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DIRITTO ROMANO – A.A.

2019/2020
Prof. Mario Genovese
Responsabilità aquilana (lex Aquilia). Sotto il profilo della datazione del procedimento legislativo, è
fondamentale comprendere il periodo per comprendere la ratio della legge; per datare un atto
normativo bisogna basarsi su criteri semantici, linguistici, teorici. Altro momento di esperienza
significativa è quello della tecnica ricostruttiva del testo. La lex Aquilia fu approvata in seguito ad
un plebiscito in un Concilia Plebis. La palingenesi altro non è che la “costruzione rinnovata” cioè la
ricomposizione del testo fondamentale di questa legge, strutturata in 30 titoli ma abbastanza
breve. Il primo e il terzo titolo sono i titoli fondamentali e saranno oggetto di approfondimento.
Affinamento metodo casistico che contribuisce ad affinare l’approccio pratico. Il diritto romano è
un diritto casistico mentre il diritto italiano ha un approccio codicistico a causa dell’esperienza di
codificazione iniziata da Giustiniano. In un diritto ove l’approccio è casistico, partendo dal caso
specifico si va a ricercare la soluzione più adeguata. Studiando la lex Aquilia si approfondiranno sia
norme di natura sostanziale che norme di natura processuale. I giuristi con la loro interpretazione
favorirono applicazioni differenti della legge. Il binomio fra norma sostanziali e norme processuali
è fondamentale per il giurista.
Corbino “Il danno qualificato e la lex Aquilia”
Responsabilità per illecito che ha provocato lesione di beni altrui. Atto giuridico è un
comportamento umano volontario a cui l’ordinamento attribuisce conseguenze giuridiche di vario
tipo. Nell’ambito degli atti giuridici, la distinzione fondamentale è fra atti leciti e atti illeciti. L’atto
lecito è conforme al dettato dell’ordinamento in un certo contesto; l’ordinamento intende favorire
il compimento di atti leciti. Gli atti illeciti devono violare qualche regola posta dall’ordinamento.
Violando una norma si viola una norma che quell’interesse che la norma tutela. L’ordinamento
deve prevenire la commissione di atti illeciti ma, dato che gli illeciti possono essere compiuti
comunque, devono essere previste della riparazione. Se l’illecito è particolarmente grave
l’ordinamento non si limita a riparare la lesione avvenuta. Le conseguenze possono essere di
ordine patrimoniale o di tipo personale. La responsabilità altro non è che la situazione soggettiva
in cui si trova l’autore di un illecito come conseguenza dell’atto compiuto. Il termine responsabilità
deriva dal latino “respondere” e ciò vuol dire che il soggetto responsabile deve rispondere dell’atto
compiuto.
08/10/19
TIPI DI RESPONSABILITÀ NEL NOSTRO ORDINAMENTO
Nel nostro ordinamento si parla di responsabilità extracontrattuale, civileo aquilana o
responsabilità contrattuale, per inadempimento. Ulpiano individuò tre principi fondamentali:
Honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Nel VI libro del codice civile l’art. 2043
definisce la responsabilità extracontrattuale: qualsiasi comportamento sufficiente affinchè il
soggetto ne risponda. Si parla di tutela di diritti assoluti fra cui i diritti reali e i diritti personali
(integrità fisica, onore); l’art. 2043 prevede una tutela per tutti questi diritti. Tradizionalmente
sono rimasti fuori dal 2043 i diritti relativi. Nel caso sia un terzo a ledere il diritto di credito si può
ottenere comunque risarcimento. Nel 1953 la società calcistica del Torino cita in giudizio il vettore
aereo responsabile del crollo dell’aereo causante la perdita di tutti i giocatori per ottenere il
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risarcimento; la Cassazione non riconosce il diritto al risarcimento. In poco tempo la situazione si
evolve. Un giocatore del Torino, anni dopo, uscito dallo stadio viene investito e ucciso da un
neopatentato. La società agisce per aver subito dei danni e qui, per la prima volta, la Cassazione
ritiene che abbia diritto al risarcimento perché il terzo ha privato la società di ottenere i servizi
previsti dal contratto. Anche quando un terzo provoca la lesione del diritto di credito (nonostante
le condizioni siano molto rigorose), si riconosce quindi la legittimazione ad agire ai sensi
dell’art.2043.
Nel 2043 c.c. si parla solo di danni. È ragionevole considerare il 2043 c.c. per la lesione di un
interesse legittimo? La norma amministrativa in primo luogo ha interesse ad un interesse
pubblicistico, in un secondo momento ha interesse a garantire la parità di trattamento. Ancora
oggi si discute in merito all’interesse legittimo mentre è certo che il 2043 c.c. tuteli i diritti.
Dal tenore dell’art. 2043 c.c. si comprende facilmente che il nostro ordinamento ha scelto il
principio di atipicità, salvo che si tratti di un illecito qualificato dall’ordinamento come reato. Il
reato è l’atto per cui l’ordinamento prevede una pena e pertanto in materia penale vige il principio
della tipicità, rafforzato ai sensi dell’art.25 Cost. Un soggetto può rispondere di uno stesso atto sia
in sede civile che penale. Ci sono casi in cui nasce solo la responsabilità civile e non penale, come
ad esempio nel caso di danneggiamento colposo di cose altrui. L’interesse dell’ordinamento è la
restitutio in integrum (risarcimento per equivalente, risarcimento in forma specifica). L’art. 1218
c.c. prevede la responsabilità contrattuale ove l’interesse primario tutelato dall’ordinamento è
l’interesse che il creditore aveva sulla base del contratto. Vi sono diverse differenze tra
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
La prima differenza nell’ambito codicistico inerente alla responsabilità riguarda la colpa
(inosservanza di leggi o regolamenti o per mancanza di prudenza, diligenza o perizia). Nell’art.
1218 c.c. si presume la colpa e si deve dimostrare che la prestazione è diventata impossibile per
una causa a lui non imputabile. Nelle obbligazioni pecuniarie e nelle obbligazioni di dare di cose
generiche non esiste impossibilità.
Altra differenza attiene all’onere della prova. Nell’ambito della responsabilità extracontrattuale
l’onere della prova spetta al danneggiato (onere di dimostrare l’avvenuto danno e che sia
quantomeno causato dalla colpa altrui). Nel caso dell’art.1218 c.c. si parla di probatio diabolica.
L’art. 2054 fa eccezione alla regola generale. Fanno eccezione le obbligazioni di mezzi (prestazione
dell’avvocato) ovvero prestazione in linea con lo standard della prestazione ma che non deve
garantire il risultato positivo. In questo caso è il creditore a dover provare quantomeno la colpa del
debitore. Non è sempre semplice distinguere la prestazione di mezzi da quella di risultato. La legge
impone al notaio di redigere un atto valido; se non dovesse essere valido per qualche ragione, il
notaio ne risponde.
Altra differenza riguarda la costituzione in mora. La responsabilità, di regola, non sorge
automaticamente perché è necessario che il debitore sia prima messo in mora. Se l’obbligazione
prevedeva un termine essenziale, il soggetto è responsabile alla scadenza del termine; altro caso è
del debitore che ha fatto sapere al creditore di non voler adempiere. Nell’ambito della
responsabilità extracontrattuale, invece, non è necessaria la costituzione in mora.

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Altra differenza attiene al danno risarcibile. In tema di responsabilità contrattuale è previsto che in
caso di inadempimento non doloso si deve risarcire il danno che non poteva prevedersi nel
momento in cui fu causato. In tema di responsabilità extracontrattuale ogni danno deve essere
risarcito. Si tratta di danni patrimoniali e non patrimoniali. La giurisprudenza ha definito le
categorie di danno non patrimoniale come danno biologici e morali. Danno biologico equivale a
lesione dell’integrità fisica. Ai sensi dell’art. 2059 c.c. il danno non patrimoniale deve essere
risarcito solo nei casi specificati dalla legge. L’art. 185 c.p. stabilisce che ogni reato che abbia
cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole. Dopo la
metà degli anni ottanta, alcune sentenze della Corte Costituzionale che hanno proposto una
lettura costituzionalmente orientata, hanno esteso la risarcibilità dei danni non patrimoniali anche
al di fuori dell’art.185 c.p.
Ulteriore differenza attiene alla prescrizione ove viene attenzionata l’inattività del soggetto
legittimato. Trascorso un certo tempo di inattività da parte del creditore, l’ordinamento impedisce
la prosecuzione della possibilità dii agire in forza di detto diritto. Nell’art. 2946 c.c. è disciplinata la
prescrizione. Il termine è quinquennale per la responsabilità extracontrattuale mentre è decennale
per la responsabilità contrattuale.
Imputabilità soggettiva. Nel caso di illecito il giudice di volta in volta deve valutare in concreto la
responsabilità civile.
Uno stesso fatto dannoso può provocare il sorgere sia di responsabilità contrattuale che
extracontrattuale. Nel caso, ad esempio, di locazione di un immobile, può sorgere sia
responsabilità contrattuale che extracontrattuale se si verifica la caduta di intonaco che provoca
lesioni personali. Il danneggiato può far valere l’inadempimento sotto il profilo del contratto di
locazione o sulla base del 2043 c.c. Esiste il tertium genus della responsabilità precontrattuale ai
sensi dell’art. 1337 c.c. Secondo alcuni, se l’art. 1337 c.c. è inserito nella parte del codice civile
dedicata al contratto, vuol dire che si tratta di responsabilità contrattuale. Il dovere di buona fede
erga omnes porterebbe, invece, a considerare la responsabilità come extracontrattuale. In
giurisprudenza era assodata la tendenza ad associare detto tipo di responsabilità alla
responsabilità extracontrattuale. Secondo la giurisprudenza attuale si parla di obblighi di
protezione che non sono da accostare all’idea del neminem laedere; dal 2016 la Corte di
Cassazione ha ribaltato la tendenza giurisprudenziale, sotto queste convinzioni, considerando la
responsabilità come contrattuale.
TIPI DI ILLECITO E RELATIVA SANZIONE A ROMA
1) Crimina ovvero atti lesivi di interessi prevalentemente pubblici. Fra le figure principali
annoveriamo il patricidio (viene meno un’importante unità del popolo romano), l’alto
tradimento (il cittadino, collaborando con il nemico, mette in pericolo l’intera collettività
romana), la lesa maestà, i brogli elettorali, la concussione, la violenza, l’adulterio/stupro, le
falsificazioni… Nel caso di crimina, il tipo di repressione è di iniziativa pubblica e si può
parlare di processo pubblico. Originariamente l’accertamento è rimesso al potere
coercitivo dei consoli che si ritiene possano accertare l’illecito. Successivamente, a causa
della giusta preoccupazione di abuso di potere da parte dei consoli, i cittadini iniziano a
poter invocare il popolo tramite la provocatio ad populum. Ma, accrescendosi il numero
della popolazione, diventa molto difficile invocare per ogni crimine l’assemblea generale e
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si costituiscono quindi le quaestiones perpetuae. In età imperiale si passa alla cognitio
imperiale. Il tipo di sanzione è tendenzialmente corporale (fustigazione, messa a morte,
exilium). Attraverso l’esilio volontario, successivamente, si inizia a poter evitare la pena
corporale. Raro era il caso di pena patrimoniale (pubblicatio bonorum). Il tipo di sanzione
ha uno scopo nettamente punitivo e deterrente.
2) Delicta ovvero interessi fondamentali prevalentemente privati. Sono quattro le figure di
delicta: furtum – rapina – iniuriae – danneggiamento ingiusto. Si parla di diritti assoluti e i
delicta sono lesivi della persona stessa o della moralità. Nel caso di delicta, il tipo di
repressione è rimessa all’iniziativa del soggetto che ha subito la lesione e il processo è di
tipo privato. Per quanto riguarda il tipo di sanzione, è necessario distinguere a seconda
dell’epoca. Nell’epoca più risalente nei casi più gravi, si parla di pene corporali (manus,
iniecto, taglione) mentre nei casi meno gravi la pena era di tipo patrimoniale. In età più
recente la sanzione diventa sempre patrimoniale (pecuniaria/multipli). Il tipo di sanzione
ha uno scopo prevalentemente punitivo. Le azioni giudiziarie che nascono da questi
quattro casi sono sanzioni penali.
3) Inadempimenti di obbligazioni ovvero atti lesivi di interessi prettamente privati. Nel caso
di inadempimenti, il tipo di repressione è di iniziativa privata e il processo è privato.
Anche in questo caso, anticamente si prevedeva una sanzione corporale (manus iniectio,
vendita trans tiberi come schiavo). In età più recente, la sanzione diventa sempre di
carattere patrimoniale (bonorum venditio, bonorum distractio, lavoro coattivo). Lo scopo
della sanzione è tendenzialmente risarcitorio.
Periodizzazione storia giuridica romana
PERIODO ARCAICO Durata: va dalle origini di Roma (VIII sec. a.C.) ovvero data della fondazione di
Roma (21 aprile 753 a.C.) al 367 a.C., data di approvazione delle leggi Liciniae Sextiae (accesso al
consolato per i plebei – creazione pretore giurisdicente9.
Per quanto riguarda il regime politico, prima abbiamo il regnum, poi (509 a.C.) RES PUBBLICA. È un
periodo caratterizzato dal conflitto tra patrizi e plebei; dal punto di vista territoriale, il dominio di
Roma è su Lazio-Umbria-Campania). Per quanto riguarda le fonti del diritto parliamo di mos
maiorum, delle leggi delle XII tavole e delle leges pubblicae.
PERIODO PRECLASSICO Durata: va dal 367 a.C. (leggi Licinae-sextie) al 27 a.C., anno in cui cesare
Ottaviano diviene Augusto. Per quanto riguarda il regime politico, abbiamo la crisi della repubblica
e vi è il superamento del conflitto fra patrizi e plebei. Dal punto di vista normativo, la maggior
parte delle norme sono frutto di leges pubblicae e di plebisciti; a questi si aggiunge il ius
Honorarium, attraverso l’attività dei pretori.
PERIODO CLASSICO Durata: va dal 27 a.C. al 235 d.C. (morte di Alessandro Severo). Dal punto di
vista politico è caratterizzato dal principato, il quale vede sopravvivere le istituzioni della
repubblica che comunque assumono un ruolo secondario rispetto al princeps. Si raggiungono
altissimi profili dal punto di vista artistico, culturale e giuridico: Dal punto di vista sociale vi è un
conflitto fra provinciali e romani (conflitto superato tramite l’editto di Caracalla). Vi è la massima
espansione territoriale dell’impero. Dal punto di vista delle fonti del diritto, a partire dal V secolo
le assemblee popolari non vengono più convocate. Fonti per eccellenza sono l’Edictum
perpetuum, i Senatus Consulta, le Constitutiones principum e le responsa prudentium.
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PERIODO POSTCLASSICO – GIUSTINIANEO Durata: va dal 235 d.C. fino al 565 d.C. (morte di
Giustiniano, Imperatore d’Oriente9. Per quanto riguarda il regime politico, si parla di “dominato”
(285 d.C. Diocleziano). Vi è la cristianizzazione attraverso l’editto di Milano del 313 d.C. Vi è la
divisione dell’impero dopo la morte di Teodosio e la fine dell’impero romano d’occidente nel 476
d.C. Per quanto riguarda le fonti del diritto, parliamo delle sole constitutiones che sono leggi in
senso nuovo e delle Iura recepti.
14-15-16/10/19
Sono arrivate delle formulazioni che tendono ad essere fedeli al testo originale ma che si sono in
parte distanziate dallo stesso. Tenendo conto delle notizie delle forme frammentate giunte a noi,
bisogna arrivare alla formulazione rispetto a quel che potrebbe essere stato l’intento originario
della legge. (vedi TESTO n.1)
La lex Aquilia era ripartita in tre capi fondamentali (e le fonti sono concordi al riguardo).
CAPUT I _ Prima fonte Digesto Giustiniano [grande antologia, parte del corpus iuris civilis] (VI sec.
d.C.). Ogni frammento, all’interno del titolo del digesto, indica il giurista classico (I-III sec. d.C.)
autore del frammento e anche dell’opera da cui è stato estrapolato il frammento. Il digesto è
l’opera più imponente del corpus contenente 50 libri e più di 9.000 frammenti. Il primo numero
dopo la lettera, indica il libro del digesto. Ogni libro del digesto è diviso in titoli e ogni titolo ha una
rubrica. Il primo numero indica il libro, il secondo il titolo e il terzo numero indica il frammento
all’interno del titolo. I testi più lunghi sono divisi in paragrafi e “pr.” Indica il principium.
D.9.2.2 pr. -> Digesto, libro 9, titolo 2, frammento 2, principium. Tra parentesi troviamo
l’indicazione del giurista e l’opera da cui deriva. Il frammento in analisi deriva dal testo di Gaio “ad
edicta provinciali”)
Seconda fonte è tratta dall’unica opera classica pervenuta direttamente nella veste originale. Le
istituzioni costituivano il manuale da cui gli studenti apprendevano il diritto. La terza parte delle
istituzioni di Gaio tratta delle obbligazioni. Vi è sempre la possibilità che il testo di Gaio, nei testi
giusitinanei, sia stato modificato nel VI sec. d.C. (sia di carattere formale che sostanziale) per
renderlo adeguato all’epoca. Tendenzialmente non vi è il pericolo di modificazione del testo
originale (non toccato dai giustinianei) ove vi possono essere state piccole modifiche da parte di
chi faceva la copia; in genere, infatti, il frammento proveniente dall’opera originale suole
rispettare il testo originario. Il giurista Gaio vive a metà del secondo secolo dopo Cristo e si ritiene
abbia scritto le istituzioni intorno al 160 d.C.
Terza fonte Proviene dalle istituzioni giustinianee dedicate a chi era
Palingenesi
interessato a studiare il diritto, dato che era necessario dare una versione
aggiornata delle istituzioni gaiane. Anche quando abbiamo una fonte tratta Tentativo di
dalle istituzioni giustinianee risale al VI sec. d.C. troviamo dopo la prima sigla ricomposizione
altre cifre e dei numeri. Le istituzioni giustinianee sono costituite in libri, in di un testo
normativo
titoli e paragrafi. Certe modificazioni del diritto sono realizzate dai
giustinianei attraverso le istituzioni, nonostante siano un testo destinato alla
didattica. I frammenti sono scritti uno dietro l’altro, in modo unitario e succinto e si tratta di
un’opera in cui l’imperatore si rivolge agli studenti.

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La fonte che sembra riprodurre più fedelmente il primo capitolo della legge è la prima fonte. I beni
presi in considerazione sono gli schiavi (oggetto del diritto di proprietà) o animali di un certo tipo.
Il danneggiamento di uno di questi beni consiste nell’uccisione (distruzione totale) e quindi nel
massimo danno che si può arrecare. La condanna dell’autore dell’uccisione è al pagamento del
maggior valore che lo schiavo o l’animale in questione ha assunto.
La seconda testimonianza è un po’ più ampia. La terza testimonianza è molto vicina al tenore delle
istituzioni gaiane. Si ritiene che le istituzioni giustinianee abbiano sostanzialmente copiato le
istituzioni di Gaio.
CAPUT I
Si quis,1 servum servamve alienum alienamve2 quadrupedem vela pecudem3,b alienam4 Si quis
servum servamve alienum alienamve quadrupedemve pecudemve alienam 5 inuiria occiderit6
quanti id in eo anno7 plurimi fuit8,c tantum aes dare domino damnas esto9
(1) La prima valutazione sulla ricostruzione riguarda l’inizio: o “si quis” (se qualcuno) o “qui”
(colui che). Le istituzioni, sia giustinianee che gaiane, usano il “si quis” mentre il digesto
presenta il “qui”. Le norme più antiche (la legge delle dodici tavole, ad esempio,
preferivano la formazione del “si quis”. La legge Aquilia è stata emanata nell’epoca
preclassica, ove il latino era in una forma pressoché arcaica. Nel nostro codice civile e
anche nel nostro codice penale si preferisce il “colui che”. Prevale il “si quis” sia per la
conformità testuale sia perché le due istituzioni presentano la forma ipotetica. Anche
Ulpiano utilizza il “si quis” nel Caput III (speciale lesione del credito da parte del terzo)
“Homo” nella stragrande maggioranza dei casi indica lo schiavo. A parte l’uso del diverso
sostantivo, in una disposizione vi è l’interesse a mettere in evidenza che l’uccisione possa
riguardare sia un servo che una serva mentre nelle istituzioni di Giustiniano ci si riferisce al
servo solo al maschile. Si ritiene che la menzione al maschile e al femminile esiste ancora in
una mentalità non evoluta giuridicamente mentre in età più evoluta si ritiene che sia
sufficiente indicare il solo genere maschile che ingloba anche il femminile (nel II sec. a
nessuno verrebbe in mente che se ci si riferisca al servo, si possa escludere la servitù di
genere femminile). È preferibile la doppia menzione.
D.9.2.3 (Ulp. Ad es.): Si servus servave iniuria occisus occisave fuerit, lex Aquilia locum
habet. Ulpiano vive in un’epoca in cui l’unica ragione per cui riportare il doppio genere
nasce dal fatto che si stia sforzando ad essere fedele il più possibile fedele alla disposizione
originale; più la norma è dettagliata, più si presta ad una interpretazione formalistica.
(2) Quale delle due seguenti formulazioni potrebbe essere più vicina al testo della legge
Aquilia? “quadrupedem vel pecudem iniuria” (Digesto, Gai. 7 ad ed. prov.) o “alienamve
quadrupedem, quae pecudum numero sit, iniuria (Gai. Instituriones – Iust. Inst.).
“Quadrupes, quadrupedes” è sia un aggettivo che un aggettivo sostantivato multigenere.
“Pecus” è un sostantivo femminile. Quadrupedem in questo contesto sembra usato come
aggettivo sostantivato. La critica ritiene più vicina al tenore originario della lex Aquilia, la
prima versione. Nella seconda si usa la relativa con finalità di spiegazione che si giustifica in
un’opera destinata all’insegnamento che ha interesse a spiegare la ratio della legge e non a
riportare la portata originale della legge.
(3) Si deve però obbligatoriamente specificare che si tratti di una res altrui. Nonostante nella
versione più vicina all’originale non sia evidente, quindi, bisogna indicare anche l’altruità
nella ricostruzione dell’opera. Nel testo di Gaio dell’editto provinciale l’”alienamve” regge
6
sia “servam” che “quadrupedem vel pecudem”. I giuristi, infatti, evitavano di ripetere le
stesse parole tutte le volte che erano inserite nella legge analizzata. Lo stile
sovrabbondante di aggettivi e termini è tipico delle leggi arcaiche.
a
Supponiamo che “vel” abbia valore forte, oppositivo e quindi voglia dire “oppure”. Quindi
il “quadrupedem” escluderebbe il “pecudem” e viceversa. Le fonti più antiche della cultura
latina sono le commedie di Plauto. In quei testi “pecus” stava ad indicare qualsiasi animale.
Secondo questo, l’opposizione fra i due termini non regge e pertanto bisogna tradurre
“vel” in senso esplicativo (endiadi) come “ovvero”: “un quadrupede ovvero un animale che
sia”.
b
Se un tempo pecus indicava qualsiasi animale, in un secondo momento acquisì un
significato più ristretto. In età più avanzata “pecus” indicava una cerchia più ristretta dei
quadrupedi. Nell’appendice di Marcello (grammatico) è testimoniata l’evoluzione del
significato del termine. La portata più ristretta si è avuta considerando gli animali che si
prestavano meglio ad uno sfruttamento in senso economico e commerciale. “Pecus”
indicava gli animali che portavano ricchezza (da qui “pecunia”).
Si ebbe l’esigenza, da una certa epoca, di chiudere il cerchio delle res mancipi poiché la
mancipatio era diventata un ostacolo all’esigenza di rapidità dei rapporti e ad essa iniziò a
venire preferita di gran lunga la traditio. Si ebbe, invece, l’interesse ad estendere il pecus
proprio per ottenere una tutela maggiore, garantita dal primo capitolo della lex Aquilia.
(4) La forma implicita di “vel” è più diffusa nel latino arcaico ed è “-ve”. Probabilmente nel
commentario dei giuristi fu preferita la forma “quadrupedem vel pecudemve alienam”: si
tratta di una modifica meramente formale.
(5) Iniuria occiderit: questa parte è riportata in modo identico nelle tre fonti: occiderit è al
congiuntivo perfetto.
(6) “Quanti id in eo anno” o “quanto ea res in eo anno”  è preferita la prima forma perché è
più efficace nel richiamare l’intero bene oggetto dell’occiderit. In un’opera istituzionale e di
spiegazione è preferito il congiuntivo all’indicativo (che viene preferito nelle norme).
Quindi per la palingenesi è da considerare “plurimi fuit” e non “plurimi fuerit”. c Per anno si
intendeva ovviamente un periodo costituito di dodici mesi.
(7) Testo n.1 APPENDICE _ Come quindi risulta, essa [la lex Aquilia] equipara ai nostri servi i
quadrupedi che appartengono al novero del bestiame e sono tenuti in mandrie, come
pecore, capre, buoi, cavalli, muli, asini [Non si parla di animali che naturalmente vivevano
in gregge ma che venivano allevati intensivamente in gruppo]. Ma si pone il problema se i
suini siano inclusi nella denominazione di bestiame (i suini erano soltanto animali da
carne e non potevano avere ulteriore utilità economica ma in seguito vengono ricompresi
nel “pecus”); e correttamente a Labeone pare bene che siano inclusi. Il cane non è fra il
bestiame (non risulta che ci fossero allevamenti intensivi di cani). A maggior ragione in tal
novero le bestie (feroci) come orsi, leoni, pantere (Gaio conosceva già l’utilizzo delle
bestie feroci che si faceva nei combattimenti con i gladiatori e per tal motivo vuol chiarire
che non sono compresi nel “pecus”). Gli elefanti poi e i cammelli sono come fossero misti
(infatti sia prestano opera come giumenti sia la loro natura è selvatica) e pertanto è
necessario che essi siano ritenuti inclusi nel primo capitolo (i cammelli e gli elefanti sono
considerati una categoria mista che originariamente erano considerati selvatici ma che in
realtà possono essere fonte di ricchezza economica perché possono essere utili nei campi e
nel trasporto delle merci).
Pecus Animali res mancipi
BOVINI CAVALLI MULI ASINI PECORE BOVINI CAVALLI MULI ASINI
CAPRE MAIALI
7
Mixti ELEFANTI e CAMMELLI
Testo n.2 APPENDICE _ Il fatto che fu aggiunto in questa [parte della] legge “per quanto
in quell’anno quella cosa sia stata di maggior valore” comporta che, se sia stato ucciso un
servo zoppo o orbo da un occhio, il quale in quell’anno fosse stato sano, la stima del
danno avvenga non per quanto sia stato il valore quando fu ucciso, bensì per il suo
maggior valore in quell’anno; per cui accade che talvolta taluno consegua più del danno
arrecatogli. Si parla di finalità anche punitiva.
Testo n.3 APPENDICE _ L’anno va computato all’indietro, a partire dal momento in cui
qualcuno sia stato ucciso; pertanto se sia stato ferito in maniera mortale e sia morto
dopo un lungo intervallo temporale, conseguentemente secondo Giuliano conteremo
l’anno dal momento in cui fu ferito, sebbene Celso scrisse in senso contrario.
Per Giuliano è più importante l’atto che, per un evidente nesso di causalità, provoca il
danno. Celso invece fa un ragionamento più legato al valore testuale della norma e si rende
contro che certe volte può venire messo in dubbio il nesso di causalità che spesso può
essere non chiaro. Se non si seguisse la tesi di Giuliano potrebbe verificarsi che il
danneggiato otterrebbe molto meno rispetto a quanto dovuto. Se il servo dovesse essere
ferito mortalmente ma non dovesse morire in quell’anno, qualora si sostenesse la tesi di
Celsio, il valore del risarcimento sarebbe minimo perché si parlerebbe del valore di un
servo moribondo.
(8) Tantum aes dare domino damnas esto/ tantum dare domino damnetur  Nella prima
versione c’è “aes”; damnas esto = sia da condannare; damnetur = si condanni. Aes è una
moneta antica e sta a significare un’entità monetaria. Sembra più corretto mantenere la
forma che contiene aes ovvero la forma più antica di denaro. Il valore veniva attribuito in
base al peso. Nei secoli si preferì all’aes, con l’evoluzione degli scambi commerciali, l’aes
signatur ovvero pezzi di metallo con impresso il loro peso. Nella nostra ottica ricostruttiva
bisogna lasciare il riferimento all’aes. Normale utilizzare e prevedere l’uso dell’imperativo
futuro. Domino è un complemento di vantaggio che vuole mettere in evidenza che la
condanna deve avvenire a favore del padrone.
(9) Secondo la dottrina tale principio non è una elaborazione testuale ma una spiegazione di
raccordo con il primo capitolo, mentre il III capitolo inizierebbe direttamente con il si quis
(così come il primo); secondo altri il raccordo in realtà sarebbe proprio della formulazione
originaria (maggiore conformità con quanto disposto da Gaio con “de omni cetero damno”)
non ritenendo originale l’uso del participio “occisos” si presenta al maschile plurale, quindi
frutto di una regola grammatico/sintattica proprio di una lingua evoluta e raffinata, non
del latino arcaico. Faxit è una forma arcaica.

Secondo Giuliano uccidere equivale a causare la morte, mentre secondo Celsio, uccidere viene
inteso come privare della vita.
Frammento numero 4: Giuliano (Digesta). Non è necessaria che l’uccisione avvenga nel momento
dopo l’inflizione del colpo. Pertanto, se taluno abbia inflitto a un servo una ferita mortale, e un
altro, dopo un certo intervallo, lo abbia colpito così. Tesi di Celsio: più conforme alla moderna tesi
della causalità diretta. La tesi di Giuliano è vista con un certo favore che lo merita nelle ipotesi in
cui la fattispecie concreta richieda che si ragioni in quel modo perché secondo questa tesi si riesce
a tutelare meglio il danneggiato. Il principio di Giuliano farebbe rispondere entrambi della morte.

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Nel passo numero 5, Ulpiano dice che la tesi viene seguita da Marcello e da Ulpiano stesso viene
ritenuta più attendibile.
Digesto 9.2.11.6 Ulpiano dice che l’azione prevista dalla legge Aquilia spetta (legittimazione
processuale attiva) all’ero (erus, ossia proprietario). “Ero” è un termine arcaico. Detta rilevanza
èritenuta di notevole pecudum numero est, vulneraverit/ Così se qualcuno abbia un servo o quel
tipo di quadrupede che è nel novero del bestiame. Sive eam quadrupedem, quae pecudum
numero non est, velut ursum, leonem vulneraverit aut occiderit/ ovvero abbia ferito o abbia ucciso
quel tipo di quadrupede che non è nel novero ….
È di particolare importanza perché è l’unico frammento in cui si trova la parola “ero”. Anche in
altri contesti Ulpiano mostra di essere attento al dato testuale.

III capitolo
Il testo di Gaio è molto più lungo rispetto al testo del III capitolo ma proprio perché vuole spiegare
lo stesso. Il più rilevante è il testo del D.2.27.5.
Relativamente alle altre cose, fatta eccezione per lo schiavo e per il capo di bestiame uccisi, se
qualcuno abbia rotto una cosa altrui, …
Capite tertio de omni cetero damno cavetur/ Nel capitolo terzo di ogni altro danno si statuisce. È
proprio il terzo capitolo che si presenta come norma aperta. Itaque si quis servum vel eam
quadrupedem, quae
Ceterarum rerum, praeter hominem et pecudem occisos, si quis aliter damnum faxit (a) quod
usserit fregerit ruperit iniuria quanti eas res fuit (b) in diebus triginta proximis, tantum aes ero(c)
dare damnas esto.
(a) Per quanto riguarda il significato di damnum, arrecare danno a qualcuno significherebbe
arrecare una lesione fisico materiale, in periodo arcaico; in periodo più recente si
parlerebbe invece di pregiudizio patrimoniale Quale dei due significati è più consono alla
legge? L’alter è il proprietario. Tenendo conto di quale sia la fonte più antica, si è
considerato il damnum come avente il significato di “lesione fisico-materiale”. Ma ciò cozza
fortemente con “alteri”. Forse quindi originariamente nel testo della legge non vi era la
parola alter ma vi era l’avverbio “aliter” che significa “altrimenti”. Possibilmente nella
traduzione letterale del testo per errore intenzionale o meno venne cambiata la forma.
(b) Pag.37 libro “commento XII tavole”. Erit (testo F) Fuerit (testo G) Fuerit (testo H); testo g:
per quanto fu il valore nei 30 giorni prossimi, sebbene non presentino la parola “plurimi”,
tuttavia sono da interpretare come se ci fosse questa parola. Di questo testo interessa la
parola “fuit”. Nel testo h “fuerit” può essere o congiuntivo o futuro anteriore.
Se ammettessimo che il terzo capitolo sia proiettato al futuro, si avrebbe un taglio
notevolmente diverso rispetto al passato. Ma nel testo G Ulpiano mette in evidenza che
l’unica cosa che sembra di rilievo è la differenza di plurimi e non dei tempi. Questo tipo di
valutazione induce a ritenere che rispetto alla questione passato/presente non vi fossero
differenze. Questa è una valutazione particolarmente forte che porta a prediligere la
versione al passato. La scelta del verbo al futuro o al passato incide sulla sostanza della
norma. Se il verbo viene scelto al passato, l’intervallo di tempo va proiettato all’indietro
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mentre se si dà prevalenza alla forma del futuro cambia il modo del computo dell’intervallo
di tempo. Primo passaggio ragionativo: verificare se una delle due questioni sia insensata
giuridicamente; in base a questo tipo di verifica il conteggio al passato è assodato ma
potrebbe aver senso astrattamente anche il conteggio al futuro. Verificare se nel contesto
altri riferimenti utili a indirizzare verso il conteggio all’indietro o in avanti; occorre quindi
far riferimento alla parola “proximis” che sosterrebbe un ragionamento al futuro. Ma dal
punto di vista linguistico e semantico, significa semplicemente “più vicini” e i giorni
possono essere più vicini sia in avanti che all’indietro. Secondo passaggio ragionativo:
soppesare ipotesi risolutive e argomentazioni a sostegno.
1) “Erit”, secondo parte della dottrina, sarebbe da sostenere dal momento che questa
forma è riportata da fonte più fedele al testo di legge originario. Questa tesi è tuttavia
minoritaria perché se erit fosse in un’unica fonte non contraddetta da altre fonti dello
stesso giurista (Ulpiano) allora sarebbe possibile sostenerla.
2) “Fuit”, secondo altra parte della dottrina, dal momento che sembra più coerente sul
piano sistematico. Si avrebbe altrimenti un taglio netto rispetto al caput I e non vi è
qualcosa che giustifichi una posizione futuristica. Questa tesi è maggiormente recepita
dai giuristi. La tesi sembra più convincente: anche per “fuit” c’è l’attestazione di una
fonte significativa e ci sono le argomentazioni di carattere sistematico e le fonti dei
giuristi secondo i quali ci sono affinità fra il primo ed il terzo caput.
(c) “Domino” è un dativo di vantaggio. Bisogna spiegare “domino” come un aggiornamento
lessicale di “ero”. La prima obiezione è che nel terzo capitolo si tratta di beni diversi dallo
schiavo e quindi non viene retto dal punto di vista semantico-linguistico. Ma l’obiezione
maggiore è sul piano filologico-sistematico. Per la ricostruzione del tyesto capitolo il testo
guida più fedele proviene da un testo di Ulpiano. La testimonianza riguardante ad “ero”
non fa riferimento né al primo né al terzo capitolo. Mentre nel primo capitolo il riferimento
base è del giurista Gaio e l’osservazione sul termine è di Ulpiano, nel terzo la ricostruzione
del testo base proviene sempre da Ulpiano e logica vuole che se non usa “ero” quando lui
stesso scrive il terzo capitolo quando lo commenta, “ero” probabilmente non viene
utilizzato di proposito. Non abbiamo di Ulpiano una fonte inerente al primo capitolo. In
conclusione, però, si preferisce anche nel terzo capitolo l’utilizzo di “ero”: innanzitutto,
l’obiezione di tipo semantico-lessicale vale fino ad un certo punto. Calandoci nell’epoca
arcaica in cui è venuta fuori la legge Aquilia, l’idea di un ragionamento così sofisticato
legato ai termini, sembra insostenibile e difficile da applicare. Il legislatore, come fece nel
capitolo I, anche nel III usa “ero” per indicare il proprietario.
RIFLESSIONE SU CONGRUITÀ ED EQUITÀ/GIUSTIZIA DEI CRITERI DI DETERMINAZIONE DELLA
CONDANNA
I caput: … quanti id in eo anno plurimi fuit, III caput: … quanti ea res fuit in diebus triginta
tantum aes… proximis tantum eas…

UCCISIONE schiavo di valore costante LIEVE FERIMENTO schiavo di valore costante


nell’ultimo anno. negli ultimi 30 giorni

Notiamo che in presenza di comportamenti ben diversi, il danneggiante sarà tenuto comunque a
risarcire il dominus per il maggior valore. Ciò urta il senso di giustizia e di equità. Secondo i giuristi

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un criterio che sembra equo è quello di considerare la condanna commisurata all’interesse leso,
tenendo conto della differenza di valore tra il valore dello schiavo anteriormente al ferimento e
quello successivo. “id” nel primo capitolo indicava il bene nella sua interezza; le fonti nel terzo
capitolo usano non “id” ma “ea aes” che può avere un significato più sfumato di “entità della
lesione che si è creata”. Questa è l’idea seguita da Corbino. Questa tesi si presta a obiezioni. Prima
obiezione è che i giuristi in realtà non vedevano spesso questa differenza fra le due espressioni;
inoltre, considerando l’età arcaica, questa eccessiva attenzione ai termini sembra inappropriata.
Ma probabilmente tutta la parte di Gaio dopo parla di animali è una semplice spiegazione e
probabilmente, nella sua portata originaria, il terzo capitolo prevedeva la distruzione totale della
cosa così come il primo: la differenza stava nel tipo di beni (animali diversi dal bestiame o res
inanimate). Secondo questo ragionamento, il discorso e il criterio regge completamente. Nel terzo
capitolo la giurisprudenza trovò il modo di inserire una lesione totale anche un semplice
danneggiamento (razionalizzazione in via giurisprudenziale). Importante infatti risulta
l’interpretazione dei giuristi. La disposizione è vaga o ambigua o potenzialmente iniqua in armonia
con norme contigue giuridicamente e in vista di massimo grado di equità/giustizia. Bisogna quindi
tener conto del sistema complessivo.
CLAUSOLE DI DUBBIA ESISTENZA E COLLOCAZIONE SISTEMATICA
Clausola procedurale adversus infitiantem -? Se consideriamo l’ultimo testo di Caio (H), ad un
certo punto si trova “hoc capite actio constitutum” ma sappiamo dalle fonti, la stessa azione
conseguente dal primo e dagli altri aveva conseguenze più gravi rispetto all’azione ordinaria che
dipendevano da un comportamento tenuto dal convenuto: se si constatava che il convenuto fosse
infiziante (l’infitiantem) ovvero resistente temerariamente in giudizio. La temerarietà si ha quando
il convenuto, sfacciatamente, quasi contro l’evidenza, nega la sua responsabilità. In questo caso il
convenuto sarà sottoposto a conseguenze dell’azione più gravi. Questo atteggiamento del
legislatore ha l’evidente fine di scoraggiare il processo che, comunque, ha un costo sociale.
Nel nostro ordinamento si parla di responsabilità aggravata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c. La rubrica
del 96 c.p.c. recita “responsabilità delle parti per le spese e i danni processuali” e si prevede che “è
resistente colui che agisce in torto oppure trovandosi in colpa grave (non valuta attentamente le
conseguenze delle proprie azioni). Il nostro ordinamento prevede che, su istanza di parte, si
condanna oltre che alle spese, al risarcimento dei danni. Nel nostro ordinamento la temerarietà
vale sia per l’attore che per il convenuto. Nel codice civile altro articolo parla di lite temeraria, a
proposito del contratto di transazione. L’art. 1971 c.c. si parla di “transazione su pretesa
temeraria”.
Tornando all’esperienza romano, nel sistema romano l’aggravamento processuale prevedeva che
il convenuto fosse sottoposto al raddoppio della condanna. Nel sistema romano, la temerarietà
non veniva presa in considerazione su tutte le liti ma solo in casi specifici di pretese in cui il
fondamento della pretesa dell’attore veniva supportati da dati di notevole evidenza. Si parlava di
quattro tipi di controversie, in cui acquistava rilevanza, la temerarietà. La prima ipotesi era
dell’actio iudicati: si parla quindi di un processo esecutivo in cui la pretesa si basava su una
sentenza che era stata pronunciata (processo esecutivo). L’altro caso è quello dell’actio depensi
che ha a che fare con la figura del garante di un’obbligazione. Nel caso in cui Tizio, avente
un’obbligazione nei confronti di Caio, chiede a Sempronio di farsi garante per la propria
obbligazione. Se il creditore si rivolgeva al garante, nel sistema romano, e non veniva soddisfatto
dal debitore entro sei mesi, il diritto di rivalsa del garante riceveva una particolare attenzione (il
debitore era obbligato a pagare il doppio rispetto al suo debito). Il terzo caso si aveva per l’“actio
legati nomine per damnationem”. Nel sistema romano, il legato per damnationem era il tipo del
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legato in forma solenne e notevolmente formale. Il legatario poteva chiamare in giudizio l’erede
che era tenuto a pagare il doppio di quanto dovuto in forza del legato. A cosa si ricollegava la
natura della damnatio? Bisogna ricordare il sistema processuale romano. Nel processo per legis
actiones, il caso più grave era quello della manus iniecto che era particolarmente immediato. In
seguito all’abolizione del processo per legis actiones, tutte le ipotesi che in un primo tempo erano
previste secondo la manus iniecto, iniziarono ad essere sanzionate (nel caso di convenuto
inviziante) con il raddoppio della sanzione. La quarta ipotesi è quella dell’actio damni iniuria dati
(ex lege Aquilia). Era considerato invitiants il convenuto che contestava la propria responsabilità
(l’an) e non il convenuto che confessava di essere responsabile e si limitava a contestare
solamente l’ammontare del risarcimento; in questo secondo caso non si aveva il raddoppio della
sanzione.
Qual è il fondamento giuridico-legale dell’azione per danno ingiusto adversus invitiantem?
Secondo una parte della dottrina, dipendeva dal fatto che (anche se non vi era la prova, mentre
negli altri tre casi era sicura la condanna) si trattava comunque di un tipo di pretesa che
naturalmente giustificava, anticamente, la manus iniectio. Secondo altra parte della dottrina
questo quarto caso veniva considerato per la presenza della forma di “damnas esto” nella legge
Aquilia. Secondo questi studiosi non era necessaria una previsione nella lex Aquilia di questo
particolare tipo di sanzione dal momento che l’esistenza stessa della forma verbale “damnas esto”
era sufficiente a rendere automatica la sanzione dell’inviziante. Secondo altri il rapporto con
l’inviziante era legato ad una testuale previsione della lex Aquilia. La tesi dell’aggancio legislativo
non è campata in aria. Si richiama il testo A (9.2.2. pr.) che finiva con “et infra deinde cavetur ut
adversus infitiantem in duplum actio esset” (“e dopo quindi si prevede che l’azione fosse contro
l’infiziante nel doppio). Tenendo conto di questo accenno, il discorso non è chiarissimo ma il
giurista lascia intendere che ci poteva essere una parte della legge che prevedeva testualmente il
raddoppio. Forse è più probabile l’esistenza della previsione all’interno della legge; ma
probabilmente non si trattava di una nuova norma ma di una formula di conclusione di
processuale presente in tutti e tre i capitoli. Dal momento che era presente in tutti e tre, non si
faceva riferimento ad essa considerando un determinato capitolo.
Altra clausula della quale le fonti non forniscono notizie chiare, è la cd. clausola noxae nomine. Si
tratta dell’ipotesi in cui a commettere il danneggiamento sia un libero alieni iuris: coloro che erano
sempre liberi ma sottoposti ad un potere privato romano. Particolare problema si poneva se il
danneggiamento fosse da parte del filius familias o lo schiavo. Se si doveva infliggere dolore fisico,
poco cambiava perché la sanzione si poteva comminare all’alieni iuris (es. fustigazione); problema
si aveva, ovviamente, nel caso di sanzione patrimoniale. La capacità giuridico-patrimoniale
esisteva solo per i soggetti sui iuris. La sanzione patrimoniale non si poteva far valere quindi contro
l’alieni iuris ma sembra giusto rivolgersi al titolare del potere sullo stesso. Si parlerebbe quasi di un
caso di responsabilità oggettiva. Si diede al dominus dello schiavo o al pater familias chiamato in
giudizio, l’alternativa nossale: era possibile la cessione materiale dell’alieno iuris al soggetto che
aveva sofferto il danno (abbandono nossale) [aut… aut…]. Qual era il fondamento giuridico-legale?
Parte della dottrina ritiene che la previsione legislativa non era richiesta ma si evinceva da fattori
esterni quali la natura di delictum dell’illecito e il carattere penale dell’azione. Secondo altri
studiosi c’era una specifica previsione nel testo della legge. È più probabile che l’alternativa
nossale non fosse prevista dalla legge o, anche ammettendo l’esistenza di un appiglio all’interno
della legge, si pensa si trattasse comunque di una nota conclusiva di carattere procedurale. (leggi
da pagina 45 a pagina 57)
Datazione della Lex Aquilia
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Il problema della datazione si pone sotto vari aspetti. Nonostante le fonti storiche stabiliscono che
un certo evento sia avvenuto in un determinato momento, spesso gli studiosi moderni ritengono
che si tratta di date inventate. Esempio emblematico è la data del 21 aprile 753 a.C. indicato dagli
storici come anno della fondazione. Certe istituzioni garantiste di Roma gli storici ritengono che
siano nate in periodi abbastanza evoluti della repubblica nonostante le fonti, per ragioni di lustro,
le pongono all’inizio dell’esperienza repubblicana. Il primo passo che si fa è definire l’arco di
tempo di oscillazione, potendo escludere che l’intervento legislativo sia avvenuto prima o dopo.
Innanzitutto, si individua il “terminus post quem” ovvero il termine dopo il quale è da collocare
l’avvenimento che ci interessa datare; dopo si stabilisce il “terminus ante quem” ovvero il termine
prima del quale è da collocare l’avvenimento.
Per quanto riguarda il terminus post quem, la fonte più importante è il D.9.2.1 pr. (indicato come
frammento a1) ovvero il primo frammento del digesto che si occupa della lex Aquilia: “La legge
Aquilia derogò a tutte le leggi, che hanno trattato del danneggiamento prima di essa, sia alla legge
delle dodici tavole sia a qualche altra successiva: le quali leggi non è necessario che le ripeta”.
Soffermiamoci sul significato del verbo “derogare”. Ciò ci fa pensare che la legge Aquilia non trattò
di tutti i casi di danneggiamento ma solo i fatti di una certa rilevanza; per certi aspetti,
danneggiamenti particolari continuarono ad essere regolati da provvedimenti precedenti. Si arriva,
dunque, alla seconda testimonianza (a2): “In certi casi la legge nuova deroga, in altri casi abroga: si
deroga alla legge quando viene eliminata solo una parte della precedente; si abroga alla legge
quando si toglie il testo completamente”. La deroga però fu di grande entità dato che furono
derogate diverse leggi prevedendo una normativa generale. L’importanza potrebbe emergere
dall’ultima parte della legge di Ulpiano: “Nunc” bisogna comprendere se si tratti di attualità
temporale o letteraria. Se la legge Aquilia derogò alla legge delle XII tavole, vuol dire che fu
posteriore a quest’ultima (449 a.C.). Ma dal testo emerge che ci fu qualche altra legge alla quale
derogò la legge Aquilia e ciò ci consente di spostare il termine post quem a qualche decennio dopo
la legge delle XII tavole.
Per quanto riguarda il terminus ante quem, si deduce dal D.9.2.27.22 (testo a3): “Se una donna
(schiava incinta) viene percossa con un pugno o una cavalla incinta viene percossa e abortisce,
Bruto ritiene che ci sia stato quasi un danneggiamento in base alla legge Aquilia”. Bruto, vissuto
nel 150 a.C., aveva analizzato un caso in base alla legge Aquilia e quindi già esisteva la legge
Aquilia. Un’interpretazione così sofisticata inoltre era impossibile fosse nata immediatamente
dopo l’emanazione della legge quindi la lex Aquilia e quindi siamo autorizzati a spostarci ad
almeno qualche decennio prima (190/180 a.C.).
Fonti giuridiche
Il testo D.9.2.1.1. è sempre un estratto del primo frammento: “La quale legge Aquilia è un
blebiscito, in quanto il tribuno della plebe Aquilio ne chiese l’approvazione da parte della plebe”.
Nella parte iniziale (nei primi paragrafi) delle istituzioni di Gaio, vengono trattate le fonti iura
populi romani. La situazione di partenza è la vincolatività solo per i plebei. Gai.1.3. “Il plebiscito è
ciò che la plebe ordina e stabilisce. La plebe invece differisce dal popolo, che ricomprende una
parte del popolo; un tempo i patrizi dicevano di non essere sottoposti ai plebisciti perché i
plebisciti riportavano l’approvazione della sola plebe”. Successivamente, il valore dei plebisciti
divenne del tutto equivalente al valore delle leggi: “Ma dopo che fu emanata la legge Hortensia,
si stabilì che i plebisciti dovessero essere vincolanti per tutti i cittadini” (Gai.1.3. testo b3). Il testo
D.1.2.8. (Ulpiano liber singularis, testo b4) aggiunge: “La plebe, poiché nascevano molte discordie
dai plebisciti, fu convocata e venne osservata la legge Hortensia: e ciò determinò che tra leggi e
plebisciti cambiava soltanto l’iter costituendi essendo uguale la loro forza”. L’emanazione della
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legge Hortensia avvenne nel 287/286 a.C. Le altre tappe di avvicinamento dei plebisciti alle leggi,
secondo le fonti storico-letterarie:
1) Dubbia statuizione risalente alle Leggi Valeriae Horatiae del 449 a.C. In un brano della
storia di Livio di Roma riferisce di questa legge e si parla sostanzialmente dello stesso anno
della legge delle XII tavole. Livio scrive che “Lucio Valerio e Marco Orazio proposero la
legge, che stabiliva che ciò che la plebe stabiliva nei suoi concili valeva per il popolo”. Ciò è
in contrasto con ciò che viene riportato da Gaio e si comprende da questo la differenza
delle fonti citate da un giurista e da uno storico. Proprio per questo non è possibile ritenere
detta fonte come veritiera. I plebisciti erano giuridicamente pertinenti con l’organizzazione
dekka res pubblica romana (patrizio-plebea). I patrizi potevano scegliere di osservare un
plebiscito ma non erano obbligati a sottostarvi; per questo, così come scrive Livio, è
impossibile prendere per buona la fonte di Livio. Il plebiscito Canuleio del 445 a.C. viene
riportato da Livio e si trattò di un plebiscito, che consentiva le nozze fra patrizi e plebei, a
cui i patrizi si associarono.
2) il secondo testo di Livio si riferisce alle leggi Publiliar Philonis del 339 a.C. Il senato pensò
bene di sospendere l’autorità dei consoli e nominare un dittatore che poteva stare in carica
massimo sei mesi; ciò era l’unico modo per sospendere due consoli non benvisti dal senato
in quanto troppo favorevoli al popolo ed era giustificato dal fatto che Roma era in guerra
con i latini. Uno dei consoli in carica nomina dittatore l’altro console, in tutta risposta al
senato. La prima legge stabilì che i plebisciti fossero vincolanti per tutti i cittadini romani; la
seconda legge stabilì le leggi comiziali, approvate dall’assemblea di tutto il popolo,
diventassero vincolanti dopo che la proposta di legge fosse stata approvata dal senato (che
non aveva il potere di modificarla). La terza legge stabilì che uno dei due censori poteva
essere plebeo. Ciò sarebbe una contraddizione di Livio stesso dato che afferma che
l’equivalenza fra patrizi e plebei esisteva già dal 449 a.C. Inoltre, i plebisciti sembrano avere
un valore superiore delle leggi dato che non dovevano essere approvate dal senato,
diversamente dalle altre leggi che erano espressione di tutto il popolo. Ciò non sembra
razionalmente credibile. Secondo la seconda legge riportata da Livio la novità starebbe
nell’approvazione dei patres prima del suffragio: si trattò di un principio democratico dato
che una volta che il popolo si era pronunciato non era possibile mettere in dubbio la
volontà popolare. Da quel momento le leggi comiziali acquistassero rilevanza normativa
generale immediatamente dopo la votazione popolare, in quanto l’approvazione senatoria
(patres auctores fierent) era anticipata a prima della votazione (ante initum suffragium),
quando ancora la legge era nella veste “di proposta”. Possiamo immaginare che prima di
questa novità, anche per le leggi comiziali, l’approvazione arriva dopo. La prima lex Publilia
Philonis sulla rilevanza normativa dei plebis scita introdusse la novità che da quel momento
i plebisciti acquisissero rilevanza normativa generale allo stesso modo di come l’avevano
acquistata fino a quel momento le leggi comiziali. In quel momento il sistema diventa
coerente. Era un modo perché i patrizi del senato, che divennero sottoposti anche al
plebiscito, dessero il proprio consenso allo stesso. Tenendo conto solo delle fonti
giuridiche, l’equiparazione fra plebisciti e legge si ebbe solo nel 277 a.C. e dovremmo
quindi datare il provvedimento in esame (lex Aquilia) dopo il 277 a.C. Ma abbiamo altre
fonti che ci autorizzano a pensare che il 277 non è una data che ci obbliga a pensare che il
plebiscito fosse soltanto da allora equiparato alla legge. Si tratta di due tappe differenti.
È difficile, poi, individuare l’autore della lex Aquilia. Ogni persona veniva individuata con tre
appellativi (prenomen ovvero il nome familiare, nome ovvero il nomen della gens, cognomen
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ovvero il soprannome cioè il modo più indicativo per riferirsi alla persona. Aquilio è il nome
gentilizio e non abbiamo di lui né il prenomen né il cognomen: è molto difficile, dunque,
comprendere di quale degli appartenenti alla lex Aquilia si trattò. Un Aquilio risulta di origine
plebea e ricoprì la carica di console nel 259; un secondo Publio Aquilio fu tribuno della plebe nel
200 a.C. e un terzo Aquilio che fu tribuno della plebe nel 182 a.C.
Valutazioni discendenti dalla mancanza del riferimento “plurimi” nel III capitolo e dalla
prevalenza dell’opinio Sabini secondo le varie testimonianze.
La prima testimonianza che tratta di quest’aspetto proviene dal giurista Gaio, tratta dalle istituzioni
e quindi risalente al II sec. d.C. (Gai. 3.218). A metà del II sec. d.C. il Giurista Gaio scrive: “In questo
capitolo, tuttavia, non al valore che la cosa ebbe in quell’anno, bensì nei trenta giorni precedenti, è
condannato colui che ha arrecato il danno. E non si aggiunge per l’appunto la parola “massimo”.
Per questo alcuni ritennero che il giudice fosse libero di riferire la stima (del danno) a quel
momento, nei trenta giorni, in cui il valore della cosa fosse massimo, o ad un altro momento in cui
fosse minore. Ma a Sabino piacque bene che si dovesse intendere come se anche in questa parte
fosse aggiunta la parola massimo: il legis lator si sarebbe infatti accontentato che quella parola
fosse stata utilizzata nella prima parte”. Dato che mancava la parola plurimi nel III capitolo il
giudice poteva considerare sia il valore minimo che il valore massimo. Sabino ritenne che “plurimi”
fosse sottintesa.
La seconda fonte proviene dalle Istituzioni Giustinianee (tre secoli di distanza dal testo di Gaio). A
proposito del contenuto del III capitolo il brano dà una versione differente: “E non si aggiunge la
parola <plurimi>: ma Sabino ritenne giustamente far la stima come se anche in questa parte fosse
aggiunta la parola <massimo>: invero la plebe romana, che su richiesta del tribuno Aquilio approvò
questa legge, si sarebbe accontentata di aver usato quella parola nella prima parte”. Il legis lator
viene sostituito da Giustiniano con la plebe romana, organo depositario del potere legislativo.
La terza fonte proviene da Teofilo che fu uno dei giuristi incaricato da Giustiniano a redigere le
istituzioni. Dopo la redazione delle istituzioni giustinianee viene autorizzato a pubblicare una
parafrasi [massimo un anno dopo] (traduzione commentata dal greco al latino delle istituzioni).
Notiamo che, per certi versi Teofilo riprende un concetto detto da Gaio ovvero precisa che se il
giudice si orienta per il valore massimo favorisce l’attore, se si orienta per il valore minimo
favorisce il convenuto. Non vi è la parola “legislatore” ma si individua autore della disposizione la
plebe. L’altra differenza rilevante è che parla di un contrasto tra plebei e patrizi. Si trattò di un
compromesso al quale poi la plebe cedette ad inserire plurimi nel solo primo capitolo.
La quarta testimonianza proviene dai Basilici [fine del IX e inizio X sec. – le annotazioni sono
successive ai Basilici e possono risalire anche al XII sec.] (opera composta da 50 libri che attinge dal
Corpus iuris Civilis ma che si adatta alla realtà del diritto vigente in Oriente, promossa
dall’Imperatore Leone il filosofo che morì nel 911 d.C.). Il testo c4 è un’annotazione ai Basilici.
Secondo gli studiosi, la testimonianza è importantissima perché fa riferimento ad un
atteggiamento tipico della plebe utilizzato spesso come strumento di pressione nei confronti dei
patrizi: l’abbandono di Roma. Solo in casi estremi di contrasto avvenivano queste secessioni. Gli
storici riferiscono di tre secessioni. La prima avviene nel 494 a.C., all’inizio della vita della
repubblica. Non possiamo però ritenere che l’annotazione tratti della prima secessione dato che
siamo certi che il termine post quem della legge Aquilia è stabilito nel momento dell’emanazione
della legge delle dodici tavole. La seconda secessione avvenne nel 449 a.C. e quindi
contemporaneamente all’emanazione della legge delle dodici tavole. Si è escluso di tratti di questa
secessione dal momento che la legge Aquilia venne emanata dopo almeno qualche decennio dalla
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legge delle dodici tavole. La terza secessione avvenne in contemporanea all’emanazione della
legge Hortensia (287-286 a.C.) e si ritiene attendibile quindi il dato che la legge Aquilia sia emanata
lo stesso anno della legge Hortensia.
Secondo parte della dottrina e secondo Genovese, vi è ragione di mettere in dubbio questa
conclusione. Una prima obiezione è data dal fatto che gli scolia ai Basilici non sempre sono
attendibili; si trattava di espressioni di cultura greco-bizantina e da questa tradizione influenzati
(distanti dalla tradizione greco-romana). Una seconda obiezione è data dal fatto che appare
sospetto che secondo la datazione storica delle quattro fonti, esse più si allontanano dall’evento
più diventano “informate e dettagliate”. Una terza obiezione è costituita dal fatto che le due fonti
bizantine partono dalle istituzioni di Giustiniano che si era spinto a considerare il legislatore come
la plebe, e non da Gaio; ciò autorizzerebbe i commentatori successivi a giustificazioni politico-
sociali per plurimi solo nel I caput. La quarta obiezione fa leva sul fatto che, se è dimostrabile che
nel passo di Gaio (fonte più risalente) legis lator evochi il “proponente la legge” e non la plebe, si
diminuisce l’attendibilità della sequenza di fonti bizantine che si fondano su un fraintendimento
della fonte di partenza.
Noi siamo più vicini alla concezione giustinianea secondo cui il legislatore è l’organo deliberante e
più distanti dall’opinione gaiana che intende il legislatore come proponente. Legis lator in Gaio
indica il proponente la legge. La prima argomentazione a sostegno è di carattere lessicale: “Legis
ferre”, “legis lator” in fonti letterarie tardo-repubblicane (Catone, Cicerone) o primo-classiche
(Livio) sono usati normalmente per “proponente la legge”. La seconda argomentazione fa
riferimento al procedimento repubblicano per l’approvazione di leggi/plebisciti. SI consentiva solo
al rogator (alias legis lator) d’intervenire sulla formazione testuale della legge (rogatio), non invece
all’organo deliberante (concilio plebeo o comizio popolare). La terza argomentazione è su base
filologica-testuale. Si dimostra che quando Gaio usa il termine legis lator si riferisce al “proponente
della legge” e non all’organo deliberante (concilio plebeo o comizio popolare).
La lex Iulia (fonte di Ius Civilis) stabilì che da quel momento gli schiavi liberati tramite la
manomissio inter amicos sarebbero divenuti effettivamente liberi ma acquisissero la cittadinanza
latina (non romana). I patroni diventavano titolari di diritti successori nei confronti degli schiavi
liberati secondo le tre forme formali che erano tali da far diventare gli schiavi cittadini romani. A
rigore, i patroni non diventavano, quindi, titolari di diritti successori nei confronti degli schiavi che,
in seguito alla lex Iulia, diventavano cittadini latini. Si stabilì quindi che la lex Iulia non influisse dal
punto di vista della cittadinanza e del patrimonio dopo la morte. Si chiamava Iulia perché prendeva
il nome dal proponente. I tre verbi utilizzati dalla legge (intellegeret, extimavit e cavere voluit) si
possono riferire soltanto al proponente la legge e non certo ad un complesso di persone che non
avrebbe la possibilità, a livello assembleare, di fare i passaggi che può fare la singola persona.
La quarta argomentazione è decisiva. Se anche Gaio ragionasse nella prospettiva giustinianea,
ovvero intendendo legis lator evocante la plebe e fosse da intendersi essa contenta del “plurimi”
soltanto nel caput I, dietro ciò sarebbe da ravvisare meglio una motivazione “sostanziale”; se così,
l’opinio Sabini, di interpretare il III capitolo come se ci fosse plurimi, sarebbe stata addirittura
“contra legis-latorem” e inspiegabile il generale plauso riscosso da essa fra i giuristi successivi. Solo
ammettendo che Gaio intendesse legis lator quale il “proponente la legge” si rende meglio
configurabile una motivazione diversa, magari “stilistica” (evitare ripetizioni) in tale scelta, e così
valutare l’opinio Sabini come secundum legem e giustamente meritevole di plauso da parte dei
giuristi.

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Dalla dimostrazione che in Gaio 3.218 è altamente probabile che il giurista con il legis lator evochi
il “proponente la legge” discendono alcuni corollari. Il primo corollario è che il cambio di
prospettiva giustinianea per legis lator ora inteso quale “organo deliberante” (la plebe) è ben
spiegabile nella concezione assolutistica tipica del DOMINATO. Il secondo corollario è che senza
l’abusivo cambio di prospettiva giustinianea rispetto al valore di legis lator – da “proponente la
legge” a “organo deliberante” (la plebe) – è probabile che la sequenza perniciosa (Teofilo ->
Scoliasta) di associare alla legge situazioni politico-sociali non si sarebbe innescata fino al
riferimento al “fantasioso” riferimento alla secessione.
Quale possibile obiezione alla spiegazione dell’opinio sabini come ancorata al presunto intento
stilistico del proponente la legge? Innanzitutto, il legislatore arcaico era molto formale e risulta
quindi inspiegabile che Aquilio si preoccupi di evitare ripetizioni nel testo della legge; in secondo
luogo, Sabino fa riferimento all’intenzione del legislatore e, dato che visse circa due secoli dopo,
risulta difficile credere che Sabino fosse a conoscenza della reale intenzione. Con tutta probabilità
Sabino propone un’interpretazione sistematica per risolvere una “carenza testuale” del III caput.
Secondo la tesi maggioritaria, la Lex Aquilia fu emanata nel 287/286 a.C. in base a testimonianza
medievale dello scoliasta bizantino; secondo la tesi minoritaria, vi è inattendibilità dello scoliasta e
non una definibilità in base ad esso della datazione della lex Aquilia.
Nelle leggi che contengono riferimenti a valutazioni da fare in denaro, prevale un riferimento
all’aes, di cui abbiamo un chiaro esempio nella lex Voconia (369 a.C.). L’unico dato attendibile che
porta la considerazione del termine aes all’interno della legge ci permette di collocare la stessa al
massimo al secondo secolo a.C. l’altro dato lessicale ritenuto interessante da considerare è l’uso
del sostantivo erus nella testimonianza di Ulpiano; “erus” si trovava certamente nel primo capitolo
mentre per il terzo non è abbastanza sicuro. Tenendo conto di questo dato, gli studiosi hanno
ritenuto rilevante partire dalle commedie di Plauto (che si ritiene abbia scritto intorno al 210-190
a.C.). 368 volte nelle commedie di Plauto ricorre il termine “erus” mentre solo 48 è utilizzato
“dominus” (rapporto 9:1). Erus, in quell’epoca era pertanto molto più diffiso di dominus. Altro
autore da considerare è Terenzio che scrisse le sue 6 commedie fra il 166 e il 160 a.C. Il rapporto
fra erus e dominus è più o meno 5:1 (cresce l’utilizzo di dominus). Nelle opere di Catone il Censore
(fra 170 e 150 a.C.), erus non è mai usato. Tenendo conto di questi dati, l’unica soluzione da
accogliere è che, scomparendo nel tempo il termine “erus” (fino a scomparire) si possa collocare la
lex Aquilia almeno qualche decennio prima delle commedie di Plauto.
L’ultima testimonianza è tratta dallo storico Livio, nella quale lo storico parla di una proposta di
legge (rogatio de vere sacro vovent = proposta di legge che riguarda i luoghi propiziatori dei
sacrifici). Nel 217 a.C., anno di emanazione della legge, sul lago Trasimeno, Roma subisce una
pesante sconfitta da parte di Annibale. Il console superstite (uno venne ucciso in battaglia) pensa
bene di nominare dittatore Quinto Fabio Massimo. Viene fatta votare dai comizi questa proposta
di legge che prevedeva che ogni romano avrebbe potuto sacrificare tutti i nati della primavera
successiva per placare gli dei e portare Roma alla vittoria. La legge prendeva in considerazione
anche dei fatti che potevano riguardare gli animali destinati al sacrificio. “Se muore l’animale
destinato al sacrificio, prima di essere sacrificato, questo non sia considerato sotto il profilo sacro
ma sotto il profilo profano (resta al di fuori del sacro) e non sia considerato come portatore di
sventura. Se invece qualcuno abbia ucciso o ferito gravemente, se non l’abbia fatto
consapevolmente non produce conseguenze negative. Se invece qualcuno ha rubato l’animale,
non è portatore di sventura per il popolo nè si deve preoccupare la persona che sia stata
derubata”. L’unica conferma che possiamo avere da questa rogatio è che, essendo probabile che
questa tenga presente la lex Aquilia, sia posteriore alla stessa. E si crede tenga presente la lex
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Aquilia proprio perché cita i due comportamenti considerati delittuosi dalla legislazione esistente:
“rumpet occidetve”.
In conclusione, dal complesso di questi dati vi è una tesi dominante che ritiene che la datazione sia
del 287/286 a.C. Sono pochissimi coloro i quali pensano ad una data anteriore al 286/287 a.C.;
sono più coloro che ritengono che la lex Aquilia sia stata emanata qualche decennio dopo.
Genovese stesso ritiene che la data più probabile sia approssimativamente da collocare fra il “260
e 240 a.C.”.
Nozioni istituzionali di base ai fini della comprensione del capitulum II
STIPULATIO: si tratta del contratto tipo dei romani, fonte di obbligazioni. La volontà si deve
manifestare con delle forme orali ben precise. Si parla di pronuncia di parole determinate. Una
parte contrattuale fa la domanda e l’altra parte deve rispondere contestualmente
affermativamente. Si tratta anche di un contratto astratto: dalla struttura del contratto non
emerge la causa per cui una parte si obbliga nei confronti dell’altra. Intercorre fra lo stipulator
(soggetto che per effetto della stipulatio diventerà creditore) e il promissor (colui che per effetto
della stipulatio diventerà creditore).
DOMANDA: Promittis mihi CL sestertia dari? RISPOSTA: Promitto.
Il debitore doveva impegnarsi solo nei confronti di colui che risultava creditore e, per questo, non
si ammetteva che il debitore potesse impegnarsi nei confronti di una persona diversa rispetto a
colui il quale poneva la domanda (alteri stipulari nemo potest). I figli di famiglia erano senza
capacità patrimoniali ma potevano compiere atti giuridici validi.
1) Promittis mihi et Sempronio CL sestertia dari?
Per i Sabiniani era una stipulatio valida solo a favore di Titius che sarebbe diventato
creditore per l’intero. Per i Proculiani, invece, era valida solo a favore di Titius che sarebbe
diventato creditore per la metà. Per tutte e due le scuole di pensiero è certo però che non
vi sarebbe stato alcun effetto a favore di Sempronio.
2) Promittis mihi aut Sempronio CL sextertia dari?
Sempronio = semplice adiectus solutionis causa (soggetto capace di ricevere la prestazione
senza assumere la qualificazione di creditore e rimane privo della titolarità di azioni
giudiziarie).
L’adstipulator è a tutti gli effetti un concreditore dello stipulator e, pertanto, l’adempimento del
debitore aveva effetti estintivi se avvenuta nei confronti dello stipulator o dell’adstipulator. Per
esservi l’adstipulator, occorre che nasca un concreditore da un’altra stipulazione.
A formare l’obbligazione da un lato vi è il debitum (schuld) e dall’alto lato vi è la responsabilità. Era
necessaria la responsabilità per l’ipotesi in cui non fosse stata effettuata la prestazione (non
sarebbe altrimenti un vincolo giuridico). Essendo due gli elementi costitutivi dell’obbligazione, due
erano le fasi necessaria per l’estinzione della stessa. Con la solutio (adempimento) si faceva
pertanto far venir meno il debito mentre per far estinguere la responsabilità occorreva un
contrarius actus (contraria verba – stipulatio): l’atto contrario della stipulatio era un altro atto
formale chiamato acceptilatio.
DOMANDA: Quod tibi promisi, habesne acceptum? RISPOSTA: Habeo.

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In una seconda fase storica, intorno al III sec. a.C., si affermò il principio della sufficienza della
solutio per far venir meno l’obbligazione in toto. Il contrarius actus (acceptilatio) non aveva
certamente ragion d’essere. L’acceptilatio restò ma si piegò ad una nuova funzione: continuò ad
essere utilizzata come atto di remissione dell’obbligazione ovvero un atto in cui il debitore viene
liberato dall’obbligazione (estinzione della responsabilità in assenza di adempimento). Dal punto di
vista formale restò identica. L’adstipulator poteva svolgere una funzione di garanzia.
Capitulum II della lex Aquilia (Gai. 3.215 – Corbino p.45 ss.)
Lo stipulator può intentare azioni contro l’adstipulator quando lo stesso compia un’acceptilatio in
fraude allo stipulator: nel caso in cui estingueva un’obbligazione oggetto della stipulatio. Con
l’azione prevista dal II capitolo lo stipulator può chiamare in giudizio l’adstipulator. Qui non
abbiamo, a differenza degli altri capitoli, un danno materiale e quindi, in assenza di questo
capitulum, lo stipulator non avrebbe potuto citare in giudizio l’adstipulator. Il soggetto legittimato
attivo è lo stipulator mentre il soggetto legittimato passivo è l’adstipulator.
Vi sono accentuate differenze fra il secondo capitolo e il primo e il terzo. Innanzitutto, differenza
sotto il profilo della legittimazione attiva (stipulator/dominus); diversa è l’attività delittuosa;
diverso è il bene leso. Fondamentale risulta la distinzione per quanto riguarda lo stato soggettivo
di colpevolezza in concreto (colpa/dolo). Nel secondo capitolo è necessario il dolo specifico.
Diversa è anche la questione della stima del danno. Nell’acceptilatio non si figura l’ipotesi della
nossalità, che si configura invece negli altri due casi.
Vi sono diverse teorie sulla strana collocazione tra il I e III caput, che sono omogenei fra loro. La
legge Aquilia, secondo alcuni, era una sorta di testo unico ove la novità era costituita dal solo terzo
capitolo dato che i primi due capitoli riprendevano norme già comparse nei secoli precedenti.
Altra via per spiegare detta strana collocazione ritiene importante il termine “pecunia”
(menzionato nel II capitolo): “pecunia” non sarebbe usato nel senso di denaro ma nel senso di
bene che costituivano la ricchezza di un soggetto. Detti beni erano considerati in tutti e tre i
capitoli. Nel I capitolo si prevedeva la distruzione materiale dei beni; nel il secondo si prevedeva il
caso della distruzione dell’aspettativa di detti beni; nel terzo si prevedeva il danneggiamento di
detti beni.
Altro problema di cui si è occupata la dottrina è quello del tipo di acceptilatio a cui il II capitulum si
riferiva originariamente. Non è possibile rinvenire il tipo di acceptilatio a cui la lex faceva
riferimento ma è certo che i commentatori successivi si riferissero alla seconda. La giustificazione
più credibile è quella secondo cui originariamente il rapporto fra lo stipulator e l’adstipulator non
aveva alcuna copertura giuridica. Originariamente si parlava di un semplice rapporto di fiducia e
per questo l’idea fu di punire l’adstipulator (opportunità di tutela penale). Con l’evoluzione storica
si determinò una copertura giuridica nell’ambito del rapporto tra stipulator e adstipulator
nell’ambito del contratto di mandato (contratto consensuale, che si afferma a Roma più tardi e più
tardi ebbero riconoscimento nel ius civile). Compravendita, locazione, mandato e società erano i
quattro contratti consensuali che furono recepiti fra il III e il IV sec. per i contratti reali, invece,
occorreva non solo la volontà ma anche la consegna. L’incontro di volontà fra una parte e l’altra
era, nei contratti consensuali, sufficiente a determinare gli effetti giuridici. Sorgevano, a seguito del
mandato, due azioni: l’actio mandati da parte del mandante nei confronti del mandatario per
chiedere il risarcimento del danno per mancano adempimento; l’actio mandati contraria quando il
mandatario andava incontro a spese o subiva dei danni a causa dell’esecuzione del mandato
(risarcimento danni o rimborso spese). Così come non abbiamo certezze sulla data di emanazione

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della legge Aquilia, si ritiene che i contratti consensuali siano stati riconosciuti fra il III e il II sec.
a.C.
Già in Gaio si parla di funzionale interazione tra adstipulatio e contratto di mandato. L’adstipulator
è un vero e proprio concreditore. Ciò che importa è la parte finale del brano: “sed quidquid
consecutus erit, mandati iudicio nobis restituere cogetur”. Anche nel caso in cui l’adstipulator
avesse liberato il debitore, con l’actio mandati poteva comunque soddisfarsi lo stipulator. Il
giurista mette in evidenza una qualche anomalia nel capitolo in quanto era possibile ottenere il
risarcimento del danno con la sola actio mandati, a meno che in base alla legge Aquilia si agisse
per il doppio contro l’inviziante (soggetto che resisteva negando l’evidenza dei fatti,
pretestuosamente). Vi era un’evidente vantaggiosità della tutela civile contrattuale tramite l’actio
mandati rispetto all’actio del secondo capitolo. In quest’ultimo caso, era necessario provare il dolo
affinché l’azione fosse vittoriosa, diversamente dall’actio mandati. Se poi la parte non fosse
risultata vittoriosa in base al secondo capitolo, per il principio del ne bis in idem, non era possibile
esercitare l’actio mandati.
Problema da analizzare in merito al secondo capitolo è quello della desuetudine. Il primo
riferimento è di Giustiniano: I (Iustiniani) “4.3.12 Caput secundum legis Aquiliae in usu non est”. Il
secondo è un frammento del Digesto di Ulpiano: D.2.27.4“Huius legis secundum quidem capitulum
in desuetudine abit” (Il secondo capitolo è andato in desuetudine). L’idea è che si trattò quindi di
una norma applicata per lungo periodo ma che ad un certo punto inizia a non essere più applicata.
Gaio invece lascia intendere che già nel momento dell’emanazione della legge Aquilia, essendovi
allora l’actio mandati, il secondo capitolo non abbia trovato mai applicazione. La tesi della dottrina
dominante parte dell’idea che quando fu emanato il II caput della legge Aquilia non era ancora
riconosciuto il mandato e, pertanto, era sensata la legge penale. Dopo il riconoscimento del
contratto di mandato, vi fu una progressiva desuetudine. Gaio incappò nell’errore storico, secondo
la dottrina dominante, avendo considerato già esistente il mandato nel momento dell’emanazione
della lex Aquilia. Sempre secondo la dottrina dominante, “id caveri non fuit necessarium” sarebbe
da considerare nel senso della norma sostanziale.
Secondo Corbino, il giurista Gaio ha ragione nel ritenere che il II capitolo non ebbe mai
applicazione, in quanto norma giuridicamente arretrata rispetto ai tempi. All’epoca
dell’emanazione della lex Aquilia, già era riconosciuto e utilizzato il contratto di mandato (non
unica aporia della legge). Diversamente dalla dottrina dominante, l’espressione “id caveri non fuit
necessarium”, Gaio si sarebbe riferito all’elaborazione del formulario dell’azione giudiziaria da
parte dei giuristi subito dopo la venuta in essere della legge; i giuristi non elaborarono, secondo
Corbino, il formulario dell’azione giudiziaria, non ritenendola necessaria.
Secondo Genovese è inverosimile pensare a una norma ab origine emanata per non trovare
pratica applicazione (e Gaio non dice che la norma non fu mai applicata). L’altro punto significativo
è che Gaio non incappò neanche in un errore storico ma pecca soltanto di approssimazione
semplificante. Non è neanche del tutto approssimata perché mostra lucidità nel salvare l’ipotesi
adversus invitiantem. A Gaio, secondo Genovese, interessa far comprendere agli studenti tramite
semplificazione che comunque non è eccessiva; non si trattò pertanto di errore in quanto tale. Con
“id caveri non fuit necessari”, secondo Genovese, è sostenibile che Gaio alludesse alla mancata
predisposizione da parte del pretore del modello formulare dell’azione nell’editto. Il pretore,
probabilente, all’inizio concedeva l’azione in via decretale ma, dato che divennero sempre meno le
richieste di tutela in base al secondo capitolo,
PREPARAZIONE ARGOMENTO PER L’ESAME
1) Appunti presi a lezione
20 2) Corbino, pagg. 45/58
proprio a causa della sporadicità non ritenne necessario inserire nell’editto la formula dell’actio del
secondo capitolo.
Rilevanza “oggettiva del termine iniuria”
Nei testi giuridici si parla di “damno iniuria dato”. Per aversi responsabilità in base alla legge
Aquilia ci dev’essere l’uccisione dello schiavo o dell’animale e il bene in questione deve essere di
questo tipo. Ma non in tutti i casi in cui vi è uccisione dello schiavo altrui sorge responsabilità. Ci
sono dei casi in cui, pur essendoci l’uccisione, non sorge la responsabilità (ove manchi l’iniuria). Da
questo punto di vista, bisogna riempiere “iniuria” di significato concreto.
Il primo frammento è il D.9.2.3. Da questo si desume che, secondo i giuristi, era necessario che
l’uccisione avvenisse con iniuria. Se vi era una circostanza oggettiva che rendeva necessario detto
comportamento, non sorge responsabilità (legittima difesa). Il fatto che probabilmente la legittima
difesa fu la prima circostanza oggettiva considerata è dimostrato dal fatto che i due frammenti che
seguono nell’ordine il frammento prima analizzato, trattano della legittima difesa.
D.9.2.3 (Gai. 7 ad ed. prov.): se io avrò ucciso un servo altrui che sta operando come ladro e mi sta
sta minacciando, sarò sicuro da responsabilità: infatti contro un pericolo la ragione naturale
permette di difendersi (Itaque si servum tuum insidiantem mihi occidero, securus ero: nam
adversus periculum naturalis ratio permittit se defendere). Già nelle XII tavole vi erano due norme
che prevedevano l’esercizio legittimo della difesa: 1) Si nox furtum faxit, si im occisit, iure caesus
esto”  se il ladro agisce di notte, se il ladro è ucciso, la sua uccisione è conforme al diritto. 2)
Luci… si (fur) se telo defendit … endoplorati (iure caesus esto).  Se il furto avviene di giorno, per
legittimare l’uccisione occorre che il ladro sia armato e che il derubato, se possibile, deve cercare
dei testimoni. N.B. Rispetto alla legge aquilia la legge delle dodici tavole, ai fini della resposabilità,
sembra più restrittiva. L’esimente di cui alle XII tavole era in favore del derubato che avesse ucciso
il ladro (= altro uomo libero).
D.9.2.5 pr. Anche se taluno abbia ucciso chiunque altro che armato lo sta aggredendo, non si
considererà averlo ucciso con iniuria (ingiustamente). E se qualcuno abbia ucciso un ladro per
timore di morte non si deve dubitare che non sarà tenuto dalla legge Aquilia. Se invece,
nonostante avesse potuto catturarlo, preferì ucciderlo, si considera piuttosto che l’uccisione sia
avvenuta con iniuria (quindi sorgerà responsabilità).
In tutti e due i brani ci vuole la reazione per un servo che ha un atteggiamento avversivo. In tutti e
due i brani viene utilizzato un participio presente e ciò si giustifica se si pensa che l’uccisione
avvenga nel momento stesso dell’aggressione. Altro dato è che la minacciosità della situazione
non deve necessariamente. È certo che, un qualche limite all’abuso di legittima difesa viene posto:
è illegittima la reazione ove ci siano alternative praticabili rispetto all’uccisione.
D.9.2.45.4 “Coloro che non potendosi difendere altrimenti, abbiano commesso un qualche danno
sono innocenti. Infatti, tutte le leggi e tutti i sistemi giuridici permettono di respingere la forza con
la forza. Ma se per difendermi avrò scagliato una pietra contro chi mi aggredisce, però non avrò
colpito lui, ma uno che passava, sarà tenuto in base alla legge Aquilia. Infatti, è necessario ferire
(colpire) solo chi (ap)porta violenza, e ciò, solo se sia fatto per difendersi, e non per vendicarsi”.
L’esimente opera nella misura in cui la mia reazione colpisce l’aggressore; nel caso in cui la
reazione colpisce una persona estranea, non può essere giustificato il comportamento e la
responsabilità non può che sussistere. L’uccisione che avviene a distanza di tempo non è da

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considerare come legittima difesa ma come vendetta e quindi non vi può essere alcun esimente:
se colpisco lo schiavo che sta fuggendo da casa mia, non posso invocare la legittima difesa.
Stato di necessità
Art. 2045 c.c. Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di
salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui
volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità, la cui
misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice. Art. 54 c.p. non è punibile chi ha commesso
il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona, pericolo da lui volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre
che il fatto sia proporzionato al pericolo.
D.9.2.49.1 Ciò che fa operare l’esimente è un giudizio di proporzionalità da esperirsi
preventivamente; l’esimente opera nella misura in cui il pericolo non sia stato creato dal soggetto
che abbia invocato l’esimente. Tenendo conto di ciò che dice il testo, è possibile considerare lo
stato di necessità. Dal punto di vista giuridico è esclusa la responsabilità per la distruzione delle
case altrui a causa dello stato di necessità provocato dall’incendio.
L’art.45 c.p. fa riferimento a due fattori in grado di esprimere la responsabilità: forza maggiore e
caso fortuito. Troviamo un collegamento, almeno sotto il profilo terminologico, in “vis maior cui
resisti non potest”. Si parla di forza naturale; si dice che il soggetto “agitur sed non agit”. Il caso
fortuito, per escludere la responsabilità, deve essere caratterizzato da imprevedibilità,
eccezionalità e inevitabilità e deve essere in grado di rompere il nesso causale. L’art. 2051 c.c.
tratta del danno cagionato da cose in custodia [Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle
cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito] mentre l’art. 2052 c.c. so tratta del danno
cagionato da animali [Il proprietario di un animale … è responsabile dei danni causati dall’animale,
sia che fosse sotto custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito.
Rilevanza “soggettiva” iniuria.
D.9.2.5.1 (Ulp. 18 ad ed.): Si ipotizza che l’attività del magistrato sia illegittima. In questi casi,
operando illegittimamente l’atto del magistrato, si prevede che il magistrato risponda dei danni
causati in base alla legge Aquilia (nell’esercizio dei suoi poteri). Si aggiunge che la responsabilità
persiste anche quando vi erano gli estremi per operare il sequestro, essendo venuto meno il bene
sequestrato; anche se operi legalmente deve custodire le cose sequestrate perché altrimenti
verrebbe meno all’obbligo di restituire la cosa sequestrata. Se il magistrato abbia fatto qualcosa di
abbastanza violento nei confronti di qualcuno che resisteva, non sarà responsabile in base alla
legge Aquilia (resistenza ad un pubblico ufficiale). La quarta ipotesi si ha nel caso in cui il
magistrato ha operato il sequestro di un servo che in stato di sequestro si sia impiccato (o si sia
comunque suicidato): non si prevede un’azione di rivalsa del proprietario come il magistrato. In
questo ultimo caso la responsabilità viene meno sia che si sia agito legalmente che illegalmente?
Secondo Genovese il “nam” (infatti) si spiega nel senso che nella quarta ipotesi l’evento esclude la
responsabilità trattandosi di caso fortuito.
D.18.6.13 (Paul. 3 epit. Alf.): Vi è un atto distruttivo posto in essere dai magistrati edili su beni
mobili. Non si evince un profilo di responsabilità in quanto i magistrati avevano operato per ragioni
di viabilità e per evitare l’occupazione del suolo pubblico. L’altro aspetto che emerge riguarda chi
deve sopportare il danno prodotto; si tratta del compratore, nella misura in cui erano beni mobili
già consegnati al compratore o se ricorrono gli estremi della mora credendi. Con la traditio passa
la proprietà della cosa.
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D.9.2.7.4 (Ulp. 18 ad ed.): Se qualcuno si esercita nella lotta o nel pancrazio (misto di pugilato e
lotta) oppure se i pugili si esercitano fra loro, qualora l’uno abbia ucciso l’altro o nel corso di una
gara pubblica uno abbia ucciso l’altro, viene meno la responsabilità secondo la legge Aquilia. Si
parla di attività consentite sotto il profilo giuridico e sociale. Se avrà perito uno che stava a
rendendosi o viene ferito un servo al di fuori della gara, si applicherà la legge Aquilia. [Si considera
sempre che a gareggiare siano due schiavi]. L’uccisione deve avvenire in questi contesti specifici:
l’allenamento o una gara ufficiale.
D.9.2.30 (Paul. 22 ad ed.): Chi uccide uno schiavo altrui non è responsabile se lo schiavo sia stato
scoperto mentre commetteva adulterio. Per adulterio si intese il congiungimento carnale di donna
sposata con uomo diverso dal marito. Solo in questo caso c’era una scontinuità nell’ordine
familiare dato che la donna commetteva attentato contro la famiglia (figli illegittimi). Augusto
stabilì che l’adulterio costituisse crimen ed istituì un tribunale permanente in cui si potevano citare
sia la donna adultera sia l’uomo con cui la donna sposata aveva commesso adulterio. La denuncia
poteva avvenire ad opera del padre della donna o da un qualsiasi cittadino. Le sanzioni previste
per l’adulterio erano di carattere prevalentemente patrimoniale. La legge di Augusto si pose
l’obiettivo di regolare anche i casi in cui l’uccisione della donna adultera costituisse responsabilità.
Si escluse che fratelli della donna o altri soggetti avessero il potere di invocare come esimente
l’adulterio per aver ucciso la stessa. Il padre poteva invocare l’esimente solo in determinate
condizione, in termini notevolmente ristretti. In termini ancora più ristretti, il marito era
autorizzato a uccidere l’uomo in momento di flagranza dell’adulterio e se questo fosse uno di
bassa condizione. Questa precisa regolamentazione fu prevista proprio per limitare i casi di
uccisione delle donne adultere ad opera dei familiari o anche di estranei.
In una fase storica successiva, riguardo al termine iniuria del primo e del terzo capitolo, ritennero
dovuto un comportamento biasimevole. Si richiede cioè in presenza di un atto lesivo di diritti altrui
da in lato si doveva dimostrare la responsabilità (escludere, quindi, le cause di giustificazione) e
dall’altro la colpevolezza. Non è possibile parlare di colpevolezza e rimproverabilità a soggetti, ad
esempio, incapaci di intendere e volere. Sia il dolo che la colpa erano rilevanti a tal uopo.
D.9.2.5.1 (Ulp. 18 ad ed.) Inoltre, qui è necessario intendere “iniuria” non come lo intendiamo
nell’azione per le ingiurie (actio iniuriarum = azione del soggetto che aveva ricevuto un offesa
personale [contumelia]) ma come ciò che è stato fatto non secondo il diritto o contro il diritto,
ovvero se qualcuno abbia ucciso culpa (da intendere non come colpa nel significato attuale ma
come colpevolezza, in senso più generico)… dunque, con iniuria bisogna intendere il danno
causato con colpevolezza anche da chi non volle nuocere.

CULPA In primo luogo significa colpevolezza intesa come imputabilità in astratto: si esclude la
colpevolezza nel caso in cui l’autore del danneggiamento sia un soggetto incapace di intendere
e di volere. Indica anche l’imputabilità in concreto (da noi considerata come dolo o colpa).
L’imputabilità in concreto mette insieme dolo e colpa: è necessaria almeno la colpa per parlare
di imputabilità in concreto. Culpa è anche intesa in senso proprio e quindi nel senso di
negligenza, imprudenza e imperizia, contrapposta al dolo (comportamento intenzionale e
volontario).

Bisogna comprendere in che senso si tratti di colpa nel testo in esame. Possiamo partire da “culpa
datum etiam ad eo, qui nocere noluit”. Ragionando a minori ad maius, a maggior ragione, culpa
datum in primis ab eo, qui nocere voluit. Pertanto, si giunge alla soluzione che culpa datum in
primis ab eo, qui in dolo nocuit (si parla di colpa, a maggior ragione, per chi volle nuocere).
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Ragionando, invece, per equivalenza, culpa datum etiam ab eo, qui sine dolo nocuit (la colpa è
anche di chi causò un danno senza voler nuocere: sine dolo); quindi, si parla di soggetto che ha
agito sine dolo ma in culpa. Culpa datum etiam ab eo, qui in culpa nocuit. Il secondo “culpa” si
riferisce a colui il quale ha commesso il danno con colpa, senza voler nuocere mentre il primo è
usato nel senso che ricomprende sia il dolo che la colpa.
D.9.2.5.2 (Ulp. 18 ad ed.) E pertanto poniamo la questione: se un pazzo abbia arrecato il danno,
sussiste l’azione della legge Aquilia? Anche Pegaso lo ha negato: infatti, quale colpevolezza vi è in
lui, se non è nelle sue facoltà mentali (non è in senno)? E ciò è verissimo. Verrà meno l’azione
aquiliana… anche se un infante abbia arrecato un danneggiamento, si deve dire la stessa cosa. Il
bambino non infans si riteneva in grado di compiere un atto giuridico ma per la validità giuridica
era necessario il consenso del tutore. E se invece l’abbia fatto un impubere? Labeone asserisce,
poiché risponde penalmente di furto, quello sia tenuto anche per responsabilità aquiliana: anche
questo reputo corretto, se (l’impubere) sia capace naturalmente di comprendere cosa costituisce
illecito. Il suggerimento di Ulpiano è che il danneggiamento dell’impubere è tendenzialmente
responsabile ma necessita di una valutazione in concreto sulla capacità di discernere.
Nella prima fase storica si poteva escludere iniuria in caso di assenza di causa di giustificazione.
Nella seconda fase storica, iniuria si iniziò a valutare sotto il profilo soggettivo, essendo richiesta
quanto meno la colpevolezza in astratto. Nella terza fase storica divenne necessario la presenza
della colpevolezza “in concreto” nel senso di dolo o colpa. Si rafforza così tanto che i giuristi,
invece di parlare di damnum iniuria dato, iniziano a parlare di damnum culpa datum.
Oggi siamo in grado di distinguere fra dolo generico (nel soggetto che agisce vi è la consapevolezza
dell’illiceità, senza necessità di secondi fini) e dolo specifico (furto, ad esempio: ove l’azione abbia
un fine preciso). Ai fini della responsabilità ex lege Aquilia è sufficiente il solo dolo generico. Per
colpa intendiamo imprudenza (nel caso in cui vi sia un comportamento che crea rischio),
negligenza (comportamento che non tiene conto di cautele che l’esperienza suggerisce) o
imperizia (azione compiuta senza le competenze tecniche). Nella colpa parliamo di gradazione: la
culpa lata (grave) = proxima dolo e culpa levis (ordinaria o media).
D.9.2.30.3 (Paul. 22 ad ed.) / D.9.2.31 (Paul. 10 ad Sab.) Se un potatore lasciando cadere un ramo
dall’albero o un operaio (qualcosa da una impalcatura), uccide un servo che passa, è tenuto, così
se egli tagli in luogo pubblico né ha gridato in modo che potesse essere schivata la caduta di quella
cosa (ossia dell’oggetto-ramo). Ma (Quinto) Mucio sostenne che si potesse agire per colpa anche
se fosse accaduta la stessa cosa in luogo privato: infatti, costituisce colpa il fatto che non si sia
provveduto da parte di una persona diligente a ciò a cui si sarebbe potuto provvedere, o che si sia
avvisato quando il pericolo non possa più essere evitato … poiché frequentemente avviene un
libero passaggio attraverso luoghi privati. Se non vi era un libero passaggio, deve rispondere
soltanto per dolo, dovendosi astenere dal far cadere apposta colui che abbia visto che sta(va)
passando.
A proposito della definizione di colpa, tutto è giocato sull’uso del verbo “provideri”: la colpa
sussiste nel fatto che un soggetto diligente avrebbe potuto evitare questi danni. Provideri significa
“provvedere” nella misura in cui si è in grado di prevedere i rischi. Il verbo latino racchiude questi
due aspetti: assorbe i due derivati italiani sia “provvedere” o “prevedere”.
Culpa e infirmitas D.9.2.8.1 Anche il mulattiere, se per imperizia non abbia potuto trattenere
l’impeto delle mule e se esse abbiano schiacciato un servo altrui, si dice comunemente che è
tenuto a titolo di colpa. Lo stesso si dice anche se egli a causa della propria infirmitas non abbia

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potuto trattenere l’impeto delle mule; né sembra cosa ingiusta se la “infirmitas” si ascriva a colpa,
per il fatto che ciascuno non deve cimentarsi in ciò per cui capisce o deve capire che la sua
“infermitas” sarà pericolosa per qualche altro. L’infirmitas attiene alla colpa in funzione
dell’accentuazione della pericolosità di una certa condotta, manifestando imprudenza in base a
valutazione eventualmente da anticipare all’atto che la genera. Si dovrebbe parlare di infirmitas
nel senso anche di semplice stanchezza, o malessere o debolezza estemporanea. Significativo è il
dato che non sembra cosa ingiusta che infirmitas venga attribuita alla colpa. Non si tratta
dell’infermità in sé ma del fatto che il soggetto, pur essendo consapevole della sua infirmitas
svolga un’attività pericolosa. L’ubriachezza è uno dei fattori estemporanei. Nel momento in cui
inizio a bere in maniera incontrollata sono in grado di accorgermi della pericolosità della mia
condotta; ciò ovviamente non sarà possibile in stato di ubriachezza. Non è imputabile chi non è in
grado di intendere e di volere per caso fortuito o forza maggiore.
Significato di “occidere” quale condotta delittuosa. Ogni condotta del soggetto per essere punita
deve rientrare esattamente nei termini in cui il reato è previsto nel codice. I giuristi romani,
dall’applicazione della legge Aquilia, richiesero che la condotta del soggetto dovesse corrispondere
all’azione indicata sulla legge. Nel primo capitolo il verbo utilizzato è “occidere”. La morte del
servo altrui doveva essere stata prodotta con un’azione che corrispondeva all’“occidere” in senso
latino affinchè potesse essere sanzionata. Non si parlava di uccisione avvenuta in qualsiasi modo
ma in maniera ben precisa. Si richiede un’interpretazione ristretta del verbo uccidere: quando si è
causata la morte di un’altra persona “utilizzando la forza e la violenza fisica, con le proprie mani o
quasi”. Occidere deriva da caedere che vuol dire “colpire”; ai fini dell’applicazione della legge
Aquilia si implicava quindi la violenza. Tab VIII: SI NOX FURTUM FAXIT, SI IM OCCISIT, IURE
CAESUS ESTO (Se il furto è avvenuto di notte e il ladro è stato ucciso, l’uccisione è legittima).
D.9.2.7.1 (Ulp. 18 ad ed.) Ucciso dobbiamo intendere colui che taluno aggredì con una spada, con
un bastone o con altro tipo di arma oppure con le mani o con un calcio o con la testa
(connotazione violenta). Paul. Fest. 247 L.s.v. In qualsiasi modo si recherà la morte di un soggetto
libero, daranno luogo al crimen dell’omicidio mentre nella legge Aquilia il significato di “occidere”
risulta ristretto. Fest. 190 L. Il grammatico festo spiega cosa significa propriamente ucciso. Ha un
significato diverso da necato. Ucciso è quindi diverso da “ammazzato”. Occidere indica che la
morte debba avvenire con un colpo o tramite il colpire. Necare invece indica provocare la morte
anche senza alcun colpo. La legge Aquilia aveva semplicemente una portata patrimoniale e la
responsabilità era da accertare semplicemente al fine del risarcimento. Casistica confermativa: è
occidere quando si spinga uno schiavo contro un masso; quando si spinga uno schiavo altrui giù da
un ponte e quello muoia per l’impatto con il suolo, o anche per annegamento se caduto in fiume,
etc.; quando l’agente si sia limitato a imprimere personalmente l’energia contundente a un mezzo
in sé “inerte”: scagliando una lancia o un giavellotto o una lancia o un sassi contro schiavo altrui;
quando l’agente, anche solo colposamente abbia lasciato cadere un oggetto che portava o
controllava fisicamente su di uno schiavo altrui.
D.9.2.7.6 (Ulp. 18 ad ed.) Celso sostenne che è di molta importanza se “si sia ucciso” oppure “se si
sia apprestata la causa della morte”, con la conseguenza che colui che ha apprestato la causa della
morte non sia tenuto (a risponderne) in base all’azione prevista dalla lex Aquilia ma in base ad
un’azione modellata sul fatto. Ci sono importantissime ripercussioni sotto il profilo processuale.
Nel caso in cui non si potrà parlare di uccidere (nel senso di occidere in senso proprio) non è
possibile l’azione in base alla legge Aquilia ma con azione diversa modellata sul fatto di volta in
volta avvenuto e concessa dal pretore. Per deduzione: qui occiderit: lege Aquilia tenetur. I giuristi
ritengono di fondamentale importanza se il danneggiamento integri gli estremi esatti della legge o
se, non integrandoli, sarà risarcito con differente azione. Fu preferita un’applicazione
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tendenzialmente restrittiva dato che la lex Aquilia introdusse: una figura di delictum e un’azione
penale (più punitiva che risarcitoria). In questi casi il pretore, in un primo momento concesse
actiones in factum e in un secondo con actiones utiles.
Nel caso di danneggiamento ove mancava anche uno soltanto dei requisiti della fattispecie
legislativa, il dato certo è che la tutela non era ottenibile mediante l’azione ex lege Aquilia. Vi era
pertanto carenza di tutela nel ius civile. Ma il pretore, in quanto interprete della coscienza sociale,
fece una valutazione discrezionale sul caso se quel tipo di comportamento sotto il profilo sociale
consente di riconoscere l’esistenza di un danneggiato e di una sorta di riparazione al danno posto
in essere. Si parlerà di un’actio in factum concessa dalla sua discrezionalità. In un secondo
momento queste azioni in factum vennero definite azioni utili ove il pretore estendeva
l’applicazione, anche tramite la fictio, dell’azioni per danneggiamento.
Vi era una doppia preoccupazione dei giuristi. Innanzitutto, era richiesta massima attenzione prima
di indirizzare il privato danneggiato verso actio legis Aquilia; questo perché vi sarebbe stata, nel
caso di mancanza anche di un requisito legittimante l’actio, il rischio di perdita della lite e la
conseguente impossibilità di tutele alternative (ne bis in idem). Altro aspetto riguarda la
consapevolezza che far ripiegare il danneggiato verso actiones in factum o utiles comportava una
sua tutela attenuata rispetto alla tutela assicurata dall’actio legis Aquilia. Non abbiamo notizie
sicure in questo senso ma possiamo vantare di qualche informazione. Quando l’actio era
sicuramente in fatto ma anche utile, la condemnatio del giudice era il massimo valore. Quando si
agiva con actio in factum o utiles, mancava la conseguenza dell’infitiatio (è meno evidente la
responsabilità e quindi oggettivamente non è possibile parlare di infitiatio e quindi il raddoppio
della pena per l’atteggiamento del convenuto, dal momento che non poteva mai essere certa
l’esistenza di una violazione diversamente dal caso di actio legis Aquilia). Quando il soggetto
privato riconosce la mancanza dell’actiones civile, il pretore ha notevole discrezionalità, potendo
fare una sommaria cognitio e quindi può decidere se concedere o meno l’actio in factum (essendo
invece obbligato a concedere l’actio legis Aquilia).
Vi sono poi due differenze di carattere tecnico inerente alla prescrizione. La prima è inerente alla
prescrizione dell’azione. L’actio legis Aquilia, essendo riconosciuta dal ius civile, è un actio
imprescrittibile, mentre l’azione in factum possono chiedersi massimo entro un anno dal fatto
lesivo. La seconda differenza riguarda la perenzione del processo. Nel caso di legis aquilia, il
processo, una volta iniziato doveva concludersi in 18 mesi. Nel caso di azione pretoria si parlava,
nella migliore delle ipotesi, di un anno (dato che il pretore veniva eletto annualmente). Il processo
doveva svolgersi interamente durante il mandato del pretore.
D.9.2.11.1 (Ulp. 18 ad ed.) Se un soggetto si è limitato a trattenere lo schiavo, mentre un altro lo
ha trafitto, non si può dire che lo abbia ucciso ma ha concorso nel causare la morte. Chi ha trafitto
lo schiavo potrà essere convenuto in giudizio mediante l’actio legis Aquilia mentre chi ha
trattenuto lo schiavo mediante actio in factum.
D.9.2.49 pr. (Ulp. 9 disp.) Se qualcuno mediante l’uso del fumo abbia messo in fumo le api altrui o
le abbia uccise (non è utilizzato il verbo occidere), qui la morte realizzata dal fumo non realizza la
violenza dell’occidere e non ci sono quindi gli estremi di agire con l’actio legis Aquilia.
È interessante notare come il giurista Gaio fa un discorso in cui accomuna la condotta del primo e
del terzo capitolo e riesce ad individuare in modo chiaro le ipotesi in cui ricorrano quegli estremi.
Gai.3.219 Se qualcuno abbia arrecato il danno corpore suo [ai fini dell’applicazione della legge
Aquilia è essenziale che il danno sia arrecato con attività corporea materiale dell’agente 

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interazione fisica tra agente e bene che subisce il danno] … se invece il danneggiamento è stato
arrecato in qualche altro modo, siano date azioni utili (azioni pretorie discrezionali). Se qualcuno
abbia rinchiuso uno schiavo altrui o un animale costituente il bestiame e lo abbia fatto morire di
fame (utilizzato non il verbo occidere ma il verbo necare). Oppure quando qualcuno avrà incitato
così violentemente un cavallo altrui fino a quando l’animale sia rimasto morto o sia rimasto ferito
in qualche parte del suo corpo (actio utiles o in factum). Allo stesso modo, se qualcuno abbia
persuaso un servo altrui a salire un albero o scendere in un pozzo e questi nell’ascendere o nel
discendere sia caduto e o sia rimasto morto o sia rimasto ferito in qualche parte del corpo. Quando
infatti manca la fisica e corporea interazione fra l’agente e il bene leso vi sarà sempre actio utiles o
in factum. MA, se qualcuno avesse spinto un servo altrui giù da un ponte o da una riva in un fiume
o quello fosse affogato, che gli avesse arrecato danno con il proprio corpo, in quanto l’aveva spinto
giù, si può comprendere senza difficoltà. Nei testi di Giuliano e Ulpiano la violenza è spesso
presupposta. Dalla lettura del brano delle istituzioni di Gaio, si evince che si tratta di un discorso
unitario sia per il primo che per il terzo capitolo ove il “corpore sui” è l’unico requisito necessario.
Nelle istituzioni di Gaio non si parla né si sottintende “violenza” ma semplicemente la corporeità.
Nel terzo capitolo ci sono tre verbi in sequenza: urere, frangere, rumpere. Il terzo capitolo, si
ricorda, è di chiusura dato che ipotizza qualsiasi tipo di danneggiamento.
Per quanto riguarda URERE si parla di un danneggiamento di bene altrui arrecato con l’uso del
fuoco. Si parla di ipotesi in cui o un soggetto incendia un bene altrui o in cui inizia a bruciare cose
proprie ma per negligenza finisce per bruciare anche cose altrui (non muta il tipo di
responsabilità). D.9.2.27.8 (Ulp. 18 ad ed.) Non hanno diritto ad agire soltanto i proprietari delle
case ma anche l’inquilino per le cose proprie mobili, in quanto proprietario (l’actio legis Aquilia
tutela soltanto i proprietari).
Per quanto riguarda FRANGERE [D.9.2.27.29 (Ulp. 18 ad ed.)] si parla di danno causato per
incompetenza, incapacità tecnica. Siamo nel caso dell’istoriatore. L’artigiano che ha frantumato
un vaso da istoriare è certamente responsabile. Proprio per la delicatezza dei materiali, gli artigiani
sono soliti accordarsi per addossare la responsabilità stabilire una deroga alle regole ordinarie di
responsabilità: rischio a carico del committente (accade anche oggi). Oggi si parla di clausole
vessatorie, che richiedono quindi esplicita accettazione. Il fatto che ci sia stata questa pattuizione,
si esclude ogni responsabilità a carico dell’artigiano.
Argomento relazione
D.9.2.7.8. (Ulp. 18 ad ed) Proculus ait, si medicus servum imperite secuerit, vel ex locato vel ex
lege Aquilia competere actionem. Proculo afferma che se un medico abbia operato un servo senza
perizia risponde o in base al contratto di locazione d’opera o in base alla legge Aquilia. D.9.2.8.
(Gai. Ad ed prov.) Il diritto da applicare è il medesimo, se si sia usato erroneamente un
medicamentum. Ma anche colui che abbia eseguito in modo corretto un’operazione e abbia
trascurato la cura (postoperatoria) non sarà al sicuro ma responsabile per colpa.
Caso giurisprudenziale
Un’ostetrica dà un medicamentum e, in conseguenza di questo, la schiava medicata muore. Se il
medicamentum sia somministrato con le proprie mani, a Labeone sembra ci siano gli estremi per
parlare di uccisione perché altrimenti bisognerebbe adottare un’actio in factum ai fini della
responsabilità dell’ostetrica.
ANALISI OBIETTIVA DELLA DOPPIA FATTISPECIE DI CUI AL PRINCIPIUM

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- Significato di medicamentum: si può trattare o di medicina o, a seconda del contesto,
anche di veleno. [farmakon]
- Atteggiamento di dolo o colpa? Il termine medicamentum, nella sua ambivalenza potrebbe
giustificare sia il dolo che la colpa. È però più probabile l’imputazione sia a titolo di “colpa
professionale”. Essendo l’ostetrica una figura professionale, si presume operi a giovamento
dello schiavo. Si pensa a sostanza abortiva, ad anticoncezionale, a medicinale favorente la
fertilità o alleviante dei dolori del parto (piuttosto che ad un veleno). Probabilmente
l’ostetrica ha causato la morte della schiava per aver sbagliato medicamentum, dose o
modalità di somministrazione.
Par. II Il problema analizzato dalla dottrina attiene all’opinione di Labeone secondo cui il
medicamento somministrato “con le proprie mani” fosse considerato “occidere”. Ma “occidere”
era spesso utilizzato per violenza fisica. Lo Stesso giurista Labeone spiega, nel brano 2, chi siano gli
uccisi. Nel brano non siamo all’interno della trattazione della legge Aquilia (che avviene nel 18°
libro) ma nel 50° libro, ove si parla del senatoconsulto silaniano. Questo provvedimento
autorizzava il ricorso alla tortura degli schiavi per ottenere notizie sulla morte del padrone, qualora
fossero stati presenti al momento dell’uccisione, aveva sia la funzione di carpire informazioni dallo
schiavo sia di punire lo stesso per non aver salvato la vita del proprio padrone. Requisito
fondamentale per l’applicazione del senatoconsulto era che l’uccisione fosse avvenuta con
clamore e con urla. La ratio di ciò si evince chiaramente dal testo n.3. Il frammento n.4 specifica
come, nel caso in cui il veleno fosse somministrato con la violenza, tornino ad esistere gli estremi
per l’applicazione del senatoconsulto silaniano. Ai fini dell’applicazione dello stesso, infatti, era
necessaria la violenza, dato che si contestava il fatto che gli schiavi avessero tenuto un
comportamento omissivo. “Occidere” normalmente va associato a morte violenta ma ciò non vuol
dire che in tutte le fattispecie la violenza fosse indispensabile. Nel senatoconsulto questo era un
requisito inscindibile per l’applicazione della norma. Labeone utilizza il verbo videatur (sembra,
sembrerebbe) uccidere. Nel caso dell’ostetrica, invece, la violenza non era presupposto necessario
e Labeone sembra accontentarsi di qualcosa in meno.
Si è evidenziato che il testo n.2 non ha a che fare con la legge Aquilia. Secondo alcuni studiosi si
tratta di ipotesi limite considerata da Labeone. Forse Labeone è stato influenzato dall’uso che
occidere aveva assunto nel linguaggio comune. Altra possibile spiegazione è data dagli studiosi che
ritengono Labeone anticipatore della concezione di Gaio (danno arrecato “corpore suo” – ablativo
strumentale). Labeone è contemporaneo di Augusto mentre il giurista Gaio vive più di 100 anni
dopo Labeone. Un’ulteriore spiegazione (più credibile secondo Genovese) ciò che è più importante
per Labeone è individuato dall’ablativo “manu”. Nel testo di Giuliano vi era “quasi manu”.
Per quanto riguarda il testo numero [1] le novità sono date dal fatto che la somministrazione del
medicamento sono attuate o con l’uso della forza o suasus. Il nesso di causalità anche qui è diretto
e certo e quindi ci sono gli estremi per esercitare l’actio legis Aquilia propriamente detta.
Apparentemente ci sono gli elementi per il dolo ma nessuno degli elementi ci consente di
considerare che vi sia stato dolo. La forza o il convincere mira semplicemente a vincere la
resistenza della schiava ad assumere quel farmaco (a muovere l’atto è un intento benefico). Una
sostanza blandamente velenosa poteva essere utilizzata per uccidere i parassiti infestanti lo
schiavo; proprio il cospargere il veleno nel corpo potrebbe essere giustificato con l’intento
benefico. Se vi fosse stato “fraus” nel testo avremmo certamente pensato al dolo; il fatto che
manchi vuol dire che la responsabilità sia per colpa. Rapporto logico-normativo col principium.
Problema sorge in merito al riferimento alla “persuasione”. La maggior parte della dottrina ha
ritenuto che si trattava di un’aggiunta ridondante. Il Corbino prova a dare una spiegazione diversa:
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la tesi di Corbino è che il senso di quest’aggiunta è data dal fatto che l’aver persuaso la schiava ciò
integrerebbe gli estremi per la generazione della responsabilità ex legis Aquilia potendo
prescindere dal contatto fisico. Il giurista Gaio diceva che nel caso in cui si fosse convinto lo
schiavo a salire su un albero o a scendere in un pozzo, se fosse morto, l’autore della convinzione
sarebbe stato responsabile con un actio utile. In realtà quel tipo di attività non per forza avrebbe
portato la morte dello schiavo (il salire sull’albero o lo scendere in un pozzo) mentre nel caso di
farmaco, quella sostanza se ingerita determina, secondo Corbino, sicuramente la morte. A
Genovese la tesi di Corbino non convince.

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