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IL NESSO DI CAUSALITA’ NELLA

RESPONSABILITA’ CIVILE

di Aldo P. Benedetti

Sommario: 1) Premessa. 2) Il nesso di causalità materiale. 2.1) Le principali teorie


penalistiche di ricostruzione del nesso causale. 2.2) Accertamento del nesso causale e leggi
scientifiche. Verso l’autonomia dal diritto penale. 2.3) Le concause: tra interruzione del nesso
causale e fattori irrilevanti. 2.4) Il nesso di causalità negli illeciti omissivi. 3) La causalità
giuridica.

1) Premessa.
Come noto la regola generale dell’art. 2043 c.c. si compone di diversi elementi costitutivi, tra
i quali abbiamo il nesso di causalità. Infatti nel giudizio di responsabilità che si svolge in base
all’art. 2043 c.c. (ma in questo senso considerazioni analoghe valgono per tutte le previsioni
normative speciali di responsabilità, siano esse disciplinate nel codice civile, che in fonte
extracodice) è necessario accertare che sussista un collegamento causale tra la condotta dolosa
o colposa del danneggiante e il danno ingiusto. In una prospettiva parzialmente diversa si nota
come si sia soliti riportare al profilo della causalità le valutazioni circa l’estensione del danno
risarcibile: la determinazione delle conseguenze che devono essere risarcite viene effettuata
riguardando il collegamento giuridico tra le stesse ed il fatto dannoso.
In questo senso si è dunque soliti distinguere tra causalità materiale e causalità giuridica. Con
causalità materiale (o causalità in fatto) si indica il collegamento materiale tra la condotta del
danneggiante ed evento dannoso. Invece con l’espressione causalità giuridica ci si riferisce ad
una fase ulteriore e successiva, che consiste nella ricerca del collegamento giuridico tra il fatto
dannoso e le sue conseguenze, al fine di stabilire i confini dell’area del danno risarcibile.
La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica può allora essere sintetizzata in due
diversi interrogativi cui risponderebbero queste due fasi dell’accertamento causale. La
causalità materiale servirebbe a rispondere alla domanda: la condotta del danneggiante può
aver provocato quell’evento lesivo? Mentre la causalità giuridica risolverebbe il quesito se
quell’evento lesivo – provocato dalla condotta del danneggiante – possa aver prodotto quelle
conseguenze dannose. Ovviamente – come si vedrà in seguito – nelle ipotesi di responsabilità
per omissione (colposa) i termini del problema mutano, visto che la valutazione (ipotetica) cui
l’interprete è chiamato non concerne una condotta attiva ma una omissione, quindi una
mancata azione. In questo senso la domanda cui l’accertamento del nesso di causalità
(materiale) deve rispondere, in caso di illecito omissivo, è circa l’idoneità dell’azione dovuta
dal danneggiante ma non tenuta in concreto ad impedire l’evento lesivo.
Il nesso di causalità è elemento strutturale della responsabilità da fatto illecito non solo per
quanto riguarda l’ambito di applicazione della regola generale dell’art. 2043 c.c., ma anche in
tutte le ipotesi normative speciali di responsabilità. Infatti, come risulterà più chiaro nello
studio delle singole fattispecie, in ogni caso l’accertamento del nesso causale è condizione
imprescindibile per il giudizio di responsabilità; tutte le norme dettate negli articoli 2047 –
2054 c.c. presuppongono che sussista un legame causale tra danno ed un certo atto o fatto.
Peraltro la diversità tra gli articoli 2047 – 2054 c.c. e la regola generale dell’art. 2043 c.c.
influisce anche sull’accertamento del nesso causale: nelle ipotesi normative speciali di
responsabilità la ricostruzione della causalità materiale avviene spesso attraverso meccanismi
semplificati e, in qualche misura, deterministici. Questa semplificazione dell’accertamento del
nesso causale è conseguenza del fatto che spesso nelle ipotesi normative speciali la
responsabilità non è direttamente ricollegata ad una condotta propria del danneggiante (basti
pensare ai casi degli articoli 2049, 2051, 2052, 2053, 2054 3° e 4° comma, c.c.).
In questo senso si può osservare fin da ora come l’accertamento della causalità nelle diverse
ipotesi di responsabilità extracontrattuale non è astratto procedimento di ricostruzione
scientifica degli eventi che hanno determinato il verificarsi di un evento dannoso. Il giudice
non è uno scienziato chiamato ad investigare in senso naturalistico la genesi di un certo
evento; il giudice deve ricercare, parafrasando un’espressione frequentemente utilizzata nei
paesi anglosassoni, la causa prossima giuridicamente rilevante di un illecito.
Piuttosto preme sottolineare come anche la ricostruzione del nesso causale operata dal giudice
(e le connesse questioni probatorie) risulti condizionata sia dalla funzione generale che si
attribuisce alla responsabilità civile, sia dalle peculiarità che le singole previsioni normative
speciali presentano. Una concezione della responsabilità quale strumento sanzionatorio delle
condotte illecite tenute dai consociati implicava una valutazione più rigorosa in ordine
all’accertamento del nesso causale; di contro, in questa fase storica, la casualità in ambito
civile sembra essere ispirata primariamente da istanze di tutela del danneggiato (alla luce della
prevalenza che la funzione compensativa della responsabilità civile ha assunto), con l’utilizzo
di criteri probabilistici favorevoli alle vittime (il criterio del “più probabile che non”) e vere e
proprie inversioni dell’onere probatorio in ordine alla causalità. In questo ultimo senso è
emblematico il caso della responsabilità medica dove – proprio per favorire le vittime di
presunti casi di medical malpractice – le Corti ritengono che, soprattutto nelle ipotesi di
interventi di routine con esiti infausti, non incomba sulla vittima provare l’esistenza di un
nesso eziologico tra errore del medico e danno, ma sia il medico o la struttura sanitaria a
dover dimostrare che è intervenuto un evento estraneo ed imprevedibile in grado di cagionare
il danno. In queste vicende, con descrizione suggestiva ed evocativa, si è soliti affermare che
la prova della causalità dovrebbe rispondere ad un criterio di “vicinanza alla prova”: risulta
allora evidente come una certa scelta interpretativa generale (in questo caso quella di
ricostruire l’istituto della responsabilità civile nella sua dimensione di strumento di tutela
delle vittime) comporta una chiara influenza sui profili causali.

2) Il nesso di causalità materiale.


Per cercare di fornire alcune utili indicazioni a chi si vuole addentrare nelle problematiche
causali – proprio considerando il quadro estremamente articolato che si è innanzi tracciato –
converrà prendere le mosse dal problema della ricostruzione della c.d. causalità materiale,
ovvio punto di partenza in materia. È questo infatti uno degli aspetti della causalità nel quale
maggiore è stata l’evoluzione giurisprudenziale e il dibattito dottrinale, che si sono sviluppati
a partire dalle acquisizioni proprie del diritto penale fino a giungere ad una autonoma
ricostruzione in ambito civile.
Il forte e costante riferimento al diritto penale in ordine alla tematica causale è derivata da due
differenti ragioni. In primo luogo in virtù del silenzio del codice civile sul punto; l’art. 2043
c.c. (come pure tutte le altre ipotesi normative speciali) dà per presupposto (e quindi risolto)
l’accertamento del nesso causale. È stato, quindi, naturale rivolgersi al diritto penale, dove gli
artt. 40 e 41 c.p. sono esplicitamente dedicati all’argomento, pur non fornendo risposte
univoche e definitive. In secondo luogo il riferimento alla causalità penale è riconducibile alla
lunga (ancorché ormai superata) sudditanza teorico-ricostruttiva che la responsabilità da fatto
illecito ha avuto nei confronti del diritto penale, proprio alla luce della considerazione in
termini essenzialmente sanzionatori della responsabilità civile.

2.1) Le principali teorie penalistiche di ricostruzione del nesso causale.


Le principali teorie elaborate dalla scienza penalistica e che hanno avuto influenza e riscontro
in ambito civile sono quelle della condicio sine qua non e quella della causalità adeguata.
Secondo la teoria della condicio sine qua non (che troverebbe il proprio fondamento nell’art.
40 c.p.) tutti gli antecedenti senza i quali l’evento non si sarebbe verificato devono essere
considerati causa di esso, con il conseguente corollario della equivalenza delle concause nella
produzione di un fatto illecito. Questa teoria – elaborata dal celebre criminalista tedesco
Maximilian von Buri nel XIX secolo – concepisce la causalità in termini logico-naturalistici,
per cui deve considerarsi causa ogni antecedente senza il quale non si sarebbe verificato il
risultato; quindi ai fini del giudizio di responsabilità è sufficiente che l’agente abbia realizzato
una condizione qualsiasi dell’evento. L’apprezzamento del nesso di causalità alla luce di
questa teoria deve essere operato ex post attraverso una doppia formula di valutazione: la
condotta è causa dell’evento solo se l’evento non si sarebbe verificato senza di essa (formula
positiva), la condotta non è causalmente rilevante quando l’evento si sarebbe verificato anche
senza di essa (formula negativa). È evidente come la teoria della condicio sine qua non
presenti dei notevoli limiti, soprattutto dovuti al fatto che in questo modo è possibile
individuare un numero di cause praticamente infinito, con esiti paradossali e notevolmente
problematici per le concrete finalità che il diritto deve perseguire: l’esempio classico
dell’omicidio compiuto mediante un’arma da fuoco, del quale potrebbero essere ritenute
concause la vendita dell’arma, la sua produzione, la fusione del ferro, l’estrazione dei minerali
necessari, e via dicendo, è emblematico delle debolezza di questa teoria.
Per questo motivo, prendendo le mosse da un’interpretazione teleologica dell’art. 41 c.p., sia
in dottrina che in giurisprudenza si è tentato di elaborare dei correttivi per limitare la
straordinaria capacità espansiva della teoria condizionalistica. Questi tentativi sono assai
numerosi e non sarebbe proficuo riportarli tutti in questa sede (per una panoramica efficace e
sintetica si rimanda a M. Capecchi, Il nesso di causalità, CEDAM, Padova, 2005, 2° ed.).
Converrà soffermarsi sulle teorie dagli esiti più significativi: soprattutto sulla teoria della
causalità adeguata (o della regolarità causale), ma merita almeno un cenno anche quella della
causalità umana.
La teoria della causalità adeguata (o della regolarità causale), elaborata originariamente da
von Kries quale alternativa alla teoria della condicio sine qua non, è quella che ha avuto
maggior successo e conseguenze applicative. Secondo questa ricostruzione il criterio di
accertamento del nesso causale è quello per cui ciascuno è responsabile soltanto delle
conseguenze della propria condotta che appaiono prevedibili al momento nel quale ha agito,
escludendosi la responsabilità per le conseguenze assolutamente atipiche che si dovessero
verificare. Questa teoria mira quindi a correggere l’eccessiva ampiezza di cause rilevanti che
individua la teoria condizionalistica attraverso un giudizio di “adeguatezza causale”. Il
problema diviene allora su quali basi valutare l’adeguatezza causale, anche in considerazione
della possibile commistione tra profili causali e aspetti propri dell’elemento soggettivo. Al
riguardo sono state individuate tre alternative: la tesi originaria di von Kries, di un giudizio ex
ante ed in concreto (il giudizio di prevedibilità si deve svolgere in base alle circostanze di
fatto che il soggetto conosceva o avrebbe dovuto conoscere nel momento in cui ha agito, con
giudizio da compiersi secondo le migliori conoscenze scientifiche); la tesi di Thon, di un
giudizio dal punto di vista dell’uomo medio (valutando tutte le circostanze che possono essere
conosciute dalla generalità degli uomini); la tesi più rigorosa di Rumelin, per cui il giudizio
deve essere oggettivo ed ex post (tenendo in considerazione tutte le circostanze in concreto
esistenti, anche se conosciute solo in seguito). Questa teoria, che pure ha ricevuto numerose
critiche, ha avuto – ed ha tuttora – notevole rilevanza nella giurisprudenza, risultando molto
applicata sia in ambito civile che penale.
La teoria della causalità umana, elaborata dal penalista italiano Antolisei, si riferisce al
problema causale considerando l’uomo come titolare di una sfera “di signoria”, nel cui ambito
può, mediante la propria volontà, “inserirsi nel processo causale ed imprimere ad esso una
direzione desiderata”. Per Antolisei quindi due sono gli elementi che devono sussistere perché
si possa avere: uno positivo che sarebbe rappresentato dal fatto che l’uomo con la sua azione
abbia posto in essere una condizione dell’evento ed uno negativo consistente nel mancato
intervento di fattori eccezionali e rarissimi. Peraltro questa importante teoria ha rappresentato
– in ultima istanza – una lettura più articolata e raffinata della teoria della causalità adeguata.

2.2) Accertamento del nesso causale e leggi scientifiche. Verso l’autonomia dal diritto
penale.
Il problema della causalità nell’illecito ha assunto una nuova dimensione a partire dagli anni
’80. Infatti è da quel momento, almeno per quanto riguarda l’ordinamento italiano, che è
iniziato un processo progressivo che ha portato la giurisprudenza e la dottrina ad affermare
l’autonomia dell’accertamento causale in ambito civile rispetto alle acquisizioni proprie del
diritto penale; tale processo si è accompagnato ad una diversa considerazione della causalità,
che tenga conto del mutato quadro di conoscenze scientifiche proprio della nostra epoca.
La consapevolezza circa la necessità di impostare il problema della causalità alla luce delle
acquisizioni della scienza moderna può essere ricondotta, nel nostro paese, alla fondamentale
opera del penalista Federico Stella (F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel
diritto penale, Giuffrè, Milano, 1975), che ha elaborato la nota teoria della “sussunzione sotto
leggi scientifiche”. La ricostruzione del nesso di causalità operata da Stella prendeva le mosse
dai sempre più frequenti casi in cui la ricostruzione del nesso eziologico si fronteggiava con le
complesse vicende tipiche di una società moderna ed industriale: emblematiche sono le
vicende di eventi dannosi causati da agenti inquinanti, chimici o biologici. In queste ipotesi il
tema causale non può più essere affrontato alla luce di criteri quali quelli della causalità
adeguata o della teoria della condicio sine qua non, che si rivelano assolutamente inadeguati.
Il giurista, secondo Stella, dovrà necessariamente rivolgersi alle scienze naturali, per poter
comprendere e valutare queste ipotesi, alla luce delle conoscenze che proprio dalle scienze
sperimentali è possibile ricavare. In questo senso si può parlare della necessità che la
spiegazione causale degli eventi (soprattutto delle ipotesi più complesse e dubbie) trovi
giustificazione attraverso la copertura di leggi scientifiche atte a spiegare le vicende: la
singola fattispecie deve risultare sussumibile all’interno di una legge scientifica generale.
Questo modello ha avuto una notevole influenza, sia nella giurisprudenza penale che in quella
civile (tra le molte: Cass. pen. 25 novembre 2004, n. 11977, che sottolinea la necessità che il
giudice “concretizzi” sul caso oggetto di giudizio la legge scientifica; Cass. civ. 18 aprile
2005, n. 7997).
Il riferimento alle leggi scientifiche di copertura non risolve però tutti i problemi che devono
essere affrontati in tema di causalità. In primo luogo perché le leggi scientifiche sono
essenzialmente di tipo astratto e probabilistico, quindi devono essere “utilizzate” dal giudice
per risolvere il caso concreto. In questo senso le scienze moderne rappresentano una vera e
propria sfida per il giurista, dal momento che si viene a creare un attrito tra la richiesta di
certezza che è propria del diritto e l’indicazione di indici di probabilità che è tipica delle
scienze.
Secondariamente perché, proprio per l’utilizzo delle leggi scientifiche, impone di prestare
particolare attenzione alla descrizione dell’evento. Infatti la ricerca della legge scientifica che
possa spiegare l’evento, così come la corretta ricostruzione della causalità di un danno,
muovono da una adeguata “descrizione dell’evento”. Ad esempio, si può osservare come non
sia equivalente, ai fini della ricostruzione causale, descrivere il medesimo evento (morte per
cancro polmonare) riferendosi unicamente all’esposizione della vittima alle sostanze tossiche
impiegate nello stabilimento industriale accanto al quale ha vissuto per anni, oppure
ricordando che la vittima era anche fumatore, o menzionando anche la ritardata diagnosi della
malattia per negligenza del medico-radiologo. È evidente come una descrizione
eccessivamente semplificata dell’evento (ad esempio: Tizio, vissuto per 20 anni accanto
all’industria chimica Alfa, contraeva un carcinoma polmonare) possa portare ad esiti assai
diversi circa la sussistenza del nesso causale rispetto ad una descrizione accurata (ad esempio:
Tizio, fumatore abituale di circa 15 sigarette al dì per 25 anni, vissuto per 20 anni accanto
all’industria chimica Alfa, si sottoponeva ad esami radiografici presso la clinica Salus, dove il
dottor Caio, per negligenza, non diagnosticava la presenza di noduli verosimilmente cancerosi
al polmone destro, ed in seguito decedeva per carcinoma polmonare). Infatti, mentre nel
primo esempio riportato sarebbe relativamente semplice provare la sussistenza del nesso
causale tra attività inquinante dell’industria chimica e decesso della vittima, in base ad una
ipotetica legge scientifica che affermasse la correlazione tra gli agenti chimici utilizzati
dall’industria ed una certa patologia, viceversa la medesima legge scientifica sarebbe più
difficile da applicare (e più difficilmente condurrebbe ad esiti significativi in un giudizio) nel
secondo esempio riportato.
La caratteristica tipica delle leggi scientifiche – cioè di essere formulate in termini
probabilistici – consente di affrontare l’argomento del conseguimento di una (certa)
autonomia del giudizio di accertamento causale in ambito civile rispetto a quello penale, che
ha portato in tempi recenti la stessa Corte di Cassazione a sottolineare questo aspetto. Infatti,
attesa la diversa funzione propria del diritto penale e del rimedio risarcitorio della
responsabilità civile, anche l’accertamento del nesso di causalità avverrà diversamente. In
questo senso si può affermare che mentre in ambito penale deve essere fornita la prova “al di
là di ogni ragionevole dubbio” (e tale assunto vale anche in ordine alla causalità), di contro
quando il giudizio riguarda la responsabilità civile è sufficiente la regola del “più probabile
che non”. In termini numerici si può semplificare dicendo che nel giudizio penale la prova del
legame causale deve essere fornita al 100% (circa), mentre nel giudizio civile è sufficiente il
51%. Emblematica è in tal senso la vicenda tutta a stelle e strisce di O.J. Simpson, assolto nel
giudizio penale e condannato al risarcimento dei danni in quello civile.
In questa prospettiva si comprende come la causalità in ambito civile abbia raggiunto una
certa qual indipendenza dal diritto penale, proprio per la funzione diversa che i due giudizi
svolgono. Le decisioni civili, pur continuandosi a riferire a livello declamatorio alle norme
degli artt. 40 e 41 c.p., sono infatti riferite ad un livello di probabilità “logico-scientifica” che
sia “adeguato” ma non assoluto come nel processo penale. Questo perché la funzione della
responsabilità civile, essenzialmente compensatoria, non è quella della responsabilità penale,
che richiede il massimo grado di certezza possibile per emanare una condanna.

2.3) Le concause: tra interruzione del nesso causale e fattori irrilevanti.


Una volta accertato, in base ai criteri sopra riportati, che tra la condotta (o, eventualmente,
l’omissione) del responsabile e l’evento dannoso vi è un legame causale, è allora necessario se
siano dati altri fattori in grado di rappresentare delle concause o dei fattori in grado di
interromperlo. Il tema della pluralità di cause imputabili a più coautori ricade sotto la
previsione della norma dell’art. 2055 c.c. e verrà trattato in altra sede, così come il problema
della concausa rappresentata dalla condotta colposa del danneggiato, disciplinato dall’art.
1227, 1° comma, c.c. espressamente richiamato dall’art. 2056 c.c. per la responsabilità
extracontrattuale. Giova solo accennare come l’intervento di una concausa rilevante, sia essa
attribuibile ad un altro corresponsabile (art. 2055 c.c.) oppure alla vittima stessa (1227, 1°
comma, c.c.), comporta delle conseguenze non tanto sul giudizio di responsabilità, quanto sul
piano del quantum risarcitorio (comportando la riduzione del risarcimento in caso di concorso
del danneggiato o il sorgere di un’obbligazione risarcitoria solidale in caso di pluralità di
responsabili).
Quanto alle concause si è soliti affrontare il problema secondo diverse angolature. Infatti
mentre è quasi pacifica l’irrilevanza delle concause naturali antecedenti alla condotta del
responsabile, soprattutto per quanto concerne eventuali limitazioni del risarcimento (ma vedi
Cass. 16 gennaio 2009, n. 975, in Resp. civ. prev., 2010, 375 ss., che riconosce rilevanza alle
concause naturali ai fini della riduzione del risarcimento in presenza di concause naturali in
ipotesi di responsabilità da negligenza medica), visto che il responsabile “si prende il
danneggiato nelle condizioni in cui si trova”, diversamente è nei casi in cui concause
contemporanee successive alla condotta del danneggiante. Il punto centrale è quello di
valutare se la concausa (successiva) costituisce un fattore causale autonomo e sopravvenuto in
grado di interrompere il nesso causale; si deve cioè appurare l’idoneità del fatto sopravvenuto
(eventualmente riconducibile ad un terzo o allo stesso danneggiato) a rappresentare autonoma
causa “rilevante” dell’evento. Il caso, affrontato dalla giurisprudenza, di quell’automobilista
che viene tamponato in autostrada, si allontana dalla vettura e cerca riparo fuori dalla sede
stradale, scavalca la recinzione inadeguatamente approntata dal gestore dell’autostrada e
precipita in un fiume sottostante, è paradigmatico delle innumerevoli possibilità di individuare
cause sopravvenute (Cass. 7 dicembre 2005, n. 26997).
Parimenti sono estremamente problematiche e difficili da valutare le vicende in cui intervenga
il suicidio della vittima. La casistica che risulta dalle decisioni della giurisprudenza, riporta le
ipotesi di vittime di incidenti stradali che subiscano un ricovero e successivamente, in seguito
all’insorgere di sindromi depressive, si suicidino, propone il problema della riconducibilità del
decesso alla responsabilità del danneggiante. Infatti si pone il dubbio se il suicidio, che di per
sé sarebbe l’esempio più classico di fattore causale sopravvenuto ed esterno in grado di
spezzare la catena causale tra condotta del responsabile e danno possa essere fatto ricadere
nella sfera di responsabilità del danneggiante. E, in tal senso le Corti hanno avuto modo di
affermare la responsabilità del soggetto che aveva causato il sinistro stradale anche in caso di
suicidio, sostenendo la possibilità di ricondurre causalmente alla condotta del responsabile
anche quella particolare “conseguenza” rappresentata dal suicidio della vittima.

2.4) Il nesso di causalità negli illeciti omissivi.


Come noto il codice civile neppure disciplina l’accertamento del nesso causale in ipotesi di
responsabilità che derivi da omissione. Pertanto si pone il problema della causalità c.d.
omissiva. Il primo riferimento è, ovviamente, nel codice penale; precisamente l’art. 40 c.p.
prevede che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di evitare equivale a
cagionarlo”. Peraltro la formulazione di questa norma e i numerosi problemi interpretativi che
ha comportato in ambito penale non possono senz’altro rappresentare un approdo sicuro
neppure per il civilista.
Il principale problema che si pone in ordine alla causalità omissiva è quello relativo al
rapporto tra omissione ed evento. Infatti, mentre tra condotta attiva ed evento esiste
indubitabilmente una relazione causale in natura che poi assume rilevanza giuridica,
diversamente pare impossibile configurare un rapporto causale naturale tra omissione ed
evento. Per risolvere il problema la dottrina (soprattutto quella penalistica) prevalente ha
sostenuto l’opinione secondo cui tra omissione ed evento non vi sarebbe un rapporto di
causalità inteso in senso naturalistico, ma vi sarebbe soltanto un rapporto creato dal
legislatore. In questo senso l’omissione in sé non sarebbe causa di nessun evento, ma lo
diventerebbe solo per volontà della legge, nel momento in cui l’omissione stessa rappresenti
violazione di un dovere giuridico di attivarsi. Il problema della causalità omissiva per le sue
caratteristiche strutturali, presenta elementi di vicinanza al problema dell’antigiuridicità della
condotta. Come si è visto trattando della colpa omissiva, è questo il terreno dove si
contrappongono istanze e principi divergenti: la libertà individuale, che consente di non tenere
comportamenti non dovuti, si scontra con i doveri di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), per cui
la soluzione del problema è probabilmente da ricercarsi in primo luogo sul piano
dell’ingiustizia del danno, dove si dovrebbe bilanciare i diversi e contrapposti interessi in
gioco.

3) La causalità giuridica.
Il problema, che si è sopra riportato, della valutazione del suicidio della vittima nell’iter
causale permette di affrontare la seconda dimensione della causalità, la c.d. causalità
giuridica. Come si è ricordato la causalità giuridica rappresenta la seconda fase
dell’accertamento causale, quella che mira a determinare l’area del danno risarcibile, cioè
quali sono le conseguenze pregiudizievoli che meritano di essere risarcite.
La seconda fase dell’accertamento causale è disciplinata da due norme che sono dettate in
materia di responsabilità contrattuale (artt. 1223 e 1227 c.c.) e che sono richiamate in ambito
aquiliano dall’art. 2056 c.c. Del concorso di colpa del danneggiato (art. 1227, 1° comma, c.c.)
già si è accennato e si diffusamente si tratterà in seguito. In questa sede l’attenzione si
soffermerà pertanto sull’art. 1223 c.c., che stabilisce che il danno risarcibile comprende sia la
perdita subito che il mancato guadagno che siano conseguenza immediata e diretta del fatto
lesivo e sull’art. 1227, 2° comma, c.c. che afferma la non risarcibilità di quei danni che il
danneggiato “avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.
L’art. 1223 c.c. è norma che ha origine nell’area della responsabilità contrattuale con il fine di
consentire l’individuazione e la limitazione del danno risarcibile. La norma infatti addossa al
responsabile solo quei danni che rappresentano una conseguenza immediata e diretta del fatto
illecito. Queste indicazioni sono state interpretate in modo abbastanza elastico. Secondo
l’opinione diffusa tra gli interpreti il collegamento causale tra la condotta e le conseguenze
dovrebbe – in questo ambito – essere governato da un criterio di “regolarità causale”: quindi
dovrebbero essere risarcibili non solamente i danni che siano conseguenza immediata e
diretta, ma anche quelli che rientrano tra le conseguenza normali e ordinarie del fatto, pur
rappresentando dei danni “indiretti e mediati”.
Al di là dell’analisi di formule astratte il dato che emerge chiaramente dalla prassi applicativa
delle Corti va nella direzione di un utilizzo elastico e non restrittivo di questi criteri, al fine di
consentire – magari senza esplicite affermazioni in tal senso – una tutela ampia ed effettiva a
favore delle vittime. Il fine essenzialmente compensativo assunto dalla responsabilità civile,
accompagnato da un evidente favor nei confronti del danneggiato, ha condizionato spesso
anche le valutazioni giurisprudenziali in ordine alla causalità materiale. Il caso (nella
giurisprudenza di legittimità: Cass. 24 aprile 2001, n. 6023) della responsabilità
dell’automobilista per l’epatite contratta dal ferito in un incidente stradale, epatite cagionata
da una trasfusione di sangue durante il ricovero è emblematico: attraverso l’allargamento del
concetto di “conseguenze immediate e dirette” i Giudici riescono a risarcire danni che
altrimenti rischierebbero di restare in capo alla vittima. Soprattutto emerge come nella
soluzione delle controversie le Corti si rifacciano spesso ad un “linguaggio della causalità”
per nascondere esigenze diverse, in primo luogo legate all’allocazione dei costi del danno e di
scelta del soggetto più adatto a sostenere tali costi.
Al problema della causalità giuridica si è soliti ricondurre anche il problema delle c.d.
“vittime secondarie”: il caso tipico è quello delle conseguenze pregiudizievoli riportate dal
familiare di una vittima che abbia riportato gravissimi lesioni fisiche. La giurisprudenza, che
per lungo tempo ha negato la risarcibilità di questi pregiudizi, è ormai costante nel consentire
il risarcimento di tali danni, sull’assunto che si tratta di conseguenze dirette legate all’evento
dannoso della vittima “primaria”, accertabili in base ad un criterio di causalità giuridica
conforme all’id quod plerumque accidit.
L’art. 1227, 2° comma, c.c. esclude invece dai danni risarcibili quei danni “che il creditore
avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”; sarebbe questa norma manifestazione
dei principi generali di correttezza e buona fede. Mentre il primo comma della norma si
riferisce all’intervento del danneggiato nel momento di “produzione” del danno, viceversa
nell’ipotesti disciplinata dal secondo comma il danno è interamente imputabile alla condotta
del danneggiante, ma il comportamento successivo del danneggiato ha contributo ad
aggravare le conseguenze del danno stesso. Basti pensare all’ipotesi che il danneggiato non
provveda a far riparare un suo bene danneggiato dall’illecito altrui provocando, con la propria
mancata diligenza, ulteriori conseguenze negative. In questo senso dovrebbe anche emergere
chiaro il differente ambito di applicazione dei due commi dell’art. 1227 c.c., riferendosi il
primo alla fase della produzione del danno ed il secondo al momento, cronologicamente
seguente, della concreta manifestazione delle conseguenze dell’evento che si è già verificato.
Il legislatore ha ritenuto allora – per quanto vi siano dubbi e divergenze intorno all’effettivo
fondamento della previsione normativa – che questi danni ulteriori non dovessero essere
imputati al danneggiante, in forza di una ratio che mira a non trasferire sul responsabile
conseguenze pregiudizievoli che risultano addebitabili alla condotta del danneggiato stesso,
che si sviluppano cioè al di fuori della sfera di controllo del soggetto individuato quale
responsabile.

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