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Capitolo I: struttura e funzioni del giudizio di responsabilità

1. Premesse

Disciplina resp extracontrattuale è contenuta agli artt. 2043-2059 cc. Artt. 2043 ss. contengono norme che
individuano le ipotesi nelle quali una peculiare obbligazione, quella risarcitoria, nasce come conseguenza di
un fatto, indipendentemente dalla preesistenza di una relazione giuridicamente rilevante tra il titolare del
diritto al risarcimento e il soggetto obbligato. Non è la sanzione dell’illecito ciò che la caratterizza: ciò che
caratterizza la resp extra consiste nella funzione di stabilire se un evento dannoso debba restare a carico
di chi lo ha subito o se debba essere trasferito a carico di un altro soggetto.

Il giudizio di responsabilità può essere descritto come una sequenza che muove dall’accertamento
dell’esistenza di un danno giuridicamente rilevante, verifica poi la sussistenza di una relazione causale tra
evento dannoso e una delle ipotesi normative di responsabilità, e si conclude con l’imputazione
dell’obbligazione risarcitoria.

4 elementi essenziali resp extra  danno, imputazione, nesso causale, risarcimento.

La revisione critica condotta dalle dottrine della concezione dottrinale dell’illecito civile ha permesso una
ricostruzione della funzione della resp civile intorno alla riparazione del danno ingiusto; si è colta una
evoluzione dell’istituto da mezzo per la prevenzione e sanzione del comportamento dell’agente a
strumento che consenta di risarcire nel maggior numero di casi la vittima. Tuttavia, l’aspetto riparatorio non
è sufficiente a esaurire la spiegazione dell’istituto.

Il problema odierno della resp civile risiede proprio nel fatto che al grande ampliamento del campo
operativo non corrisponde una chiara e condivisa individuazione delle ragioni che giustifichino il
risarcimento. Questa incertezza determina difficoltà interpretative, essendo la disciplina degli artt. 2043 ss.
composta da norme generali ma anche da materiale normativo non omogeneo.

2. Responsabilità per danni e illecito civile

La concezione tradizionale identifica la fattispecie idonea ad attivare la tutela risarcitoria extracontrattuale


con una figura generale di illecito civile. L’identificazione del risarcimento con la sanzione dell’illecito civile
si fonda su una duplice idea:

- Prima idea  il risarcimento per equivalente è l’unica forma generale della tutela civile. Al rimedio
risarcitorio viene quindi fatta corrispondere una figura generale del comportamento civilmente
sanzionato; ma il quadro delle tutele civili è diventato più complesso, quindi non vi è ragione per
riservare solo al fatto che dà luogo alla fattispecie del 2043 il nome di illecito civile
- Seconda idea  ritiene che la resp per danni sorga solo a seguito di una condotta del soggetto
chiamato a rispondere del danno che possa definirsi come illecita, in quanto qualificata
dall’elemento della colpevolezza; ma la valutazione della condotta dannosa in termini di
colpevolezza oggi non costituisce più un criterio esaustivo di imputazione della resp.

Parte della letteratura ritiene che possa parlarsi di illecito solo per le ipotesi in cui rileva la colpevolezza
della condotta; di conseguenza, ripartisce la resp civile nei due campi dell’illecito in senso proprio e della
mera antigiuridicità, a seconda della fattispecie di imputazione che rilevi nel caso di specie. Questa
concezione presuppone che i criteri di imputazione della resp possano essere sistemati in colpa e rischio 
questo è dubbio nel diritto positivo. Oltre a questo, rimane che la bipartizione suddetta presuppone la
distinzione tra condotta vietata e permessa  la funzione delle norme che disciplinano l’imputazione della
resp non è però quella di vietare o permettere condotte, ma di stabilire i criteri per la traslazione del danno.
Uno di tali criteri è la colpevolezza della condotta dannosa, ma il comportamento colposo, di per sé, non è
vietato. In definitiva, sono le stesse categorie ora citate a essere estranee a una caratterizzazione d’insieme
della resp extra, che va piuttosto colta mediante un’adeguata considerazione della centralità che in essa
assume la coppia danno-risarcimento  artt. 2043 ss. non definiscono la forma generale di protezione del
diritto dei privati, ma prevedono una tra le tecniche di tutela civile degli interessi, per arrivare alla
riparazione del danno ingiusto.

Nell’ambito delle tecniche di tutela civile, la resp si caratterizza per la centralità che vi assume il danno:
presupposto della tutela è l’esistenza di un fatto qualificabile come danno giuridicamente rilevante; effetto
della tutela è il risarcimento di quel danno.

3. Tutela contro i danni e tutela inibitoria

La centralità della coppia danno-risarcimento vale a differenziare quella aquiliana dalle altre forme di tutela
apprestate dall’ordinamento per la protezione degli interessi dei privati. Negli ordinamenti contemporanei
hanno peso crescente tecniche di tutela civili differenti da quella risarcitoria, volte a garantire al soggetto
leso valori il più possibili identici a quelli colpiti dal fatto lesivo; significativa è la valenza di rimedio generale
che assume la tutela inibitoria (o di cessazione).

Risarcimento del danno e tutela di cessazione non sono effetti della stessa fattispecie; differenze:

- Struttura del fenomeno contro il quale sono apprestati  danno per la prima e violazione del
diritto per la seconda
- Nella resp extra il fatto è preso in considerazione come accadimento già concluso, nella tutela
inibitoria il fatto è situazione attualmente lesiva di un diritto. Di conseguenza, nella prima
l’imputazione soggettiva del fatto lesivo avrà un ruolo centrale, meno nella seconda. Al contrario, il
criterio di qualificazione di un danno come ingiusto è più forte per la seconda fattispecie

La tutela inibitoria, quindi, ha valenza generale della tutela contro i danni, ma è autonoma sul piano dei
contenuti, della funzione e dei presupposti; qui il presupposto deriva dall’esigenza di reagire a una
fattispecie lesiva, in atto e destinata a protrarsi  il danno ingiusto non è presupposto della tutela.

Fondamento normativo tutela inibitoria  risiede nell’applicazione analogica delle fattispecie


espressamente previste. Se si ritenesse che la tutela inibitoria possa darsi luogo solo in presenza di una
norma che specificamente ed espressamente la preveda, si determinerebbe l’esito per il quale alcuni diritti
sarebbero muniti della sola tutela per equivalente monetario. Per la tutela inibitoria si deve accertare se nei
confronti della concreta fattispecie lesiva ricorra il medesimo bisogno di tutela, che ha indotto il legislatore
a prevedere espressamente il rimedio con riferimento al diritto di proprietà.

Carattere generale tutela inibitoria  il quadro normativo più recente convalida questa tesi. Funzione
parallela a quella della tutela inibitoria è svolta dall’art. 614 bis cpc, introdotto sulla base del modello
francese dell’astreintes. L’art. stabilisce che con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi
diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice può fissare una somma di denaro dovuta dall’obbligato
per violazioni successive o per ritardi nell’esecuzione del provvedimento.

Duplice conclusione  scarsa utilità di una figura generale dell’illecito civile costruita astraendo dalle
specifiche tecniche di tutela attivabili contro i fatti lesivi: variano i presupposti oggettivi e soggettivi che il
fatto deve presentare perché possa darsi luogo alle differenti forme di protezione degli interessi lesi.

Abbandono dell’idea della resp civile come unica forma generale di protezione degli interessi per
concentrarsi sulle sue specifiche funzioni.
4. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale

La tradizionale distinzione tra le due figure di resp, fondata sull’alternativa tra il generale divieto di alterum
laedere e l’esigenza di rispettare un obbligo specifico nei confronti di un soggetto predeterminato sembra
sfumare; l’estendersi di zone di confine ha indotto a valutare sia del valore concettuale sia dell’opportunità
legislativa della distinzione.

Principio del cumulo (o concorso) tra resp contrattuale ed extra  affermato dalla nostra giurisprudenza
quando il fatto che dà luogo all’inadempimento produca la lesione di un diritto assoluto della vittima; per
diritto assoluto intendiamo un diritto o interesse la cui violazione sia idonea a dar luogo a danno ingiusto,
indipendentemente dall’esistenza di un preesistente rapporto giuridico tra le parti.

L’autonomia giuridica delle due azioni dà luogo a talune questioni di ordine processuale, che la
giurisprudenza tende a sciogliere in senso favorevole alla vittima.

L’ammissibilità del cumulo appare una soluzione pratica volta a estendere la tutela offerta al danneggiato,
in particolare quando sia in questione la lesione dell’integrità fisica, onde consentire il risarcimento di
danno che altrimenti sarebbero prescritti.

Tuttavia, la distinzione tra le due figure di resp non può considerarsi superata, anzitutto per le differenze
di regime giuridico: diverso termine di prescrizione, limite della prevedibilità ai fini del danno risarcibile,
onere della prova sulla colpa, costituzione in mora, incapacità naturale, solidarietà, competenza per
territorio.

La distinzione discende anche da ragioni connesse alla differente qualità funzionale della protezione
dell’interesse. Funzione resp contrattuale  tutela nei confronti di un rischio specifico di danno, creato in
particolare dalla relazione che si era in precedenza instaurata tra due soggetti; resp extracontrattuale  il
sorgere della relazione intersoggettiva è successivo al giudizio sulla ingiustizia del danno.

Il richiamo all’obbligazione preesistente vale a individuare il responsabile nella resp contrattuale, per quella
extra si deve trovare un altro fondamento. La qualificazione ex post del fatto ne copre così l’intera
dimensione, aprendo al giudizio di resp spazi nuovi ed estranei all’altra figura, dove l’obbligo risarcitorio
sorge sempre come specificazione di un obbligo preesistente. Per questo si possono spiegare talune
differenze di regime giuridico, come l’applicabilità solo alla resp contrattuale della regola della prevedibilità
come limite del danno risarcibile: tale limite, congruo a una tutela che intenda soddisfare in via succedanea
l’interesse dedotto nel rapporto obbligatorio, è improprio quando il problema che l’ordinamento affronta è
quello della reazione al danno ingiusto.

4.1 La responsabilità da contatto sociale

Il contatto sociale può dar luogo a obblighi tra le parti nella fase che precede la conclusione di un contratto
 es. obblighi di protezione connessi a un rapporto contrattuale; es. rapporti contrattuali di fatto (paziente
e medico ospedaliero): per quest’ultimo caso si afferma il principio per il quale un affidamento, fondatuo
sulla peculiarità del contatto sociaale che si è realizzato tra due soggetti, può far nascere tra loro un
rapporto obbligatorio della stessa natura, e soggetto alla stessa disciplina, di quelli proprio di una
fattispecie negoziale. Il ricorso al contatto sociale è stato esteso a dismisura:

- Giurisprudenza sulla responsabilità precontrattuale  al tradizionale inquadramento nell’ambito


aquiliano (non sono ancora sorte obbligazioni contrattuali) si contrappone quello nella resp
contrattuale attraverso l’individuazione del contatto sociale come fatto idoneo a produrre
obbligazioni ex. art. 1173, “dal quale derivano obblighi di buona fede, protezione e informazione”
- Responsabilità da contatto sociale anche in merito alla resp dell’insegnante per danno cagionato
dall’alunno a se stesso, del medico operante in una struttura sanitaria, ecc.
Pare così possibile un ritorno della categoria del quasi contratto, dovendo però individuare con certezza il
criterio per il quale il contatto sociale di natura non negoziale appaia così significativo da dar luogo
all’obbligazione  contatto sociale qualificato.

4.2 La responsabilità sanitaria

Qui nasce la resp da contatto sociale. Prima della sentenza 589/1999 della cassazione la soluzione
prevedeva la convergenza di forme diverse di resp, contrattuale per la casa di cura ed extra per il medico;
con la sentenza viene stabilito che, pure in assenza di un formale rapporto derivante da un contratto,
intercorre tra il medico e il paziente, per effetto del contatto sociale qualificato che si determina tra loro, un
fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 1173. Da tale contatto derivano obblighi di protezione,
riconducibili a una resp prossima a quella contrattuale e disciplinati secondo la regola dell’obbligazione da
contratto.

Il legislatore è intervenuto in materia con la Legge Gelli (l. 24/2017). L’art. 7 di questa legge stabilisce che la
struttura sanitaria risponde contrattualmente anche delle condotte dolose o colpose del medico, ancorché
non dipendente della struttura e scelto dal paziente; il sanitario invece risponde del proprio operato ai sensi
del 2043  si abroga la resp da contatto sociale.

5. Il dibattito sulle funzioni della responsabilità civile.

Resp civile  passaggio da schema nel quale il risarcimento è sanzione di un comportamento vietato a
modello che pone al centro dell’istituto il fatto dannoso e la funzione riparatoria.

5.1 Dal risarcimento come “eccezione” alla centralità della riparazione del danno (1800-1960)

Elaborazione figura generale di “delitto” civile fondata sugli elementi della riprovevolezza etica del
comportamento (culpa), perdita economica (damnum) e lesione dell’altrui proprietà (iniuria). In questo
modello il risarcimento ha luogo solo se al convenuto possa personalmente imputarsi una responsabilità
per la riprovevolezza del suo comportamento; le ipotesi di responsabilità differenti dalla colpa vengono
organizzate normativamente come eccezioni alla regola.

I termini del problema mutano con l’incremento delle occasioni di danno derivante dal processo di
industrializzazione; la disciplina aquiliana è chiamata a mediare il conflitto tra libertà di svolgimento delle
attività produttive e la sicurezza individuale e proprietaria  la nozione etico-comportamentale di
responsabilità non appare più adeguata a svolgere tale mediazione.

Nella prima industrializzazione la soluzione prevalentemente adottata consiste nella conferma del principio
della colpa, nozione che viene però progressivamente depurata dagli elementi etico-individuali per
configurarsi in termini oggettivi come difformità del comportamento dell’agente rispetto a parametri che
esprimono il grado di tollerabilità sociale del rischio introdotto dalla condotta dell’agente.

La nuova nozione “oggettiva” della colpa si accompagna alla sottolineatura del carattere eccezionale del
risarcimento; la regola è che le perdite rimangano dove cadono, se non esiste una ragione socialmente
valida che giustifiche l’attivazione del procedimento diretto a trasferirle dalla vittima all’agente  tale
ragione è la colpa: solo la difformità della condotta dalla norma giustifica il risarcimento, che funge così da
sanzione e da tecnica di prevenzione dei comportamenti socialmente anomali.

Questo è un modello di responsabilità ispirato a un principio liberista  chi svolge attività economiche,
ancorché rischiose, in modo conforme a parametri socialmente accettabili, sia tenuto ad addossarsene le
conseguenze dannose. Le regole aquiliane si pongono come limite alla responsabilità di chi svolge attività
rischiose.
Tuttavia, la ratio dell’istituto tende poi a spostarsi dalla logica individuale a una ragione d’interesse generale
 apertura della dialettica tra funzione individuale della resp civile, come istituto che regola una relazione
bilaterale secondo criteri privatistici, e la sua funzione sociale, intesa come interesse generale che giustifica
la traslazione del danno dalla vittima a un altro soggetto.

Questa concezione solidaristica si afferma in Italia dagli anni 60, dove si pongono evento dannoso ed
esigenza di ripararlo al centro della ricostruzione concettuale dell’istituto. La riparazione del danno non è
più vista come conseguenza di regole aventi finalità preventive e repressive nei confronti di condotte
dannose difformi dai parametri di tollerabilità sociale, ma come compito primario dell’istituto, che trova se
mai un limite e non il suo fondamento nella considerazione del fatto del responsabile.

Funzione individuale e funzione sociale della resp civile sembrano trovare un punto di incontro in una
visione che privilegia in linea di principio il danneggiato, in quanto parte debole del conflitto sottostante la
fattispecie dannosa.

Le nuove tendenze si esprimono tecnicamente in una duplice direzione: ampliamento tipologico degli
interessi la cui lesione dà luogo al risarcimento; enucleazione di un principio generale di resp oggettiva,
fondato sul rischio introdotto dalle attività economiche e contrapposto al principio della colpa.

Dal primo punto di vista si rompe l’identificazione del danno ingiusto con la lesione del diritto soggettivo
assoluto. Dal secondo punto di vista si apre la strada a concezioni bipolari della resp civile, basate
sull’affermazione della compresenza di due principi generali: colpa e rischio.

Rimane, tuttavia, che nella moderna trasformazione dell’istituto un ruolo centrale viene assegnato all’idea
che la tutela delle vittime dei danni è un valore primario, intorno al quale ricostruire disciplina e funzioni
della resp civile. Partendo da questa premessa, il processo di estensione dell’area coperta dal rimedio
aquiliano assume dimensioni e rilievo in precedenza impensati.

Nella stessa direzione assume rilievo la tendenza, diffusasi in tempi più recenti, a ricorrere alla resp extra
per fini che sono, più che di ripartizione dei danni, di tutela dei diritti e degli interessi, spesso
indipendentemente dal verificarsi di un danno avente rilevanza economica, e persino di un danno
individuale  in particolare, da noi, importanti sono state l’evoluzione della giurisprudenza sull’identità
personale e sul danno biologico.

5.2 Le critiche alla concezione solidaristica della responsabilità (1970-2000)

Per effetto dello spostamento di attenzione dall’autore alla vittima del danno, questo non è eliminato, ma
trasferito a un altro soggetto; perché la traslazione abbia luogo non è dunque sufficiente che il danno sia
ingiusto, ma occorre anche che nella fattispecie concreta ricorrano gli estremi di uno dei criteri normativi di
imputazione, nei quali si esprimono le ragioni che inducono l’ordinamento a intervenire al fine di trasferire
il costo dell’evento dannoso dalla vittima a un altro soggetto.

Si è ritenuto quindi che una spiegazione attenta solo al profilo riparatorio non è in grado di dar conto delle
ragioni per cui si è resi responsabili e della possibile evenienza che un danno ingiusto non sia in concreto
risarcibile per difetto di una di quelle ragioni  i principi solidaristici non sono considerati sufficienti a
superare tale limite.

Diffuso è oggi l’orientamento che individua le ragioni della responsabilità in una funzione di efficienza del
sistema economico  l’esito delle regole risarcitorie non è definitivo; il danno viene poi trasferito, in tutto
o in parte, su altri soggetti. Si apre quindi la via a complesse analisi sugli effetti economici delle regole
risarcitorie, dalle quali si tenta poi di trarre elementi per definire un modello aquiliano idoneo a conseguire
effetti economici ottimali.
I percorsi a questo punto divergono. L’attenzione agli effetti economici della tutela aquiliana non è di per sé
in contrasto con la centralità assegnata al momento riparatorio dalle teorie solidaristiche, che individuano
nel danneggiato la parte debole. Che il responsabile possa poi redistribuire il costo sulla collettività non è
contraddittorio: se la riparazione è il fine dell’istituto, una ripartizione sociale del costo dei danni può essere
considerata esito positivo, perché consente di renderli “insensibili” per i singoli danneggiati.

L’approccio economico è però adottato prevalentemente da orientamenti che contestano l’idea stessa di
porre la tutela riparatoria del danneggiato al centro dell’istituto. Depurato da ogni rilievo di finalità
redistributive o di tutela della parte debole, l’interesse generale che fonda le ragioni della resp viene
identificato con l’allocazione delle risorse più efficiente  è dubbio che mediante l’analisi economica della
resp civile possa giungersi a consistenti risultati di ordine sia descrittivo sia prescrittivo.

5.3 I termini attuali del dibattito

Tutti questi dubbi portano l’attenzione su profili che sembravano superati e alla riconsiderazione di altri.
Una prima distinzione va posta tra le dottrine che accentuano le funzioni sociali dell’istituto e le ragioni di
interesse generale che giustificano la traslazione del danno, e quelle che tendono piuttosto a ricondurre la
resp aquiliana a una dimensione eminentemente individuale. Nel primo campo si sottolinea la funzione di
prevenire li eventi dannosi.

Molto discussa è poi l’idea della finalità preventiva come fondamento generale della resp per colpa. Le
obiezioni a tale idea sono legate ai caratteri che la colpa concretamente assume negli ordinamenti
contemporanei  le cause fisiologiche e psicologiche dei comportamenti dannosi più diffusi non sembrano
superabili con la minaccia della responsabilità; si osserva soprattutto. contro l’idea di un’efficace funzione
deterrente della colpa. Che la valutazione del comportamento colpevole è operata dalla giurisprudenza
secondo criteri astratti e oggettivi, che nella colpa viene ricondotto anche il cosiddetto errore, che la
minaccia della resp perde peso di fronte al ruolo dell’assicurazione.

Una conclusione radicalmente negativa sarebbe però eccessiva, dovendosi piuttosto distinguere tra i diversi
settori coperti dalla colpa.

Lungo un altro versante si sottolinea l’idoneità del giudizio aquiliano a fungere da strumento di controllo
sociale e diffuso nei confronti di attività potenzialmente lesive in funzione aggiuntiva ai tradizionali
strumenti amministrativi o penali  limite di questa funzione di controllo  l’azione del danneggiato è
diretta a ottenere il risarcimento del singolo danno, e non la rimozione delle condizioni che hanno
provocato quel danno.

Altri orientamenti tendono invece a recuperare la logica individualistica del giudizio di resp, anzitutto
sottolineandone il carattere di conseguenza sfavorevole di un comportamento riprovevole dell’agente 
ritorno a un’accentuazione dell’elemento oggettivo della riparazione del danno e conseguente venir meno
del ruolo ammonitorio.

In logica individualistica si muovono anche le teorie (soprattutto in USA) che vedono l’obiettivo dell’istituto
nell’esigenza di rendere giustizia tra il danneggiato e la sua vittima, in base a considerazioni attente solo alla
posizione delle parti, respingendo invece ogni rilievo di interessi generali.

In direzione opposta a quella da ultimo indicata muove l tendenza ad attribuire alla resp civile la funzione di
punire comportamenti antisociali attraverso la condanna al pagamento di una somma di denaro aggiuntiva
o comunque superiore a quella corrispondente alla perdita subita dal convenuto (qui si fa cenno alla
sentenza USA in materia di danni punitivi).
6. Principi costituzionali e responsabilità civile

La tendenza espansiva al ricorso alla resp civile si è espressa nel nostro ordinamento prevalentemente
attraverso il ricorso ad argomenti dedotti dalla Cost  quali sono i principi cost rilevanti in materia?
Funzione unitaria della resp è quella di determinare il soggetto sul quale ricada il costo del danno sulla base
di criteri che attengono sia alla qualità dell’interesse leso sia a un fatto o situazione del responsabile.

Il giudizio di resp è permeato da valutazioni che trascendono una considerazione meramente privata della
posizione delle parti; la dimensione dell’interesse generale assume nella resp civile un peso maggiore che in
altri settori del diritto privato. Un motivo di interesse generale va posto alla base sia della traslazione del
danno dalla vittima a un altro soggetto, sia della valutazione dell’interesse leso.

Per queste ragioni si è diffusa nella nostra esperienza la tendenza a ricorrere ai principi cost per rinnovare o
contestare la normativa del codice  ai doveri inderogabili d solidarietà (art. 2 cost) si è fatto ricorso per
fondare quello spostamento di attenzione dall’autore alla vittima del danno; il principio solidaristico opera
come criterio di integrazione della disciplina, quando occorra esprimere una valutazione del
comportamento o dell’interesse protetto delle parti.

Orientamento recente corte cassazione in tema di danno non patrimoniale  il principio di solidarietà può
valere anche per limitare il diritto al risarcimento della vittima di un danno.

Il principio solidaristico assume un peculiare rilievo quando venga fatto valere con riferimento ai conflitti
socialmente tipici, nei quali la vittima appare meritevole di maggiore protezione per il valore sociale del
bene leso, o il dovere di solidarietà attenga allo svolgimento di un’attività qualificata  per questo secondo
aspetto, l’”utilità sociale” sembra giustificare un’interpretazione dei criteri di imputazione della resp che
favorisca il principio per il quale la legittimazione delle attività economiche sia subordinata all’attitudine di
accollarsi il costo dei danni cagionati dal processo produttivo.

Funzione di protezione sfera personale  art. 2 cost incide tanto nell’interpretazione della clausola di
ingiustizia del danno quanto della regola ex art. 2059 (esito recente è stato abrogazione 2059 per via
giurisprudenziale e assunzione art. 2 come norma che giustifica il risarcimento del danno non patrimoniale
alla persona)  questo non significa che il diritto a una somma di denaro deve essere necessaria
conseguenza della lesione di un bene costituzionalmente protetto.

Rilettura 2059 della cassazione  quella risarcitoria deve essere la tutela minima a presidio di diritti di
rango cost, per i quali non sia rinvenibile nell’ordinamento altra forma di protezione.

Principio di eguaglianza  non si può dedurre direttamente da questo che tutte le vittime di eguale danno
hanno uguale diritto a essere risarcite  la resp discende anche da ragioni estranee alla natura del danno e
alla posizione della vittima  è quindi possibile una disparità di trattamento tra le vittime di danni uguali.

Considerazioni finali  se è vero che non ogni ampliamento dell’ambito operativo della resp civile appare
congruo ai principi cost, è altrettanto vero che essi richiedono una riconsiderazione della disciplina del
codice, in particolare per quanto attiene all’imputazione all’impresa della resp e alla protezione dei beni
della persona.

In ogni caso è difficile configurare un’applicazione diretta delle norme cost in materia  es. applicazione
diretta art. 32 cost  in realtà, per fondare la risarcibilità del danno biologico si usa una metafora: si dice
che dalla norma cost possono trarsi gli elementi per un’interpretazione rinnovata degli artt. 2043-2059,
quindi saranno queste le norme poi applicate  “la lesione sofferta dal singolo può dar luogo a riparazione
in senso tecnico solo quando sussistono i presupposti e le condizioni della resp aquiliana”.
7. Le funzioni della responsabilità

Nessuna funzione è in grado, da sola, di spiegare l’intera struttura del giudizio di resp. Non è sufficiente,
tuttavia, limitarsi a parlare di una natura polifunzionale dell’istituto.

Due distinzioni:

- Funzione del risarcimento/funzioni della resp  emerge dal rilievo che non ogni danno ingiusto è
risarcibile: per esserlo occorre anche la sussistenza di uno dei criteri normativi di imputazione della
resp di cui agli artt. 2043 ss.
La funzione compensativa è in grado di spiegare il primo aspetto, non il secondo; neppure una
considerazione attenta solo al momento dell’imputazione è in grado di esaurire il profilo funzionale
della resp, soprattutto perché in tal modo il risarcimento sembra presentarsi come l’effetto di un
fatto già di per sé rilevante
- Danno patrimoniale/danno non patrimoniale  profonda differenza funzionale: per il danno non
patrimoniale non ha senso parlare di funzione compensativa rispetto a una perdita economica;
inoltre, la riparazione risponde a logiche funzionali diverse, a seconda delle diverse figure di danno
non patrimoniale risarcibile.

Consideriamo quindi separatamente le funzioni del risarcimento e della resp nelle due figure.

7.1 Funzione del risarcimento e funzioni della resp. Il danno patrimoniale.

Il risarcimento del danno patrimoniale è governato dal principio dell’equivalenza monetaria: al


danneggiato spetta una somma di denaro equivalente alla perdita economica da lui subita come
conseguenza immediata e diretta del fatto lesivo  funzione compensativa, esclude che al risarcimento
possa attribuirsi il carattere di sanzione dell’illecito  tuttavia la resp per danno patrimoniale non è sempre
priva di una funzione preventiva o punitiva: quando ciò accade, però, tale funzione è propria non del
risarcimento, ma di una tra le possibili ragioni per cui si risponde di un danno  es. ipotesi in cui il titolo di
resp è ristretto a dolo/colpa grave, qui profilo sanzionatorio e deterrente è rilevante, ma pur sempre
subordinato alla funzione compensativa che caratterizza il risarcimento.

La regola dell’equivalenza può essere derogata da norme di legge che fissano un quantum inferiore o
superiore, ma sono fattispecie eccezionali.

La funzione compensativa, in quanto propria del risarcimento, è poi l’unica che caratterizza sempre e
comunque la resp per danno patrimoniale; questa assolve altre funzioni, ma queste non sono unitarie,
essendo connesse al sistema dell’imputazione, che si diversifica a seconda delle differenti ragioni che sono
alla base dei vari criteri normativi; inoltre, dalla funzione compensativa non possono prescindere, in quanto
esprimono le ragioni per le quali la traslazione del danno ha luogo nelle differenti ipotesi di imputazione.

Danno risarcibile  deve stabilire il tipo di fatto rispetto al quale opera la tutela e gli effetti che ne derivano
 rilevano la posizione della vittima, la tipologia degli interessi coinvolti nel fatto dannoso, le ragioni e i
caratteri della protezione accordata a tali interessi.

Criteri di imputazione  devono determinare le ragioni dell’attivazione della tutela  sono in gioco la
posizione del responsabile e le ragioni che con riferimento a essa giustifichino l’imputazione dell’obbligo
risarcitorio.

7.2 Il danno non patrimoniale. solidarietà, soddisfazione, punizione.

Per il danno non patrimoniale non può parlarsi di funzione compensativa in senso proprio, perché il danno
non patrimoniale, per definizione, non può essere misurato secondo il criterio che vale per il danno
patrimoniale. in questo caso, il risarcimento determina un arricchimento economico della vittima; sul piano
funzionale risponde a una finalità che può essere definita satisfattiva della vittima.

L’idea della soddisfazione come base del risarcimento del danno non patrimoniale presuppone il rifiuto
della tendenza da ammettere una fittizia equivalenza tra un danno economicamente irrilevante e una
somma di denaro. Non aver considerato questo aspetto ha portato la giuri a esiti non chiari nella
determinazione dei criteri per il quantum da liquidare, avendo adottato categorie proprie del danno
patrimoniale; partendo dall’idea di soddisfazione occorre invece intendere le ragioni per le quali
l’ordinamento dà luogo a una forma di tutela che si traduce nell’arricchimento della vittima.

Tali ragioni sono differenti a seconda delle diverse ipotesi normative; in alcune la soddisfazione si spiega
esaustivamente con un’esigenza solidaristica  a questa funzione risponde soprattutto il danno biologico:
la lesione dell’integrità fisica del soggetto è considerata meritevole di riparazione indipendentemente da
considerazioni attinenti alla riprovevolezza della condotta lesiva.

L’elemento punitivo e preventivo assume poi un ruolo caratterizzante quando la riprovevolezza del
comportamento costituisce, da un lato il criterio esclusivo per l’imputazione e, dall’altro, il parametro
principale per la quantificazione del risarcimento. Anche in questi casi, tuttavia, la funzione punitiva non
può considerarsi assorbente.

Il tratto che caratterizza il danno non patrimoniale è la valutazione normativa, che alla lesione di un
interesse reagisce con l’attribuzione, al titolare i quell’interesse, del diritto a una somma di denaro. Il
giudizio di resp non svolge una funzione unica o unitaria, e non ha neppure una generica natura
polifunzionale.

Capitolo 2: il danno risarcibile


Parte I: dal sistema del Codice civile al diritto giurisprudenziale vivente
1. Il problema della nozione giuridica di danno. Patrimonialità e ingiustizia.

Presupposto della responsabilità è l’esistenza di un danno risarcibile, serve quindi stabilire quando un
accadimento possa definirsi in termini di danno  non c’è una definizione normativa del termine.

Le diverse concezioni del danno partono da un punto in comune: tale nozione attiene alla tutela da
apprestare nei confronti di un accadimento già concluso, allo scopo di eliminare le conseguenze sfavorevoli
che si sono prodotte per un determinato soggetto (il danneggiato).

Nelle diverse fasi storiche muta però la descrizione normativa dell’accadimento idoneo ad attivare la tutela
risarcitoria.

Tre concezioni di danno:

- Modificazione della realtà materiale, dunque come alterazione o soppressione di un bene


(concezione materiale)
- Diminuzione del patrimonio della vittima (concezione patrimoniale)
- Danno come contrasto tra un accadimento e le regole del diritto, nella lesione dell’interesse
protetto

Queste concezioni possono collocarsi in una progressione storica: il passaggio dalla concezione materiale a
quella patrimoniale accompagna la formazione del moderno diritto della responsabilità, in modo funzionale
all’economia di mercato  qui il danno non patrimoniale è figura subordinata, riassumibile nel danno
morale-soggettivo, risarcibile in base alla fittizia equivalenza tra diminuzione del patrimonio e diminuzione
del benessere psico-fisico  pretium doloris.
La definizione del danno come lesione del diritto è parziale e, da sola, insufficiente  dal risarcimento del
danno esula la funzione di reintegrare la situazione giuridica lesa, per questo la lesione dell’interesse
protetto non sempre attiva la tutela risarcitoria.

La definizione di danno non può inoltre esaurirsi nell’ingiustizia, pur essendo questo un requisito essenziale:
non sempre la lesione del diritto dà luogo al risarcimento se non vi è anche un danno.

Saranno le norme a indicare quando un fatto può esser qualificato come danno ai fini dell’attivazione del
rimedio riparatorio  nel Codice civile il primo dato rilevante in proposito è il principio normativo della
riparazione integrale del danno, inteso come equivalenza tra la perdita economica subita e quantum
risarcitorio  idea per cui ricostituire la situazione alterata dal fatto lesivo significhi ricostruire la
precedente posizione patrimoniale della vittima  ne discende che danno in senso giuridico è quel tipo di
perdita per il quale tale equivalenza sia possibile, ovvero il fatto che determini conseguenze suscettibili di
valutazione economica tipica.

Se la dimensione economica è componente della nozione positiva di danno nel Codice, la concezione
patrimoniale non ne esaurisce tuttavia la nozione giuridica: perché una perdita economica dia luogo a
danno potenzialmente risarcibile occorre anche l’elemento dell’ingiustizia  perché abbia luogo la
traslazione del costo dell’accadimento dannoso occorre che sussistano fattori oggettivi che consentano di
affermare il carattere ingiusto del danno.

Ne deriva che il danno risarcibile ex art. 2043 non può essere esaurientemente definito né come lesione
dell’interesse protetto né come mera diminuzione del patrimonio, perché le definizioni si riferiscono a uno
solo dei suoi profili, che sono invece entrambi necessari per considerare il danno risarcibile.

Ingiustizia  concerne l’evento lesivo e la natura dell’interesse leso.

Patrimonialità  la nozione di danno comprende tutte le conseguenze dannose in quanto


economicamente rilevanti, che si propagano dalla lesione del bene, purché causalmente riferibili al fatto del
responsabile.

La definizione di danno ai sensi dell’art. 2043 è quella che nasce alla luce di entrambi i criteri; il contenuto
della nozione di danno accolta dal Codice non può essere descritto prescindendo dalla funzione normativa
della tutela, che è di compensazione della vittima e non di reintegrazione della situazione soggettiva lesiva.

Il giudizio di responsabilità si attiva sempre come reazione a un fatto ingiusto, quindi implica l’analisi delle
modalità di rilevanza degli interessi coinvolti nel concreto accadimento dannoso, che si traduce in un
giudizio di valore sull’esigenza di reagire a tale accadimento.

2. Il sistema del Codice civile

Il nostro Codice accoglie una nozione di danno come perdita economica; l’esperibilità del rimedio
risarcitorio nei confronti di fatti economicamente irrilevanti è rimessa all’art. 2059. Nel 2043 il danno
costituisce allo stesso tempo presupposto e contenuto della tutela, che consiste appunto nell’obbligo di
risarcirlo. Il risarcimento è governato dal principio della riparazione integrale  coincidenza tra danno
cagionato e da risarcire; muove dall’idea che è giuridicamente rilevante solo il danno che determina perdite
economiche.

La scelta, nella redazione del Codice, di limitare la risarcibilità ex artt. 2043 ss. ai danni patrimoniali fu
consapevole e “politica”  risarcimento dei danni non patrimoniali limitato alle ipotesi previste dalla legge.

Come intendere la bipartizione posta dall’art. 2059? In primis rileva il carattere patrimoniale o meno del
danno, e non del bene leso dal fatto dannoso; il danno è patrimoniale in quanto il fatto lesivo determini
conseguenze economiche negative pe la vittima: alla lesione di un bene non patrimoniale possono
accompagnarsi conseguenze economiche negative e quindi danno patrimoniale, così come la lesione di un
bene patrimoniale può essere economicamente indifferente, restando preclusa la tutela aquiliana.

In secondo luogo, ai sensi del 2059, al danno patrimoniale si contrappone il danno non patrimoniale.

In definitiva, nel Codice il danno risarcibile di cui parla il 2043 è quello patrimoniale; il 2059, nello stabilire
che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi stabiliti dalla legge, appare una conferma
dell’estraneità al sistema del Codice di una nozione di danno che non sia commisurata sull’an, prima ancora
che sul quantum, della rilevanza economica negativa per la vittima dell’evento lesivo, imponendo di cercare
fuori dal Codice le ragioni e l’ambito del risarcimento del danno non patrimoniale.

3. L’evoluzione del diritto giurisprudenziale: il superamento, alla luce della Costituzione, del limite di cui
all’art. 2059

Dopo l’entrata in vigore del Codice del 1942 si intesero, per danno non patrimoniale, le sofferenze
psicologiche e il dolore fisico causati dal fatto lesivo e che il 2059 prevedesse un principio di stretta tipicità
 risarcimento ammissibile solo se espressamente previsto dalla legge, quindi nell’ipotesi di reato ex art.
185 cp.

Oggi l’interpretazione della norma è completamente cambiata. Le questioni ancora aperte e il non concluso
iter giurisprudenziale derivano da due circostanze:

- La giurisprudenza ha continuato a sovrapporre due questioni diverse, quella della nozione giuridica
di danno non patrimoniale e l’ambito di risarcibilità del medesimo
- Non è stata seguita la via maestra, ovvero dichiarare l’illegittimità costituzionale del 2059

Al nuovo diritto vivente si è giunti per vie tortuose: da un lato si è scarnificata la fattispecie di cui al 185 cp,
eliminando progressivamente la rilevanza di elementi necessari ai fini della qualificazione del fatto come
reato e non invece a quelli del risarcimento del danno non patrimoniale.

Sul versante del rapporto tra 2059 e Costituzione occorre muovere dalla sentenza della Corte cost che, con
riferimento al danno alla salute e alla questione della risarcibilità del danno biologico (lesione della salute
indipendentemente da perdite economiche), ne affermava la risarcibilità in via generale ex art. 2043 sulla
base del 32 Costituzione.

La decisione si addentrava però in questioni definitorie: il danno biologico era definito come tertium genus
di danno rispetto al danno patrimoniale e quello morale, caratterizzato dalla rilevanza risarcitoria
dell’evento lesivo indipendentemente dalle conseguenze che ne fossero derivate.

La debolezza di questa teoria emergeva quando, davanti alla Corte cost, veniva posto il tema della
risarcibilità del danno sofferto dal congiunto della vittima primaria  anche qui interpretazione estensiva
del sistema; veniva abbandonata però la concezione del danno-evento e riconduceva il danno alla salute
nell’ambito normativo del 2059.

Queta via veniva generalizzata da omogenee decisioni dei giudici di costituzionalità intervenute nel 2003 
Cassazione, sentenze 31 luglio 2003, nn. 8827-8828  la nozione giuridica di danno non patrimoniale è più
ampia del danno morale-soggettivo, e dello stesso danno biologico, comprendendo ogni ingiusta lesione di
un interesse inerente alla persona dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione
economica  il danno risarcibile ex 2059 non è in re ipsa ma va allegato e provato in giudizio.

4. Il danno non patrimoniale nella legislazione recente

Alcuni testi legislativi recenti prevedono esplicitamente la risarcibilità del danno non patrimoniale a tutela
di interessi di rilievo costituzionale connessi al valore della persona  già la l. 117/98 sulla responsabilità
civile dei magistrati ha previsto il risarcimento del danno non patrimoniale per l’ipotesi nella quale l’illecito
del magistrato abbia comportato la privazione della libertà personale dell’attore.

d.lgs. 196/2003, trattamento dati personali  il danno non patrimoniale è risarcibile anche nei casi di
violazione dell’art. che fissava le modalità di raccolta e di trattamento dei dati personali.

Altri esempi: discriminazione da parte di privato o PA; violazione termine ragionevole del processo.

Parte II: danno patrimoniale e danno non patrimoniale


5. Il danno patrimoniale. Il danno permanente.

Carattere bipolare del sistema risarcitorio  danno patrimoniale (2043) e non patrimoniale (2059).

Danno patrimoniale  la nozione ha le radici nell’equivalenza economica che il mercato consente di


realizzare tra i diversi beni, assegnando a ciascuno un valore di scambio esprimibile monetariamente.

La lesione del bene è un danno se determina una diminuzione di quel valore, da calcolare ai fini della
determinazione dell’ammontare dell’equivalente del risarcimento  la teoria della differenza individua i
criteri per quel calcolo.

La teoria entra in crisi per il concorso di fenomeni diversi: difficoltà che gli strumenti tradizionali incontrano
nel tradurre giuridicamente il problema del valore; nuovo peso che assumono i valori personalistici che
pongono esigenza di tutela anche a fronte i fatti lesivi irriducibili alla logica economica.

Nella tradizionale economia statica il patrimonio, ai fini della tutela aquiliana, è l’insieme delle proprietà di
un individuo, e dunque la soma dei valori di tali proprietà. Per la teoria della differenza un danno risarcibile
è la differenza tra il valore attuale del patrimonio della vittima e il valore che esso avrebbe se non si fosse
verificato il fatto lesivo.

I termini del problema mutano con il passaggio a un’economia dinamica, nella quale nel patrimonio di un
individuo assumono sempre maggior rilievo utilità economiche irriducibili allo schema proprietario statico.
Emerge quindi l’esigenza di superare l’idea che la patrimonialità del danno si esaurisca in un dato
aritmetico legato al saldo contabile di un patrimonio  assume più importanza il nesso tra bene leso e
insieme dei valori economici che fanno capo al danneggiato  il patrimonio appare come insieme di beni
o utilità tra loro collegati mediante un criterio funzionale.

Il secondo problema concerne il rilievo da assegnare, nella valutazione del danno, al profilo soggettivo, che
riguarda cioè il valore che il bene leso rivestiva per la vittima; l’interesse sarà comunque socialmente ed
economicamente tipico: il danno discende dall’idoneità del fatto lesivo, secondo una valutazione sociale
tipica, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle nullità economiche di cui il danneggiato
può disporre. Questa valutazione va inoltre operata con riferimento non alla natura del bene leso, ma alle
conseguenze della lesione  se la lesione di un diritto della persona dà luogo a perdite economiche è
danno patrimoniale.

Al danno patrimoniale sono estranee considerazioni di tipo equitativo, finalità punitive nei confronti
dell’autore del fatto lesivo o solidaristiche verso la vittima, che attengono piuttosto al problema del
sicuramento dei confini del 2059, con l’obiettivo di apprestare una tutela più adeguata a beni non
patrimoniali.

Il nesso tra patrimonio e danno muta quando l’interesse leso attiene a un bene al quale possa riconoscersi
con valutazione sociale tipica, un valore economico, ma che non riveste la forma di merce  caso
dell’integrità psico-fisica come distinta dal valore della forza lavoro, per la quale il senso di una
configurazione patrimoniale del danno va pur sempre ricondotto alla diminuita capacità del soggetto di
svolgere attività economicamente rilevanti.
Nell’ambito del danno patrimoniale si pone la tematica delle conseguenze economiche negative successive
all’evento lesivo  danno permanente  ci si riferisce alla permanenza del fatto lesivo che continua ogni
giorno a produrre danno  se la condotta lesiva permane nel tempo, ai fini della tutela risarcitoria rileva
infatti solo il danno che si è già prodotto, nel momento preso in considerazione ai fini del giudizio.

Giurisprudenza in tema di prescrizione  limita il risarcimento al quinquennio anteriore alla proposizione


della domanda giudiziale; è considerato rilevante, ai fini della quantificazione, il momento della sentenza e
non quello nel quale si era verificato l’evento lesivo  es. si considera rilevante, ai fini del risarcimento del
danno subito dal lavoratore dipendente, non la retribuzione percepita al tempo dell’illecito, ma al
momento della liquidazione.

6. Il danno non patrimoniale come lesione dell’interesse protetto. Danno morale, danno biologico, danno
cosiddetto esistenziale. Il problema della prova.

Come intendere la nozione di danno non patrimoniale di cui al 2059? Ciò che rileva è il carattere
patrimoniale o meno del danno, e non del bene leso dal fatto dannoso: alla lesione di un bene non
patrimoniale possono accompagnarsi conseguenze economiche negative e quindi danno patrimoniale, ma
anche viceversa.

Sentenze Sezioni Unite del 2008  la Cassazione ha affermato il carattere unitario del danno non
patrimoniale, ma ha poi affermato anche la rilevanza, anche se ai soli fini della determinazione del quantum
risarcitorio, di diverse forme di danno, in particolare le sofferenze fisiche e psichiche. Espulsi come figure
tipiche di danno, quelli morali ed esistenziali rientrano come voci da calcolare autonomamente ai fini del
risarcimento, accanto al danno biologico.

Evoluzione delle tre figure di danno:

- Danno morale  sofferenze fisiche e psichiche soggettive della vittima. L’identificazione del danno
non patrimoniale col danno morale era poco persuasiva già nel sistema tradizionale, che riduceva la
risarcibilità quasi esclusivamente all’ipotesi di reato  vi sono figure riconducibili al 185 cp nelle
quali la tutela risarcitoria è apprestata indipendentemente dal dolore percepito dalla vittima  es.
risarcimento del danno non patrimoniale da reato in capo a soggetti collettivi in seguito alla lesione
di interessi non individuali  veniva posta in primo piano la violazione dell’interesse protetto
- Danno esistenziale  conseguenze negative che il fatto lesivo determina nelle attività non
reddituali, realizzatrici delle persone, alla perdita della qualità della vita
- Danno biologico  lesione della salute psico-fisica accertata secondo i canoni della scienza medica
 è danno patrimoniale, non patrimoniale o tertium genus? La nostra giurisprudenza ha scelto la
seconda risposta  è l’art. 32 Cost che impone di risarcire il danno alla salute secondo i criteri più
ampi, che il Codice prevede per i danni ingiusti, e non solo nelle fattispecie tipiche alle quali rinvia il
2059. Il fondamento della decisione della Corte Cost era nel principio per il quale il 32 Cost, nel
tutelare la salute come “fondamentale diritto dell’individuo”, impone che la lesione della salute sia
risarcibile, nonostante il 2059, e sulla base dei criteri di cui al 2043, anche quando non abbia
comportato conseguenze economiche negative.

La stessa differenza tra danno-evento (quale sarebbe il danno biologico) e danno-conseguenza (danno
morale, danno non patrimoniale) non appare persuasiva, ove si consideri che la differenza attiene alle
caratteristiche della fattispecie concrete e all’argomentazione probatoria, piuttosto che alla nozione
giuridica.

Si consideri la questione della prova del danno non patrimoniale  ciò che viene chiesto alla vittima è di
provare la lesione della situazione giuridica; laddove per il danno patrimoniale è la perdita economica che
deve essere provata dall’attore, e non solo l’ingiustizia del fatto lesivo. L’impossibilità di provare il danno
morale fu usata come argomento per negare la risarcibilità del danno non patrimoniale.

La più recente giurisprudenza argomenta nello stesso senso, con riferimento alla più ampia nozione di
danno non patrimoniale alla persona risarcibile ex 2059 reinterpretato alla luce della Cost  il danno non
patrimoniale non è mai danno-evento e quindi il risarcimento non è conseguenza automatica dell’illecito 
spetta all’attore fornire le prove che il fatto lesivo ha determinato conseguenze pregiudizievoli per lui,
diverse dalle perdite economiche, ma anche dando prova che quel fatto lesivo ha determinato nella vittima
sofferenze, peggioramento della vita di relazione, ecc. Il convenuto potrà dimostrare che non è così  es.
vede la vittima festeggiare per il fatto lesivo.

Anche per il danno biologico la prova concernente l’esistenza del danno è quella che risulta
dall’accertamento medico-scientifico, che è ciò che la vittima deve dedurre per ottenere il risarcimento; la
lesione rimane sempre sufficiente a dar luogo al risarcimento, ma va provata provandone contestualmente
la consistenza.

7. Il danno da reato

La più rilevante tra le espresse previsioni legislative cui rinvia il 2059 è il 185 cp. Il risarcimento del danno
non patrimoniale da reato trova, nel suo rapporto col 2059, una giustificazione razionale: l’ordinamento
appresta in tale ipotesi la particolare tecnica di tutela che è il risarcimento del danno non patrimoniale
perché il fatto lesivo assume caratteri di particolare gravità.

La funzione del 185 svolta per il danno non patrimoniale è quella di fungere da criterio di tipizzazione della
fattispecie di tutela  il principio di tipicità si realizza, nel danno da reato, mediante un duplice rinvio: dal
2059 al 185 e da questo alle singole fattispecie di reato.

Non appare persuasivo l’orientamento per cui per reato non deve intendersi il fatto punibile, ma solo
l’elemento oggettivo o materiale. Secondo tale tesi, la lesione de bene penalmente protetto sarebbe
sufficiente a dar luogo al risarcimento del danno non patrimoniale ex 185, essendo irrilevanti l’imputabilità
e il peculiare grado di colpevolezza richiesto dalla norma incriminatrice.

Va ribadita l’autonomia della nozione di danno da reato in senso proprio  la tesi che identifica il reato
con il solo elemento oggettivo e materiale appare in contrasto con il 185 ma anche con la funzione della
norma; è solo la presenza in concreto di tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, che rendono il fatto
punibile, a giustificare l’attivazione di una tutela caratterizzata dalla ratio punitiva.

Può il 185 applicarsi quando manca una condizione di procedibilità? Sarà il giudice civile ad accertare, ai fini
del risarcimento del danno non patrimoniale, che il fatto integri un’ipotesi di reato.

Neppure quando assume un particolare rilievo la funzione punitiva assorbe la finalità riparatoria propria del
cosiddetto risarcimento del danno non patrimoniale, perché esso si traduce pur sempre nella soddisfazione
assicurata alla vittima, per lo più attraverso il pagamento di una somma di denaro. Ciò si riflette del resto
sulla disciplina, che non può essere spiegata all’interno di una logica esclusivamente punitiva.

Tradizionalmente, il danno non patrimoniale da reato è identificato con il danno morale-soggettivo, cioè
con il dolore e le sofferenze che l’illecito ha determinato nella vittima, e delle quali il risarcimento
costituirebbe il pretium  non si può identificare in tale modo.

Il danno non patrimoniale si identifica con la lesione dell’interesse protetto dalla norma penale,
considerata sul versante soggettivo del titolare di tale interesse, e non con le sofferenze della vittima,
l’alleviamento delle quali può fungere da ratio della tutela.
8. Il significato attuale del principio di tipicità nel risarcimento del danno non patrimoniale

Si deve valutare in quale ambito la tutela in questione possa essere accordata oltre le ipotesi
espressamente previste dalla legge. La tipicità è un elemento molto rilevante per il danno non patrimoniale,
in assenza della perdita economica presente in quello patrimoniale. Carattere discrezionale della scelta
legislativa  molto differenziate le soluzioni, anche di altri Paesi, in ordine alla risarcibilità del danno non
patrimoniale.

Con la sentenza delle Sezioni Unite del 2008, la Cassazione ha tentato una sistemazione organica della
reinterpretazione del 2059:

- Si afferma che il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria, come il danno
patrimoniale
- La tutela è estesa oltre ai casi espressamente indicati dalla legge, alla lesione di diritti inviolabili
delle persone riconosciuti dalla Costituzione
- È richiesto un grado rilevante di serietà della lesione ed è negata rilevanza costituzionale a mere
condizioni di bisogno e di ansia
- Il principio dell’integralità del risarcimento richiede di risarcire tutto il danno subito dalla vittima,
ma anche di evitare duplicazioni di risarcimento
- Il danno non patrimoniale è risarcibile anche nella responsabilità contrattuale

Nonostante questa sistemazione permane grande confusione in materia  nascono problemi dall’aver
affermato il carattere unitario della nozione e aver al tempo stesso individuato tre voci ai fini del
risarcimento  tali problemi derivano alla sovrapposizione (impropria) tra i due piani di una pretesa
nozione ontologica della figura, e della revisione del principio di tipicità.

Nel nuovo diritto giurisprudenziale il principio di tipicità è trasferito dalla legge al giudice, dal momento che
i diritti delle persone la cui lesione dà luogo a risarcimento non sono solo quelli nominati dalla Cost, ma
anche tutti gli interessi emersi nella realtà sociale che, secondo il giudice, attengono a posizioni inviolabili
della persona.

In tal modo, da un lato il danno esistenziale riacquista una sua autonomia; dall’altro si opera
un’unificazione dei problemi del danno alla salute e della tutela risarcitoria dei diritti della persona, che non
appare persuasiva.

Il principio di tipicità non implica infatti che esista un unico tipo di danno non patrimoniale; i tipi per i quali
oggi è ammesso il risarcimento non sono unificabili perché rispondono a funzioni diverse: danno biologico
 solidaristiche; diritti della personalità  satisfattorio-deterrente; danno da reato  punitivo.

Una nozione ontologica e quindi unitaria del danno non patrimoniale non esiste.

Parte III: il danno ingiusto


9. L’ingiustizia del danno: profili generali.

In base al 2043 è risarcibile il danno ingiusto. Nell’opinione tradizionale, tale attributo era inteso nel senso
di una delimitazione del novero degli interessi meritevoli di tutela aquiliana, tale da comprendere solo
quelli sussumibili nello schema del diritto soggettivo assoluto. Da tempo questa visione è stata superata,
non essendo però chiaro il criterio che si possa sostituire a quello tradizionale.

L’identificazione dell’ingiustizia con la lesione del diritto assoluto viene messa in discussione quando le
trasformazioni delle strutture economiche hanno condotto al superamento della assoluta prevalenza, tra
l’insieme dei valori e delle utilità di cui il soggetto può disporre o su cui conta, di quelli consistenti nei beni a
lui attribuiti come oggetto di godimento esclusivo.
Tale problema non può essere superato ragionando in termini di diritto soggettivo all’integrità del
patrimonio, o di risarcibilità del danno puramente economico. La responsabilità civile, infatti, non tutela il
patrimonio nel senso del riconoscimento di un diritto alla reintegrazione delle perdite economiche, ma in
quello che in presenza di una perdita patrimoniale si attiva il procedimento valutativo che consente di
affermare l’ingiustizia del danno.

La qualificazione di ingiustizia è procedimento valutativo che può essere unitariamente descritto solo per
quanto attiene ai caratteri logico-funzionali dell’operazione che l’interprete è chiamato a compiere
nell’applicazione della norma. La formulazione più condivisibile adottata dalla giurisprudenza è quella
adottata dalle sezioni unite con la sentenza 500/99 con la quale è stata abbandonata l’ultima trincea
dell’identificazione tra danno ingiusto e lesione del diritto soggettivo, che era costituita dall’irrisarcibilità
dell’interesse legittimo.

Non è in criteri formali che attengano esclusivamente alla struttura della situazione soggettiva che può
essere esaurita la regola del giudizio: nella determinazione in concreto dei criteri per il giudizio assumono
un forte peso gli elementi valutativi attinenti sia alla posizione reciproca delle parti e al punto di rottura
dell’equilibrio tra loro sia all’interesse generale che giustifica l’attivazione della tutela predisposta
dall’ordinamento  la formula ormai diffusa sintetizza i caratteri del giudizio nella comparazione degli
interessi.

Se il criterio normativo che presiede alla qualificazione del danno non può essere formalmente unitario,
due profili comuni vanno però sottolineati: la qualificazione dell’ingiustizia richiede generalmente una
duplice operazione valutativa  accertamento della rilevanza aquiliana dell’interesse leso, in sé
considerato; comparazione con l’interesse sottostante al fatto aggressivo, alla luce delle concrete modalità
della lesione.

La prima fase del giudizio concerne l’analisi della tutela che l’ordinamento appresta all’interesse leso; il
senso e il contenuto di tale tutela consentiranno di affermare o meno, alla luce delle modalità della
fattispecie dannosa, il carattere ingiusto del danno.

La connotazione del procedimento valutativa dell’ingiustizia viene espressa con questa formula  è
ingiusto il danno che presenti la duplice caratteristica di essere non iure (proveniente da un fatto che non
sia altrimenti qualificato dall’ordinamento giuridico) e contra ius (prodotto da un fatto che leda una
situazione giuridica riconosciuta e garantita dall’ordinamento).

La qualificazione di ingiustizia del danno è il frutto di un’analisi del rapporto tra il danneggiato e il bene leso
che ne individui la giuridica rilevanza; successivamente viene in questione la comparazione con l’interesse
sottostante l’attività lesiva, condotta anche questa sulla base di indici normativi, e no già di un generale
criterio di utilità pubblica.

10. Le cause di giustificazione

L’esercizio del diritto non costituisce nella responsabilità civile una causa di giustificazione in senso proprio,
perché stabilire se l’atto dannoso sia da considerare esercizio di un diritto è possibile solo mediante una
valutazione comparativa con l’interesse leso, che è la sostanza stessa del giudizio concernente la
qualificazione di ingiustizia del danno.

Costituiscono invece causa di giustificazione in senso proprio la legittima difesa (2044) e lo stato di
necessità (2045), che esonerano dalla responsabilità o ne riducono l’entità.

2044  non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri. Il c. 3 prevede, per il
caso di eccesso colposo, un’indennità equitativa, analoga a quanto previsto per lo stato di necessità. La
difesa, per essere legittima, deve essere proporzionata all’offesa.
2045  quando chi ha cagionato il danno vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona, al danneggiato è dovuta un’indennità, determinata
equitativamente. Qui la vittima, diversamente rispetto alla legittima difesa, è estranea alla causazione del
pericolo di danno. Caratterizza lo stato di necessità il pericolo di un danno grave alla persona. Sebbene non
sia previsto, si ritiene che per l’applicazione dell’esimente occorra anche che il danno sia proporzionato al
pericolo.

11. I danni ingiusti. I diritti personali.

Anche a seguito dell’estensione dell’area di risarcibilità del danno non patrimoniale è necessario un
inquadramento rigoroso del profilo dell’ingiustizia, a fronte del ritorno alla tendenza ad affermare
l’esistenza di diritti soggettivi della persona.

Conviene muovere dal dato costituzionale che fonda la rilevanza ampia del valore giuridico della persona,
cioè l’art. 2 Cost. I diritti inviolabili della persona di cui parla la Cost possono ricondursi a 4 categorie: vita,
salute, rapporti familiari e parentali, dignità e i valori morali ai quali sono riconducibili i diritti della
personalità.

11.1 Il danno da morte. La vittima e i congiunti.

La morte di una persona dà luogo a danno ingiusto, ma per chi? Solo per la vittima o anche per altri
soggetti? I parenti della vittima hanno diritto al risarcimento per il danno derivante dalla morte del loro
congiunto, e che, per il danno patrimoniale, la legittimazione al risarcimento sussiste indipendentemente
dalla preesistenza di un diritto agli alimenti o all’assistenza economica  la situazione lesa dalla morte del
congiunto non è il diritto alla prestazione economica derivante dal rapporto familiare, ma il rapporto in
quanto tale.

È la lesione del rapporto familiare a rendere ingiusto il danno; si deve tenere conto anche della sussistenza
di un vincolo affettivo per il danno non patrimoniale.

Si parla di risarcimento iure proprio e non iure hereditario  ai fini della legittimazione è irrilevante la
qualità di erede.

Quando la vittima acquisisce iure proprio il diritto al risarcimento? È da escludere che tale diritto nasca
quando la perdita della vita si sia verificata immediatamente o dopo brevissimo tempo dall’evento lesivo.
Diversamente nel caso in cui la vittima sia sopravvissuta per un periodo di tempo tale da consentirgli la
percezione delle sue condizioni.

Dalla impostazione che individua l’ingiustizia del danno nella lesione del rapporto familiare derivano una
serie di conseguenze  la titolarità del diritto al risarcimento potrà essere riconosciuta anche a chi non
rientri nell’ambito del nucleo familiare in senso stretto; sarà il giudice a stabilire se sussisteva, tra la vittima
e chi agisce in giudizio, un legame familiare tale da consentire di qualificare come ingiusto per il secondo il
fato consistente nella morte della prima.

Per la stessa ragione, i figli e la vedova avranno diritto al risarcimento del danno patrimoniale per la morte
del genitore e del marito anche se economicamente indipendenti sulla base di un’aspettativa che si fonda
sui legami affettivi.

In secondo luogo, viene “sdrammatizzato” il diniego di tutela per il danno alla salute subito dal familiare a
causa della morte del congiunto, affermato dalla Corte cost con la sentenza 372/94  se i congiunti hanno
diritto al risarcimento iure proprio, per la lesione del legame familiare con la vittima, non vi è ragione per
riconoscere loro anche la ulteriore titolarità al risarcimento per il medesimo fatto, con l’altro nomen iuris.
Per ragioni analoghe non vi sono difficoltà a considerare ingiusto il danno consistente nella lesione della
salute di un’altra persona. Di recente vi è la tendenza ad ammettere, in caso di lesioni di particolare gravità,
il risarcimento per il danno alla salute di uno stretto congiunto dell’attore. Qui il giudice dovrà accertare con
particolare rigore la sussistenza del vincolo affettivo connesso al legame familiare.

11.2 La salute. Il danno da procreazione. L’autodeterminazione terapeutica.

Art. 32 Cost ha indotto a estendere la portata del principio per il quale la lesione dell’integrità fisica
dell’individuo dà luogo a danno ingiusto. L’estensione della sfera giuridicamente tutelata si è svolta lungo
due versanti:

- Vicenda del danno biologico  alcuni giudici segnalarono il contrasto con gli artt. 3 e 32 di un
sistema che ammetteva solo il risarcimento del danno patrimoniale alla salute  un’identica
lesione determinava risarcimenti molto diversi a seconda delle condizioni economiche delle vittime
 corte cost affermò che la lesione della salute psico-fisica, indipendentemente dalle conseguenze
patrimoniali o non, deve essere risarcita secondo la regola del 2043. Attraverso il danno biologico la
tutela della salute non è più limitata al valore patrimoniale della salute per il danneggiato
- Ampliamento del contenuto del bene protetto  il danno alla salute comprende oggi la lesione
dell’integrità psicofisica (danno biologico), nonché le conseguenze economiche negative; ma
costituiscono danno ingiusto alla salute anche il danno esistenziale e il danno morale-soggettivo

Danno da procreazione  ipotetico diritto a nascere sano  il danno che subisce il bambino, che per
ragioni imputabili a terzi nasce malformato o malato, rileva giuridicamente come danno subito della
persona umana, che viene a esistenza con la nascita. Ai fini del risarcimento del danno aquiliano non rileva
che il fatto colposo sia stato commesso prima della nascita, poiché occorre solo che sussista il rapporto di
causalità giuridica.

Tanto meno esiste un diritto a non nascere  due questioni: nascita del bambino non desiderato dai
genitori; nascita di un bambino malformato, che la madre avrebbe evitato se avesse saputo dell’handicap.

La mancata diagnosi di malformazioni fetali comporta danno ingiusto per la madre, ricorrendo la
colpevolezza dell’autore dell’errata informazione, sotto il profilo della lesione del diritto della donna
all’interruzione della gravidanza; è controverso se ne derivi un danno ingiusto anche per il bambino.

Per l’ipotesi di gravidanza indesiderata dovuta a colpa di un terzo, pare da condividere l’orientamento che
ritiene sufficiente, ai fini della qualificazione dell’ingiustizia del danno, la lesione della libertà di
autodeterminazione della donna.

Diritto all’autodeterminazione del paziente  la lesione dà luogo al risarcimento anche in assenza di un


danno alla salute; l’autodeterminazione terapeutica è considerata un diritto fondamentale di libertà, sulla
base di una lettura congiunta degli artt. 2-12-32 Cost. A tale diritto corrisponde l’obbligo del medico di
informare il paziente sulle sue condizioni di salute e sui possibili trattamenti di cura, e di acquisire il
consenso prima di procedere. Il malato può rifiutare le cure anche quando siano necessarie per salvargli la
vita.

11.3 La lesione dei cosiddetti diritti della personalità. Reputazione, riservatezza, dati personali, identità
personale. Il nome e l’immagine. Il danno intrafamiliare.

Per quanto concerne la qualificazione di ingiustizia per il danno arrecato alla persona sul versante
dell’insieme dei valori morali che vengono ricondotti alla categoria dei cosiddetti diritti della personalità,
decisivo è stato il ruolo di dottrina e giurisprudenza attraverso la rilevanza data ai principi cost, in
particolare all’art. 2.
Rispetto al codice del 65, quello vigente contiene alcune prime innovazioni. Sulla base delle norme
costituzionali la dottrina, a partire dagli anni ’60, ha ricostruito un’ampia tutela civilistica della personalità
attraverso (questa è l’impostazione che viene accolta) figure specifiche, tutte riconducibili al 2 Cost.

Sono stati riconosciuti i diritti alla riservate4zza, all’identità personale e la protezione dei dati personali.
Oggi il catalogo dei diritti della persona meritevoli di tutela civile è aperto, spetta all’interprete valutare
eventuali nuovi interessi.

Emerge così il dato che la persona umana rileva come valore giuridico unitario, e che può essere
riconosciuta la rilevanza giuridica di espressioni della personalità differenti da quelle tipicamente previste
dalla legge. In particolare, non è necessaria un’espressa previsione normativa per rendere ingiusto il danno.

Il diritto vivente conosce tre figure generali ai fini della tutela della personalità: reputazione, riservatezza,
identità personale. Ha poi autonomo rilievo il diritto alla protezione dei dati personali. Autonomo rilievo
assumono altresì il diritto al nome e all’immagine, sotto il profilo della protezione contro la contestazione o
l’uso indebito del nome e della tutela dell’immagine come ritratto.

Diritto alla reputazione  protegge da affermazioni infamanti e non vere.

Diritto all’identità personale  protegge da affermazioni non vere, siano o meno infamanti.

Tutela della riservatezza  concerne il diritto a che non siano resi pubblici elementi concernenti la
persona, anche se veri.

Reputazione  la giurisprudenza ha individuato il punto di equilibrio tra diritto di cronaca e tutela della
persona offesa attraverso limiti del primo, consistenti nella verità oggettiva della notizia, nell’utilità sociale
dell’informazione, nella forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione. Si ritiene legittimo
l’esercizio del diritto di cronaca anche quando il giornalista abbia ritenuto in buona fede vera una notizia
poi risultata falsa, dopo averla verificata con scrupolosa diligenza.

Il canone della veridicità è stato integrato anche da un altro criterio  è lecita la condotta del giornalista
che abbia pubblicato affermazioni di un terzo dal contenuto lesivo della reputazione dell’attore, e a
prescindere dalla non rispondenza al vero dei fatti riferiti, quando il fatto di rendere note quelle
affermazioni risponda all’interesse pubblico all’informazione.

Resta esclusa invece la liceità della condotta del giornalista che non abbia riportato fedelmente il
documento, o che ne abbia per suo conto affermato la veridicità.

Identità personale  a differenza della reputazione, questa attiene all’alterazione della percezione esterna
dell’immagine morale, sociale, ideale, ecc. della persona. Lo strumento più adeguato di tutela per l’identità
personale è il cosiddetto diritto di rettifica o replica.

La l. 675/96 aveva disciplinato il trattamento dei dati personali, cioè le operazioni di raccolta, elaborazione
e utilizzazione di informazioni relative a una persona.

Il diritto alla protezione dei dati personali è considerato un nuovo diritto della personalità, distinto dalla
riservatezza, perché non si esaurisce nella difesa della sfera personale dalle invasioni altrui, ma comporta il
potere di controllare le informazioni che ci riguardano e di determinarne contenuto e limiti. Oggi la
disciplina è dettata dal Reg. 2016/679 (GDPR).

La tutela risarcitoria è prevista per i danni patrimoniali e non patrimoniali; è previsto l‘esonero delle
responsabilità con la dimostrazione che l’evento dannoso non è in alcun modo imputabile al convenuto.
Responsabile è solo il titolare o il responsabile del trattamento.
Per il danno non patrimoniale la cassazione ha precisato che ai fini del risarcimento non è sufficiente la
mera violazione di una norma in materia, ma occorre anche verificare la gravità della lesione e la serietà del
danno.

Dal riconoscimento del diritto alla protezione dei dati personali la giurisprudenza trae poi implicazioni
ulteriori a quella espressamente prevista  diritto all’oblio, cioè a cancellare informazioni o a modificarle
alla luce di eventi sopravvenuti.

La tutela del diritto al nome e all’immagine è prevista dagli artt. 7-10 del Codice e dalla legge sul diritto
d’autore. L’abuso dei segni di identificazione della persona determina danno ingiusto, senza che occorra
procedere a valutazioni comparative con l’interesse sottostante la condotta lesiva.

Alle stesse conclusioni deve giungersi per la riservatezza; qui la protezione è concessa nei confronti di tutte
le invasioni della sfera privata, personale e familiare che, anche se compiute con mezzi leciti e senza offesa
per la reputazione, non siano giustificate da interessi preminenti.

Danno intrafamiliare  la tematica si è aperta con la sentenza che ha affermato la responsabilità di un


marito che, prima del matrimonio, aveva nascosto alla donna la propria impotenza motivando con
l’esistenza di un dritto all’informazione prematrimoniale di ogni circostanza inerente alla condizione
psicofisica e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale dei promessi
sposi.

Si è aperto un orientamento giurisprudenziale per il quale, accanto ai rimedi tipici previsti dal diritto di
famiglia, può darsi luogo per gli stessi fatti al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale  es.
in caso di separazione possono coesistere pronuncia di addebito e risarcimento del danno  danno
intrafamiliare inteso come violazione dei doveri parentali e coniugali da parte di altro componente della
famiglia.

12. I diritti patrimoniali. Profili generali. Critica del danno meramente patrimoniale.

Per inquadrare le ipotesi nelle quali oggi si riconosce l’ingiustizia del danno anche in assenza della lesione di
un diritto soggettivo assoluto si tende a ricorrere a figure generali che rischiano però di rivelarsi generiche
 riferimento ai danni meramente economici o patrimoniali e al diritto all’integrità del patrimonio, quale
presupposto dell’ingiustizia del danno  prima pecca: per essere preso in considerazione ai fini della tutela
aquiliana un danno deve effettivamente essere patrimoniale, nel senso di avere determinato conseguenze
economiche negative per la vittima; ma per essere risarcibile il danno deve essere anche ingiusto, e sotto
questo profilo il concetto di danno meramente economico non dice nulla.

Seconda pecca  si svuota di significato sia la nozione di diritto soggettivo che quella di danno ingiusto, al
fine di ricondurre l’interpretazione giurisprudenziale del conflitto di interessi nell’ambito della formula della
lesione del diritto soggettivo. Se in effetti si dovesse ritenere davvero esistente un diritto all’integrità del
proprio patrimonio, tutte le conseguenze economiche negative derivanti dal fatto di un terzo dovrebbero
essere risarcibili, purché derivanti da dolo o colpa o resp oggettiva.

12.1 Il danno alla proprietà. Il danno non patrimoniale. Le immissioni.

L’archetipo del danno aquiliano è la lesione della proprietà; la qualificazione del danno alla proprietà come
ingiusto può presentare problemi quando si è in presenza di un conflitto interproprietario e manca una
norma che risolta il conflitto con specifico riferimento alla tutela risarcitoria  sarà la giurisprudenza a
stabilire se ricorrano gli estremi del danno ingiusto ai fini del risarcimento ex 2043.

Secondo la sentenza 26972/2008 che ha dettato la linea di nuova interpretazione del 2059, la proprietà non
rientra tra le situazioni la cui lesione determini risarcimento del danno non patrimoniale, perché la
proprietà non rientra tra i diritti inviolabili delle persone riconosciuti dalla Cost ai quali applicare la tutela
minima risarcitoria.

Via diversa è stata seguita per l’occupazione acquisitiva  art. 42 bis TU espropriazioni  in caso di
acquisizione del bene alla PA al proprietario deve essere corrisposto un indennizzo per il pregiudizio
patrimoniale o non patrimoniale, quest’ultimo forfettariamente liquidato nella misura del 10% del valore
venale del bene.

Immissioni  art. 844 regola il potere di escludere spettante al proprietario del fondo vicino quello dal
quale provengono le immissioni; il potere sussiste se le immissioni superano la normale tollerabilità, avuto
riguardo anche alla condizione dei luoghi.

Il c. 2 viene inteso nel senso che il giudice può negare la tutela di cessazione quando ritenga le esigenze
della produzione prevalenti sulle ragioni della proprietà, anche a fronte di immissioni che superino la
normale tollerabilità  non si può parlare di danno ingiusto, ma al proprietario del fondo investito dalle
immissioni è dovuto un indennizzo.

In caso di immissioni illecite, il danno non patrimoniale è risarcibile, indipendentemente dalla lesione della
proprietà o della salute, quando sia stato leso il diritto al normale svolgimento della vita familiare
all’interno della propria abitazione.

12.2 Possesso e diritti personali di godimento.

Si ammette l’ingiustizia del danno arrecato con lesione dei diritti personali di godimento e del possesso 
es. il conduttore può agire in via aquiliana nei confronti di terzi per danni alla cosa locata, ancorché costoro
pretendano di avere diritti su essa.

È ammessa anche la tutela risarcitoria del possesso  discussioni derivanti dal fato di aver introiettato le
formule che dicono che il danno ingiusto consiste nella lesione del diritto soggettivo e che il possesso è
invece una situazione di fatto  non si dovrebbe invece avere difficoltà a concludere che la qualificazione
di ingiustizia tutela rispetto alla lesione del possesso e della detenzione e che tuttavia la tutela aquiliana
conserva la sua autonomia.

12.3 La tutela aquiliana del credito, del contratto, della concorrenza. La c.d. perdita di chance.

La formula della lesione extracontrattuale del credito è utilizzata per indicare le ipotesi nelle quali si
riconosce il carattere ingiusto, per un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, del danno derivante dalla
lesione di un diritto relativo. Il diritto di credito viene così tutelato sia verso il soggetto obbligato
all’adempimento sia verso quei terzi che cagionino un pregiudizio patrimoniale.

Il problema giuridico che si pone oggi è quello di stabilire in quali ipotesi l’interferenza del terzo, che abbia
determinato conseguenze economiche negative per il creditore, debba considerarsi ingiusta, e dar luogo
quindi al diritto di risarcimento. La giurisprudenza ha rimosso gli impedimenti di ordine generale alla
risarcibilità della lesione del credito individuando criteri concernenti specifici conflitti di interesse  non è
più richiesto che dal fatto derivi l’estinzione del credito e una conseguente perdita definitiva e irreparabile
del creditore, data dalla insostituibilità della prestazione di fare cui era tenuto il debitore; è stata ammessa
l’ingiustizia del danno anche quando vi sia impossibilità temporanea della prestazione; l’insostituibilità della
prestazione rileva ai fini del quantum.

E si è considerato ingiusto, per il datore di lavoro, il danno consistente nella mancata prestazione lavorativa
del dipendente durante l’invalidità temporanea derivante dall’infortunio cagionato dal terzo, che è quindi
tenuto al risarcimento  si può sovrapporre la lesione del credito alla violazione del contrato da parte di
terzo, anche se si tede a ricondurre a tale categoria le figure nelle quali l’ingiustizia del danno viene
riconosciuta solo se cagionato dal terzo dolosamente o con colpa grave o in malafede  es. ipotesi di
induzione all’inadempimento.

Possono comunque identificarsi nell’ambito della responsabilità extracontrattuale da contratto due


modelli generali: nel primo il comportamento lesivo consiste in un’illecita interferenza nel rapporto
contrattuale; nel secondo la lesione della libertà contrattuale si concretizza nella diffusione di informazioni
false o inesatte, tali da generare un affidamento produttivo di danno.

Una fattispecie tipica legislativa è stata introdotta in tema di tutela della concorrenza  chiunque abbia
subito un danno a causa della violazione di una norma antitrust ha diritto al risarcimento che comprende il
danno emergente, il lucro cessante e gli interessi, e non determina sovra-compensazione. La tutela non è
riservata alle imprese concorrenti, ma a chiunque abbia interesse alla conservazione del carattere
competitivo del mercato, e abbia subito uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla
diminuzione di tale carattere.

Non ha autonomia giuridica, come situazione suscettibile di tutela aquiliana, la chance, cioè l’aspettativa di
conseguire un determinato bene o risultato. All’espressione “perdita di chance” ricorre talvolta la
giurisprudenza per consentire il risarcimento del danno futuro sotto il profilo della certezza e delle
dimensioni economiche delle conseguenze future di un fato lesivo.

Per perdita di chance la giurisprudenza intende la perdita di una concreta ed effettiva occasione di
conseguire un determinato bene o risultato utile, sul presupposto che la perdita derivi dalla lesione di un
interesse giuridicamente protetto. Il riconoscimento di tale voce di danno avviene in maniera crescente
soprattutto nel campo delle conseguenze di attività illegittima della PA e in quello dell’errore terapeutico.
La perdita di chance non è una figura peculiare di danno ingiusto, perché presuppone la lesione di una
situazione soggettiva che non può essere la chance medesima.

12.4 L’interesse legittimo.

La formula che definisce il danno ingiusto come lesione del diritto soggettivo ha conservato a lungo una
valenza operativa nell’area della tutela aquiliana nei confronti della PA; a lungo è infatti rimasta la posizione
giurisprudenziale che affermava l’irrisarcibilità in via generale della lesione di interessi legittimi.

La svolta giurisprudenziale che ammette la tutela aquiliana dell’interesse legittimo ha grande rilievo ai fini
del superamento definitivo della predetta impostazione. La sentenza muove da una critica del
procedimento interpretativo che ammetteva la risarcibilità di varie posizioni che non erano diritto
soggettivo ma che la giurisprudenza elevava a tale dignità, laddove è invece risarcibile qualsiasi danno che
presenti le caratteristiche dell’ingiustizia in quanto lesivo di interessi ai quali l’ordinamento attribuisce
rilevanza. Da qui non può però dedursi che ogni qual volta un interesse giuridicamente rilevante risulti leso
sorge il diritto al risarcimento, perché occorre anche procedere alla valutazione comparativa con l’interesse
sottostante alla condotta lesiva, nel caso dell’interesse legittimo è la condotta della PA. Ma anche a tal fine,
anche quando tale condotta si sia espressa mediante provvedimento amministrativo, il giudice può
accertare l’ingiustizia del danno derivante dalla lesione dell’interesse legittimo, senza che sia necessario il
previo annullamento da parte del giudice.

Viene quindi eliminato l’ultimo residuo dell’immunità aquiliana del potere pubblico: l’accertamento del
carattere ingiusto del danno da esso arrecato deve avvenire con il medesimo procedimento valutativo che
opera in via generale. Il giudice dovrà stabilire se l’attività illegittima della PA abbia determinato la lesione
dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si collega e che risulta meritevole di
protezione.

La risarcibilità dell’interesse legittimo è materia trasferita al giudice amministrativo.


Natura della responsabilità da violazione di interesse legittimo  la giurisprudenza sembra orientata per
l’inserimento nel sistema dell’illecito contrattuale.

13. La responsabilità dei pubblici poteri e l’ingiustizia del danno.

L’estensione dell’area sottoposta alla valutazione di ingiustizia del danno, ai fini dell’attivazione della tutela
ex 2043, va ben oltre la tradizionale tematica della responsabilità della PA, per coinvolgere potenzialmente
ogni forma di esercizio di un pubblico potere.

Il punto di partenza in materia e il 28 Cost, che afferma la responsabilità diretta del pubblico dipendente
per i atti compiuti in violazione di diritti, e prevede poi l’estensione della responsabilità civile in tali casi allo
stato e agli enti pubblici.

Il 28 Cost è stato posto a fondamento del principio della responsabilità diretta della PA per l’operato dei
propri dipendenti, e successivamente, per alcune categorie apposite di leggi speciali hanno anzi escluso la
responsabilità diretta del dipendente.

L’innovazione più rilevante riguarda l’estensione del rimedio aquiliano ben oltre l’ambito non solo
dell’attività materiale, ma anche dell’attività dello Stato-amministrazione in quanto tale.

13.1 La responsabilità civile da attività legislativa.

Riconoscimento della tutela risarcitoria nei confronti dello Stato per il danno causato dall’attività
legislativa  CGUE afferma la responsabilità civile dello Stato per mancata attuazione, o attuazione
difforme, di una direttiva dalla quale derivino diritti soggettivi chiaramente individuabili, e ciò quando
sussista il nesso causale tra l’inadempimento dello Stato e il danno subito dal singolo  principio affermato
nel caso Francovich del 1991.

L’identificazione del danno risarcibile con la lesione del diritto soggettivo si rivela improduttiva ai fini del
corretto inquadramento del sistema: non solo è difficilmente configurabile un diritto soggettivo all’esercizio
dell’attività legislativa, va anche aggiunto che la giurisprudenza comunitaria concerne proprio le ipotesi in
cui il diritto soggettivo non esiste, ovvero le ipotesi in cui la norma comunitaria non sia immediatamente
attributiva del diritto.

La lesione dello Stato nasce dall’omissione dell’attività normativa che avrebbe fatto sorgere il diritto, e da
qui il danno; danno che può qualificarsi ingiusto alla luce della difformità tra normativa di rango superiore e
normativa ordinaria; l’ingiustizia risiede nella circostanza che il singolo ha subito una perdita economica che
non vi sarebbe stata ove la normativa ordinaria fosse stata conforme al diritto.

13.2 La responsabilità dello Stato per l’attività giudiziaria.

Responsabilità dello Stato per il cattivo esercizio dell’attività giudiziaria o giurisdizionale  vi si


riconducono la responsabilità civile del magistrato, la riparazione per ingiusta detenzione e la violazione del
diritto alla durata ragionevole del processo (l. Pinto).

Le tre ipotesi sono accomunate dall’affermazione di una responsabilità oggettiva dello Stato, mentre la
responsabilità soggettiva del magistrato diviene evanescente o del tutto irrilevante.

Prima della l. 117/88, la responsabilità civile dello Stato derivava, ex 28 Cost, da quella del magistrato
disciplinata nel cpc. La l. 117 limita ulteriormente la responsabilità del magistrato (le norme di cui prima
sono state abrogate)  è limitata secondo le norme ordinarie all’ipotesi in cui il fatto dannoso costituisca
reato. In tale evenienza sussiste la responsabilità solidale dello Stato ex 28 Cost.
Quando il danno non derivi invece da un fatto costituente reato, la l. 117 tipizza fattispecie di responsabilità
per le quali però per il magistrato risponde in via esclusiva lo Stato, al quale è attribuita poi una limitata
azione di rivalsa.

Fatti illeciti del magistrato che danno luogo alla responsabilità civile dello Stato:

- comportamenti o provvedimenti giudiziari posti in essere con dolo, ovvero con colpa grave, la quale
sussiste nei casi di grave violazione di legge, nonché di affermazione o negazione di un fatto la cui
esistenza è esclusa (o risulta) incontrastabilmente dagli atti del procedimento; e comunque solo se i
fatti predetti siano determinati da negligenza inescusabile
- diniego di giustizia, costituito da omissione o ritaro del magistrato nel compimento di atti del suo
ufficio, secondo i presupposti ed entro i limiti di cui all’art. 3

Entro un anno dall’avvenuto risarcimento lo Stato può esercitare l’azione di rivalsa; questa però, nell’ipotesi
di fatto non doloso, è limitata nel quantum, non potendo superare una somma pari al terzo dello stipendio
annuo.

La funzione preventiva nei confronti del magistrato è delimitata dall’esigenza garantistica nei confronti
dell’autonomia della funzione giurisdizionale. La CGUE ha però considerato la legge contrastante con il
diritto UE, in quanto eccessivamente limitativa della responsabilità dello Stato  legislatore ITA riscrive la
normativa con l. 18/2015, mantenendo il presupposto della responsabilità del magistrato, ma estendendola
attraverso la ridefinizione di colpa grave.

Le ipotesi di colpa grave ora sono: violazione manifesta della legge nonché del diritto UE; travisamento del
fatto e delle prove; affermazione dell’esistenza di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa
dagli atti (e viceversa la negazione di un fatto inesistente), l’emissione di un provvedimento cautelare fuori
dai casi previsti dalla legge o senza motivazione.

Riparazione per ingiusta detenzione  art. 314 cpp  chi è prosciolto con sentenza irrevocabile ha diritto
a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita.

La giurisprudenza penale ha affermato la diversità concettuale dell’equa riparazione del danno


dall’ordinario risarcimento del danno; quella costituzionale ha progressivamente esteso la tutela a tutte le
ipotesi di privazione della libertà personale dimostratesi a posteriori ingiuste, affermando che la norma ha
un fondamento solidaristico.

Diritto alla ragionevole durata del processo  l. 89/2001, legge Pinto  diritto a un’equa riparazione per
chi abbia subito un danno per effetto di violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sotto il
profilo del mancato rispetto del termine ragionevole del processo.

La riparazione era determinata a norma dell’art. 2056  si applicava l’ordinaria disciplina risarcitoria 
riparazione è qui sinonimo di risarcimento e si è in presenza di una fattispecie legislativa di responsabilità
extracontrattuale dello Stato, di natura oggettiva, che nasce per la lesione del diritto soggettivo alla
ragionevole durata del processo.

14. Diritti o interessi collettivi. Profili generali.

Si deve distinguere tra ipotesi differenti sul piano strutturale:

- Danno arrecato a un soggetto collettivo (persona giuridica o associazione)  danno patrimoniale


 tali soggetti collettivi sono titolari del loro patrimonio ben distinto da quello dei singoli che ne
fanno parte; si applicheranno pertanto le ordinarie regole aquiliane.
Danno non patrimoniale  più difficile per il superamento del principio di tipicità legislativa ex
2059 che impedisce di continuare a identificare il problema della risarcibilità con quello solo della
titolarità dell’azione civile nel processo penale ex 185 cp
- Danni di massa  pluralità molto ampia di individui danneggiata dal medesimo evento lesivo.
Siamo di fronte a una serie di danno individuali, unificati dall’identità del fatto causativo. In questo
caso il problema giuridico è operativo, e si traduce nella delineazione di ipotesi di riforma, che
attribuiscano rilievo in sede processuale alla dimensione diffusa del fenomeno
- Danno a beni collettivi  il quesito concerne la rilevanza giuridica, e in particolare aquiliana, delle
lesioni arrecate a tali interessi, considerati come sussumibili in schemi aggregativi, ma
oggettivamente rilevabili, indipendentemente dall’esistenza o meno di una o più associazioni che
intendono farsene carico

14.1 Il danno non patrimoniale a soggetti collettivi.

Nell’impostazione tradizionale, riusciva difficile intendere come una persona giuridica o un’associazione
potesse chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo questa nozione identificata con il
danno morale-soggettivo. Un soggetto collettivo può essere titolare di diritti personali, idonei a essere
ingiustamente lesi.

L’interpretazione tradizionale del 2059 portava all’identificazione del problema della tutela risarcitoria degli
interessi collettivi o diffusi non patrimoniali, per il tramite del 85 cp, con quello della possibilità di costituirsi
parte civile nel processo penale. La tendenza a introdurre in tale processo soggetti idonei, per la loro
adesione ideale o morale agli interessi collettivi pregiudicati dal reato, ad assicurarne una più adeguata
protezione, poteva concretarsi, solo in quanto si ammettesse che il reato determinava un danno non
patrimoniale per l’associazione.

La riforma del cpp è intervenuta per razionalizzare il sistema, distinguendo tra la costituzione di parte civile
e l’intervento nel processo penale degli enti e associazioni ai quali sono riconosciute finalità di tutela di
interessi lesi del reato, che possono esercitare, a determinate condizioni, i diritti e le facoltà attribuiti alla
persona offesa dal reato.

La norma, ammettendo la partecipazione al processo penale dei soggetti ai quali siano riconosciute finalità
di tutela degli interessi lesi del reato, avrebbe dovuto consentire di distinguere nettamente il profilo del
danno non patrimoniale, da quello della presenza nel processo penale dell’ente esponenziale dell’interesse
collettivo leso dal reato  non si è però messa a punto una nozione di danno collettivo riconducibile al 185
cp  la semplificazione non avviene.

Tutela dell’ambiente  il TU 152/2006 ha abrogato il potere delle associazioni di protezione ambientale di


proporre azioni risarcitorie; ne è ammessa la costituzione di parte civile.

Codice del consumo  attribuisce la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi in capo alle
associazioni dei consumatori e degli utenti, con riferimento solo alla protezione inibitoria e alla
pubblicazione del provvedimento giudiziale.

14.2 La lesione di interessi diffusi. Il danno di massa. La class action.

Tutela da parte di soggetti collettivi a favore di interessi diffusi tra una massa di persone  si ricorre
talvolta alla espressa legittimazione ad agire delle associazioni, la quale può peraltro svolgere la sua
funzione solo sotto il profilo della tutela inibitoria. Nel campo aquiliano, infatti, dove l’esito della tutela è
nell’attribuzione all’attore di una somma di denaro, la peculiarità di una tecnica meramente processuale
può consistere solo nel sostegno rispetto all’iniziativa del titolare; ma in tali casi il risarcimento spetta al
soggetto adiuvato o sostituito  il danno è ingiusto per il titolare del bene leso e non per l’interveniente.
Class action  rivolta a tutelare una somma o serie di danni individuali cagionati dall’identico fatto
causativo, particolarmente rilevante nei danni di massa.

Il modello sono le FRCP USA  si incentiva per esigenze di economia e uniformità di giudizi, nonché di
riduzione dei costi amministrativi dei processi, la costituzione in giudizio processualmente unificata di una
classe di vittime di danni, purché sussista un numero elevato di soggetti per i quali le questioni di fatto e di
diritto sono comuni e predominanti rispetto ai profili individuali e purché vi sia omogeneità delle pretese
dedotte in giudizio. La sentenza ha efficacia di giudica nei confronti di tutti i membri della classe, quindi
anche nei confronti di coloro che non hanno partecipato al processo.

L’azione di classe nel nostro ordinamento è stata introdotta col codice del consumo  tutela assicurata
solo a coloro che hanno aderito all’azione  insuccesso della normativa.

Normativa riscritta inserendo i procedimenti collettivi nel cpc  titolare dell’azione è chiunque chieda
l’accertamento della responsabilità per la lesione del suo diritto, individuale e omogeneo a quello degli altri
componenti la classe, relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento dell’attività
di un’impresa e di un gestore di servizi pubblici. L’azione di classe può essere introdotta anche da
organizzazioni o associazioni i cui obiettivi statutari comprendono la tutela dei diritti, di cui al giudizio.

L’azione risarcitoria di classe non identifica un bene collettivo, perché tutela il diritto soggettivo individuale
del singolo consumatore danneggiato.

Va infine segnalato il dibattito che considera l’esigenza di tutela del danneggiato individuale nei danni di
massa sotto il profilo della difficoltà per la vittima di fornire la prova della relazione causale. In presenza di
possibili fonti alternative del danno, e nell’impossibilità di provare quale di essa abbia effettivamente
cagionato lo specifico danno dedotto in giudizio, l’applicazione delle regole tradizionali comporterebbe la
liberazione di tutti i convenuti  USA ha proposto di ripartire in casi siffatti la responsabilità tra i coautori
mediante un criterio di ordine probabilistico  probabilità di causazione.

14.3 Il danno all’ambiente.

Si può parlare di danno collettivo in senso proprio, riferendosi in particolare alla possibilità di considerare
danno patrimoniale le perdite economiche connesse al degrado di risorse collettive e beni liberi come quelli
ambientali.

La patrimonialità del danno collettivo all’ambiente discende dalla rilevanza economica che la distruzione o
l’alterazione dei beni liberi riveste, e che si riflette sul complesso delle risorse economiche di cui la
collettività può disporre. Si intende come titolare del diritto al risarcimento non possa essere che il soggetto
portatore dell’interesse all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio, e quindi l’ente
pubblico territoriale.

Altra questione è che il medesimo fatto, che causa il degrado ambientale, possa dar luogo contestualmente
a danni ingiusti per singoli membri della collettività, incidendo su beni propri di costoro. Per tali ipotesi può
parlarsi però di danno ambientale solo in un’accezione meramente descrittiva del fatto lesivo, e non per
indicare i caratteri della tutela, che saranno quelli propri del bene leso.
Capitolo III
1. Colpa e responsabilità oggettiva. Il sistema delle imputazioni della responsabilità.

Perché il danno ingiusto dia luogo all’obbligazione risarcitoria, occorre che l’evento lesivo sia sussumibile in
una delle fattispecie normative di responsabilità. Si risponde anzitutto del proprio fatto doloso o colposo;
inoltre, si risponde del fatto di altre persone  sorvegliante dell’incapace (2047), genitori, tutori,
precettori e maestri d’arte (2048), padroni e committenti (2049). Nelle prime due ipotesi è possibile
liberarsi provando di non aver potuto impedire il fatto.

Si risponde anche del danno cagionato nell’esercizio di un’attività pericolosa (2050) e di quello prodotto
dalla circolazione di un veicolo (2054); anche qui è ammessa la prova liberatoria.

Infine, si risponde del danno cagionato dalla cosa con la quale sussista un peculiare rapporto  2051,
2052, 2053, 2054  nelle prime due ipotesi è ammesso l’esonero mediante la prova del caso fortuito.

Il sistema è stato a lungo letto secondo la concezione tradizionale: coerentemente all’idea del risarcimento
come sanzione dell’illecito, il principio generale era individuato nella responsabilità per atto colpevole. Le
ipotesi speciali venivano ricondotte anch’esse al principio della colpa, intendendo la prova liberatoria come
concernente l’assenza di colpa. Le poche norme che non consentono prova liberatoria erano considerate
fattispecie eccezionali di responsabilità oggettiva.

Questa linea ricostruttiva si è rivelata in contrasto con la tendenza a estendere il ruolo e il peso delle ipotesi
di responsabilità differenti dalla colpa, fino a negare a questa il carattere di unico principio ordinante e ad
affermare la portata generale di un criterio di responsabilità oggettiva.

1.1 La tesi della colpa come principio generale.

La lettura tradizionale del sistema dell’imputazione riproposta in versione più convincente privilegia il
carattere di principio o regola generale del 2043, nella parte in cui fonda la responsabilità sul fatto doloso o
colposo dell’autore del danno. Secondo questa lettura, le fattispecie degli artt. 2047 ss. costituiscono
ipotesi tipiche e speciali; inoltre, solo alcune di esse possono considerarsi tali da fondare una responsabilità
oggettiva, in quanto prescindono del tutto da una valutazione della condotta del soggetto a cui il danno
viene imputato. Quando viene ammessa la prova liberatoria la colpa torna invece ad assumere rilievo ai fini
dell’esclusione della responsabilità.

Questa lettura contiene elementi utili a rettificare il tiro rispetto alla tendenza a ricondurre tutte le ipotesi
di responsabilità diverse da quella ex 2043 al campo dell’assenza di colpa e della responsabilità oggettiva.

In ogni caso, non sembra possibile ricondurre il contenuto della prova liberatoria alla matrice della
responsabilità per colpa, e identificare poi questa con l’elemento soggettivo di cui al 2043. E neppure
persuade l’idea di attribuire alla colpa il ruolo di regola finale della materia, come criterio generale di
imputazione per tutte le ipotesi non riconducibili alla disciplina di settore.

È in discussione anche l’idoneità del criterio della colpa a essere costituito in termini unificanti inforno a
una funzione caratterizzata in senso preventivo-sanzionatorio, o etico-personale.

1.2 La tesi del sistema bipolare: colpa e responsabilità oggettiva

L’idea che la disciplina della responsabilità possa essere ricostruito con la coesistenza dei principi della
responsabilità per colpa e di quella oggettiva è risalente, ma non riesce a trovare ancora una definitiva
sistemazione.

La soluzione più diffusa tra i fautori della concezione bipolare individua nel criterio del rischio il principio
idoneo a fondare una categoria generale e unitaria di responsabilità oggettiva. Quel criterio, tuttavia, se
inteso in senso ampio si è rivelato generico e meramente descrittivo  precisazione che lo identifica con il
rischio tipico di chi svolge attività economica in modo continuo e organizzato  imprenditore.

La teoria della responsabilità per rischio d’impresa incontra una difficoltà quando si tratti di individuarne il
fondamento normativo  rinvenuto nella responsabilità del committente e del custode della cosa  si
rileva però che queste norme non appaiono riconducibili a un criterio unitario, il quale poi non è comunque
identificabile con il rischio tipico d’impresa, e che non è giustificabile la limitazione del risarcimento solo ai
danni che di quel rischio siano la realizzazione  la fondazione del criterio di responsabilità sui caratteri
dell’attività dalla quale il danno è derivato non corrisponde alla struttura delle fattispecie che imputano la
responsabilità sulla base dl nesso di preposizione con l’autore materiale del danno o sul rapporto di
custodia con la cosa dannosa.

In secondo luogo, le fattispecie di responsabilità diverse dalla colpa non si collocano in radicale e unitaria
contrapposizione a tale criterio, ma se ne allontanano gradualmente.

Infine, il dato normativo non giustifica la limitazione del risarcimento alle ipotesi in cui il danno sia
espressione del rischio tipico d’impresa, traducibile preventivamente in termini di costo con gli strumenti
assicurativi: la vittima ha diritto al risarcimento dei danni subiti sul solo presupposto della ricorrenza degli
elementi espressamente previsti in ciascuna fattispecie.

Per superare tali difficoltà, l’esistenza generale di responsabilità oggettiva d’impresa nel nostro sistema è
stata argomentata sulla base del 2 Cost, che ha ruolo di fondamento unitario della responsabilità civile.
Fondamento della responsabilità non sarebbe, pertanto, il rischio cagionato con l’attività dannosa, perché il
danno deve gravare su colui che sia in grado di sopportarlo nel modo più economico possibile  criterio
del cheapest cost avoider  risponde del danno colui che si trova nella posizione più adeguata a condurre
l’analisi costi-benefici, ad accertare cioè la convenienza di evitare il danno, sulla base del confronto tra il
costo, in cui consiste il danno, e i costo necessario per evitarlo.

Dubbi sull’effettiva consistenza unitaria della figura di responsabilità oggettiva  tra i due poli contrapposti
di colpa soggettiva e responsabilità assoluta, fondata cioè sulla mera causalità materiale, esistono figure
intermedie variamente caratterizzate.

1.3 La tesi della pluralità dei criteri di imputazione.

Rileggere il problema della responsabilità in termini di conflitto o alternativa tra i due principi rischia di
essere improduttivo. Poi, le varie ipotesi di responsabilità, per come definite dalla legge e per come intese
dalla giurisprudenza, si collocano in una scala molto ampia e graduata, all’interno della quale
l’apprezzamento del comportamento dannoso del responsabile assume un rilievo progressivamente
decrescente, senza però che sia dato riscontrare una precisa e netta cesura.

A un estremo vi è il dolo  imputazione fondata sull’intenzionalità del comportamento; all’altro estremo le


ipotesi eccezionali di responsabilità assoluta. Lo stesso criterio della colpa è elastico. La responsabilità non
fondata sulla colpa, a sua volta, è variamente costruita a seconda della ratio dell’imputazione 
impossibilità di ricostruire queste figure intorno sia al criterio della colpa che alla contrapposizione tra colpa
e responsabilità.

La ricostruzione più adeguata del sistema pare dunque ancora quella prospettata dalle dottrine che hanno
sottolineato come il giudizio di responsabilità si articoli intorno ai due momenti del danno, e dei criteri per
l’imputazione a un determinato soggetto dell’obbligo di risarcirlo; e come al carattere unitario del criterio di
qualificazione del danno si accompagni la molteplicità dei criteri di imputazione.
Il giudizio di responsabilità appare segnato da una funzione centrale, che è la compensazione del danno, la
quale diventa concreta quando sussistano ragioni per la traslazione del danno dalla vittima a un altro
soggetto; ragioni che sono sempre di più.

Lo schema che individua nel fatto dannoso il dato costante, cui corrispondono molteplici criteri di
imputazione, descrive l’odierna realtà della responsabilità civile, nella quale alla funzione unitaria della
riparazione dei danni corrispondono molteplici funzioni dell’imputazione, perché molteplici sono le ragioni
per le quali l’ordinamento garantisce la traslazione del danno e ne presceglie il destinatario.

Ammissibilità di applicazione analogica o interpretazione estensiva delle figure di responsabilità differenti


della colpa  opinione tradizionale dice no perché colpa è principio generale; concezione della molteplicità
delle fattispecie di imputazione ritiene che la soluzione vada cercata caso per caso.

2. Colpevolezza e imputabilità.

Iniziando l’esame dei criteri di imputazione della responsabilità viene in questione il fatto doloso o colposo
di cui al 043  alcuni tratti unitari  perché sorga la responsabilità ex 043 occorre che il fatto dannoso sia
riferibile all’atto dell’uomo non solo sotto il profilo materiale, ma anche sotto quello della condizione
soggettiva dell’agente; occorre che le modalità del comportamento siano tali da condurre a un esito
positivo del giudizio circa la sussistenza in concreto degli elementi del dolo e della colpa.

Dolo  previsione e volontà del danno, da parte dell’agente, come conseguenza del proprio
comportamento.

Colpa  sussisterà quando il danno si verifichi a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per
inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

L’ordinamento subordina la responsabilità alla circostanza che l’autore del fatto dannoso fosse capace di
intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso  questa capacità viene identificata con quel
minimo di attitudine psichica ad agire e valutare le conseguenze del proprio operato, necessario affinché sia
possibile ritenere che il fatto dannoso è conseguenza di una libera scelta dell’autore. Spetterà sempre al
giudice verificare se nel caso concreto l’autore del fatto dannoso sia o meno capace di intendere e volere.

Il rapporto tra l’imputabilità e la colpevolezza di cui al 2043 è molto discusso. Secondo la concezione
tradizionale, la colpevolezza presuppone e richiede che il comportamento dannoso sia rimproverabile
personalmente all’autore del danno; la capacità di intendere e di volere è essenziale: chi non è imputabile
non può essere in colpa.

Perché sorga responsabilità ex 2047, occorre un giudizio di colpevolezza del comportamento dannoso
dell’incapace, per evitare la conseguenza che la vittima abbia diritto al risarcimento anche per danno che
sarebbero rimasti a suo carico, se a causarli fosse stato un soggetto capace.

Per rendere compatibile tale soluzione con l’idea dell’imputabilità come elemento intrinseco della
colpevolezza, si afferma che nelle ipotesi ricordate opererebbe una nozione oggettiva di colpa da valutare
in astratto; laddove normalmente la colpa è quella soggettiva, apprezzabile in concreto  argomento di
dubbia consistenza e necessario solo se si intende che la responsabilità per colpa presupponga un
comportamento personalmente rimproverabile al convenuto  oggi invece si configura la colpa come
difformità oggettiva del comportamento concreto da un parametro di valutazione sociale.

Autonomia degli elementi di colpevolezza e responsabilità  colpevolezza: va costruito con riferimento alle
modalità oggettivo del comportamento; imputabilità  necessario al fine di ricondurre il comportamento
medesimo alla sfera soggettiva di chi lo ha posto in essere.
L’autonomia di colpa e imputabilità induce poi a non accedere alla tesi per la quale la responsabilità
dell’incapace ex 2047 c. 2 configurerebbe un’ipotesi eccezionale di responsabilità oggettiva, ispirata a
favore per la vittima del danno. Le deroghe al regime ordinario non risiedono infatti nella natura oggettiva
di tale responsabilità, ma consistono, in primo luogo, nel suo carattere sussidiario e, in secondo luogo,
nell’esigenza di una valutazione ulteriore del giudice, attinente alle condizioni economiche delle parti. L’an
e il quantum del risarcimento dipendono da tale valutazione  qui la situazione finanziaria della vittima e
del convenuto assumono rilievo.

3. Il dolo.

In base al 2043 la responsabilità sorge per il fatto doloso, che ricorre quando l’evento dannoso sia stato
previsto e voluto come conseguenza del comportamento del convenuto. È opinione generalmente
condivisa che il dolo, rilevante ai fini della responsabilità extracontrattuale, si identifica con la nozione
penalistica del dolo generico, che prescinde da elementi specifici di intenzionalità o di frode, risolvendosi
nella volontà di cagionare il danno. È prevalente l’idea che il dolo deve ritenersi escluso nei casi in cui sia
mancata, per un errore di fatto o di diritto, la consapevolezza dell’ingiustizia del danno.

Si ritiene poi operante l’equivalenza tra dolo e colpa, nel senso che l’an e il quantum della responsabilità
sussistono immutati, sia che il comportamento riceva la qualificazione in termini di colpa, sia che riceva
quella di dolo.

Non sempre questa equivalenza va bene  esistono ipotesi nelle quali la responsabilità sorge solo in
presenza di una qualità peculiare della colpevolezza, in termini di colpa grave, o di dolo, ovvero di una
particolare intensità e direzione del dolo.

Quel che pare certo è che talvolta il dolo incide sulla stessa qualificazione di ingiustizia del danno, nl senso
di rendere risarcibili danni che altrimenti non potrebbero ricevere tale qualifica, perché cagionati attraverso
un’attività che costituisce attuazione di un interesse di per sé prevalente rispetto a quello del danneggiato.

4. La colpa.

La responsabilità per colpa richiede un giudizio complesso: si tratta di individuare quali, fra gli eventi causati
ma non voluti dall’agente, gli vadano imputati. Negli ordinamenti contemporanei è largamente prevalente
la concezione che deduce la colpa non da un giudizio sulla riprovevolezza soggettiva del comportamento,
ma dal rapporto tra il comportamento dannoso e quello richiesto dall’ordinamento al fine di evitare la
lesione di interessi altrui.

In proposito si tende a distinguere tra: colpa specifica (o propria)  violazione di una regola espressa;
colpa generica  quando manca l’espressa previsione di una regola che si assume violata.

È in colpa chi adotta un comportamento contrastante con le regole di diligenza, prudenza e perizia che in
un determinato contesto sociale si considerano idonee a prevenire i danni; nozione che l’esperienza
giuridica esprime con i parametri del buon padre di famiglia e dell’uomo ragionevole di ordinaria prudenza.

La categoria della prevedibilità dell’evento attiene alla prospettazione ipotetica della possibilità oggettiva di
prevedere, e non già a una valutazione attinente alla concreta condizione psichica dell’agente, e si traduce
nella considerazione della difformità oggettiva rispetto a un tipo astratto di comportamento.

L’uso terminologico delle espressioni colpa oggettiva e soggettiva assume invece altro significato, quando lo
si adotti al fine di individuare alcune circostanze concrete, rilevanti in sede di valutazione della
colpevolezza. La nozione di colpa, pur essendo unitaria, è dotata di elasticità, che ne consente specificazioni
adeguate al variare di determinate caratteristiche della fattispecie concreta  assumono rilievo elementi
oggettivi, come la natura dell’attività lesiva e del bene colpito.
Più discussa è la rilevanza degli elementi soggettivi connessi alle caratteristiche personali dell’agente  si
ripropone l’alternativa tra colpa oggettiva e soggettiva, che però assume qui il significato del possibile
rilievo delle qualità del convenuto al fine della determinazione del parametro al quale raffrontare la
condotta concreta; si tende ad esempio ad attribuire rilievo alle qualità fisiche dell’agente. Si esclude invece
che assumano rilievo le doti morali o intellettive del convenuto.

La valutazione del rilievo da dare alle qualità fisiche e psichiche dell’auto del danno non conduce comunque
a revocare in dubbio il superamento della concezione psicologico-morale della colpa. Il principio
costituzionale di solidarietà può in effetti condurre a modelli di valutazione della condotta che di quelle
qualità tengono conto.

Può esserci la rilevanza di un “grado di colpa” (termine derivante da una teoria superata) differente da
quello ordinario, che è espressamente disposta in alcune ipotesi che per lo più si riferiscono alla colpa
grave. Qui l’ordinamento richiede, per l’imputazione della responsabilità, la difformità del comportamento
dell’agente non dal parametro ordinario di valutazione della colpa, ma da una misura minima di diligenza,
prudenza, perizia.

4.1 La colpa omissiva

Problema colpa omissiva  non concerne le ipotesi nelle quali un’attività sia stata intrapresa senza le
cautele idonee a evitare i danni: qui è il comportamento commissivo a risultare colposo, in quanto assunto
secondo modalità concretamente contrastanti con il principio di diligenza, che avrebbe imposto invece
l’adozione di quelle cautele  es. conducente deve assicurarsi che i passeggeri allaccino le cinture.

In queste ipotesi di responsabilità omissiva impropria, nelle quali il pregiudizio subito dal terzo deriva dallo
svolgimento di una precedente attività senza l’adozione delle dovute cautele, la tematica è quella ordinaria
della responsabilità per colpa, con una particolare accentuazione della rilevanza del profilo causale.

Diverso è il caso dell’omissione rispetto a un’attività non prevista, in assenza cioè della possibilità della
stessa di adottare misure idonee a prevenire il danno. Nel campo della colpa omissiva in senso proprio,
quando cioè il danno sia stato causato da un comportamento meramente omissivo, l’opinione tradizionale
ritiene che la responsabilità sia eccezionale, e sorga solo in presenza di un preesistente obbligo legale di
impedire l’evento  principio che si risolve nel rinvio a fattispecie penali, es. omissione di soccorso.

A tale tesi si è contrapposta quella dell’atipicità della responsabilità da omissione, che sorgerebbe, secondo
l’ordinario criterio della colpa, ogni volta che il danno poteva essere prevenuto ed evitato da una persona di
normale diligenza  giurisprudenza orientata in questa direzione, alla luce del principio solidaristico di cui
al 2 Cost e del dovere di correttezza ex 1175.

5. Il danno da cose

Il criterio di imputazione risiede nella relazione che intercorre tra il candidato responsabile e la cosa che ha
dato luogo al danno. Questa relazione è variamente individuata: in generale, del danno cagionato dalla cosa
risponde chi la ha in custodia (2051); ma dei danni causati dall’animale è responsabile il proprietario o chi
se ne serve (2052); della rovina di edificio il proprietario; dei danni derivati da vizi di costruzione o
manutenzione del veicolo il proprietario in solido con il conducente (2054).

La responsabilità incontra il suo limite nel caso fortuito nelle ipotesi degli artt. 2051-2052; nelle altre due
ipotesi, la responsabilità è esclusa se il danno è derivato da causa diversa dal vizio di costruzione o di
manutenzione.

Il profilo del comportamento del responsabile è di per sé estraneo alla struttura dell’imputazione, né può
esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia.
La natura oggettiva della responsabilità per danno da cosa può quindi essere affermata. Può essere
adeguata la riconduzione al principio del rischio: la fattispecie è meglio definita in termini di rischio da
custodia che di colpa nella custodia.

Il problema prioritario che l’art. 2051 pone riguarda la distinzione del fatto della cosa rispetto al fatto
dell’uomo, ai fini dell’individuazione dell’ambito di applicazione di tale norma, in luogo del 2043.

Secondo la giurisprudenza prevalente, il danno si considera cagionato dalla cosa quando è prodotto da
essa per effetto di un dinamismo intrinseco alla cosa, o dell’insorgere in essa di un agente dannoso anche
proveniente dall’esterno, ma al di fuori di un’azione diretta dell’uomo.

Sembra però che l’elemento discretivo debba essere individuato, più che nell’assenza di qualsiasi
comportamento umano nella vicenda dannosa, nell’individuazione del profilo preminente sul piano causale
 può ritenersi applicabile il 2051 anche nelle ipotesi in cui la cosa produca danno, mentre è azionata
direttamente dal custode, ma per un’anomalia di funzionamento, derivante da guasto o da altre cause
accidentali, idonee a interrompere il nesso causale tra il fatto dell’uomo e il danno, secondo la corretta
nozione del giudizio di causalità.

Responsabile del danno cagionato dalla cosa è colui che la ha in custodia  il termine non presuppone né
implica uno specifico obbligo di custodire la cosa; la funzione della norma porta a escludere che custode sia
necessariamente il proprietario in quanto tale, o chi si trova al momento del fatto dannoso in una relazione
diretta con la cosa. Custode è invece il soggetto che di fatto controlli le modalità di uso e di conservazione
della cosa, e abbia pertanto il governo della cosa. In tale posizione si trova chi abbia la disponibilità
giuridica delle condizioni di uso e di conservazione.

La figura che più si avvicina alla custodia ex 2051 è quella del detentore, nell’interesse proprio, o del
detentore nell’interesse altrui, ma per l’adempimento di un obbligo proprio. È la relazione tra il soggetto e
la cosa, caratterizzata dal potere di effettiva ingerenza, a fondare la responsabilità del soggetto in
questione, in quanto custode.

5.1 Le figure speciali: il danno cagionato dall’animale, dalla rovina dell’edificio, dal vizio del veicolo

Danno cagionato dall’animale, 2052  responsabile è il proprietario, a meno che dell’animale si serva un
soggetto diverso, che risponderà alternativamente per il tempo in cui lo ha in uso; inoltre, è espressamente
previsto che la responsabilità sussista anche nel caso di smarrimento o fuga  il rischio non è connesso al
potere di governo della cosa, ma a quello di utilizzazione.

Rovina dell’edificio, 2053-2054  disciplinano l’ipotesi di un danno cagionato da vizio di costruzione o


difetto di manutenzione, rispettivamente, dell’edificio la cui rovina ha dato luogo all’evento lesivo e del
veicolo in circolazione  rapporto causale tra vizio e danno dà luogo alla responsabilità.

Differenza di onere probatorio:

- 2053  al danneggiato sarà sufficiente provare il nesso eziologico tra rovina e danno, spettando al
proprietario dimostrare la ricorrenza di una causa della rovina diversa dal vizio di costruzione o dal
difetto di manutenzione Il 2053 si applica anche alla caduta di elementi accessori e ornamentali
dell’edificio, e comprendendo in questo le opere connesse al suolo, anche in via provvisoria,
indipendentemente dalla funzione che sono destinate a svolgere. Il caso fortuito è ragione di
esonero dalla responsabilità.
- 2054  è a carico del danneggiato la prova dell’intera fattispecie dannosa, compreso il nesso
causale rispetto al vizio di costruzione o di manutenzione del veicolo

Altra questione è che con la responsabilità del proprietario possa concorrere quella del costruttore, o di chi
sia incaricato della manutenzione, dell’edificio o del veicolo, che risponderà però per altro titolo. In tal caso,
il proprietario potrà agire in regresso nei confronti dell’appaltatore, esercitando l’azione del 1669,
ricorrendo i presupposti di tale norma.

In caso di concorso del danneggiato potrà poi applicarsi il 1227, fino all’esonero della responsabilità.

In entrambe le ipotesi, l’imputazione sorge in base non a una relazione di fatto, ma di diritto. Per il 2053 è
responsabile il proprietario dell’edificio al tempo della rovina. È ritenuto altresì responsabile, in solido con
il proprietario, il titolare di un diritto reale minore che comporti dovere di manutenzione dell’edificio.

5.2 Il caso fortuito

La responsabilità per danno da cosa viene meno quando il destinatario dell’imputazione provi il caso
fortuito.

L’impossibilità di ricondurre le fattispecie considerate al principio della colpa dovrebbe peraltro risultare
evidente, ove si consideri che è indiscusso che la prova del fortuito non si identifica con l’assenza di cola;
parlare di una presunzione di colpa che resiste fino alla prova del fortuito è artificioso (c.d. concezione
soggettiva del caso fortuito): la presunzione è costruibile solo sull’oggetto della prova contraria.

Si tratta piuttosto di vedere se, pur in un ambito diverso da quello proprio della imputazione per colpa,
nella fattispecie assumano rilevanza circostanze attinenti al comportamento del responsabile.

A ben vedere, non vi è ragione per non accettare tutte le implicazioni della già segnalata struttura della
fattispecie normativa. La responsabilità per danno da cose si lascia agevolmente spiegare alla luce della
ratio di addossare il rischio dei danni, cagionati dalla cosa, al soggetto che si trovi nella condizione di
disporre del potere di governare o do uti9lizzare, o del diritto di proprietà, sulla cosa medesima.

Tale ratio è anche da preferire in quanto espressiva della tendenza al favore per le vittime dei danni, che
trova significativi punti di riferimento nei principi costituzionali.

A tale ratio corrisponde una nozione oggettiva del caso fortuito, che comprenderà quegli elementi o fatti
che, provenendo dall’esterno, abbiano inciso in modo determinante nel processo causativo del danno. La
rilevanza del fortuito attiene pertanto al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che
consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno
concretamente verificatosi.

Si intende così anche la ragione dell’inversione dell’onere probatorio prevista da 2051-2052, che attiene
alla ripartizione della prova sul nesso causale  l’attore deve provare l’esistenza del rapporto eziologico tra
la cosa e l’evento lesivo; il convenuto, per liberarsi, dovrà provare l’esistenza di un fattore autonomo,
idoneo a interrompere quel nesso causale. Tale idoneità suste solo se il fattore estraneo presenta i caratteri
della imprevedibilità e dell’assoluta eccezionalità.

La valutazione sulla rilevanza causale del fatto estraneo va operata con riferimento alle condizioni della
cosa in concreto, che risulteranno per lo più dal modo con il quale si è esplicato il governo della cosa da
parte del custode; l’attività di questi rileva però solo a tal fine, e quindi in via mediata. La diligenza in essa
eventualmente espletata non è di per sé sufficiente a escludere la responsabilità, se non sussista l’incidenza
causale di fattori esterni alla sfera di custodia.

6. Le attività pericolose

Novità codice del 42  art. 2050  chi cagiona danno nello svolgimento di un’attività pericolosa è tenuto
al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno.

La norma costituisce la generalizzazione di fattispecie tipiche di responsabilità che erano state introdotte
dalla legislazione speciale per far fronte alle conseguenze di attività pericolose non riconducibili alle
tradizionali figure del danno da cosa o da animale  critiche della dottrina  il sistema si presenta di
scarsa coerenza.

Il 2050 non accoglie fino in fondo l’idea che la creazione di un pericolo costituisca una ragione sufficiente,
indipendentemente dalla colpa, per l’imputazione della responsabilità. L’effetto risarcitorio non si ricollega
infatti automaticamente al danno così cagionato, essendo previsto l’esonero attraverso la prova di un
elemento che attiene pur sempre alle modalità di svolgimento dell’attività pericolosa.

È proprio la categoria di pericolo a essere inadeguata a costituire titolo autonomo di responsabilità, perché
il fatto che un’attività abbia cagionato un danno consente per ciò stesso di affermare ex post il carattere
pericoloso di quell’attività. Infatti, negli ordinamenti che attribuiscono autonoma rilevanza al pericolo come
fonte di responsabilità, si richiede un’ulteriore qualificazione, nel senso che l’attività risulti anormalmente o
grandemente pericolosa  le attività del 2050 richiedono un più rigoroso regime di responsabilità per
danni, sotto il profilo della diligenza richiesta per l’esonero.

L’applicazione del 2050 richiede che il fatto dannoso si inserisca in un’attività che presuppone un minimo di
continuità e predisposizione dei mezzi. Non è sufficiente un atto isolato, ancorché estremamente
pericoloso; in questo caso si rientrerà nel 2043. L’uso legislativo del termine attività porta a escludere che il
danno debba derivare da un comportamento personale del responsabile, potendo l’attività essere svolta
da altri soggetti, purché sotto il suo controllo. Il controllo, che consente di riconoscere nel convenuto la
qualità di esercente l’attività pericolosa, deve estendersi al potere di adottare le misure idonee a evitare il
danno. Non è necessario invece che l’attività pericolosa assuma le forme organizzative ed economiche
proprie dell’impresa.

L’attività deve essere pericolosa  l’attributo non va riferito alla generica probabilità di danno, ma a una
specifica e più intensa probabilità che discenda dalla natura dell’attività medesima, o dai mezzi adoperati.

Il criterio da adottare è pertanto di ordine quantitativo o statistico, concernendo la pericolosità dei diversi
tipi di attività, da accertare mediante una valutazione ex ante, e non con un giudizio ex post, basato sulla
gravità e sull’entità del danno in concreto verificatosi.

È ammesso il ricorso a elenchi previsti dalla legislazione amministrativa in materia di attività pericolose, ma
ne è esclusa la tassatività, ne senso che anche attività non ricomprese in quegli elenchi possono essere in
concreto ricondotte all’ambito operativo del 2050  si parla di attività pericolose tipiche e atipiche, la cui
pericolosità viene accertata in concreto dal giudice.

Infine, l’applicazione della norma presuppone che i danni siano derivati dallo svolgimento dell’attività; il
nesso causale sussiste anche quando il danno si produca in una fase temporalmente successiva a quella
immediata dell’attività, purché ne dipenda in modo sufficientemente immediato.

L’esigenza di un nesso causale tra il titolo di imputazione descritta dal 2050 e il danno porta invece a
escludere dall’ambito di applicazione della norma il danno verificatosi durante lo svolgimento di un’attività
pericolosa, ma non causato dalle caratteristiche che la rendono tale; mentre il fatto del terzo che inserisca
un rischio nuovo e abnorme interrompe il nesso causale.

Precisazione rapporto 2050-2043  il primo presuppone tanto l’esercizio di un’attività, quanto la


pericolosità intrinseca, valutata ex ante, dell’attività stessa.

Va infine notato che determinate attività pericolose sono disciplinate da norme specifiche, che prevedono
più rigorose forme di responsabilità  es. danni derivanti dall’esercizio di miniere.
6.1 Il criterio di esonero dalla responsabilità

Chi cagiona il danno nello svolgimento di un’attività pericolosa può liberarsi dalla responsabilità solo
provando di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. È sulla base di contrapposte
interpretazioni di questa prova liberatoria che si controverte circa la natura della responsabilità prevista dal
2050.

Si ritiene, da una parte, che la deroga al principio della responsabilità per colpa si limiti all’inversione
dell’onere probatorio, e alla sufficienza di un grado di colpa, minore di quello richiesto dal 2043. Si è
sostenuto, al contrario, che il 2050 integra un’ipotesi di responsabilità oggettiva, precisandosi però che la
responsabilità è limitata, in questo caso, al rischio oggettivamente evitabile; oppure che è esclusa nel caso
che l’attività fosse stata organizzata precedentemente secondo modalità in astratto idonee a prevenire il
danno.

La giurisprudenza aveva accolto l’idea della presunzione iuris tantum di colpa, intendendo però in concreto
l’oggetto dell’onere probatorio in maniera estremamente rigorosa, fino a identificarla spesso con quella del
caso fortuito, richiedendo la prova della causa esterna che, in quanto eccezionale e imprevedibile, sfugge al
controllo del convenuto.

Il 2050 costituisce peraltro un ostacolo all’individuazione di un principio generale di responsabilità oggettiva


d’impresa nel Codice. Proprio nell’ipotesi che più sembra implicare l’esigenza di svincolare la responsabilità
dalla colpa, la previsione legale consente l’esonero attraverso una formula che non sembra facilmente
riconducibile alla categoria della responsabilità oggettiva.

La differenza con la colpa di cui al 2043 non si limita a quanto rilevato, perché la valutazione ex 2050 va
operata con riferimento non allo specifico atto che nella catena dell’attività ha determinato il danno, ma
alle complessive modalità di organizzazione dell’attività. Chi pone in essere un’attività pericolosa deve
organizzarla preventivamente secondo modalità idonee a evitare che la pericolosità si traduca in danno.

2050, sotto questo punto di vista, sembra più avanzato, sul piano della prevenzione e della tutela delle
vittime dei danni, rispetto alla disciplina sul danno da prodotti  mentre la seconda esclude la
responsabilità del produttore per il rischio di sviluppo, il 2050 impone l’adozione di tutti quei metodi che la
tecnologia è in grado di predisporre a prescindere dal costo o dalla perfezionabilità.

L’obiettivazione del parametro della diligenza assume nel 2050 la massima intensità, anche nel senso che il
soggetto chiamato a rispondere è colui che ha il controllo dell’attività al momento del danno, sul solo
presupposto della oggettiva mancanza delle misure protettive idonee. Ma tale esito discende dal fatto che
la valutazione richiesta dalla norma concerne l’attività nella sua interezza e oggettività, e non il
comportamento personale dell’imprenditore.

7. La responsabilità per fatto altrui

Alla categoria per fatto altrui vanno ricondotte le ipotesi nelle quali il criterio di imputazione consiste nella
relazione che intercorre tra il responsabile e il soggetto che ha causato il danno. In essa vanno pertanto
inquadrate le ipotesi nelle quali la responsabilità si fonda su un peculiare rapporto tra il convenuto e
l’autore del fatto dannoso. Non vi rientrano invece ipotesi come quella del proprietario del veicolo in
circolazione ex 2054 c.3 o del proprietario dell’edificio ex 2053, giacché entrambe, pur se il danno è
cagionato da un terzo, l’imputazione si fonda sul rapporto del responsabile con il bene, e non con l’autore
del fatto dannoso.

Nell’elemento strutturale consistente in ciò, che il criterio di imputazione risiede nella relazione
intercorrente tra il responsabile e l’autore del danno, si esaurisce il carattere unitario delle diverse ipotesi
richiamate, che per altri profili si differenziano sensibilmente  sorvegliante dell’incapace, genitori e
tutore, precettore e maestro d’arte possono liberarsi dalla responsabilità provando di non avere potuto
impedire il fatto, ma altrettanto non è consentito al padrone e al committente nel 2049  natura oggettiva
della responsabilità del 2049; per le altre due disposizioni la prova liberatoria deve considerarsi
concernente l’assenza di colpa nell’esercizio dei compiti connessi alla loro posizione.

Ulteriore distinzione sussiste tra 2047 e 2048 e 2049  2047 si applica quando l’autore del danno non è
imputabile ex 2046; il sorvegliante ne risponde in via esclusiva, e la responsabilità dell’incapace subentra in
via sussidiaria, sul presupposto e nei limiti del 2047 c. 2. Le ipotesi di 2048-2049 presuppongono invece
l’imputabilità dell’autore diretto del danno; i soggetti ivi indicati rispondono solo se, e nei limiti in cui,
risponde l’autore del danno.

La responsabilità del convenuto è comunque autonoma e diretta nei confronti della vittima  si parla di
responsabilità vicaria.

In proposito, va ancora osservato che la responsabilità del genitore, ecc. sorge se il danno possa essere
imputato al minore, ecc. in base al 2043. L’opposta soluzione appare tuttavia preferibile, perché congrua
alla ratio delle disposizioni, ove si ritenga che questa risieda in un criterio di garanzia.

Per 2048-2049 si pone il problema della possibilità, per il responsabile di rivalersi sull’autore materiale del
danno. L’ipotesi pare riconducibile alla responsabilità solidale di cui al 2055; si tratta allora di valutare colpa
rispettiva dei corresponsabili  giurisprudenza è orientata in senso positivo.

8. La responsabilità dei genitori

In base al 2048 il padre e la madre sono responsabili in solido del danno cagionato dal fatto illecito dei
minori; sono esonerati dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto.

La norma si applica se il minore era capace di intendere e di volere al momento del fatto; in caso contrario
si rientra nell’ambito del 2047.

Per i minori in tenera età non ancora capaci di scelte espressive autonome, e quindi non imputabili ai sensi
del 2047, la responsabilità di chi è tenuto alla sorveglianza è esclusa quando venga provato che il fatto
dannoso era concretamente inevitabile, nonostante la diligente osservanza dell’obbligo di sorveglianza.

Per l’adolescente capace, invece, una prova siffatta non è sufficiente all’esonero: il genitore deve provare
altresì di aver impartito al figlio un’educazione idonea a non compiere fatti illeciti (culpa in educando), e
molto spesso l’inadeguatezza dell’educazione viene desunta dalle modalità stesse del comportamento
dannoso del minore, creandosi così una sorta di circolo vizioso tra sorveglianza ed educazione che rende
estremamente difficile l’esonero dalla responsabilità.

L’uso giurisprudenziale del riferimento al dovere di educazione appare meritevole di critiche, soprattutto
per la sua arbitrarietà, che consente poi in concreto decisioni giurisprudenziali basate su considerazioni
equitative, taciute nella motivazione perché prive di riscontro nella legge.

Il dato normativo imputa la responsabilità sulla base di una determinata qualità personale, e non di un
determinato tipo di comportamento  il 2048 individua il responsabile nel padre e nella madre, e richiede
altresì il presupposto della coabitazione, in assenza del quale la responsabilità non sorge. Si ammette che la
qualità personale comprende non solo i genitori adottivi e il genitore naturale che abbia riconosciuto il
figlio, ma anche l’affidatario per il periodo preadottivo.

Il criterio della coabitazione impedisce di risolvere il dibattito sulla natura della responsabilità ex 2048 in
termini di responsabilità oggettiva fondata sulla garanzia del patrimonio familiare nei confronti dei terzi. Se
così fosse non si comprenderebbe perché sia esonerato dalla responsabilità il genitore, per il solo fatto di
non coabitare con il figlio.
Il requisito di una coabitazione indica che una finalità preventiva non è estranea alla ratio della norma 
coabitazione intesa con connotazione normativa  va ritenuto responsabile il soggetto tenuto ad
adempiere l’obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli, di cui al 147, purché abbia l’affidamento del
minore ai sensi di legge.

Il limite della responsabilità di cui all’ultimo comma del 2048 non concerne però la prova dell’adempimento
dell’obbligo di cui al 147, perché si tratta piuttosto di valutare se il fatto del minore possa considerarsi o no
compreso nell’ambito di controllo del genitore.

L’esclusione della responsabilità dovrebbe pertanto ritenersi sussistente quando il genitore provi
l’inevitabilità del fatto, oppure l’esistenza di tutte le precauzioni volte a impedire che il fatto potesse
accadere.

9. La responsabilità degli insegnanti

2048 c. 2 pone a carico dei precettori e di coloro che insegnano un mestiere o un’arte la responsabilità per
i danni cagionati dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza;
anche a costoro si applica la prova liberatoria di cui al c. 3.

Il principale ambito di applicazione della norma è oggi la scuola, e le si attribuisce la finalità di sostituire un
altro soggetto al genitore nella garanzia nei confronti dei terzi per i danni cagionati dal giovane nel tempo in
cui si trova nella sfera di vigilanza della struttura scolastica.

Precettori  insegnanti, sia di istituti privati che di scuole pubbliche, ma anche tutti i soggetti che
esercitano in concreto un’attività di insegnamento, che implica la vigilanza, senza essere insegnanti in senso
proprio, es. nel corso di attività educative e sportive.

Maestri d’arte  campo più ristretto, riguarda ipotesi di insegnamento di un mestiere e non a rapporti di
lavoro nei quali l’attività dell’apprendista procuri un profitto al maestro d’arte.

2048 c. 2 presuppone l’imputabilità dell’autore del fatto dannoso; la responsabilità del precettore è
pertanto solidale con quella dell’allievo. E una responsabilità solidale può nascere ance a carico del
genitore, per violazione del dovere di educazione, mentre il dovere di sorveglianza si trasferisce in capo al
precettore.

L’interpretazione della prova liberatoria è estremamente rigorosa: non è sufficiente, ai fini dell’esonero,
dimostrare il carattere improvviso della condotta dell’allievo; occorre anche che sia del tutto imprevedibile.
Si precisa però che il dovere di vigilanza si commisura all’età, e si attenua quindi con il maggior grado di
maturità degli allievi.

L’orientamento giurisprudenziale, ponendo a carico degli insegnanti una responsabilità molto ampia, ha
dato luogo a una reazione legislativa che si è espressa sia nella disciplina dell’assicurazione
dell’insegnante, sia nella sostituzione a questi dell’amministrazione statale nelle azioni giudiziarie
promosse da terzi  anche la PA risponde dei danni dovuti dall’insegnante, quindi l’amministrazione si
surroga al personale scolastico nelle responsabilità civili derivanti da azione giudiziarie promosse da terzi,
salvo rivalsa nei casi di dolo e colpa grave.

Il 2048 non è applicabile ai danni che l’allievo abbia procurato a se stesso, per i quali la responsabilità
dell’istituto scolastico e dell’insegnante va ricondotta nell’ambito della responsabilità contrattuale.

10. Il sorvegliante dell’incapace

Quando il fatto dannoso è cagionato da un soggetto incapace di intendere e di volere, la norma da


applicare è il 2047, per il quale il risarcimento è dovuto in via primaria da chi è tenuto alla sorveglianza
dell’incapace, con la possibilità di liberarsi attraverso la consueta prova di non aver potuto impedire il fatto.
Si riconduce il fondamento della responsabilità alla violazione del dovere di sorveglianza (culpa in
vigilando)  si dubita della possibilità di ricomprendere l’ipotesi nella categoria della responsabilità per
fatto altrui: si tratterebbe di responsabilità per fatto proprio del sorvegliante. In effetti, la norma sembra
dare rilievo, più che alla qualità del personale del convenuto, alla situazione giuridica (dovere di
sorveglianza) della quale questi è titolare.

Rimane fermo che la responsabilità del sorvegliante presuppone che il fatto dannoso contenga tutti i
requisiti idonei a integrare l’imputazione a carico dell’autore materiale del danno; la quale in effetti sorge, e
subentra a quella del sorvegliante, nell’ipotesi di cui al c. 2 del 2047.

Di recente si è ampliata la sfera della responsabilità ex 2047, nel senso di ritenere che il dovere di
sorveglianza possa sorgere anche in assenza di un obbligo legale o contrattuale discendendo anche dalla
scelta di un ruolo, liberamente assunto e riconoscibile all’esterno, cos ad es. la scelta di accogliere
l’incapace nella propria sfera personale o familiare: così chi abbia accolto nella casa comune il figlio del
convivente.

Particolare rilievo assume il problema della sorveglianza dell’infermo di mente, dopo l’entrata in vigore
della legge di riforma psichiatrica, che abbandona la finalità esclusiva di custodia caratterizzante la
legislazione precedente, sostituendola con il trattamento presso i servizi psichiatrici territoriali e
sollecitando la riabilitazione del malato attraverso il suo reinserimento nell’ambiente di provenienza. La
responsabilità del personale medico e sanitario appare più ristretta e riconducibile, quando il malato non
sia ricoverato, al 2043.

Ai fini della prova liberatoria, il comportamento del sorvegliante va valutato con riferimento allo specifico
fatto dannoso, nelle sue modalità concrete, e tenendo conto del grado di maturità dell’incapace. La
responsabilità è esclusa solo quando venga provato che il danno era inevitabile nonostante la diligente
sorveglianza, o che l’omissione di sorveglianza è stata determinata da causa non imputabile, ovvero ancora
che, nonostante l’esercizio diligente del dovere di sorveglianza, il danno si sarebbe verificato ugualmente.

11. La responsabilità del padrone e del committente

La responsabilità di cui al 2049 sorge sulla base di un triplice presupposto: il fatto illecito del domestico o
commesso; il cosiddetto rapporto di preposizione tra questi e il padrone o committente; la circostanza che
il fatto dannoso sia avvenuto nell’esercizio delle incombenze alle quali il primo fosse stato adibito dal
secondo.

Tale responsabilità prescinde dalla colpa del padrone o committente. Più controversa è l’individuazione
della ratio della norma, nella cui tradizione si è vista la principale sede normativa dalla quale enucleare un
principio generale di responsabilità oggettiva dell’impresa per i danni causati nel processo produttivo  le
moderne giustificazioni della responabilità vicaria nel 2049 sono analoghe a quelle poste a fondamento
delle teorie del rischio di impresa come principio generale, parallelo alla colpa, dell’imputazione della
responsabilità.

La responsabilità ex 2049 è considerata espressione di un criterio di allocazione dei rischi per il quale i danni
cagionati dai dipendenti sono posti a carico dell’impresa, perché ha capacità di assorbire i costi e di
distribuirli nella collettività.

Evoluzione interpretazione responsabilità padroni e committenti  dall’idea che la fonda sulla cola in
eligendo o in vigilando si è passati prima al riconoscimento del carattere oggettivo di una responsabilità che
rimane vicaria; successivamente il profilo della vicarietà è sfumato; si è affermata poi la tesi della
responsabilità diretta dell’impresa per tutti i danni causati dal processo produttivo, anche
indipendentemente da un comportamento umano.
È dubbio però che il 2049 consenta l’ultima affermazione  la struttura dell’imputazione è un ostacolo 
consiste nella relazione che lega il padrone o committente al domestico o commesso, e non nell’esercizio
dell’impresa.

Approfondendo questi rilievi si può osservare in primo luogo che alla luce della struttura dell’imputazione, a
intendere la ratio del 2049 risultano i due profili della garanzia nei confronti del terzo danneggiato e del
vantaggio che il padrone o committente trae dall’attività del domestico o commesso, e che giustifica
l’accollo della garanzia.

La soluzione adottata dal 2049 corrisponde a tale duplice funzione, mediante il carattere vicario della
responsabilità e l’irrilevanza di ogni prova liberatoria attinente al comportamento del convenuto.

11.1 Il rapporto di preposizione

Perché si attivi l’imputazione occorre che tra l’autore del fatto dannoso e il convenuto sussista una
relazione, che la norma designa con la duplice coppia padrone-domestico e committente-commesso  si
esclude che la relazione idonea a fondare la responsabilità si identifichi con uno o più rapporti giuridici
tipici; si tratta invece di un rapporto peculiare al 2049, per il quale si suole parlare di preposizione, e i cui
caratteri vanno desunti dall’interno della fattispecie di responsabilità.

Il rapporto di lavoro subordinato integra gli estremi della preposizione, ma non ne esaurisce l’ambito;
controversa è però l’individuazione della preposizione in altre ipotesi, e viene variamente definita
muovendo dagli elementi dell’incarico, della subordinazione e dell’attività svolta da altro soggetto
nell’interesse del responsabile.

Incarico il rilievo dato alla scelta del preposto da parte del candidato responsabile è storicamente
risalente, correlandosi alla fondazione della responsabilità sulla culpa in eligendo. Ma la sussistenza di tale
colpa non è rilevante, giacché il rapporto di preposizione sussiste anche se l’autore del fatto dannoso non è
stato prescelto personalmente dal responsabile.

Vigilanza  anche l’esercizio effettivo di un potere di vigilanza e controllo non è di per sé decisivo. Da un
lato può sussistere senza che sia dato rinvenire gli estremi del 2049; dall’altro le prestazioni del lavoratore
subordinato, anche se sottratte di fatto o di diritto alla possibilità di specifici controlli del datore di lavoro,
rientrano nel rapporto di preposizione.

Subordinazione  se tende idoneo a identificare il nesso prepositorio, anche oltre l’ipotesi di lavoro
subordinato (es. lavoro autonomo). La subordinazione può risultare da un rapporto di fatto ; non sono
essenziali né la continuità né l’onerosità del rapporto medesimo; che è sufficiente l’astratta possibilità di
esercitare un potere di supremazia o di direzione, non essendo necessario l’effettivo esercizio di quel
potere.

Sembra che sia l’intensità della subordinazione a determinare la sussistenza del rapporto prepositorio oltre
l’area del lavoro subordinato in senso proprio; nel senso che le caratteristiche del rapporto siano tali da
configurare l’attività del preposto come strumentale rispetto all’utilizzazione che ne opera il preponente.

11.2 L’esercizio delle incombenze

In base al 2049 non sono imputati ai preponenti tutti i danni comunque cagionati dai preposti, ma solo
quelli arrecati nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti  estensione area responsabilità vicaria 
originariamente limitata ai danni causati nel corso dell’attuazione delle specifiche mansioni affidate al
preposto; ora si ammette la responsabilità del preponente non solo in presenza di un nesso causale
rigoroso tra le incombenze affidate e l’atto dannoso, ma pure quando le prime abbiano reso possibile il
secondo. Si ritiene sufficiente un nesso di occasionalità necessaria  non esclude la responsabilità del
preponente la circostanza che il preposto abbia operato fuori dalle sue mansioni, abbia trasgredito gli
ordini ricevuti o abbia agito con dolo.

Critiche mosse per lo scarso rigore del criterio della occasionalità necessaria  si è proposto il criterio della
pertinenza degli atti dannosi all’esercizio delle incombenze, nel senso che essi possano rientrare nel
contenuto o nello scopo dell’incarico.

Il criterio della occasionalità necessaria, tuttavia, se precisato, consente risultati congrui alla funzione della
norma  non ne limita ingiustamente l’operatività alla sola ipotesi di esecuzione delle istruzioni del
preponente e non deborda oltre l’esigenza di accollare a questi la garanzia per i rischi connessi
all’affidamento di determinate mansioni.

Utile a delimitare l’ambito della responsabilità è il criterio della obiettiva prevedibilità del fatto dannoso al
momento dell’affidamento dell’incarico.

11.3 Il fatto del dipendente

La responsabilità ex 2049 sorge se vi sia responsabilità del preposto per illecito, e presuppone quindi il fatto
doloso o colposo di questi; il fatto illecito di cui al 2049 va inteso come fatto fonte di responsabilità anche in
base a norme diverse dal 2043, in particolare in base al 2054  il problema non sussiste perché è
l’imprenditore, e non il dipendente, il destinatario diretto dell’imputazione.

Va ammessa la responsabilità del preponente anche nell’ipotesi dell’atto oggettivamente colpevole del
dipendente incapace, e quindi personalmente non imputabile ex 2046, nonché in quella del danno
cagionato dal dipendente in stato di necessità.

L’accertamento della responsabilità del dipendente è operato per lo più solo al fine di imputare il danno
all’impresa. Da un lato il danneggiato preferisce rivolgersi al soggetto più forte, dall’altro l’azione di
regresso dell’imprenditore verso il dipendente non viene normalmente esercitata.

Può inoltre notarsi che il carattere solidale della responsabilità del preponente e del preposto, se non
consente di accogliere la tesi che nega l’ammissibilità stessa della rivalsa del primo verso il secondo, non
porta necessariamente a ritenere che questa debba sempre essere concessa  ci si arriva da 2055 c. 2.

A diversa conclusione può giungersi osservando che il 2055 c. 2 è applicabile al caso in esame non
direttamente, ma in via analogica; da tale norma possono trarsi gli elementi per una valutazione
discrezionale del giudice, circa l’an e il quantum della rivalsa, in relazione alle circostanze concrete.

Tendenza ad ammettere il regresso per intero solo in caso di dolo o colpa grave, e ammetterlo in parte o
negarlo negli altri casi.

Su un altro terreno si pongono le tesi per le quali la responsabilità dell’impresa sorge anche in assenza di
una responsabilità del dipendente. Rispetto a queste tesi il problema è di vagliarne il fondamento positivo,
a fronte della formulazione del 2049.

Prima impostazione  la responsabilità dell’impresa dovrebbe ammettersi anche a fronte di un fatto


oggettivamente antigiuridico del dipendente, ancorché non colpevole.

Seconda impostazione  si è revocata in dubbio la rilevanza stessa, ai fini dell’applicazione del 2049 ai
danni cagionati dal processo produttivo, del fatto dannoso del dipendete, e in genere di un comportamento
umano direttamente causativo del danno, affermandosi la responsabilità oggettiva dell’impresa per tutti i
danni imputabili all’organizzazione di essa.

Per quanto concerne il 2049, il criterio di imputazione previsto sembra suscettibile di applicazione
analogica, non nel senso di escludere ogni rilevanza del fatto dannoso del dipendente, ma in quello di non
richiedere l’accertamento di una specifica responsabilità di questi. Pare quindi che quel fatto debba
comunque rivestire i caratteri oggettivi della negligenza, ancorché non sia possibile identificare
personalmente il dipendente che ne sia l’autore.

12. La responsabilità del produttore

Responsabilità per i prodotti difettosi  ha origine dall’ideologia adottata dall’UE che vede nel
consumatore un soggetto centrale e da proteggere  Codice del Consumo.

In una prima fase, la tendenza a favore di una specifica figura di responsabilità del produttore fu inquadrata
e favorita dalla dottrina in termini di passaggio dall’imputazione per colpa a una responsabilità oggettiva.

Successivamente la questione si complica; emergono crescenti riserve sull’opportunità di un sistema di


rigorosa responsabilità oggettiva nel danno da prodotti, e ciò da due differenti versanti  neoliberisti ostili
all’accollo di oneri eccessivi a carico delle imprese; da un altro punto di vista, per una maggiore attenzione
agli effetti finali della internalizzazione dei danni, che rischia di tradursi in una redistribuzione dei costi
all’interno della collettività, con esiti negativi a svantaggio dei soggetti economicamente e socialmente più
deboli.

Nelle discipline normative la responsabilità non discende dal mero fatto che il prodotto abbia cagionato un
danno al consumatore, essendo altresì necessario quanto meno l’elemento consistente nel carattere
difettoso del prodotto.

Si precisa che è difettoso il prodotto che sia irragionevolmente rischioso, criterio che si è tradotto nella
direttiva comunitaria nella possibilità di escludere la responsabilità quando il produttore provi che lo stato
delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento in cui ha messo in circolazione il prodotto non
permetteva di scoprire l’esistenza del difetto  rischio di sviluppo.

L’esclusione, che in tal modo si determina, dei rischi imprevedibili al momento della fabbricazione
impedisce di configurare la responsabilità del produttore in termini di radicale contrapposizione rispetto
alla responsabilità per colpa.

La normativa contenuta nel Codice del Consumo dà una soluzione compromissoria al conflitto tra l’esigenza
di contenere il rischio d’impresa e quella di estendere la protezione dei consumatori. A costoro è garantita
una tutela agevolata, soprattutto sul piano probatorio, a fronte di una limitazione dell’area del danno
risarcibile.

La responsabilità delle imprese produttrici, d’altra parte, non presuppone la prova da parte dell’attore della
colpa, ma richiede la dimostrazione dell’esistenza di un difetto del prodotto.

Difettoso è il prodotto che non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di
tutte le circostanze, e se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima
serie. Si suole distinguere tra difetti di fabbricazione, informazione e progettazione.

La legge attribuisce al danneggiato l’onere di provare il danno e la connessione causale tra difetto e danno;
il produttore può liberarsi attraverso la prova di alcune circostante, tra le quali quelle legate ai rischi da
sviluppo, cioè quelli rispetto ai quali lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il
produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come
difettoso. Per tali rischi il 118 lett. e esclude espressamente la responsabilità. Tale clausola di esonero
impedisce di considerare quella del produttore una responsabilità oggettiva in senso pieno; questo non vuol
dire che il rischio da sviluppo non sia risarcibile, giacché non è necessariamente causa di esonero della
responsabilità ai sensi del 2050. Né vi è ragione per escludere che un’attività rilevi, ai fini risarcitori, sia in
quanto pericolosa sia in quanto consistente nella messa in circolazione di prodotti destinati al consumo  è
ammesso il concorso di azioni.
13. La responsabilità dell’impresa tra colpa e responsabilità oggettiva

Il danno cagionato dall’impresa nel processo produttivo non è riconducibile a una fattispecie di imputazione
autonoma e peculiare, trovando invece applicazione i diversi criteri previsti dall’ordinamento.

Anche quando sia applicabile il criterio della colpa ex 2043, la natura dell’attività dannosa non rimane
indifferente ai fini del modo concreto di operare dell’imputazione. In particolare, nell’ipotesi di danno da
prodotto difettoso, la giurisprudenza aveva adottato una nozione rigorosamente oggettiva di colpa,
attraverso la rilevanza assegnata all’argomento presuntivo nella prova della colpa.

Dubbi sull’efficacia del sistema normativo della responsabilità d’impresa  la lettura del problema
dell’imputazione intorno ai poli contrapposti di colpa e responsabilità oggettiva è inadeguata a descriverlo
nella sua reale portata.

Nelle esperienze contemporanee il fatto idoneo a dar luogo alla responsabilità viene a diversificarsi
all’interno di una scala che vede ai due estremi opposti il criterio della colpevolezza (inteso come
comportamento personalmente rimproverabile ed eticamente riprovevole) e quello della responsabilità
assoluta.

14. La responsabilità da circolazione stradale

2054  danni cagionati dalla circolazione dei veicoli  di essi risponde il conducente, se non prova di aver
fatto tutto il possibile per evitare il danno. Con quella del conducente concorre la responsabilità solidale del
proprietario del veicolo, che può liberarsi solo provando che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la
sua volontà. La responsabilità del conducente e del proprietario sussiste in ogni caso per i danni derivati da
vizi di costruzione o da difetti di manutenzione del veicolo.

Presupposto ed elemento unificante dell’applicazione di questa regola è che il danno sia stato cagionato
dalla circolazione di un veicolo senza guida di rotaie.

La circolazione sussiste se il veicolo si trova in luoghi idonei al traffico e ancorché in sosta; non invece se sia
in uno spazio chiuso al traffico. Tra fatto della circolazione e danno deve sussistere un nesso causale in
senso proprio, non essendo sufficiente un rapporto di mera occasionalità.

Tali puntualizzazioni sono coerenti alla ratio del regime, che risiede nella rilevanza del rischio creato con
l’immissione di un veicolo nella circolazione. Il rischio non è il criterio per l’imputazione della responsabilità:
il 2054 prevede l’adattamento, al fenomeno della circolazione stradale, dei criteri operanti in tema di
attività pericolose e danno da cose.

Si è accolta adesso l’applicabilità del 2054 ai danni che la circolazione del veicolo cagiona alle persone che a
qualunque titolo viaggiano a bordo del veicolo; ove il trasporto sia avvenuto in base a titolo contrattuale,
con la responsabilità ex 2054 concorre quella contrattuale del 1681.

La responsabilità del conducente di cui al c. 1 del 2054 è fondata sulla colpa: la prova di avere fatto tutto il
possibile per evitare il danno si identifica con quella dell’assenza di colpa. La giurisprudenza aderisce alla
tesi per la quale la prova liberatoria concerne la dimostrazione di un comportamento non solo esente da
colpa, ma anche oculato e prudente, oltre il parametro della normale diligenza; altre volte si afferma il
criterio dell’adozione della cautela dell’uomo di normale diligenza.

La giurisprudenza è restrittiva nell’escludere la responsabilità del conducente, al punto che si è affermato


che la prova liberatoria è intesa come concernente in realtà, non l’assenza di colpa, ma la riconduzione
causale del danno a un fatto diverso dall’attività del conducente.

Accanto alla funzione probatoria sussiste una più precisa individuazione di quelle modalità; la discrasia
rispetto all’ordinario parametro di diligenza appare più accentuata nella norma generale sulla
responsabilità per l’esercizio di attività pericolose che nel comma 1 del 2054  nel primo caso si richiede al
convenuto la prova dell’adozione di misure relative all’attività nel suo complesso, e preordinate a eliminare
la pericolosità, che ne costituisce carattere qualificante. Per la responsabilità del conducente assume invece
sempre rilievo lo specifico comportamento relativo al particolare evento dannoso.

Tuttavia, va notato che la responsabilità del conducente sorge non solo per il suo comportamento che
direttamente abbia determinato il pericolo di danno, ma anche quando sia mancata, perché in contrasto
con le norme sulla circolazione stradale o con la diligenza del buon automobilista, ma anche quando sia
mancata, in presenza di una circostanza estranea alla quale direttamente ricondurre la situazione di
pericolo, l’adozione da parte di lui di tutti gli accorgimenti e le misure che avrebbero consentito di evitare il
danno.

In base al c. 3 del 2054, il proprietario risponde in solido con il conducente se non prova che la circolazione
del veicolo è avvenuta contro la sua volontà. È superata l’idea che a fondamento di tale responsabilità sia il
fatto colposo del proprietario. Comportamento del proprietario idoneo a integrare la clausola di esonero 
non è sufficiente la mancanza del consenso alla circolazione o un generico divieto, serve l’adozione degli
accorgimenti idonei a impedire in concreto la circolazione. La responsabilità viene invece meno se il veicolo
sia stato affidato a terzi per ragioni di custodia professionale o di riparazione, a meno che la scelta
dell’affidatario debba ritenersi poco oculata.

Assicurazione obbligatoria  la responsabilità del proprietario del veicolo è garantita dall’obbligo,


penalmente sanzionato, di assicurazione, che comprende inoltre la responsabilità per i danni causati alle
persone trasportate, e garantisce ai terzi non trasportati il risarcimento anche nell’ipotesi di circolazione
avvenuta contro la volontà del proprietario.

15. Altre ipotesi di responsabilità

Responsabilità civile del magistrato  l. 117/88 disciplina la materia del risarcimento dei danni cagionati
nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e della responsabilità civile dei magistrati.

Danno all’ambiente  l. 349/86  già trattata in precedenza.

Responsabilità sanitaria  già trattata in precedenza.

Aeromobili  l’esercente risponde, anche per ausa di forza maggiore, dei danni cagionati da un
aeromobile a persone o beni sulla superficie. L’ammontare dei danni risarcibili è delimitato dalla
convenzione di Varsavia. È in ogni caso previsto il criterio dell’adeguatezza del risarcimento.

Incidenti nucleari  prevista responsabilità oggettiva dell’esercente l’impianto, con l’unico limite per
l’incidente derivato da atti di conflitto armato o da un cataclisma naturale di carattere occasionale. Previsto
limite massimo del danno risarcibile per ogni incidente. È costituito un fondo pubblico per l’indennizzo alle
persone danneggiate, per le quali il danno si manifesti dopo il decorso del termine decennale di
prescrizione dell’azione risarcitoria.

Capitolo IV: il rapporto di causalità


1. La duplice funzione della causalità nella responsabilità civile

La disciplina legislativa della causalità è generalmente considerata ambigua e insufficiente. Nel campo civile
il problema è poi ulteriormente complicato da due ragioni, la prima di ordine strutturale, la seconda di tipo
funzionale.

Dal primo punto di vista è generalmente riconosciuto che non è sufficiente, per la responsabilità civile,
recepire le soluzioni elaborate per la responsabilità penale  le concezioni moderne di responsabilità civile
costruiscono lo schema del giudizio intorno al danno, anziché alla condotta illecita. Tuttavia, un fatto è pur
sempre necessario perché la responsabilità sorga, giacché l’imputazione del danno presuppone l'esistenza
di una delle fattispecie normative degli articoli 2043 ss.

Il danno rileva così a differenza tenere la responsabilità penale, sotto due profili diversi: Come evento
lesivo; come insieme delle conseguenze risarcibili. Per entrambi si pone un problema di riconduzione al
fatto del responsabile, e quindi di nesso di causalità. Né i due profili del danno si identificano.

La giurisprudenza ha eliminato un fattore di confusione, derivante dalla distinzione tra danno-evento e


danno-conseguenze, introdotta per motivare la risarcibilità in via generale del danno biologico  in ogni
fattispecie di responsabilità civile rileva un evento e le sue conseguenze, ed è questa la ragione della
duplice rilevanza della causalità.

C’è poi una ragione di ordine funzionale che spiega il ruolo crescente delle regole causali nelle moderne
ricostruzioni della responsabilità civile  descrizione normativa meno rigida rispetto a quella tipizzante del
reato  l’evoluzione della disciplina aquiliana che si è avuta svincolando la fattispecie di danno ingiusto dal
criterio fondato sulla lesione del diritto soggettivo assoluto, e ampliando l’area della responsabilità
oggettiva, ha fatto assumere al problema della delimitazione dell’area di risarcibilità un peso nuovo. La sede
causale è sembrata la più adatta per enucleare criteri utili a tal fine.

Per le due ragioni indicate si è consolidata l’idea che l’oggetto del nesso causale sia in realtà duplice,
concernendo da un lato l’evento lesivo, e dall’altro il danno risarcibile, e che pertanto sussista una duplice
funzione del giudizio di causalità, o senz’altro di un duplice giudizio, per i quali può parlarsi,
rispettivamente, di causalità in fatto e di causalità giuridica.

Assumono rilievo due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la
responsabilità; la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione
risarcitoria  a questo secondo momento va riferita la regola del 1223, per la quale il risarcimento deve
comprendere le perdite che siano conseguenza immediata e diretta del fatto lesivo.

2. La causalità in fatto

La prima fase del giudizio causale concerne la ricostruzione del fatto ai fini dell’imputazione della
responsabilità  causalità in fatto  contrapposta alla causalità giuridica, la seconda fase del giudizio, nella
quale sono determinate le conseguenze dannose che il responsabile dovrà risarcire. L’uso linguistico è
accettabile, se si tiene fermo che entrambi i termini esprimono in realtà criteri normativi di qualificazione.

Se è vero che un essenziale punto di partenza per la cosiddetta causalità in fatto è costituito
dall’impostazione propria della cosiddetta teoria dell’equivalenza, e per la quale è causa ogni condizione
che in mancanza della quale l’evento non si sarebbe verificato; è anche vero che tale impostazione richiede
due importanti precisazioni:

- La ricostruzione del fatto, e quindi del giudizio di causalità, va operata con riferimento allo specifico
criterio di imputazione che si assuma operante nel caso di specie
- La teoria della condicio sine qua non non è comunque suscettibile di applicazione integrale, in
quanto richiede criteri limitativi a fronte di serie causali autonome, concorrenti nella produzione
dell’evento. È a fronte di tale problema che è stata elaborata la teoria della causalità adeguata, che
si contrappone a quella dell’equivalenza, e per la quale la rilevanza giuridica della condizione è
commisurata all’incremento, da essa prodotto, della obiettiva possibilità di un evento del tipo di
quello effettivamente verificatosi
Interruzione del nesso causale  insoddisfazione per la soluzione normativa del problema  art. 41 cp 
le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a
determinare l’evento.

I tentativi di risolvere il problema in termini meramente logici non hanno condotto a esiti appaganti, e
sembra in realtà che stabilire se un fatto determini o meno interruzione del nesso di causalità rispetto alla
serie causale considerata è possibile solo mediante un giudizio di valore, operato sulla base di criteri di
ordine pratico.

La causa da sola sufficiente a determinare l’evento, e tale pertanto da escludere la responsabilità del
soggetto cui faccia capo l’altra serie causale ipotizzata, è infatti prevalentemente identificata con il fatto
anormale, o del tutto eccezionale, che può pertanto considerarsi causa unica o esclusiva del danno.

La tematica dell’interruzione del nesso causale riduce le distanze tra la teoria dell’equivalenza e quella della
causalità adeguata, ma non porta a un’accettazione della seconda. Non si tratta, infatti, di stabilire se
l’evento lesivo sia conseguenza ordinaria o normale della condotta, ma se la serie causale concorrente sia o
meno da considerarsi eccezionale, al punto da giustificare la conclusione che il nesso eziologico rispetto al
fatto del convenuto deve considerarsi interrotto.

3. Criteri di imputazione e causalità

Il giudizio sull’interruzione del nesso causale si presenta di peculiare rilevanza nelle ipotesi di responsabilità
oggettiva, quanto la fattispecie non sia legislativamente descritta con sufficiente precisione; mentre nella
responsabilità per colpa il problema è semplificato dal ruolo che l’incidenza di una causa estranea può
giocare già nella fase del giudizio di colpevolezza.

Quando l’imputazione è a titolo di dolo, è causato dal convenuto anche il danno eccezionale (verificatosi a
seguito di circostanze insolite rispetto alla condotta iniziale) se risulti che egli abbia agito per produrlo, o
anche che abbia previsto l’esistenza di tali circostanze, scontandone la futura incidenza al momento
dell’azione: quel danno è infatti evento del fatto doloso, secondo la natura propria di tale criterio di
responsabilità.

Nell’imputazione per colpa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta in quanto colposa, e
non la mera azione materiale  esigenza che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di
condotta violata tendeva a prevenire  applicazione del principio in materia di circolazione stradale  la
violazione di una norma di condotta non è sufficiente a provocare la responsabilità, se non risulti che quella
violazione è stata la causa dell’incidente.

Si intende quindi come il convenuto possa essere liberato, se risulti che il danno si sarebbe prodotto anche
se egli avesse tenuto un comportamento diligente.

In ogni caso, il profilo della causalità rimane distinto da quello della colpa. L’accertamento della seconda
concerne la difformità del comportamento da una regola, e consente di definire il tipo di evento che la
regola mirava a prevenire. Il giudizio causale subentra per stabilire se un evento di quel tipo si sia
concretamente prodotto come conseguenza della condotta  distinzione importanti nei casi di inversione
di onere probatorio sulla colpa, dove occorre determinare il quid probandi dell’attore e quello del
convenuto.

L’intreccio tra causalità e colpa è ancora più stretto nell’ipotesi della colpa omissiva. La causalità
dell’omissione non può essere di ordine strettamente materiale; è tuttavia accertabile mediante un giudizio
ipotetico  l’affermazione dell’esistenza del nesso causale tra omissione ed evento presuppone che si
accerti che l’azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea a impedire l’evento dannoso.
Per quanto concerne le fattispecie di responsabilità oggettiva, una corretta impostazione del problema
causale presuppone la descrizione normativa del fatto che fonda la responsabilità. Questo metodo
consente risultati appaganti solo quando la descrizione sia sufficientemente precisa; quando così non sia, la
questione della causalità si incentra sulla nozione del caso fortuito, e si intreccia quindi strettamente con
quella dei limiti stessi della responsabilità. Per spiegare la responsabilità per fatto della cosa, si dice che
essa è esclusa se il danno è stato causato dal caso fortuito, anziché dalla cosa, e si parla di presunzione di
causalità  all’attore è sufficiente provare he la cosa è stata la causa del danno, mentre spetta al
convenuto dimostrare, per liberarsi, l’esistenza di circostanze ulteriori che, integrando l’ipotesi del caso
fortuito, possano considerarsi giuridicamente la causa del danno.

Alcune considerazioni sui profili probatori confermano la peculiare complessità del problema eziologico.
Secondo i principi, ricade sul danneggiato l’onere di provare il nesso causale tra il fatto e l’evento dannoso.
Alcune fattispecie legali sono state peraltro interpretate come deroghe a tale principio  es. presunzione
di causalità nella responsabilità del custode della cosa.

Anche al di là di tali ipotesi, è frequente l’invito a non mostrare rigore nella valutazione della prova, dando
rilievo preminente in tale sede al corso normale delle cose. E ciò anche da chi respinge la teoria della
causalità adeguata: i fautori della quale affermano talvolta che è al convenuto che spetta la prova della
carenza dei requisiti che rendono la causa adeguata all’evento dannoso.

La nuova giurisprudenza afferma che ciò che muta tra giudizio penale e civile è la regola sulla prova. Nel
primo vale la regola della prova oltre ogni ragionevole dubbio, mentre nel secondo va adottata la regola
della preponderanza dell’evidenza (più probabile che non). Tale criterio non può essere ancorato a una
determinazione quantitativo-statistica, ma va verificata sulla base degli elementi disponibili, con
riferimento alle diverse ipotesi causali, in relazione al caso concreto.

La difficoltà per il danneggiato di fornire la prova della relazione causale si accentua nei danni di massa. In
presenza di possibili fonti alternative del danno, e nell’impossibilità di provare quale di essa abbia
effettivamente cagionato lo specifico danno dedotto in giudizio, l’applicazione delle regole tradizionali
comporterebbe la liberazione di tutti i convenuti. In USA si tende a ripartire la responsabilità tra i coautori,
mediante un criterio di ordine probabilistico  ripartizione mediante la probabilità di causazione.

4. La responsabilità solidale

Può accadere che il concorso di una serie causale, autonoma rispetto a quella considerata ai fini
dell’imputazione, non sia tuttavia idoneo a escludere il nesso eziologico tra la seconda e l’evento lesivo. In
tale ipotesi, la responsabilità del convenuto rimane affermata; resta da vedere se la concausa possa o meno
ridurre l’entità del danno da imputargli.

Unico esempio di tale ipotesi è la regola sul concorso del fatto colposo della vittima; più complesso pare il
rapporto con la responsabilità solidale, mentre è dubbio che a essa ci si possa richiamare a fronte del
concorso di una serie causale non imputabile a terzi.

Art. 2055  fatto dannoso imputabile a più persone e regola della obbligazione solidale al risarcimento,
salvo il regresso di colui che ha risarcito il danno nei confronti di ciascuno degli altri corresponsabili.

Presupposto per l’applicazione della norma è l’unicità dell’evento dannoso, e non dell’intera fattispecie di
responsabilità  ai fini del 2055 non è necessaria una condotta comune, e neppure l’unicità del fatto
umano; è sufficiente che unico sia l’evento lesivo. Non è quindi controverso che ai fini dell’applicazione
della solidarietà il fatto dannoso non deve essere necessariamente unico, ben potendosi avere più azioni od
omissioni che concorrono a produrre il medesimo danno. Ciò che è assolutamente necessario è invece
l’unicità del danno, da intendersi come unicità dell’interesse leso dalla condotta. Pertanto, la prima
indagine da compiersi in presenza della denuncia di più fatti dannosi è quella relativa al nesso causale per
stabilire se il danno, del quale si chiede il risarcimento, sia conseguenza di tutti i fatti ovvero soltanto di
alcuni o di uno solo.

C. 2 art. 2055  ripartizione tra corresponsabili  la ripartizione della responsabilità tra i soggetti cui il
fatto dannoso è imputabile avvenga nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dalla
entità delle conseguenze che ne sono derivate. I due criteri non necessariamente coincideranno in
concreto.

Più complesso è il problema del riparto nelle ipotesi di concorso nelle quali rilevino fattispecie di
responsabilità diverse dalla colpa  una soluzione radicale consisterebbe nel ritenere che il responsabile a
titolo oggettivo abbia diritto al regresso per l’intero nei confronti di chi risponda della propria condotta
colpevole, e che quando concorrano più responsabili a titolo oggettivo trovi applicazione analogica il
principio desumibile da c. 3 art. 2055.

La soluzione non può probabilmente essere unitaria, ma differenziata alla luce della peculiarità funzionale
delle differenti ipotesi di responsabilità diverse dalla colpa, e sulla base comunque del criterio dell’efficienza
causale di ciascun concreto fatto dannoso, desumibile dal c. 2 2055.

5. Il concorso della vittima

C. 1 art. 1227  concorso della vittima  se il fatto colposo della vittima ha concorso a cagionare il danno,
il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate
 risolto il problema della compensazione delle colpe.

La spiegazione della regola di cui al 1227 c. 1 sulla base di considerazioni inerenti la causalità è stata
contestata; a fondamento della norma andrebbe piuttosto messo un principio di autoresponsabilità. Tale
principio, tuttavia, se è idoneo a indicare la ratio della disposizione, non vale a escluderne la riconducibilità
al profilo causale, bensì a fondarla sulla qualità del colpevole del comportamento del danneggiato.
L’impostazione in termini causali è quella assunta dalla giurisprudenza.

Un giudizio in termini causali è d’altronde sempre necessario: preliminarmente, per accertare se il


comportamento della vittima non sia idoneo a escludere del tutto la responsabilità, in quanto tale da
interrompere il rapporto di causalità con il fatto del convenuto; per valutare l’efficienza causale rispettiva
delle due condotte.

Differente è invece la funzione del c. 2 1227, per il quale il risarcimento non è dovuto per i danni che il
creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza  assume rilievo non ai fini della costruzione
del fatto dannoso idoneo a fondare la responsabilità, ma a quelli delle conseguenze ulteriori.

Colpa della vittima  è la stessa colpa del 2043? Solo la seconda presupporrebbe la violazione di un
dovere giuridico  si deduce che il giudizio di colpevolezza andrebbe condotto, per la vittima, secondo
peculiari modalità, e in particolare sulla base di uno standard soggettivo, anziché oggettivo.

Tale impostazione presuppone però l’identificazione della colpa con l’illiceità, laddove non vi è difficoltà a
ricondurre la colpa della vittima alla nozione generale senza dover ricorrere a particolari qualificazioni.

6. Il concorso di causa naturale

Concorso, con il fatto del convenuto, di una causa estranea, non imputabile a un terzo  l’esistenza di una
causa naturale dell’evento, concorrente con quella idonea a fondare la responsabilità del convenuto, rileva
solo ai fini di accertare se la prima abbia o meno interrotto il nesso eziologico tra la seconda e l’evento
lesivo, non residuando alcuna alternativa oltre la responsabilità piena e l’assenza di responsabilità.

Si è affermato, al contrario, che tale conclusione discende da un preteso principio di irrilevanza delle
concause, privo di fondamento positivo; laddove sembra possibile trarre dagli artt. 1227 c. 1 e 2055 c. 2
l’opposto principio della commisurazione della responsabilità all’efficienza causale del comportamento del
danneggiato.

Il concorso della causa naturale determinerebbe la diminuzione del risarcimento dovuto al danneggiato in
misura proporzionale alla gravità della colpa del responsabile e all’entità delle conseguenze che ne sono
derivate.

L’alternativa tra queste due ipotesi può essere sciolta solo con considerazioni normativo-funzionali, e non
logiche. Non vi sono comunque elementi univoci  1227 c. 1 sembra riconducibile a un principio di
causalità parziale, ma la ratio della norma è segnata dalla circostanza che la concausa consiste nel fatto di
chi agisce per il risarcimento.

Per il 2055 il problema è proprio sapere quale dei due aspetti della responsabilità solidale esprima la regola
generale da applicare nell’ipotesi di concorso di causa non imputabile.

Il rapporto tra i primi due commi del 2055 non è agevolmente ricostruibile in termini di gerarchia dell’uno
sull’altro  è vero che la rilevanza della concausa consente di evitare che il convenuto risponda per intero
di un danno che ha cagionato solo parzialmente, ma è anche vero che tale risultato può apparire ingiusto
nei confronti del danneggiato, del tutto estraneo rispetto alla causazione del danno  dal 2055 risulta che
l’ordinamento, nell’ipotesi di concorso di responsabilità, considera prevalente l’interesse della vittima a
essere risarcita per intero, su quello del responsabile a rispondere solo per la parte di danno da lui
cagionata  ipotesi da assumere anche nel caso di concorso di una serie causale non imputabile a un terzo.
Tale ipotesi, pertanto, non sembra possa rilevare ai fini della riduzione del risarcimento.

Capitolo V: il risarcimento del danno


1. Riparazione dei danni e risarcimento monetario

Nozione di risarcimento nasce (parallelamente a quella di danno) per reagire ai fatti che determinano una
lesione della sfera giuridica individuale; nasce nel contesto del giusnaturalismo.

Il rimedio ottimale sarebbe quello che consentisse di eliminare il fatto lesivo e porre il danneggiato nella
identica situazione nella quale si sarebbe trovato se il fatto non si fosse verificato  non possibile  si
cerca allora il criterio o metodo più adeguato per eliminare le conseguenze dannose dell’illecito e porre la
vittima in una situazione per quanto possibile equivalente a quella che si sarebbe determinata in assenza
del fatto lesivo.

Nella fase di formazione del diritto moderno, due idee si contendono il campo:

- Identificazione del danno con la differenza negativa del patrimonio del danneggiato. La finalità
riparatoria è considerata pienamente soddisfatta attraverso il pagamento di una somma di denaro
equivalente a quella differenza
- Si parte da un modello reale o materiale del danno, identificato con la distruzione o l’alterazione
del bene fisico. L’essenza del risarcimento è la ricostituzione in natura della situazione materiale

Il primato del risarcimento per equivalente si spiega con la funzione di compensazione economica che la
responsabilità per danni svolge nel sistema e conserva come pressoché esclusiva. A tale funzione, il modello
patrimoniale di danno e il risarcimento attraverso il pagamento dell’equivalente monetario si attagliano in
pieno, rivelandosi congrui a un’economia di mercato, nella quale il denaro è fattore di misurazione di ogni
bene e prestazione.

La funzione di compensazione economica rimane centrale nel sistema normativo della responsabilità;
riguardo a essa, il binomio danno patrimoniale-risarcimento per equivalente mantiene il ruolo di modello
normativo e sistematico. Alla responsabilità per danni però si è fatto progressivamente carico di funzioni e
campi di intervento nuovi e differenti rispetto alla finalità tradizionale di compensazione pecuniaria dei
danni patrimoniali. Il modello di danno si è venuto ad articolarsi a partire dal peso crescente assunto da
figure di danno dalle quali è assente il connotato della patrimonialità.

1.1 Riparazione, risarcimento e altri rimedi civili

I rimedi finalizzati alla reazione al danno possono essere ricondotti alla categoria generale di riparazione,
della quale il risarcimento per equivalente costituisce una delle figure. Gli elementi comuni ai rimedi
riparatori sono essenzialmente due:

- Si tratta di tecniche di tipo successivo, che intervengono sulle conseguenze pregiudizievoli del fatto
lesivo. Come tali, si distinguono dalle tutele inibitorie (o di cessazione), dirette invece a impedire la
violazione del diritto. La riparazione reagisce al danno, cioè al fatto preso in considerazione come
accadimento già concluso; nella tutela di cessazione, invece, la reazione è apprestata nei confronti
di un fatto lesivo attuale o temuto
- Si consente alla vittima di conseguire utilità diverse rispetto a quelle perdute a seguito
dell’accadimento dannoso; e non a ristabilire le medesime condizioni che caratterizzavano la
situazione del soggetto, preesistente alla lesione

Oltre tali elementi unitari, i rimedi riparatori si diversificano in parallelo con l’articolazione dei modelli di
danno giuridicamente rilevanti, per reagire ai quali sono apprestati; la diversificazione risponde anche a
esigenze di “politica del diritto”, per chi ritenga la responsabilità per danni strutturalmente insufficiente nei
confronti di pregiudizi che non sono di ordine patrimoniale.

Per il danno patrimoniale, la riparazione continua a identificarsi con il risarcimento pecuniario, fondato
sulla regola dell’equivalenza tra danno cagionato e danno da risarcire. Attraverso tale strumento, si realizza
la funzione di redistribuzione dei costi economici che qui svolge il giudizio di responsabilità; mentre il
risarcimento in forma specifica ha un ruolo subalterno.

Anche per il danno non patrimoniale il risarcimento pecuniario è considerato la forma più adeguata di
riparazione. Il presupposto risiede nell’assunzione del danno morale-soggettivo entro la figura generale del
danno, dalla quale trae origine la formula del pretium doloris  chiave di lettura oggi non più
soddisfacente  es. figure come il danno all’ambiente o il danno biologico esigono particolari modalità
riparatorie, irriducibili sia al risarcimento per equivalente sia alla pseudo-equivalenza monetaria del dolore.

Il principio di equivalenza no ha alcun senso per il danno non patrimoniale, al quale è estranea ogni
funzione di compensazione economica  ciò non lo estranea da ogni profilo riparatorio e non lo
caratterizza solo sotto il piano punitivo  alla funzione riparatoria è qui estranea la logica della
compensazione economica.

2. Il risarcimento per equivalente

Il risarcimento per equivalente del danno patrimoniale è una tecnica di tutela a funzione essenzialmente
economica  si attua la traslazione di un costo, che si sia verificato a carico di un soggetto, da questi a un
altro soggetto, individuato come responsabile in base a uno dei criteri normativi di responsabilità. A tale
tecnica di tutela sono invece estranei profili sanzionatori e punitivi.

Il contenuto quantitativo dell’obbligazione risarcitoria deve equivalere all’entità del danno: in linea di
principio, sono irrilevanti tanto il grado di colpevolezza del responsabile quanto l’eventuale arricchimento
del responsabile, maggiore del danno arrecato.
2.1 Il principio della riparazione integrale. Lucro cessante e compensatio

Alla base della disciplina del risarcimento per equivalente è il principio per il quale la vittima ha diritto a una
somma di denaro corrispondente alle perdite economiche subite, comprensive sia della diminuzione del
patrimonio (danno emergente) che dell’eventuale mancato guadagno conseguente al fatto lesivo (lucro
cessante).

È dal principio della riparazione integrale come compensazione economica che discende la regola per la
quale il lucro cessante è componente del danno risarcibile alla stregua del danno emergente. Il valore
economico del bene comprende tutto il profitto che da esso potrà in futuro trarsi, secondo una previsione
oggettiva.

È vero ce la quantificazione del lucro cessante, implicando un giudizio di tipo probabilistico, pone peculiari
problemi di ordine probatorio; soccorre in proposito l’espresso richiamo all’equo apprezzamento delle
circostanze del caso.

Il risarcimento non può comportare l’arricchimento della vittima. Su questo criterio si fonda la regola della
compensatio lucri cum damno, per la quale nella determinazione quantitativa del danno da risarcire vanno
detratti gli eventuali vantaggi economici che per la vittima siano derivati dal fatto lesivo.

Si intende precisare che la compensatio opera solo con riferimento ai vantaggi riconducibili al fatto dannoso
come conseguenza immediata e diretta, cioè secondo le medesime regole della cosiddetta causalità
giuridica che governano la concreta determinazione dell’equivalente da risarcire.

Negli ultimi tempi, l’istituto è stato rimesso in discussione nell’elemento dell’unicità tra fatto dannoso e
arricchimento, per il quale la compensazione è possibile solo se le conseguenze dannose e quella favorevoli
derivano dal medesimo evento  ci sono state una serie di decisioni, che seguono questo ragionamento:
dal 1223 si deduce che il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato ma non può oltrepassarlo, non
potendo costituire una fonte di arricchimento.

La novità risiede nel fatto che si considerano rilevanti anche fattori esterni al fatto del responsabile, e cioè i
benefici collaterali per la vittima che possano derivare da indennità di carattere assicurativo o previdenziale
 occorre tenere conto di due fattori; il primo è l’analisi del beneficio collaterale, per verificarne la
funzione  se tale funzione è compensatoria, quindi la stessa della responsabilità civile, il beneficio non è
cumulabile con il risarcimento.

Il secondo criterio sposta l’attenzione dalla vittima al responsabile  la compensazione, nei casi in cui è
ammessa, si applica, se e in quanto sono previsti meccanismi di surroga o rivalsa; e ciò per evitare che il
responsabile ne sia avvantaggiato, apparendo preferibile in tale evenienza favorire chi senza colpa ha
subito l’illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato.

Una corretta applicazione del principio della riparazione integrale consente poi di risolvere in modo
adeguato il problema degli interessi sul debito del risarcimento. Questi sono dovuti non automaticamente,
ma a titolo di lucro cessante: se cioè il mancato tempestivo godimento dell’equivalente monetario del bene
leso abbia determinato un pregiudizio per la vittima  gli interessi sono dovuti, e non necessariamente in
misura corrispondente al saggio legale, se risulti provato dal convenuto il pregiudizio consistente nel
mancato godimento, dalla data del fatto lesivo, del bene o del suo equivalente in denaro.

2.2 Riparazione integrale e causalità giuridica: le “conseguenze immediate e dirette”

Fondamentale integrazione del principio della riparazione integrale è quella per la quale il danno da
risarcire è tutto quello che possa considerarsi causato dal responsabile  criterio espresso dal 1223: sono
risarcibili la perdita o il mancato guadagno che siano conseguenza immediata o diretta del fatto lesivo.
Le regole della causalità giuridica integrano il principio della riparazione integrale del danno, nel senso che
delimitano, all’interno della sequenza delle possibili conseguenze pregiudizievoli del fatto lesivo, quelle da
ricondurre giuridicamente al responsabile, e quindi da risarcire integralmente.

La funzione delle regole suddette si spiega considerando che il fatto dannoso può determinare conseguenze
economiche negative ulteriori, rispetto a quelle intrinseche all’evento ingiusto e quindi alla lesione del bene
in sé considerata. Di queste conseguenze ulteriori, vanno risarcite solo quelle che si trovino in un rapporto
di regolarità o normalità causale rispetto al fatto che fonda la responsabilità.

Secondo questa interpretazione, sono ricondotte nell’area del danno risarcibile anche conseguenze
mediate e indirette del fatto lesivo, purché possano ricondursi nell’ambito delle conseguenze normali di
quel tipo di fatto, secondo un criterio di maggiore o minore distanza dal fatto dalle sue conseguenze.

La cosiddetta causalità giuridica vale a fissare il limite delle conseguenze dannose delle quali è giusto fare
carico al responsabile.

Ricorrendo alla formula delle “conseguenze immediate e dirette”, il 1223 consente di fissare il limite di
risarcibilità in base all’ordine di prossimità di tali conseguenze rispetto al fatto dannoso.

Non bisogna confondere il criterio di selezione dell’area dei danni risarcibili, qui descritto e fondato sul
1223, con quello che attiene alla natura dell’interesse leso, che si fonda invece sulla valutazione di
ingiustizia di cui al 2043  le regole causali presuppongono che sia già risolto, in senso positivo,
l’accertamento dell’ingiustizia, e svolgono la funzione di circoscrivere l’area del danno da risarcire, e non
quella di stabilire l’an del risarcimento.

2.5 Danni evitabili, danni futuri, pericolo di danni

Alle regole causali va ricondotto quanto previsto dal 1227 c. 2, per il quale il risarcimento non è dovuto per i
danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (danni evitabili). La norma si
riferisce non all’evento lesivo, ma alle ulteriori conseguenze dannose, rispetto alle quali opera l’onere del
danneggiato di non aggravarle. Tali conseguenze, se evitabili con l’ordinaria diligenza, sono
normativamente escluse dall’area del danno causato dal responsabile.

È chiara la distinzione tra le due ipotesi del 1227: c. 1 concerne il concorso del danneggiato alla causazione
dell’evento dannoso, appartiene al capitolo della causalità in fatto e determina la riduzione proporzionale
del risarcimento; c. 2 concerne la condotta del danneggiato successiva all’evento lesivo, e determina
l’esclusione del quantum risarcitorio delle conseguenze economiche negative, che non si sarebbero
verificate se la vittima avesse usato l’ordinaria diligenza per evitarle.

La diligenza del 1227 va interpretata oggi alla luce della regola di correttezza e del principio di solidarietà 
può comprendere un comportamento volto a ridurre il danno.

Un limite al principio della riparazione integrale è dato dalla regola che circoscrive il risarcimento al danno
che poteva prevedersi (danni prevedibili) nel tempo in cui è sorta l’obbligazione. Essa opera però solo
nell’ipotesi di responsabilità contrattuale, e purché l’inadempimento non dipenda dal dolo del debitore.

L’espressione danno futuro può indicare due fenomeni giuridici differenti:

- Conseguenze dannose dell’evento lesivo che si producano in un tempo successivo all’evento


medesimo. Così inteso, il danno futuro è risarcibile  es. danno da perdita di chance
- Conseguenze dannose che maturino dopo il tempo del giudizio, considerato generalmente il
momento di rilevante per la determinazione del danno risarcibile.
Il momento del giudizio non costituisce un punto terminale insuperabile per la rilevanza dei danni.
Per quelli successivi, se la sentenza non ha espressamente provveduto, si pone il problema
dell’ammissibilità di una nuova valutazione, da intendere nel senso di un nuovo giudizio volto ad
accertare l’esistenza e l’ammontare di un danno ulteriore dopo la fine del giudizio.
Se invece la sentenza ha tenuto conto del danno futuro, non pare ammissibile un nuovo giudizio,
diretto ad adeguare la decisione all’eventuale svalutazione monetaria: non si tratta infatti di un
danno ulteriore, rispetto a quello valutato nella sentenza

Un differente significato assume l’espressione danno futuro quando concerne l’eventualità, la probabilità, il
pericolo che il fatto dannoso si produca in un momento successivo. Il pericolo di danno, di per sé, esula
dall’ambito della tutela risarcitoria, ed è suscettibile di autonomi rimedi tipici o atipici.

Altra questione è però che il pericolo determini un danno attuale  viene in questione il danno cagionato
dal pericolo, risarcibile secondo le regole ordinarie, e non il danno in quanto tale.

2.4 Riparazione integrale e apprezzamento equitativo. Lo ius moderandi

Quando il danno patrimoniale sia certo, ma non sia possibile la medesima certezza sulla misura di esso, la
determinazione del risarcimento è rimessa alla valutazione equitativa del giudice.

L’equo apprezzamento del giudice concorre in tal modo alla soddisfacente applicazione del principio della
riparazione integrale.

È il caso, anzitutto, che sia impossibile provare con precisione l’ammontare del danno. L’attore ha sempre
l’onere di provare il danno come evento ingiusto e antieconomico, ma per il preciso ammontare della
perdita, la prova può essere sostituita dalla valutazione equitativa del giudice  si vuole evitare che
dall’impossibilità di provare il preciso ammontare si arrivi al diniego del risarcimento.

Analoga regola è prevista, indipendentemente dall’impossibilità di prova, per il lucro cessante  la ragione
risiede nella peculiarità di tale danno, la cui determinazione implica un giudizio di tipo probabilistico.

Le regole suddette non derogano al principio della riparazione integrale. Diversamente deve dirsi per le
ipotesi di danno cagionato in stato di necessità o dall’incapace.

La riforma del 2044 ha poi previsto che in caso di eccesso colposo sia dovuta al danneggiato un’indennità, il
cui ammontare è rimesso all’equo apprezzamento del giudice, che dovrà tenere conto anche della gravità,
delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta del danneggiato. Qui il potere di equo
apprezzamento è attribuito al giudice in relazione all’esigenza di derogare al principio.

2.5 Il risarcimento del danno patrimoniale alla salute

I criteri per la valutazione quantitativa del danno richiedono peculiari specificazioni, quando sia in
questione la lesione di beni che hanno valore economico, sulla base di una valutazione sociale tipica, ma
non hanno un prezzo di mercato al momento del fatto dannoso. Qui il danno rileva n quanto patrimoniale,
tuttavia la valutazione quantitativa non può operarsi muovendo da una nozione di differenza patrimoniale
in senso stretto, che implica il riferimento al mercato come luogo d misurazione dei valori economici  es.
danno all’ambiente, danno alla salute.

Nel caso del danno alla salute occorre distinguere tra il problema del risarcimento del danno biologico e
quello dei criteri di valutazione del danno patrimoniale alla salute, riconducibile al binomio di cui al 1223.

Per quanto concerne il danno patrimoniale, una peculiare tematica si pone con riferimento al lucro
cessante consistente nella ridotta capacità lavorativa. In alcuni casi, infatti, il danno consistente nel
mancato guadagno derivante dalla ridotta capacità lavorativa può essere misurato in denaro sulla base
delle tradizionali regole della teoria differenziale, con rifermento alla diminuzione del reddito da lavoro che
si sia concretamente verificato. Il presupposto è che un reddito da lavoro vi sia e che l’evento lesivo lo abbia
fatto venir meno o ridotto.
Qui le questioni da risolvere attengono alla determinazione del reddito da assumere quale base di calcolo
per il risarcimento, ai criteri per la riconduzione dell’entità della lesione alla riduzione della capacità
lavorativa, al rapporto tra età della vittima e calcolo del risarcimento.

Più complesso è il tema della risarcibilità delle conseguenze pregiudizievoli consistenti nella ridotta capacità
lavorativa quando, per varie ragioni, il soggetto leso non svolga attività lavorativa che sia fonte di reddito.
Qui occorre tener conto dell’oggettiva idoneità del lavoro svolto dal soggetto a essere suscettibile di
valutazione patrimoniale, ovvero della potenziale idoneità della vittima a svolgere in futuro attività
lavorative produttive di reddito. L’art. 137 del Codice delle Assicurazioni prevede, per la persona priva di un
reddito di lavoro, un risarcimento non inferiore al calcolo basato sul triplo della pensione sociale.

2.6 Risarcimento, indennità, pena privata

Dal risarcimento per equivalente vanno distinti rimedi che se ne differenziano perché presupposto della
tutela non è la reazione al danno, o perché il quantum è fissato secondo criteri diversi da quello della
riparazione del danno cagionato dal responsabile.

Nella prima ipotesi rientrano i casi nei quali un’obbligazione pecuniaria viene costituita in vista della
composizione di interessi resa necessaria dalla perdita o limitazione di un diritto, che consegue al verificarsi
di una determinata fattispecie normativa  es. immissioni intollerabili ma consentite perché rispondenti
alle esigenze della produzione  qui l’ordinamento non reagisce a un danno, da risarcire, ma alla
modificazione reciproca della sfera giuridica di due soggetti, con incremento dell’una a carico dell’altra 
l’obbligazione indennitaria discende dall’esigenza di garantire un giusto corrispettivo al soggetto la cui sfera
giuridica sia stata ristretta.

In altre ipotesi, la reazione al fatto lesivo si estrinseca in una condanna pecuniaria, il cui contenuto è
determinato dal legislatore. Si tratta di accertare se si tratta di deroghe al principio della riparazione
integrale, oppure di figure differenti, con la conseguenza dell’inapplicabilità delle regole proprie della
prima.

Vi sono anzitutto una serie di ipotesi di liquidazione legale del danno; altre volte è invece disposto per
legge il limite massimo del risarcimento: così per la responsabilità di chi esercita determinate attività  es.
albergatore.

In tema di responsabilità del produttore, il limite al risarcimento non riguarda invece il quantum, ma la
qualità dell’interesse leso  campo del risarcimento del danno  il problema è quello della legittimità
costituzionale di deroghe al regime ordinario che risultino troppo pesanti per il danneggiato; legittimità che
è stata negata più volte dalla Corte cost per norme restrittive in tema di servizi postali e telefonici.

Il principio della riparazione integrale del danno, infatti, non ha copertura costituzionale, e in casi
eccezionali il legislatore può pure ritenere equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno;
ma tale riduzione è sottoposta al controllo di ragionevolezza del giudice costituzionale.

Normale è poi il ricorso alla previsione di limiti quantitativi, inferiori all’equivalente monetario del danno,
nelle ipotesi di intervento solidaristico indennitario per perdite, che per varie ragioni non sono risarcibili
nell’ambito del sistema  es. CAP per l’intervento del Fondo di garanzia per gli incidenti stradali quando
manchi un assicuratore.

Indennità per licenziamento ingiustificato  funzione risarcitoria. In materia prevale la logica della
definizione legislativa dei parametri risarcitori nelle ipotesi di violazioni datoriali del rapporto di voro,
generalmente inferiori a quelli che deriverebbero dalla regola generale della equivalenza con il danno
subito. Si è affermata l’incostituzionalità del meccanismo risarcitorio previsto in caso di licenziamento
ingiustificato dall’art. 3 del Jobs Act, sia per la rigidità del meccanismo, sia per l’esiguità del quantum.
In altre ipotesi, invece, la determinazione legislativa del quantum dovuto è fissata secondo criteri e per
ragioni che fanno ritenere prevalente il profilo preventivo e sanzionatorio, e per le quali si può parlare,
piuttosto che di risarcimento, di pena privata con finalità riparatoria, sulla base del rilievo che la condanna
interviene anche se nel caso concreto manchi ogni danno patrimoniale.

3. Il risarcimento in forma specifica

In base al 2058 il danneggiato può chiedere, in luogo del risarcimento per equivalente, la reintegrazione in
forma specifica  è una modalità di risarcimento del danno alternativa alla condanna pecuniaria o un
mezzo di reintegrazione del diritto leso, e quindi una tutela distinta dal risarcimento?

L’attenzione suscitata dal 2058 nasce dalla sua singolarità: da un lato, una tutela di tipo specifico è
apprestata all’interno di un quadro normativo costruito invece intorno alla logica e al principio
dell’equivalenza monetaria, come criterio fondativo del risarcimento. Dall’altro lato, in assenza nel sistema
normativo di una norma generale di tutela inibitoria con funzione preventiva o di cessazione, il 2058
costituisce un rimedio specifico di portata apparentemente generale, e quindi un passaggio essenziale di
verifica della possibilità di desumere dal sistema quella norma generale di tutela inibitoria che non è
espressamente posta.

La giurisprudenza ricorre al 2058 per dare un fondamento positivo alla condanna alla remissione in pristino
o alla cessazione di un’attività lesiva, ogni volta che il giudice non riesca a trovare altro la previsione
legislativa espressa dell’uno o dell’altro rimedio.

Le vie per giungere all’inquadramento del rimedio nel sistema degli artt. 2043 ss. sono state due:

- Espungerlo dall’area del risarcimento per ricondurlo in una categoria generale di reintegrazione in
forma specifica
- Ricostruire l’intero sistema degli artt. 2043 ss., come tale da fondare un principio generale di tutela
inibitoria atipica

Il principale argomento a sostegno della prima tesi è nella difficoltà di chiarire il rapporto intercorrente tra
le due modalità di risarcimento; tuttavia, gli argomenti per collocare il rimedio ex art. 2058 nell’ambito
risarcitorio sono di tale peso da indurre a ricercare in altro modo la via per superare la suddetta difficoltà.
Depongono nel senso indicato l’argomento sistematico e letterale  norma è all’interno delle regole sulla
responsabilità per danni, e immediatamente dopo quelle che disciplinano il risarcimento per equivalente.

Nello stesso senso depongono l’argomento storico e quello comparatistico.

Non è possibile insomma dubitare che il rimedio in questione si atteggia come uno degli esiti possibili del
giudizio di responsabilità di cui agli artt. 2043 ss., e quindi come rimedio apprestato nei confronti del danno.

Il risarcimento può dunque realizzarsi non solo attraverso il pagamento dell’equivalente monetario, ma
anche con la prestazione di una cosa o di un’attività che risulti adeguata al fine di eliminare le conseguenze
dannose del fatto lesivo.

Talvolta il contenuto della prestazione riparatoria è predefinito dalla legge  es. pubblicazione della
sentenza di condanna.

3.1 Risarcimento in forma specifica e tutela inibitoria

Si è attribuita al 2058 la funzione di sede di un generale rimedio reintegrativo, e anzi di unica norma che nel
sistema consenta di fondare la tutela inibitoria atipica dei diritti. La tesi presuppone di intendere per danno
qualsivoglia situazione antigiuridica, permanente nel tempo, e per risarcimento qualsivoglia prestazione il
giudice ritenga di ordinare al fine di far cessare la predetta situazione  si è già detto come serve una
definizione di danno più circoscritta.
L’autonomia e la peculiarità della tutela contro i danni rispetto ai rimedi volti ad attuar le situazioni
soggettive o a prevenirne la violazione non risponde solo a un’esigenza di sistemazione concettuale, ma alla
differenza tra i bisogni di tutela che i due modelli tendono a soddisfare: tutela risarcitoria  si guarda
all’esistenza del danno e all’esigenza della sua rimozione; rimedi specifici  l’esigenza da soddisfare è
quella della reintegrazione o realizzazione del diritto sul bene.

Nel primo caso l’attivazione della tutela presuppone che il danneggiato provi la responsabilità del soggetto
al quale il danno va imputato; ciò che non avviene nell’altro ambito di tutela, dove non vi è questione di
responsabilità, ma di cessazione di una situazione antigiuridica in atto.

Il 2058 prevede che la riparazione del danno possa avvenire, oltre che con il pagamento di una somma di
denaro, e in alternativa attraverso una prestazione avente contenuto diverso. Il rimedio è caratterizzato
quindi da una funzione che è autonoma rispetto a quella delle tutele dirette a dare attuazione alle situazioni
soggettive, o a prevenirne la violazione.

Il risarcimento in forma specifica è soggetto alla disciplina generale della responsabilità per danni, che non
si applica invece ad altri rimedi; presuppone quindi l’esistenza di uno dei criteri normativi di responsabilità,
che è invece irrilevante nella tutela inibitoria.

3.2 Risarcimento in forma specifica e per equivalente. Impossibilità parziale ed eccessiva onerosità

Nel nostro sistema, all’unitarietà dell’obbligazione risarcitoria corrispondono due modalità del
risarcimento, il quale può realizzarsi anche mediante prestazioni aventi contenuto diverso dal pagamento
dell’equivalente in denaro della perdita subita dal danneggiato  problema del rapporto tra le due
modalità risarcitorie.

Il rimedio di cui al 058 è finalizzato a reagire, e a riparare, non al danno come differenza patrimoniale
negativa, ma al danno in senso materiale e concreto, come alterazione del bene fisico.

Il rapporto tra i due criteri di qualificazione va definito poi attraverso l’interpretazione della normativa,
affrontando il vero problema, che è quello del modo con il quale l’ordinamento governa la coesistenza di
due modalità riparatorie che affrontano il fatto dannoso da due differenti versanti, e tuttavia si pongono
come possibile contenuto della medesima obbligazione risarcitoria.

L’ordinamento risolve questa contraddizione dettando regole e criteri che garantiscano comunque, sul
versante della vittima, l’attuazione del principio della riparazione integrale del danno come equivalente
della perdita economia subita. In questo senso, il ruolo della coppia danno materiale-reintegrazione in
forma specifica, rispetto a danno patrimoniale-risarcimento per equivalente è subalterno. Il rimedio di tipo
specifico è marginale quando si tratti di reagire contro il danno, ma è significativo laddove sia in questione
non la reazione al danno, ma la cessazione di una situazione lesiva di un diritto.

La prevalenza del risarcimento per equivalente è assicurata dalle regole che il 2058 detta a proposito di
impossibilità parziale e di eccessiva onerosità per il debitore. La prima governa l’ipotesi nella quale,
attraverso la forma specifica di risarcimento, il danneggiato riceva troppo poco; la seconda quella
speculare.

Il primo dei requisiti di ammissibilità posti dal 2058 è che la forma specifica sia in tutto o in parte possibile
 la possibilità non va intesa solo con riferimento a un’impossibilità oggettiva; l’ipotesi dell’impossibilità
parziale ha una specifica rilevanza in quanto riferita alla finalità della tutela risarcitoria, che è quella di far
conseguire alla vittima la compensazione dell’intero danno subito. Se la riparazione in natura compensa
solo una parte di tale danno, la vittima ha diritto all’equivalente monetario della parte residua. Il giudizio
sulla possibilità parziale si traduce in un raffronto tra il valore del bene che la vittima consegue attraverso il
2058 e l’entità del danno, calcolata secondo i criteri economici del risarcimento per equivalente.
Può anche darsi però che per la via specifica il danneggiato riceva troppo (eccessiva onerosità), perché la
reintegrazione immette nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale
negativa cagionata dal fatto dannoso. La legge interviene per impedire che la forma specifica del
risarcimento comporti un costo troppo elevato per il responsabile, stabilendo che la reintegrazione ex 2058
non può essere concessa, se eccessivamente onerosa per il debitore. L’eccessiva onerosità sussiste quando
il sacrificio economico necessario per il risarcimento in forma specifica superi il valore da corrispondere in
base al risarcimento per equivalente in maniera eccessiva.

3.3 Il risarcimento del danno all’ambiente

Introdotto dall’art. 18 l. 349/1986. La norma prevedeva una figura peculiare di responsabilità civile,
attribuendo il diritto al risarcimento allo stato e agli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto dal fatto
lesivo. La disciplina è stata riscritta ed è ora nel TU 152/2006, norme in materia ambientale.

La normativa regola il danno consistente nell’alterazione, deterioramento o distruzione totale o parziale


dell’ambiente, e riconosce allo stato il diritto al risarcimento  configurazione del danno all’ambiente
come danno patrimoniale-collettivo, ingiusto in quanto lesivo dell’interesse della collettività al godimento
di determinate condizioni ambientali.

Il risarcimento in forma specifica comprensivo di qualsiasi misura che riporta le risorse e/o i servizi naturali
danneggiati alle o verso le condizioni originarie, è prioritario rispetto al risarcimento pecuniario, che
subentra se le misure riparatorie siano state in tutto o in parte omesse, o attuate in modo incompleto o
difforme da quanto prescritto, o risultino impossibili o eccessivamente onerose. In deroga al 2055, nel caso
di concorso di più soggetti nella compensazione del danno ciascuno risponde nei limiti della propria
responsabilità personale.

Il sistema è ulteriormente complicato dal 313, per il quale il ministro dell’ambiente può emettere
un’ordinanza, immediatamente esecutiva, con la quale ingiunge a coloro che siano risultati responsabili il
ripristino ambientale a titolo di risarcimento; in caso di inottemperanza il ministro ordinerà il pagamento di
una somma di denaro pari ai costi necessari per il completo ripristino ambientale.

Il 313 aggiunge che resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo del danno
ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a
tutela dei diritti e degli interessi lesi  la ragione della norma è che l’evento lesivo dell’ambiente, come
bene patrimoniale collettivo, può determinare danno patrimoniale o non a singoli, che sarà risarcibile
secondo le ordinarie regole della responsabilità civile.

Gli enti territoriali possono costituirsi in giudizio iure proprio, per i danni direttamente subiti, nel processo
per i reati che abbiano arrecato pregiudizi all’ambiente, e possono altresì agire in giudizio davanti al giudice
amministrativo per chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente.

4. Il risarcimento per danno non patrimoniale

Quando avviene attraverso il pagamento di una somma di denaro determina un arricchimento economico
della vittima.

Le regole giuridiche nelle quali si sostanzia il principio del risarcimento integrale del danno sono
inapplicabili per quello non patrimoniale dove manca il presupposto di quelle regole, che è la perdita
economica subita dalla vittima.

Seguendo invece la strada della riparazione integrale, la giurisprudenza si è trovata in difficoltà nel
delineare criteri lineari, determinando una situazione di confusione.
La via da seguire è quella di individuare i profili funzionali della tutela, ma emerge che tali profili sono
diversa nelle diverse figure, ancorché accomunati dall’idea della funzione satisfattoria come distinta da
quella compensativa, propria del danno patrimoniale.

A tale profilo unitario si aggiungono però, per i diversi tipi di danno non patrimoniale, funzioni diverse:
prevale quella egualitaria solidaristica per il danno biologico, mentre una funzione deterrente si
accompagna a quella satisfattoria per i diritti della personalità e assume connotati punitivi per il danno da
reato e le figure affini.

C’è da aggiungere che l’adozione di criteri funzionali non è comunque esaustiva, dal momento che non
contengono elementi oggettivi che ne consentano la traduzione in una somma di denaro, anziché in
un’altra.

4.1 Il danno alla salute

L’esigenza di uniformità e certezza del quantum risarcitorio è stata particolarmente avverta per il danno
biologico, per il quale il fondamento costituzionale e funzionale risiede nel principio di uguaglianza.

Presso alcuni tribunali, osservatori della giustizia che effettuavano monitoraggi sulle liquidazioni delle
sentenze, iniziarono a elaborare a tal fine tabelle di riferimento. I giudici milanesi adottarono il sistema a
punto variabile, nel quale l’ammontare del risarcimento è calcolato moltiplicando il grado di invalidità per
una somma di denaro che esprime il valore dl singolo punto di invalidità. Il valore del punto varia in misura
crescente in relazione alla gravità della lesione, in misura decrescente con riferimento all’età anagrafica.

Le tabelle milanesi hanno anche fissato parametri per la personalizzazione e altresì criteri orientativi per
altre tipologie.

Quanto alla personalizzazione del danno biologico, la giurisprudenza ha affermato che il giudice deve
valutare l’esistenza e rilevanza di conseguenze peculiari della lesione, riconducibili alle voci del danno
morale e di quello esistenziale.

Il metodo tabellare è stato adottato dal legislatore con la modifica degli artt. 138-139 CAP. Il significato dei
nuovi testi emerge già dalla modifica della rubrica, dove si parla di danno non patrimoniale, e non più di
danno biologico, e dalle disposizioni per la quale il quantum determinato in base alla norma è esaustivo del
risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a lesioni fisiche.

4.2 Diritti e interessi della persona

Quando il risarcimento del danno non patrimoniale derivi da lesioni di diritti o interessi diversi dalla salute,
la logica delle quantificazioni non è più unitaria, ma si differenzia alla luce dei contenuti della situazione
protetta, e delle connesse ragioni e funzioni della tutela.

In una prima categoria rientrano le figure giurisprudenziali nelle quali ratio dell’applicazione del 2059 è
simile a quella operante per la salute  es. danno da premorienza, da lesione del rapporto parentale.

In questi casi il punto di riferimento è costituito dalle voci del danno morale e di quello dinamico
relazionale.

Nelle ipotesi invece di lesione dei diritti della personalità, la giurisprudenza dà maggiore peso al profilo
satisfattivo-deterrente, e quindi all’intensità dl dolo o della colpa, alla gravità dell’offesa, ecc.

Perché l’aspetto deterrente e punitivo sia efficace, per la determinazione del quantum sembra necessario
tener conto, oltre che del grado di colpevolezza, delle condizioni economiche del responsabile.

Una funzione punitiva è presente in alcune ipotesi di espressa previsione legislativa  art. 96 c. 3 cpc, per il
quale il giudice in caso di lite temeraria, oltre al risarcimento del danno previsto, può condannare la parte
soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Assimilabile ai danni punitivi è anche considerato il 709-ter c. 2 cpc, che regola ipotesi di danno
endofamiliare.

4.3 La prova del danno non patrimoniale

L’impossibilità di provare il danno non patrimoniale fu l’argomento usato sotto i vecchi codici per negare la
risarcibilità. La giurisprudenza oggi afferma che il danno non patrimoniale deve essere allegato e provato,
secondo i principi del sistema processuale.

Si tratta di capire che cosa esattamente debba essere provato; il problema nasce dall’idea che il danno non
patrimoniale sia una conseguenza del fatto lesivo, simulando la logica del danno patrimoniale.

La giurisprudenza ricorre all’argomento dell’id quod plerumque accidit  la prova richiesta si esaurisce in
quella della lesione della situazione protetta. Non diversa è però la sostanza per gli altri tipi: l’argomento
presuntivo si sostanzia nella constatazione che quel tipo di evento lesivo determina conseguenze negative.

L’attore deve provare la lesione di una situazione soggettiva tipicamente protetta, non di aver sentito
dolore, ecc. Acquistano così senso le affermazioni giurisprudenziali secondo le quali la prova del danno non
patrimoniale è in re ipsa, anche se la giurisprudenza lo nega.

Il richiamo ricorrente è al potere di apprezzamento equitativo del giudice, di cui al 1226  risposta
insoddisfacente  il 126 non è neppure direttamente applicabile al danno non patrimoniale: per il quale
non si è di fronte a difficoltà probatorie circa l’entità di conseguenze pregiudizievoli, ma all’inesistenza
stessa di un’entità che debba essere provata nel suo preciso ammontare.

Il vero problema è quello dei criteri obiettivi idonei a sorreggere l’esercizio dell’apprezzamento equitativo
del giudice.

4.4 Principio di legalità e profili garantistici. Danni punitivi, danno non patrimoniale e Costituzione

I criteri finora discussi non contengono alcun elemento che ne consenta la traduzione oggettiva in una
somma di denaro, anziché in un’altra. Il problema dell’entità della liquidazione del danno non patrimoniale
assume però un peso crescente nell’esperienza contemporanea, a fronte del crescente ricorso alla tutela
riparatoria per danni non patrimoniali, e alla tendenza al progressivo incremento delle somme concesse a
tale titolo.

La questione assume rilievo sotto un duplice profilo: dell’uniformità di trattamento per danni eguali e del
rischio di un surplus punitivo nel concreto funzionamento della tutela.

L’esigenza di evitare il rischio di un surplus punitivo nasce dal ruolo sempre crescente che la riparazione del
danno non patrimoniale ha assunto come strumento per punire le forme di aggressione ai beni personali, in
particolare l’offesa alla reputazione e l’invasione della sfera privata a opera dei mass media. La tendenza
all’attribuzione, a titolo risarcitorio, di somme di denaro estremamente elevate potrebbe produrre una
plusvalenza di punizione, con il rischio di una limitazione di fatto della libertà di informare e criticare.

Con i punitive damages nel diritto USA, alla vittima di un illecito è attribuito un risarcimento aggiuntivo
rispetto a quello dovuto a titolo di compensazione  finalità punitiva ma sanzione pecuniaria destinata alla
vittima del danno  risarcimenti grosly eccesive sono stati ritenuti in contrato con la Cost dalla Corte
Suprema.

In Italia, l’istituto era ritenuto in contrasto con l’ordine pubblico  Cassazione, con sentenza 16601/2017
cambia questo orientamento  si ammette il riconoscimento di una sentenza statunitense di condanna a
un risarcimento punitivo.
Dopo aver constatato l’esistenza nel nostro ordinamento di fattispecie legislative che prevedono criteri di
liquidazione superiori a quelli che deriverebbero dalla regola dell’equivalenza, la Cassazione afferma che il
principio di legalità, che governa le prestazioni patrimoniali e i rimedi sanzionatori, esclude la possibilità di
applicare risarcimenti simili a quelli punitivi al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge.

Inoltre, la Cassazione indica i criteri di verifica della compatibilità di sentenze straniere con l’ordine
pubblico. Tra tali criteri è l’esigenza di limiti quantitativi del risarcimento sulla base della proporzionalità tra
risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest’ultimo e la condotta censurata.

L’esigenza suddetta sussiste anche con riferimento al quantum del risarcimento del danno non
patrimoniale, che si presenta per alcuni aspetti come il volto dei nostri danni punitivi.

Se non è sostenibile una piena equiparazione tra danni punitivi e danno non patrimoniale, è anche vero che
la finalità deterrente e punitiva è, in alcune ipotesi, comune a entrambi. Il problema del surplus punitivo
sussiste quindi anche in ordine alla quantificazione del danno non patrimoniale; il problema nasce dal
ruolo crescente che la riparazione del danno non patrimoniale ha assunto per reagire alle aggressioni ai
beni personali, come i tradizionali diritti della personalità.

La liquidazione di somme estremamente elevate può produrre una plusvalenza di punizione, e quindi di
deterrenza; assume un particolare rilievo il rischio di una eccessiva limitazione della libertà di informare e
criticare.

Alla responsabilità per danni non patrimoniali è assegnata insomma talvolta un eccesso di funzione
sanzionatoria, in assenza delle garanzie che sul piano del procedimento e dell’entità della sanzione
circondano l’esercizio della funzione punitiva dello Stato.

Coerente con questi rilievi è l’idea di una definizione legislativa dei parametri risarcitori per i diversi tipi di
danno non patrimoniale, dal momento che le valutazioni della società civile, alle quali talvolta si fa
riferimento, andrebbero affidate più al legislatore che al giudice.

Si può aggiungere che è dubbia la razionalità di un sistema nel quale la finalità di punizione e deterrenza
generale è affidata all’iniziativa di un privato, e comporta il pagamento all’attore di una somma di denaro.

4.5 La riparazione non pecuniaria del danno non patrimoniale. Rettifica, pubblicità, mero accertamento

L’ammissibilità di modalità riparatorie del danno non patrimoniale diverse dalla condanna pecuniaria è
controversa già sul piano concettuale. Da un lato si nega che beni insostituibili e infungibili, come quelli
personali, possano essere reintegrati in forma specifica; dall’altro si osserva al contrario che la riparazione
in natura appare più idonea, che non il pagamento di una somma di denaro, ad assicurare una tutela
omogenea alla natura non patrimoniale dei beni in questione.

Se è vero che il 2058 non è direttamente applicabile ai danni non patrimoniali, non pare però che
sussistano ostacoli di principio a configurare tecniche di riparazione non pecuniaria di tali danni. La
soluzione negativa muove dall’idea che funzione del risarcimento sia quella di ricostituire l’identica
situazione naturale preesistente, e che il danno non patrimoniale si esaurisca nella sfera psichica della
vittima.

Non vi è quindi ragione di ritenere che la finalità riparatoria sia conseguibile solo attraverso il pagamento di
una somma di denaro; anzi, quella finalità può in alcuni casi esprimersi più adeguatamente attraverso
modalità non pecuniarie, idonee a ripristinare la dignità della persona offesa.

La questione che va esaminata è però un’altra: se il giudice possa ordinare, accanto o in luogo della
condanna pecuniaria, misure atipiche dirette a riparare il danno non patrimoniale, al di fuori dei casi
espressamente previsti. La risposta positiva è data da chi ritiene il 2058 applicabile ai danni non
patrimoniali  soluzione non persuasiva  si è visto che la norma si applica direttamente al danno
patrimoniale, e l’ammissibilità del rimedio è subordinata a condizioni che non hanno senso per il danno non
patrimoniale, in quanto presuppongono la rilevanza economica della perdita subita dal danneggiato.
Dovrebbe parlarsi di applicazione analogica del 2058, ma vi sono dei dubbi a riguardo.

Quand’anche si ammetta in via generale l’inibitoria come rimedio atipico non sembra che tale soluzione
possa essere estesa alla riparazione in natura del danno non patrimoniale: nel primo caso si è di fronte
all’esigenza di far cessare o prevenire la violazione di un diritto, ordinando al convenuto di astenersi dalla
condotta lesiva; la seconda è una tutela successiva e succedanea, inidonea a eliminare il fatto aggressivo, e
rispetto alla quale assumono rilievo e consistenza peculiari le ragioni di garanzia della libertà del
responsabile.

Non pare quindi possa ritenersi ammissibile l’applicazione del 2058 al danno non patrimoniale, ed è da
preferirsi il ricorso all’analogia con riferimento alle norme che prevedono rimedi tipici diretti alla
riparazione del danno.

La legge prevede in effetti rimedi tipici finalizzati alla riparazione non pecuniaria del danno non
patrimoniale. Va ricordata anzitutto la rettifica  obbligo, di chi diffonda messaggi lesivi della dignità altrui
o contrari a verità, di rendere nota la risposta dell’interessato.

Una tutela riparatoria più piena è assicurata dalla pubblicità della condanna  il riconoscimento del torto
subito può assicurare all’attore una soddisfazione congrua; la divulgazione di quel riconoscimento può
eliminare le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito.

Capitolo VI: conclusioni e prospettive


1. Il paradosso della responsabilità civile: espansione quantitativa e crisi funzionale

L’inquadramento della responsabilità civile fatto finora deve fare i conti con la debordante giurisprudenza
odierna e con il legislatore postmoderno, settoriale e spesso inconsapevole o sgrammaticato.

C’è ancora da svolgere qualche rilievo sulle ragioni del “paradosso della responsabilità”  processo di
espansione e allo stesso tempo crisi dell’istituto.

Quando, negli anni ’70, si rifletteva in termini di crisi della responsabilità civile per eccesso di fini, la
prospettiva era il ridimensionamento dell’istituto, che appariva destinato a essere in parte sostituito da più
efficaci forme di compensazione sociale dei danni. La crisi fiscale dello stato riduce i margini per meccanismi
pubblicistici di compensazione dei danni e l’orientamento del diritto contemporaneo è alla privatizzazione
del controllo sociale delle attività lesive. Le tendenze neo-individualistiche conducono alla proliferazione di
nuovi diritti soggettivi che traducono in denaro il male di vivere.

Al processo di espansione si accompagnano elementi di crisi che possono essere ricondotti a due ordini di
ragioni:

- Incertezza sulle funzioni dell’istituto, oltre l’elemento comune costituito dalla finalità di assicurare,
ricorrendo determinati presupposto, la riparazione dei danni
- Limiti di efficienza e di razionalità che esso incontra nel realizzare la sua finalità essenziale di
provvedere alla riparazione dei danni, e alla tutela effettiva dei diritti

2. Compensazione dei danni, assicurazione e sicurezza sociale. La crisi dello Stato sociale e il rilancio della
responsabilità civile
Le cause della esplosione sono molteplici e complesse  incremento delle occasioni e del costo dei danni
nelle società industriali; caratteristiche nuove e diffuse dei fenomeni lesivi.

Altre due sono: trasformazione intervenuta nel modo di concepire il rapporto tra vicende individuali e
compiti della società  passaggio da concezione liberale, che lasciava le conseguenze dannose di
circostanze imprevedibili a carico della vittima, senza una ragione che ne imponesse la traslazione a un altro
soggetto. La cultura solidarista ed egualitaria delle società contemporanee tollera invece sempre meno che
il danno non venga risarcito.

Le prospettive della responsabilità civile sembrano oggi legate alla capacità dell’istituto di fornire risposte
adeguate alla duplice domanda sociale di cui si è detto.

Si è visto che la funzione di compensare le vittime dei danni è condizionata dal carattere bilaterale della
tutela aquiliana. Il costo della compensazione ricade non sulla collettività, ma su un altro soggetto privato
 limite strutturale che l’istituto oppone alle tendenze egualitarie che si affermano nell’epoca
contemporanea anche nel campo della riparazione dei danni. Se il rimedio può attivarsi solo in presenza di
ragioni e considerazioni attinenti alla posizione di chi è chiamato al risarcimento, è evidente che la
responsabilità civile discrimina tra vittime di danni eguali. Tale discriminazione esiste soprattutto a seconda
che il danno sia riconducibile o meno a una causa idonea a fondare la responsabilità.

L’intrinseca tensione dell’istituto tra istanza solidaristico-riparatoria e rilievo della posizione del
responsabile è dimostrata dalla tendenza al graduale passaggio del punto finale di incidenza del danno dal
responsabile a un soggetto ad hoc. Assicurazioni  infortuni sul lavoro, circolazione dei veicoli, strutture
sanitarie ed esercenti la professione sanitaria.

Il funzionamento effettivo della responsabilità civile è legato all’assicurazione dei potenziali responsabili;
l’intervento pubblico, sotto forma dei fondi di garanzia, costituisce poi la logica conseguenza in molti campi
della odierna complementarità tra assicurazione e responsabilità civile  oggi i giudici tengono conto
dell’esistenza di un contratto di assicurazione in capo al convenuto nel depotenziare la funzione preventiva
della responsabilità per colpa.

Lo sviluppo più coerente delle critiche alla responsabilità civile come tecnica inefficiente e irrazionale di
compensazione dei danni sarebbe piuttosto nella direzione dei metodi sociali di compensazione, alternativi
a quello aquiliano, che pongano la vittima di fronte alle istituzioni pubbliche, espressive della collettività
solidale, e non a un altro soggetto privato. Tre direttrici di questa tendenza:

- Sistemi misti nei quali la sicurezza sociale garantisce per un certo plafond o per determinati tipi di
danno, e la responsabilità civile conserva il suo ruolo, garantendo benefici supplementari o il
risarcimento per altri tipi di danno
- Sostituzione in determinati settori della responsabilità civile con tecniche di sicurezza sociale,
gestite da apparati amministrativi, che provvedono alla compensazione attraverso il pagamento
diretto alle vittime dei danni
- Abolizione responsabilità civile in tutto il campo dei danni alla persona provocati da incidenti di
qualunque natura, sostituendola con meccanismi amministrativi di compensazione

La tendenza alla sostituzione della responsabilità civile con metodi alternativi di compensazione ha subito
una battuta d’arresto che, essendo legata al dato strutturale della crisi fiscale dello Stato, non appare di
breve durata.

3. Controllo sociale e tutela dei diritti. I limiti della responsabilità civile


L’altro compito che spiega il processo espansivo della responsabilità civile risiede nella protezione di diritti
nuovi. In questo campo la funzione riparatoria sembra passare in secondo piano rispetto ad altre finalità
che si assegnano al giudizio aquiliano: garantire un controllo sociale nei confronti di determinate attività
che, attraverso il richiamo al 2 Cost, solo attraverso la tutela aquiliana entrano a far parte del novero delle
situazioni giuridicamente rilevanti. Il risarcimento del danno è qui funzionale a effetti di monito sociale e
prevenzione.

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