Il legislatore del 1942 è stato impreciso nel definire il concetto di contratto: muovendo dalla premesso
che l’art. 1321 e l’art. 1325 disciplinano la medesima fattispecie indicandone ciascuno i requisiti necessari
e sufficienti, e considerando che i requisiti necessari e sufficienti di un fatto definiscono il fatto
medesimo, si può concludere che le definizioni date rispettivamente dall’art. 1321 e 1325 sono in
sostanza identiche e che, quindi, uno dei due articoli è superfluo.
L’art. 1321 identifica il contratto con un unico elemento: l’accordo; e l’accordo verte sulla costituzione, il
regolamento o la estinzione di un rapporto patrimoniale.
Il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto
giuridico patrimoniale
L’art. 1325 ridefinisce il contratto elencandone 4 elementi costituenti, fra cui l’accordo e la causa.
I requisiti del contratto sono: 1) l'accordo delle parti; 2) la causa; 3) l'oggetto; 4) la forma, quando
risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità
L’art. 1325 è un articolo inesatto, perché, pur affermando l’esistenza di 4 requisiti validi per tutti i
contratti, in realtà non disciplina l’ipotesi del CONTRATTO UNILATERALE (che non presuppone un
accordo).
→ CONCLUSIONE: o il contratto unilaterale non è un contratto o il 1325 elenca dei requisiti validi solo
per il contratto sinallagmatico o bilaterale → il Sacco propende per la seconda ipotesi.
La definizione comune di contratto è poi criticabile anche dal punto di vista di:
ACCORDO:
Non sempre il contratto si articola su due dichiarazioni. Se per accordo si intende l’incontro di due
o più dichiarazioni, il testo di legge è impreciso.
Alcune volte, infatti, si parla di contratto in presenza di una sola dichiarazione ex 1333 (proposta);
altre volte si parta di contratto in assenza totale di dichiarazione (contratti di fatto).
→ L’accordo comunemente concepito come incontro di dichiarazioni NON è un requisito generico
di tutti i contratti.
CAUSA:
Esistono i contratti astratti, cioè validi indipendentemente dall’esistenza della causa
FORMA:
Non tutti i contratti sono formali
OGGETTO:
Le prestazioni sorgenti da un contratti (ex 1321) devono essere rivolte alla costituzione,
regolamentazione o estinzione di un rapporto giuridico patrimoniale.
→ In realtà il vincolo al rispetto di tale ambito (cd patrimonialità del rapporto giuridico) NON esiste.
Infatti si parla di contratti con cui si dispone del proprio corpo (ex art 5) e ciò in chiara contraddizione
con l’art. 1325.
ESEMPIO. Confrontiamo con la definizione del contratto l’accordo, in virtù del quale taluno dichiara e
promette ad altri che accetta di tollerare alcunché. L’atto permissivo non formale con cui si promette la
tolleranza non vincola il permittente, che potrà ritrattare il consenso quando vorrà (mancano dunque
gli effetti caratteristici del contratto). Tuttavia, finché il permesso non sia revocato, la tolleranza inciderà
su determinati rapporti (es. Se il proprietario consente ad altri di attraversare il fondo, l’ingerenza
tollerata non si considera lesiva della proprietà). Si deve dire quindi che la permissione regola,
modificandolo, il rapporto giuridico intercorrente fra il proprietario e la persona facoltizzata. Abbiamo
così un accordo, avente ad oggetto il regolamento di rapporti patrimoniali, produttivo di effetti, MA
tuttavia improduttivo degli effetti caratteristici del contratto (la tolleranza sarà revocabile a piacere).
Quindi l’accordo di tolleranza non è un contratto e si riduce ad uno schema diverso, cioè quello del
consenso dell’avente diritto. Se però le parti si proponevano di raggiungere soltanto gli effetti del
consenso revocabile, allora abbiamo una coincidenza perfetta tra effetti del consenso dell’avente diritto
ed effetti caratteristici del contratto → l’accordo di tolleranza coinciderebbe con la figura del contratto
di quando in quando.
b) FUNZIONE
Dal cc si deduce che deve considerarsi contratto SOLO l’atto giuridico che in presenza dei requisiti ex
1325 persegue lo scopo (ex art 1321) di regolare rapporti giuridici patrimoniali → se stanno così le cose,
tutti gli altri atti giuridici non sono contratti.
MA esistono contratti unilaterali (senza accordo), contratti nulli (con causa illecita), contratti di fatto,
contratti che producono effetti extrapatrimoniali (art. 5) → forme di contratti che non rispettano la
funzione astrattamente imposta dalla legge ai contratti.
c) VALIDITA’
Poiché dal cc si deduce che è nullo il contratto privo dei suoi requisiti essenziali ex art 1325, e poiché si
è dimostrato che molti sono i contratti che rendono superflua, ai fini della loro esistenza, la rigorosa
applicazione del 1325, il legislatore ha ancora una volta peccato di imprecisione.
→ Per definire nullo un contratto va analizzato il caso specifico e l’eventualità che non si possano
produrre gli effetti caratteristici di quel negozio a causa della mancanza dei requisiti tipici di quel
contratto.
CONCLUSIONI
Per mettere ordine in questa imprecisa regolamentazione della materia, il Sacco propone di stabilire
una regola, per poi specificarla ricorrendo ad eccezioni.
La regola definirebbe il contratto sinallagmatico tradizionale, fondato su un accordo-scambio di
dichiarazioni, che persegue lo scopo di costituire rapporti giuridici patrimoniali, con una causa, e
capace di produrre i suoi effetti.
Le eccezioni sarebbero le seguenti:
- Eventuale unilateralità del contratto senza accordo-scambio, fondato su un’esecuzione
eventuale
- Eventuale effetto modificativo o estintivo del rapporto giuridico patrimoniale
- Eventuale non patrimonialità
- Eventuale assenza di causa
- Eventuale nullità o annullabilità
Le fonti del diritto italiano dei contratti sono le normali fonti del diritto in vigore in Italia. Troveremo
quindi norme comunitarie (trattati e regolamenti) e norme nazionali (costituzione, norme ordinarie,
norme sublegali).
Norme di origine comunitaria:
- Regole sulla pubblicità scorretta → legge 223/1990, d.m. 425/1991, d.lgs. 74/1992, d.lgs. 67/2000
- Regole sui contratti conclusi fuori dei locali commerciali del contraente forte → d.l. 50/1992
- Regole sulle clausole abusive → legge 52/1996
- Regole sulla protezione dei consumatori nei contratti a distanza → d.lgs. 185/1999
- Regole sulla garanzia prestata dal venditore di beni di consumo → dir. CE 99/44, d.lgs. 24/2002
- Regole sul commercio elettronico → dir. CE 2000/31
Norme nazionali:
- Costituzione
- Codice civile
- Leggi in tema di concorrenza → legge 287/1990
- Leggi in tema di strumenti informatici e telematici → d.p.r. 513/1997
- Leggi in tema di protezione del consumatore e dell’utente → legge 281/1998
Il rapporto contrattuale ha vocazione a stabilirsi sia fra persone vicine sia fra persone lontane → il
contratto avrà quindi bisogno di una regola applicabile a parti agganciate ad ordinamenti diversi. Si
occuperà di queste ipotesi il diritto internazionale privato.
Dominano anche le norme convenzionali uniformi, come la convenzione di Vienna sulla vendita
internazionale di cose mobili.
Contratti sinallagmatici
Contratti reali (lo scambio di dichiarazioni è lo scambio di atti di esecuzione)
Contratti con effetti reali (contratti che esigono un ulteriore accordo esecutivo che si fonde e
si sovrappone alla promessa)
Donazioni formali
La bilateralità non si riscontra in tutti gli altri casi:
Ciò che distingue il contratto dal negozio unilaterale è la possibilità o meno di rifiutare gli effetti
positivi che sono la conseguenza di un sacrificio patrimoniale unilaterale.
L’art. 1987 presenta le promesse unilaterali come tipiche: i soli tipi regolati dalla legge sono poi i titoli
di credito e la promessa al pubblico.
Secondo la dottrina, le promesse non accettate non producono effetto; eccezionalmente, le promesse
al pubblico producono effetto senza accettazione.
Secondo il Sacco, il legislatore e la dottrina sono caduti in un errore di classificazione, quando hanno
affermato la tipicità delle promesse unilaterali obbligatorie ↓
L’art. 1333 eleva a contratto la proposta che mira ad imporre obbligazioni al solo proponente. Questa
proposta, dato il suo effetto vincolante, e dato il suo carattere unilaterale, è senz’altro una promessa
individualizzata, ammessa con i consueti limiti dipendenti dal duplice requisito della causa lecita, e
del potere di rifiuto del destinatario. La proposta può essere, per espressa disposizione di legge,
individualizzata, o rivolta al pubblico ex art 1336.
Ipotizziamo ora una proposta del tipo di cui all’art. 1333, rivolta al pubblico. Gli artt. 1333 e 1336 ne
garantiscono l’efficacia e l’autosufficienza. Una tale proposta null’altro è se non la promessa al
pubblico, di cui all’art. 1989 → l’art. 1989 è una ripetizione dei risultati cui si perverrebbe in forza del
combinato disposto degli artt. 1333 e 1336.
Così come l’art. 1333 assegna efficacia alla promessa individualizzata, l’art. 1336 estende questa
efficacia alla promessa al pubblico.
Differenze fra il regolamento della promessa individualizzata e quello della promessa al pubblico:
La promessa al pubblico sembra essere valida solo se rivolta a favore di “chi si trovi in una
determinata situazione o compia una determinata azione” (→ restrizione dell’autonomia del
promittente)
La promessa al pubblico sembra essere svincolata dal requisito della causa non liberale, che
deve invece sussistere perché la promessa individualizzata non solenne o non accettata
produca effetto
La promessa al pubblico non sembra essere paralizzabile dal rifiuto, a differenza della
promessa individualizzata
La revoca della promessa al pubblico sembra soggiacere a regole peculiari
Secondo Sacco tali differenze sono solo apparenti → il requisito della promessa, per cui essa deve
essere rivolta a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione,
costituisce semplicemente il modo per escludere ogni efficacia della promessa al pubblico fondata su
causa meramente capricciosa.
→ la limitazione apparentemente soggettiva, di cui all’art. 1989, coincide nel caso normale con una
limitazione tendente ad escludere l’efficacia della promessa se manca un interesse serio del
promittente o un’altra causa diversa dalla liberale, che giustifichi la promessa medesima.
A prima vista, la promessa al pubblico differisce dalla proposta dell’art. 1333 perché, a differenza di
questa, non può essere rifiutata dal beneficiario → Secondo Sacco questa differenza è soltanto
apparente → se il quisque de populo, beneficiario di una promessa rivolta al pubblico, non intende
profittare del vantaggio che gli è attribuito, di fatto otterrà il risultato voluto non rivelandosi. Ma, se
per avventura venisse emesso un vero e proprio rifiuto, secondo Sacco non dovrebbe essere ritenuto
inefficace.
Analogamente Sacco esclude che la revoca della promessa al pubblico segua regole diverse dalla
revoca della promessa individuale → secondo l’art. 1333 la promessa individuale è irrevocabile non
appena perfetta in virtù della recezione o conoscenza. Secondo l’art. 1989 l’irrevocabilità dipende
dalla perfezione della promessa, consistente nell’essere quest’ultima rega al pubblico (simmetria
evidente). L’art. 1990 ammette una revoca per giusta causa della promessa unilaterale. Secondo Sacco
la norma contenuta in questo articolo esiste ed è nota anche fuori dal campo delle promesse al
pubblico. L’art. 1990, autorizzando la revoca per giusta causa, e così esprimendo una regola tanto
elastica quanto è elastica l’idea di giusta causa, ha predisposto l’applicabilità delle norme sulla revoca,
sul recesso, sul venir meno dell’interesse, sull’eccessiva onerosità, sul difetto sopravvenuto di causa,
quali sono contenute nelle norme sui singoli contratti tipici nelle norme sui contratti in genere.
→ Secondo Sacco l’art. 1333 dispensa dall’accettazione nei casi in cui non vi è presumibilmente
motivo di credere che l’acquisto nuoccia all’oblato.
Se già sussiste il consenso dell’acquirente all’appropriazione, o se sussiste un interesse precostituito
e tipico dell’oblato all’appropriazione, gli argomenti più convincenti sono a favore dell’efficacia
traslativa reale della procedura di cui all’art. 1333.
CAPITOLO 2 – CONSENSO, SILENZIO E DICHIARAZIONE TACITA
Le cosiddette dichiarazioni tacite in genere
Il significato di dichiarazione tacita si identifica di regola con il comportamento concludente, ossia il
compimento di atti di esecuzione che palesano una volontà di accettazione che equivale ad una
dichiarazione espressa.
Altre volte, la dichiarazione tacita si identifica con il silenzio, ma ciò avviene solo:
Nei casi previsti dalla legge
Quando si attribuisce al silenzio il valoro di accettazione, sulla base di un accordo precedente
tra le parti
È pacifico che nessuno può unilateralmente attribuire un significato particolare al silenzio altrui.
La manifestazione del consenso è tale in relazione al risultato, cui essa tende, di rendere
conoscibile l’intento del soggetto
Non si può prestabilire quale comportamento umano abbia intrinsecamente le qualità adatte
a tale scopo
Tanto una condotta positiva come una condotta negativa può servire, a seconda delle
circostanze, a rendere noto il consenso del soggetto
Il silenzio, secondo la dottrina, produrrebbe l’effetto di una dichiarazione in quanto è dichiarazione
ogni comportamento che di fatto sia idoneo a manifestare, e il silenzio circostanziato sarebbe, per la
sua rilevanza sociale, ideo a tal fine.
Il Sacco fa notare che il contratto si conclude con il silenzio solo nei casi stabiliti dalla legge → il
silenzio è rilevante solo quando la legge obbliga la controparte a parlare e questa non ha parlato →
il valore del silenzio dipende da una scelta convenzionale del legislatore.
QUINDI: il legislatore ha adottato due criteri di conclusione del contratto:
(1) Criterio fondato sullo scambio di dichiarazioni proposta-accettazione
(2) Criterio fondato su una fattispecie più semplice, perfezionata dalla sola proposta che
produce i suoi effetti a meno che la controparte non la rifiuti → SOLO in questo caso il
silenzio ha una certa rilevanza giuridica
La giurisprudenza
Una massa imponente di sentenze ribadisce il principio fondamentale secondo cui il silenzio, da solo,
non vale consenso; salve le singole eccezioni alla regola, ravvisabili allorché chi tace poteva e doveva
parlare.
Secondo la giurisprudenza, l’obbligo di parlare è desumibile da:
Legge
Consuetudini, usi, uso comune
Contratto precedente fra le parti
Sistema invalso tra le parti, che si desume dai particolari rapporti intercorsi precedentemente
fra di esse
Speciale correttezza e buona fede dei rapporti tra le parti
Il silenzio come comportamento omissivo non ha, per sua natura, il valoro di dichiarazione / di
consenso.
Però, in molti casi, il contratto si conclude per effetto del silenzio, cioè senza bisogno del consenso
dell’una e dell’altra parte.
Legge e contratto possono semplificare la fattispecie contrattuale, eliminando il requisito del
consenso dell’una o dell’altra parte.
Gli usi, estranei al sistema delle nostre fonti se non sono richiamati dalla legge, possono
sancite regole analoghe, che si introducono nell’ordinamento attraverso la valvola dei
richiami alla buona fede.
L’effetto risolutorio del silenzio non può attribuirsi semplicemente al comportamento corrispondente
all’esecuzione bilaterale del cd consenso contrario.
Fuori dal caso in cui il consenso della parte non è necessario, e fuori dal caso della tolleranza, il
silenzio viene sempre in considerazione come circostanza complementare o costitutiva di un
comportamento positivo concludente
La parte aveva il potere di parlare e impedire la formazione della fattispecie tacita. Se la controparte
le ha impedito con la minaccia di parlare, la controparte ha commesso un illecito, la cui riparazione
in natura implica la rimozione degli effetti del silenzio → in modo generale, bisogna dire che non solo
le dichiarazione, ma anche le mancate dichiarazioni con cui si conclude un contratto, possono essere
viziate.
Il silenzio si presenta come violazione di un obbligo, o di un onere posto nell’interesse della
controparte, gli effetti del medesimo si imporranno senz’altra alternativa al soggetto reticente; ma
la controparte sarà libera di far valere, o meno, la mancata ottemperanza al precetto.
Solo in presenza di una norma giuridica che, in considerazione di peculiari circostanze di fatto,
semplifichi la fattispecie contrattuale riconducendola allo schema della proposta non seguita da
rifiuto (ex 1333), è possibile concepire il silenzio come manifestazione tacita capace di esprimere
un consenso.
CAPITOLO 3 – LA CONCLUSIONE MEDIANTE L’INIZIO DELL’ESECUZIONE
L’art. 1327 e il sistema
L’art. 1327 dà luogo esclusivamente a problemi di ordine sistematico, ossia di come deve essere
inquadrato un atto generale di esecuzione nel quadro del negozio giuridico.
Il principio elaborato dalla dottrina tedesca (Manigk) secondo cui l’accettazione di una proposta può
manifestarsi anche sotto forma di comportamento concludente è ormai un fatto acquisito da dottrina
e giurisprudenza (grazie a Betti). La volontà così manifestata prende il nome di comportamento di
attuazione.
Il problema è il seguente: che rapporto esiste tra l’inizio di esecuzione e il suddetto comportamento
di attuazione? ↓
Dottrina → la fattispecie di cui all’art. 1327 va ricompresa nella categoria più generale del
comportamento di attuazione. La dottrina tradizionalista vuole legge nell’iniziata esecuzione
la manifestazione della volontà di produrre gli effetti del contratto. La dottrina innovatrice
nega l’esistenza di una manifestazione, ma ricorre pur sempre all’idea di
un’autoregolamentazione, di una cosciente presa di posizione munita di un significato
socialmente univoco e riconoscibile.
Giurisprudenza → conferma l’assunto della dottrina
Sacco sostiene che il fatto di equiparare, a priori, ogni inizio di esecuzione ad una forma di
accettazione per fatto concludente sminuisce la portata sistematica dell’art. 1327. La soluzione
dottrinale e giurisprudenziale attribuisce a colui che inizia un’esecuzione, oltre la volontà di
adempiere, anche la volontà di assumersi responsabilità e garanzie; e ciò è inaccettabile poiché un
atto di esecuzione, di per sé considerato, deve significare solo volontà di adempiere.
La conclusione del Sacco è la seguente: l’iniziata esecuzione non è in grado da sola né di impegnare,
né di chiarire in che cosa consista l’esecuzione integrale. Occorre un’altra fonte che individui il
contenuto della prestazione da eseguire ed un ulteriore fonte (legale o negoziale) che trasformi
l’esecuzione spontanea in esecuzione dovuta e quindi collegata a rischi e responsabilità. Se alla base
di un’iniziata esecuzione non esiste un’ulteriore fonte (legge, proposta, ecc), l’atto deve
considerarsi fine a se stesso: non è una promessa, non è un’obbligazione per il futuro.
Esistono norme, anche fuori dal campo del contratto, che attribuiscono all’inizio dell’attività la virtù
di obbligare a completare l’attività medesima con diligenza, e stabiliscono nel contempo quale sia la
misura, colmata la quale l’attività possa dirsi ultimata. Si tratta delle norme sulla gestione dell’affare
altrui: l’ingerenza nella sfera altrui, legalmente lecita allorché l’interessato non possa provvedervi da
se stesso, deve condursi, se iniziata, finché l’interessato non possa provvedere o finché l’affare non
sia esaurito. L’obbligo imposto al gestore trova il suo fondamento nella legge.
Una ratio analoga è intervenuta nel caso dell’art. 1327. Laddove la legge non provvede direttamente,
può provvedere la proposta dell’art. 1327. Se taluno autorizza un’ingerenza con certe salvaguardie e
contropartite, la legge può far sua la lex privata del soggetto dell’autorizzazione, e legare l’uno
all’altro il fatto dell’ingerenza e l’obbligo di prestazione la contropartita. Può cioè sostituire
all’impostazione extracontrattuale l’impostazione contrattuale.
L’art. 1327 viene quindi a prevede una fattispecie complessa, che consta di:
Una dichiarazione negoziale del proponente, con cui egli impegna se stesso e predispone
un regolamento a carico dell’oblato
Un ingresso dell’oblato nella sfera del proponente, conformato in modo tale da rientrare
nelle ipotesi contemplate nella proposta.
A questa fattispecie, la legge conferisce la qualifica di contratto.
Non qualsiasi prezzo imposto dall’offerente dà luogo agli effetti dell’art. 1327
Natura del contratto e volontà del proponente vengono ad assumente funzioni solo parzialmente
coincidenti:
Quando manchi la proposta di cui all’art. 1327, la tutela legale di chi esegue una prestazione non
dovuta è limitata, in via di principio, ai rimedi quasi contrattuali:
Ripetizione dell’indebito
Restituzione dell’arricchimento senza causa
La sanzione legale a carico di chi si appropri di beni altrui è limitata, sempre in via di principio, ai
rimedi extracontrattuali:
Risarcimento del danno
Restituzione di frutti
Ragioni:
Una prestazione attuata senza previo accordo non vale ad individuare in che debbano
consistere gli obblighi di chi presta, nonché della controparte
Una volta ricevuta la prestazione, il destinatario di essa rischia di eseguire una
controprestazione più onerosa di quanto non sia stato il suo arricchimento
La tutela legale di chi esegue una prestazione non preceduta da alcuna proposta è, di regola,
limitata ai rimedi extra-contrattuali (ripetizione dell’indebito e arricchimento senza causa).
→ La regola comunque non esclude alcune eccezioni, cd CONTRATTI DI FATTO. Essi sono:
1) MEDIAZIONE
Nel caso della mediazione, un soggetto (mediatore) svolge un’attività cui altri profitta, e gli usi
tipizzano il compenso in una percentuale sull’oggetto di quell’attività. Il legislatore riconnette alla
prestazione dell’attività il diritto al compenso, e considera contrattuale la fattispecie.
Che il contratto di mediazione non risponda allo schema consensualistico e bilateralistico degli altri
contratti è evidente.
La fonte che attribuisce alla fattispecie in esame effetti contrattuali sono gli usi, che rendono
superflue la trattativa. Gli usi definiscono i seguenti principi:
Gli effetti dell’esecuzione possono essere paralizzati dal dissenso manifestato dall’uno o
dall’altra parte prima del verificarsi del risultato (se il cliente ha fatto sapere che non
riconoscerà l’opera dei mediatori; o se il mediatore ha dichiarato di voler operare per amicizia)
L’esecuzione vincola tanto il mediatore (che assume la responsabilità dell’art. 1759) quanto il
cliente
L’esecuzione equipara il silenzio delle parti a consenso
A queste 4 fattispecie la legge ricollega effetti contrattuali e forme di tutela di natura contrattuale.
Il contratto di fatto è quindi un contratto, per l’esistenza del quale occorre un consenso di tipo
speciale. Il consenso, la volontà della parte, deve esistere, certo. Ma qui si tratta del consenso alla
(propria o altrui) prestazione, e non del consenso negoziale alla nascita di una propria obbligazione.
I fatti concludenti
Laddove sono di scena l’art. 1327 e il contratto di fatto, l’attuazione della prestazione e l’esercizio del
diritto bastano per concludere il contratto medesimo.
Questa attuazione del rapporto giuridico non è l’unica fattispecie costitutiva del contratto, diversa da
una dichiarazione. La dottrina e la tradizione sanno ciò, e lo dicono apertamente quando parlano di
contratto concluso mediante una manifestazione di volontà, o mediante fatti concludenti.
Questi fatti non dichiarativi (manifestazioni, comportamenti concludenti) possono certamente
bastare alla conclusione del contratto, finché la norma non imponga un’altra soluzione (ad esempio
prescrivendo per la conclusione del contratto una forma particolare).
La riduzione del contratto alla volontà lascia subito capire che la volontà contrattuale, comunque
risulti, è giuridicamente idonea a produrre effetto.
Fatto concludente
Esso abbraccia qualsiasi condotta umana, da cui sia dato inferire, al lume delle massime di
esperienza, che l’operatore intende costituire il vincolo contrattuale, o intende attuare il vincolo
concepito come contrattuale, così assoggettandosi ai relativi sacrifici.
Il fatto concludente per eccellenza è l’attuazione stessa della prestazione o l’esercizio del diritto
nascente dal contratto.
Quando questa attuazione e questo esercizio non integrano la fattispecie dell’art. 1327, e non
danno vita ad un vero contratto di fatto, essi sono comunque fatti concludenti nei quali è insita la
manifestazione della volontà contrattuale.
Accanto a questi fatti di attuazione, troviamo poi tutta la serie di fatti concludenti non attuativi.
Esempio. Tizio e Caio hanno messo per iscritto la vendita di una bicicletta. Tizio propone a Caio, a
mezzo di Sempronio suo nuncio, la risoluzione. Caio, per accettare, gli rimette la propria copia del
contratto fatta a pezzi. L’accanimento contro il mezzo di prova o di memorizzazione è un fatto
concludente.
Esempio. Può essere un fatto concludente la predisposizione della dichiarazione. Tizio, invitato a farlo,
invia a Caio la dichiarazione che Caio sottoscriverà e poi rinvierà a Tizio affinché quest’ultimo firmi.
Esempio. Può essere un fatto concludente la preparazione dell’attuazione. Così, se il cliente
dell’albergo, alle 9 di mattina, si ordina il pranzo in camera, egli rinnova indirettamente il contratto
relativo alla camera.
Esempio. Può essere fatto concludente una manifestazione di sentimento. Di fronte alla proposta di
Tizio, Caio risponde con grida di gioia e ringraziamento.
Quando l’accettante dichiara, la dichiarazione (rivolta al proponente) non è completa se non giunge
al suo destinatario. Se l’accettante attua il rapporto, o se tiene comportamenti concludenti,
l’attuazione o il fatto concludente non implicano l’indirizzamento di un messaggio alla controparte.
Le regole sul consenso contrattuale si applicano senza difficoltà al contratto concluso mediante
automatico.
L’art. 1433 disciplina un’unica ipotesi → il caso in cui la dichiarazione è stata inesattamente
trasmessa dalla persona o dall’ufficio che ne era stato incaricato. Restano quindi escluse le
ipotesi in cui:
La dichiarazione non sia stata emessa (dichiarante apparente) e non sia stato affidato
nessuno incarico di trasmissione
La dichiarazione si stata regolarmente emessa, il dichiarante abbia consegnato la proposta
ad un fiduciario affinché quest’ultimo ordinasse ad un terzo di trasmetterla al destinatario,
ed il terzo abbia riferito che la proposta proveniva dal fiduciario
Il dichiarante abbia agito in stato di incoscienza, o involontariamente, o senza sapere che il
suo comportamento sarebbe stato interpretato come dichiarazione
⇒ L’ambito di applicazione dell’art. 1433 appare limitato all’errore del trasmittente. In realtà il cc
non parla di errore, ma di inesattezza nella trasmissione → il legislatore avrà voluto far rientrare
nel concetto di inesattezza anche l’ipotesi del dolo del trasmittente, oppure ha usato il termine
inesattezza come sinonimo di errore?
La giurisprudenza ha di regola negato l’interpretazione estensiva del termine inesattezza,
motivando nel senso che appare più congruo, nei casi di dolo, ricorrere al rimedio della querela
di falso. Il Sacco non approva tale conclusione per due motivi: (1) la querela di falso è un rimedio
consentito esclusivamente per i documenti falsi (che fare nel caso di dichiarazione orale falsa?);
(2) la querela di falso non è mai stata un rimedio tipico delle ipotesi di dolo.
o Se alla base dell’inesattezza della trasmissione sta un incarico diverso da quello per cui è stato
commesso l’errore, se cioè l’incaricato ha trasmesso una dichiarazione che in realtà doveva
solo custodire, il dichiarante potrà ricorrere al 1433 per dichiarare inefficace la sua
dichiarazione?
La risposta è NO, anche se non si nega l’eccessivo rigore che incombe sul dichiarante. Tale
soluzione apre però una lacuna, perché non appare giusto che il dichiarante corra tutti i rischi
delle alterazioni operate dall’incaricato, e sia invece esonerato da ogni rischio conseguente alla
spedizione (effettuata da un terzo non incaricato) di una dichiarazione, da lui redatta, sottoscritta,
e imprudentemente abbandonata sulla propria scrivania. La lacuna potrebbe colmarsi
ammettendo che l’incarico conferito al terzo costituisca soltanto una delle fonti di imputazione
della dichiarazione; e che, accanto ad esso, anche qualsiasi altro fatto colposo dell’uomo, il quale
si trovi in un rapporto di causa ed effetto con la recezione di una dichiarazione, sia sufficiente per
creare la dichiarazione efficace.
o Il dichiarante che ha conferito l’incarico di trasmettere una dichiarazione in cui contenuto è
viziato non per sua colpa (es errore della segretaria che riceve la dettatura) è vincolato dalla
dichiarazione medesima?
In altre parole, può egli eccepire l’inefficacia della dichiarazione erroneamente formatasi non per
sua colpa e validamente trasmessa?
La risposta è NO: anche in questo caso prevale la tutela dell’affidamento del destinatario. Il fatto
dell’incarico conferito a terze persone perché trasmettano la dichiarazione contrattuale giustifica
politicamente, e determina giuridicamente, l’imputazione della dichiarazione al soggetto che ha
conferito l’incarico.
Premesso che la fase della trasmissione è necessaria (è un requisito intrinseco e naturale della
dichiarazione), si conclude che il dichiarante è vincolato alla sua dichiarazione (emessa esattamente
ma trasmessa erroneamente) non sulla base della regola convenzionale della tutela
dell’affidamento, bensì sulla base della regola secondo cui la dichiarazione non si intende
perfezionata nel momento della sua emissione, MA nel momento della sua recezione (che
presuppone una trasmissione).
Colui che è chiamato a svolgere un ruolo decisivo nel rendere certa, e quindi capace di produrre
effetti, una dichiarazione è il terzo o intermediario.
Taluni giudici hanno riconosciuto l’efficacia della dichiarazione completata dal terzo, senza che
questi divenga parte, a condizione che all’atto della conclusione del contratto l’intermediario palesi
la sua posizione di semplice terzo.
La Corte di cassazione ha adottato, nel 1964, un criterio di decisione secondo cui laddove l’offerente
rilasci un’ordinazione scritta, con nome dell’oblato in bianco, nel mani di un terzo intermediario
autonomo, e questi lo trasmetta a persona di sua scelta, che accetta, il CONTRATTO E’ CONCLUSO
FRA OFFERENTE E ACCETTANTE.
Oggi si deve affermare che persone diverse dalle parti possono contribuire a creare una
dichiarazione senza rivelare la propria identità, senza effettuare la spendita del nome
dell’interessato, operando direttamente sulla dichiarazione.
La dichiarazione apparente
In teoria, siccome la dichiarazione non esiste, il “non atto” non può produrre effetto. In pratica, però,
è necessario bilanciare gli interessi derivanti da una dichiarazione apparente e soprattutto tutelare
gli interessi del soggetto che ha confidato in buona fede nell’esistenza dell’atto apparente.
La tutela del soggetto in buona fede può essere ricostruita:
1) Secondo la lettera della legge, art. 1433
→ una tutela condotta sul 1433 risulterebbe poco proficua: infatti solo il conferimento
dell’incarico di cui all’art. 1433 potrebbe sanare la divergenza tra apparenza e realtà,
consentendo ad una dichiarazione apparente di produrre gli stessi effetti di una
dichiarazione reale. In mancanza di un incarico il 1433 non può essere invocato e il
soggetto che ha confidato nell’apparenza rimane privo di tutela
2) Secondo analogia
→ la soluzione più adeguata rimane il ricorso all’analogia con il principio
giurisprudenziale della tutela dell’affidamento.
Oggi la materia dell’apparenza e dell’affidamento risulta regolata da norme giurisprudenziali.
La legge prevede una serie di numerosissime ipotesi tipiche, di ambito relativamente ristretto, in cui
l’affidamento è tutelato (es acquisto dal non titolare, ricevimento dell’indebito, pagamento al non
creditore).
Qualora, fuori dalle ipotesi ora accennate, si verifichi un ulteriore bisogno di sicurezza dinamica del
diritto, la giurisprudenza ricorre direttamente al cd PRINCIPIO GENERALE DI APPARENZA, secondo cui
↓
Un soggetto, che crea per fatto proprio (per propria colpa) un’apparenza giuridica a sé favorevole,
non può poi opporre il vero stato di fatto e di diritto, difforme dall’apparenza, al terzo che abbia
confidato senza colpa nell’apparenza ingannevole.
Nell’accingersi alla redazione del nuovo codice, il nostro legislatore ampliò la protezione dei terzi,
introducendo nuovi apparati di pubblicità (es registro delle imprese)
La massima giurisprudenziale si trova applicata in materia di:
- Società apparente
- Poteri rappresentativi apparenti
- Titolarità apparente di una gestione aziendale
- Provvedimenti della pubblica autorità, apparentemente validi
NB Quanto detto non dimostra che la dichiarazione apparente produca l’identico effetto della
dichiarazione vera, o che, in genere, essa sia sottoposta al trattamento dell’art. 1433. Nel campo delle
situazioni apparenti valgono infatti regole peculiari:
Se colui che ha operato sotto falsa identità è in grado di influire sulla vicenda di rapporto giuridico
che costituisce lo scopo e l’oggetto dell’atto, la falsa paternità della dichiarazione, in via di
principio, non impedisce alla controparte di far valere gli effetti del negozio.
Se il vero dichiarante è legittimato all’atto di disposizione, il contratto, secondo il Sacco, può essere
fatto valere dalla controparte, e produce i suoi effetti a prescindere dal fatto che il dichiarante
apparente difetti di legittimazione (es Tizio trasferisce fittiziamente il bene a Caio, e poi aliena a
Sempronio sotto falso nome di Caio).
In via di massima, il dichiarante apparente rimane estraneo alle negoziazioni fatte a suo nome.
NB Quando l’uso di generalità false costituisce la fattispecie di cui all’art. 494 cp, il delitto rende nullo
l’atto civilistico.
Diverse ipotesi in cui il dichiarante apparente può o non può influenzare o subire personalmente gli
effetti del contratto concluso:
- Lo influenza quando l’effetto del contratto è obbligatorio. Il terzo contraente può considerare
il falsificatore come parte reale del contratto, utilizzando il dichiarante apparente
semplicemente come demonstratio dell’esistenza del negozio.
Esempio. Tizio, sotto false generalità di Caio, promette di dare una somma. È chiaro
che la prestazione promessa è una prestazione di Caio. La promessa di Tizio è
inefficace.
- Il contratto sarà valido nei confronti del dichiarante apparente solo quando il terzo contraente
è in buona fede e il falsificatore è in colpa al momento della stipulazione
- Quando la paternità apparente non soddisfa i requisiti imposti dalla legge il contratto è
invalido.
Telex, telefax, fax a mezzo computer, posta elettronica, e il problema della provenienza
La tecnologia recente ha fatto nasce:
- Il telegramma e il telex → scritture prodotte a distanza mediante l’uso di una tastiera
- Il telefax → riproduzione a distanza di un facsimile, ottenuto utilizzando la rete telefonica e i
terminali facsimili
- Il fax a mezzo computer
- La posta elettronica
Queste modalità della comunicazione fanno nascere una serie di problemi, tra cui: se un messaggio
così formato e trasmesso sia una dichiarazione
Il codice, in ragione della sua data, si è potuto occupare del solo telegramma.
Singoli atti normativi di origine convenzionale uniforme si sono occupati di questo o quel modo di
documentazione → Convenzione di New York 1958, resa esecutiva in Italia con la legge 62/1968
(equipara parzialmente telegramma e lettera)
Nel diritto interno si notano:
Il d.P.R. 735/1963
Gli artt. 251 e 260 d.P.R. 156/1973 (codice postale)
La legge 183/1993 sulla trasmissione di atti relativi a procedure giudiziarie
Il d.l. 185/1999, cd contratti a distanza, derivato dalla direttiva 97/7 CE, prevede una speciale tutela
del consumatore allorché il contratto (avente ad oggetto beni o servizi) impiega, come tecnica di
comunicazione:
- Stampanti (con o senza indirizzo)
- Lettere circolari
- Pubblicità stampa con buono d’ordine
- Cataloghi
- Telefono con o senza operatore
- Radio
- Videotelefono
- Teletext
- Posta elettronica
- Fax
- Televisore
Il caso del telex e dei telefax presenta due differenze rispetto al telegramma:
a. Manca l’intermediazione obbligata di un terzo non interessato, incaricato della trasmissione
del messaggio
b. Non è facile pensare ad un’alterazione del messaggio fra l’emissione e l’arrivo
Il problema posto da queste tecniche sta tutto nella difficoltà di individuarne il mittente.
Telex e telefax recano l’indicazione dell’apparecchio mittente; e questo apparecchio ha un
proprietario, un possessore, un detentore, e dunque ha un custode, che ne sarà responsabile.
Senonché chi ricorre a questi procedimenti può facilmente cancellare o anche alterare l’indicazione
dell’apparecchio mittente.
Fuori dal caso in cui la dichiarazione sia autenticata, la chiave accerta la provenienza dal tale
apparecchio. Il discorso da fare sul telex o sul fax riguarda il messaggio trasmesso da un apparecchio
che sia identificato.
La dichiarazione per telex o per telefax si contrappone dunque:
- Alla dichiarazione verbale resa (alla controparte o al notaio) in modo che il destinatario della
parola individui la persona fisica che emette la voce
- Allo scritto, in cui la parola di chiusa indica la persona scrivente, con una credibilità che
dipende dalla gravità delle sanzioni penali previste a carico del falsificatore.
La dichiarazione per telex individua, invece, il soggetto di un potere giuridico cui si accompagna di
norma un potere di fatto.
Adottato il principio per cui la responsabilità del contraente colpisce il soggetto che dichiara, il telex
o telefax non proverà che taluno abbia dichiarato, e non proverà la responsabilità contrattuale.
MA adottato il principio per cui la responsabilità contrattuale colpisce colui che è giuridicamente
responsabile per una dichiarazione creatrice d’affidamento, il telex e il telefax proveranno a sufficienza
la responsabilità contrattuale dell’UTENTE DELL’APPARECCHIO MITTENTE.
Il contratto telematico
Nell’area del contratto telematico operano fonti nazionali:
Gli organi europei hanno promulgano la direttiva 1999/93 CE (sulla firma elettronica) e 2000/31.
Se taluno invia attraverso una linea telefonica un messaggio digitato al computer, il messaggio viene
convertito da digitale in elettromagnetico e poi viceversa. Fin qui abbiamo un messaggio trasmesso
per e-mail. Possiamo essere nell’area dei contratti conclusi mediante tecniche di comunicazione a
distanza, ma non abbiamo un contratto telematico.
Il contratto telematico può implicare che il messaggio venga elaborato direttamente dallo strumento,
ovviamente in conformità di istruzioni predisposte dall’uomo.
Il messaggio trasmesso in via elettronica porta con sé l’essenziale dei dati che individuano
l’apparecchio mittente. Difficoltà pratiche possono ostacolare l’ulteriore ricerca volta a stabilire chi
abbia, giuridicamente, il diritto d’accesso all’apparecchio. Non esiste una specie di registro o di albo
di tutti gli apparecchi emittenti, con indicazione di un soggetto possessore/responsabile.
In presenza di circostanze favorevoli (es previo scambio di comunicazioni fra gli interessati) il
destinatario può sapere chi aveva il controllo dell’apparecchio nel momento dell’operazione.
NB La dichiarazione è espressione normale della volontà negoziale. Essa è evidentemente idonea alla
funzione anche quando sia prodotta in via telematica.
Documento informatico
Il documento informatico è un documento munito di efficacia probatoria (art. 5, comma 2 d.P.R.
513/1997), è un documento formato, trasmesso, inviato, pervenuto.
NB Il documento informatico non deve essere confuso con la sua versione stampata, che rientra nella
nozione di riproduzione meccanica: esso è piuttosto il dato in forma digitale, memorizzato sul
supporto a ciò destinato.
Per quanto riguarda il contratto informatico, l’art. 1433 considera sufficiente l’incarico affidato
all’ufficio del telegrafo per imputare la dichiarazione al mittente.
Anche i messaggi inoltrati da terzi estranei che hanno accesso al computer per difetto di
sorveglianza del legittimo detentore sono imputabili al detentore.
La lettera delle regole codicistiche ora riprodotte si riferisce a tutti i contratti, e non solo a quelli
conclusi fra persone lontane.
Sebbene la lettera della legge voglia regolare soltanto il momento della conclusione del contratto,
almeno l’art. 1326, comma 1 viene riferito anche al luogo della conclusione del contratto. Se
l’accettazione è fatta per telefono, il luogo della conclusione è quello in cui si trova il proponente.
La spedizione
La fase preparatoria della recezione è la spedizione, o indirizzamento (anche emissione).
L’indirizzamento è necessario alla perfezione della dichiarazione contrattuale: una dichiarazione
solitaria, o rivolta ad un estraneo, non vale come dichiarazione contrattuale, quand’anche la
controparte ne avesse causalmente conoscenza.
Accanto all’ipotesi della spedizione involontaria, e di quella oggettivamente idonea, si trova anche
l’ipotesi della spedizione effettuata invito domino.
Nel caso in cui la spedizione avvenne ad opera del dichiarante, ma fu involontaria (es distrazione),
l’involontarietà del gesto con cui si spedisce può dar luogo ad un normale vizio del consenso.
Questioni diverse sorgono quando taluno riceve una dichiarazione che non gli era stata indirizzata
dal dichiarante, e non sappia che la spedizione avvenne invito domino (es un imprenditore detta e
sottoscrive una proposta, poi ordina alla segretaria di distruggerla; quest’ultimo ordine non viene
eseguito, e la lettera viene spedita per errore dal fattorino). Qui si presenta il normale conflitto fra il
dichiarante e colui che riceve, fra la sicurezza del diritto e l’affidamento. In virtù del principio di
apparenza, colui che riceve sarà protetto quando il suo affidamento sia incolpevole e il dichiarante
sia in colpa.
Le regole generali sono integrate da norme speciali. Taluni contratti, contraddistinti dallo speciale
oggetto e dalla forma solenne, esigono una spedizione condotta attraverso uno speciale
procedimento (es donazione). La lettera raccomandata è caratterizzata da una speciale modalità di
spedizione.
L’arrivo della dichiarazione contrattuale
La dizione degli artt. 1326, 1334, 1335 mette in prima linea la conoscenza che il destinatario ne
acquista. Ma questa formulazione è corretta da una limitazione contenuta nell’art. 1335, per cui ↓
Se la dichiarazione deve essere scritta, si deve ritenere che la conoscenza del messaggio senza
arrivo non perfezione il fatto, e ciò per due ragioni:
a. Perché la circostanza “arrivo” è menzionata nell’art. 1335 come elemento della fattispecie
b. Perché la qualità dello scritto sussiste solo in quanto il destinatario acquisisca il possesso del
documento
La prova della spedizione di per sé non fa presumere l’arrivo, MA si può fare un’eccezione per le
RACCOMANDATE, sulla base dell’id quod plerumque accidit.
La rilevanza dell’arriva ha fatto nascere la DICHIARAZIONE DI RICEVIMENTO DEL MESSAGGIO.
L’oblato che sottoscrive una proposta contrattuale “per ricevuta” non accetta per questo solo fatto
la proposta.
La dichiarazione fatta per telefono si considera compiuta nel luogo in cui si trova la parte in ascolto:
concluso un contratto per telefono, mediante proposta e accettazione, il luogo della conclusione è il
luogo in cui si trova il proponente.
Fra due soggetti, di cui l’uno è munito di un diritto potestativo che gli attribuisce un potere sulla sfera
della controparte, l’atto di esercizio del diritto può equipararsi, per analogia iuris, ad una condizione,
che si ha per avverata se è stata resa impossibile dalla controparte (art. 1359). La dichiarazione in
esame produce il suo effetto anche se l’emittente si rende contro che essa non conosciuta dal
destinatario.
Se la raccomandata non viene consegnata per assenza del destinatario, conta, come momento
dell’attivo, il momento del rilascio dell’avviso di giacenza.
Si presume la conoscenza nel momento in cui viene provata la recezione, cioè l’arrivo all’indirizzo
del destinatario, se il destinatario non prova di essere stato senza colpa nell’impossibilità di avere
notizia della dichiarazione.
MA la legge non risolve un ulteriore quesito: le cause di giustificazione del destinatario che si ritiene
senza colpa devono essere valutate oggettivamente o soggettivamente? Vi sono due concezioni:
Concezione oggettiva della conoscibilità (sostenuta in virtù dell’analogia tratta dalle norme
sulle notificazioni processuali e dell’analogia con la conoscibilità dell’art. 1341), che è stata
sostenuta con 3 argomentazioni:
1. Il criterio soggettivo è troppo aleatorio nella protezione del dichiarante e troppo rigido
nella protezione del destinatario
2. Il destinatario potrebbe avvalersi a suo piacimento della presunzione a seconda della
maggior convenienza, essendo solo lui il parametro di riferimento dell’esistenza o
meno della colpa
3. È indispensabile ricorrere ad un criterio di obbiettiva conoscibilità perché solo
l’obbiettività è sinonimo di certezza (finché non risulti che nella situazione concreta,
un fatto obbiettivo ed estraneo, la FORZA MAGGIORE, abbia impedito la recezione
Concezione soggettiva della conoscibilità (Sacco), che è stata sostenuta con altre 3
argomentazioni:
1. Le norma sulla notificazione non conoscono il fenomeno della conoscibilità oggettiva
2. L’art. 1341 (condizioni generali di contratto) non conosce il fenomeno della
recettizietà
3. L’art. 1335 non dice che il destinatario possa valutare soggettivamente le ipotesi da
addurre come causa di giustificazione; dice solo che egli ha la facoltà di provare un
fatto, certo e obbiettivo, che dimostri la sua impossibilità di avere avuto conoscenza
della dichiarazione
L’art. 1335 è impreciso sotto un altro aspetto: non spiega se entrambe le parti siano legittimate a far
valere il vizio della recezione (l’impossibilità di conoscere) o se una sola di esse (il destinatario) abbia
il potere di scegliere fra l’efficacia o l’inefficacia della dichiarazione non conosciuta.
Il Sacco ritiene che, di regola, SOLO il destinatario possa far valere il vizio della recezione. Infatti se il
dichiarante già al momento dell’emissione sospetta che la dichiarazione possa non giungere alla
conoscenza del destinatario, non ha una ragione seria per contare sugli effetti della dichiarazione
medesima.
La norma dell’art. 1335 è una deroga al più generale principio, contenuto negli artt. 1326 e 1334.
Questa deroga vuole tutelare, entro certi limiti, l’aspettativa del dichiarante. Ma l’aspettativa viene
tutelata solo se il dichiarante, al momento dell’emissione, ignora che la dichiarazione non fu
conosciuta dal destinatario.
Il Sacco formula un’ulteriore regola, posta per tutelare l’interesse del dichiarazione alla conclusione
del contratto: il destinatario non può, per far valere l’inefficacia del contratto, allegare la propria
omissione colposa. Non si può assegnare al destinatario il modo di profittare di una propria
scorrettezza.
Fuori dal caso in cui l’ignoranza sia allegata dal destinatario della dichiarazione, la colpa è irrilevante:
poiché la conoscenza che crea l’affidamento del destinatario è l’unico fatto che giustifichi l’impegno
del dichiarante, viene formulata un’ulteriore regola che impone che il dichiarante può far valere la
mancata conoscenza della dichiarazione da parte del destinatario, quand’anche questa mancata
conoscenza fosse colpevole, se in questo modo può concludere che la dichiarazione non creò
affidamento. In ogni diverso caso, non può far valere l’impossibilità incolpevole di aver notizia, in cui
si trovò il destinatario.
Il Sacco prevede in via di eccezione che il proponente possa rinunciare agli effetti della sua
dichiarazione in presenza di 2 condizioni:
a. Non sappia e neanche sospetti (al momento dell’emissione) dell’impossibilità della
conoscenza
b. Dimostri che il vizio della recezione è dipeso da colpa del destinatario
Se il proponente non rinuncia, il contratto è validamente concluso.
Generalmente l’indirizzo del destinatario è il luogo dove viene inviata la dichiarazione, la cui
individuazione è lasciata ad un’altra norma che regola il caso concreto
Quando manca una norma specifica, la determinazione è affidata alla volontà delle parti
In mancanza anche di espressa volontà delle parti, si ricorrerà al criterio della residenza o della
sede dell’attività del destinatario
NB Se la trattativa è simultanea ed è svolta per telefono, il luogo della conclusione è il luogo in cui si
trova il proponente.
Muovendo dalla premessa che l’art. 1335 disciplina SOLO l’ipotesi della manifestazione della volontà
mediante dichiarazione, fuori dai casi previsti espressamente dall’art. 1327 (comportamento
concludente efficace ex lege), in che momento può considerarsi perfezionata la manifestazione di
volontà resa sotto forma di comportamento concludente? Nel momento in cui la persone indicata
dalla legge come destinatario ha conosciuto l’evento, o quando le tracce del comportamento di
attuazione gli sono pervenute.
Esempio. Se la merce ordinata viene spedita senza previa accettazione, e siano fuori dai casi del 1327,
il contratto è concluso nel luogo e nel momento in cui la merce è consegnata al proponente.
Se sorge discussione sulla persona che in concreto ha ricevuto il messaggio, chi invoca l’efficacia
della dichiarazione deve provare l’avvenuto recapito, ma non è obbligato a provare che la persona
che ha ritirato il messaggio sia quella autorizzata ex art. 37 del regolamento di esecuzione del codice
postale.
Si parte dalla premessa comune che la non necessità della conoscenza è espressamente prevista dalla
legge solo per la revoca della proposta. Le conclusioni diametralmente opposte sono le seguenti:
proprio dalla premessa si desume la differenza di trattamento:
- La revoca non necessità di conoscenza, quindi non è una dichiarazione recettizia
- La proposta necessità di conoscenza, quindi è recettizia
Se il legislatore avesse voluto un eguale trattamento lo avrebbe espressamente detto.
Il Sacco sostiene che, poiché il destinatario della proposta non avrà mai interesse ad eccepire la
mancata conoscenza di una proposta al pubblico, la legge esclude l’eccezione solo nel settore ove
tale difesa avrebbe un’importanza pratica. Laddove l’eccezione risulta impossibile (settore proposta),
il legislatore ha ritenuto la norma sulla non necessità così implicitamente pacifica che ha evitato di
menzionarla.
CONCLUDENDO
La pubblicazione è qualcosa in più della semplice espressione ma qualcosa in meno della recezione,
eppure è un requisito che da solo perfezione la dichiarazione, anche senza bisogno di conoscenza.
CAPITOLO 7 – CADUCAZIONE DELLA PROPOSTA E DELL’ACCETTAZIONE
La caducazione della proposta. Il discorso condotto nei secoli XIX e XX
Si domanda:
- Quanto tempo sia concesso all’oblato per accettare la proposta
- Se la proposta e l’accettazione siano revocabili
Il codice del 1942 sancisce espressamente la caducazione della proposta per decorso del termine (art.
1326, comma 2), nonché la revocabilità della proposta (art, 1328, comma 1). Ammette poi la figura
della proposta irrevocabile per volontà del proponente (art. 1329), per convenzione (art. 1331), o per
l’oggetto della proposta (art. 1333).
Il codice del 1865 non conteneva norme espresse né sulla revoca, né sulla caducazione della proposta
per effetto del decorso del termine.
Il codice di commercio del 1882 disponeva la caducazione automatica della proposta ove mancasse
la tempestiva accettazione e riconfermava la regola della revocabilità della proposta ad nutum, fino
al momento della conclusione del contratto.
La tradizione era a favore della revocabilità della proposta fino al momento dell’accettazione.
Verso la fine del secolo scorso, una corrente dottrinale prendeva ad affermare la regola generale
dell’irrevocabilità, senonché il principio trovava un ostacolo nell’art. 36 c. comm.
La regola adottata dal diritto uniforme (internazionale) è quella della revocabilità della proposta,
ma il principio soffre varie deroghe:
La revoca è ammessa solo se fatta in buona fede
Sempreché la proposta non sia sottoposta a termine
Non indichi espressamente l’irrevocabilità
Una serie di norme sono poi state introdotte in Italia per intermediazione delle fonti europee. Queste
regole offrono al contraente debole garanzie che operano anche attraverso la caducazione della
dichiarazione contrattuale. Esse consentono cioè al contraente che non ha potuto ponderare bene
la propria decisione, e al consumatore che ha accettato frettolosamente, una clausola pregiudizievole
di rimuovere il consenso già dato.
Salva la repressione ex art. 1337 di eventuali e poco pensabili episodi di mala fede, il proponente
opera su un terreno su cui non giacciono pretese delle parti, nascenti dal diritto dei contratti. Se il
termine è troppo breve, l’oblato cestinerà la proposta. Se è anteatto (proposta pervenuta a mezzo
posta con normale ritardo di mezzo mese) l’accettazione non è possibile.
Accettazione tardiva è un termine che copre l’accettazione emessa tempestivamente e giunta tardi, e
allora bisogna accertare se l’accettante abbia interesse alla conclusione. Poi bisognerà accertare se
davvero l’avviso del proponente sia da trattare sempre a tutti i fini come mero avviso, e non come
accettazione (riqualificando l’accettazione tardiva come proposta).
Per diritto uniforme (internazionale) l’accettazione è inefficace se tardiva.
- L’offerta orale deve essere accettata immediatamente, salvo il caso in cui una soluzione
diversa emerga dalle circostanze (regole di Vienna)
- Tra assenti, l’accettazione deve giungere nel tempo fissato dal proponente, o, se manca il
termine espresso, in un termine ragionevole, tenendo il dovuto conto delle circostanze, specie
della rapidità del mezzo di comunicazione utilizzato dall’offerente
Anche per diritto uniforme, l’accettazione tardiva è efficace se il proponente si affretta a farlo sapere
all’accettante (regole di Vienna). E il diritto uniforme contiene un’ulteriore precisazione (che manca
al nostro diritto interno): se il ritardo dell’accettazione è dovuto ad un’accidentalità nella trasmissione,
non prevista dal mittente, l’accettazione si considera tempestiva, se il proponente non fa constare
senza indugio la sua contraria volontà.
QUINDI, secondo il diritto uniforme ↓
La cd revoca dell’ACCETTAZIONE è in realtà un ritiro: essa opera in quanto nota all’offerente prima
dell’accettazione, o contemporaneamente ad essa. La revoca dell’accettazione è dunque una mera
dichiarazione unilaterale, non essendoci nessuna dichiarazione precedente che abbia creato un
affidamento da parte del proponente. Essa pertanto previene ogni possibilità di affidamento per il
proponente, perché priva l’accettazione di ogni attitudine a rappresentare al destinatario la volontà
del dichiarante.
Il diritto uniforme conosce la differenza fra il ritiro e la revoca successiva alla dichiarazione. Il ritiro è
ammesso anche nei confronti dell’accettazione (regole di Vienna).
Nel codice sono contenute due disposizioni secondo cui la PROPOSTA può essere revocata finché il
contratto non sia concluso, e cioè finché non sia pervenuta l’accettazione (art. 1328), e la revoca
produce effetto solo dal momento in cui perviene al destinatario (art. 1334). Quindi la revoca può
operare sia:
1) Se portata a conoscenza del destinatario prima della recezione della proposta (es Proposta
emessa ed inviata per posta, revoca effettuata per telefono prima che la proposta sia
recapitata)
2) Se portata a conoscenza del destinatario dopo la recezione della proposta, ma prima della
conoscenza dell’accettazione da parte del proponente
In entrambi i casi la revoca è perfezionata poiché è pervenuta prima della conclusione del contratto;
però nel caso 1) il destinatario non è ancora divenuto accettante, e nel caso 2) il destinatario è già
divenuto accettante. È evidente che nel caso 2) manca una tutela efficace della posizione
dell’accettante, mitigata dall’art. 1328, comma 1 (indennizzo).
Con le norme in esame (1328 e 1334) il legislatore rifiuta nettamente l’idea che la semplice emissione
della dichiarazione di accettazione renda irrevocabile l’accordo.
L’art. 1328, con le parole “può essere revocato”, può lasciare intendere all’interpreta che, perché la
revoca operi, dev’essere anteriore alla conclusione del contratto il solo atto autorizzato in senso
stretto (emissione e spedizione), e non, invece, quell’ulteriore evento (arrivo) che, secondo l’art.
1334, potrebbe apparire come una specie di condizione d’efficacia.
Oggi si afferma la soluzione secondo cui la revoca della proposta è tempestiva purché pervenga
prima del momento perfezionativo del contratto.
Secondo l’art. 1328, comma 1, l’accettante, il quale abbia intrapreso in buona fede l’esecuzione del
contratto prima di avere notizia della revoca, ha diritto a ricevere dal proponente l’indennizzo delle
spese e perdite subite per l’iniziata esecuzione del contratto.
La forma della revoca, secondo la giurisprudenza, è libera. In realtà una norma precisa ed esplicita
sulla forma della revoca manca: ma non è neppure preclusa un’interpretazione estensiva e analogica
delle norme sulla forma contrattuale.
Morte e incapacità sopravvenuta del dichiarante
Il legislatore italiano rimane fermo, in via di principio, all’idea che equipara alla revoca la morte e
l’incapacità sopravvenuta: questi fatti ostano così alla conclusione del contratto, se la proposta è
revocabile; non ostano nei casi speciali di all’artt. 1329 e 1331.
Il rifiuto
Ulteriore causa di caducazione della proposta è il rifiuto della medesima da parte dell’oblato.
Il rifiuto produce effetto nei confronti di qualsiasi proposta contrattuale, anche se viene menzionato
dalla legge solo a proposito di due ipotesi speciali:
a. Quando, dopo il rifiuto viziato, intervenga (nei limiti di tempo utili) l’accettazione
b. Quando si tratti di rifiuto frapposto ad una promessa non bisognosa di accettazione, tale per
volontà delle parti, o ai sensi degli art. 1333, comma 2, nonché 1236
Il Sacco ritiene essere l’art. 1337 l’unica norma che possa disciplinare in modo elastico il rifiuto.
La proposta irrevocabile
Il codice riconosce espressamente la figura della proposta irrevocabile, tale per volontà privata (artt.
1329, 1331, 1333), o, in casi speciali, in virtù di legge (art. 1887).
Taluni tipi di proposta sono necessariamente irrevocabili → sono inderogabilmente sottratte alla
revoca, secondo il Sacco, la PROPOSTE DOVUTE.
Esempio. È inefficace la revoca della proposta emessa da colui che mediante preliminare si era
impegnato a concluderlo.
Sono, invece, inderogabilmente revocabili le proposte che tendono alla conclusione di un contratto,
da cui il proponente potrà recedere ad nutum in qualsiasi momento.
Se il contratto prevede il recesso, e nei limiti in cui il recesso è consentito, deve anche essere
consentita la revoca della proposta.
Nel regolare le varie ipotesi in cui la revoca è inefficace, il legislatore fa una distinzione tra il caso in
cui:
L’art. 1331 statuisce che se per l'accettazione non è stato fissato un termine, questo può essere
stabilito dal giudice; l’art. 1329 sembra limitare l’efficacia della clausola di irrevocabilità all’ipotesi in
cui il proponente si obblighi a tener ferma l’offerta per un certo tempo.
Quindi, l’art. 1329 esclude il termine oggettivo e legale dell’art. 1326 per imporre in ogni caso il
termine negoziale; l’art. 1331, a sua volta, verrebbe a sostituire il termine legale con un termine
giudiziale.
Se manca l’accordo sul termine (ex 1329) sarà il proponente a stabilirlo secondo la regola comune
del 1326, comma 2.
Se manca l’accordo fra le parti (ex 1331), siccome siamo in una situazione di equilibrio degli
interessi in gioco, è necessario l’intervento del giudice.
Regole speciali per i contratti sollecitati da porta a porta o conclusi dal consumatore
La protezione dell’integrità del consenso (che è menomata quando il contraente è condizionato dalla
disinformazione, dalla paura o dalla mancata ponderazione) è affidata agli ampi rimedi giuridici
predisposti per il caso di vizi di volontà. Ma una protezione concorrente, e più efficace, è talora
prevista da singole norme → art. 1341, comma 2, artt. 1469 bis e ter e regole sulla contrattazione
sollecitata da porta a porta.
Art. 18 ter, comma 2 legge 216/1974, modificata dalla legge 478/1990, art. 42 n. 1 lett. a)
D.lgs. 50/1992 – Attuazione della direttiva n. 85/577/CEE in materia di contratti negoziati
fuori dei locali commerciali
I legislatore avevano il compito di formulare l’idea per cui la vittima della sorpresa non è vincolata
dalla propria dichiarazione se non dopo una riflessione durata un certo numero di giorni, e sempreché
essa non si sia pentita nel frattempo.
Il legislatore parla di contratto. Ma il contraente sorpreso potrebbe essere stato invitato ad offrire, e
aver dichiarato la sua volontà in veste di proponente. Perciò il legislatore europeo equipara al
contratto la semplice proposta.
Il tempo per il pentimento decorre dall’emissione della proposta.
Quanto al recesso, o impugnativa, la protezione del contraente avrebbe molto da perdere se la
dichiarazione dovesse pervenire al venditore o fornitore entro il termine di 5 o 7 giorni: il rischio di un
ritardo del servizio postale azzererebbe quasi la protezione. Bisogna che l’interprete ricordi che la
dichiarazione di pentimento non è il recesso dell’art. 1373, né la revoca del 1328; né la rescissione di
un contratto già formato. MA è il fatto commissivo che osta al formarsi di un silenzio, il quale, solo,
avrebbe la virtù di far apparire ponderata (e quindi nettamente attendibile) la dichiarazione.
Perciò, la dichiarazione di pentimento è efficace purché spedita nel termine.
Fra la proposta e il recesso, fra l’accettazione e il recesso, abbiamo una situazione di incertezza. Il
legislatore italiano parla di effetto sospeso, di atto non ancora efficace.
Il recesso non è una condizione, ma opera retroattivamente, come una condizione retroattiva, o come
un annullamento.
La dichiarazione del contraente sorpreso, anche se non ancora ponderata, è efficace ad alcuni fini:
non appena essa pervenga alla controparte, questa non potrà più revocare la propria offerta (ove il
fornitore sia il proponente); dallo stesso istante, decorre il tempo per l’accettazione del fornitore.
L’accettazione non conforme alla proposta non deve essere confusa con l’accettazione pura
accompagnata da una proposta di modifica: quest’ultima figura darà luogo alla conclusione del
contratto, salva la facoltà, per il proponente, di accettare a sua volta la proposta di modifica, o di
rifiutarla.
Nel diritto internazionale uniforme le regole sono parzialmente diverse:
- Una risposta all’offerta recante addizioni è una reiezione dell’offerta e vale come
controproposta SE contiene modificazioni in punto di:
Prezzo, pagamento, qualità, quantità delle merci
Luogo e tempo della consegna
Ambito delle responsabilità
Foro competente
- Una risposta all’offerta recante addizioni vale come accettazione SE prevede variazioni che
non alterino sostanzialmente i termini della proposta, tranne il diritto del proponente di
rifiutare senza indugio l’accettazione della controparte.
Perché l’accettazione sia efficace bisogna che:
a) Giunga tempestivamente
b) Il suo oggetto coincida con quello della proposta
c) Sia munita di tutti i requisiti formali, o di altra natura, prescritti dal proponente.
Per quanto riguarda il punto c), il proponente può bloccare il luogo della recezione, imporre una
forma, una data lingua ecc. Per quanto riguarda la forma, la legge sancisce la regola in modo espresso,
ex art. 1326, comma 4.
L’accettazione formulata nella lingua della proposta sarà sempre valida. Non sempre sarà valida
l’accettazione redatta nella lingua ufficiale.
La congruenza sussiste quando:
- Coincidono i testi
- Coincida il valore giuridico dei testi → se l’oblato accetta dopo aver cancellato una clausola
della proposta manifestamente nulla, il contratto è concluso
Se manca la corrispondenza oggettiva, l’accettazione vale come proposta.
Se manca la congruenza cronologica, il proponente può sanare il ritardo dandone avviso
immediatamente (art. 1326, comma 3)
Accettazione che manca della forma richiesta dal proponente → si potrebbe dire che chi accetta senza
la forma prescritta dal proponente sa di non vincolarsi; e che la controparte non può considerare
impegnativa una dichiarazione siffatta. MA, se il contenuto della dichiarazione ne lascia intendere in
modo univoco il valore impegnativo, è giusto che il proponente possa utilizzare l’accettazione.
L’accettante si è accollato il rischio di tale evenienza quando ha emesso la sua dichiarazione; secondo
buona fede, deve intendersi legato ad essa. Al proponente che voglia approfittare deve accollarsi solo
l’onere di dirimere prontamente l’obbiettiva incertezza della situazione, mediante avviso analogo a
quello di cui all’art. 1326, comma 3.
Dalla regola generale ex art. 1326, e dalla regola ex art. 1332, qualcuno ha ricavato che OGNI
ACCETTAZIONE DEVE PERVENIRE AL PROPONENTE E A TUTTI GLI OBLATI. Più propriamente si potrà
affermare che:
- Ogni parte potrà far valere il proprio affidamento solo in relazione alle dichiarazioni ricevute
- Ogni parte potrà ridiffondere intorno a sé le dichiarazioni ricevute (al fine di escludere
l’eventualità che un contraente di un contratto con più parti possa tenere in scacco tutti gli
altri omettendo di comunicare l’accettazione ad una sola parte)
Il contratto aperto
L’art. 1332 parla del contratto cui possono aderire più parti. La dottrina chiama questa figura
CONTRATTO APERTO. Di norma si tratterà di contratti che prevedono prestazioni omogenee, e diritti
omogenei, per i vari aderenti. L’aderente, cioè, assumerà su sé un carico standardizzato di
obbligazioni, e reciprocamente avrà il diritto che gli altri contraenti effettuino la prestazione.
Secondo il Sacco, può rientrare nella previsione dell’articolo tanto una proposta quanto
un’accettazione.
L’art. 1332 contiene una regola dispositiva:
L’adesione deve essere diretta all’organo costituito per l’attuazione del contratto, o, in mancanza
di esso, a tutti i contraenti originari. È fatta salva ogni determinazione che fissi modalità diverse.
In presenza dei 4 requisiti, si può senz’altro concludere per l’esistenza delle clausole generali di
contratto ex 1341.
L’art. 1341, comma 2 fornisce un elenco di clausole che, per avere effetto, devono essere
specificatamente approvate per iscritto dall’aderente. L’elenco è considerato, dalla giurisprudenza,
tassativo, cosicché non ne è consentita l’applicazione analogica, ma soltanto l’interpretazione
estensiva.
Non sono invece vessatorie, perché non rientrano nell’elenco previsto dall’art. 1341, comma 2:
- La clausola penale
- Il divieto di sublocazione
- La clausola di variazione del prezzo in
una vendita a consegne ripartite
- La clausola “salvo approvazione della
casa”
- La clausola di adeguamento del canone
- La clausola che prevede rinunce
- La clausola che autorizza l’esecuzione
prima della risposta dell’accettante
- La clausola che determina
l’applicazione del diritto straniero
- La clausola con cui si prevedono
interessi superiori a quelli legali
- La clausola di esclusione della revisione
del prezzo nell’appalto
- La clausola che prevede il diritto del
mediatore anche in caso di revoca
anticipata dell’incarico
- La clausola che contempla il prevenivo
consenso alla cessione del contratto
Vi sono casi in cui clausole, che pure rientrano nell’elenco, non sono considerate vessatorie perché
sono riproduttive di norme di legge (es La clausola risolutiva espressa non è vessatoria, perché rafforza
la facoltà prevista dall’art. 1453)
Per converso, sono state qualificate vessatorie clausole che, pur non essendo riconducibili, almeno
de plano, all’elenco, tuttavia derogavano alla disciplina legale del tipo a cui il contratto standard
andava ricondotto.
La conoscibilità
Perché le condizioni generali di contratto siano efficaci, è necessario che l’aderente le abbia
conosciute, o quanto meno che sia stato posto in condizioni di conoscerle usando l’ordinaria diligenza
(art. 1341, comma 1).
Nei confronti dell’aderente che non le abbia conosciute per propria negligenza, le condizioni generali
sono efficaci.
Quindi le condizioni generali di contratto devono essere conoscibili, dove per CONOSCIBILITA’ si
intende l’obbligo della loro conoscenza, e dove la CONOSCENZA si intende riferita al contenuto di
essere e non solo alla loro esistenza.
Non può dirsi conoscibile una clausola incomprensibile.
Ma può dirsi conoscibile una clausola ambigua: questa è perciò efficacie, ma dovrà essere
interpretata a favore dell’aderente, in applicazione dell’art. 1370.
L’art. 1342 cc, in tema di contratti conclusi sulla base di moduli e formulari, richiama l’art. 1341,
comma 2, ma non il comma 1 → di fronte a un modulo o a un formulario l’ignoranza dell’aderente
non può essere considerata scusabile.
In settori particolari l’esigenza della conoscibilità viene perseguita imponendo che un copia del testo
contrattuale venga consegnata all’aderente:
- Contratti relativi alle operazioni e ai servizi bancari e finanziari
- Contratti di concessione di credito al consumo
I moduli e i formulari
L’art. 1342, comma 1 stabilisce la prevalenza delle clausole aggiunte rispetto a quelle del modulo o del
formulario, anche se queste non sono state cancellate, a condizione che vi sia incompatibilità fra le
prime e le seconde.
L’incompatibilità (accertata dal giudice di merito) è stata esclusa quando le clausole aggiunte si
limitavano a integrare, chiarire, precisare le clausole a stampa.
L’interpretazione
Secondo l’art. 1370, in caso di dubbio sul contenuto delle condizioni generali di contratto, viene
imposta l’interpretazione a favore dell’altro contraente, ossia dell’accettante.
La lettera della legge esclude che la norma si applichi ai contratti stipulati individualmente e la logica
porta ad escludere che essa possa applicarsi a clausola inserite così in un contratto standard, ma
frutto di trattative, perché in tal caso non si ha una condizione generale di contratto.
L’esigenza di tutela dell’aderente sussiste sia che:
- La clausola faccia parte di condizioni generali di contratto predisposte dall’altro contrente
- La clausola compaia in un modulo o in formulario alieno, che una delle parti imponga all’altra
Il 1370 fa parte delle cd norme oggettive e sussidiarie, cui si deve ricorrere soltanto in funzione
sussidiaria, e cioè quando l’applicazione delle norme interpretative cd soggettive non abbia fugato
l’ambiguità della clausola.
Il controllo da parte della pubblica amministrazione
Per alcuni settori di attività è previsto un controllo sulle condizioni generali di contratto da parte della
PA. L’intensità del controllo è variabile:
Talora le imprese sono solo obbligate a presentare le condizioni di contratto in sede di
autorizzazione all’esercizio dell’attività, nonché a comunicare le modificazioni
Talora le imprese sono obbligate a sottoporre le proprie condizioni generali all’approvazione
della PA. In questo caso la PA può chiedere all’impresa i modificarle e, in caso di
inottemperanza, è ipotizzabile anche una inserzione di diritto di condizioni generali da parte
della stessa PA
Profili processuali
L’onere di provare che si è in presenza di un contratto di adesione spetta, ex art. 2697, alla parte che
da ciò trae conseguenze favorevoli.
L’accertamento sul carattere vessatorio di una clausola, sulla esistenza della specifica approvazione
per iscritto, sulla compatibilità della clausola aggiunta rispetto alle clausole dei formulari comporta
una VALUTAZIONE DI FATTO, demandata al giudice di merito, e come tale incensurabile in sede di
legittimità.
Il potere di rilevare la nullità di una clausola per violazione degli artt. 1341 e 1342 può essere
esercitato in sede di legittimità soltanto in quanto i presupposti di fatto siano già acquisiti agli atti del
processo.
Profili internazionalprivatistici
La norma che impone l’approvazione per iscritto delle clausole vessatorie non è considerata di ordine
pubblico internazionale. Ne consegue la validità di una clausola vessatoria che rispetti i requisiti
prescritti dalla legge straniera applicabile, ancorché fra questi non ricorra la specifica approvazione
per iscritto. È consentito ad un giudice italiano, qualora debba pronunciarsi su una causa con elementi
di estraneità, applicare il diritto straniero, anche se la materia in questione è regolata in modo diverso
dal diritto italiano.
» Anche qualora se ne rendesse conto, il cc non ha predisposto nulla riguardo alla possibilità di
modificare il contenuto delle clausole predisposte dall’altro contraente. L’unica alternativa è
quella di non concludere il contratto
È necessario trovare un’altra fonte, se esiste, nel cc che possa adeguatamente tutelare la posizione
dell’aderente. Oppure, trovare un rimedio extra-codicistico che consenta di esperire un efficace
controllo preventivo sulla redazione dei controlli di adesione.
Il De Nova conclude così:
(1) Il ricorso a principi generali contenuti nel codice (ordine pubblico, buona fede) non risolve il
problema, poiché non consente di sapere quando una clausola è contraria a tali principi
(2) Il rimedio extra-codicistico può essere di natura giurisdizionale o amministrativa. Il primo si
risolverebbe in un rimedio successivo, subordinato alla promozione di un’azione; il secondo
dovrebbe essere il rimedio auspicabile
Art. 25 legge 52/1996, di ricezione della Direttiva 93/13 → aggiunto il Capo XIV bis, a chiusura del
Titolo II del libro quarto del cc.
Se una clausola:
- Non è in ogni caso inefficace
- Non è riproduttiva di disposizione di legge o di convenzione internazionale comunitaria
- Non è stata oggetto di trattativa individuale
→ si pone il problema della sua vessatorietà. Perché, se fosse vessatoria, sarebbe inefficace (mentre
il contratto rimane efficace per il resto.
Il legislatore detta criteri di valutazione.
Art. 1469 ter, commi 1 e 2 cc – Accertamento della vessatorietà delle clausole
La vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto
del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed
alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende.
La valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell'oggetto
del contratto, né all'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano
individuati in modo chiaro e comprensibile.
Importante è il riferimento alle altre clausole del contratto, perché il professionista potrà
argomentare che la singola clausola di per sé potrebbe essere vessatoria, ma non lo è perché è
compensata da altre clausole che ripristinano l’equilibrio.
Il comma 2 esclude che la valutazione possa attenere alla determinazione dell’oggetto del contratto
e alla adeguatezza del corrispettivo, a condizione che il contratto sia chiaro e comprensibile su tali
elementi.
I criteri così indicati per lo più attengono ad una valutazione di clausole in astratto, ma postulano una
valutazione di quello specifico individuale contratto, laddove si fa riferimento alle circostanze
esistenti al momento della conclusione del contratto.
Art. 1469 bis, comma 1 cc – Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore
Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista, che ha per oggetto la cessione di beni
o la prestazione di servizi, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede,
determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti
dal contratto.
Norma di infelice formulazione, che pone una clausola generale, e dunque si deve attendere venga
concretizzata da pronunce giurisprudenziali.
All’art. 1469 bis, comma 3 troviamo un elenco di 20 clausole che si presumono vessatorie, salvo prova
contraria. Le clausole dell’elenco, secondo il De Nova, conviene distinguerle in gruppi:
(a) Le deroghe al principio secondo cui il contratto ha forza di legge tra le parti
Immodificabilità
Irretrattabilità
Cogenza all’adempimento
Il principio secondo cui il contratto ha forza di legge comporta innanzitutto che le parti sono
vincolate all’accordo tra di esse raggiunto. Costituisce quindi una deroga a tale principio
prevedere che una parte possa risultare vincolata a:
» Clausole che non ha potuto conoscere
» Una lex contractus che viene determinata dall’altra parte o che viene
modificata dall’altra parte rispetto all’accordo originario
Per diritto comune dei contratti deroghe siffatte possono essere (seppur entro certi limiti)
consentite. Per i contratti dei consumatori è logico che vengano considerate con sospetto
(b) I limiti all’autotutela del professionista e la garanzia del diritto di difesa del consumatore
↓
ADESIONE A CLAUSOLE IGNOTE
10) prevedere l'estensione dell'adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità
di conoscere prima della conclusione del contratto;
Questa è una previsione di ordine generale che faceva parte, in precedenti stesure della Direttiva, di
una norma autonoma, volta ad evitare che il consumatore fosse soggetto a clausole “sorprendenti”.
La disposizione pare volta ad impedire integrazioni per relationem ad altre clausole ignote.
La eventuale declaratoria di inefficacia di una clausola vessatoria comporta che il contratto rimane
efficace per il resto (art. 1469 quinquies, comma 1). Nel caso in esame si tratta di vedere in concreto
se il contratto può rimanere efficace, ove non sia integrato per relationem.
Per l’imprenditore, la norma in esame impone la necessità di assicurarsi che il consumatore abbia la
possibilità di conoscere le clausole cui si fa rinvio per relationem al momento della conclusione del
contratto.
IUS VARIANDI
11) consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le
caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel
contratto stesso;
Si presume, quindi, vessatoria una clausola che attribuisca lo ius variandi al professionista, senza che
ricorra un giustificato motivo indicato nel contratto. In definitiva, lo ius variandi del professionista è
in linea di principio riconosciuto, e senza che al consumatore sia attribuito, in caso di esercizio di tale
diritto alla modificazione del contratto, un diritto di recesso.
Esempio. Art. 1711, comma 2 → Il mandatario può discostarsi dalle istruzioni ricevute qualora
circostanze ignote al mandante, e tali che non possano essergli comunicate in tempo, facciano
ragionevolmente ritenere che lo stesso mandante avrebbe dato la sua approvazione.
Esempio. Art. 1770, comma 2 → Se circostanze urgenti lo richiedono, il depositario può esercitare la
custodia in modo diverso da quello convenuto, dandone avviso al depositante appena è possibile.
In entrambi i casi le clausole si sottraggono alla vessatorietà.
L’eventuale declaratoria di inefficacia della clausola priverà il professionista dello ius variandi, mentre
il contratto per il resto rimarrà efficace.
AUMENTI
13) consentire al professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore
possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente
convenuto;
Anche in questo caso la norma non si applica alle clausole di indicizzazione (art. 1469, comma 7).
Non si presume vessatoria la clausola che da un lato consente al professionista di aumentare il prezzo
e dall’altro al consumatore di recedere se il prezzo diventa eccessivo.
L’inefficacia della clausola comporta che il professionista non può aumentare il prezzo, ferma
rimanendo l’efficacia del contratto.
RECESSO
7) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto,
nonché' consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal
consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il
professionista a recedere dal contratto;
La disposizione in esame è divisa in due parti:
(1) La prima prevede la facoltà di recesso, e la clausola relativa si presume vessatoria se pari facoltà
non è concessa anche al consumatore
Qui gioca il principio di bilateralità.
Anche qui occorre verificare se la clausola non riproduce una disposizione di legge.
Esempio. Art. 1893, comma 1 → Se il contraente ha agito senza dolo o colpa grave, le
dichiarazioni inesatte e le reticenze non sono causa di annullamento del contratto, ma
l'assicuratore può recedere dal contratto stesso, mediante dichiarazione da farsi
all'assicurato nei tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto l'inesattezza della
dichiarazione o la reticenza.
In questi casi il professionista può recedere, mentre il consumatore no: ma una
clausola che prevede questa soluzione non è vessatoria, appunto perché riproduce
una disposizione di legge.
(2) La seconda riguarda una clausola che appare vessatoria perché volta a consentire al professionista
di recedere, e al tempo stesso di trattenere corrispettivi ottenuti in anticipo per prestazioni ancora
da lui non eseguite.
È stato osservato che prima anche che inefficace, la clausola sarebbe nulla per
mancanza di causa.
Anche in questo caso l’inefficacia della clausola esclude i poteri previsti per il
professionista, e il contratto rimane efficace per il resto.
RECESSO DA CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO
8) consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole
preavviso, tranne nel caso di giusta causa;
Si presume quindi vessatoria la clausola che consente al professionista di non dare preavviso, a meno
che ricorra una giusta causa: qui non basta a salvare la clausola la previsione che lo stesso possa fare
il consumatore.
La necessità del preavviso è già prevista da numerose disposizioni di diritto comune relative a contratti
a tempo indeterminato. Il preavviso, anche se non è espressamente previsto, può dirsi richiesto dal
principio di buona fede.
L’inefficacia della clausola non comporta l’assenza del potere di recesso per il professionista, bensì la
necessità che egli dia preavviso.
CAPARRA
5) consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se
quest'ultimo non conclude il contratto o ne recede, senza prevedere il diritto del consumatore di
esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il
contratto oppure a recedere;
La clausola n.4 corrisponde alla clausola d) dell’allegato alla Direttiva, ma con una differenza
significativa, perché la clausola d) parla di rinuncia del consumatore a concludere o a eseguire il
contratto.
Così com’è la disposizione in esame la figura della caparra penitenziale (art. 1386), con una estensione
alla responsabilità precontrattuale.
È palese l’applicazione del criterio della bilateralità: la clausola non è vessatoria se si prevede che, così
come il consumatore perde quanto ha versato, il professionista versa altrettanto.
Ci si deve chiedere se la vessatorietà e quindi l’inefficacia comporti che il professionista non ha diritto
di trattenere la somma, o invece che tale diritto permane, ma si aggiunge un diritto del consumatore
di esigere il doppio.
CLAUSOLA PENALE
6) imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il pagamento di
una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d'importo
manifestante eccessivo;
La disposizione deve essere confrontata con l’art. 1384, che consente la riduzione, da parte del
giudice, della penale eccessiva → la penale può essere diminuita equamente dal giudice, se
l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è
manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva
all'adempimento.
Mentre per diritto comune il contraente inadempiente, ridotta la penale dal giudice, sarà tenuto alla
penale così ridotta, nei contratti dei consumatori l’inefficacia della clausola che prevede la penale
eccessiva porterà all’applicazione delle norme ordinarie in tema di risarcimento del danno per
inadempimento.
Il rischio che il professionista corre nel lasciare nel proprio contratto standard una penale
particolarmente elevata è di trovarsi poi in difficoltà nel provare il danno effettivamente subito.
La formulazione ampia del n.6 fa sì che siano ricomprese anche ipotesi ulteriori rispetto alla clausola
penale (la clausola che in una vendita reale preveda che le rate pagate restino acquisita al venditore
a titolo d’indennità). Mentre per diritto comune il giudice, secondo le circostanze, può ridurre
l’indennità, nei contratti con i consumatori, ove l’acquisizione delle rate pagate riguardi un importo
manifestamente eccessivo, la clausola relativa sarà inefficace.
Il n.6 appare applicabile anche al leasing al consumo, per le clausole di acquisizione dei canoni
percetti.
FORO COMPETENTE
19) stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza
o domicilio elettivo del consumatore;
La clausola n.19 non trova riscontro nell’allegato della Direttiva.
La disposizione in esame non fa riferimento a clausole di deroga alla competenza che risulterebbe
dagli artt. 18 ss. cpc, ma di indicazione di un foro diverso da quello del luogo di residenza o domicilio
elettivo del consumatore.
La clausola che prevede un foro convenzionale diverso da quello della residenza o del domicilio eletto
dal consumatore si presume vessatoria.
Dichiarata inefficace la clausola, si applicano i criteri comuni di determinazione della competenza per
territorio.
Non pare agevole che il professionista possa dimostrare che una clausola non sia vessatoria in
considerazione della natura del bene o del servizio, delle circostanze esistenti al momento della
conclusione del contratto, delle altre clausole del medesimo o di altro collegato o da cui dipende.
La lista di clausole prevista dall’art. 1469 bis, comma 3 può dirsi una lista grigia, perché comporta
valutazioni spesso discrezionali da parte del giudice. Ma tende ad essere una lista nera, sotto il profilo
della prova contraria.
Di qui l’opportunità, per l’imprenditore che rinvenga, nei propri contratti standard, clausole
riconducibili a quelle dell’elenco di eliminarle o quanto meno modificarle.
In molti casi, si tratterò di inserire nelle clausole esistenti quei contrappesi a favore del consumatore
alla cui assenza l’art. 1469 bis, comma 3 collega la vessatorietà. Così potranno essere salvate:
- La clausola penitenziale prevedendo il diritto del consumatore di esigere dal professionista il
doppio della somma (n.5)
- Le clausole di recesso prevedendo la facoltà di recedere anche per il consumatore (n.7)
- Le clausole di recesso dal contratto a tempo indeterminato prevedendo la necessità di un
ragionevole preavviso (n.8)
- Le clausole di proroga prevedendo un termine congruo per la disdetta (n.9)
- Le clausole che consentono lo ius variandi integrandole con l’indicazione dei giustificati motivi
che lo consentono (n.11)
- Le clausole di variabilità in aumento integrandole con la facoltà di recesso per il consumatore
(n.13)
La modificazione delle clausole sopra indicate fa venir meno la presunzione di vessatorietà.
NB La previsione di tali contrappesi fa soltanto venire meno la presunzione. L’elenco delle clausole
che si presumono vessatorie integra, ma non sostituisce, il criterio generale della buona fede e del
significativo squilibrio. Sicché può essere vessatoria anche una clausola che le disposizioni dell’art.
1469 bis, comma 3 escludono dal novero di quelle che si presumono vessatorie.
L’imprenditore che modifichi le proprie clausole per evitare che rientrino nell’elenco di quelle che
si presumono vessatorie non può escludere in toto un giudizio di vessatorietà sulla base del criterio
generale del significativo squilibrio contrario a buona fede.
Se una condizione generale di contratto è riconducibile all’elenco previsto dall’art. 1341, comma 2
deve essere specificatamente sottoscritta per essere efficace.
La revisione dei contratti porterà ad eliminare molte clausole che necessitano della specifica
sottoscrizione ex art. 1341, comma 2.
Si frequente una clausola dell’elenco ex art. 1469 bis, comma 3 corrisponde ad una clausola
dell’elenco ex art. 1341, comma 2. Così per:
- Le clausole di esonero o limitazione della responsabilità del professionista (n.1, 2, 15)
- Le clausole che limitano per il consumatore la facoltà di sollevare eccezioni (n. 3, 16)
- Le clausole che sottraggono il professionista al vincolo contrattuale (n.7, 8)
- Le clausole di proroga automatica (n.9)
- Le clausole di deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria (n. 18)
- Le clausole di elezione del foro (n.19)
Tra i due elenchi, però, non vi è coincidenza completa. Come una clausola che è vessatoria ex art.
1469 bis, comma 3 può non esserlo ex art. 1341, comma 2 (es clausola penale), così una clausola che
non è vessatoria ex art. 1469 bis, comma 3 può esserlo ex art. 1341, comma 2 (es clausola di recesso
bilaterale / clausola di proroga tacita non accompagnata da una termine incongrue per la disdetta).
L’imprenditore dovrà assicurarsi non solo che le clausole dei propri contratti standard siano non
vessatorie in base alla novella, bensì anche che siano specificatamente sottoscritte ex art. 1341,
comma 2 quelle che tuttavia rientrano nell’elenco previsto da quest’ultima disposizione.
L’art. 19 della Conv. Vienna non fa espresso riferimento al conflitto tra condizioni generali.
L’art. 19 risolve il problema del conflitto tra formulari per quanto attiene alla avvenuta conclusione
del contratto: il contratto è concluso se le condizioni generali dell’accettante non modificano in modo
sostanziale quelle del proponente, salvo che il proponente sollevi obbiezioni. Non risolve, invece, il
problema del contenuto del contratto così concluso.
Se le parti concordano sugli aspetti essenziali del contratto, le condizioni generali confliggenti si
neutralizzano e quei profili vengono disciplinati dal diritto dispositivo
Il contratto è in linea di principio concluso, e il suo contenuto è dato dalle clausole su cui vi è stato
l’accordo espresso e, in più, dalle clausole standard che sono comuni, per tali intendendo quelle
che lo sono da un punto di vista sostanziale. La presenza di clausole confliggenti non esclude che
il contratto sia concluso, ma esclude le clausole stesse dal contenuto contrattuale. È però fatta
salva la espressa volontà di una parte, tempestivamente dichiarata, di non voler essere vincolata
da un siffatto contratto.
SEZIONE IV – Il consenso
CAPITOLO 1 – IL PROBLEMA DELLA VOLONTA’
Generalità
Se il contratto è inteso come l’espressione dell’autonomia e se l’autonomia è il potere della volontà,
il contratto sarà l’incontro di due volontà.
Se è il contratto è inteso come la promessa vincolante e impegnativa, che opera sulla base dei rispettivi
affidamenti, la volontà contrattuale cessa di essere un fatto psicologico e interno. Il soggetto è tenuto
perché ha indotto altri a fidarsi della sua parola.
L’indica dell’apparenza della volontà sarà la dichiarazione.
Il Sacco, quindi, sposta il discorso dal piano della volontà al piando della dichiarazione e conclude
che la volontà validamente manifestata è uno degli elementi da considerare, non l’unico. Pertanto,
se la dichiarazione esiste ed è di per sé idonea a produrre effetti, il consenso che ne deriva non può
considerarsi anomalo. Solo la prova dell’esistenza di circostanze impeditive (tra le quali la mancanza
di volontà o il vizio di essa) può togliere a quelle parole o a quello scritto il carattere di
dichiarazione. Le circostanza impeditive possono dipendere da:
- Comportamenti del soggetto (simulazione, riserva unilaterale espressa, semplice trattativa)
- Circostanze obbiettive (dichiarazione emessa sulla scena, per burla, per insegnare)
- Fatti umani (violenza fisica, minaccia, ipnotismo)
Bisogna ricordarsi che la dichiarazione inesistente può ugualmente produrre degli effetti contrattuali
quando esistono gli estremi per tutelare l’affidamento del terzo.
Il problema pratico diventa importante quando un soggetto percepisce parole o segni astrattamente
idonei a esteriorizzare una volontà, e non percepisce le circostanze o le dichiarazioni che impediscono
in concreto tale idoneità. In casi simili, quelle parole o quei segni diventano concretamente idonei a
dichiarare, nei confronti del destinatario che li ha percepiti avulsi dalle circostanze impeditive.
Nei limiti in cui tali circostanze siano opponibili, si può dire che esse distruggono la dichiarazione, e si
può ugualmente dire che esse provano l’assenza di una volontà conforme alla dichiarazione. Quando
si sia in presenza di 2 pezzi di dichiarazione contrastanti (simulazione) si parlerà di inesistenza del
primo pezzo di dichiarazione (dichiarazione ostensibile) se si considera la dichiarazione nel suo
complesso; di semplice assenza di volontà, se si prende come punto di riferimento la sola
dichiarazione ostensibile.
ABUSO → molte volte la legge considera rilevante, ai fini dell’efficacia del contratto, la proporzione
fra le prestazioni. Tutte le volte che, per cause diverse, oggettive o soggettive, questa proporzione
viene a mancare, si parla di abuso del contratto da parte di quel contraente che trae benefici dalla
sproporzione.
Il nostro legislatore ha adottato il criterio della protezione contro l’abuso in numerosi casi → se il
contratto è concluso:
- Dall’incapace naturale
- In stato di necessità o di pericolo
- Sotto la minaccia dell’esercizio di un diritto
Le norme sulla repressione dell’abuso danno luogo a problemi di classificazione, risolti dal Sacco nel
modo seguente:
» Alcune norme operano quando interviene uno stato d’animo del contraente che vizia la
volontà (errore)
» Altre operano in caso di atteggiamento psicologico biasimevole della controparte (dolo,
violenza, ecc)
» Altre operano in caso di sproporzione fra le prestazioni o di pregiudizio o vantaggio ingiusto
per uno dei contraenti
CAPITOLO 2 – LE REGOLE
Il legislatore
Il codice ignora tanto la figura generale del difetto di volontà quanto la distinzione tra anomalia della
dichiarazione, difetto del volere e vizio semplice, e configura varie ipotesi tipiche di vizio del consenso.
Questi vizi tipici sono:
La legge 281/1985 con l’art. 15 incomincia a mostrare diffidenza nei confronti di sollecitazioni del
pubblico risparmio effettuate mediante attività svolte in luogo diverso da quello adibito a sede
dell’emittente, del proponente l’investimento o del soggetto che procede al collocamento. La cautela
imposta dal legislatore è la previa autorizzazione.
Null’ATTIVITA’ DI GESTIONE DI PATRIMONI, che si svolga mediante operazioni aventi ad
oggetto valori mobiliari, il contratto di affidamento da concludersi tra società di intermediazione
mobiliare e il cliente non acquista efficacia prima del quinto giorno lavorativo successivo a quello della
sua sottoscrizione; entro il medesimo termine il cliente ha la facoltà di recedere, senza spese né
corrispettivo, facendo pervenire apposita comunicazione scritta alla società. Così dispone l’art. 8 legge
1/1991
In una direzione parallela si è attivata la Comunità europea, con la sua direttiva 85/577. L’art.
1 dispone che la direttiva si applichi ai contratti stipulati fra un commerciante che fornisce beni o
servizi e un consumatore durante una escursione organizzata dal commerciante al di fuori dei propri
locali commerciali, o durante una visita del commerciante al domicilio del consumatore, o a quello di
un altro consumatore, o sul posto di lavoro del consumatore, qualora la visita non abbia luogo su
richiesta del consumatore.
Gli artt. 4 e 5 indicano il meccanismo della protezione del consumatore. Il commerciante deve
informare per iscritto il consumatore del suo diritto di rescindere il contratto entro i termini di 7 giorni,
e comunicargli nome e indirizzo della persona nei cui riguardi può essere esercitato questo diritto. In
virtù dell’art. 6 il diritto del consumatore è irrinunciabile.
Il d.lgs. 50/1992, per delega recata dall’art. 42 legge 428/1990, dava esecuzione alla direttiva 85/577.
Le basi del d.lgs. sono le seguenti:
- Gli atti considerati
a) I contratti conclusi:
» Nel domicilio o sul posto di lavoro o nel luogo di cura del consumatore
» Durante un’escursione organizzata dall’operatore commerciale
» In luogo pubblico o aperto al pubblico, mediante sottoscrizione di una nota d’ordine
» Per corrispondenza o in base a catalogo consultato senza la presenza dell’operatore
commerciale
» Sulla base di offerte al pubblico diffuse con un mezzo televisivo o analogo, o
informatico o telematico
b) Le proposte inoltrate la consumatore in condizioni analoghe.
- L’obbligazione posta a carico dell’operatore è quella di avvisare il consumatore del suo diritto
al recesso, sotto pena di sanzione amministrativa
- Il trattamento giuridico dell’operazione è imperniato sul diritto irrinunciabile del consumatore
al recesso
La repressione del contratto slealmente concluso può operare con maggiore o minore severità.
Analisi dell’incapacità
L’incapacità naturale può determinare:
- Un’alterazione del processo formativo della volontà
- Una completa assenza della volontà medesima
- Anomalie della dichiarazione
Nel caso dell’ipnosi e del sonnambulismo l’anomalia si sposta infatti dalla volontà alla dichiarazione.
Se il soggetto, durante l’esperimento ipnotico, recitasse proposte o accettazioni contrattuali, né
l’ipnotizzatore, né un’altra persona che assiste consapevolmente all’esperimento potrebbe
considerare quelle recitazioni come dichiarazioni.
Ma il vero problema sorgerà per le dichiarazioni scritte e spedite dall’ipnotizzato, che poi pervenissero
ad una persona estranea all’esperimento.
L’idea di incapacità deve diventare indipendente dalla nozione di ciò che è patologico dal punto di
vita biologico, clinico e sanitario. La persona sana, in certi momenti, non è in condizione di valutare
ciò che fa.
Il Sacco propone di valutare l’incapacità naturale anche come uno stato momentaneo di incapacità
dovuto a suggestione, sorpresa, inesperienza.
Il pregiudizio e la malafede
L’art. 428, comma 1 invalida gli atti gravemente pregiudizievoli compiuti dall’incapace;
L’art. 428, comma 2 sottopone l’annullamento del contratto concluso dall’incapace alla
condizione che, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare all’incapace, o per la qualità del
contratto o altrimenti, risulti la mala fede della controparte.
GIURISPRUDENZA → non c’è uniformità di opinioni. Le sentenza della Cassazione hanno di volta
in volta accolto le seguenti conclusioni:
Il contratto dell’incapace può essere annullato anche quando il pregiudizio non è grave
Il pregiudizio non è richiesto per l’annullamento del contratto → la tendenza è in senso
esasperatamente protettivo dell’incapace, poiché è considerato rilevante solo l’esistenza della
mala fede
SACCO → entrambi gli elementi (pregiudizio e mala fede) sono indispensabili per
l’annullamento del contratto. Tra di loro non c’è necessariamente un legame, nel senso che
l’esistenza del pregiudizio dell’incapace non presume assolutamente la malafede della controparte.
Grave pregiudizio non è necessariamente sinonimo di sproporzione fra le prestazioni, come malafede
non significa sempre conoscenza dell’incapacità. Quando esiste l’incapacità, è malafede la generica
coscienza di arrecare una lesione alla controparte. Si può configurare un altro tipo di malafede:
l’induzione nello stato di incapacità: in questo caso la malafede prescinderà totalmente dalla scienza
della sproporzione. Reciprocamente, non ogni scienza dello stato di incapacità è malafede.
ESSENZIALE
RICONOSCIBILE
Errore = ogni falsa rappresentazione. L’art. 1428 elenca le 4 ipotesi in cui l’errore è essenziale,
parametrandole all’oggetto su cui l’errore cade.
L’oggetto su cui cade l’errore essenziale è in ogni caso un elemento del contratto (sua natura, suo
oggetto o soggetto, suo effetto giuridico). Ciò ha fatto domandare se, mediante un procedimento di
astrazione, sia possibile riassumere le 4 ipotesi di errore essenziale, descritte dall’art. 1429, in una
categoria unitaria, o se invece le 4 ipotesi siano irriducibili ad unità, in quanto strutturate in modo
eterogeneo ↓
DOTTRINA A FAVORE DEL CONCETTO UNITARIO
Viene posto alla base di tutto il consenso determinante, cioè la volontà.
Si afferma che affinché un errore sia essenziale esso deve essere determinante del consenso.
Concretamente: il consenso è stato manifestato a causa dell’errore, senza di esso il contratto non si
sarebbe mai concluso.
Ogni errore, per essere essenziale, deve essere determinante del consenso, ma non ogni errore
determinante del consenso può considerarsi essenziale.
Sono essenziali gli errore determinanti del consenso che cadono su un elemento del contratto →
l’elencazione tipica del 1429 NON è TASSATIVA ma solo esemplificativa.
CONCLUDENDO: un errore è essenziale (concetto unitario) se è determinante del consenso e se ricade
su un elemento del contratto.
Un’altra corrente in seno alla stessa dottrina, accettando le medesime premesse, conclude
però in questo modo: un errore è essenziale se è determinante del consenso e se è previsto
dall’elenco tassativo del 1429.
DOTTRINA CONTRARIA AL CONCETTO UNITARIO (Sacco)
Si parte dalla lettera del codice e si rileva che il problema della funzione determinante del consenso
non può essere la base del concetto unitario di essenzialità poiché la legge risolve vari casi in modo
diverso.
Nel n. 1 non viene menzionato il consenso determinante → il legislatore ha ritenuto sufficiente, ai
fini dell’essenzialità dell’errore, il fatto obbiettivo dell’esistenza dell’errore medesimo.
Nel n. 2 è invece menzionata la funzione determinante del consenso, valutandola però in astratto
(secondo il comune apprezzamento)
Nel n. 3 la funzione determinante del consenso è stata adottata pienamente.
Analogamente nel n. 4.
CONCLUSIONE: il concetto unitario di essenzialità è impossibile e l’elenco del 1429 è tipico e tassativo.
Il requisito della scusabilità non è menzionato nel codice, eppure qualche autore ha affermato la
necessarietà di questo terzo requisito.
Scusabilità = incolpevolezza → un errore è scusabile quando non è stato determinato da colpa
DOTTRINA
Si afferma che l’essenzialità dell’errore è valutata in astratto, e si afferma che essenzialità è sinonimo
di idoneità della falsa rappresentazione a determinare il volere e che deve essere valutata alla stregua
dell’uomo medio, e non dell’effettivo contraente. Essenzialità è un requisito troppo generico, è
necessaria una valutazione personale, psicologica del caso concreto → è necessario introdurre il
requisito della scusabilità.
Si propone l’analogia con l’art. 2706, comma 2
SACCO
Secondo il Sacco non è necessaria la scusabilità dell’errore poiché, a prescindere dal carattere astratto
dell’essenzialità, il cc impone un secondo requisito: la RICONOSCIBILITA’. Infatti, pur ipotizzando la
colpevolezza dell’errante, va considerata la negligenza dell’altra parte per non aver rilevato l’errore,
o peggio, per aver taciuto pur avendolo rilevato. Non è giusto negare l’annullabilità del contratto,
ponendo ogni danno a carico dell’errante, visto che c’è stata negligenza anche dell’altra parte; è
giusto che il danno venga subito da entrambe le parti, ciascuna delle quali si limita a perdere il profitto
sperato.
Secondo il Sacco, inoltre, non è pertinente il richiamo all’art. 2706, comma 2 poiché:
- Nell’art. 2706 si assegna rilevanza alla colpa del mittente nei confronti di un soggetto diverso
dal destinatario
- Nell’art. 1429 il soggetto è la controparte (il destinatario)
Errore sul valore = errore sulla convenienza = errore sulla qualità rilevante del bene
L’errore di calcolo
Secondo il cc l’errore di calcolo porta alla semplice rettifica, tranne nel caso in cui influisca sulla
quantità e sia stato determinante del consenso → annullamento.
La giurisprudenza dà, dell’errore di calcolo, la seguente definizione: errore materiale, rilevabile prima
facie, che si presenta in modo manifesto, che presuppone come posti, chiari, sicuri e fermi i termini da
computare. Se l’errore non si presenta in questo modo, si tratta di un ERRORE SULLA QUANTITA’, che
è un errore vero.
Il Sacco non è d’accordo e argomento come segue: l’errore di calcolo è indistinguibile dall’errore sulla
quantità, poiché l’errore sulla quantità dipende sempre da un errore di calcolo. Ora, premesso che
esiste una divergenza tra i fattori (poste) delle operazioni da eseguire e il risultato di queste
operazioni, tale divergenza può essere di 3 tipi:
(a) Le parti hanno voluto le poste e si sono accordate su di esse e poi, ad accordo concluso, hanno
commesso un errore nell’eseguire i conteggi. Siccome il contratto è concluso, l’errore è
irrilevante → rettifica
(b) Le parti hanno voluto le poste, poi hanno eseguito i conteggi commettendo un errore, poi
hanno voluto il risultato del conteggio. L’errore determina una volontà contraddittoria: le
parti vogliono contemporaneamente due cose incompatibili. Qui la logica porterebbe alla
nullità, poiché si è determinata una volontà contraddittoria, ma il 1430 impone ugualmente
la rettifica.
(c) Le parti hanno voluto solo il risultato, ma tale risultato deriva da un’operazione scorretta. Qui
non ci sono dubbi nell’affermare che il consenso è viziato → annullamento
Ogni caso di errore di calcolo potrà dar luogo a un problema di ricostruzione della volontà comune,
ossia ad un problema di interpretazione. Chiarita la volontà comune (il contenuto del contratto), si
potrà accertare quale sia stata la posizione della volontà individuale di fronte a questo precetto e
dedurne se sia intervenuto o meno un errore determinante.
L’errore comune
Per errore comune si intende l’errore bilaterale.
Esempio. Caio vende a Tizio il Tramontana (che è una villa) credendo che si tratti di uno yacht e Tizio
a sua volta crede di comprare uno yacht.
Il Sacco parla di rappresentazione falsa conosciuta, accompagnata dalla ignoranza della falsità della
rappresentazione.
Rappresentazione falsa conosciuta: si riferisce allo stato psicologico di Caio al momento della
stipulazione. Egli vende il Tramontana credendo che sia uno yacht, ma è consapevole che la sua
convinzione si fonda su una rappresentazione soggettiva e non sulla realtà. In altre parole, Caio
immagina che il Tramontana sia uno yacht, e se ne convince, anche se in realtà non ne ha mai avuto
conferma.
Ignoranza della falsità della rappresentazione: si riferisce allo stato psicologico di Tizio al
momento della stipulazione. Tizio non sa che Caio ha immaginato in modo sbagliato.
Ci si domanda se nel caso di errore comune sia necessario, ai fini dell’annullamento, il requisito della
riconoscibilità ↓
DOTTRINA TRADIZIONALE: la riconoscibilità non è essenziale poiché, trattandosi di un errore
comune, manca la ragione di tutelare l’affidamento del destinatario.
SACCO: siccome per riconoscibilità dell’errore bisogna intendere la riconoscibilità dell’errore
di Caio (rappresentazione falsa), esiste una ragione valida per tutelare l’affidamento di Tizio.
Quindi la riconoscibilità è rilevante.
L’essenzialità è sempre un requisito, anche se non sempre provoca l’annullamento:
Se lo yacht esiste, il contratto non si annulla, cioè è valido. Lo conferma l’art. 1362 che valida
la volontà comune anche se espressa in modo da non essere conoscibile dai terzi
GIURISPRUDENZA: la sua prassi non è sufficientemente uniforme per poter trarre conclusioni
DIRITTO INTERNAZIONALE UNIFORME: tende a far ricadere il rischio dell’errore sul compratore
con la conseguenza che il contratto è valido
La regola
Il nostro legislatore ha adottato la via del riconoscimento della rilevanza dell’imprevisione con l’art.
1467, e con altre regole ispirate alla stessa ragione. Fuori di quest’area, la legge tace, e il silenzio non
significa, in prima approssimazione, rilevanza della falsa supposizione.
Tuttavia non mancano possibilità per dichiarare l’inefficacia di un contratto per falsa presupposizione.
La buona fede può obbligare a illuminare la controparte in errore sui motivi.
La presupposizione consiste in una situazione di fatto, che non riguarda la sfera di una sola delle parti,
che le parti hanno ritenuta certa al punto da non regolarla neppure, pur facendola risultare dal
contratto, il cui verificarsi non dipende dalle parti.
Quando il presupposto non deve esplicare la sua rilevanza, si dirà che il motivo non esteriorizzato in
una condizione è irrilevante.
Raggiro e intenzione
Il problema è questo: quale elemento soggettivo (colpa o intenzione) integra la fattispecie del
raggiro? La risposta sembrerebbe ovvia: l’intenzione.
Da sempre, infatti, dottrina e giurisprudenza hanno concordatamente affermato che il dolo
contrattuale è sinonimo di intenzionalità.
Tuttavia, il Sacco contraddice l’opinione comune affermando che il dolo contrattuale è senz’altro un
illecito ex art. 2043, cioè un fatto ingiusto. Il fatto ingiusto ex art. 2043 presuppone entrambe le
partecipazioni psicologiche, sia quella dolosa che quella colposa → per mantenere il sistema coerente
è necessario ipotizzare anche un dolo contrattuale colposo, un raggiro colposo.
Raggiro e pubblicità
Il mendacio può essere contenuto in una dichiarazione pubblicitaria. Si parla infatti di una pubblicità
menzognera.
La pubblicità spesso parlerà delle qualità comparative dei prodotti concorrenti. La menzogna sarà più
pericolosa per il concorrente che non per il consumatore.
La pubblicità menzognera non può dirsi conforme alla buona fede nemmeno nei confronti del
consumatore.
La legge 281/1998 assicura al consumatore e all’utente l’adeguata informazione e la corretta
pubblicità, e riconosce il diritto soggettivo e il potere d’azione del consumatore.
L’art. 41 della legge 428/1990, che ha delegato il Governo all’adozione del d.lgs. 74/992, è inserito in
un Capo VI che ha come rubrica Tutela dei consumatori.
La pubblicità mendace è illecita nei confronti del consumatore. L’illecito porterà con sé il carattere
ingiusto del danno arrecatore, e quindi ex art. 2043, l’obbligazione risarcitoria, che diventa ex art.
2058 obbligo di rimessione in pristino. Quando l’evento dannoso si concreta nella conclusione del
contratto la rimessione in pristino si attua con la rimozione del negozio.
La norma:
- Riduce la pubblicità lesiva ad una condotta
- Non menziona l’intenzionalità dell’inganno
- Non menziona l’errore della vittima
Senza l’errore della vittima non può esserci lesione, MA la mancata menzione dell’errore tra i
costituenti della fattispecie fa pensare che la vittima sia dispensata dalla prova sul punto.
È da escludere la possibilità di un dolo omissivo del terzo, poiché su di lui non incombe un
obbligo giuridico di denunciare un’irregolarità
L’analisi si limita quindi alle parti del contratto e si scinde in due ulteriori ipotesi:
(a) Se si nega il valore colposo del raggiro l’unica ipotesi da valutare è il dolo omissivo
intenzionale del contraente → è assolutamente ipotizzabile e porta all’annullamento del
contratto
(b) Se si afferma il valore colposo del raggiro le ipotesi da valutare sono due, di cui una già
risolta (omissione intenzionale) e l’altra, l’omissione colposa, si risolve facendo
dipendere la rilevanza della omissione dall’esistenza di un obbligo di informare la parte
in errore, e gli obblighi di informazione sono differenti a seconda della natura del
contratto da concludere.
Le disposizioni sin qui reperite non ci dicono che esista un obbligo generalizzato di informare la
controparte.
L’art. 1337 impone ai contraenti, nella fase prenegoziale, una lealtà genericamente configurata. La
violazione della lealtà scatena la reazione di cui all’art. 1439 (dolo).
Gli articoli esaminati ci dicono che l’ordinamento distingue molte ipotesi.
Al contraente professionale, proprio per la sua professionalità, impone obblighi nei confronti della
controparte non professionale e perciò sprovveduta. Il contraente professionale deve illuminare la
controparte; e, se ha con essa un rapporto personalizzato, deve sapere fiutare l’errore di cui essa è
vittima, e chiarire.
Si fa notare che il soggetto minacciato non è detto che voglia gli effetti del contratto. Può volere
solo la dichiarazione. La minaccia può portare sia al vizio della volontà che alla mancanza totale di
essa. Le conseguenze giuridiche della violenza fisica sono talvolta uguali a quelle della minaccia: il
contratto può essere sia NULLO che ANNULLABILE (per minaccia)
Il Sacco specifica che ci sono ipotesi in cui la minaccia è anche causa di nullità del contratto. Questa
sanzione sarà caratteristica dei casi in cui la minaccia è più grave, vuoi per il suo oggetto vuoi per
le più pressanti limitazioni della libertà del soggetto minacciato.
La dichiarazione viziata da minaccia è efficace (salva l’annullabilità) quando, da un punto di vista
sociale, abbia una certa idoneità a creare un affidamento serio. Se anche questa idoneità manca,
allora la dichiarazione è del tutto inefficace, cioè il comportamento del minacciato non è una
dichiarazione → il contratto è NULLO.
Provenienza della minaccia
La minaccia può provenire dal contraente o da un terzo.
Nel caso in cui provenisse da un terzo, il legislatore, affermando l’annullabilità del contratto viziato,
sacrifica la protezione del destinatario della dichiarazione. Tale deroga al principio dell’affidamento
dimostra che:
La minaccia del terzo è considerata dal cc un vizio PIU’ GRAVE degli altri
Una parte della dottrina ha voluto mettere in evidenza una contraddizione tra l’art. 1435 e l’art. 1445:
- Nell’art. 1435 l’affidamento non è tutelato
La minaccia
Affinché la minaccia e il male che ne forma oggetto siano rilevanti devono sussistere 3 requisiti:
La minaccia deve essere ATTENDIBILE → deve avere l’attitudine ad impressionare una persona
sensata.
L’attitudine ad impressionare dipende dall’attendibilità della minaccia, dalla messa in
scena, dalle possibilità che residuano alla vittima di sottrarsi al male, e così via.
L’attendibilità deve essere valutata in astratto, anche se il principio è mitigato
dall’ultima frase del 1435, secondo cui si ha riguardo all’età, al sesso e alla condizione
delle persone
Il male deve essere NOTEVOLE e INGIUSTO → la gravità del male minacciato deve essere
notevole, cioè le conseguenze minacciate devono essere di non piccolo conto / il male deve
consistere nella violazione di un diritto altrui
L’ingiustizia minacciata deve incidere su una sfera alquanto vicina al soggetto intimorito (sua persona,
suoi beni, ente a cui appartiene).
All’ingiustizia del soggetto minacciato è legalmente equiparata quella di cui siano vittime il suo
coniuge, i suoi discendenti e i suoi ascendenti (art. 1436, comma 1)
Il campo dei soggetti “vicini” al minacciato è allargato dal 1436, comma 2 ad altre persone, la cui
vicinanza al minacciato è valutata dal giudice.
Naturalmente, la minaccia del male alieno non deve essere un puro pretesto per chiedere
l’annullamento, quando, in realtà, colui che ha concluso il contratto è rimasto indifferente alla
prospettiva del male minacciato: ma ciò è già insito nel principio per cui la minaccia è rilevante solo
quando sia stata, in concreto, la cagione del timore che ha determinato, a sua volta, il consenso.
Fa fede di quanto diciamo l’art. 1437 che sottrae all’annullamento il contratto concluso per timore
riverenziale, o ab intrinseco, cioè spontaneo (il timore deve essere l’effetto di un’azione altrui!).
⇒ Problema del trattamento di un contratto che taluno concluda a condizioni gravose per timore
spontaneo, riverenziale, immotivato della controparte, la quale sfrutta la situazione in mala fede. La
regola che vale per il caso dell’incapacità deve valere anche per il caso del timore.
- Se il male minacciato è punito dalla legge solo come illecito doloso, al fine di qualificare il
comportamento del soggetto come minaccia sanzionabile, è necessario valutare se il soggetto
era in mala fede.
Il caso più importante di male, la cui ingiustizia dipende dalla buona o mala fede di chi lo attua, è
l’ipotesi della via legale:
» Il denunziare scientemente un innocente (sanzione penale)
» L’agire scientemente senza ragioni valide (sanzione civile)
La denunzia e l’azione civile, se proposte in buona fede, sono lecite. Si domanda ora se la minaccia,
fatta in buona fede, di una denunzia o di un’azione civile obbiettivamente infondata sia ingiusta
perché obbiettivamente tale, o se difetti del requisito dell’ingiustizia perché il fatto minacciato
sarebbe, a sua volta, sprovvisto del momento psicologico che lo rende ingiusto.
Nesso causale tra violenza e consenso
La violenza è un comportamento attivo: infatti il solo timore reverenziale non è causa di annullamento
del contratto (ex 1437)
La violenza vizia il consenso solo se è intervenuta come condizione necessaria nella formazione della
volontà di dichiarare.
Il fatto che la violenza sia una condizione necessaria non consente ancora di stabilire se il legislatore
l’abbia ritenuta:
- Causa di un consenso che in mancanza di essa non sarebbe stato manifestato
- Causa di un consenso che sarebbe stato manifestato ugualmente, ma a condizioni diverse
L’occasione per discutere il problema è stata offerta dalla legislazione, in tema di dolo, che distingue
il dolo determinante e il dolo incidentale. Da tali disposizioni, una parte della dottrina ha tratto lo
spunto per un’applicazione analogica → la violenza porta all’annullamento solo se è determinante del
consenso.
Il Sacco, invece, fa prevalere la lettera della legge → la violenza porta sempre all’annullamento del
contratto.
Il vizio della volontà, sia esso determinante o incidentale, è sempre legato da un nesso causale alla
conclusione di quel contratto. La vittima della minaccia può sempre chiedere l’eliminazione della
perdita subita. Quando non può o non vuole chiedere l’annullamento del contratto, chiederà il
risarcimento dei danni.
Il pericolo
La disciplina del 1447 appare chiara se la si paragona a quella della violenza:
Lo stato di coazione non determinato minaccia del 1447 è simmetrico allo stato di coazione
determinato da minaccia del 1435
La rescissione del 1447 è il rimedio simmetrico all’annullamento del 1434
La necessità del 1447 è simmetrica rispetto alla coazione, entrambi gli stati psicologici si
traducono nel timore in senso lato
Il male temuto deve essere un danno alla persona (il danno al patrimonio non costituisce stato di
pericolo). Il danno alla persona potrà anche configurarsi latamente come lesione di qualsiasi bene
protetto da un diritto della personalità.
Non è necessario il danno ingiusto: è necessario che si tratti di danno grave
Lo scopo di salvare terze persone vizia il contratto tanto quanto lo scopo di salvare se stesso.
Per cui, il contratto non è viziato se allo stipulante non era noto lo stato di necessità.
Questo dimostra che la legge richiede la scienza concreta (malafede in senso stretto) come requisito
psicologico indispensabile.
L’iniquità delle condizioni non è un vizio del contratto, preso in sé per sé → lo diventa quando deriva
da uno stato psicologico di timore, dovuto allo stato di necessità.
In altre parole, il contratto sarà rescindibile solo in presenza di entrambe le circostanze (oltre alla
notorietà delle circostanze alla controparte in malafede):
- Stato di necessità
- Condizioni inique
Il bisogno
Il 1448 opera quando il 1447 è inapplicabile (il bisogno è un concetto più lato di necessità).
Bisogno:
» È la difficoltà economia duratura (indigenza), ma anche quella contingente e momentanea
» È il bisogno di denaro, ma anche di qualsiasi altro bene o servizio economico
Il bisogno non suppone che il bene si assolutamente indispensabile al contraente. Il caso della
indispensabilità sconfina nella necessità dell’art. 1447, mentre l’art. 1448 assolve ad una funzione
proprio quando l’art. 1447 è inapplicabile.
Lo stato di bisogno è rilevante anche quando sia stato provocato dal contraente.
Il soggetto dello stato di bisogno è il contraente, anche se il termine “stato di bisogno” si presta a
comprendere bisogni economici non solo immediatamente propri, ma anche dipendenti dalle
necessità altrui.
L’approfittamento e la lesione
Anche il 1448, come il 1447, prevede come elemento psicologico necessario la malafede della
controparte. La rescissione è possibile solo se il contraente ha approfittato dello stato di bisogno per
trarne vantaggio.
L’approfittamento non deve necessariamente consistere in un comportamento attivo, ma può
limitarsi ad un atteggiamento psicologico che rimane allo stato passivo:
- Scienza dello stato di bisogno
- Scienza della sproporzione
- Scienza del proprio vantaggio
- Intenzione di ricavare vantaggio
La lesione è rilevante solo se la prestazione del contraente in stato di bisogno ha valore almeno doppio
rispetto alla prestazione della controparte. Il valore deve essere definito in modo astratto e
obbiettivo. La rescissione può aver luogo solo se la lesione perdura fino al tempo in cui la domanda è
proposta.
La rescissione non è più possibile quando lo stato di sproporzione si riduce in stato di equità, non
essendo sufficiente che la lesione sia ridotta sotto la metà.
SEZIONE V – Le controdichiarazioni
CAPITOLO 1 – LA SIMULAZIONE E I SUOI EFFETTI SOSTANZIALI
La simulazione in genere
In virtù dell’art. 1414, comma 1, il contratto simulato non produce effetto tra le parti. La stessa regola
si applica agli atti unilaterali recettizi che siano simulati per accordo tra il dichiarante e il destinatario
(comma 3)
Due o più soggetti pongono in essere un negozio destinato a creare una situazione di apparenza
rispetto ai terzi
La simulazione relativa
Se le parti, simulando o dissimulando, intendono produrre effetti giuridici (diversi, ovviamente, da
quelli enunziati nell’atto simulato), il loro accordo non è privo di effetti per il solo fatto che la
dichiarazione che lo contiene è dissimulata (art. 1414, comma 2).
La dottrina tradizionalmente distingue, sulla base degli scopi ultimi che hanno indotto le parti a porre
in essere il negozio simulato:
La SIMULAZIONE ASSOLUTA
Quando le pari hanno simulato un negozio ma in realtà non ne vogliono nessuno
La SIMULAZIONE RELATIVA
Quando le parti hanno simulato un negozio ma in realtà ne vogliono uno diverso
Il Sacco ritiene difficile operare questa distinzione poiché, in concreto, la simulazione che noi
consideriamo assoluta nasconde spesso per lo meno un mandato ad amministrare (es La vendita
simulata non vale come vendita, sicuramente però vale a conferire i poteri di gestione ed
amministrazione del bene). Inoltre, le difficoltà non diminuiscono quando si pensa che la simulazione
assoluta comporta l’attribuzione all’acquirente (o promissario dissimulato) del potere di far valere la
dichiarazione occulta, risolvendo gli effetti di quella palese.
La conclusione del Sacco è la seguente:
È necessario trovare un punto in comune tra le due ipotesi (assoluta e relativa) ed evitare
classificazioni aprioristiche → nel dubbio la simulazione va considerata assoluta. Pertanto solo
la prova certa di una volontà negoziale dissimulata può portare a concludere per l’esistenza di
una simulazione relativa.
Ogni simulazione contiene in sé l’intento che alcuni effetti dell’atto simulato possano operare.
Nella simulazione relativa, il contratto dissimulato ha effetti tra le parti, purché ne sussistano tutti i
requisiti di sostanza e di forma. Non si richiede che la controdichiarazione sia formale, ma solo che la
forma richiesta dalla legge per il contratto dissimulato sussista o nel contratto dissimulato o in quello
simulato.
Se il contratto dissimulato è una donazione, e il contratto simulato è una vendita, cosicché la
controdichiarazione è redatta per scrittura privata, e la vendita è fatta per atto notarile, ma senza
testimoni, la donazione è nulla per difetto di forma.
Ipotesi in cui prevale l’interesse a far valere la realtà sull’apparenza a cui si ricollega la categoria
di soggetti legittimati a dimostrare che il contratto è SIMULATO
Questi soggetti sono:
a. I terzi acquirenti del simulato alienante (art. 1415, comma 2)
b. I creditori del simulato alienante (art. 1416, comma 1)
Questi soggetti, secondo la legge, hanno interesse a far valere la simulazione, cioè: nei
loro confronti il negozio simulato non produce alcun effetto poiché le loro aspettative
si fondano sulla realtà.
Sinteticamente, la simulazione può essere opposta dall’avente causa del simulato
alienante al simulato acquirente
Ipotesi in cui prevale l’interesse a far valere l’apparenza sulla realtà, a cui si ricollega la categoria
dei soggetti legittimati a dimostrare che il contratto è VALIDO
Questi soggetti sono:
a. I terzi che, in buona fede, hanno acquistato diritti dal titolare apparente (art.
1415, comma 1)
b. I creditori del titolare apparente, che, in buona fede, hanno compito atti di
esecuzione sui beni che furono oggetto del contratto (art. 1415, comma 1)
La legge in questi casi tutela l’affidamento del soggetto in buona fede, tanto che
l’apparenza prevale sulla realtà.
Sinteticamente, la simulazione non può essere opposta all’avente causa del simulato
acquirente.
Quando sorge un conflitto tra categorie tutelate, la legge stabilisce che i creditori chirografari del
simulato acquirente (che fondano le proprie aspettative sull’apparenza) soccombano nei confronti
dei creditori del simulato alienante (che fondano le proprie aspettative sulla realtà) se il credito di
questi ultimi è anteriore all’atto simulato.
La giurisprudenza anteriore al 1975 ha affermato la regola secondo cui la simulazione non può essere
opposta ai terzi, che non siano specificatamente in malafede; regola che non prevede limiti di alcun
genere: ogni terzo è tutelato. È terzo anche il mediatore, il curatore del fallimento.
Il Sacco ha proposto un’interpretazione più vicina al senso letterale della legge che ha portato
all’imposizione di alcuni limiti:
→ La buona fede del terzo si PRESUME
→ Il terzo è protetto solo quando abbia acquistato un DIRITTO
Dopo il 1975 anche la giurisprudenza ha adottato le soluzioni interpretative che il Sacco dice essere
sue.
Se è il terzo a provare, può provare la simulazione con OGNI MEZZO (prova per testimoni e prova per
presunzioni senza limiti)
⇒ sul terzo non incombe l’obbligo della controdichiarazione
La regola si applica al curatore del fallimento dell’alienante e all’acquirente dell’alienante. La
giurisprudenza la applica anche ai successori per causa di morte a titolo particolare, cioè ai
legatari, compreso il coniuge superstite, in quanto legatario ex lege.
Il successore a titolo universale non è considerato terzo; il legatario, invece, è considerato
terzo. Un principio giurisprudenziale stabilisce che chi è vittima della simulazione, ai fini della
prova, deve considerarsi terzo. Il Sacco critica questa impostazione affermando che non esiste
motivo per cui il legatario debba avere condizioni più favorevoli per smascherare la
simulazione rispetto al suo dante causa.
Anche il legittimario è considerato terzo, perché è generalmente la vittima designata di
alienazioni che sostanzialmente sono donazioni e che vengono fatte passare per vendite al
fine di sfuggire all’azione di riduzione.
Il mandante. Esempio. Tizio, procuratore di Caio, sottoscrive nel nome un atto, che poi Tizio
impugna chiedendo la declaratoria di simulazione. Vi è un massima secondo cui il mandante,
terzo rispetto alla simulazione, può ricorrere a qualsiasi mezzo di prova. Ma i casi in cui si fa
ricorso alla massima sono quelli in cui il mandatario lungi dall’emettere dichiarazione e
controdichiarazione, falsifica la prova di un negozio (es retrodata). Il patto può essere provato
da chi non ne è parte, e servirà a provare il vero vizio dell’atto, che consiste
nell’appropriazione di un bene operata dal mandatario, o nell’esercizio di poteri
rappresentativi inesistenti. Il contratto propriamente simulato dal mandatario è solo quello in
cui il mandatario, concludendo nel nome il negozio apparente, stipula nel nome anche il patto
di rispetto. Alla massima si potrebbe sostituire una regola che equipari al terzo il mandante,
quando la simulazione sia stata il modo per agire fraudolentemente a suo danno.
Il contraddittorio
Esigenza di evitare giudicati contraddittori → la legge stabilisce il LITISCONSORZIO NECESSARIO, per
cui la sentenza è nulla se non è emessa verso tutti i partecipanti all’atto in questione.
SEZIONE VI – La forma
CAPITOLO 1 – LE FORME IN GENERE
La forma legale
Per forma si intende il modo in cui avviene la manifestazione di volontà (ossia lo speciale mezzo
semantico, o lo speciale frasario) o il modo in cui la manifestazione è resa certa (presenza di testi,
redazione di verbale).
Nel nostro ordinamento vige, salvo eccezioni, il PRINCIPIO DELLA LIBERTÀ DI FORMA.
Talora l’adozione della forma è requisito per la prova, altre volte per la validità dell’atto; altre volte
per l’efficacia dell’atto come titolo esecutivo dell’atto, o per l’opponibilità dell’atto a terzi.
Il principio della libertà delle forme vale solo nel senso che, sul piano degli effetti sostanziali, un
contratto o un altro atto equiparato al contratto, fino a diversa disposizione, non è nullo né altrimenti
invalido per il fatto che non è stata adottata una forma solenne o tipica.
Occorre precisare che:
» Il principio della libertà delle forme vale solo sul piano della validità degli atti, mentre sul piano
di determinati effetti dell’atto vale il principio contrario
Esempio. L’efficacia di titolo esecutivo di un atto è sempre legato alla formalità propria
di una formalità propria di una cambiale, di un assegno o di un atto pubblico
Analogamente l’efficacia di prove è pure sottoposta a forme vincolate
» Il principio della libertà delle forme, secondo il Sacco, è disciplinato da norme che non sono di
carattere eccezionale, non sono soggette al divieto di applicazione analogica e non sono
soggette ad interpretazione restrittiva
Le forme volontarie
1.
L’art. 1352 si limita a sancire una presunzione (la presunzione che la forma sia voluta per la validità);
e ricollega questa presunzione ad una sola ipotesi (l’ipotesi del patto scritto). E così lascia fuori:
- La validità e l’effetto di una clausola non scritta → un’opinione ha ritenuto la nullità della
clausola non scritta; ma tale opinione non è d’accordo con lo spirito della legge, che parla
della clausola scritta come di una semplice ipotesi nel quadro più ampio della clausola intorno
alla forma.
Ci si domanda se, fuori del campo della lettera dell’art. 1352, il patto imponga la forma per la
validità dell’atto, o per la prova di esso, o se più semplicemente crei un’obbligazione di
somministrare alla controparte la prova formale del contratto.
- Il valore preciso della presunzione, di cui la lettera non dice se sia:
Iuris tantum (Presunzione relativa = ammessa prova contraria)
Iuris et de iure (Presunzione assoluta = no prova contraria)
La presunzione di cui all’art. 1352 non è iuris et de iure. Ma non è una semplice presunzione
interpretativa; altrimenti, sarebbe ammessa la prova testimoniale per correggere
l’interpretazione. Il documento crea la presunzione, e la prova destinata a superare la
presunzione deve considerarsi contraria al documento ai sensi dell’art. 2722.
Stipulato il contratto di merito senza la forma richiesta volontariamente per la validità, il contratto
amorfo è NULLO. Il giudice può pronunciarsi d’ufficio.
Bisogna accertare di volta in volta se le parti stipulando il patto di merito senza la forma prescritta
abbiano implicitamente abrogato il precedente accordo. Ma, per fare questo accertamento, si
verrebbe a sottoporre nuovamente ognuna delle parte all’alea delle prove meno qualificate, che esse
avevano voluto allontanare da sé con la clausola. Pare giusto, quindi, ritenere che:
Le parti, nello statuire che un futuro (eventuale) contratto avrò bisogno di una certa forma, vogliano
altresì che abbia bisogno della stessa forma il patto abrogativo di questa statuizione
2.
Il legislatore prevede l’inefficacia totale dell’accettazione data in forma diversa da quella voluta dal
proponente. La giurisprudenza ha però trasformato questa inefficacia in una specie di nullità relativa.
Secondo la Corte di cassazione, la norma è posta nell’esclusivo interesse del proponente, quindi ne
deriva che è decisiva, per l’applicazione del comma citata, la volontà del proponente, che potrebbe
anche rinunciare alla forma.
Secondo il Sacco, la norma è certamente posta nell’interesse del proponente. Tale interesse è bene
protetto mediante l’inefficacia dell’accettazione informale. Ma a questo punto la regola posta
nell’interesse del proponente deve produrre il suo pieno effetto. L’accettazione deve dunque dirsi
inefficace ipso iure. Questa accettazione indica pur sempre la presenza di una volontà negoziale
dell’accettante, e perciò potrà valere come una nuova proposta. Il cd proponente, rinunciando al
requisito formale, diverrà accettante.
Ambito in cui opera il requisito della forma scritta, secondo l’art. 1350
L’imposizione della scrittura privata (o dell’atto pubblico) per la validità del contratto opera in virtù:
2) Una serie di atti, perché dispongono di diritti sulla nave (artt. 149 e 328 c.nav.) o
sull’aeromobile (art. 864 c.nav.)
3) Una serie di atti, perché dispongono intorno ad un diritto di ipoteca (artt. 2821 e 2882,
artt. 565 e 1027 c.nav)
4) Una serie di atti, perché involgono un patrimonio intero o una frazione di esso (artt.
1543 e 1978)
5) Altri atti, perché mirano alla costituzione di vincoli sociali (art. 2296 quanto alla
costituzione di società di persone, art. 2439 quanto alla sottoscrizione di nuove azioni)
7) Altri atti, per ragioni varie (art. 1350 n 10 in materia di vendite vitalizie o perpetue,
art. 2603 in materia di consorzi tra imprenditori)
Si nota che la scrittura è richiesta prevalentemente per l’oggetto (in un caso per le qualità oggettive
del contraente). Si nota anche che essa è prevalentemente richiesta in relazione al tipo di bene o di
diritto di cui si dispone.
Accanto alla forma scritta per dati contratti, abbiamo la forma scritta richiesta per determinati
impegni e per determinate clausole:
(nn. 1, 2, 3, 4)
- I contratti traslativi della proprietà immobiliare
- I contratti costitutivi, modificativi, traslativi del diritto di superficie, di enfiteusi, di usufrutto,
nonché del diritto del concedente
- I contratti costitutivi e modificativi dell’uso, dell’abitazione, della servitù prediale, i contratti
costitutivi di comunione di proprietà, enfiteusi, superficie, usufrutto
(n. 11)
- Le divisioni di proprietà o di altri diritti immobiliari
(nn. 5, 6)
- I contratti di affrancazione del fondo enfiteutico, nonché gli atti di rinunzia ai diritti menzionati
nei n precedenti
Ulteriormente, il legislatore assoggetta alla forma scritta le anticresi (contratto con il quale il debitore
o un terzo per lui si obbliga a consegnare un immobile al creditore a garanzia del credito, affinché il
creditore ne percepisca i frutti imputandoli agli interessi e poi al capitale dovuto), le locazioni
immobiliari ultranovennali, nonché i contratti di società o di associazione con i quali si conferisce il
godimento di beni immobili o di altri diritti reali per un tempo eccedente i 9 anni o per un tempo
indeterminato (nn. 7, 8, 9)
Lo stesso trattamento è riservato agli atti che costituiscono rendite perpetue o vitalizie (n. 10)
Infine, una norma cerniera impone la forma a tutte le transazioni che hanno per oggetto controversie
relative ai rapporti giuridici fin qui menzionati (n. 12)
Con l’art. 1351 si dispone che il contratto preliminare è nullo se non è fatto nella stessa forma che la
legge prescrive per il contratto definitivo
Con il primo gruppo si regole (nn da 1 a 6, e n 11) il legislatore voleva riferirsi a tutti i contratti che
producono una vicenda di rapporto reale immobiliare.
Gli è sfuggita qualche omissione: es Le alienazioni di quote
Il codice precedente sanciva con chiarezza la natura mobiliare delle partecipazioni sociali industriali
o commerciali, e con ciò veniva ad escludere la necessità della forma scritta della cessione di quota
di società, nel cui patrimonio si trovassero beni immobili.
Il problema è semplice allorché si tratti di quote di società personificata: l’immobile appartiene alla
società; il diritto del socio non è diritto reale sull’immobile, e pertanto il suo trasferimento è sottratto
ad ogni applicazione della norma di cui all’art. 1350.
Il problema è invece difficile allorché si tratti di quota di società di persone: società di persone, società
in nome collettivo, società in accomandita semplice.
La lacuna è stata colmata mantenendo in piedi la soluzione propria del codice abrogato.
L’una vede nell’atto risolutorio il fenomeno analogo e simmetrico rispetto all’atto della cui
risoluzione si tratta e perciò richiede per entrambi la medesima forma
L’altra vede nell’atto risolutorio una figura nettamente caratterizzata rispetto al negozio
soggetto a risoluzione e perciò richiede la forma solo se e quando essa sia richiesta in relazione
all’effetto prodotto dall’atto.
Esempio. Se Tizio vende a Caio per scrittura privata un immobile, e poi Caio lo prega per telefono di
rifare la scrittura alienando a Sempronio, e Tizio accede all’invito, sarebbe difficile ammettere che
Caio, a distanza di tempo, possa agire contro Tizio per l’adempimento del contratto originario.
Bisogna assegnare a Tizio un’eccezione fondata sul consenso di Caio all’inadempimento.
È fondata la richiesta di una forma scritta per lo scioglimento di un’alienazione immobiliare. Eccezioni
potrebbero essere concesse al venditore allorché il compratore abbia accettato la sostituzione del
negozio in cui era parte con una vendita fatta a terzi, o quando le parti abbiano d’accordo distrutto i
documenti.
Pare si possa accogliere l’idea che la risoluzione del contratto di locazione ultranovennale, e del
contratto di società (con apporto di solo godimento) non abbisogna della forma, perché non crea
nessun diritto personale ultranovennale.