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RESPONSABILITA’ CIVILE
di Aldo P. Benedetti
1) Premessa.
Come noto la regola generale dell’art. 2043 c.c. si compone di diversi elementi costitutivi, tra
i quali abbiamo il nesso di causalità. Infatti nel giudizio di responsabilità che si svolge in base
all’art. 2043 c.c. (ma in questo senso considerazioni analoghe valgono per tutte le previsioni
normative speciali di responsabilità, siano esse disciplinate nel codice civile, che in fonte
extracodice) è necessario accertare che sussista un collegamento causale tra la condotta dolosa
o colposa del danneggiante e il danno ingiusto. In una prospettiva parzialmente diversa si nota
come si sia soliti riportare al profilo della causalità le valutazioni circa l’estensione del danno
risarcibile: la determinazione delle conseguenze che devono essere risarcite viene effettuata
riguardando il collegamento giuridico tra le stesse ed il fatto dannoso.
In questo senso si è dunque soliti distinguere tra causalità materiale e causalità giuridica. Con
causalità materiale (o causalità in fatto) si indica il collegamento materiale tra la condotta del
danneggiante ed evento dannoso. Invece con l’espressione causalità giuridica ci si riferisce ad
una fase ulteriore e successiva, che consiste nella ricerca del collegamento giuridico tra il fatto
dannoso e le sue conseguenze, al fine di stabilire i confini dell’area del danno risarcibile.
La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica può allora essere sintetizzata in due
diversi interrogativi cui risponderebbero queste due fasi dell’accertamento causale. La
causalità materiale servirebbe a rispondere alla domanda: la condotta del danneggiante può
aver provocato quell’evento lesivo? Mentre la causalità giuridica risolverebbe il quesito se
quell’evento lesivo – provocato dalla condotta del danneggiante – possa aver prodotto quelle
conseguenze dannose. Ovviamente – come si vedrà in seguito – nelle ipotesi di responsabilità
per omissione (colposa) i termini del problema mutano, visto che la valutazione (ipotetica) cui
l’interprete è chiamato non concerne una condotta attiva ma una omissione, quindi una
mancata azione. In questo senso la domanda cui l’accertamento del nesso di causalità
(materiale) deve rispondere, in caso di illecito omissivo, è circa l’idoneità dell’azione dovuta
dal danneggiante ma non tenuta in concreto ad impedire l’evento lesivo.
Il nesso di causalità è elemento strutturale della responsabilità da fatto illecito non solo per
quanto riguarda l’ambito di applicazione della regola generale dell’art. 2043 c.c., ma anche in
tutte le ipotesi normative speciali di responsabilità. Infatti, come risulterà più chiaro nello
studio delle singole fattispecie, in ogni caso l’accertamento del nesso causale è condizione
imprescindibile per il giudizio di responsabilità; tutte le norme dettate negli articoli 2047 –
2054 c.c. presuppongono che sussista un legame causale tra danno ed un certo atto o fatto.
Peraltro la diversità tra gli articoli 2047 – 2054 c.c. e la regola generale dell’art. 2043 c.c.
influisce anche sull’accertamento del nesso causale: nelle ipotesi normative speciali di
responsabilità la ricostruzione della causalità materiale avviene spesso attraverso meccanismi
semplificati e, in qualche misura, deterministici. Questa semplificazione dell’accertamento del
nesso causale è conseguenza del fatto che spesso nelle ipotesi normative speciali la
responsabilità non è direttamente ricollegata ad una condotta propria del danneggiante (basti
pensare ai casi degli articoli 2049, 2051, 2052, 2053, 2054 3° e 4° comma, c.c.).
In questo senso si può osservare fin da ora come l’accertamento della causalità nelle diverse
ipotesi di responsabilità extracontrattuale non è astratto procedimento di ricostruzione
scientifica degli eventi che hanno determinato il verificarsi di un evento dannoso. Il giudice
non è uno scienziato chiamato ad investigare in senso naturalistico la genesi di un certo
evento; il giudice deve ricercare, parafrasando un’espressione frequentemente utilizzata nei
paesi anglosassoni, la causa prossima giuridicamente rilevante di un illecito.
Piuttosto preme sottolineare come anche la ricostruzione del nesso causale operata dal giudice
(e le connesse questioni probatorie) risulti condizionata sia dalla funzione generale che si
attribuisce alla responsabilità civile, sia dalle peculiarità che le singole previsioni normative
speciali presentano. Una concezione della responsabilità quale strumento sanzionatorio delle
condotte illecite tenute dai consociati implicava una valutazione più rigorosa in ordine
all’accertamento del nesso causale; di contro, in questa fase storica, la casualità in ambito
civile sembra essere ispirata primariamente da istanze di tutela del danneggiato (alla luce della
prevalenza che la funzione compensativa della responsabilità civile ha assunto), con l’utilizzo
di criteri probabilistici favorevoli alle vittime (il criterio del “più probabile che non”) e vere e
proprie inversioni dell’onere probatorio in ordine alla causalità. In questo ultimo senso è
emblematico il caso della responsabilità medica dove – proprio per favorire le vittime di
presunti casi di medical malpractice – le Corti ritengono che, soprattutto nelle ipotesi di
interventi di routine con esiti infausti, non incomba sulla vittima provare l’esistenza di un
nesso eziologico tra errore del medico e danno, ma sia il medico o la struttura sanitaria a
dover dimostrare che è intervenuto un evento estraneo ed imprevedibile in grado di cagionare
il danno. In queste vicende, con descrizione suggestiva ed evocativa, si è soliti affermare che
la prova della causalità dovrebbe rispondere ad un criterio di “vicinanza alla prova”: risulta
allora evidente come una certa scelta interpretativa generale (in questo caso quella di
ricostruire l’istituto della responsabilità civile nella sua dimensione di strumento di tutela
delle vittime) comporta una chiara influenza sui profili causali.
2.2) Accertamento del nesso causale e leggi scientifiche. Verso l’autonomia dal diritto
penale.
Il problema della causalità nell’illecito ha assunto una nuova dimensione a partire dagli anni
’80. Infatti è da quel momento, almeno per quanto riguarda l’ordinamento italiano, che è
iniziato un processo progressivo che ha portato la giurisprudenza e la dottrina ad affermare
l’autonomia dell’accertamento causale in ambito civile rispetto alle acquisizioni proprie del
diritto penale; tale processo si è accompagnato ad una diversa considerazione della causalità,
che tenga conto del mutato quadro di conoscenze scientifiche proprio della nostra epoca.
La consapevolezza circa la necessità di impostare il problema della causalità alla luce delle
acquisizioni della scienza moderna può essere ricondotta, nel nostro paese, alla fondamentale
opera del penalista Federico Stella (F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel
diritto penale, Giuffrè, Milano, 1975), che ha elaborato la nota teoria della “sussunzione sotto
leggi scientifiche”. La ricostruzione del nesso di causalità operata da Stella prendeva le mosse
dai sempre più frequenti casi in cui la ricostruzione del nesso eziologico si fronteggiava con le
complesse vicende tipiche di una società moderna ed industriale: emblematiche sono le
vicende di eventi dannosi causati da agenti inquinanti, chimici o biologici. In queste ipotesi il
tema causale non può più essere affrontato alla luce di criteri quali quelli della causalità
adeguata o della teoria della condicio sine qua non, che si rivelano assolutamente inadeguati.
Il giurista, secondo Stella, dovrà necessariamente rivolgersi alle scienze naturali, per poter
comprendere e valutare queste ipotesi, alla luce delle conoscenze che proprio dalle scienze
sperimentali è possibile ricavare. In questo senso si può parlare della necessità che la
spiegazione causale degli eventi (soprattutto delle ipotesi più complesse e dubbie) trovi
giustificazione attraverso la copertura di leggi scientifiche atte a spiegare le vicende: la
singola fattispecie deve risultare sussumibile all’interno di una legge scientifica generale.
Questo modello ha avuto una notevole influenza, sia nella giurisprudenza penale che in quella
civile (tra le molte: Cass. pen. 25 novembre 2004, n. 11977, che sottolinea la necessità che il
giudice “concretizzi” sul caso oggetto di giudizio la legge scientifica; Cass. civ. 18 aprile
2005, n. 7997).
Il riferimento alle leggi scientifiche di copertura non risolve però tutti i problemi che devono
essere affrontati in tema di causalità. In primo luogo perché le leggi scientifiche sono
essenzialmente di tipo astratto e probabilistico, quindi devono essere “utilizzate” dal giudice
per risolvere il caso concreto. In questo senso le scienze moderne rappresentano una vera e
propria sfida per il giurista, dal momento che si viene a creare un attrito tra la richiesta di
certezza che è propria del diritto e l’indicazione di indici di probabilità che è tipica delle
scienze.
Secondariamente perché, proprio per l’utilizzo delle leggi scientifiche, impone di prestare
particolare attenzione alla descrizione dell’evento. Infatti la ricerca della legge scientifica che
possa spiegare l’evento, così come la corretta ricostruzione della causalità di un danno,
muovono da una adeguata “descrizione dell’evento”. Ad esempio, si può osservare come non
sia equivalente, ai fini della ricostruzione causale, descrivere il medesimo evento (morte per
cancro polmonare) riferendosi unicamente all’esposizione della vittima alle sostanze tossiche
impiegate nello stabilimento industriale accanto al quale ha vissuto per anni, oppure
ricordando che la vittima era anche fumatore, o menzionando anche la ritardata diagnosi della
malattia per negligenza del medico-radiologo. È evidente come una descrizione
eccessivamente semplificata dell’evento (ad esempio: Tizio, vissuto per 20 anni accanto
all’industria chimica Alfa, contraeva un carcinoma polmonare) possa portare ad esiti assai
diversi circa la sussistenza del nesso causale rispetto ad una descrizione accurata (ad esempio:
Tizio, fumatore abituale di circa 15 sigarette al dì per 25 anni, vissuto per 20 anni accanto
all’industria chimica Alfa, si sottoponeva ad esami radiografici presso la clinica Salus, dove il
dottor Caio, per negligenza, non diagnosticava la presenza di noduli verosimilmente cancerosi
al polmone destro, ed in seguito decedeva per carcinoma polmonare). Infatti, mentre nel
primo esempio riportato sarebbe relativamente semplice provare la sussistenza del nesso
causale tra attività inquinante dell’industria chimica e decesso della vittima, in base ad una
ipotetica legge scientifica che affermasse la correlazione tra gli agenti chimici utilizzati
dall’industria ed una certa patologia, viceversa la medesima legge scientifica sarebbe più
difficile da applicare (e più difficilmente condurrebbe ad esiti significativi in un giudizio) nel
secondo esempio riportato.
La caratteristica tipica delle leggi scientifiche – cioè di essere formulate in termini
probabilistici – consente di affrontare l’argomento del conseguimento di una (certa)
autonomia del giudizio di accertamento causale in ambito civile rispetto a quello penale, che
ha portato in tempi recenti la stessa Corte di Cassazione a sottolineare questo aspetto. Infatti,
attesa la diversa funzione propria del diritto penale e del rimedio risarcitorio della
responsabilità civile, anche l’accertamento del nesso di causalità avverrà diversamente. In
questo senso si può affermare che mentre in ambito penale deve essere fornita la prova “al di
là di ogni ragionevole dubbio” (e tale assunto vale anche in ordine alla causalità), di contro
quando il giudizio riguarda la responsabilità civile è sufficiente la regola del “più probabile
che non”. In termini numerici si può semplificare dicendo che nel giudizio penale la prova del
legame causale deve essere fornita al 100% (circa), mentre nel giudizio civile è sufficiente il
51%. Emblematica è in tal senso la vicenda tutta a stelle e strisce di O.J. Simpson, assolto nel
giudizio penale e condannato al risarcimento dei danni in quello civile.
In questa prospettiva si comprende come la causalità in ambito civile abbia raggiunto una
certa qual indipendenza dal diritto penale, proprio per la funzione diversa che i due giudizi
svolgono. Le decisioni civili, pur continuandosi a riferire a livello declamatorio alle norme
degli artt. 40 e 41 c.p., sono infatti riferite ad un livello di probabilità “logico-scientifica” che
sia “adeguato” ma non assoluto come nel processo penale. Questo perché la funzione della
responsabilità civile, essenzialmente compensatoria, non è quella della responsabilità penale,
che richiede il massimo grado di certezza possibile per emanare una condanna.
3) La causalità giuridica.
Il problema, che si è sopra riportato, della valutazione del suicidio della vittima nell’iter
causale permette di affrontare la seconda dimensione della causalità, la c.d. causalità
giuridica. Come si è ricordato la causalità giuridica rappresenta la seconda fase
dell’accertamento causale, quella che mira a determinare l’area del danno risarcibile, cioè
quali sono le conseguenze pregiudizievoli che meritano di essere risarcite.
La seconda fase dell’accertamento causale è disciplinata da due norme che sono dettate in
materia di responsabilità contrattuale (artt. 1223 e 1227 c.c.) e che sono richiamate in ambito
aquiliano dall’art. 2056 c.c. Del concorso di colpa del danneggiato (art. 1227, 1° comma, c.c.)
già si è accennato e si diffusamente si tratterà in seguito. In questa sede l’attenzione si
soffermerà pertanto sull’art. 1223 c.c., che stabilisce che il danno risarcibile comprende sia la
perdita subito che il mancato guadagno che siano conseguenza immediata e diretta del fatto
lesivo e sull’art. 1227, 2° comma, c.c. che afferma la non risarcibilità di quei danni che il
danneggiato “avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.
L’art. 1223 c.c. è norma che ha origine nell’area della responsabilità contrattuale con il fine di
consentire l’individuazione e la limitazione del danno risarcibile. La norma infatti addossa al
responsabile solo quei danni che rappresentano una conseguenza immediata e diretta del fatto
illecito. Queste indicazioni sono state interpretate in modo abbastanza elastico. Secondo
l’opinione diffusa tra gli interpreti il collegamento causale tra la condotta e le conseguenze
dovrebbe – in questo ambito – essere governato da un criterio di “regolarità causale”: quindi
dovrebbero essere risarcibili non solamente i danni che siano conseguenza immediata e
diretta, ma anche quelli che rientrano tra le conseguenza normali e ordinarie del fatto, pur
rappresentando dei danni “indiretti e mediati”.
Al di là dell’analisi di formule astratte il dato che emerge chiaramente dalla prassi applicativa
delle Corti va nella direzione di un utilizzo elastico e non restrittivo di questi criteri, al fine di
consentire – magari senza esplicite affermazioni in tal senso – una tutela ampia ed effettiva a
favore delle vittime. Il fine essenzialmente compensativo assunto dalla responsabilità civile,
accompagnato da un evidente favor nei confronti del danneggiato, ha condizionato spesso
anche le valutazioni giurisprudenziali in ordine alla causalità materiale. Il caso (nella
giurisprudenza di legittimità: Cass. 24 aprile 2001, n. 6023) della responsabilità
dell’automobilista per l’epatite contratta dal ferito in un incidente stradale, epatite cagionata
da una trasfusione di sangue durante il ricovero è emblematico: attraverso l’allargamento del
concetto di “conseguenze immediate e dirette” i Giudici riescono a risarcire danni che
altrimenti rischierebbero di restare in capo alla vittima. Soprattutto emerge come nella
soluzione delle controversie le Corti si rifacciano spesso ad un “linguaggio della causalità”
per nascondere esigenze diverse, in primo luogo legate all’allocazione dei costi del danno e di
scelta del soggetto più adatto a sostenere tali costi.
Al problema della causalità giuridica si è soliti ricondurre anche il problema delle c.d.
“vittime secondarie”: il caso tipico è quello delle conseguenze pregiudizievoli riportate dal
familiare di una vittima che abbia riportato gravissimi lesioni fisiche. La giurisprudenza, che
per lungo tempo ha negato la risarcibilità di questi pregiudizi, è ormai costante nel consentire
il risarcimento di tali danni, sull’assunto che si tratta di conseguenze dirette legate all’evento
dannoso della vittima “primaria”, accertabili in base ad un criterio di causalità giuridica
conforme all’id quod plerumque accidit.
L’art. 1227, 2° comma, c.c. esclude invece dai danni risarcibili quei danni “che il creditore
avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”; sarebbe questa norma manifestazione
dei principi generali di correttezza e buona fede. Mentre il primo comma della norma si
riferisce all’intervento del danneggiato nel momento di “produzione” del danno, viceversa
nell’ipotesti disciplinata dal secondo comma il danno è interamente imputabile alla condotta
del danneggiante, ma il comportamento successivo del danneggiato ha contributo ad
aggravare le conseguenze del danno stesso. Basti pensare all’ipotesi che il danneggiato non
provveda a far riparare un suo bene danneggiato dall’illecito altrui provocando, con la propria
mancata diligenza, ulteriori conseguenze negative. In questo senso dovrebbe anche emergere
chiaro il differente ambito di applicazione dei due commi dell’art. 1227 c.c., riferendosi il
primo alla fase della produzione del danno ed il secondo al momento, cronologicamente
seguente, della concreta manifestazione delle conseguenze dell’evento che si è già verificato.
Il legislatore ha ritenuto allora – per quanto vi siano dubbi e divergenze intorno all’effettivo
fondamento della previsione normativa – che questi danni ulteriori non dovessero essere
imputati al danneggiante, in forza di una ratio che mira a non trasferire sul responsabile
conseguenze pregiudizievoli che risultano addebitabili alla condotta del danneggiato stesso,
che si sviluppano cioè al di fuori della sfera di controllo del soggetto individuato quale
responsabile.