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Licenziamento per inabilità allo svolgimento delle mansioni per infortunio o malattia:
difetto di giustificazione del motivo:
-15 dipendenti assunti dal 7 marzo 2015: = a sopra
+15 dipendenti assunti dal 7 marzo 2015: reintegratoria 5 mensilità ripresa attività 30 gg,
risoluzione 15 mensilità.
Licenziamenti collettivi:
no procedure di legge:
-15 dipendenti assunti dal 7 marzo 2015:
+15 dipendenti assunti dal 7 marzo 2015: indennitaria 2 mensilità per anno da 4 a 24 mensilità.
Dal testo della norma emerge l’idoneità del licenziamento, pur illegittimo, a risolvere il
rapporto di lavoro e, dunque, a produrre l'effetto di estinguere il rapporto stesso, ma fa
sorgere in capo al datore un’obbligazione alternativa di ricostituzione ex novo di un rapporto
di lavoro con il lavoratore illegittimamente licenziato o, a sua scelta, il versamento di
un'indennità risarcitoria forfettaria, soluzione quest’ultima, largamente prevalente nella
pratica.
I criteri per la determinazione dell'importo del risarcimento forfettario previsti dalla norma,
di cui il giudice dovrà tener conto, sono stati più di recente modificati dall' articolo 30, co. 3,
Legge n. 183/2010, che ha inserito, accanto al numero di dipendenti occupati, alle
dimensioni dell'impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento
e alle condizioni delle parti, anche i parametri fissati dai contratti collettivi stipulati dai
sindacati comparativamente più rappresentativi ed ai contratti individuali certificati, qualora
prevedano criteri diversi, integrativi e non alternativi rispetto ai criteri legali.
Il risarcimento è calcolato in base all'ultima retribuzione globale di fatto corrisposta al
lavoratore quando era in servizio, moltiplicata per il numero di mensilità deciso dal giudice
tra il minimo e il massimo previsti dalla legge, con esclusione di ogni considerazione circa il
danno effettivamente subito dal lavoratore, che resta quindi fuori da ogni valutazione.
7.2 La tutela reale dopo la legge n. 92/2012: l’alternativa tra tutela reale ridotta e
tutela indennitaria
Si è già più volte evidenziato come, a seguito della riforma del 2012, l'articolo 18 Stat. Lav.
non preveda più come unica reazione alle diverse ipotesi di illegittimità del licenziamento
(nullità, annullabilità ed inefficacia) il risarcimento in forma specifica della reintegrazione
del lavoratore nel posto di lavoro.
Il primo è quello previsto dall’art. 18, co. 4 Stat. Lav., in base al quale per il licenziamento
disciplinare, vale a dire per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la reintegrazione
nel posto di lavoro è prevista solo in due ipotesi specifiche:
a) per insussistenza del fatto contestato posto a base del licenziamento: ipotesi che si
verifica non solo quando il datore di lavoro abbia rivolto al lavoratore un’accusa infondata,
basata su un fatto non vero, ma anche quando il fatto contestato, pur essendo vero,
palesemente non assuma la rilevanza sufficiente a giustificare il licenziamento, con o senza
preavviso. Sul significato da attribuire all’espressione, si confrontano, dal suo debutto,
dottrina e giurisprudenza, sostenendo la prima che il fatto al quale la legge fa riferimento è
un fatto materiale storico, spogliato di tutti gli elementi di contestualizzazione del caso
concreto e esente da ogni valutazione di gravità e proporzionalità, la seconda, di contro, per
opinione dominante in giurisprudenza, che, quando si tratta di licenziamento disciplinare,
assumono rilevanza ai fini del giudicare non fatti materiali, ma inadempimenti contrattuali
imputabile al lavoratore.
La giurisprudenza ormai pacifica sul punto, invero, ha affermato che un fatto materiale
esistente, ma privo di rilievo disciplinare, è un fatto insussistente : l’irrilevanza giuridica
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b) perché il fatto contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione
conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari
applicabili. La previsione ha comportato non pochi problemi interpretativi a causa della
genericità e onnicomprensività delle formule utilizzate dai contratti collettivi, inducendo
spesso i giudici a forzare la lettera della legge, nel senso di avocare a sé la valutazione se
fatti per i quali i contratti collettivi prevedono una sanzione conservativa non siano
viceversa talmente gravi da integrare una giusta causa di licenziamento e, dunque, da
condurre ad una valutazione di legittimità del licenziamento. La lettera del nuovo 4 comma
dell'art.18 sembra, invece, prevedere un automatismo sanzionatorio che opera sempre in
presenza della sfasatura tra le previsioni di tipo conservativo del contratto collettivo e il
provvedimento datoriale espulsivo.
Riguardo alle due fattispecie richiamate, è stato osservato che tra esse vi è pieno
parallelismo e coerenza sistematica e che attraverso esse viene recuperato il canone della
proporzionalità tra inadempimento e sanzioni. Questa valutazione in termini di
sussistenza/insussistenza del fatto contestato, altresì, si raccorda con il canone generale
dell’art. 1455 c.c., in base al quale il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di
una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell'altra: il comma 4
dell’art. 18 non fa altro che specificare questo principio generale, applicandolo al recesso
datoriale giustificato con una condotta inadempiente del lavoratore, ossia al licenziamento
disciplinare.
Nelle due ipotesi anzidette, il licenziamento è dichiarato annullabile dal giudice e il datore
di lavoro è condannato a reintegrare il lavoratore, al quale è dovuto però non il risarcimento
dei danni ma un’indennità - con funzione risarcitoria ma non connessa al danno effettivo -
commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a
quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore percepito nel periodo di
estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d aliunde perceptum), nonché
quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova
occupazione (c.d. aliunde percipiendum).
La misura dell’indennità risarcitoria non può comunque essere superiore a 12 mensilità della
retribuzione globale di fatto, parametrato al solo periodo che va dal licenziamento alla
sentenza; per il periodo successivo, resta salvo il diritto del lavoratore al risarcimento
commisurato alla retribuzione in caso di mancata reintegrazione.
Lo stesso regime è previsto per i licenziamenti per giustificato motivo economici illegittimi
per “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” e per i licenziamenti
illegittimi per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore o
i licenziamenti intimati in violazione dell'art. 2110 c.c. (superamento del periodo di
comporto).
Al fine di non ridurre, dunque, la reintegrazione a sanzione per le ipotesi patologiche e come
tali del tutto marginali, secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza, si dovrà
considerare come manifestamente insussistente non solo la motivazione meramente
pretestuosa, ma anche la mancata prova del nesso causale tra le scelte tecnico produttive -
insindacabili - e il licenziamento del singolo lavoratore .
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L'innovazione più rilevante introdotta dalla Legge n. 92/2012 riguarda la possibilità che,
pure a fronte di un licenziamento illegittimo, disciplinare o economico, il giudice dichiari
risolto il rapporto e applichi una tutela meramente indennitaria.
Il comma 5 dell'art. 18 Stat. Lav. prevede infatti che, in quelle ipotesi in cui è accertato che
il fatto addebitato al lavoratore sussiste e non rientra tra le condotte punibili con una
sanzione conservativa, il giudice debba valutare se gli elementi forniti dal datore di lavoro,
che ha l'onere della prova della giustificazione, integrino gli estremi del giustificato motivo
soggettivo o della giusta causa e in caso di esito negativo di tale verifica, ovvero di
insufficienza della giustificazione a legittimare il licenziamento, come avviene quando
l’inadempimento del lavoratore sussiste ed è comunque imputabile ma non è tanto notevole
o grave da giustificare il licenziamento, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto
dalla data di comunicazione del licenziamento.
Allo stesso modo, ai sensi del comma 7 dell’art. 18, se si tratta di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, in tutte le ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del
giustificato motivo oggettivo, il giudice applica la tutela indennitaria, per cui il
licenziamento è valido e produce l'effetto estintivo del rapporto di lavoro e al lavoratore
spetta un' indennità risarcitoria onnicomprensiva, variabile tra un minimo di 12 a un
massimo di 24 mensilità della di retribuzione globale di fatto, alla cui determinazione il
giudice procede sulla base dei criteri di cui al comma 4, nonché tenendo conto del
comportamento delle parti nella procedura preventiva al licenziamento, ai sensi dell'art art 7,
Legge n. 604/1966, da espletare innanzi al DTL.
In queste ultime fattispecie, qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda
formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o
disciplinari, trovano applicazione le relative tutele (tutela reale piena e tutela reale ridotta).
Il mancato rispetto dei requisiti formali e procedurali del licenziamento genera in capo al
lavoratore una tutela indennitaria c.d. debole, nel senso che l’ammontare dell’indennità è
ridotto rispetto a quella previste nelle ipotesi disciplinate nei commi precedenti.
Il vizio formale non impedisce, però, un esame sotto l'aspetto sostanziale, qualora il giudice
accerti, sulla base della domanda del lavoratore, che vi è anche un difetto di giustificazione
del licenziamento: in tal caso troverà applicazione in alternativa la tutela reintegratoria con
indennità limitata, o la tutela indennitaria forte. Al vizio procedurale viene in tal caso a
sovrapporsi un vizio sostanziale (giustificazione insussistente o inadeguata), in conseguenza
del quale trovano applicazione le correlate sanzioni, ma l'onere della prova grava, almeno in
parte, sul lavoratore.
La riforma del 2015, c.d. Jobs Act, ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio contro i
licenziamenti illegittimi che, come si è già avuto modo di osservare, ha determinato un
generale abbassamento rispetto all’assetto precedente, a sua volta oggetto di intervento
riformatore del 2012, delle tutele previste per il lavoro subordinato.
Incrementando il tasso di flessibilità in uscita, la novella realizza una significativa
marginalizzazione della tutela reintegratoria, sostituita da una tutela solo indennitaria
parametrata sulla mera anzianità di servizio del lavoratore, da cui discende la
denominazione “tutela crescente”, che diventa quindi ora la regola, relegando la tutelare
reintegratoria a mera eccezione.
Il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo introdotte dal legislatore nel 2015 trova
applicazione nei confronti di tutti i lavoratori, fatta eccezione per i dirigenti, assunti con
contratto a tempo indeterminato successivamente alla data di entrata in vigore del
menzionato decreto legislativo, ovvero il 7 marzo 2015.
Per rilievo unanime, la nuova disciplina non trova applicazione nei confronti dei pubblici
dipendenti, ai quali risulta applicabile la nuova disciplina del lavoro nel settore pubblico
emanata con il d.lgs. n. 175/2017 in attuazione della legge delega n. 124/2015 (c.d Riforma
Madia), che modifica in più parti il d.lgs. n. 165/2001; più controversa la sua applicazione ai
rapporti speciali di lavoro, nei quali i lavoratori non sono classificati in operai, impiegati e
quadri ai sensi della disciplina codicistica e per i quali vigono diverse discipline in materia
di cessazione dei rapporti di lavoro (si pensi al personale navigante del settore marittimo di
aeronautico, ai lavoratori domestici e agli atleti professionisti).
Sul lato datoriale, diversamente dalla precedente novella del 2012, la cui scelta strategica è
stata quella di lasciare in vigore la disciplina della cosiddetta tutela obbligatoria e di
mantenere inalterata la summa divisio di tutele rappresentata dal criterio dimensionale , la30
nuova disciplina sanzionatoria trova applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, a
prescindere dal dato dimensionale e numerico, e a prescindere dall'oggetto dell'attività
esercitata, coinvolgendo anche le cosiddette organizzazioni di tendenza (art. 9, comma 2,
d.lgs. n. 23/2015).
In continuità con la riforma avviata dalla legge del 2012, ricalcandone l’impalcatura, anche
il nuovo regime sanzionatorio presenta una quadripartizione delle tutele, a cui se ne
aggiunge una quinta se si considera l’ulteriore regime della piccola impresa: la tutela
reintegratoria piena; la tutela reintegratoria con indennità limitata; la tutela indennitaria forte
o standard; e la tutela indennitaria ridotta.
inefficace perché intimato in forma orale, ovvero ancora, innovando rispetto alla previsione
dell’art. 18 Stat. Lav., al licenziamento del quale sia stato accertato in giudizio il difetto di
giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (anche
se disabile assunto obbligatoriamente ai sensi della Legge n. 68/1999) . 32
Il contenuto di questo tipo di tutela resta quello già previsto dalla legge del 2012 con una
sola differenza: la retribuzione sulla cui base viene commisurata l’indennità risarcitoria, che
si aggiunge alla reintegra, non è più l’ultima retribuzione globale di fatto, bensì l'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, che potrà risultare
inferiore rispetto alla retribuzione globale di fatto.
Al di fuori dei casi di licenziamento discriminatorio, nullo o orale, l'applicazione della tutela
reintegratoria è prevista ora esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento disciplinare, per
giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, in cui sia direttamente dimostrata in
giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta
estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
La nuova disposizione segna un netto distacco rispetto alla analoga previsione dell’art. 18
Stat. Lav., giacchè accoglie chiaramente una nozione di fatto puramente materiale, che
prescinde da tutti gli elementi di contesto, qui rilevanti solo ai fini della ricognizione della
giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, e soprattutto prescinde dalla valutazione
compiuta non solo in sede giudiziale ma anche in sede collettiva circa la proporzione tra
licenziamento intimato e la gravità della mancanza commessa, posto che manca nel testo
letterale ogni riferimento alle disposizioni dei contratti collettivi prescriventi per lo stesso
fatto contestato una sanzione solo conservativa.
Resta, tuttavia, ad opinione di parte della dottrina, e benché il legislatore abbia volutamente
omesso un richiamo alla contrattazione collettiva, l'obbligo del datore di lavoro di applicare
il codice disciplinare aziendale, e con esso la proporzionalità tra infrazione e sanzione, e
resta in ogni caso, e anche prescindendo dalle valutazioni espresse dalla contrattazione
collettiva, la considerazione secondo cui un licenziamento disciplinare motivato da una
condotta del lavoratore, che pur essendo un fatto sussistente, fosse di scarsissimo rilievo,
sarebbe così platealmente sproporzionato da sconfinare nell’uso arbitrario del potere di
licenziamento.
Rimane altrettanto ferma, in attesa di qualche ulteriore riscontro giurisprudenziale che
consenta di approfondire la riflessione, l'interpretazione della Corte di Cassazione secondo
cui nel campo delle infrazioni e relative sanzioni disciplinari, per essere sussistente il fatto
contestato deve necessariamente avere rilevanza disciplinare (Cass. n. 20540/2015), rilievo
che include valutazioni di ordine soggettivo, nella misura in cui è disciplinarmente rilevante
solo un inadempimento imputabile al lavoratore, e nel rapporto di lavoro sono imputabili al
lavoratore solo gli inadempimenti riconducibili a sua colpa o dolo.
In dette ipotesi di accertamento di illegittimità del licenziamento per essere stata dimostrata
in giudizio l'insussistenza del fatto contestato, il giudice annulla il licenziamento e condanna
il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, al pagamento di un'indennità
risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento
di fine rapporto, in ogni caso non superiore, per il periodo precedente alla pronuncia, a 12
mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del
licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per
l'ammissione contributiva.
Dall' indennità risarcitoria così individuata, dovrà essere dedotto quanto il lavoratore abbia
percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, ovvero quanto egli avrebbe potuto
percepire accettando una congrua offerta di lavoro (ai sensi dell’art. 4, co. 1, Legge n.
181/2000); il lavoratore potrà, comunque, sempre optare per l’indennità sostitutiva della
reintegrazione, pari a 15 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto.
In tutti gli altri casi in cui il recesso è dichiarato illegittimo perché privo degli estremi del
giustificato motivo soggettivo, oggettivo o della giusta causa, il nuovo regime sanzionatorio
prevede la sola tutela economica.
Questa forma di tutela, considerate le ipotesi ormai del tutto eccezionali in cui trova
applicazione la tutela reale, è destinata a divenire la forma ordinaria e generale di tutela
contro il licenziamento illegittimo: essa infatti si applica in tutte le ipotesi di insussistenza
del giustificato motivo oggettivo di licenziamento c.d. economico - rispetto al quale è ormai
perentoria l’esclusione del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro - e,
presumibilmente, nella maggior parte dei licenziamenti disciplinari dichiarati illegittimi ma
di cui non sia stata dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto contestato.
Tale tutela è per il resto analoga alla tutela indennitaria prevista dall'art. 18, co. 5, Stat. Lav.,
atteso che l’invalidità del licenziamento non incide sull’effetto di estinzione del rapporto di
lavoro, che pure si produce, con la differenza che la quantificazione dell'indennizzo non è
più affidata alla discrezionalità del giudice, ma ancorata al criterio dell’anzianità di servizio
del prestatore di lavoro entro un minimo ed un massimo legislativamente stabilita, una sorta
di costo fisso predeterminato del licenziamento.
sull’eventuale contrasto di tale disciplina con l'artt. 3, 4, 35, 117 e 136 Cost., in quanto
l’importo dell' indennità risarcitoria prevista dalla novella del 2015 non riveste carattere
compensativo nè dissuasivo, ed ha peraltro conseguenze discriminatorie, dacchè opera una
disparità di trattamento tra lavoratori assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti e
lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015; in quanto attraverso essa al diritto al lavoro,
valore fondante della Carta costituzionale, viene attribuito un controvalore monetario
irrisorio e fisso; ed in quanto, infine, la sanzione per il licenziamento illegittimo appare
inadeguata rispetto a quanto statuito dalla fonti sovranazionali (Carta dei diritti fondamentali
europea e Carta sociale europea).
Per quanto la pronuncia dichiari incostituzionale solo l’art. 3, c. 1, d.lgs. 23/2015 nella parte
in cui fissa il sistema di calcolo dell’indennità per il licenziamento ingiustificato, senza
estendere le sue valutazioni ad altre norme del decreto stesso che utilizzano le identiche
modalità di calcolo, non si dubita che essa è destinata ad estendere i suoi effetti anche su
queste, e più in generale ad avere in prospettiva un importante impatto di sistema sull’intero
impianto del d.lgs. 23/2015, se non addirittura sull’intera disciplina dei licenziamento.
Una tutela meramente indennitaria è prevista, infine, per i licenziamenti affetti da vizi
formali, fatta eccezione per il licenziamento privo di forma (cfr. supra) o procedurali, vale a
dire intimati in violazione dei requisiti di motivazione (art. 2 Legge n. 604/1966) o della
procedura prevista per i licenziamenti disciplinari dall’art. 7 Stat. Lav . 34
Ai sensi dell'art. 4, in tali ipotesi, in continuità con l'analoga previsione dell’art. 18, il
giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di
un’indennità onnicomprensiva, esente da contribuzione, ridotta alla metà, ossia pari ad una
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di
servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità, sempre che il
giudice, sulla base della domanda del lavoratore non accerti la sussistenza del presupposto
per l'applicazione delle più forti tutela della reintegrazione piena o della reintegrazione con
indennità limitata.
Detta disciplina è caratterizzata dall' espressa esclusione della reintegrazione con indennità
limitata alle 12 mensilità, pertanto anche in caso di licenziamento disciplinare nel quale il
fatto contestato al lavoratore risulti insussistente, questi non avrà diritto alla reintegrazione
ma alla sola tutela economica, di importo dimezzato rispetto alle indennità risarcitoria
stabilite nei casi di applicazione della tutela risarcitoria forte e della tutela risarcitoria debole
(art. 9, co. 1 D. Lgs. 23/2015).