratto a termine, al secondo comma afferma che fatte salve diverse
disposizioni dei contratti collettivi, e ad eccezione dei contratti stagionali la
durata del lavoro a termine non può superare i 24 mesi e che ai fini del
computo di tale periodo si tiene altresì conto dei periodi missione svolte dai
medesimi soggetti nell’ambito di somministrazione a termine. Per avere la
conversione in contratto a tempo indeterminato si devono sommare i periodi
lavorati a termine anche in somministrazione a termine. Se il lavoratore alle
dipendenze dell’utilizzatore tramite contratto di somministrazione ha già
superato la durata massima di 12 mesi ,superata la quale vi è bisogno di
causale, il lavoratore ha diritto alla costituzione del rapporto a tempo
indeterminato con l’utilizzatore. Ciò cambia le prospettive del contratto di
somministrazione a tempo indeterminato perché non è richiesta la causale e
non vi è problema di durata. La soluzione ottimale per l’utilizzatore è quello di
stipulare un contratto di somministrazione a tempo indeterminato che
presuppone un rapporto con l’agenzia a tempo indeterminato; in questo caso i
rischi si ribaltano in capo all’agenzia perché se l’utilizzatore recede, l’agenzia
si trova dei lavoratori a cui se non si riesce a ricollocarli deve il versamento
dell’indennità di disponibilità. Se l’agenzia si ritroverà ad avere un esubero
potrà ricorrere ai licenziamenti collettivi; l’agenzia potrebbe chiedere
all’utilizzatore un preavviso lungo di recesso e una penale in caso di recesso
prima di un termine stabilito. Per questi motivi a seguito del decreto dignità si
è ampliato il ricorso alla somministrazione a tempo indeterminato.
E’ vietata la somministrazione per sostituire lavoratori in sciopero, per
mancanza di valutazione dei rischi e per la presenza di recenti licenziamenti
collettivi nelle stesse mansioni e messa in cassaintegrazione.
Vi è una specularità tra contratto di lavoro a termine e contratto di
somministrazione a termine che però non è presente nelle direttive dell’UE.
Tale specularità conosce delle eccezioni che riguardano alcuni istituti del
contratto a termine (in caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di
lavoro tra somministrazione e lavoratore è soggetto alla disciplina del lavoro a
termine con esclusione delle norme sulle proroghe che sono più ampie, sul
limite numerico dei lavoratori a termine e sulle norme sui diritti di precedenza
che ha il lavoratore a termine nel caso in cui il datore di lavoro stipuli nuovi
contratti a termine). L'utilizzatore è obbligato in solido. I rischi sono minori
rispetto a quelli che si corrono negli appalti perché l'agenzia presenta delle
garanzie di solvibilità. Il lavoratore può esercitare diritti sindacali nei confronti
dell'utilizzatore.

In mancanza di forma scritta o in mancanza dei requisiti fondamentali il


contratto di somministrazione è nullo e i lavoratori sono considerati alle
dipendenze dell'utilizzatore (somministrazione irregolare). L'azione risponde ai
termini di decadenza soliti (60 giorni per l'impugnazione stragiudiziale e
successivi 180 per l'azione in giudizio). Tutti i pagamenti somministrati dal
somministratore valgono a liberare l'utilizzatore. Le pubbliche amministrazioni
possono effettuare le somministrazioni solo a tempo determinato
(naturalmente non si può convertire il contratto per via della necessità del
concorso). Somministrazione irregolare è sinonimo di violazione del divieto di
dissociazione (si ha interposizione) .

La somministrazione è fraudolenta quando vi è la finalità di eludere le


disposizioni inderogabili di legge (pena 20€ per ogni lavoratore e per ogni ora
lavorata da questi).

Il distacco
Ulteriore eccezione dalla dissociazione è quella del distacco dei lavoratori da
un’impresa a un’altra. Tale pratica nasce nella Pubblica Amministrazione e
consiste nella messa a disposizione di un altro soggetto temporanea del
lavoratore. Il datore di lavoro rimane l’imprenditore distaccante, mentre il
lavoratore distaccato viene messo a disposizione dell’imprenditore
distaccatario. Il lavoratore viene gestito in tutto e per tutto dal punto di vista
sostanziale da un altro soggetto (distacco proprio).
Si ha invece distacco improprio quando il lavoratore viene mandato presso
un’altra impresa per svolgere un servizio, ma non risponde alle direttive di
quest’impresa. Il distacco improprio non è un vero distacco perché pur
cambiando il ruolo di lavoro, il lavoratore è gestito dal datore di lavoro stesso.
Quello del distacco è un istituto nato nel settore pubblico ante privatizzazione
assieme all'istituto del comando (trasferimento del lavoratore in un’altra sede
della medesima amministrazione pubblica). Al giorno d’oggi comando e
distacco sono sinonimi. L’istituto del distacco era già ritenuto legittimo dalla
giurisprudenza prima della riforma Biagi che l’ha introdotto, mutuandolo dal
settore pubblico. I caratteri principali di tale istituto si trovano nell’articolo 30
del D.Lgs. 276/2003. L’articolo 30 riprende le caratteristiche strutturali
dell’istituto che sono innanzitutto la temporalità: la legge non indica un limite
massimo, ma la giurisprudenza pacificamente ritiene che la durata del
distacco non debba essere necessariamente predeterminata, ma
predeterminabile facendo riferimento all’interesse del distaccante. Il distacco è
legittimo se l’impresa distaccante alleghi un interesse al distacco. Dottrina e
giurisprudenza fanno riferimento ad interessi di diversa natura come interessi
di tipo formativo. Il distaccatario esercita potere direttivo e di controllo, ma il
potere disciplinare rimane in capo al distaccante. La disciplina rimane simile a
quella della somministrazione con riguardo all’obbligo di sicurezza e
formazione. La retribuzione deve essere quella che spetta al lavoratore
dell’impresa distaccante.
Nei rapporti tra distaccante e distaccatario è possibile che ci sia un accordo
per il rimborso dei costi (ciò riguarda il rapporto tra imprese e non di lavoro).
Il distacco è molto frequente nell’ambito del gruppo di imprese o impresa di
gruppo. Parlare di gruppo di imprese significa in termini giuslavoristi
accentuare la distinzione tra imprese, parlare di impresa di gruppo vuol dire
accentuare l’accezione di reductio ad unum. Il distacco di un lavoratore da
un'impresa controllata, controllante o partecipata a un’altra impresa dello
stesso gruppo è fenomeno particolarmente diffuso dove facilmente si può
trovare un interesse al distacco dell’impresa distaccante.
Il distacco è una forma di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e
non è quindi necessario il consenso del lavoratore distaccato. L’art.30 D.Lgs.
276/2003 precisa altresì che, quando il distacco comporta un mutamento delle
mansioni, è necessario il consenso del lavoratore. Quando il distacco
comporti il trasferimento del lavoratore in un luogo di lavoro distante più di 50
Km dal luogo di lavoro originario, vi devono essere particolari esigenze di
carattere tecnico, organizzativo e sostitutivo.
Se mancano tali requisiti (più importante quello dell’interesse del distaccante),
il lavoratore potrà chiedere il riconoscimento di un contratto di
somministrazione irregolare e quindi la costituzione del rapporto in capo
all’utilizzatore della prestazione tramite novazione soggettiva del contratto
avendosi un’interposizione vietata di mera manodopera. Il lavoratore deve
agire rispettando i soliti termini di decadenza. Tale conseguenza opera nel
caso in cui il distacco non sia considerabile come tale. Se questi presupposti
ricorrono, ma vi è uno spostamento oltre i 50 km o una modifica delle
mansioni, il distacco resta tale, ma il lavoratore si potrebbe rifiutare.

Il gruppo d’imprese
In caso del gruppo d’imprese vi è una controllante che abbia uno o più
imprese controllate. Il gruppo è considerabile come un’entità unica ai fini
giuslavoristici oppure ciascuna delle società del gruppo va considerata come
un’entità autonoma?Dipende. La nozione giuslavoristica è difforme da quella
giuscommercialista. Tale nozione ha per il diritto del lavoro rilevanza a certe
condizioni. Per la giurisprudenza del lavoro si è ritenuto che il gruppo sia
considerato come soggetto unitario soltanto quando ricadano determinate
circostanze; ogni società ha la propria personalità giuridica, ma tale schermo
è superabile a certe condizioni e non basta il collegamento funzionale di certe
società. E’ configurabile l’esistenza di un unico centro di imputazione in caso
di:

1. unicità della struttura organizzativa


2. integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo
3. coordinamento tecnico ed amministrativo finanziario tale da individuare
un unico soggetto direttivo; la giurisprudenza guarda l’amministrazione
della controllante e delle controllate: se le decisioni sui lavoratori
vengono prese dalle medesime figure della controllante, l’autonomia
delle imprese rimane dal punto di vista societario, ma non dal punto di
vista del diritto del lavoro.
4. utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle
varie società titolari delle distinte imprese.

Il fenomeno dei gruppi è molto diffuso nel nostro settore produttivo. Gli
elementi poc’anzi enunciati sono solo sintomatici di un’assenza di autonomia
tra imprese. La personalità giuridica a partire da un dato di autonomia, ma se
la sostanza dimostra che le società operino senza reale autonomia dal punto
di vista del diritto del lavoro tale autonomia non figura più (quindi ad esempio
si calcolano come dipendenti dello stesso datore di lavoro tutti i dipendenti
delle aziende facenti parte del gruppo).
Le società possono stipulare tra loro contratti di servizio, purché la controllata
mantenga la sua autonomia gestionale. L’esistenza di un contratto di servizio
non è lo strumento per far fare alla controllante tutto ciò che la giurisprudenza
vuole venga fatto dalla controllata.

La codatorialità
Il fenomeno della codatorialità è abbastanza recente come approfondimento
dedicatogli dalla dottrina e come attenzione da parte del legislatore. Il D.L.
5/2009 convertito nella legge 33/2009 ha espressamente parlato di
codatorialità con riferimento allo specifico caso del contratto di rete.
Con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere
individualmente e collettivamente, la propria capacità competitiva sul mercato
e si obbligano sulla base di un programma comune di rete dal punto di vista
economico-produttivo. Si hanno due società distinte che cooperano tra di
esse. Tale contratto può prevedere inoltre l’istituzione di un fondo particolare
comune.
Attraverso il contratto di rete può essere previsto l’utilizzo l’utilizzo di una delle
seguenti due misure:
1. L’assunzione congiunta di uno o più lavoratori
2. Assunzione con distacco
Nel primo caso il lavoratore ha due datori di lavoro. Bisogna determinare
tramite contratto di rete su chi gravano gli obblighi: l’obbligo di sicurezza
spetta a entrambi, l’obbligo di retribuzione può spettare al fondo comune, chi è
che licenzia etc. Se vi è un contratto di rete con un solo datore di lavoro, ma
con la possibilità del distacco, la facoltà di licenziare spetta al distaccante; con
il contratto di rete i presupposti del distacco ricorrono per legge. Se vi è
codatorialità chi può licenziare? Tale problema non è facilmente risolvibile e
dovrebbe disciplinato dal contratto di rete. Se emerge una codatorialità di fatto
allora il lavoratore può essere licenziato da entrambi i datori (può
eventualmente rimanere subordinato a un solo datore)
La Cassazione ha inizialmente fatto confusione tra codatorialità e rilevanza
del gruppo ai fini della determinazione del datore di lavoro. Con il contratto di
rete il fenomeno della codatorialità può essere concordato contrattualmente.
Con la riforma biagi il legislatore ha previsto per le imprese agricole, la
possibilità che vengano assunti congiuntamente da più imprese uno o più
lavoratori. Si precisa la solidarietà tra le varie società che sono datori di lavoro
dello stesso lavoratore.

Il mutamento del datore di lavoro


Sul versante del lavoratore non vi può essere mutamento perché la fiducia del
datore di lavoro è tale per cui quando cessa il rapporto di lavoro con un
lavoratore, il rapporto si estingue. Sul versante del datore di lavoro le cose
cambiano perché la successione di un datore ad un altro nella gestione della
medesima impresa non fa venir meno il rapporto di lavoro. Quando vi è un
mutamento della figura del datore di lavoro, il lavoratore si può dimettere. Se
l’azienda viene trasferita, il rapporto di lavoro prosegue. Tale regola venne
introdotta nel Codice Civile del ‘42 (art.2112) per poi essere modificata nel
2001 a tutela della stabilità del datore di lavoro. Tale norma disciplina ai fini
giuslavoristici la fattispecie del trasferimento d’azienda.
In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il
cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Il cedente
ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore
aveva al tempo del trasferimento (art.2112 c.c.). Tale norma (come oggi
novellata) risente in particolar modo delle direttive europee in materia. La
prima conseguenza di tale articolo opera nel ramo del mantenimento del
rapporto di lavoro: in caso di trasferimento d’azienda, i lavoratori occupati in
quell’azienda o nel ramo trasferito, hanno diritto alla continuazione del
rapporto. La fattispecie, non ha nulla a che vedere con la cessione del
contratto che opera in presenza di tre soggetti che concordano sul fatto che
un contratto sia ceduto da un contraente a un altro ed è quindi necessario che
ci sia il consenso di tutte e tre le parti. Il trasferimento d’azienda non comporta
una cessione del contratto, ma il rapporto passa naturaliter perché il
passaggio del rapporto di lavoro è una conseguenza ex lege che non richiede
il consenso del lavoratore. Il legislatore all’articolo 2112 fin dal 1942 diceva
espressamente al comma 4:ferma restando la facoltà di esercitare il recesso
ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda
non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui
condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi
successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni
con gli effetti di cui all'articolo 2119, primo comma (recesso per giusta causa).
Il trasferimento d’azienda è un fatto neutro per il lavoratore. Il datore di lavoro
non può licenziare il lavoratore in virtù del trasferimento, ma deve ricorrere
una causale giustificativa inerente a comportamenti del lavoratore o a
esigenze di trasferimento.
Le retribuzioni maturate fino al momento del trasferimento permangono in
tutto e per tutto e il legislatore prevede l’esistenza di un’obbligazione in solido
tra cedente e cessionario dell’azienda; il lavoratore può rivolgersi per l’intero
sia al cedente che al cessionario: Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in
solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con
le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile
(conciliazione in sede protetta di fronte al giudice o alle commissioni sindacali
o di fronte all’ispettorato del lavoro) il lavoratore può consentire la liberazione
del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (art.2112/2 c.c.).
Il cessionario può essere liberato dai debiti precedenti del cedente.
Il comma 3 dell’articolo 2112 del codice civile afferma che il cessionario è
tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti
collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento,
fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi
applicabili all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione si produce
esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello. La retribuzione
rimane la medesima prevista dal contratto collettivo vigente fino alla sua
scadenza o del nuovo contratto collettivo sostituito dal datore di lavoro. Il
nuovo contratto collettivo può quindi anche essere peggiorativo per il futuro. Il
contratto collettivo precedente si applica finché non arriva a scadenza. Non è
detto che il trattamento retributivo rimanga uguale. Quando vi è trasferimento
d’azienda, la retribuzione garantiti è quella dei contratti collettivi applicati dal
cessionario. I trattamenti previsti dal contratto individuale possono venir meno
per il futuro solo a condizione di una modifica di un accordo individuale oppure
che si applichi un contratto collettivo migliorativo che assorba il contratto
individuale.
Il trasferimento d’azienda va considerato come fatto neutro ai fini della vita e
della continuazione del rapporto di lavoro. I crediti già maturati permangono
con un rafforzamento dovuto all’obbligazione solidale in capo al cedente e al
cessionario. I trattamenti retributivi per il futuro potrebbero cambiare in
dipendenza del cambiamento del contratto collettivo. Non è vero che il
trattamento retributivo per il futuro, successivamente al trasferimento non
cambi. Qualora siano previsti dei trattamenti ad personam pattuiti
individualmente questi possono venir meno soltanto a seguito del consenso
dell’interessato.
Quando ricorre il trasferimento d’azienda? A fronte del fenomeno
dell’esternalizzazione potrebbe capitare che un’impresa ceda un ramo della
propria azienda, magari piccolo, o dando vita a una nuova società autonoma o
cedendolo a una piccola realtà; la conseguenza è che i lavoratori seguano
l’azienda o il ramo d’azienda ceduto. Può capitare che, con il trasferimento di
un ramo d’azienda, i lavoratori adibiti a quel ramo finiscano per andare
incontro ad una realtà di cui non sono soddisfatti; i lavoratori non si possono
opporre almeno che non emerga che non viene in rilevo un trasferimento
d’azienda o di ramo d’azienda. La cessione dell’azienda può provocare delle
conseguenze indesiderate dal lavoratore (contratti collettivi con trattamenti
inferiori, piccola impresa con quindi tutele inferiori etc.). L’unica forma di
opposizione è ricorrere al giudice sostenendo che non vi è stato un
trasferimento d’azienda o del ramo d’azienda in quanto si vuole nascondere
un licenziamento. I lavoratori possono opporsi cercando di far valere la
mancanza di trasferimento di ramo d’azienda. I lavoratori possono trovarsi
ricostituito il rapporto con il cedente. Il posto di lavoro viene nel caso di
trasferimento d’azienda e ancor più del ramo d’azienda, si tutelato, ma talora
può ridurre le tutele del rapporto di lavoro.
La norma del ‘42 viene novellata soltanto nel 2001; ciò a seguito di una serie
di Direttive UE e di una sentenza di condanna dell’Italia. Qual è la nozione
d’azienda in mancanza di una nozione speciale per il diritto del lavoro? Quella
del diritto commerciale vede l’azienda come complesso di beni organizzati. La
nozione commerciale era l’unica presente nel nostro ordinamento. La Direttiva
187/1977 adotta una nozione più estensiva della nozione di azienda più simile
a quella italiana di impresa: la direttiva parla di un’entità economica
organizzata. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea inizialmente dà una
lettura particolarmente ampia volta a favorire la continuità dei rapporti di
lavoro, in particolare si avvale di una serie di indici tra loro anche eterogenei
quali la cessione di beni materiali, la riassunzione di una parte consistente del
personale, il trasferimento della clientela sino a far coincidere il concetto di
entità economica con quello di attività economica; quando passa l’attività
economica si deve ritenere che sia passata l’attività nel suo complesso.
Quando si avvicendano due imprenditori nella stessa attività quella
giurisprudenza della Corte di Giustizia concludeva nel senso che si veniva a
configurare un trasferimento dell’attività economica. L’assimilazione che
veniva creata era tra trasferimento d’azienda e trasferimento d’attività con la
finalità di offrire adeguata tutela ai lavoratori nei processi di esternalizzazione.
Con la Sentenza Suzen la Corte effettua un cambio di rotta circoscrivendo
l’ambito di applicazione della direttiva, affermando che un’entità economica
non possa essere alla mera attività; il trasferimento di elementi patrimoniali
può non risultare necessario ad integrare la fattispecie traslativa solo se e
nella misura in cui l’attività d’impresa si basi essenzialmente sulla
manodopera e il trasferimento riguardi una parte essenziale del personale in
termini quantitativi e di competenze. Se passa un’attività economica
organizzata che non richiede particolari beni, è sufficiente il riferimento alla
forza lavoro. Tale giurisprudenza viene codificata dalla Direttiva 50/1998
ribadita poi dalla Direttiva 23/2001. L’articolo 1 comma 2 della direttiva del
2001 considera trasferimento d’imprese, di stabilimenti o di parti d’imprese o
di stabilimenti il trasferimento di un’entità economica che conserva la propria
identità intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività
economica sia essa essenziale o accessoria. Deve quindi intendersi come il
passaggio di un complesso organizzato, ove l’elemento personale in certi casi
può prevalere sull’elemento materiale. L’Italia non è stata condannata per le
tutele ma per la discrasia tra nozione italiana ed europea. Il legislatore italiano
interviene quindi con il Decreto legislativo 18/2001 novellando il 2112 del
Codice Civile: Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per
trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione
contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività
economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al
trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a
prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale
il trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda. Le
disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte
dell'azienda (ramo d’azienda), intesa come articolazione funzionalmente
autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal
cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento (art.2112/5 c.c.).
Tale articolo intende l’azienda come attività economica organizzata
(espressione che va interpretata in modo conforme alla direttiva europea e
alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE) e il ramo d’azienda come sua
articolazione funzionalmente autonoma. Un’attività economica organizzata
non necessariamente richiede un complesso di beni organizzati; se
quell’entità richiede pochi beni utilizzati, si ha passaggio d’azienda quando si
ha passaggio di attività, ossia quando il cessionario assume il nucleo duro
dell’impresa; si può parlare a tal punto di trasferimento d’azienda ai fini del
2112 (ma non ai sensi del 2555; nozione di diritto commerciale). Se l’attività
economica organizzata è effettivamente passata a un altro soggetto, devono
automaticamente passare tutti i lavori. Il 2112 può essere fatto valere sia per
tutelare un posto di lavoro che è venuto meno, in altri casi per sostenere la
mancanza di trasferimento di ramo d’azienda. Il problema è quando si intende
dividere la produzione e distinguerla e quindi, all’interno della produzione,
cedere la produzione di una parte dell’attività quando tale attività produttiva
non era così distinta. Chi segue cosa? A volte capitano delle realtà in cui vi
sono imprese a rischio di fallimento che magari possono salvare una parte di
attività. La riforma Biagi del 2003 interviene sul V comma prevedendo che il
ramo d’azienda deve essere identificato come tale dal cedente e cessionario
ai fini del trasferimento. E’ pacifico ormai che il trasferimento può riguardare
un’entità economica organizzata anche in occasione del trasferimento stesso,
ma quell’entità economica organizzata, dopo il trasferimento deve conservare
la propria identità ( preesistente al trasferimento e che conserva nel
trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal
provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato).
Con la legge 122/2016 si è intervenuti a seguito di una procedura europea di
pre infrazione nei confronti dell’italia con riguardo alla fattispecie della
successione dei contratti di appalto: il subentrare di un nuovo appaltatore a
quello precedente costituisce trasferimento d’azienda? Secondo l’articolo 29
della riforma Biagi no (anche se si intendeva che non lo costituisse di per se).
Il legislatore è intervenuto a modificare il terzo comma dell’articolo 29 della
riforma Biagi: L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a
seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura
organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di
lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di
discontinuità che determinano una specifica identità d’impresa, non
costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda. Quando vi è
discontinuità organizzativa, la successione degli appalti non è equiparabile al
trasferimento d’azienda. Vi è un ulteriore passaggio in termini di applicabilità
dell’articolo 2112. L’articolo 31 del decreto legislativo 165 del 2001 dice che
fatte salve le disposizioni speciali, nel caso di trasferimento o conferimento di
attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o
strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati, al personale che passa alle
dipendenze di tali soggetti si applicano l'articolo 2112 del codice civile e si
osservano le procedure di informazione e di consultazione di cui all'articolo
47, commi da 1 a 4, della legge 29 dicembre 1990, n. 428. In questo caso non
vi è bisogno della continuità di organizzazione; può avvenire quindi che un
dipendente pubblico passi nel settore privato trovandosi un cambio di
disciplina. Non si potrebbe fare il contrario perché i dipendenti pubblici hanno
bisogno di un concorso e non si può garantire la vittoria di un concorso agli ex
dipendenti di un’impresa privata.
L’articolo 2112 non è strutturalmente impeccabile ma fa comunque riferimento
alla cessione contrattuale e alla fusione qualunque sia la tipologia negoziale.
L’articolo 2112 può essere utilizzato per esternalizzare parte dell’attività, ma
altre volte si cerca di camuffare dei licenziamenti. E’ sufficiente che in qualche
modo di fatto ci sia un imprenditore che prosegue quell’attività organizzata
con la medesima organizzazione. Il trasferimento può avvenire a prescindere
dalla tipologia negoziale; conta il fatto che ci sia stato effettivamente il
trasferimento di un’attività economica organizzata.
L’articolo 47 della Legge 428 del 1990 (in seguito a condanne della Corte di
Giustizia UE) ai commi 4 e 5 bis si occupa del caso del trasferimento di
un’azienda in crisi. Nelle procedure concorsuali i creditori di lavoro sono
soddisfatti prima degli altri. Il legislatore ha previsto inoltre un fondo di
garanzia presso l’INPS che garantisce il trattamento di fine rapporto e le
ultime tre mensilità. Tornando alla Legge 428/1990, si vuole favorire il
trasferimento dell’azienda in crisi cercando di tutelare i crediti e i posti di
lavoro. Il legislatore Italiano si preoccupa di contemperare tali esigenze per
evitare frodi. Il legislatore afferma che qualora il trasferimento riguardi o
imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento,
omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni,
emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di
sottoposizione all'amministrazione straordinaria, nel caso in cui la
continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso
della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo
circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui
rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'articolo
2112 del codice civile, salvo che dall'accordo risultino condizioni di miglior
favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non
riguardi il personale eccedentario e che quest'ultimo continui a rimanere, in
tutto o in parte, alle dipendenze dell'alienante (art.47/5 L.428/1990). Se vi è
continuità, il 2112 si applica, salvo diverse previsioni di contratto collettivo; se
non vi è continuità i 2112 non si applica salvo se previsto dai contratti
collettivi. Il comma 4-bis prevede che Nel caso in cui sia stato raggiunto un
accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo
2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni
previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende:
a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’articolo
2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675;
b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del
decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata
cessazione dell’attività;
b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di
concordato preventivo;
b-ter) per le quali vi sia stata l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione
dei debiti.
Il contratto collettivo può apportare possibili deroghe in peius a fronte
dell’ingresso di un nuovo imprenditore; vi è la garanzia che il contratto
collettivo si debba abbinare a un provvedimento giudiziale che dichiari lo stato
di crisi aziendale. Non può essere disposto l’esercizio provvisorio se l’impresa
aumenta i debiti.
Quando l’impresa cedente ha più di 15 dipendenti e cede un ramo d’azienda,
anche se questo ne ha meno di 15 dipendenti, cedente e cessionario sono
obbligati ad avviare una procedura di informazione e consultazione delle
rappresentanze sindacali almeno 25 giorni prima del primo atto vincolante
(che potrebbe essere un preliminare di contratto). Cedente e cessionario sono
tenuti a comunicare la data del trasferimento d’azienda, i motivi del mancato
trasferimento, le conseguenze giuridico-sociali per i lavoratori e le eventuali
misure previste nei confronti dei lavoratori. I rappresentanti prendono parte a
una scelta organizzativa dell’impresa (forma di partecipazione dall’esterno). I
sindacati si preoccupano delle conseguenze sui lavoratori. Se tale informativa
non viene data ci troviamo in un caso di condotta antisindacale e può
predisporre la nullità delle misure che riguardano i lavoratori (non la nullità
dell’atto traslativo) e la cessazione della condotta consisterà nell’adempimento
dell’obbligo di informare i sindacati.

Il contratto di lavoro
Il contratto di lavoro è a forma libera e può anche essere concluso
verbalmente o per fatti concludenti. La forma scritta può essere richiesta per
determinati tipi di contratti ai fini della prova (contratto a termine o part time).
La causa è lo scambio tra prestazione e retribuzione (assieme a formazione
nei contratti di tipo formativo).
Oggetto del contratto sono la prestazione di lavoro e la retribuzione.
Prestazione e retribuzione non devono essere necessariamente determinate,
ma determinabili rispettivamente per fatti concludenti e in base ai contratti
collettivi.
Solitamente il luogo di lavoro sono solitamente i locali dell’impresa o
comunque il luogo dove il lavoratore svolge la propria prestazione. Vi sono
lavoratori che prestano la loro opera in trasferta (trasfertisti) come nel caso di
un’impresa edile che interviene in diversi cantieri. Il lavoro agile emergenziale
ha un luogo di lavoro ben preciso, mentre il vero lavoro agile ha un luogo di
lavoro variabile.
La prova
Il contratto potrebbe avere particolari clausole accessorie tra cui quella che
introduce il patto di prova prevista dall’art.2096 c.c. che prevede
espressamente al primo comma la possibilità che essa sia introdotta a
condizione che sia pattuito per iscritto. In mancanza di forma scritto il contratto
è valido, ma si considera privo della clausola di prova. Il 2096 del codice civile
afferma al secondo comma che l'imprenditore e il prestatore di lavoro sono
rispettivamente tenuti a consentire e a fare l'esperimento che forma oggetto
del patto di prova. Oggetto del periodo di prova sono la valutazione delle
capacità produttive del lavoratore (tra cui la capacità di inserirsi nell’ambiente
lavorativo) da parte del datore di lavoro; la valutazione spetta anche al
lavoratore. Il licenziamento e il recesso sono sostanzialmente liberi durante il
periodo di prova. La causa delle dimissioni o del licenziamento è il mancato
superamento della prova dell’altra parte. Il licenziamento solitamente richiede,
salvi casi eccezionali, la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato
motivo sindacabili dal giudice. Il licenziamento per mancato superamento
della prova è difficilmente sindacabile dal giudice. Se emergesse che tale
valutazione sia dovuta a ragione discriminatorie o comunque illecite, il giudice
potrebbe dichiarare la nullità di quel licenziamento; diversamente il giudice
non può sostituirsi al datore di lavoro o al lavoratore nella valutazione delle
altrui capacità. Il giudice non può valutare la motivazione del mancato
superamento della prova; può solo valutare l’eventuale emergere di un motivo
discriminatorio o illecito. Il problema delle dimissioni è marginale per il motivo
che esse siano comunque libere. Le dimissioni in prova non richiedono un
preavviso, mentre in un rapporto definitivo, a tempo indeterminato, senza una
giusta causa, le dimissioni richiedono un preavviso (se il lavoratore si dimette
senza preavviso gli viene trattenuta la retribuzione corrispondente al periodo
di preavviso). Il giudice può inoltre valutare l’eventuale motivo illecito o
discriminatorio o il fatto che la prova non abbia avuto luogo come ad esempio
la durata troppo breve del periodo. La legge prevede un tetto massimo di 6
mesi del periodo di prova, ma rinvia ai contratti collettivi per la determinazione
vera e propria che può variare a seconda delle mansioni. Il contratto
individuale non può prevedere una durata maggiore del periodo di prova
rispetto a quella prevista dalla legge e dalla contrattazione collettiva, ma può
prevedere una durata minore o non prevedere nessun periodo di prova. Il
patto di prova deve essere firmato prima che inizi la prestazione e il giudice
potrebbe verificare il ritardo nella firma. Il giudice può inoltre sindacare sul
fatto che la prova abbia avuto luogo su mansioni diverse di quelle indicate dal
contratto o che le mansioni stesse non siano correttamente indicate. Le
mansioni devono essere indicate esplicitamente e precisamente nel patto di
prova in modo che siano comprensibili.
Il patto di prova rientra nella libera scelta delle parti e va indicato per iscritto a
pena di nullità parziale del contratto (nel pubblico totale). La peculiarità del
periodo di prova è quella della libertà nel recesso e la sindacabilità del giudice
nei limiti precedentemente indicati. Il mancato superamento della prova non
ha riguardo soltanto alle capacità lavorative in senso stretto, ma anche al
proficuo inserimento nell’ambiente di lavoro. Il licenziamento nella sostanza è
libero, ma non è ad nutum (privo di motivazione), ma vi è come motivazione il
mancato superamento della prova.
Trascorso il periodo di prova, il rapporto di lavoro (già nato), diventa definitivo.
Il licenziamento è libero in pochissimi casi previo preavviso (lavoro domestico,
ultimo giorno di apprendistato, raggiungimento dei 67 anni di età maturando il
diritto alla pensione di vecchiaia, caso del dirigente d’azienda). Il dirigente
d’azienda per legge è licenziabile liberamente. La legge non dà tutele al
dirigente, ma sono i contratti collettivi ad aver introdotto tutele. I contratti
collettivi dei dirigenti (che sono propri della loro categoria) introducono delle
tutele indennitarie (non reintegratorie) che danno un’indennità supplementare
che variano a seconda dei contratti collettivi e dell’anzianità di servizio
(nessuna tutela è prevista per i dirigenti agrari).

La prestazione di lavoro
La prestazione del lavoratore viene spesso indicata come le sue mansioni (al
plurale). Tale attività dovrebbe essere indicata nel contratto individuale o
deducibile per fatti concludenti. Tale attività potrebbe essere anche modificata
nel tempo. La modifica delle mansioni, che è legittima entro certi limiti,
rappresenta una peculiarità del rapporto di lavoro rispetto ad altri contratti
perché, con riguardo al contratto di lavoro, le mansioni (che sono oggetto del
contratto) sono modificabili unilateralmente dal datore di lavoro entro certi
limiti (ius variandi). Il datore di lavoro può esercitare il suo potere direttivo in
funzioni specificative delle mansioni da svolgere senza modificare realmente
le mansioni (purché non sia esercitato in chiave peggiorativa).
L’oggetto del contratto può quindi variare, si ha quindi in questi casi
novazione oggettiva del contratto di lavoro.
Con riguardo alle mansioni, bisogna determinare il livello di inquadramento.
Ogni livello corrisponde ad un certo trattamento retributivo. Nello stesso livello
si trovano mansioni anche eterogenee fra loro e di conseguenza diversi profili
professionali che le parti sociali hanno ritenuto meritevoli del medesimo
trattamento retributivo.
Oltre ai livelli di inquadramento, vi sono le categorie legali di cui all’art.2095
c.c.: impiegati, operai, quadri e dirigenti. I quadri sono a livello intermedio tra
impiegati e dirigenti introdotti da una novella dell’art.2095 c.c. . La distinzione
tra operai e impiegati è ormai obsoleta perché non si può più stabilire se le
prestazioni siano totalmente intellettuali o manuali. Alcuni contratti collettivi
(tra cui il nuovo dei metalmeccanici) non distinguono più tra operai e
impiegati. L’art.96 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile dice che
l'imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento
dell'assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione
alle mansioni per cui è stato assunto. Le differenze tra categorie legali sono
rilevanti per via della differenza di tutele, retribuzione e trattamenti stabilite
dalla contrattazione collettiva per le diverse categorie legali. Le categorie
legali sono quelle del 2095, mentre le categorie contrattuali sono i livelli. Date
le mansioni del lavoro è automatico l’inquadramento in un certo livello e in una
certa categoria legale. Sulle categorie legali, i contratti collettivi svolgono
un’importante funzione qualificatoria. La legge ha rimesso ai contratti collettivi
i criteri di inquadramento nella categoria dei quadri o dei dirigenti. In base al
livello di inquadramento cambia la retribuzione.
Le mansioni sono stabilite in base a livelli qualitativi, quantitativi e in base al
luogo di lavoro che potrebbe essere indicato nel contratto, ma anche vario. Il
luogo di lavoro può anch’esso essere modificato unilateralmente dal datore di
lavoro. Se il datore di lavoro decide di cambiare il luogo di lavoro del
lavoratore può farlo, ma tale potere è sottoposto a dei limiti ben precisi (vi
devono essere particolari esigenze giustificative).

Il lavoro agile
I precursori del lavoro agile sono il lavoro a domicilio e il telelavoro. Il lavoro
agile può anche svolgersi all’aperto. Vi è qui il problema della disconnessione.
Il problema maggiore è quello della determinazione dei vincoli alla
prestazione. La commissione costituita dal ministro Orlando si sta indirizzando
prendendo le mosse dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali per
prevedere un orario massimo nell’ambito del quale il lavoratore può prevedere
la propria disconnessione che diventa diritto esigibile se pattuito nel contratto
individuale. Se anche nel contratto individuale,non fosse previsto il diritto alla
disconnessione ci sarebbe una connessione senza limiti.
Il datore di lavoro come può effettuare il controllo se il lavoratore, lavora fuori
dai locali aziendali? Il lavoro agile non presuppone necessariamente che si
lavori da remoto tutti i giorni. Il controllo come si può svolgere? Ci si è posti in
dottrina il dubbio se ci sia stato un cambiamento dell’oggetto della
prestazione. In modalità agile è più facile controllare il risultato che i tempi di
lavoro. Il lavoro agile rimane lavoro subordinato e se il controllo andasse a
dirigersi più sul risultato che sulle modalità di svolgimento della prestazione
perché rimane l’esercizio dei tre poteri anche se quello di controllo rimane più
blando. La legge stabilisce anche le modalità di controllo; non viene citata la
contrattazione collettiva che comunque potrebbe intervenire per introdurre
ulteriori modalità. Il lavoro agile può anche essere a termine, ma quando
scade il termine, il rapporto di lavoro prosegue senza la modalità agile. Se la
modalità agile è a tempo indeterminato, si può recedere da tale modalità
previo preavviso o per giustificato motivo. Il contratto con cui si pattuisce la
modalità del lavoro agile è integrativo del contratto di lavoro (non è un diverso
contratto).

Gli obblighi del lavoratore


Gli obblighi del lavoratore sono disciplinati dagli artt. 2104 e 2105 del codice
civile e sono 3:
● obbligo di diligenza: tale obbligo è stabilito dall’art.2104/1 c.c. L'obbligo
di lavorare è un’obbligazione contrattuale e deve svolgersi nel rispetto
della diligenza. Il 1176 afferma che nell'adempiere l'obbligazione il
debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia e che la
diligenza va valutata in base alla natura della prestazione. L’articolo
2104 dice che Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta
dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da
quello superiore della produzione nazionale. Il riferimento al superiore
interesse della produzione nazionale non si deve più considerare
perché risente dell’ideologia del ‘42 e delle finalità che perseguiva il
regima fascista attraverso il corporativismo (nel ‘42 si era in piena
guerra e il 2104 risente di ciò). L’obbligo di diligenza è un’obbligazione
aggiuntiva rispetto a quella di lavorare o è un criterio di valutazione
dell’adempimento dell’obbligazione? La risposta è la seconda perché
l’obbligo di diligenza si intende come obbligo di lavorare con diligenza;
non vi è adempimento se si lavora in modo negligente. La natura della
prestazione rileva in relazione al tipo di attività più che all’interesse
dell’impresa in quanto tale; non è richiesta a tutti la medesima diligenza.
La diligenza dipende dal tipo di attività ben più che dal tipo di datore di
lavoro. Il contesto è importante per la valutazione della diligenza.
L’adempimento con diligenza è richiesto a tutti lavoratori, ma il grado di
diligenza varia a seconda del contesto in cui la prestazione si colloca.
All’inadempimento di tali obblighi consegue che vi siano due tipi di
conseguenze di inadempimento negligente che non si escludono tra
loro: il primo tipo di conseguenza è quella inerente alla possibilità per il
datore di lavoro nell’adottare sanzioni disciplinari la cui gravità varia a
seconda dell’intensità della negligenza; il secondo tipo di conseguenza
è tipica dell’inadempimento in generale di qualunque obbligo
contrattuale (risarcimento del danno). Di fronte a un inadempimento è
possibile agire in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni anche
per il datore di lavoro. All’inadempimento non è detto che consegua il
danno (se il lavoratore fuma dove è vietato, ma non causa danni; è
infondato il risarcimento, ma è fondata la sanzione disciplinare). La
responsabilità disciplinare presuppone un comportamento inadempiente
a prescindere dall’impatto in termini di danni, mentre la responsabilità
civile presuppone la presenza di un danno. Per il risarcimento dei danni
è necessario sia l’inadempimento che la conseguenza in termini di
danni, ma l’inadempimento può essere anche lieve. L’inadempimento
lieve può dar luogo ad una sanzione disciplinare lieve. Quindi la
sanzione disciplinare può abbinarsi al risarcimento perché l’una non
esclude l’altra.
● obbligo di obbedienza: l’articolo 2104 secondo comma del codice civile
afferma che il lavoratore deve inoltre osservare le disposizioni per
l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e
dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Tale
formulazione deve essere epurata dal concetto di gerarchia; il
lavoratore dipende funzionalmente, sulla base dell’organizzazione
dell’impresa, a una o più persone a seconda del livello in cui si colloca.
Il lavoratore deve obbedire alle direttive legate all’esecuzione e alla
disciplina del lavoro. Il potere direttivo incontra dei limiti delineati molto
chiaramente dalla Costituzione e dallo Statuto dei Lavoratori, ma già
intuibili dall’articolo 2104/2 c.c. . Il Titolo I dello Statuto dei Lavoratori
riconosce la libertà di opinione (art.1), il divieto di indagini sulle opinioni
del lavoratore e su fatti non rilevanti ai fini della valutazione delle
capacità di esecuzione della prestazione (art.8) e il divieto di
discriminazione (art.15). Il lavoratore non è controllabile se non per ciò
che concerne la valutazione della prestazione in senso stretto, da ciò si
deduce che il potere direttivo non può che riguardare unicamente lo
svolgimento in senso stretto della prestazione. Il datore di lavoro non
può vietare al lavoratore certi comportamenti che non attengano alla
prestazione lavorativa o all’organizzazione del lavoro in quanto tale, a
maggior ragione al di fuori del luogo di lavoro. Parte della dottrina più
risalente anche di epoca repubblicana riteneva che rilevassero certi
comportamenti extralavorativi come ad esempio la pratica di attività
sportive pericolose. Ciò non toglie che certi comportamenti
extralavorativi possano rilevare ai fini della valutazione della
prestazione di lavoro perché risultano come comportamenti preparatori
rilevanti (come ad esempio l’autista che arriva a lavoro ubriaco o senza
aver dormito a sufficienza). L’obbligo di obbedienza è un obbligo da
rispettare il cui mancato rispetto espone il lavoratore alle conseguenze
di natura disciplinare ed eventualmente risarcitoria, ma gli ordini
impartiti devono essere legittimi. l’ordine è illegittimo se non ha nulla a
che vedere con l’adempimento della prestazione o dell’organizzazione
dell’impresa o se è illegittimo in quanto tale (come ad esempio ordine di
redigere un bilancio falso). L’obbligo di vestirsi in un certo modo può
rilevare a seconda dei casi (cappello da cuoco, scarpe
antinfortunistiche, divisa etc.).
● obbligo di fedeltà: l’art.2105 c.c. afferma che il prestatore di lavoro non
deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con
l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai
metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare
ad essa pregiudizio. Tale norma è rubricata come obbligo di fedeltà.
Quello di fedeltà è un termine che deriva dall’ideologia lavorativa; non si
può pretendere dal lavoratore una fedeltà latu sensu. L’obbligo di
fedeltà ha un contenuto di non fare: non fare concorrenza al datore di
lavoro, non divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di
produzione dell’impresa o farne uso in modo da poter recare pregiudizio
al datore di lavoro. Si ha un triplice obbligo di non fare; l’obbligo più
rilevante è il divieto di concorrenza. Il lavoratore non può trattare affari
in concorrenza con il datore di lavoro né per conto proprio né per conto
di terzi. Non vi è l’obbligo di lavorare in esclusiva per il proprio datore di
lavoro ed è libero di lavorare per terzi o in autonomia, ma non in
concorrenza con il proprio datore di lavoro. La giurisprudenza ha
sottolineato in alcune sentenze che la violazione dell’art.2105 è anche
una posizione di concorrenza potenziale. L’onere della prova di
svolgimento di attività in concorrenza grava sul datore di lavoro; tale
onere non è semplice da adempiere e a tal fine si può fare ricorso
anche ad investigatori privati. Tali obblighi non vanno pattuiti perché
sono già previsti dalla legge.
Si può ritenere che esista una nozione allargata di fedeltà? Esiste un
obbligo di fedeltà che vado oltre il triplice obbligo di non fare che
costituisce il contenuto dell’art.2105 c.c. . Uno dei casi classici riguarda
le critiche mosse dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro. Vi è
un diritto di critica e parte della giurisprudenza ritiene che l’abuso di tale
diritto costituisca violazione dell’obbligo di fedeltà. Se la critica è troppo
ampia sicuramente può costituire violazione delle clausole di
correttezza e buona fede o diffamazione. Altra nozione allargata di
fedeltà è stata applicata nei confronti del lavoratore che in malattia tiene
comportamenti che contrastano con lo stato di malattia o che
pregiudicano la guarigione [Se ad esempio il lavoratore è ammalato di
lombo sciatalgia e durante la malattia effettua dei lavori in casa si è di
fronte a un caso di inadempimento dell’obbligo principale di lavorare o
un comportamento lesivo degli obblighi di correttezza e buonafede per
via della falsità dello stato di malattia, oppure per via della tenuta di una
condotta che pregiudica la guarigione (più che violazione dell’obbligo di
fedeltà)]. Qualche sentenza ritiene esistente una nozione allargata di
fedeltà in casi limite, ma sarebbe più appropriato parlare di violazione
delle clausole di buona fede e correttezza e dell’obbligo di lavorare.
I divieti di cui all’articolo 2105 non si protraggono oltre la fine del
rapporto. Vi sono delle regole di carattere generale poste sia sul piano
civilistico, sia su quello penalistico in cui determinati comportamenti
possono rilevare. Gli artt.2598 ss. c.c. (della concorrenza sleale) si
applicano a chiunque (e di conseguenza all’ex lavoratore nei confronti
dell’ex datore di lavoro). La divulgazione di segreti è comunque vietata
perché reato.
L’ex dipendente può essere vincolato a non fare concorrenza al datore
di lavoro anche dopo la fine del datore di lavoro se viene stipulato un
patto di non concorrenza ex art.2125 c.c. Se il patto di non
concorrenza non rispetta il requisito del 2125, il patto è nullo. La
concorrenza sleale vi è a prescindere dall’esistenza o meno di patti di
non concorrenza. Il patto di non concorrenza tra ex dipendente ed ex
datore di lavoro è sottoposto a requisiti più stringenti per tutelare il diritto
al lavoro dell’ex dipendente. Il patto di non concorrenza è valido alle
seguenti condizioni: forma scritta ad substantiam, limite temporale (3
per i non dirigenti, 5 per i dirigenti), limiti territoriali (l’approccio a tale
punto è variato nel tempo; prima si consideravano nulli i patti estesi
all’intera Italia, oggi invece si stipulano patti anche relativi all’intero
Mondo a seconda del settore in cui ci si trova), limiti di oggetto (riguardo
al tipo di attività), versamento di un corrispettivo adeguato (il
corrispettivo deve essere proporzionale alle possibilità del lavoratore di
trovare una nuova occupazione) . Il patto è sì a tutela del vecchio
datore di lavoro, ma deve comunque consentire al lavoratore di trovare
una nuova occupazione a parità di professionalità. Il 2125 non si applica
ai lavoratori autonomi per cui vale la normativa generale sul patto di non
concorrenza del 2596. Il 2125 non specifica cosa si intende per limiti di
oggetto, di luogo e di adeguatezza del corrispettivo versato rispetto
all’obbligo di non fare. Il limite di luogo può essere anche legato non in
senso stretto alla sede di lavoro del lavoratore, ma all’ambito in cui si
svolge il suo lavoro. Il diritto al lavoro non può essere pregiudicato dal
patto di non concorrenza. Se il corrispettivo rispetto all’obbligo di non
fare fosse equivalente alla retribuzione, non si potrebbe comunque
rimuovere i limiti geografici e di oggetto perché il diritto al lavoro è un
diritto indisponibile e si ha sempre diritto a trovare una nuova
occupazione. Il patto non può essere tale da precludere la possibilità di
lavorare, ma quanto minore è la possibilità di lavorare quanto maggiore
dovrà essere il corrispettivo. Oltre al quantum, il vero problema viene
dato dal momento in cui il corrispettivo viene erogato. Il patto, può
essere stipulato in qualunque momento (solitamente quando vi è
l’assunzione), in termini di stretto diritto. La logica vorrebbe che il
corrispettivo debba essere erogato in seguito alla fine del rapporto,
operando l’obbligo dopo la fine del rapporto di lavoro. Il corrispettivo
può essere erogato in costanza di lavoro? La giurisprudenza ormai lo
ammette pacificamente; l’INPS ritiene che i contributi debbano essere
pagati qualora il corrispettivo venga erogato in costanza. Quel
corrispettivo deve essere determinato o determinabile. Sono nulli i patti
che determinano il corrispettivo all’inizio del rapporto di lavoro; ciò è
nullo perché il corrispettivo deve dipendere dalla durata del rapporto di
lavoro. Non può essere il corrispettivo del patto una parte della
retribuzione perché potrebbe essere un corrispettivo simulato. L’unico
modo per dare certezza e adeguatezza alla somma è prevedere il
versamento al mese e il versamento della differenza, qualora il rapporto
di lavoro cessi prima del raggiungimento della somma minima. Se il
lavoratore è inadempiente rispetto al patto, si può ricorrere per il
risarcimento danni; può essere inoltre prevista una clausola penale.
Potrebbe anche essere previsto che il patto valga solo a fronte di
dimissioni del lavoratore. I patti di non concorrenza devono essere
formulati in un certo modo perché i limiti devono essere letti in modo
che sia salvaguardata la libertà di lavorare.
Potrebbe essere limitata la libertà del lavoratore di dare dimissioni?
Potrebbe il lavoratore impegnarsi per un certo periodo a dare le
dimissioni? Si, ma a condizione che sia prevista la presenza di un
corrispettivo di tipo economico o tipo normativo. Una sentenza di
cassazione ritenne legittima la clausola di stabilità che prevedeva come
corrispettivo la concessione di un corso formativo. Per corrispettivo
normativo si intende che per lo stesso periodo il datore di lavoro si
impegni a non licenziare, salvo giusta causa. Le dimissioni sono
comunque concesse per giusta causa.E’ legittimo un patto di non
concorrenza tra un lavoratore e l’agenzia di somministrazione di lavoro?
No perché è espressamente previsto che il lavoratore non possa essere
vincolato a non lavorare per l’utilizzatore.Nel settore pubblico non si
parla di obbligo di fedeltà, ma si ha un obbligo allargato.
Nel settore pubblico opera l’articolo 53 del D. Lgs. 165/2001 che
disciplina i casi delle incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi. Non
può essere svolta dal dipendente pubblico nessuna attività retribuita
che non sia espressamente autorizzata dall’amministrazione di
appartenenza, a prescindere dal fatto che ci sia o meno potenziale
concorrenza e deve essere data inoltre comunicazione anche delle
attività gratuite. I compensi percepiti devono essere dati
all’amministrazione di appartenenza.

Il potere direttivo
Il potere direttivo può consistere innanzitutto nel potere di dare le direttive. Le
direttive possono essere date o in modo generale per tutti i lavoratori,
impartite a gruppi di lavoratori o ai lavoratori singolarmente considerati o ad
un singolo lavoratore. Le direttive sono legittime nella misura in cui attengono
a ciò che è strettamente funzionale al lavoro e all’organizzazione di lavoro. E’
irrilevante ciò che non ha alcuna attinenza con il rapporto di lavoro. Vi è
divieto di discriminazione (artt.15 e 16 dello Statuto dei Lavoratori più tutta la
normativa antidscirminatoria anche in attuazione di una serie di direttive UE).
Se dovesse emergere un qualche ulteriore fattore discriminatorio può rilevare,
ma lo strumento non è il divieto di atti discriminatori bensì il 1345 del codice
civile (motivo illecito). La prova della discriminazione è più semplice di quella
del motivo illecito; il motivo illecito deve essere unico e determinante. Nel caso
della discriminazione, anche qualora l’atto discriminatorio fosse a suo modo
giustificato, quell’atto sarebbe comunque nullo. Anche la discirminazione va
provata dal lavoratore. Il legislatore con la normativa antidiscirminatoria ha
previsto due concetti di discriminazione: discriminazione diretta e indiretta. Un
caso di discriminazione indiretta quando ad esempio per l’assunzione si
richiede ad esempio una statura minima (le donne sono in media più basse
degli uomini). Tale requisito è nullo, almeno che il datore di lavoro non riesca
a dimostrare ragioni oggettive (inversione dell’onere della prova). Può essere
inoltre data una prova statistica. La prova statistica ribalta sul datore di lavoro
l’onere di dimostrare la fondatezza di una determinata decisione. Nel settore
pubblico, le regole sul potere direttivo sono essenzialmente le stesse; quando
l’amministrazione fissa delle regole organizzative concernenti la gestione del
rapporto, non si ha un regolamento amministrativo, ma di natura privatistica.
Rientra nella nozione di direttive anche la specificazione delle mansioni che il
lavoratore è chiamato a svolgere, ossia la specificazione dell’oggetto del
contratto di lavoro. Per specificazione si intende specificare ciò che è previsto
nel contratto. Se si parla di potere conformativo si intende che il datore di
lavoro specifichi in concreto cosa il lavoratore debba fare per dare attuazione
al contratto.
Nel potere direttivo rientra il cosiddetto potere modificativo o ius variandi,
ossia il potere del prestatore di lavoro odi modificare determinate disposizioni
contrattuali: mansioni, orario di lavoro e luogo di lavoro. Tale potere venne
modificato inizialmente dal 2103 del codice civile che venne modificato dallo
Statuto dei Lavoratori e dalla Riforma Renzi del 2015. Nella versione iniziale il
potere del datore di lavoro di modificare le mansioni incontrava limiti molto
ridotti (esigenze dell’impresa con la salvaguardia della retribuzione del
lavoratore). Lo Statuto dei Lavoratori segna un salto di qualità nella tutela
della professionalità e della personalità del lavoratore. L’articolo 13 dello
Statuto dei Lavoratori novellò l’articolo 2103 del codice civile prevedendo che
il datore di lavoro potesse adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle
contrattuali o da quelle successivamente acquisite dal lavoratore a condizione
che fossero equivalenti. Il limite allo ius variandi del datore di lavoro era dato
dal concetto di equivalenza. Non è sufficiente un’equivalenza dal punto di
vista retributivo perché essa discende dalla collocazione nel medesimo livello
di inquadramento in cui si possono trovare profili professionali molto diversi
l’uno dall’altro (la collocazione nello stesso livello comporta il diritto di
percepire la stessa retribuzione base indipendentemente dalle mansioni). La
giurisprudenza ha ricostruito la nozione di equivalenza facendo riferimento
non solo all’equivalenza retributiva, ma anche a quella professionale con una
lettura che, cambiando i sistemi produttivi, ha finito per rivelarsi un po’ rigida.
La giurisprudenza riteneva che le nuove mansioni fossero equivalenti a quelle
di provenienza qualora fosse conservato quell'insieme di competenze e
professionalità acquisite nella fase precedente dello stesso rapporto di lavoro.
L’equivalenza deve essere retributiva e professionale; l’attribuzione di
mansioni dello stesso livello non garantiva l’equivalenza professionale.
L’equivalenza retributiva era condizione necessaria, ma non sufficiente al
riconoscimento dell’equivalenza professionale. La modifica dei sistemi
produttivi porta a far sì che le professionalità possano essere molto varie. La
contrattazione collettiva ha previsto anche delle modalità di rotazione nelle
mansioni volte a garantire lo sviluppo formativo del lavoratore. Ciò è stato
messo in discussione pur essendo previsto dai contratti collettivi. La dottrina
ha sottolineato, soprattutto negli anni 2000, che una lettura garantista, ma
rigida del concetto di equivalenza professionale rischia di ritorcersi contro il
lavoratore perché potrebbe impedire l’acquisizione di una diversa
professionalità che è spesso richiesta dalle modifiche del sistema produttivo. I
sistemi produttivi e organizzativi sono in continuo cambiamento. L’articolo 3
del D. Lgs. 81/2015 ha abrogato l’articolo 13 della L. 300/1970 introducendo
una nuova modifica del 2103 del codice civile. La promozione a mansioni
superiori era concessa a patto che venissero rispettate le clausole di
correttezza e buona fede (caso in cui il datore di lavoro promuove il lavoratore
non adatto alle nuove mansioni per poterlo così licenziare). Se il lavoratore
viene adibito a mansioni superiori per un periodo continuativo superiore a 3
mesi, ha diritto alla promozione (nel settore pubblico è necessario il
concorso), almeno che l’adibizione a mansioni superiore fosse sostenuta dalla
necessità di sostituire un lavoratore assente e avente diritto alla
conservazione del rapporto. L’esercizio dello ius variandi in peius era in linea
di principio vietato. Tale divieto era affermato a chiare lettere dal comma 2
dell’art.13 dello Statuto dei Lavoratori [ogni patto contrario (individuale e
collettivo) è nullo]. Il legislatore e la giurisprudenza hanno poi introdotto delle
eccezioni: la donna lavoratrice in gravidanza deve essere adibita a mansioni
che non compromettano la sua salute, anche inferiori. Il legislatore ha previsto
la possibilità di adibizione a mansioni inferiori a fronte di mancanza di
alternative per la conservazione del rapporto; La Legge 223/1991 prevede
l’adibizione a mansioni inferiori se è l’unica alternativa al licenziamento
collettivo, se ciò è previsto dalla contrattazione collettivo. La Legge 68/1999
prevede che qualora le condizioni lavorative del disabile dovessero peggiorare
e dovesse sopravvenire un’inidonietà fisica e psichica a quelle mansioni è
prevista l’adibizione ad altre mansioni anche inferiori; il Decreto Legislativo
81/2008 prevede che, in caso di sopraggiunta inidoneità fisica del lavoratore,
si imponga la possibilità di un repechage ad altre mansioni; in questi casi il
datore di lavoro ha il potere e il dovere di adibire il lavoratore ad altre
mansioni. Se il lavoratore è inidoneo a qualunque mansione esistente in
azienda vi può essere un repechage a mansioni inferiori. La giurisprudenza
nella scia di quanto sancito dal lavoratore ha fatto un ulteriore passo avanti: il
licenziamento è collettivo se comprende dai 5 lavoratori in su; la
giurisprudenza ha applicato la L. 223/1991 anche ai licenziamenti individuali
fatti per le stesse ragioni del licenziamento collettivo (esubero); l’alternativa
diventa inoltre un obbligo per il datore di lavoro che prima di licenziare deve
proporre l’adibizione a mansioni inferiori.
Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia
successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso
di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento
corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva,
ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente
con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti
collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito
da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo. (art.13 L. 300/1970).
L’adibizione a mansioni superiori non fa mai scattare nel settore pubblico il
diritto alla promozione automatica (è necessario il concorso). Il rapporto di
lavoro è gestito tramite regole di natura privatistica. Se vi è un’adibizione a
mansioni superiori al di fuori dei casi limitati nel tempo, il dirigente che l’ha
permessa è chiamato a rispondere per responsabilità per danno erariale.
Altra differenza nel settore pubblico riguarda lo ius variandi in linea
orizzontale; l’articolo 52 del Decreto 165/2001 afferma che il prestatore di
lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle
mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento. La giurisprudenza
e la dottrina prevalenti non ritengono che il concetto di equivalenza vada qui
letto come equivalenza professionale (come nel settore privato), ma la legge
dà una delega al contratto collettivo di determinare quali siano le mansioni
equivalenti (mansioni equivalenti nell’ambito dell’area d’inquadramento). Nel
settore privato, il vecchio articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, parlava di
equivalenza come un concetto legale che il contratto collettivo non poteva
derogare in peius (il contratto collettivo determinava l’equivalenza in ambito
retributivo, ma non professionale).
L’articolo 3 del D. Lgs. 81/2015 novella il 2013 c.c. in più direzioni: Il
lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a
quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente
acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale
di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Si ha di fatto una delega
al contratto collettivo. Lo ius variandi in orizzontale è facilitato rispetto a prima
perché non vi è più il limite dell’equivalenza; il limite è la collocazione nello
stesso livello delle mansioni di provenienza la determinazione del quale è
rimessa al contratto collettivo. Nell’esercizio del potere modificativo, il datore
di lavoro deve comunque rispettare le clausole di correttezza e buona fede e il
divieto di atti discriminatori. Quale sarebbe la soluzione per circoscrivere di
nuovo il potere modificativo del datore di lavoro? Dovrebbe essere la
contrattazione collettiva a fare ciò, magari individuando dei sottolivelli.
L’articolo 2103 al terzo comma prevede che il mutamento di mansioni sia
accompagnato ove necessario dall’adempimento dell’obbligo formativo il cui
mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di
assegnazione delle nuove mansioni (a questo punto l’obbligo formativo più
che un obbligo è un onere). Un lavoratore non formato alle nuove mansioni
cui è adibito potrebbe commettere qualche errore e di conseguenza
inadempimento, ma senza colpa e di conseguenza un eventuale
licenziamento per negligenza sarebbe nullo. Se il licenziamento è legittimo
solo nel caso in cui il lavoratore non possa essere adibito nemmeno a
mansioni inferiori, il potere di licenziamento si riduce. Il nuovo articolo 2103
finisce per recepire in qualche misura l’orientamento giurisprudenziale; al
comma 2 afferma: in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che
incide sulla posizione del lavoratore (casi in cui a fronte di una
riorganizzazione, il posto di lavoro di quel lavoratore non è più necessario), lo
stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di
inquadramento inferiore (per al livello inferiore si intende solo quello
immediatamente inferiore) purché rientranti nella medesima categoria legale.
Il quarto comma afferma: Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni
appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella
medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi. Vi
è quindi una deroga alla contrattazione collettiva. I contratti collettivi possono
essere di qualunque livello, non vi è quindi bisogno di utilizzare contratti di
prossimità. Il quinto comma dice che nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto
comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità,
e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del
trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi
collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione
lavorativa. Il datore di lavoro ha l’obbligo del repechage in altre mansioni (in
passato equivalenti, oggi anche di livello inferiore). Il fatto che il lavoratore
mantenga il diritto all’inquadramento precedente avrebbe senso sia perché
mantiene la retribuzione più alta, sia perché si libera di nuovo il posto
precedente ha diritto alla riadibizione alle mansioni superiori (tale opinione
non è condivisa da tutti; parte della dottrina sostiene il contrario).
Il sesto comma dice: nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti
alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali
di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di
inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla
conservazione dell'occupazione(il datore di lavoro non ha da offrire mansioni
di livello uguale o superiore, ma solo inferiore), all'acquisizione di una diversa
professionalità (il lavoratore che vede prospettive di carriera in un altro settore
pur ripartendo dal basso) o al miglioramento delle condizioni di vita (ad
esempio lavoratore che non si sente più di poter tenere certi ritmi o
responsabilità e che chiede un diverso inquadramento). Il lavoratore può farsi
assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o
conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Il patto
modificativo delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento
e della retribuzione ovviamente in chiave peggiorativa è quindi valido
solamente se stipulato in sede protetta. Tale accordo sottoscritto in quelle sedi
è sindacabile da parte del giudice oppure no? Potrebbe non esserlo perché si
è in sede protetta; non avrebbe senso concludere un accordo in sede protetta
se poi a distanza di tempo si può sindacare? Il datore di lavoro potrebbe farsi
scrivere a chiare lettere dal lavoratore, tenendo il carteggio, dimostrando così
che il demansionamento sia nell’interesse del lavoratore; nel caso
dell’alternativa al licenziamento è bene che il datore di lavoro tenga della
prove che consentano di dimostrare che al tempo del patto modificativo vi
fosse effettivamente tale esigenza.
Il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni è unilaterale da un lato.
Una modificazione più sensibile di cui al sesto comma richiede il consenso del
lavoratore tramite la stipulazione di un patto modificativo in sede protetta. Se
tale accordo è sottoscritto di fronte al giudice, non è possibile quella
sottoscrizione.
Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al
trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene
definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia
avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio (la
formulazione precedente faceva riferimento alla sostituzione di lavoratori
assenti che hanno diritto alla conservazione del posto; viene quindi adesso
compreso anche il caso del lavoratore in ferie), dopo il periodo fissato dai
contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. Può accadere
che il datore di lavoro adibisca in continuazione il lavoratore a mansioni
superiori, ma sempre per meno di tre mesi; potrebbe essere qui fatta valere la
nullità della disposizione in quanto in frode alla legge. Il lavoratore può
riservarsi di valutare se accettare o meno la promozione definitiva? Si, tale
riserva può essere espressa. Il datore di lavoro potrebbe adibire il lavoratore a
mansioni superiori anche per una sorta di periodo di prova? In teoria no, ma
potrebbe usare il periodo massimo di adibizione a mansioni superiori per fare
questo. Tali accordi di riserva è bene che siano modificati in sede protetta.
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo pieno, il lavoratore può modificare
l’orario di lavoro nella sua collocazione (ovviamente non il numero di ore).
Naturalmente tali atti devono rispettare le clausole di correttezza e buonafede
e il divieto di discriminazione.
Maggiormente articolato è il discorso sulla modifica del ruolo di lavoro;
l’articolo 2103 al comma 8 dice che Il lavoratore non può essere trasferito da
un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive. La modifica del luogo di lavoro può essere
definitiva o temporanea. Dei casi di modifica temporanea sono quelli della
trasferta (vi è anche la figura del trasfertista che è un lavoratore le cui
mansioni devono necessariamente svolte in trasferta) e del distacco. La
modifica tendenzialmente definitiva del luogo di lavoro si ha nel cosiddetto
trasferimento. Un trasferimento senza limiti può essere una misura forte per
mettere in difficoltà il lavoratore. La ratio del trasferimento sono esigenze
organizzative, tecniche e produttive del datore di lavoro. L’onere della prova
grava sul datore di lavoro. Il trasferimento si legittima quando magari nella
sede di provenienza si ha un esubero di personale mentre nella nuova sede si
ha un’esigenza di personale per quel tipo di professionalità. Il datore di lavoro
deve dimostrare che quelle scelte organizzative siano coerenti con la
decisione adottata; vi deve essere inoltre un criterio di scelta oggettivo
tendenzialmente stabilito dai contratti collettivi. La modifica del luogo di lavoro
è un potere del datore di lavoro, ma dipende da ragioni sostanziali di carattere
organizzativo.
L’adibizione a mansioni inferiori non è di per sé mobbing, ma
demansionamento. Il lavoratore può agire in giudizio chiedendo la condanna
del datore del lavoro ad adibirlo a mansioni adeguate. Non vi è comunque la
possibilità di intervenire per consentire al lavoratore di svolgere le mansioni
adeguate, il facere del datore di lavoro di impartire le direttive è considerato
infungibile (esercitabile quindi dal solo datore di lavoro). Il lavoratore potrebbe
eccepire l’inadempimento altrui, rifiutandosi di adempiere con diritto alla
retribuzione (mora del creditore). Il lavoratore potrebbe inoltre chiedere il
risarcimento danni del danno patrimoniale (la perdita di occasioni di carriera) e
il non patrimoniale (danno alla persona quali il danno morale, danno biologico
dimostrato tramite perizia medica, danno alla vita di relazione). Il danno va in
qualche modo dimostrato, quantomeno in termini probabilistici. Il
demansionamento non è automaticamente mobbing, ma quella di mobbing è
una definizione di creazione giurisprudenziale mutuata da altre materie quali
la sociologia che potrebbe essere molto varia. La giurisprudenza richiede una
condotta continuativa per 6 mesi, ma potrebbe essere anche inferiore. La
norma di riferimento è l’articolo 2086 del codice civile.
Nel caso in cui lo ius variandi venga esercitato in modo illegittimo al di là dei
limiti di carattere sostanziale il lavoratore può rifiutarsi di svolgere la
prestazione offrendo una prestazione riconducibile ai profili professionali della
categoria di inquadramento mettendo così il datore di lavoro in mora che è
così tenuto a retribuire la prestazione; vi è però il rischio che il giudice non
riconosca le posizioni del lavoratore e che il lavoratore sia così licenziabile per
giusta causa. È più frequente che il lavoratore agisca in giudizio per ottenere
l’accertamento dell’illegittimità dell’esercizio dello ius variandi e la condanna
del datore di lavoro ad adibire il lavoratore stesso a mansioni adeguate. Una
volta ottenuta una sentenza di condanna, il lavoratore non ha strumenti
giuridici per ottenere dal datore di lavoro di essere effettivamente collocato
nelle mansioni di prima perché la collaborazione all’adempimento necessaria
del datore di lavoro è considerata un fare infungibile. Il lavoratore può
comunque eccepire l’inadempimento altrui. Rimane il diritto alla retribuzione
che però non basta; il lavorare svolgendo le mansioni proprie non presenta
soltanto un profilo di carattere retributivo, ma anche di tutela della
professionalità del lavoratore. Il lavoratore può anche chiedere la lesione della
professionalità che può avere carattere patrimoniale (mancata occasione di
carriera) e non patrimoniale (lesione della professionalità). La dequalificazione
professionale può costituire un danno alla salute psico-fisica del lavoratore. Vi
può essere inoltre una componente legata alla vita di relazione; la sofferenza
non sempre sfocia in una malattia. Mentre il danno biologico è legato a una
valutazione medica e clinica e vi opera un medico legale, nel caso di una
sofferenza che non sfoci in una malattia è molto più difficile avere una
dimostrazione (il lavoratore tenta di dimostrarla attraverso le testimonianze di
amici, parenti, coniuge etc.). Il danno non esiste in re ipsa: bisogna dimostrare
il fatto causativo e il danno; per quantificare il danno biologico vi sono delle
tabelle, mentre per il danno morale soggettivo vi è una valutazione largamente
discrezionale del giudice. Spesso molte parti collegano il demansionamento al
mobbing, ma sono due cose distinte. Il demansionamento non è
necessariamente mobbing. Il nostro legislatore non fa riferimento al mobbing,
ma ciò non vuol dire che tale fattispecie non sia vietata dalla legge (art.2087
c.c.). Ciò non riduce la portata della fattispecie, ma le dà una valenza
maggiore perché ci si rimette alle scienze sociali che hanno portato alla
definizione del mobbing, la definizione offerta dalla giurisprudenza
apparirebbe riduttiva. Il demansionamento in quanto tale se inserito in
contesto di emarginazione, aggressione della persona è una componente del
mobbing. La lesione della professionalità è quantificabile in base alla
professionalità svolta; ci sono delle pratiche che se non esercitate per tempo
si rischia di perdere la professionalità.

Il potere di controllo
Quando si parla di potere di controllo bisogna far riferimento agli artt. da 2 a 6
dello Statuto dei Lavoratori (si potrebbe includere anche l’8). L’oggetto di
controllo è la prestazione lavorativa. Si vigila quindi sul rispetto dell’esercizio
del potere direttivo e degli obblighi gravanti sul lavoratore (in particolare del
divieto di concorrenza). Quando si controlla il lavoratore per verificare che non
faccia concorrenza, non si verifica l’adempimento della prestazione, ma il
compimento di illeciti. Possono rilevare condotte estranee al rapporto di lavoro
in quanto tale, ma che in qualche modo incidono sulla fiducia del datore di
lavoro nei comportamenti e nell’adempimento della prestazione? Si, ma solo
se vi è rilevanza diretta con la prestazione lavorativa (come ad esempio un
lavoratore incaricato al maneggio di denaro che viene imputato con prove di
reati contro il patrimonio). La Cassazione si è pronunciata a favore della
legittimità del licenziamento di un lavoratore arrestato per spaccio di
stupefacenti se egli ha contatti con il pubblico o con altri lavoratori.
Bisogna fare una distinzione tra il controllo sulla prestazione e il controllo
sull’eventuale compimento di illeciti. Il controllo sull’adempimento della
prestazione deve essere fatto in forma palese e non occulta, mentre il
controllo sull’eventuale compimento degli illeciti può essere fatto anche da un
investigatore privato. Il controllo sulla prestazione deve essere un controllo
palese.
L’articolo 2 dello Statuto dei Lavoratori impone il divieto dell’utilizzo delle
guardie giurate per il controllo sull’adempimento della prestazione: Il datore di
lavoro può impiegare le guardie particolari giurate, di cui agli articoli 133 e
seguenti del testo unico approvato con regio decreto 18 giugno 1931, numero
773 , soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale.
Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi
da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale.
È fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa
le guardie di cui al primo comma, le quali non possono accedere nei locali
dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non
eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di cui
al primo comma.
In caso di inosservanza da parte di una guardia particolare giurata delle
disposizioni di cui al presente articolo, l'Ispettorato del lavoro ne promuove
presso il questore la sospensione dal servizio, salvo il provvedimento di
revoca della licenza da parte del prefetto nei casi più gravi.
L’articolo 3 dello Statuto afferma che i nominativi e le mansioni specifiche del
personale addetto alla vigilanza dell'attività lavorativa debbono essere
comunicati ai lavoratori interessati (divieto di controllo occulto). Il lavoratore
può essere controllato da personale adibito a fare ciò o dai superiori. Ciò
riguarda lo svolgimento della prestazione e non il controllo sugli illeciti che è
occulto per definizione. La giurisprudenza è pacifica nell’ammettere il ricorso a
un investigatore privato per controllo su illeciti in determinati casi. Il lavoratore
di lavoro deve avere un ragionevole sospetto sostenuto da prove. Spesso
però il controllo sugli illeciti va a mischiarsi con il controllo sull’adempimento;
si può fare l’esempio di un cassiere sospettato di non fare scontrini per
prendersi il denaro; l’investigatore privato, mentre osserva il lavoratore, vede
anche l’adempimento, ma ciò non può essere oggetto di verifica
dell’investigatore privato. La giurisprudenza esclude che la relazione
dell’investigatore possa essere usata per contestare la negligenza
dell’inadempimento.
Il potere di controllo in senso stretto ha quindi ad oggetto l’adempimento della
prestazione, non deve essere svolto in forma occulta da persone che il
lavoratore sa che siano adibite al controllo (anche il collega può segnalare
l’inadempimento). Il potere di controllo può essere esercitato in qualunque
modo purché non lesivo della dignità della persona, conformemente alle
clausole di correttezza e buona fede fermo restando il divieto di atti
discriminatori.
Il controllo più che personale rischia di essere svolto con dei mezzi. L’articolo
4 dello Statuto dei Lavoratori si occupa degli impianti audiovisivi ed è stato
novellato nel 2015. Il testo dell’articolo 4 prevedeva nella versione del 1970 il
divieto di utilizzo di audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di
controllo a distanza dell’attività lavorativa. In nessun modo poteva essere
utilizzato un meccanismo che perseguisse l’obiettivo di controllare l’attività del
lavoratore. Vi sono casi in cui gli impianti audiovisivi possono risultare
necessari o quantomeno opportuni per determinate finalità. L’articolo 4 diceva
che a fronte di esigenze organizzative e produttive o per ragioni di sicurezza
sul lavoro, l’installazione e l’utilizzazione di tali strumenti poteva avvenire
previo accordo sindacale o previa autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro.
La violazione dell’articolo 4 contemplava norme penali. Il divieto di
utilizzazione di strumenti per finalità di controllo era pacifico, ma dall’uso di
determinati strumenti poteva derivare il controllo in via indiretta; tali fini erano
legittimi, ma bisognava avere un accordo sindacale o un’autorizzazione
dell’ispettorato del lavoro. Con l’evoluzione dei mezzi tecnologici e delle
tecniche produttive tale norma risultava obsoleta essendovi strumenti utilizzati
ai fini dell’adempimento della prestazione, ma che indirettamente consentono
un controllo. L’articolo 4 viene modificato nel 2015 con un testo più articolato
che non parte con un divieto pur essendo ancora presente: Gli impianti
audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a
distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente
per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la
tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo
collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle
rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con
unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più
regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di
accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere
installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell'Ispettorato nazionale
del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate
negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale
dell'Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo
sono definitivi (comma I). Viene introdotto il requisito della tutela del
patrimonio aziendale. La giurisprudenza è ormai pacifica sulla legittimità dei
cosiddetti controlli difensivi ossia mirati al contrasto al compimento di illeciti
penali (come il furto); in realtà a tale risultato si arriva a volte rivolgendosi alle
forze dell’ordine o agli investigatori privati autorizzati. In seguito alla novella
del 2015 può il datore di lavoro tramite forze dell’ordine o investigatore
mettere telecamere o cimici senza autorizzazione? Vi sono diversi casi in cui
di fronte a illeciti penali ciò è stato ammesso. Per la tutela del patrimonio
aziendale, al di fuori delle ipotesi di reato, è necessario l’accordo sindacale o
un provvedimento amministrativo. Nel momento in cui non vi siano
rappresentanze sindacali in azienda o se i sindacati non sono disponibili ci si
può rivolgere all’ispettorato del lavoro. I sindacati sono a volte disponibili, ma
esigono che eventuali illeciti disciplinari emersi non siano utilizzabili. A volte
anche l’ispettorato del lavoro può autorizzare senza rilevanza disciplinare
perché tali strumenti sono introdotti senza finalità di controllo. La novità più
significativa è al comma 2 dell’articolo 4: La disposizione di cui al comma 1
non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione
lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. Per
gli strumenti di registrazione di accessi e delle presenze (il timbro del
cartellino) non è necessaria l’autorizzazione; si discute se sia legittimo l’uso
del badge senza autorizzazione per entrare in zone del luogo di lavoro diverse
dall’ingresso allo stabilimento. Per strumenti utilizzati per rendere la
prestazione si può intendere qualunque applicativo? No, ma solo quelli
utilizzati specificamente per rendere la prestazione. Buona parte della dottrina
usa un concetto non presente nella legge, ossia quello della necessità: per lo
strumento necessario per rendere il lavoro non è necessaria l’autorizzazione,
per gli altri casi si; non vi è bisogno di autorizzazione o accordo sindacale se
senza quello strumento la prestazione lavorativa non può essere resa. Il
comma 3 dell'articolo 4 si afferma che le informazioni raccolte ai sensi dei
commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a
condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità
d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto
disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (normativa sulla
privacy). Il comma 3 prevede una tutela individuale rafforzata perché le
informazioni raccolte sui lavoratori con quegli strumenti sono utilizzabili a tutti i
fini di valutazione del rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore
adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e delle modalità di
effettuazione dei controlli. Nell’attuale testo dell’articolo 4 non è
espressamente scritto il divieto di controllo per mezzo di impianti audiovisivi,
ma lo si può dedurre. Un impianto audiovisivo non è installabile per il controllo
dei lavoratori; negli accordi sindacali vengono indicate le modalità di posizione
di tali impianti. Un controllo occulto e pervasivo e continuativo è certamente
lesivo della dignità della persona.
Può il datore di lavoro andare a controllare il pc del lavoratore (ovviamente il
pc aziendale)? Il controllo a distanza può essere anche temporale. Vi sono qui
due interessi divergenti: la tutela della privacy del lavoratore e l’esigenza che il
lavoratore adempia alla prestazione. La violazione dell’art.4 e della legge sulla
privacy comportano delle sanzioni penali. Il datore di lavoro non può aprire la
corrispondenza cartacea del lavoratore e, di conseguenza, neanche la sua
posta elettronica. La L.231/2001 introduce la cosiddetta responsabilità
amministrativa degli enti che ha previsto una responsabilità penale dell’ente
per certe condotte omissive. Il datore di lavoro deve prevenire determinati
illeciti penali dei propri dipendenti. La cosiddetta responsabilità amministrativa
dell’ente grava sul responsabile. Un esempio di ciò è la navigazione su siti
pedopornografici; la responsabilità penale per tale reato è ovviamente di chi lo
commette, ma è responsabilità del datore di lavoro evitare che ciò avvenga
attraverso una politica aziendale che vieti ciò. Il datore di lavoro può
legittimamente prevedere che i mezzi aziendali siano utilizzabili solo per ciò
che concerne il rapporto di lavoro. La navigazione su internet per ragioni non
lavorative, anche se lecita penalmente, se assidua e continuativa e ripetuta è
sintomo di mancato adempimento. Il datore di lavoro potrebbe, una volta
avuto il sospetto che ci sia un abuso nell’uso dei mezzi aziendali, nominare un
proprio tecnico comunicandolo al lavoratore e invitandolo a essere presente
personalmente o tramita altra persona indicata dal lavoratore affinché si
controlli il pc per verificare l’abuso dell’utilizzo dell’indirizzo di posta elettronica
aziendale o la navigazione in internet in siti per fini non inerenti alla
prestazione lavorativa, senza però verificare il contenuto, ma la sua semplice
attinenza al rapporto di lavoro.
L’articolo 5 dello Statuto dei Lavoratori si occupa degli accertamenti sanitari. Il
controllo sulle condizioni di salute dei lavoratori non può essere rimesso a
persone di fiducia del datore di lavoro: Sono vietati accertamenti da parte del
datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del
lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto
attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono
tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda.
Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare l'idoneità fisica del lavoratore da
parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico. Il lavoratore che
fa recapitare al datore di lavoro il certificato di malattia percepisce l’indennità
di malattia (dall’INPS o dal datore di lavoro stesso) e ha diritto alla
conservazione del posto per un determinato periodo di tempo stabilito dalla
contrattazione collettiva. Come fa il datore di lavoro a controllare la veridicità
del certificato di malattia? Egli può chiedere all’INPS di mandare una visita di
controllo perché il lavoratore, tranne per la malattia nervosa, è tenuto a
rimanere nella propria abitazione o nel proprio domicilio in determinate fasce
orarie nelle quali deve risultare presente alla visita di controllo. Il medico
dell’INPS può annullare il certificato di malattia, ma ciò è raro; il medico
dell’INPS può anche semplicemente decretare la fine della malattia. Il datore
di lavoro non può mandare un medico di sua fiducia; può però assumere un
investigatore privato. La legge 104/1992 consente a persone che devono
accudire persone con patologie di fruire di 3 giorni retribuiti di permesso al
mese; il controllo con gli investigatori è qui facilissimo.
Altra situazione è quella della verifica che il datore di lavoro è tenuto a fare
sull’idoneità al lavoro del lavoratore. Il D. Lgs. 81/2009 (T.U. in materia di
sicurezza) prevede che il datore di lavoro adotti misure di sicurezza, ritmi di
lavoro adeguati e che si collabori alla redazione del documento di valutazione
dei rischi in cui vengono indicati i rischi sul lavoro e ciò che lavoratore deve
fare; il medico competente è comunque tenuto a effettuare una volta all’anno
la visita di idoneità al lavoro del lavoratore. Rispetto al referto del medico
competente il lavoratore può far ricorso al collegio medico dell’ASL. Se il
lavoratore matura una patologia sul lavoro imputabile al datore di lavoro che
non abbia fatto il possibile egli ne risponde dal punto di vista civile. Questo è
un controllo preliminare e funzionale a garantire al lavoratore stesso la sua
sicurezza e la sua salute. Dopo un’assenza superiore a 60 giorni, il lavoratore
deve sottoporsi al rientro al lavoro alla visita di idoneità da cui può risultare
idoneo, non idoneo, o idoneo con restrizioni. E’ fondamentale che vi siano
dei soggetti e degli organismi imparziali alla valutazione di tali situazioni.
Se il lavoratore è inidoneo al lavoro ne consegue il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo; se invece il medico competente o il collegio
dell’ASL dichiarano un inidoneità alle mansioni, prima di procedere al
licenziamento si deve vedere se sia possibile il repechage in altre mansioni.
Per ragioni di salute deve cercare di fare tutto il possibile, anche ricorrendo ad
accorgimenti ragionevoli per trovare un altro posto di lavoro (anche
eventualmente scambiando il lavoratore con un collega).
L’articolo 6 dello Statuto dei lavoratori rientra anch’esso sul potere di controllo,
ma al controllo sul lavoratore all’uscita dal luogo di lavoro: le visite personali di
controllo sul lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili
ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli
strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti (comma I). Tale norma
è nei suoi aspetti procedurali simile all’art.4: le ipotesi nelle quali possono
essere disposte le visite personali, nonché, ferme restando le condizioni di cui
al secondo comma del presente articolo, le relative modalità debbono essere
concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali
oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di
accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro
(comma III). L’accordo sindacale o il provvedimento amministrativo deve
avere ad oggetto l’ammissibilità e l’indicazione delle modalità di controllo. Le
visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano
eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la
riservatezza del lavoratore e che avvengano con l'applicazione di sistemi di
selezione automatica (sorteggio; ciò per evitare che ci sia un qualcosa di
mirato contro una persona) riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori
(comma II). L’articolo 38 dello Statuto dei Lavoratori prevede delle sanzioni
penali per la violazione degli articoli 2, 5, 6 e 15.

Il potere disciplinare
Quanto detto sul potere direttivo e sul potere di controllo in materia di principi
è valido sia nel settore pubblico che nel settore privato. Le logiche del potere
disciplinare sono le medesime tra privato e pubblico, mentre variano le norme.
Nel privato la procedura è più semplice nei termini e nel rispetto della
procedura stessa, anche se analoga nelle logiche e nei passaggi. Per
l’adozione dei procedimenti disciplinari è sempre stata prevista una procedura
nel pubblico i cui capisaldi di fondo erano la contestazione degli addebiti, le
giustificazioni del lavoratore e l’eventuale adozione della sanzione. Tale
architrave si trovava già nel T.U. sull’impiego pubblico degli anni ‘50. Lo
Statuto dei Lavoratori mutua tali principi con soluzioni in parte diverse. Con la
privatizzazione del pubblico impiego tali fasi rimangono con un’articolazione
molto più definita di quanto non sia nello statuto dei lavoratori.
L’art.7 dello Statuto dei Lavoratori è rubricato sanzioni disciplinari: Le norme
disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna
di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse,
devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in
luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito
da accordi e contratti di lavoro ove esistano. Il datore di lavoro ha l’onere della
pubblicità delle norme disciplinari per poterle applicare. In linea di massima il
datore di lavoro, se vuole essere nelle condizioni di adottare delle sanzioni,
deve aver affisso il codice disciplinare che deve contenere le infrazioni
sanzionabili, le sanzioni applicabili e le procedure di contestazione delle
sanzioni; il principio a monte è quello della irretroattività. Con riguardo al
potere disciplinare il principio è quello per cui il lavoratore deve sapere quali
siano i suoi comportamenti sanzionabili (non vale qui il principio ignorantia
legis non excusat). Le infrazioni commesse prima della pubblicità non
possono essere contestate e sanzionate. Il datore di lavoro non ha l’obbligo,
ma l’onere di affiggere il codice disciplinare per poter applicare sanzioni. Il
datore di lavoro potrebbe redarre il codice per proprio conto, ma ormai tutti i
contratti collettivi prevedono le norme disciplinari. La bacheca deve essere in
un luogo realmente accessibile a tutti. La norma si preoccupa della
conoscibilità più che della conoscenza effettiva delle norme disciplinari da
parte dei lavoratori. E’ certo che la conoscibilità impone che il codice
disciplinare venga affisso in tutte le unità produttive. Il decreto 165/2001 ha
previsto che nel settore pubblico il lavoratore possa essere portato a
conoscenza delle norme disciplinari in 2 modi:
● attraverso affissione
● attraverso intranet aziendale dell’ente
La giurisprudenza ritiene pacificamente che la consegna del codice al
lavoratore nel settore privato non sia equipollente all’affissione, mentre nel
pubblico si.
Il lavoratore deve essere posto nella condizione di sapere le condotte che non
si possono tenere. La giurisprudenza si è ormai consolidata nel sostenere che
di fronte a condotte che secondo la communis opinio sono da non tenere, il
datore di lavoro possa esercitare il potere disciplinare anche senza affissione.
Con gli anni la giurisprudenza si è orientata in tale modo dapprima nei casi più
gravi relativi a licenziamenti (molestie, furto etc.), poi estendendosi anche a
condotte che possono condurre a sanzioni meno gravi. Tale ragionamento
viene naturalmente in ballo in casi limite.
Nel settore privato, l’esercizio del potere disciplinare è una facoltà del datore
di lavoro esercitabile nei limiti di legge; il datore di lavoro è libero di non
adottare alcuna sanzione. Il lavoratore pubblico non può scegliere se
esercitare o meno il potere disciplinare. Con la Riforma Brunetta del 2009 il
dirigente deve segnalare i fatti che costituiscono le sanzioni disciplinari
all’organismo titolare del potere disciplinare che è l’Ufficio dei Procedimenti
Disciplinari (UPD). Nei servizi pubblici essenziali il potere disciplinare è
obbligatorio in caso di violazione della regolamentazione sul diritto di sciopero
in tali servizi. Il datore di lavoro è responsabile anche della violazione delle
misure di sicurezza (onere del datore di lavoro di sanzionare comportamenti
lesivi della sicurezza per non incorrere in responsabilità di eventuali infortuni).
L’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori prende in considerazione determinate
sanzioni:
● rimprovero verbale
● rimprovero scritto
● multa fino a 4 ore di retribuzione
● sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a 10 giorni
Il IV comma dice che le mansioni in ogni caso non possono comportare un
mutamento definitivo del rapporto di lavoro. Lo ius variandi del datore di lavoro
non può essere esercizio di potere disciplinare. Il trasferimento può avvenire
per ragioni di incompatibilità ambientale ossia quando il lavoratore non è
adatto a quel luogo di lavoro per via dei rapporti con gli altri.
Il licenziamento può essere considerato una sanzione disciplinare? Vi è una
summa divisio tra licenziamenti per ragioni oggettive e per ragioni
soggettive. Il licenziamento per ragioni soggettive è dovuto alle condotte del
lavoratore e ha quindi intrinsecamente natura disciplinare ed è quindi la più
grave sanzione disciplinare. Ciò è oggi pacifica, ma un tempo parte della
dottrina e della giurisprudenza riteneva il contrario in virtù della formulazione
del IV comma dell’art.7, ma si può a ciò obiettare che il licenziamento non
comporta un mutamento del rapporto, ma la sua cessazione. Inoltre il IV
comma inizia con fermo restando quanto disposto dalla L. 604/1966 (legge sui
licenziamenti individuali). Nei contratti collettivi si trovano come sanzioni, oltre
a quelle precedentemente indicate, anche il licenziamento. Il contratto
collettivo naturalmente potrebbe prevedere multe massime e giorni massimi di
sospensione inferiori rispetto a quelle previste dalla legge.
Nel settore pubblico si rinvia ai contratti collettivi, ma vi sono particolari vincoli
imposti dalla legge, in particolare dalla Riforma Brunetta del 2009 poi
confermati anche dalla Riforma Madia del 2015. Nel settore pubblico la
sospensione dal lavoro e dalla retribuzione può arrivare a 6 mesi; tale ampia
sospensione viene vista come una sanzione conservativa molto più
impegnativa. Nel settore pubblico il legislatore è intervenuto per limitare la
discrezionalità della contrattazione collettiva e del giudice; ciò per evitare
atteggiamenti troppo magnanimi a fronte di condotte che il legislatore decide
che debbano comportare il licenziamento.
Nel settore pubblico il legislatore è intervenuto tra il 2009 e il 2017 per
prevedere una serie di casi in cui il contratto collettivo non potrebbe prevedere
una sanzione meno grave del licenziamento all’art.55-quater del D. Lgs.
150/2009:
A. falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei
sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente,
ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una
certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di
malattia. In questo caso il licenziamento è senza preavviso.
B. assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche
non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per
piu’ di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata
ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine
fissato dall’amministrazione
C. ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per
motivate esigenze di servizio
D. falsita’ documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione
dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di
carriera
E. reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o
moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della
dignità personale altrui. Appare qui ambiguo l’uso del termine
reiterazione perché le condotte gravi sono già di per sé motivo di
licenziamento per giusta causa.
F. condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista
l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione, comunque
denominata, del rapporto di lavoro. Anche in questi ultimi tre casi il
licenziamento è senza preavviso.
E’ di fatto impossibile azzerare la discrezionalità del giudice.
Le sanzioni frazionabili sono indicate innanzitutto nel contratto collettivo; nel
pubblico anche nella legge. Nel contratto collettivo si trovano ben poche
causali di licenziamento previste. I casi previsti sono indicati in modo
esemplificativo e non tassativo, almeno che il contratto collettivo non indichi la
tassatività (non accade mai). Il contratto collettivo è comunque un punto di
riferimento. Nel privato, se il contratto collettivo enuncia un certo caso
prevedendo una sanzione conservativa, il datore di lavoro non potrà applicare
il licenziamento. Il giudice può applicare una sanzione più lieve se ritiene che
il contratto collettivo ne abbia previsto una troppo grave.
L’articolo 7 della L. 300/1970 prevede la procedura per applicare le sanzioni
disciplinare. La procedura disciplinare prevede una sospensione cautelare (se
la sanzione viene annullata, il datore di lavoro dovrà versare la retribuzione). Il
datore di lavoro deve contestare al lavoratore l’addebito; la procedura parte
quindi con una lettera di contestazione dell’addebito: Il datore di lavoro non
può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore
senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a
sua difesa (comma II). Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante
dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato (comma III). Il
lavoratore si può difendere mediante giustificazione scritta. Il lavoratore può
chiedere di essere sentito a sua difesa anche assistito da un rappresentante
sindacale; il datore di lavoro può consentire anche che il lavoratore sia
assistito da un avvocato. Il lavoratore può inoltre giustificarsi per iscritto e
chiedere di essere sentito a sua difesa. Il comma V afferma che in ogni caso, i
provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono
essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione
per iscritto del fatto che vi ha dato causa. I contratti collettivi possono
legittimamente prevedere un termine più lungo di rispetto a 5 giorni. Si vuole
dare al lavoratore un margine temporale per potersi difendere. L’ultimo
comma dell’art. 7 afferma che non può tenersi conto ad alcun effetto delle
sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. I contratti
collettivi possono prevedere un tempo minore ai fini della rilevanza della
recidiva. La recidiva secondo la giurisprudenza per avere rilevanza deve
essere parimenti contestata.
La contestazione deve rispondere ad alcuni requisiti ormai imprescindibili in
termini di contenuto e temporali fondati sulla necessità di consentire al
lavoratore di predisporre una difesa adeguata. Il primo principio è quello di
immediatezza o tempestività: tra l’infrazione da contestare e la sua
contestazione deve intercorrere un lasso temporale molto ridotto. Il principio di
immediatezza deve essere inteso in senso relativo al momento della
conoscenza del fatto. Un’ ulteriore precisazione si comprende meglio
passando a considerare un secondo profilo della contestazione; la
contestazione deve essere specifica. Per poter avere una contestazione
specifica, il datore di lavoro non può avere una conoscenza generica; il lasso
temporale deve quindi intercorrere tra la piena conoscenza del fatto e la sua
contestazione. Il secondo principio è quello di specificità della contestazione:
bisogna contestare la condotta in modo specifico facendo espresso
riferimento all’entità e alla data della condotta. La ricostruzione dei fatti del
datore di lavoro deve essere specifica e la più dettagliata possibile. Tali
principi hanno genesi giurisprudenziale e si evincono dalla ratio della
contestazione. Il decorso eccessivo del tempo fa addirittura venir meno la
possibilità di esercitare il potere disciplinare. Se il lavoratore ammette
formalmente di aver compiuto l’infrazione, tale confessione può essere
comunque messa in discussione. Tale caso è ben diverso da quello della
confessione in giudizio, benché sia un elemento presuntivo rilevante. La
giurisprudenza è pacifica nel ritenere che il principio di tempestività valga
anche per le giustificazioni, per la scadenza del loro termine e per l’adozione
della sanzione. L’immediatezza e la tempestività vale quindi sia prima che
dopo l’adozione della sanzione. I contratti collettivi spesso prevedono dei
termini precisi quantificati in giorni. Non tutti i contratti collettivi prevedono un
termine massimo per l’adozione della sanzione e quindi il limite è lì la
ragionevolezza. Parte della dottrina afferma che se vi è giustificazione non vi
è bisogno dei 5 giorni; potrebbe in questi casi essere utilizzata la
sospensione cautelare che è un provvedimento collegato al procedimento
disciplinare.
Una volta adottata la sanzione, il lavoratore la può impugnare in 2 modi:
1. In via giudiziale: il lavoratore può ricorrere al giudice per annullare la
sanzione. Per il licenziamento è previsto un doppio termine di
decadenza, ma non per le sanzioni conservative.
2. In via stragiudiziale: il lavoratore può attivare uno speciale Collegio di
conciliazione e arbitrato composto da un arbitro nominato dal
lavoratore, uno nominato dal datore di lavoro e un presidente del
collegio designato dai 2 arbitri o dal direttore dell’Ispettorato Territoriale
del Lavoro. Tale via è più rapida e presenta minori costi (è comunque
previsto un compenso ai membri del Collegio di Conciliazione e
Arbitrato). L’impugnazione in via stragiudiziale deve avvenire entro 20
giorni dal ricevimento della sanzione. Il datore di lavoro potrebbe
rifiutarsi di aderire ed entro 10 giorni dall’invito a costituire il collegio, il
datore di lavoro può ricorrere al giudice.
Non avrebbe senso impugnare una sanzione conservativa dopo due anni
perché tale è il limite massimo legale della rilevanza ai fini della recidiva.
Quando il datore di lavoro adotta una sanzione deve aspettare i 20 giorni in
cui potrebbe essere attivato il Collegio Arbitrale perché la sua attivazione
sospende la sanzione. L’importante è che la sanzione venga adottata
tempestivamente, per l’applicazione meglio aspettare 20 giorni.
Se il datore di lavoro si accorge di non aver contestato adeguatamente il fatto
o viene a conoscenza di fatti ulteriori, i fatti oggetto di contestazione non sono
modificabili, almeno che la procedura non sia conclusa (si possono quindi
integrare le contestazioni). Fatti diversi possono essere utili ad colorandum,
per far valere quindi la portata della violazione, ma non per allargare l’oggetto
del contendere. La tolleranza del datore di lavoro può indurre il lavoratore a
pensare di poter tenere quella condotta. La decisione dell’arbitrato è un lodo
irrituale la cui impugnazione davanti al giudice ordinario è complicata.
Nel settore pubblico il dirigente del servizio a cui il lavoratore è adibito segnala
entro 10 giorni o comunque rispettando il principio di immediatezza all’UPD
che contesta entro 20 giorni dalla notizia e fissa un termine di 20 giorni per
l’audizione. Il lavoratore ha la possibilità di spostare una sola volta l’audizione.
Il lavoratore può essere assistito dall’avvocato. La procedura si deve chiudere
entro 120 giorni (termine perentorio). Se vi è un processo penale in corso per
gli stessi fatti, l’UPD può scegliere di sospendere il procedimento disciplinare
o meno. Se la sentenza penale assolve il lavoratore perché il fatto non
sussiste naturalmente la sanzione si può facilmente impugnare. Alcune
sanzioni come prima detto sono tassative.

Il licenziamento
L’evoluzione legislativa in materia di licenziamenti ripercorre la storia del diritto
del lavoro italiano. Nel codice civile del ‘42 sono contenute 2 norme in materia
tuttora vigenti: l’art. 2118 e l’art.2119. L’articolo 2118 prevede che il recesso
sia libero nel contratto a tempo indeterminato, salvo preavviso. Tale norma
valeva sia nel licenziamento che nelle dimissioni perché vigeva un principio di
parità formale. L’ambito di applicazione di tale norma che prevede la libertà di
licenziamento, è rimasta del tutto residuale. L’articolo 2119 disciplina il
cosiddetto recesso straordinario: nel contratto a tempo indeterminato e
determinato ciascuna delle parti può recedere senza preavviso (e prima della
scadenza del termine nel contratto a tempo indeterminato)soltanto per giusta
causa definita dall’articolo 2119 come che non consente la prosecuzione
neanche provvisoria del rapporto. Il licenziamento, prima della scadenza del
termine, può avere luogo solo per giusta causa altrimenti il datore del lavoro
dovrà versare il risarcimento del danno che consiste nella retribuzione dovuta
dal licenziamento alla scadenza del termine sottratta dalle eventuali
retribuzioni percepite in altre attività lavorative. In caso di dimissioni senza
giusta causa anche il lavoratore deve versare il risarcimento del danno che va
dimostrato dal datore di lavoro.
Il licenziamento ordinario opera qualora manchi una giusta causa, il lavoratore
può immediatamente cessare il rapporto versando l’indennità di mancato
preavviso. Se il lavoratore si dimette senza preavviso gli verranno trattenute
le retribuzioni che avrebbe ricevuto nel periodo del preavviso. Il recesso
ordinario solo in pochissimi casi residuali è privo di motivazione e
giustificazione. Il legislatore è intervenuto fin dagli anni ‘60 a limitare il potere
del datore di lavoro di recedere dal rapporto preceduto da alcuni accordi
interconfederali nel settore dell’industria.
Le cose cambiano con la L.604/1966 che è tutt’ora vigente in tema di
licenziamenti individuali e che ancora oggi detta le norme fondamentali che
riguardano la forma del licenziamento, le motivazioni legittime del
licenziamento, la giusta causa, il giustificato motivo soggettivo (legato a
comportamenti del lavoratore) e oggettivo (legato a scelte organizzative del
datore di lavoro) di licenziamento e le modalità di impugnazione del
licenziamento. Al momento dell’entrata in vigore della L.604 tale norma era
piuttosto debole perché si prevedeva soltanto un’indennità risarcitoria di un
numero di mensilità ridotto che variava a seconda dell’anzianità di servizio. La
tecnica sanzionatoria è ancora debole, tant’è che si parla in dottrina di tutela
obbligatoria. E’ un diritto ad un’indennità risarcitoria piuttosto contenuta come
numero di mensilità. La L.604 si applicava a quei datori di lavoro che
occupassero nell’azienda con più di 35 dipendenti. Nelle aziende con meno di
35 dipendenti il licenziamento rimaneva quindi libero. La Legge 604 ha
comunque messo una breccia nella libertà del licenziamento: per la prima
volta il legislatore assoggetta a limiti il potere di licenziare. Il principio di
eguaglianza introdotto dalla Costituzione implicava un'uguaglianza
sostanziale.
Il vero salto di qualità in materia di limiti al potere di licenziare è rappresentato
dallo Statuto dei Lavoratori il cui articolo 18 ha rappresentato a lungo un punto
di riferimento centrale in materia. Nel suo testo iniziale, l’articolo 18 prevedeva
che il licenziamento, qualunque fosse il suo vizio, comportava il diritto del
lavoratore alla reintegra del posto di lavoro; si passa quindi dalla tutela
obbligatoria della L.604 a una tutela ricostitutiva (reale) del rapporto di
lavoro. Il giudice ordinava la ricostituzione del rapporto ex tunc con la
conseguenza dell’obbligo del datore di lavoro di pagare al lavoratore tutte le
retribuzioni perse dal giorno del licenziamento al giorno della reintegra.
L’articolo 18 incide profondamente sul meccanismo sanzionatorio applicabile
nel caso di licenziamento illegittimo. L’articolo 18 non aveva un’applicazione
generalizzata, ma trovava applicazione nei casi delle unità produttive che
occupassero singolarmente o congiuntamente nell’ambito del medesimo
comune più di 15 dipendenti.
Si avevano due meccanismi che marciavano su binari paralleli (articolo 2118
c.c., articolo 18 Statuto dei lavoratori e Legge 604/1966).
La Legge 108/1990 fu il frutto del tentativo per evitare l’estensione a tutte le
unità produttive dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il risultato fu quello
di superare il cosiddetto parallelismo delle tutele. La legge 108 prevede che
nel caso di licenziamento nullo doveva trovare applicazione l’articolo 18 con
riguardo a qualunque rapporto di lavoro. La legge 108 fu quello di modificare
l’ambito di applicazione della 604 e dell’articolo 18. Si previde che a
prescindere dal numero di dipendenti nell’unità produttiva, l’articolo 18 si
applicava comunque alle aziende che nel loro complesso avevano più di 60
dipendenti (residulamente si applicava la tutela obbligatoria della L. 604 nelle
unità produttive con meno di 15 dipendenti di aziende ). Il 2118 veniva ristretto
ai casi di lavoro domestico, licenziamento dell’apprendista giorno finale del
periodo formativo nei contratti di apprendistato, licenziamento del lavoratore
che aveva ottenuto il diritto alla pensione per vecchiaia, licenziamento del
dirigente (per i dirigenti d’azienda esiste comunque quasi sempre una tutela
da parte della contrattazione collettiva). Alcune categorie di lavoratori non
fanno numero: non si calcolano i lavoratori autonomi, i lavoratori
somministrati, i lavoratori distaccati nell’impresa distaccataria, gli apprendisti; i
lavoratori part time si calcolano pro quota, quelli a termine facendo una media
dei lavoratori a termine nel biennio. Si prevede che, se il lavoratore ha
ottenuto una sentenza di reintegra, possa optare in alternativa per chiedere
una somma pari a 15 mensilità che si aggiunge al risarcimento del danno tra
licenziamento e reintegra.
La L. 223/1991 disciplina i licenziamenti collettivi. La legge 604 non trovava
applicazione nei licenziamenti collettivi; nell’escludere i licenziamenti collettivi
se ne riconosceva implicitamente l’esistenza. I licenziamenti collettivi erano in
precedenza regolamentati da una serie di accordi interconfederali. Con la L.
223/1991 in attuazione di una Direttiva UE viene prevista una determinata
fattispecie con una determinata procedura. Il licenziamento collettivo viene
adottato per ragioni tecniche e organizzative e non ha nulla a che vedere con i
comportamenti del lavoratore.
Con il D. lgs. 29/1993 vengono privatizzati i pubblici impieghi e viene previsto
che si applichi la disciplina valida per il settore privato, salvo eccezioni
particolari (inizialmente l’unica eccezione è quella che lo Statuto dei Lavoratori
operi nella P.A. in tutti i rapporti di lavoro pubblico a prescindere dal numero di
dipendenti presenti nell’amministrazione).
Con la legge 183/2010 si inaugura un decennio molto rilevanti per la disciplina
dei licenziamenti. Tale legge è il cosiddetto collegato lavoro che introduce in
particolare un secondo termine di decadenza per l’impugnazione dei
licenziamenti. Una volta che il lavoratore riceve la lettera di licenziamento
deve impugnarla in via stragiudiziale entro 60 giorni; se non lo fa decade dalla
possibilità di far valere eventuali vizi del licenziamento. Tale legge introduce
anche un termine di decadenza giudiziale: il lavoratore, inviata la lettera di
impugnazione del licenziamento, deve fare ricorso al giudice entro i successivi
180 giorni. Il termine di 180 giorni non decorre dalla scadenza dei 60 giorni,
ma dal giorno del rinvio della lettera di impugnazione del licenziamento. Si
vuole così evitare che l’azione in giudizio venga procrastinata fino alla
scadenza del termine di prescrizione dell’azione di annullamento (5 anni). Se
viene fatto valere un vizio con riguardo alla nullità del licenziamento o
all’efficacia dello stesso, il termine è imprescrittibile. Non è previsto soltanto
un secondo termine; nei 180 giorni il lavoratore può ricorrere al giudice o
attivare un tentativo facoltativo di conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale
del Lavoro. Il datore di lavoro può non aderire al tentativo di conciliazione. In
caso di mancato accordo incomincia a decorrere un termine di decadenza di
60 giorni per il ricorso in giudizio.
Nel 2012 viene emanata la Legge Monti-Fornero che riforma in modo
sensibile l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Tale legge innova
profondamente rispetto al meccanismo sanzionatorio dell’articolo 18. Nel 2011
vi fu una lettera del direttore della BCE che sottolineava l’opportunità dell’Italia
di fornire maggiori certezze agli operatori giuridici per attrarre gli investitori
stranieri in Italia. Si sottolineava che la generale applicabilità fosse tale da
dissuadere gli investitori stranieri. Il Governo Monti era un governo tecnico
con un sostegno che rischiò di venir meno. Si ridusse così l’ambito di
applicazione della reintegra che era vista come un meccanismo
sostanzialmente residuale. Il testo predisposto dal Governo venne rivisto con
delle aggiunte tali per cui il nuovo articolo 18 finisce in alcuni passaggi per
generare notevoli dubbi in dottrina e giurisprudenza. L’articolo 18, nel testo
novellato dalla legge ‘92/2012, prevede quattro meccanismi sanzionatori da
applicarsi in base alla tipologia del vizio del licenziamento: due di tipo
reintegratorio e due di tipo meramente indennitario.
Nel 2014 si ha la riforma Renzi che si muove in modo ancor più deciso nel
perseguimento degli obiettivi fatti propri dalla riforma Monti-Fornero. Il D. Lgs.
23/2015 presenta un forte passaggio in termini di ulteriore riduzione
dell’ambito di applicazione della reintegra. Tale decreto non modifica l’articolo
18, ma ne riduce l’ambito di applicazione perché si applica ai licenziamenti
riguardanti i lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo del
2015. Distingue a tale fine tra imprese medio grandi e piccole. Il decreto
23/2015 riduce l’applicazione dell’articolo 18 man mano che vengono assunti
lavoratori dal 7 marzo del 2015 in poi. Tale decreto introduce meccanismi
sanzionatori diversi nell’ambito del licenziamento illegittimo; la reintegra
rimane ben più residuale rispetto alla riforma Monti-Fornero. La reintegra non
trova più applicabilità a fronte di licenziamenti viziati per ragioni oggettive. Il
meccanismo delineato dal Decreto 23/2015 nella sua versione iniziale
prevedeva un meccanismo indennitario calcolato in modo automatico: 2
mensilità per ogni anno di servizio da un minimo di 4 a un massimo di 24.
Con il Decreto Dignità del 2018 si incide sul minimo e sul massimo
dell’indennità, elevando il minimo da 4 a 6 mensilità e il massimo da 24 a 36
mensilità. La Corte Costituzionale interviene tra il 2018 e il 2021 con alcune
sentenze; la prima delle quali dichiara incostituzionale l’articolo 3 del decreto
23/2015 nella parte in cui determina l’importo dell’indennità risarcitoria dovuta
automaticamente sulla base della sola anzianità di servizio e ritiene infatti che,
trattandosi di risarcimento del danno, debba essere rimessa al giudice la
determinazione del danno, tenendo conto di una serie di elementi che non
possono fare riferimento alla sola anzianità di servizio. Tale
predeterminazione automatica dell'indennità dovuta salta andando così verso
una discrezionalità del giudice. L’anzianità di servizio è ancora un dato di
riferimento, ma non è l’unico. La Corte ha voluto rimarcare la funzione
risarcitoria togliendone la prevedibilità dell’importo, volendo accentuare la
funzione dissuasiva della sanzione.
Con l’emergenza pandemica il legislatore è intervenuto con una serie di
decreti volti a introdurre il cosiddetto blocco dei licenziamenti che è proseguito
per quasi due anni. Il legislatore ha previsto che i licenziamenti nelle piccole e
grandi imprese per ragioni oggettive andassero considerati nulli con
l’applicazione del meccanismo della reintegra, qualunque fosse il numero dei
dipendenti dell’azienda. Il blocco dei licenziamenti è stato accompagnato da
misure di sostegno alle imprese come la Cassa Integrazione Guadagni.
Dal punto di vista giuridico si è tornati adesso da una situazione di ordinarietà
e si ritorna ad applicare la normativa generale.

La forma del licenziamento

L’articolo 2 della legge 604/1966 dice che il licenziamento deve essere


adottato per iscritto con l’indicazione dei motivi. I motivi non vanno indicati nei
residui casi in cui opera l’art.2118 c.c., ma anche nei casi in cui il datore di
lavoro decide di recedere senza preavviso deve adottare il licenziamento per
giusta causa (quindi qui indicando i motivi). La comunicazione per iscritto va
data anche nel caso del licenziamento dei dirigenti per i quali la legge non
prevede una giusta causa (prevista solitamente dai contratti collettivi; in caso
vanno indicati per iscritto anche i motivi). In caso di mancato rispetto di tali
disposizioni il licenziamento è inefficace (vizi formali=inefficacia). Nei casi di
licenziamenti discriminatori o ritorsivi, il licenziamento è nullo. In caso di
mancanza dei presupposti necessari, il licenziamento è annullabile (vizi
sostanziali. Oltre ai requisiti formali, il legislatore, in alcune ipotesi richiede
anche il rispetto di una procedura (ipotesi del licenziamento per ragioni
disciplinari ai sensi dell’art.7 dello Statuto dei Lavoratori da seguire per tutti i
licenziamenti ontologicamente disciplinari). Altre procedure sono previste per i
licenziamenti per ragioni oggettive dall’art.7 della L. 604/1966; tale legge non
riguarda casi di licenziamento cui non trova applicazione l’articolo 18 dello
Statuto dei Lavoratori. L’art.7 della L.604, frutto di una novella del 2012,
prevede che il datore di lavoro, quando intende procedere ad un
licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo che comporta la
soppressione di un posto di lavoro, deve attivare una determinata procedura
che consiste in un tentativo preventivo di conciliazione; ciò solo nei casi in cui
il datore di lavoro voglia licenziare per ragioni oggettive, lavoratori tutelati
dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (lavoratori assunti prima il 7 marzo
2015 impiegati in unità produttive con più di 15 dipendenti o in aziende con più
di 60 dipendenti). Il datore di lavoro deve comunicare in forma scritta la
propria intenzione di licenziamento all’ Ispettorato del Lavoro competente nel
territorio e al lavoratore destinatario del futuro licenziamento. La direzione
territoriale del lavoro convoca le parti nei 7 giorni successivi al ricevimento
della comunicazione (termine perentorio) di fronte a una commissione di
conciliazione. Di fronte a tale commissione ha luogo il tentativo di
conciliazione in cui si svolge un negoziato non vincolante che si può
concludere con un accordo o senza un accordo. L’accordo può concludersi
con il ritiro del licenziamento, con l’individuazione di soluzioni alternative, con
l’aggiunta di un patto modificativo, con la rinuncia del lavoratore
all’impugnazione del licenziamento previo versamento di indennità (incentivo
all’esodo). La lettera di licenziamento verrà adottata al termine della
procedura che può durare massimo 20 giorni (termine non perentorio). Il
comportamento complessivo delle parti, desumibile dal verbale redatto dalla
commissione di conciliazione, potrebbe essere valutato dal giudice ai fini della
determinazione dell’indennità risarcitoria e delle spese legali. La procedura
disciplinare dell’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori va seguita in tutti i casi di
licenziamenti per ragioni oggettive dove trova applicazione l’art.18 dello
Statuto dei Lavoratori; negli altri casi il datore di lavoratore può trasmettere il
licenziamento direttamente al lavoratore. Tale procedura non si applica in ogni
caso al settore pubblico, in quanto l’articolo 18 non trova applicazione, ma
l’articolo 63 del Decreto 165/2001.

Ulteriore procedura è prevista nei casi di licenziamento collettivo. Il datore di


lavoro, secondo quanto previsto dalla L.223/1991, quando intende procedere
ad un licenziamento collettivo deve inviare una comunicazione alle RSA o
RSU e ai sindacati provinciali esterni che deve contenere una serie di
informazioni che sono espressamente indicate dall’art.4 della L.233/1991 ai
commi 2 e seguenti:
● numero dei lavori che si intende licenziare
● le qualifiche professionali che vengono considerate in esubero
● Le unità in cui si verificano gli esuberi
● Il numero dei dipendenti e i profili professionali dei dipendenti in quel
momento occupati nell’impresa
● Le ragioni che hanno portato il datore di lavoro che ci sia un certo
numero di dipendenti in esubero
● le misure alternative o di accompagnamento al licenziamento che il
datore di lavoro intende adottare o le ragioni per cui non sono previste
misure alternative al licenziamento
I sindacati e le RSA o RSU destinatari della comunicazione possono chiedere
al datore di lavoro, entro 7 giorni, che si svolga un esame congiunto . Tale
esame congiunto consiste in una trattativa che si deve svolgere entro 45
giorni, termine che si riduce alla metà nel caso il licenziamento riguardi meno
di 10 lavoratori (fase sindacale). Se non si raggiunge un accordo si passa a
un’altra fase dove vi è un soggetto pubblico a mediare nella speranza che si
possa raggiungere un accordo. In sede pubblica può essere più facilmente
esaminata la possibilità di favorire il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni
(il datore di lavoro non è obbligato a ricorrervi). L’accordo può prevedere delle
misure alternative (ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni, l’adibizione ad
altre mansioni attraverso un’attività formativa, trasferimento, distacco presso
altre imprese o di accompagnamento al licenziamento [previsione di incentivi
all’esodo (il sindacato non può assolutamente disporre del diritto del
lavoratore di rinunciare all’impugnazione, ma può pattuire delle somme in
caso di rinuncia a tale diritto), previsione di criteri di scelta dei lavoratori da
licenziare diversi da quelli previsti dalla legge (anzianità di servizio e carichi di
famiglia; a volte non è facile arrivare ad una scelta non censurabile in giudizio,
essendo tali criteri concorrenti tra loro; l’accordo che prevede diversi criteri di
scelta è un accordo gestionale con efficacia erga omnes; potrebbe essere
utilizzato il criterio della volontarietà, della vicinanza alla pensione). Il
legislatore ha anche previsto che, nel caso di accordo sindacale, si possano
sanare i vizi della procedura. Al termine della procedura si potrà procedere
con il licenziamento con il rispetto delle forme e l’indicazione dei motivi.

L’impugnazione del licenziamento


Una volta che il lavoratore riceve la lettera di licenziamento deve impugnarla
in via stragiudiziale tramite comunicazione scritta al datore di lavoro entro 60
giorni; se non lo fa decade dalla possibilità di far valere eventuali vizi del
licenziamento. Tale legge introduce anche un termine di decadenza giudiziale:
il lavoratore, inviata la lettera di impugnazione del licenziamento, deve fare
ricorso al giudice entro i successivi 180 giorni. Il termine di 180 giorni non
decorre dalla scadenza dei 60 giorni, ma dal giorno del rinvio della lettera di
impugnazione del licenziamento. Si vuole così evitare che l’azione in giudizio
venga procrastinata fino alla scadenza del termine di prescrizione dell’azione
di annullamento (5 anni). Se viene fatto valere un vizio con riguardo alla nullità
del licenziamento o all’efficacia dello stesso, il termine è imprescrittibile. Non è
previsto soltanto un secondo termine; nei 180 giorni il lavoratore può ricorrere
al giudice o attivare un tentativo facoltativo di conciliazione presso l’Ispettorato
Territoriale del Lavoro. Il datore di lavoro può non aderire al tentativo di
conciliazione. In caso di mancato accordo incomincia a decorrere un termine
di decadenza di 60 giorni per il ricorso in giudizio.

Le causali del licenziamento


Nel settore privato le causali del licenziamento sono quelle previste dal codice
civile e dalla legge 604/1966.
Nei casi residui non è richiesta alcuna giustificazione ed il licenziamento è
libero in particolare in riferimento a due casi:
1. Licenziamento per mancato superamento della prova (art.2096): la
clausola di prova dev’essere prevista per iscritto (forma scritta ad
substantiam) e stipulata prima dell’inizio del rapporto di lavoro. Il
licenziamento in prova è senza preavviso, ma non è per giusta causa.
Nel periodo di prova è consentita alle parti una facoltà di recesso molto
più agevole rispetto a quella definita dal rapporto definitivo. E’ sbagliato
affermare che il licenziamento per il mancato superamento della prova
sia un licenziamento ad nutum. La giustificazione deve essere data, pur
non essendo né la giusta causa né il giustificato motivo. La motivazione
e la giustificazione possono consistere semplicemente nel mancato
superamento della prova. Il mancato superamento della prova non
richiede una dimostrazione puntuale e stringente come quella
necessaria per una giusta causa o per un giustificato motivo. Il mancato
superamento della prova è a totale discrezione del datore del lavoro; vi
è una valutazione sulle capacità e sull’attitudine ad inserirsi
proficuamente nell’ambiente di lavoro. Il lavoratore può impugnare il
licenziamento sostenendo non tanto di avere le capacità lavorative (il
datore di lavoro potrebbe far leva sul mancato inserimento
nell’ambiente di lavoro), ma sostenendo che il licenziamento sia
discriminatorio o ritorsivo (licenziamento nullo con diritto alla reintegra)
oppure sostenendo che l’esperimento formante l’oggetto del patto di
prova non ci sia stato (il periodo è stato troppo breve per consentire al
datore di lavoro una valutazione adeguata o la prova è stata svolta su
mansioni diverse da quelle pattuite dal contratto; il giudice potrebbe
chiedere la ripetizione o prosecuzione della prova o il pagamento della
durata del periodo di prova). Anche nel settore pubblico la valutazione è
rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro.
2. L’articolo 2110 prevede che i lavoratori non possano essere licenziati
durante il periodo di comporto (casi di infortunio, malattia, gravidanza,
puerperio); i lavoratori e le lavoratrici si trovano il posto di lavoro
conservato per un determinato periodo determinato dalla contrattazione
collettiva nei casi di infortunio e malattia e dalla stessa legge nei casi di
gravidanza e puerperio; in tali casi non si è licenziabili se non per giusta
causa o per chiusura dell’azienda. I contratti collettivi prevedono dei
periodi di irrecedibilità del datore di lavoro per i lavoratori in malattia o in
infortunio. Il periodo di comporto riguarda sia il singolo episodio di
malattia, sia il caso di malattia interrotta da ripresa del lavoro. I contratti
collettivi prevedono tanto un periodo di comporto secco quanto un
periodo di comporto per sommatoria (si sommano le malattie nell’arco
di un certo periodo). Se, superato il periodo di comporto, il lavoratore
non torna al lavoro, egli è licenziabile per superamento del periodo di
comporto. Il lavoratore in malattia o in infortunio ha una tutela data dalla
garanzia della conservazione del posto di lavoro (deroga al principio di
corrispettività). Qualora emergesse che la malattia e l’infortunio sono
imputabili al datore di lavoro per violazione di norme in materia di
sicurezza, il posto di lavoro è conservato fino alla fine della guarigione,
almeno che il lavoratore risulti inidoneo alle mansioni (può intervenire il
repechage). Il licenziamento per superamento del periodo di comporto
richiede una motivazione contestuale che spieghi bene il superamento
del periodo di comporto indicando le giornate che portino al
superamento del periodo di comporto. Il licenziamento per superamento
del periodo di comporto è una fattispecie diversa sia rispetto al
licenziamento per ragioni oggettive, che per ragioni soggettive. I
contratti collettivi talora prevedono il diritto del lavoratore di chiedere e
ottenere alla fine del periodo di comporto un’aspettativa non retribuita
utile a conservare il posto di lavoro.
Tali fattispecie sono diverse da quelle del licenziamento per giusta causa o
per giustificato motivo oggettivo o soggettivo e del licenziamento collettivo.
Due di tali causali sono soggettive (giusta causa e giustificato motivo
soggettivo), mentre due sono per ragioni oggettive (giustificato motivo
oggettivo e licenziamento collettivo) Ragionamento diverso si deve fare per i
dirigenti.
I presupposti giustificativi del licenziamento si trovano in particolare nella
L.604/1966 in cui all’articolo 1 si afferma che nei rapporti di lavoro a tempo
indeterminato, il licenziamento non può che avvenire per giusta causa
(art.2118 c.c.) o per giustificato motivo, salvo per i residuali casi dove
rimane la possibilità di licenziamento ad nutum.
La giusta causa è quella indicata dall’articolo 2119 del codice civile: causa che
non consente la continuazione del rapporto neanche provvisoria. Questo è un
tipico caso di clausola generale. Il giustificato motivo è indicato al comma 3; il
licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato:
A. Da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (giustificato
motivo soggettivo; distinzione individuata dalla giurisprudenza)
B. Da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e
al regolare funzionamento di essa (giustificato motivo oggettivo).
Questo è il cuore della disciplina relativa ai licenziamenti individuali al di fuori
dei casi di licenziamento ad nutum, per mancato superamento della prova, per
superamento del periodo di comporto.
Accanto ai licenziamenti individuali sono configurabili i licenziamenti collettivi.
Vi è un’ulteriore criterio che distingue tra licenziamenti per ragioni oggettive e
per ragioni soggettive. I licenziamenti per ragioni soggettive sono sempre
licenziamenti individuali, anche se riguardano più lavoratori. Il licenziamento
collettivo è sempre per ragioni oggettive e diverge in gran parte dal
licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, in prevalenza per
una questione numerica.

Il licenziamento per ragioni soggettive


Mentre la giusta causa ha una formula indeterminata; il giustificato motivo
soggettivo ha una formula caratterizzata da determinatezza (notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali). Il problema più complesso riguarda
l’aggettivo qualificativo iniziale: notevole inadempimento. Se l’inadempimento
è meno che notevole, il datore di lavoro potrà applicare delle sanzioni
disciplinare conservativa. Se l’inadempimento è più che notevole ricorre la
giusta causa e si legittima un licenziamento senza preavviso. Vi è quindi un
principio di proporzione tra infrazione e sanzione che si ritrova all’articolo
2106 del Codice Civile.
La giusta causa costituisce un presupposto giustificativo che rispetto al
giustificato motivo soggettivo si riferisca a un valore quantitativo (maggiore
gravità inadempimento) o anche a un valore qualitativo (comportamenti diversi
da inadempimento)? La giurisprudenza ha univocamente affermato che la
differenza possa essere qualitativa. Nel caso di giusta causa o di giustificato
motivo soggettivo, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave
negazione degli elementi del rapporto di lavoro, in particolare dell’elemento
fiduciario. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo sono comportamenti
che fanno venir meno la fiduciarietà del rapporto. La negazione della fiducia
consente quindi il venir meno del rapporto di lavoro stesso. Quello di fiducia è
un concetto soggettivo. Quello di fiduciarietà è un concetto ormai pacifico nel
senso che quelle condotte devono essere tali da far venir meno la fiducia del
datore di lavoro, ma secondo quello che è un comune sentire: deve essere
normale che per qualunque datore di lavoro quelle condotte siano tali da far
venir meno la fiducia.
Le condotte estranee al rapporto possono far venir meno il rapporto fiduciario
e quindi integrare la giusta causa se vi è un nesso evidente tra il tipo di
condotta e il tipo di lavoro (dipendente deputato al maneggio di danaro che
compie un reato contro il patrimonio nei confronti di una persona estranea al
datore di lavoro). Il problema del datore di lavoro è l’accertamento del fatto;
nel momento in cui licenzia, il datore di lavoro si deve concentrare
sull’accertamento dei fatti. Nel settore pubblico è previsto che si possa avviare
la procedura disciplinare e che si possa sospendere il processo penale in
attesa della sentenza (il lavoratore per conservare il posto dovrebbe quindi
essere assolto per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste
perché il fatto potrebbe essere rilevante ai fini del lavoro fiduciario anche se
non costituisce reato). Il giustificato motivo soggettivo richiede invece una
condotta relativa all’adempimento.
Altri comportamenti che hanno portato a ritenere che ci fosse giusta causa di
licenziamento sono quelli relativi alle clausole di correttezza e buona fede,
l’obbligo di fedeltà, l’abuso dei propri diritti. Il diritto di critica ad esempio è
proprio del lavoratore, ma se si abusa di tale diritto (affermando ad esempio
che il proprio datore è un mafioso quando in realtà non lo è) si può avere
giusta causa di licenziamento. Altro esempio è quello dell’abuso del diritto alla
malattia quando si presentano certificati falsi (è molto difficile dimostrare la
falsità dei certificati) o il caso in cui il lavoratore durante la malattia svolge
delle attività antitetiche rispetto alle ragioni della malattia stessa; vi è l’obbligo
di non pregiudicare la guarigione l’inadempimento del quale costituisce giusta
causa di licenziamento. Altro esempio è quello dei lavoratori che godono dei
permessi concessi dalla 104 per consentire l’assistenza di familiari con
problemi di salute; il lavoratore, durante tali permessi, ha l’obbligo di assistere
il familiare o di svolgere attività utili alla persona che ha bisogno di assistenza;
se il lavoratore abusa o froda l’uso del permesso si integra anche qui giusta
causa; il diritto comporta l’obbligo di fare ciò per cui si ha avuto il permesso.
Altro esempio è quello del sindacalista che abusa del diritto ad avere
permessi sindacali che può essere anch’esso licenziato per giusta causa.
Il datore di lavoro, il lavoratore che si trovi irrogato il licenziamento poi e infine
il giudice si trovano ad adottare dei comportamenti e a giudicare la decisione
adottata dal datore di lavoro. La decisione sulla ricorrenza del giustificato
motivo soggettivo o della giusta causa è tutt’altro che traumatica: se il datore
di lavoro licenzia per giusta causa e il giudice riconosce il licenziamento
legittimo senza giusta causa, ma con giustificato motivo soggettivo il giudice
condannerà semplicemente il datore di lavoro al pagamento dell’indennità di
mancato preavviso; se invece il licenziamento viene considerato illegittimo o
ingiustificato il discorso è diverso. Un’assenza ingiustificata dal lavoro per tre
giorni è giusta causa, giustificato motivo o legittima semplicemente una
sanzione conservativa? L’insulto reso dal lavoratore nei confronti di un
collega, un superiore o del datore di lavoro legittima il licenziamento oppure
no? E’ sbagliato rispondere aprioristicamente con un si o con un no. Bisogna
guardare innanzitutto le previsioni della contrattazione collettiva che individua
una serie di casi nei quali si prevedono le varie cause di licenziamento per
giusta causa, per giustificato motivo soggettivo, di sanzioni disciplinari. Il
contratto collettivo fa un’indicazione tassativa o esemplificativa? Quanto sono
vincolanti le previsioni dei contratti collettivi? Le nozioni di giusta causa e di
giustificato motivo soggettivo, sia pur molto generica la prima, indubbiamente
sono nozioni legali; il giudice può ritenere che la previsione del contratto
collettivo sia troppo sproporzionata all’infrazione, egli può decidere
liberamente la sanzione, venendo la sanzione riconosciuta come peggiorativa
rispetto alla legge. Il legislatore ha provato con la legge 18372010 a risolvere
il problema dicendo che nel valutare le motivazioni poste a base del
licenziamento il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di
giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati
maggiormente rappresentativi. La giurisprudenza di gran lunga prevalente si
attiene solitamente a quanto previsto dai contratti collettivi. Le previsioni dei
contratti collettivi contengono un’esemplificazione, non un’indicazione
tassativa. Anche i contratti collettivi spesso concedono una valutazione
fortemente discrezionale al giudice, perché spesso anch’essi contengono
clausole di natura generale. Spesso lo stesso comportamento può rilevare
diversamente a seconda del contesto. Le parti sociali nei Contratti Nazionali
difficilmente riescono a raggiungere un accordo su determinate condotte e a
volte risultano particolarmente indulgenti.
Nel settore pubblico, il legislatore ha cercato di fare qualcosa in più.
Tradizionalmente nel settore pubblico, il contratto collettivo era ancor più
generoso; con la Riforma Brunetta del 2009, perfezionata dalla Riforma Madia
del 2017, all’articolo 55-quater del D. Lgs. 165/2001 ha previsto una serie di
casi nei quali ricorre la sanzione disciplinare del licenziamento; in presenza di
tali condotte, il dirigente deve segnalare all’UPD per poter cominciare il
procedimento disciplinare; in tali casi la legge è inderogabile in via assoluta; si
vuole ridurre drasticamente la discrezionalità del giudice anche se, nei fatti,
non si può azzerare del tutto. Quando il legislatore dice molto rischia di creare
dei dubbi interpretativi. Il legislatore è voluto intervenire nel settore pubblico
per ridurre la discrezionalità del giudice e della contrattazione collettive; ciò
non è avvenuto nel privato dove il ruolo del giudice è particolarmente
importante. Per stabilire la presenza di giusta causa bisogna tener conto di
elementi sia oggettivi che soggettivi. Nel caso dei danni; se il comportamento
è colposo bisogna guardare all’entità del danno, mentre se il comportamento
è doloso ciò che conta è il comportamento in se.

Il licenziamento dei dirigenti


Per legge, il licenziamento del dirigente è libero, ad nutum. La L. 604/1966 si
limita a chiedere la forma scritta. Tuttavia i contratti collettivi dei dirigenti
prevedono nella maggioranza dei casi che il licenziamento del dirigente debba
essere motivato e giustificato utilizzando la nozione di giustificatezza che è
differente da quella di giustificato motivo. E’ evidente che il dirigente ha un
rapporto fiduciario più forte col datore di lavoro e quindi la giusta causa
consente licenziamento senza preavviso. Se non vi è giusta causa può
ricorrere la giustificatezza di cui la giurisprudenza ha affermato che non
coincida con giustificato motivo oggettivo o soggettivo, ma si assomigli. Se il
licenziamento è giustificato, ma senza giusta causa, è dovuta l’indennità di
mancato preavviso che corrisponde alle retribuzioni dovute del preavviso fino
a un massimo di 12 mesi (preavviso più significativo). Laddove è richiesta la
giustificatezza, se essa manca, al dirigente è dovuta un’indennità
supplementare a quella di mancato preavviso che varia da un minimo a un
massimo che cambia a seconda del contratto collettivo, a seconda
dell’anzianità di servizio e dell’età anagrafica, con una forbice molto
importante che viene colmata dal giudice. Il giudice valuta il comportamento
delle parti, la rilevanza dell’addebito etc.
Vi sono ancora alcuni casi in cui il licenziamento del dirigente è libero come
quello del dirigente in agricoltura e dei direttori generali delle compagnie
assicurative che abbiano più di 10 dirigenti. Al dirigente si applica la reintegra
solo in un caso: quando il licenziamento viene adottato per ragioni
discriminatorie o per un motivo illecito unico e determinante.

Il licenziamento per ragioni oggettive


I licenziamenti per ragioni oggettivi possono essere di 2 tipi: licenziamenti
individuali per giustificato motivo oggettivo o licenziamenti collettivi per
riduzione di personale.
Il giustificato motivo oggettivo è previsto dall’articolo 3 della L.604/1966: per
giustificato motivo oggettivo si intende per ragioni inerenti all’attività
produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento. E’
superfluo andare a tentare di ricostruire un significato distinto tra queste 3
ragioni, ma è di gran lunga più funzionale individuare 2 tipologie di giustificato
motivo oggettivo:
1. il giustificato motivo oggettivo che consiste nella soppressione di un
posto di lavoro (licenziamento per riduzione di personale) che diverge
dal licenziamento collettivo per un mero valore numerico. Tale tipo di
giustificato motivo ha origine nella necessità di soppressione di posti di
lavoro, che però è entro un certo limite di numero. Se il licenziamento è
collettivo va seguita la procedura che coinvolge i sindacati, mentre se il
licenziamento è di giustificato motivo oggettivo bisogna seguire la
procedura prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Se si
prende in considerazione il gmo del primo tipo dal punto di vista della
causale, ossia del presupposto giustificativo, non vi è alcuna differenza
rispetto al licenziamento collettivo disciplinato dalla L. 223/1991.
L’articolo 24 di tale legge afferma che ricorre licenziamento collettivo
quando il datore di lavoro ha intenzione di licenziare almeno 5 lavoratori
nell’arco di 120 giorni, nell’ambito della provincia e quando il datore di
lavoro occupa più di 15 dipendenti. I licenziamenti collettivi devono
essere adottati per riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. La
differenza non è ontologica, ma meramente numerica (4 licenziamenti
per soppressione del posto e uno per giusta causa nell’arco di 120
giorni non sono licenziamento collettivo, ma un licenziamento plurimo
per giustificato motivo oggettivo e uno per giusta causa). La L.223/1991
fa inoltre riferimento all’intenzione del datore di lavoro; la Corte di
Giustizia UE in riferimento alla direttiva di cui la L. 223/1991 è
attuazione, ha espresso che è sufficiente che l’intenzione di licenziare
sia manifestata dal datore di lavoro. Si considerano quindi ai fini del
licenziamento collettivo anche i dirigenti. Il licenziamento collettivo può
avvenire anche nel caso che l’impresa abbia fatto ricorso alla Cassa
Integrazione Guadagni [che può essere straordinaria e ordinaria:
quella ordinaria è concessa dall’INPS ed è dovuta a situazioni
temporanee di mercato non imputabili al datore di lavoro o ai
dipendenti; quella straordinaria è concessa dal Ministero del Lavoro nei
casi di ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione dell'azienda o
in casi di crisi settoriali di rilevanza sociale. La Cassa integrazione
guadagni è una cassa che eroga denaro a sostegno del posto di lavoro
del lavoratore che ha quindi un posto di lavoro sospeso o un orario di
lavoro ridotto (vedi libro)]. La Cassa Integrazione straordinaria è quindi
uno strumento con cui il datore di lavoro può comunque prospettare un
programma di ripresa. Il legislatore è consapevole che alla fine della
cassa integrazione il datore di lavoro potrebbe ritrovarsi nella situazione
dell’articolo 4 comma 1 della L.223/1991, ossia nella situazione
oggettiva dell’impossibilità di rioccupare a pieno regime i dipendenti
collocati in cassa integrazione (L'impresa che sia stata ammessa al
trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di
attuazione del programma di cui all'articolo 1 ritenga di non essere in
grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter
ricorrere a misure alternative, ha facoltà di avviare la procedura di
licenziamento collettivo ai sensi del presente articolo). Dal punto di vista
della scelta dei lavoratori, vi sono dei criteri di scelta nel caso di
licenziamento collettivo.
Nel caso del gmo cosa deve dimostrare il datore di lavoro? In primo
luogo deve dimostrare l’esistenza della ragione addotta nella
comunicazione data al lavoratore per l’attivazione della procedura di
licenziamento. Per soppressione del posto non s’intende che vengano
meno le mansioni svolte da quel lavoratore; quelle mansioni potrebbero
essere semplicemente redistribuite. Il datore di lavoro deve inoltre
dimostrare il nesso di causalità tra la ragione addotta e il licenziamento:
bisognerà quindi dimostrare che la riduzione di quell’attività,impatta
sull’attività svolta dal lavoratore. Terza dimostrazione è quella
dell’impossibilità del repechage del lavoratore in altre mansioni
nell’ambito dell’impresa e ciò induce la dottrina a parlare di
licenziamento per gmo quale extrema ratio: il datore di lavoro deve
quindi dimostrare che non fa altre assunzione. Se il datore di lavoro
effettuasse nuove assunzione dovrebbe offrire innanzitutto il posto di
lavoro al licenziando. Il datore di lavoro è obbligato quindi a offrire un
posto di livello identico o inferiore a quello di provenienza che sia
compatibile con la professionalità del lavoratore. Mentre il repechage
del lavoratore non più idoneo alle mansioni per ragioni di lavoro richiede
prove più stringenti attinenti al tentativo di riorganizzazione, per il
licenziamento per ragioni oggettivo è sufficiente dimostrare che il datore
di lavoro non ha effettuato altre assunzioni. L’esigenza che legittima il
datore di lavoro a sopprimere il posto dev’essere un’esigenza stabile e
potenzialmente definitiva. La giurisprudenza tende a non entrare sulla
ragione addotta, mentre la prova del repechage è molto rigorosa: il
repechage dev’essere tentato anche in un’unità produttiva diversa da
quella in cui lavorava il lavoratore licenziato. In aziende di dimensioni
notevoli è quasi impossibile che non ci siano altri posti disponibili.
Bisogna inoltre provare la correttezza della scelta del licenziamento; la
giurisprudenza delle volte utilizza in maniera analogica i criteri di scelta
previsti per il licenziamento collettivo, ma delle volte preferisce far
riferimento alle clausole di correttezza e buonafede; vi possono essere
dei criteri oggettivi che sono corretti se coerenti con le esigenze
produttive (come se ad esempio si licenzia il lavoratore che non sa
l’inglese). Quindi anche nel licenziamento per gto, il datore di lavoro non
è libero nella scelta del lavoratore da licenziare. Può il giudice sindacare
sulla scelta del datore di lavoro di licenziare per esigenze di riduzione di
personale? La giurisprudenza ha sempre negato la possibilità del
giudice di valutare tale scelta e la Cassazione nel 2016, con una
sentenza resa con il contributo informale di tutti i giudici della sezione
lavoro, ha accolto un orientamento pressoché consolidando
riaffermando la tesi prevalente. La giurisprudenza si astiene quindi dal
valutare le scelte organizzative di tale tipo. L’azienda non deve
aspettare di essere in crisi o in difficoltà economiche. Ciò che conta è
che vi sia una modifica organizzativa che porti alla soppressione del
posto.
Il licenziamento per gmo per ragioni di soppressione del personale ha la
stessa causale del licenziamento collettivo. Nel caso di licenziamento
collettivo, non si può individuare il medesimo tipo di controllo. Nel caso
di licenziamento collettivo vi è la procedura sindacale. Il giudice quando
viene a sindacare sulla liceità del licenziamento collettivo controlla il
rispetto della procedura e il rispetto dei criteri di scelta pur essendo tale
controllo meno stringente di quello per il licenziamento per gmo
individuale.
Un filone importante della giurisprudenza riteneva che il licenziamento
da un’impresa per aumentare i profitti dovesse ritenersi ingiustificato. La
Cassazione ha optato per un’altra soluzione che va a guardare
l’effettività dei motivi addotti.
2. Il giustificato motivo oggettivo del secondo tipo fa invece riferimento a
quei casi di vicende che riguardano la persona del lavoratore
oggettivamente considerata, ma non le condotte del lavoratore. Il caso
classico è quello dell’inidoneità sopravvenuta del lavoratore alle
mansioni o al lavoro in assoluto; non viene qui in rilievo la condotta del
lavoratore, ma il fatto che il lavoratore sia diventato inidoneo a quelle
mansioni al lavoro in generale. Qualora emerga una situazione di tale
tipo si deve necessariamente passare attraverso un referto di un
medico, soprattutto di quello competente in materia di sicurezza. Il
medico competente può accertare attraverso una visita periodica che
deve essere fatta una volta l’anno e dopo un’assenza superiore a 60
giorni per verificare l’idoneità al lavoro del lavoratore per prevenire
infortuni, malattie professionali o altre vicende potenzialmente lesive
della salute. Il medico competente potrebbe accertare l’idoneità,
l’assoluta inidoneità al lavoro o l’idoneità al lavoro, ma con prescrizioni.
Se emergesse che con quelle prescrizioni il lavoratore non è utilizzabile
nelle sue mansioni il lavoratore può essere adibito a mansioni diverse
anche a livello inferiore con una riorganizzazione non eccessivamente
gravosa per il datore di lavoro (come lo scambio di ruoli tra due
lavoratori) o può essere licenziato per inidoneità al lavoro. Il referto del
medico competente è impugnabile entro 30 giorno dinanzi allo speciale
collegio medico costituito dall’ASL competente.E’ pur vero che il
collegio medico dell’ASL non sempre ha la conoscenza delle mansioni
svolte dal lavoratore che ha il medico competente aziendale. Il giudice
dovrà valutare la correttezza del referto attraverso una consulenza
tecnica d’ufficio (ctu). Dal punto di vista concettuale questo è
l’esempio classico di giustificato motivo oggettivo per fatti inerenti la
persona del lavoratore oggettivamente considerata. Non hanno
nessuna rilevanza le ragioni del sopravvenienza dell’inidoneità, salvo
che l’inidoneità sia avvenuta per infortuni o malattie professionali
imputabili al datore di lavoro ai fini della richiesta del risarcimento danni.
Altro esempio è quello della carcerazione del lavoratore o la sua messa
ai domiciliari; il lavoratore si trova, al di là dei motivi del fermo (che
possono rilevare se incidono sul rapporto fiduciario come nel caso di
reati contro il patrimonio di un lavoratore adibito al maneggio di danaro),
oggettivamente impossibilitato a svolgere la prestazione lavorativa. Il
giustificato motivo oggettivo non è automatico, ma sussiste quando
l’assenza del lavoratore si protrae per un certo tempo in modo da
compromettere l’organizzazione produttiva. Se il lavoratore in carcere
viene assolto con formula piena, egli ha diritto alla reintegra, ma il
pagamento delle mensilità perse non spetta al datore di lavoro, bensì
allo Stato. Inoltre il giudice di sorveglianza può permettere al lavoratore
di svolgere la prestazione lavorativa con il consenso del datore del
lavore. Ulteriore esempio è quello del lavoratore a cui vengono ritirate
eventuali patenti, licenze o autorizzazione eventualmente necessarie
per svolgere la prestazione: anche in questo caso il giustificato motivo
oggettivo si produce quando vi è un significativo impatto
sull’organizzazione. Tale tipologia di licenziamenti per giustificato
motivo oggettivo non ha quindi nulla a che vedere con l’esubero di
personale.

Le finalità perseguite possono rilevare solo nel caso di motivo illecito. Il


licenziamento è annullabile quando non vi è giusta causa o giustificato motivo.
Inefficace quando non vi è la forma scritta. Nullo quando discriminatorio o per
motivo illecito. Il motivo illecito per comportare la nullità di un atto deve essere
unico e determinante. Nel caso del licenziamento discriminatorio, tale atto è
nullo anche se il motivo non è unico e determinante. Non è vero che l’illiceità
del motivo sia omogenea rispetto all’illiceità.; tali fattispecie differiscono anche
dal punto di vista probatorio: nel caso della discriminazione esistono degli
indici, a partire dalla prova statistica, che possono essere utilizzati dai giudici
tanto che a quel punto s’inverte l’onere della prova. Discriminatorietà non è
quindi sinonimo d’illiceità. Le ragioni di discriminazione vietata sono
espressamente indicate dal legislatore e la giurisprudenza si è consolidata nel
ritenere tali indicazioni come tassative.
La giustificatezza prevista per i dirigenti può emergere sia sul versante
oggettivo che soggettivo, ma pur assomigliandosi, non è assimilabile al gm
oggettivo e soggettivo. Per il dirigente non è richiesta la prova del repechage.
Il datore di lavoro può offrire un posto e stipulare un patto modificativo in
peius.

Le tecniche sanzionatorie
La L.604/1966 prevede un meccanismo sanzionatorio che si applica ai
lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 Marzo 2015 nelle unità
produttive nelle quali non si applica l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
La Legge 604 distingue 3 meccanismi sanzionatori:
1. In caso di licenziamento nullo si applica comunque la tutela dell’art.18
L.300/1970.
2. In caso di licenziamento inefficace (intimato non in forma scritta o senza
notificazione) si applica la tutela reintegratoria di diritto comune: l’atto
inefficace non produce effetti e quindi tamquam non esset. Il rapporto si
ricostituisce sulla base delle norme civilistiche ordinarie. Il lavoratore
non può quindi richiedere il versamento di fino a 15 mensilità in
sostituzione della reintegra.
3. In caso di licenziamento annullabile, privo quindi di giusta causa o di
giustificato motivo è parificabile anche al caso di vizio procedurale (non
è stata seguita la procedura disciplinare adatta). Il vizio procedurale è
paragonabile a quello sostanziale. In tali casi è dovuto un versamento di
mensilità. Se l’azienda è sotto i 15 dipendenti, l’indennità massima può
arrivare anche a 15 mensilità. Il giudice determinerà l’indennità avuto
riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni
dell’impresa, all’anzianità di servizio del lavoratore, al comportamento e
alle condizioni delle parti. Quando risulti accertato che non ricorrono gli
estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il
datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il
termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli
un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo
di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al
numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa,
all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle
condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può
essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con
anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di
lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di
lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro (art.8 L.604/1966).
Il datore di lavoro è tenuto ad assumere il lavoratore o, in mancanza,
risarcire il danno; la giurisprudenza ha però precisato che la scelta tra
indennità riassunzione spetta al lavoratore; il datore di lavoro potrebbe
sì offrire la riassunzione al lavoratore per non pagare l’indennità, ma
egli potrebbe rifiutare la riassunzione e pretendere comunque
l’indennità. La riassunzione (ex nunc) non è una reintegra (ex tunc). La
Corte Costituzionale più volte ha dichiarato costituzionalmente legittima
tale norma che diversifica il trattamento rispetto alle imprese medio
grandi per la maggiore fiduciarietà del rapporto nelle piccole imprese e
l'esigenza di non gravare di oneri economici eccessivi il piccolo
imprenditore datore di lavoro.

Il discorso è molto più complicato per l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Nel suo testo iniziale prevedeva il risarcimento del danno commisurato alle
retribuzioni perse dal giorno del licenziamento a quello della reintegra
(contributi previdenziali comprese) da cui doveva essere detratto quanto il
lavoratore avesse maturato a seguito di altre attività lavorative svolta in
sostituzione più la reintegra a fronte di qualunque vizio del licenziamento. In
alternativa alla reintegra, nel 1990, veniva prevista a scelta del lavoratore una
indennità fino a 15 mensilità in aggiunta al risarcimento. Il lavoratore può
optare per le 15 mensilità entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito
della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio. Una volta
che il datore di lavoro abbia incitato il lavoratore a prendere servizio, il
rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non riprende servizio entro
30 giorni. Finché il datore di lavoro non invita il lavoratore a riprendere
servizio, il lavoratore…. Il nuovo testo dell’articolo 18 novellato dalla Riforma
Fornero (che ha introdotto inoltre il cosiddetto rito fornero che è un nuovo rito
sommario che si chiude con un’ordinanza per rendere più celere il processo;
sempre a tale finalità sono stati inoltre introdotti termini di decadenza) prevede
4 meccanismi sanzionatori diversi:
1. Reintegra con risarcimento pieno. Tale meccanismo sanzionatorio
opera nei casi di licenziamento orale e nei casi di nullità del
licenziamento. Sono quindi i casi più gravi.
2. Reintegra con risarcimento limitato nel massimo di 12 mensilità (IV
comma art. 18). Nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo o
per giusta causa opera tale sanzione quando non sussista il fatto
contestato oppure quando il fatto rientri tra le condotte punibili con una
sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o
di codici disciplinari applicabili. Si ha quindi reintegra quando il fatto
contestato non sussiste o non è disciplinarmente rilevante o quando è
punito dai contratti collettivi o dai codici disciplinari con una sanzione
conservativa. Spesso le stesse previsioni dei contratti collettivi sono
generiche e si da in questo modo ampia discrezionalità al giudice. I casi
previsti dal contratto collettivo sono esemplificativi e non tassativi.
Il giudice applica tale reintegra con risarcimento limitato nei casi in cui vi
siano vizi di giustificazione del licenziamento intimato per superamento
del comporto o per inidoneità psicofisica del lavoratore . Il giudice può
altresì applicare tale disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta
insussistenza del fatto posto a base del gmo; ciò era previsto dal VII
comma prima di una sentenza della Corte Costituzionale (sentenza
59/2021): tale sentenza condanna qui l’ampia discrezionalità data al
giudice (può altresì applicare diventa applica altresì). La manifesta
insussistenza si ha per la giurisprudenza quando non sussistono 3 dei 4
requisiti del licenziamento per gmo elencati in precedenza (non viene
considerato manifesta insussistenza il mancato dei rispetto dei criteri di
scelta) . Negli altri casi ricorre il risarcimento indennitario. Ciò parrebbe
dimostrare che la reintegra non è sempre possibile per il gmo perché
nei casi in cui l’insussistenza del licenziamento non si manifesta si
dovrebbe applicare la sanzione risarcitoria per mera indennità.
3. Quando non opera la reintegra, il giudice dichiara risolto il datore di
lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità
risarcitoria da 12 a 24 mensilità. Se manca la giusta causa o il
giustificato motivo soggettivo non opera necessariamente la reintegra
perché il giudice dovrà valutare se applicarla o applicare la reintegra. La
violazione degli obblighi procedurale porta all’indennità. Se vi è
violazione della procedura sindacale potrebbe agire il sindacato e il
giudice potrebbe ricorrere ex articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori; un
ricorso collettivo per vizio della procedura potrebbe quindi portare di
conseguenza all’annullamento del licenziamento.
4. Il comma VI dell’articolo 18 prevede un’indennità risarcitoria tra 6 e 12
mensilità. L’articolo 18 comma VI prevede tale meccanismo
sanzionatorio nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace
per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2 comma 2
L. 604/1966, della procedura di cui all’articolo 7 della L.604/1966. Il
comma VI fa riferimento a un licenziamento inefficace che di per sé non
dovrebbe produrre effetti. Il legislatore ha distolto le categorie
giuridiche. Se l’atto è inefficace per vizio di motivazione nelle piccole
imprese l’atto non produce effetti ai sensi della L.604/1966, mentre nelle
grandi si avrebbe diritto a una mera tutela risarcitoria. Se la procedura è
omessa o viziata ed emerge anche che il licenziamento è illegittimo,
non opera il rimedio più lieve, ma la tecnica sanzionatoria applicabile
per il vizio maggiore. Sui vizi della procedura disciplinare la
giurisprudenza non è ancora del tutto coerente.
La Cassazione afferma che un vizio della procedura che riguardi l’ omessa
contestazione o un suo ritardo forte è parificato a un vizio sostanziale e quindi
vi è l’indennità tra 12 e 24 mensilità. Ciò appare incoerente perché se si
omette la procedura è come se il fatto contestato non sussistesse perché per
l’appunto non vi è contestazione.
Con il decreto legislativo 23/2015 si riducono le tutele in materia di
licenziamenti. L’obiettivo di tale decreto era quello di dare quelle maggiori
certezze alle parti che la riforma Monti Fornero non era riuscita a dare.
L’articolo 2 afferma che si ha reintegra con risarcimento pieno nei casi di
licenziamento orale e licenziamento nullo come nei commi da 1 a 3
dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori riformato. Il meccanismo
reintegratorio con risarcimento pieno è quindi praticamente ricondotto agli
stessi casi dell’articolo 18 più le ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di
giustificazione consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
L’articolo 3 comma II afferma che esclusivamente nelle ipotesi di
licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia
direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale
contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione
circa la sproporzione del licenziamento (quello che conta è che sussista il fatto
contestato a prescindere dall’elemento soggettivo; la Cassazione elude ciò
sostenendo che il fatto in sé non possa essere valutato a prescindere
dall’elemento soggettivo quali dolo, colpa o colpa grave. Viene escluso inoltre
il principio di proporzionalità), il giudice annulla il licenziamento e condanna il
datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al
pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al
periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione,
dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività
lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua
offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la
misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia
di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il
datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi
previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello
dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione
contributiva. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all'articolo 2, comma 3.
Quindi viene escluso il caso in cui il contratto collettivo prevedesse una
sanzione conservativa per quella sanzione. Non si potrebbe prospettare un
caso di frode alla legge nel caso in cui un licenziamento per gmo non abbia
effettivamente gmo, ma in realtà abbia una ragione disciplinare? Un negozio
in frode alla legge è nullo. E ciò sarebbe assimilabile alla manifesta
insussistenza, anzi sarebbe ancora più forte di essa. Laddove non opera la
reintegra è prevista un’indennità risarcitoria inizialmente tra un minimo di 4 e
un massimo di 24 mensilità da calcolare in modo automatico (2 mensilità per
ogni anno di servizio). Il decreto dignità ha innalzato il minimo e il massimo
passando a un’indennità da 6 e 36. Si è parlato a riguardo di contratto a tutele
crescenti (rubrica del decreto 23/2015) perché l’indennità era inizialmente
destinata a crescere con il crescere dell’indennità di servizio e ciò riduceva il
contenzioso. La Corte Costituzionale è intervenuta con una sentenza di natura
ordinamentale perché esprime principi fondamentali in materia di diritto del
lavoro (sentenza 194/2018). Tale sentenza è stata criticata perché troppo
invasiva o perché troppo molle.La Corte non ha accolto l’eccezione di
incostituzionalità per la disparità di trattamento tra assunti prima e dopo 7
marzo 2015 (la legge aveva equiparato anche i lavoratori a termine e gli
apprendisti assunti prima del 7 marzo 2015 ai quali è stato stabilizzato il
rapporto di lavoro) affermando che tale disparità si giustifica per la
conservazione delle tutele offerte dall’articolo 18. Fu sollevata inoltre
questione di contrasto con la direttiva europea sui licenziamenti collettivi che
fu comunque respinta. La reintegra è un meccanismo costituzionalmente
necessario? La Corte ha ribadito un principio più volte espresso escludendo
tale necessità, affermando però la necessità di una tutela significativa. La
Corte Costituzionale ha affermato l’illegittimità del meccanismo automatico di
determinazione dell’indennità dicendo che l’indennità risarcitoria è in realtà
risarcimento del danno. La Corte ridà al giudice discrezionalità nel stabilire il
risarcimento. I criteri dati al giudice sono indicati nella motivazione che sono
quelli dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dell’articolo 8 della 604:
anzianità di servizio, dimensioni dell’impresa, comportamento delle parti. La
giurisprudenza guarda ancora all’anzianità di servizio, ma considera anche
l’infondatezza del licenziamento.
L’articolo 4 del D.Lgs. 23/2015 dice che nel caso di vizi formali e procedurali vi
è un’indennità risarcitoria da 2 a 12 mensilità avendo come parametro sempre
l’anzianità di servizio (la Corte Costituzionale ha dichiarato anche questa parte
incostituzionale). L’articolo 9 afferma che l’importo dell’indennità è dimezzato
per le piccole imprese e non può superare le 6 mensilità. E’ stata sollevata
questione di incostituzionalità dell’articolo 9 per esiguità della tutela. Tale
gamma di meccanismi sanzionatori è complessa.
L’articolo 63 del Decreto 165/2001 nel testo novellato dalla Riforma Madia del
2017 prevede nel settore pubblico la reintegra con risarcimento per qualunque
vizio. Il risarcimento ha un massimo di 24 mensilità. Non vi è l’opzione per le
15 mensilità perché si tratta di danaro pubblico.

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