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VINCENZO MONGILLO

Profili critici della responsabilità da reato degli enti

alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale

Estratto da:

LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DELLE SOCIETÀ E DEGLI ENTI


N. 4-2009 (prima parte)
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 101

GIURISPRUDENZA
COMMENTATA
102 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 103

PROFILI CRITICI DELLA RESPONSABILITÀ


DA REATO DEGLI ENTI ALLA LUCE
DELL’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE
(prima parte)
Avv. Vincenzo Mongillo, contrattista di diritto penale presso l’Università di Napoli
“Federico II”

1. Premessa

A ormai otto anni dall’entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 si è
sedimentato un primo significativo strato di pronunce e orientamenti applicativi che
consente di riesaminare, anche attraverso la lente del vissuto giurisprudenziale, i
principali nodi interpretativi della responsabilità da reato (nominalmente
“amministrativa”) degli enti collettivi.
La fucina della giurisdizione di merito ha sinora confezionato soltanto un paio di
condanne dibattimentali di un ente collettivo1; e poco più numerose sono le sentenze
di patteggiamento e quelle emesse all’esito di un giudizio abbreviato.
Gran parte dei contributi giurisprudenziali che passeremo in rassegna
provengono, così, da ordinanze cautelari interdittive ex artt. 45 ss. d.lgs. 231/20012
(e relativi vagli di legittimità), dalle quali possono trarsi importanti indicazioni
anche sui lineamenti sostanziali della responsabilità degli enti, sui quali ci
concentreremo nella prima parte dell’elaborato. Nella seconda parte daremo
invece conto dei principali indirizzi della giurisprudenza in ordine ai presupposti
delle misure cautelari interdittive contra societatem (gravi indizi di responsabilità
dell’ente e concreto pericolo che siano commessi illeciti della stessa indole di
quello per cui si procede: art. 45) e alle condizioni applicative - positive (art. 13,
comma 1) e negative (art. 13, commi 3 e 17) - delle sanzioni interdittive. Infine,
ci occuperemo dell’istituto del sequestro preventivo del profitto del reato (art. 53)
a fini di successiva confisca (art. 19), negli ultimi tempi venuto alla ribalta
giurisprudenziale, talvolta in maniera persino sensazionale.

1
Si tratta delle sentenze del Trib. Milano, sez. X, 31 luglio 2007, My Chef s.p.a. e Trib. Cosenza, Sent. dott. Branda 2
marzo 2009, n. 1341, entrambe consultabili sul sito www.rivista231.it
2
Le norme non seguite nel testo da altra indicazione si riferiscono al d.lgs. 231/2001.
104 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

2. I soggetti destinatari del d.lgs. 231/2001. La posizione della giurisprudenza


in ordine alle ditte individuali e alle società aventi sede all’estero

Come già accennato, la giurisprudenza in tema di misure cautelari interdittive


riveste particolare interesse anche per i principi giuridici formulati sui profili sostanziali
del nuovo illecito punitivo, tra i quali, in particolare, l’ambito di estensione soggettiva
del nuovo corpus normativo (art. 1) e i requisiti fondamentali della responsabilità
dell’ente (artt. 5, 6 e 7).
Circa i destinatari del d.lgs. 231/2001, in sede di prima applicazione sono
emersi dubbi sulla possibilità di annoverarvi anche le ditte individuali. A tale
quesito, però, nel primo caso in cui è stato discusso in sede giudiziale, la Suprema
Corte ha opposto un fermo diniego, con sentenza confermativa dell’indirizzo
espresso dai giudici di prime cure3. Decisivo è stato il doveroso ancoraggio al dato
positivo, in quanto l’art. 1 d.lgs. 231/2001 cita testualmente tra i soggetti destinatari
della normativa in oggetto solo gli “enti forniti di personalità giuridica” e le
“società e associazioni anche prive di personalità giuridica”, omettendo invece
qualsiasi riferimento alle imprese individuali. Pertanto, secondo le condivisibili
pronunce in discorso, mancano le condizioni giuridiche per ricorrere al
procedimento analogico al fine di aggirare tale sbarramento letterale, giacché ciò
integrerebbe una palese violazione del generale divieto di analogia in malam
partem, desumibile a livello costituzionale dall’art. 25, comma 2, Cost. e nel corpo
del decreto in esame dall’art. 2.
Ma anche dal punto di vista politico-criminale non pare fondata un’equiparazione
tra ditte individuali e soggetti meta-individuali, poiché l’introduzione di una
responsabilità diretta degli enti collettivi è stata dettata, oltre che da esigenze di
omogeneità delle risposte sanzionatorie a livello sovranazionale, dalla presa d’atto
delle “pericolose manifestazioni di reato poste in essere da soggetti a struttura
organizzata e complessa”4. Se, quindi, condizione minima per un’imputazione ex
d.lgs. 231/2001 è la possibilità di distinguere, sul piano soggettivo, la persona fisica
autrice del reato dall’ente giuridico responsabile dell’illecito amministrativo, una
sanzione irrogata all’impresa individuale (in cui è assente qualsiasi “schermo
giuridico”, sia pur labile ed elementare, che la separi dall’imprenditore-titolare),
finirebbe per ripercuotersi sullo stesso bersaglio della sanzione penale. Per queste
ragioni non può ravvisarsi - secondo la Suprema Corte - una violazione del principio
di parità di trattamento tra ente collettivo e ditta individuale, trattandosi di soggetti
che presentano evidenti caratteri di disomogeneità5.
Allo stato attuale della legislazione non sembra invece che possano essere sottratte
al campo applicativo del d.lgs. 231/2001 le società di piccole dimensioni e persino

3
G.I.P. Trib. Roma, dott. Patarnello, ord. 30 maggio 2003, consultabile su www.rivista231.it; decisione confermata
in appello da Trib. Roma, 11 luglio 2003, inedita, e in sede di legittimità da Cass., sez. VI, 22 aprile 2004 n. 18941, soc.
Ribera, in Cass. pen., 2004, 4046 ss., con nota di DI GERONIMO, il quale ha auspicato de iure condendo di attrarre
nell’orbita del d.lgs. 231/2001 almeno le imprese individuali caratterizzate da complessità organizzativa tale da permettere
una scissione tra l’autore del reato e il titolare dell’impresa che ottiene un vantaggio illecito (p. 4050). Condividono il
dictum della Cassazione, ad es., STORTONI e TASSINARI, La responsabilità degli enti: quale natura? Quali soggetti?, in
Ind. pen., 2006, p. 24.
4
Lo rileva Cass., sez. VI, 22 aprile 2004, n. 18941 [nota 3].
5
Conf. Trib. Cosenza, sent. 2 marzo 2009, n. 1341 [nota 1], che ha dichiarato inammissibile una specifica eccezione
di costituzionalità sollevata al riguardo dalla difesa.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 105

quelle con unico socio6. Infatti, anche in tali casi è presente, ancorché più sottile, un
diaframma tra gli interessi e i rapporti giuridici facenti capo al socio e quelli
riconducibili all’impresa societaria7.
In ogni caso, il profilo di maggiore incertezza giuridica connesso al raggio
applicativo del d.lgs. 231/2001 è sinora risultato quello dell’assoggettabilità alle
sanzioni “amministrative” ivi previste delle società estere operanti nel nostro paese8.
Sul punto si registrano opinioni divergenti tra la prassi giudiziaria, in cui prevale la
preoccupazione di evitare irragionevoli disparità di trattamento tra le società italiane
e quelle aventi sede all’estero, e una consistente corrente dottrinale, che attribuisce
decisivo rilievo alla struttura complessa dell’illecito dell’ente.
A livello giurisprudenziale, la prima pronuncia occupatasi direttamente della
questione è un’ordinanza emessa dal Gip del Tribunale di Milano nei confronti della
società Siemens AG9, cui fu applicata la misura interdittiva del divieto di contrattare
per un anno con la p.a. (salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio:
artt. 45 e 9, comma 2, lett. c)), in relazione a svariati reati di corruzione aggravata
commessi da tre dirigenti della società per ottenere appalti di fornitura di impianti
elettrici di cospicuo valore. Il principale interrogativo cui il giudice procedente fu
chiamato a rispondere riguardava proprio l’applicabilità alla Siemens AG, avente sede
in Monaco di Baviera, di un provvedimento cautelare ai sensi della normativa interna
per un reato-presupposto commesso nel suo interesse in Italia, ma in assenza di
analoghe disposizioni nel paese di appartenenza dell’ente (ad es. previsione di
sanzioni interdittive a carico degli enti o di Modelli di Organizzazione e Controllo
aventi efficacia esimente della responsabilità).
Tale dubbio ermeneutico discende, essenzialmente, dalla mancata riproduzione nella
disciplina dell’illecito dell’ente del principio di territorialità sancito dall’art. 6 c.p.10. Tuttavia,
il Gip presso il Tribunale ambrosiano non ha avuto alcuna esitazione a dare risposta
affermativa al quesito, escludendo qualsiasi violazione dei limiti spaziali della giurisdizione
italiana. Decisivo è stato il rilievo che “sia le persone fisiche che le persone giuridiche
straniere nel momento in cui operano in Italia (anche eventualmente, come nel caso in
esame, tramite una Associazione Temporanea di Impresa) hanno semplicemente il dovere
di osservare e rispettare la legge italiana e quindi anche il d.lgs. 231/2001, indipendentemente
dall’esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che regolino in modo analogo
la medesima materia”, tanto più che “la misura interdittiva richiesta è quella del divieto

6
In senso critico su questa scelta legislativa, per il rischio di punire due volte per lo stesso fatto un medesimo centro
di interessi, v., però, PIERGALLINI, Sistema sanzionatorio e reati previsti dal codice penale, in Dir. pen. proc., 2001, p. 358;
AMARELLI, “Crisi” del diritto penale societario e prospettive di riforma: la responsabilità (penale?) delle persone giuridiche,
in DE VITA (a cura di), Il nuovo sistema sanzionatorio del diritto penale dell’economia: decriminalizzazione e problemi
di effettività, Napoli 2002, pp. 286 ss.
7
In tal senso, espressamente, G.I.P. Trib. Milano, dr.ssa Cerreti, ord. 12 Marzo 2008, pubbl. su www.rivista231.it e
Trib. Milano, sez. XI, Pres. Mannocci, 7 maggio 2008, Aristos s.r.l., in Corr. mer., n. 7/2008, 840. Conf., in dottrina, ROSSI
A., La responsabilità degli enti (d.lgs. 231/2001): i soggetti responsabili, in questa Rivista, 2-2008, p. 181; D’ARCANGELO,
La responsabilità da reato delle società unipersonali nel d.lgs. n. 231/2001, in questa Rivista, 3-2008, pp. 145 ss.
8
Diversamente non pone alcun problema l’ipotesi della controllata con sede in Italia di una holding straniera, che
sarà certamente assoggettabile alla disciplina nazionale.
9
G.I.P. Trib. Milano, dott. Salvini, ord. 28 aprile 2004, in Foro it., 2004, II, 434 e in Giur. mer., 2005, pp. 1615 ss., con
nota di COMPAGNA, L’applicazione delle misure cautelari nei confronti degli enti collettivi. La decisione è stata integrata il
5 maggio 2004 (v. Guida al dir., n.19/2004, 77), per limitarne gli effetti allo specifico ambito di attività dell’ente in cui era
occorso il reato e quindi confermata da Trib. Milano, ord. 28 ottobre 2004, Siemens AG, in Foro it., 2005, II, p. 269.
10
Art. 6 c.p.: “Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana. Il reato si
considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o
in parte, ovvero si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione”.
106 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

di contrattare con la Pubblica Amministrazione italiana (divieto facilmente eseguibile in


Italia) e non con la Pubblica Amministrazione tedesca”. Quanto poi all’istituto dei
“Modelli Organizzativi”, la situazione, secondo il giudice milanese, sarebbe del tutto
assimilabile alle regole antinfortunistiche e a qualsiasi norma cautelare la cui mancata
adozione possa produrre conseguenze sul piano della responsabilità (ad es., in materia
di circolazione stradale, le autovetture immatricolate e circolanti in un Paese straniero in
cui non vige l’obbligo di essere munite di cinture di sicurezza devono comunque essere
dotate di tali dispositivi per accedere alle strade italiane).
Alle medesime conclusioni il Gip presso il Tribunale di Milano è pervenuto nel
corso di uno dei procedimenti sorti a seguito del noto caso Parmalat11. In
quest’occasione a sostegno del decisum sono stati richiamati sia l’art. 34 d.lgs.
231/2001, il quale, in generale, stabilisce l’applicabilità, in quanto compatibili, delle
disposizioni del codice di procedura penale nel processo per l’accertamento della
responsabilità amministrativa dell’ente (e quindi anche dell’art. 1 c.p.p., che sancisce
il principio generale della giurisdizione del giudice penale), sia l’art. 36, secondo cui
la competenza per gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale
chiamato a conoscere del cd. reato-presupposto. Pertanto, in tutti i casi in cui sussista
la giurisdizione italiana in ordine al reato da cui dipende la responsabilità dell’ente,
il giudice italiano sarebbe competente a procedere anche nei confronti della società
straniera operante in Italia; a ragionare “diversamente l’ente si attribuirebbe una sorta
di autoesenzione dalla normativa italiana in contrasto con il principio di territorialità
della legge, in particolare con l’art. 3 del c.p.”
A diversa conclusione perviene, come già accennato, parte della dottrina, la quale
argomenta dalla natura composita dell’illecito dell’ente che, in quanto distinto dal
reato commesso dalla persona fisica nel suo interesse o a suo vantaggio, si fonderebbe
anche sulla violazione del dovere di diligenza in cui si sostanzia l’omessa adozione
dei programmi di prevenzione del rischio-reato12. Pertanto, quando il locus di tale
omissione è uno Stato straniero, l’illecito dovrebbe ritenersi commesso all’estero, con
la conseguente impossibilità di applicare la disciplina nazionale.

3. I requisiti fondamentali della responsabilità dell’ente nel prisma


dell’accertamento giudiziale. Il criterio di imputazione dell’interesse o
vantaggio dell’ente

Il primo fondamentale criterio di imputazione della responsabilità ex crimine


all’ente collettivo è, com’è noto, costituto dalla realizzazione di un reato - ricompreso

11
G.I.P. Trib. Milano, dott. Tacconi, ord. 13 giugno 2007, Ubs Limited e altre, in www.rivista231.it Nel caso di specie
diverse banche estere (Morgan Stanley, Ubs, Deutsche Bank e Citigroup), non aventi alcuna sede in Italia ma comunque
operanti nel territorio nazionale, avevano sollevato eccezione di difetto di giurisdizione nel procedimento che le vedeva
imputate per responsabilità amministrativa dipendente da aggiotaggio ex art. 2637 c.c.
12
Cfr. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in LATTANZI (a cura di), Reati e responsabilità
degli enti, Milano 2006, pp. 39 ss., ancorché l’A. riconosca che il successivo d.lgs. 9 luglio 2004, n. 197, che ha
espressamente esteso le sanzioni previste dal d.lgs. n. 231 alle succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie
(nuovo art. 97-bis d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385), potrebbe far propendere, per ragioni di coerenza sistematica, per
l’opposta tesi; AMODIO, Rischio penale di impresa e responsabilità degli enti nei gruppi multinazionali, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2007, p. 1293. In linea con la giurisprudenza v., invece, ROSSI A. [nota 7], 186; CERQUA, Applicabilità del D.
Lgs n. 231/2001 alle società estere operanti in Italia, in Dir. prat. soc., 2009, pp. 37 ss.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 107

tra quelli indicati dalla legge - nell’interesse o a vantaggio dell’ente (art. 5), ad opera
di un autore individuale che possieda una specifica qualifica funzionale (soggetto
apicale o sottoposto).
In dottrina non sono mancate diversità di vedute sulla corretta interpretazione dei
concetti di “interesse” e “vantaggio” e i loro reciproci rapporti, tanto che nella copiosa
letteratura sul tema è possibile isolare due indirizzi contrapposti.
a) Teoria dualistica - La teoria in questione segue la spiegazione fornita dai
compilatori del d.lgs. 231/200113, secondo cui il criterio dell’interesse, implicando una
proiezione finalistica ex ante, afferisce ai presumibili effetti del reato, mentre la
nozione di vantaggio, da accertare ex post, allude alla concreta acquisizione di
un’utilità economica da parte dell’ente, a prescindere dalle motivazioni della condotta
penalmente rilevante. Ne deriva una lettura differenziata dei due requisiti, nel senso
che essi, pur potendo concorrere nel caso concreto, non sono sovrapponibili,
potendo così l’accusa provare indifferentemente l’uno o l’altro (salva la deroga
stabilita dall’art. 5, comma 2)14. A conferma della loro autonomia concettuale si
richiama anche l’art. 12, comma 1, lett. a) che, prevedendo un’attenuante allorché
l’autore del reato abbia commesso il fatto “nel prevalente interesse proprio o di terzi
e l’ente non ne [abbia] ricavato vantaggio o ne [abbia] ricavato un vantaggio minimo”,
paleserebbe proprio la voluntas legis di diversificare i due presupposti oggettivi di
ascrizione della responsabilità15. In concreto, la distinta rilevanza giuridica del
vantaggio farebbe sì che il suo accertamento giudiziale basti ad incardinare la
responsabilità dell’ente anche quando non sia dimostrabile il suo effettivo interesse
alla consumazione del reato e neppure l’interesse esclusivo dell’agente o di terzi16.
b) Teoria monistica - Tuttavia, proprio il fatto che il d.lgs. 231/2001 individui un
limite negativo della responsabilità dell’ente nella circostanza che il reo abbia «agito
nell’interesse esclusivo proprio o di terzi» (art. 5, comma 2), ha indotto un altro settore
dottrinale ad affermare che l’unico criterio di collegamento rilevante sia quello
dell’interesse17. Da tale disposizione si ricaverebbe, infatti, che un interesse - quanto

13
Relazione governativa al d.lgs. n. 231/2001, in GARUTI (a cura di), Responsabilità degli enti per illeciti
amministrativi dipendenti da reato, Padova 2002, p. 442.
14
Per questa tesi, in dottrina, v., soprattutto, DI GIOVINE [nota 12], 62 s.; ASTROLOGO, Interesse e vantaggio
quali criteri di attribuzione della responsabilità all’ente nel d.lgs. n. 231/2001, in Ind. pen., 2003, pp. 649 ss.; GIUNTA,
La punizione degli enti collettivi: una novità attesa, in DE FRANCESCO G. (a cura di), La responsabilità degli enti: un
nuovo modello di giustizia “punitiva”, Torino 2004, p. 40 (“i due criteri [...] sono tra loro concettualmente indipendenti”);
CERQUA, La responsabilità da reato degli enti. Modelli di organizzazione, gestione, controllo e strategie per non incorrere
nelle sanzioni, Camerino 2006, pp. 12 ss., secondo cui dall’art. 5, comma 2, può desumersi solo che “un interesse
misto, cioè contestualmente proprio dell’ente e della persona fisica, non è di per sé sufficiente per mandare esente da
responsabilità l’ente collettivo [...]” (p. 14); VIGNOLI, Societas puniri potest: profili critici di un’autonoma responsabilità
dell’ente collettivo, in Dir. pen. proc., 2004, p. 909; SANTORIELLO, I requisiti dell’interesse e del vantaggio della società
nell’ambito della responsabilità da reato dell’ente collettivo, in questa Rivista, 3-2008, pp. 55 ss.; ROSSI A. [nota 7], 180.
15
Cfr. ATROLOGO, Brevi note sull’interesse e il vantaggio nel d. lgs. 231/01, in questa Rivista, 1-2006, p. 192.
16
Cfr. PISTORELLI, Natura della responsabilità degli enti e criteri di imputazione oggettiva al vaglio dei giudici di
legittimità, in questa Rivista, 4/2006, p. 134.
17
Cfr. PECORELLA, Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, in ALESSANDRI (a cura di), La
responsabilità amministrativa degli enti, Milano 2002, p. 83, nt. 54, che ritiene “pleonastico il riferimento, oltre che
all’interesse, anche al vantaggio dell’ente”; GUERRINI, Art. 3. Responsabilità amministrativa delle società, in GIUNTA
(a cura di), I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, Torino 2002, p. 257; FOFFANI,
Responsabilità delle persone giuridiche e riforma dei reati societari, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità
da reato degli enti collettivi, Padova 2003, pp. 253 ss., secondo cui il vantaggio “non sembra avere altro che un valore
sintomatico ex post dell’avvenuto perseguimento dell’interesse”; DE VERO, La responsabilità penale delle persone
giuridiche. Parte generale, in Trattato di diritto penale (diretto da Grosso, Padovani e Pagliaro), Milano 2008, pp. 158
ss., ad avviso del quale il riferimento al vantaggio servirebbe al più ad indicare la dimensione squisitamente oggettiva
dell’interesse; FIORELLA, Principi generali e criteri di imputazione all’ente della responsabilità amministrativa, in
108 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

meno concorrente - dell’ente alla commissione del reato sia comunque necessario ad
un’affermazione di responsabilità. Il vantaggio costituirebbe, così, un criterio residuale,
privo di valenza autonoma, operando come una sorta di “variabile casuale” che non
basta a impegnare la responsabilità dell’ente.
All’interno della dottrina monistica si colloca anche la “teoria dell’endiadi”,
secondo cui i due elementi testuali dell’“interesse” e del “vantaggio” esprimerebbero
in forma di endiadi un concetto unitario: “interesse dell’ente inteso in senso
obiettivo”18. In questa ermeneusi, però, si riconosce all’accertamento del vantaggio
quantomeno un valore inferenziale, giacché “se un vantaggio, di fatto, l’ente ha
ricavato dal commesso reato, mi sembra vi sia quanto basta per riconoscere il
collegamento richiesto dalla legge, anche là dove la formula legislativa parli solo di
interesse”19. Sotto questa luce andrebbe interpretato anche il comma 2 dell’art. 5, nel
senso cioè che “se l’ente ha ottenuto un qualche vantaggio, il fatto non potrà essere
considerato nell’esclusivo interesse di altri”20. Tale proposta di reductio ad unum dei
due criteri oggettivi scongiurerebbe anche il problema di coordinamento sollevato da
quelle disposizioni che fanno riferimento al solo interesse della società (ad es. art.
25-ter d.lgs. 231/2001, innestato dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61).
In questo ampio panorama di opinioni si inserisce, poi, la disputa tra concezione
“oggettiva” e concezione “soggettivo-psicologica” dell’interesse, la quale taglia
trasversalmente i due schieramenti indicati, ancorché la prima sia prevalente in seno
alla teoria monistica e la seconda nell’alveo della visione dualistica21. Nell’accezione

FIORELLA e LANCELLOTTI (a cura di), La responsabilità dell’impresa per i fatti di reato, Torino 2004, pp. 6 ss., per il
quale solo una condotta “geneticamente” volta a realizzare l’interesse collettivo garantirebbe “la conformità della disciplina
al principio costituzionale di personalità della responsabilità penale” (p. 8 ); DE SIMONE, La responsabilità da reato
degli enti nel sistema sanzionatorio italiano: alcuni aspetti problematici, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2004, p. 671; COCCO,
L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo dei modelli di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 95 s.;
SELVAGGI N., L’interesse dell’ente collettivo quale criterio di ascrizione della responsabilità da reato, Napoli 2006, pp. 110
ss. e passim; PUTINATI, in LANZI e CADOPPI (a cura di), I reati societari, Padova 2a ed., 2007, p. 363. La Relazione al
d.lgs. n. 231/2001 [nota 13], 444, invece, si limita ad affermare che la previsione di cui all’art. 5, comma 2, “opera […] in
deroga al primo comma”.
18
Cfr. PULITANO’, La responsabilità da “reato” degli enti: criteri di imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 425.
Conf. GUERNELLI, La responsabilità delle persone giuridiche nel diritto penale-amministrativo (Prima parte), in Studium
Juris, 2002, p. 290 s.; DE MAGLIE, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano 2002, pp. 327 ss.;
CORDERO, Procedura penale, Milano 2003, p. 1329, che ritiene i due termini “sinonimi”; MANNA, La c.d. responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista, in Cass. pen., 2003, p. 1114; ZOPPINI, Imputazione
dell’illecito penale e «responsabilità amministrativa» nella teoria della persona giuridica, in Riv. soc., 2005, p. 1324 ss.,
che istituisce un parallelo con la rappresentanza di matrice civilistica, nel senso che anche il controllo atteso dall’ente
sulla propria attività implica che l’agire del preposto miri a realizzare un fine attuativo dello scopo sociale; FIORELLA,
voce Responsabilità da reato degli enti collettivi, in Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, V, Milano 2006,
p. 5102.
19
Cfr. PULITANO’, Criteri d’imputazione all’ente della responsabilità “da reato”, in SPAGNOLO (a cura di), La
responsabilità da reato degli enti collettivi. Cinque anni di applicazione del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano 2007,
pp. 25 ss.
20
PULITANO’, Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, in Enc. dir., Agg., VI, Milano 2002,
p. 958.
21
Propugnano la concezione oggettivistica dell’interesse, oltre a PULITANO’ [note 19 e 20], ad es., GUERNELLI
[nota 18], secondo cui essa troverebbe appiglio nella “ratio legis, che sarebbe frustrata qualora si consentisse all’ente di
trarre vantaggio da una erronea autorappresentazione dei mezzi e dei fini da parte della persona fisica”, nella “generale
irrilevanza nel nostro sistema penale del movente del reo”, nel fatto che già la legge delega prevedesse l’inserimento tra
i reati-presupposto di delitti colposi, “in cui l’atteggiamento soggettivo dell’individuo può, sia pure astrattamente, rivelarsi
estraneo alla considerazione del predetto interesse o vantaggio”, e, ancora, nella circostanza che l’ente è responsabile o
subisce conseguenze lato sensu sanzionatorie anche quando risulti impossibile verificare le motivazioni del reo (art. 8,
comma 1) o questi consapevolmente ne trasgredisca le norme interne (art. 6, comma 5); GIUNTA [nota 14], 40; CERQUA
[nota 14], 15, secondo cui l’interesse allude “alla idoneità della condotta illecita a produrre un beneficio per l’ente, mentre
a nulla rilevano le intenzioni o le rappresentazioni dell’agente”; DOVERE, Osservazioni in tema di attribuzione all’ente
collettivo dei reati previsti dall’art. 25 septies del d.lgs. n. 231/2001, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2008, p. 327; DE VERO [nota
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 109

“soggettiva” l’interesse è un elemento interno al soggetto che agisce per conto


dell’ente, vale a dire la finalità o il movente psicologico della condotta criminosa
(diversamente dal vantaggio che possiederebbe natura oggettiva). Al contrario,
secondo l’impostazione oggettivistica il fine soggettivo del reo non può assumere
rilievo dirimente per fondare la responsabilità dell’ente: ciò che conta è il rapporto
oggettivo tra il fatto illecito e la sfera di interessi propria dell’ente, e cioè la tendenza
obiettiva o esteriormente riconoscibile del reato a realizzare un interesse della
societas.
La giurisprudenza sinora maggioritaria ha, tuttavia, respinto la teoria unificatrice
delle nozioni di interesse e vantaggio, propendendo per la natura dualistica del nesso
di imputazione cd. oggettivo e, altresì, per una configurazione spiccatamente
finalistica dell’elemento dell’interesse.
Lo si evince, ad esempio, dal procedimento Ivri Holding e Cogefi, nel corso del
quale il Gip milanese dispose, in sede cautelare, la nomina di un commissario
giudiziale per la durata di un anno, in sostituzione dell’interdizione dell’attività, nei
confronti di quattro società di vigilanza appartenenti al medesimo gruppo, i cui
amministratori erano indagati per vari episodi corruttivi finalizzati all’aggiudicazione
di pubblici appalti a favore delle società controllate del gruppo, nonché per il delitto
di truffa aggravata consistente nell’aver falsamente attestato il corretto adempimento
dei contratti stipulati con il Comune di Milano22.
In relazione al criterio di ‘tipicità oggettiva’ configurato dall’art. 5, la difesa della
capogruppo aveva eccepito che l’ipotetico vantaggio ricavabile dalla controllante
attraverso il diretto arricchimento delle controllate era del tutto eventuale, essendo
connesso alla futura ed incerta distribuzione degli utili di gestione23. Tale obiezione è
stata, però, rigettata dal giudice milanese sul presupposto che la responsabilità a
carico dell’ente non sorge soltanto “allorché il comportamento illecito abbia
determinato un vantaggio, patrimoniale o meno, per l’ente ma anche nell’ipotesi in
cui, pur in assenza di tale concreto risultato, il fatto-reato trovi ragione nell’interesse
dell’ente”.
Tale percorso logico-giuridico ha trovato ulteriore sviluppo nell’ordinanza emessa
in appello dal Tribunale ambrosiano24, secondo cui “nella locuzione «nel suo interesse
o a suo vantaggio», la congiunzione «o» [deve] essere letta in modo disgiuntivo, nel
senso che, purché il reato sia compiuto nell’interesse dell’ente, non occorre anche che
questi ne tragga vantaggio”. In linea con l’opinione espressa dal legislatore “storico”,
si è osservato che i due sintagmi non sono stati impiegati come sinonimi, giacché il

17], 160 s. Invece, aderiscono all’accezione soggettivistica dell’interesse, sulla scia della Relazione al d.lgs. n. 231/2001
[nota 13] (“il richiamo all’interesse dell’ente caratterizza in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della
persona fisica”), tra gli altri, PELISSERO, La “nuova” responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, in Leg. pen.,
2002, pp. 580 s.; DI GIOVINE [nota 12]; FOFFANI [nota 17]; PALIERO, La responsabilità penale della persona giuridica:
profili strutturali e sistematici, in DE FRANCESCO G. [nota 15], 22. Una teoria mista sostiene, invece, SELVAGGI [nota 17],
168 s., secondo cui “alla condotta obiettivamente diretta alla realizzazione di un interesse dell’ente deve […] corrispondere
l’atteggiamento psicologico di chi agisce come soggetto qualificato[...]”.
22
G.I.P. Trib. Milano, dr.ssa Secchi, ord. 20 settembre 2004-9 novembre 2004, Ivri Holding s.p.a. e Cogefi s.p.a., in
Foro it., 2005, II, c. 528 ss.
23
Ancor più insicura, secondo la difesa delle società, era la prospettiva di una rivalutazione della partecipazione
detenuta dalla controllante.
24
Trib. Milano, sez. ries., Pres. Piffer, ord. 20 dicembre 2004, Ivri holding s.p.a., in Dir. prat. soc., n.6/2005, 69, la
quale, comunque, ha annullato per un diverso motivo il provvedimento cautelare disposto nei confronti della società
controllante, segnatamente per la mancata verifica di un “profitto di rilevante entità” quale presupposto della misura
interdittiva.
110 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

“vantaggio” fa riferimento “alla concreta acquisizione di un’utilità economica, mentre


l’«interesse» implica solo la finalizzazione del reato a quella utilità, senza peraltro
richiedere che questa venga effettivamente conseguita”. Ciò troverebbe conferma, sul
piano sistematico, nell’art. 12, comma 1, lett. a), che, ai fini della concessione
dell’attenuante ivi prevista, distingue chiaramente l’interesse dal vantaggio. Pertanto,
anche quando l’utilità per la controllante sia connessa alla ripartizione (successiva e
comunque aleatoria) degli utili (eventualmente) conseguiti dalle controllate, non
verrebbe meno l’interesse dell’ente alla commissione del reato, sul cui accertamento
- come vedremo - si è poi focalizzata l’attenzione dei giudici, con specifico riferimento
alle dinamiche interne al gruppo societario.
La concezione dualistica ha successivamente ricevuto anche l’avvallo della
Suprema Corte25, secondo cui “non sembra [...] da condividere la definizione di
endiadi attribuita da parte della dottrina alla locuzione”, giacché “a prescindere dalla
sottigliezza grammaticale che tale figura retorica richiederebbe la congiunzione
copulativa «e» tra le parole interesse e vantaggio, e non la congiunzione disgiuntiva «o»
presente invece nella norma, non può sfuggire che i due vocaboli esprimono concetti
giuridicamente diversi: potendosi distinguere un interesse «a monte» della società ad
una locupletazione - prefigurata, pur se di fatto, eventualmente, non più realizzata
- in conseguenza dell’illecito, rispetto ad un vantaggio obbiettivamente conseguito
all’esito del reato, perfino se non espressamente divisato «ex ante» dall’agente”. La
Corte, comunque, non ha mancato di riconoscere - pur omettendo uno specifico
approfondimento sul punto - che tale “concorso reale [...] di presupposti” ponga un
delicato problema di coordinamento con quelle disposizioni speciali che non
riportano entrambi i requisiti (ad es. art. 25-ter, comma 1).
D’altro canto, la decisione in esame verteva su un’ipotesi di truffa aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche transitate solo per un breve lasso di tempo
nelle casse sociali, giacché immediatamente stornate sui conti personali del soggetto
agente (amministratore unico della società). Malgrado ciò, la Corte di legittimità ha
ritenuto che, coincidendo “il momento realizzativo del profitto […] pur sempre con
l’accreditamento alla società delle somme dal Ministero dell’Industria”, “ciò che
avviene dopo resta [...] condotta «post factum» suscettibile eventualmente di integrare
un’eventuale appropriazione indebita da parte dell’amministratore (o anche dei soci)
senza elidere il dato storico del profitto già conseguito dall’ente26”.

25
Cass., sez. II, sent. 30 gennaio 2006, n. 3615, Jolly Mediterraneo s.r.l. e D’Azzo, in Dir. prat. soc., 8-2006, p. 60,
con nota di A. BERNARDO.
26
La giurisprudenza non si è ancora cimentata su un’altra delicata questione, vale a dire la compatibilità del requisito
dell’interesse o vantaggio (art. 5) con la struttura del reato colposo di evento, che la recente saldatura tra responsabilità da
reato degli enti e la tutela penale della salute e sicurezza dei lavoratori (cfr. art. 25-septies d.lgs. 231/2001, introdotto dalla
l. 3 agosto 2007, n. 123 e mod. dall’art. 300 d.lgs. n. 9 aprile 2008 n. 81) ha posto al centro della speculazione dottrinale
di settore: cfr., in senso prevalentemente negativo, per lo più adducendo la violazione del principio di legalità cui
condurrebbe la tesi affermativa, DI GIOVINE, Sicurezza sul lavoro, malattie professionali e responsabilità degli enti, in Cass.
pen., 2009, spec. 1336 ss.; ZANNOTTI R., Il nuovo diritto penale dell’economia, 2a ed., Milano 2008, 69; DOVERE [nota 21],
pp. 333 ss.; ALDROVANDI, Responsabilità amministrativa degli enti per i delitti in violazione di norme antinfortunistiche,
in Igiene e sic. lav., 2007, p. 571; AMARELLI, La sicurezza sul lavoro tra delega legislativa e responsabilità delle imprese per
le “morti bianche”: la legge 123/2007 (Seconda parte), in Studium iuris, 2008, pp. 418 ss.; in chiave possibilista v., invece,
ante novella, PULITANO’ [nota 18], 426, che ritiene ragionevole, in tal caso, riferire l’interesse o vantaggio non all’evento
non voluto ma alla condotta della persona fisica; DE SIMONE [nota 17], 673, sul presupposto che l’interesse dell’ente
può essere anche solo “immediato”; nonché, dopo la novella, SANTORIELLO, Violazione delle norme antinfortunistiche
e reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società, in questa Rivista, 1-2008, pp. 170 ss., ma solo rispetto ai reati
commessi con colpa c.d. cosciente, e, nel caso di colpa c.d. incosciente, comunque produttivi di un vantaggio per
l’ente; BRICCHETTI e PISTORELLI, Responsabili anche gli enti coinvolti, in Guida al dir., 35/2007, p. 41, secondo cui è il
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 111

3.1. Il rischio di svilimento del requisito dell’interesse o vantaggio

Le prime applicazioni giurisprudenziali della disciplina sulla responsabilità


sanzionatoria degli enti suscitano l’impressione di un troppo sbrigativo accertamento
dell’interesse dell’ente alla realizzazione di un reato-presupposto, anche al di là dei
casi in cui esso poteva risultare in concreto lampante. Si profila, così, il rischio di uno
svilimento o sostanziale svuotamento di contenuto di tale primo essenziale criterio di
collegamento tra reato dell’autore individuale e illecito dell’ente collettivo. Ciò desta
inquietudine soprattutto in relazione ai casi in cui oggetto di contestazione sia un
reato commesso in apicibus, considerata l’incidenza pratica assai ridotta che in siffatte
ipotesi può avere la scusante incardinata sull’adozione dei compliance programs
(considerata anche l’inversione dell’onere della prova a carico dell’ente). Ma suscita
preoccupazione anche rispetto ai reati commessi dai sottoposti, posto che è sempre
sul requisito tipizzato dall’art. 5 che grava principalmente il compito di selezionare gli
illeciti “propri” dell’ente, specie a fronte di una colpevolezza organizzativa “fatalmente
e essenzialmente oggettiva”27, facile da provare per l’accusa e difficilmente confutabile
dalla difesa.
Soprattutto due situazioni meritano, a nostro avviso, di essere attentamente
considerate, anche perché nient’affatto anomale nella realtà empirica:
1) la prima è quella in cui l’ente è strumentalizzato da soggetti che esercitano
una supremazia sulla compagine societaria (ad es. socio “sovrano”, “tiranno”, unico28,
ecc.) per ottenere benefici illeciti che esulano e talvolta collidono con l’interesse
collettivo. Questo ci sembra, ad esempio, proprio quanto accaduto nella vicenda
trattata dalla succitata sentenza 3615/2006 della Suprema Corte: riguardata nella sua
integrità, la condotta dell’amministratore unico della società che storni immediatamente
a proprio profitto i fondi fraudolentemente carpiti all’ente pubblico e fugacemente
transitati sui conti aziendali, ci sembra una chiara ipotesi di reato realizzato
nell’interesse esclusivo del soggetto agente; ma lo stesso vantaggio (in termini di
incremento patrimoniale) ottenuto dall’ente, riveduto nella dinamica complessiva
dell’agire illecito, appare assolutamente fittizio o virtuale.
Separata considerazione richiede l’ipotesi dello stabile asservimento dell’ente (o di
una sua unità organizzativa) a scopi criminosi (cd. ente intrinsecamente illecito),
rispetto alla quale qualsiasi considerazione attinente al criterio ascrittivo dell’interesse
o vantaggio appare del tutto inconferente29. In tal caso, infatti, l’art. 16, comma 3
impone tassativamente la reazione più incisiva, vale a dire l’interdizione definitiva
dall’esercizio dell’attività.
2) La seconda situazione su cui intendiamo richiamare l’attenzione del lettore è
quella in cui la scelta dei dirigenti di ricorrere e persistere in prassi illecite risponde

vantaggio, come risparmio di spese, che potrebbe fondare nella specie la responsabilità dell’ente. E’ da segnalare, peraltro,
che G.U.P. Trib. Torino, dott. Gianfrotta, decr. 17 novembre 2008, nel disporre il rinvio a giudizio anche nei confronti della
ThyssenKrupp s.p.a. per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25 septies, ha implicitamente riconosciuto la compatibilità del
criterio dell’interesse o vantaggio con il nuovo paradigma del reato colposo di evento.
27
Così ALESSANDRI, Note penalistiche sulla nuova responsabilità delle persone giuridiche, in Riv. trim. dir. pen. ec.,
2002, p. 54.
28
Cfr., da ultimo, D’ARCANGELO, Abuso dello schermo societario, utilizzo strumentale dell’ente e logica sanzionatoria
del d.lgs. 231/2001, in questa Rivista, 3-2009, p. 11, che ben rileva l’estrema problematicità della dimostrazione, in tali casi,
di un interesse autonomo dell’ente, riconoscibilmente connesso al reato commesso dal dominus.
29
Così anche D’ARCANGELO [nota 28], 16, che aderisce sul punto all’opinione di LOTTINI, sub art. 5, in PALAZZO
e PALIERO, Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova 2007, p. 2309.
112 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

- più che agli oggettivi interessi dell’ente e dei suoi proprietari - alla volontà di
dissimulare errori gestionali, negligenze progettuali o scelte eccessivamente rischiose,
per salvaguardare la propria immagine e procrastinare il momento dell’assunzione
delle proprie responsabilità30. Tali condotte irrazionali - che la ricerca in materia di
comportamento manageriale e di criminalità di impresa è solita designare con le
espressioni “intensificazione dell’impegno” (escalation of commitment31) e “ebbrezza
da rischio”32 (o “tendenza al rischio”: risky shift) - spesso si risolvono, nel medio-lungo
periodo, in esiti disastrosi per la solidità finanziaria e gli interessi economici dell’ente,
anche quando, nel brevissimo periodo, questo sembrerebbe avere un interesse o
trarre un qualche vantaggio dalla commissione dell’illecito33. Si pensi al caso di un
manager che cerchi di camuffare un inadempimento contrattuale nei confronti della
P.A. con condotte truffaldine temerarie, nell’illusione di poter rimediare successivamente
ai propri errori, ma in realtà aggravando ulteriormente la posizione dell’ente. In
definitiva si tratta di decisioni che rispondono ad un interesse esclusivamente
personale dell’agente, e rispetto alle quali l’eventuale vantaggio immediato dell’ente
è soppiantato dalle forti perdite economiche o reputazionali in cui di regola la società
incorre quando lo stratagemma illecito viene inesorabilmente alla luce.
Una maggiore valorizzazione del coefficiente oggettivo di attribuzione della
responsabilità è comunque riscontrabile in qualche pronuncia giudiziale.
Ad esempio, nella sentenza La Fiorita34 la VI sezione della Cassazione ha censurato
l’ordinanza cautelare impugnata dall’ente ricorrente - tra l’altro - per un’equivocità
espositiva e una confusione di piani che impediva di cogliere la reale portata degli
interessi coinvolti nell’attività criminosa: “Infatti, in alcuni passaggi del provvedimento
i giudici di merito evidenziano l’uso strumentale che gli indagati avrebbero fatto della
società cooperativa, tanto da tradirne le finalità mutualistiche, sfruttandola per il
proprio personale vantaggio; in altri sottolineano che l’attività della società era di fatto
fittizia; giungendo, infine, a dubitare che possa trattarsi di una società intrinsecamente
criminosa [...].” In realtà, “si confonde la associazione per delinquere, con la società
cooperativa, nel senso che dove c’è interesse per l’associazione si individua,
automaticamente, anche l’esistenza di un interesse per l’ente, in una sovrapposizione
di livelli” avulsa dal dettato legale. Concludono i giudici di legittimità che non essendo
stato “accertato se ed in quale misura vi sia stato il vantaggio o l’interesse della
cooperativa La Fiorita”, non solo sono stati erroneamente applicati gli artt. 5 ss. d.lgs.
231/2001, ma si è preclusa anche l’eventuale applicazione dell’art. 13, comma 3, a
norma del quale la commissione del reato nel prevalente interesse del reo o di terzi
osta all’applicazione di sanzioni interdittive.

30
Resta fondamentale al riguardo la disamina di COFFEE, No soul to damn, no body to kick: an unscandalized inquiry
into the problem of corporate punishment, in Mich. law rev. 79, 1981, spec. 393 ss.
31
Cfr. KREITNER e KINICKI, Comportamento organizzativo, trad. it., Milano 2004, pp. 354 ss., che etichettano così
la “tendenza a perseverare in decisioni inefficaci anche quando è improbabile che la situazione negativa che si è venuta
a creare possa essere ribaltata”; ARGENTERO, CORTESE e PICCARDO, Psicologia delle organizzazioni, Milano 2009, p.
287.
32
Su tale propensione al rischio, particolarmente accentuata nel comportamento dei managers che operano in gruppi
ristretti, cfr. STELLA, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998, pp 463 ss.; DE
MAGLIE [nota 18], 51, 252.
33
E’ chiaro che le determinanti empiriche di simili fenomeni possono essere, oltre che di natura psicologico-
individuale, di tipo socio-organizzativo (es. pressioni aziendali, la stessa appartenenza ad un’organizzazione, che di per
sé può favorire decisioni rischiose); ma ciò che preme sottolineare in questa sede è quanto sia problematico rintracciare
in tali casi l’interesse o vantaggio dell’ente.
34
Cass., sez. VI, 2 ottobre 2006, n. 32627, in Cass. pen., 2007, pp. 80 ss.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 113

Anche nella successiva sentenza emessa dalla II Sezione a seguito del giudizio di
rinvio è stata ribadita la necessità di una scrupolosa verifica degli interessi implicati,
posto che “il requisito rappresentato dal non avere agito i soggetti autori dei reati
presupposti per un fine esclusivamente personale o comunque estraneo a quelli
istituzionali dell’ente è, nella ratio ispiratrice del d.lgs. 231/2001, rivolto ad evitare che
l’ente venga coinvolto nelle azioni illecite degli amministratori e soggetti equiparati in
qualità di responsabile di questi illeciti mentre in realtà può risultarne soltanto una
vittima: circostanza che si verifica quando l’ente è utilizzato come schermo dietro al
quale agiscono soggetti che utilizzano la compagine sociale come semplice strumento
per fini personali35”.
Una pronuncia del Gip presso il Tribunale di Torino36 ha invece affrontato l’ipotesi,
frequentemente proposta dalla casistica empirica, dell’utilizzo strumentale di “società
di comodo” (nel caso di specie a fini di evasione dell’Iva dovuta su compravendite
intracomunitarie di autovetture). In particolare, alcune società “cartiere” acquistavano
da fornitori comunitari autovetture che poi rivendevano sottocosto (incamerando in
tutto o in parte l’Iva dovuta all’erario) ad acquirenti italiani, consentendo così
l’immissione “sul mercato di autovetture a prezzi concorrenziali rispetto agli altri
operatori in regola con gli obblighi tributari”. Il giudice procedente ha escluso che i
reati contestati alle persone fisiche fossero stati commessi nell’interesse o a vantaggio
delle società fittiziamente interposte, avendo esse operato “in perdita e accumulando
rilevanti debiti verso l’erario, per consentire ad altri di trarre ingiusti profitti”, vale a
dire agli autori materiali del reato e agli acquirenti finali dei beni37. In questo caso,
però, più scrupolosa disamina avrebbe forse richiesto il profilo dell’eventuale
destinazione stabile della “società di comodo” all’unico o prevalente scopo di
consentire o agevolare la commissione di reati; ipotesi che, come detto, ricade sotto
il precetto sanzionatorio di cui all’art. 16, comma 3.
Merita segnalare, infine, una più recente ordinanza emessa in appello dal Tribunale
Milano38, in cui può cogliersi un’adesione di massima alla concezione oggettivistica
dell’interesse, in particolare nell’inciso secondo cui l’interesse o vantaggio dell’ente,
rilevante ai sensi del comma 1 dell’art. 5, deve essere “oggettivo (cioè indipendente
dalle soggettive intenzioni dell’autore del reato presupposto, corollario dell’autonomia
dell’illecito dell’ente) e concreto (cioè effettivo e non meramente ipotetico, corollario
del principio di offensività)”. Su queste basi la pronuncia in oggetto, riguardante un
caso di concussione continuata commessa dall’amministratore unico di una società
incaricata da un comune di predisporre gli atti di gara ed effettuare i successivi
controlli sulla corretta esecuzione del servizio di refezione scolastica da parte della
ditta aggiudicataria39, non manca di sottolineare l’esigenza di un “adeguato riscontro
indiziario” dell’interesse o del vantaggio, ritenuto carente nell’ordinanza gravata.

35
Cass., sez. II, 10 aprile 2009, n. 15641, inedita, sebbene tale pronuncia abbia, comunque, rigettato il ricorso
proposto dall’ente contro l’ordinanza emessa nel giudizio di rinvio dal Tribunale di Bari, sostanzialmente confermativa del
provvedimento precedentemente annullato.
36
G.I.P. Trib. Torino, dott. Salvadori, ord. 28 gennaio 2004, pubbl. su www.rivista231.it
37
Secondo ASTROLOGO [nota 15], 196, per motivare l’esclusione della responsabilità dei soggetti collettivi coinvolti,
sarebbe stato più consono invocare l’art. 5, comma 2, piuttosto che l’assenza dei criteri obiettivi di ascrizione della
responsabilità.
38
Trib. Milano, ord. 7 maggio 2008 [nota 7].
39
L’addebito di concussione discendeva, nella specie, dalla peculiare posizione dell’indagato, che agiva in veste
di pubblico ufficiale quale membro della commissione aggiudicatrice e di incaricato di pubblico servizio per le attività
connesse al controllo di qualità del servizio.
114 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

Inoltre, particolare interesse dommatico riveste il passaggio in cui si ricusa la tesi della
totale immedesimazione tra l’amministratore (autore del reato presupposto) e l’ente,
avanzata, invece, dall’accusa per dedurne la perfetta coincidenza dell’interesse o
vantaggio dell’uno con quello dell’altro; assunto che, però, collide con la scelta
legislativa di costruire “un modello punitivo che ha quale presupposto l’ente, come
realtà autonomamente identificabile ed altra rispetto alla persona fisica.”

3.2. Il cd. interesse di gruppo

Il criterio dell’interesse rischia di assumere contorni ancor più sfuggenti nell’assai


frequente caso in cui più società giuridicamente autonome operino sotto la direzione
e il coordinamento di una capofila (cd. gruppo societario; artt. 2497 ss. c.c.). In
particolare, ci si è interrogati sulle possibilità di asserire (anche) l’interesse dell’holding
di vertice, quando un suo esponente abbia realizzato (o concorso alla commissione)
di reati direttamente vantaggiosi per le società figlie, in quanto, ad esempio,
aggiudicatarie di lucrosi appalti pubblici40.
Finora la giurisprudenza pare mostrare favore per una “apicalizzazione” della
responsabilità verso la società di vertice, in particolare servendosi della figura del cd.
“interesse di gruppo”, la quale sembrerebbe ora trovare anche qualche addentellato
normativo (artt. 2497, 2497 ter e 2634 c.c.).
Tale nozione, per esempio, è stata evocata dal Tribunale di Milano, nel caso Ivri
Holding, per avallare l’estensione della responsabilità alla società di vertice.
Il provvedimento del giudice cautelare di prime cure41 è partito dall’enucleazione
di due possibili modalità di estrinsecazione del gruppo societario: 1. la cd. holding
“pura”, che si limita ad amministrare le proprie partecipazioni azionarie nelle
controllate, con una netta separazione dell’attività di direzione da quella di
produzione o scambio; 2. e i casi in cui invece la capogruppo eserciti, sia pure in
via mediata, la medesima attività imprenditoriale che le società figlie svolgono
direttamente42. Secondo l’ordinanza in discorso, solo in quest’ultimo sottoinsieme
di casi sarebbe legittimo ravvisare un interesse di gruppo e fondare, su queste
basi, la responsabilità della capofila, che non potrebbe escludersi neppure
eccependo l’agire del reo nell’esclusivo interesse di terzi (le società controllate) ai
sensi dell’art. 5, comma 2.
L’ordinanza di appello43, nel tentativo di precisare ulteriormente il concetto di
“interesse di gruppo”, ha osservato che esso “si caratterizza [...] per non essere proprio
ed esclusivo di uno dei membri del gruppo, ma comune a tutti i soggetti che ne fanno
parte”; ribadendo, altresì, che proprio l’esistenza di un legame qualificato tra
controllante e controllata escluderebbe alla radice la possibilità di qualificare
quest’ultima come “terzo” e quindi l’applicabilità della clausola “negativa” di cui
all’art. 5, comma 2.

40
Ovviamente, la questione può profilarsi anche in senso inverso (interesse della controllata ad un reato direttamente
vantaggioso per la controllante), ancorché l’ipotesi tracciata nel testo - specie quando sussista una scissione tra attività
strategica (controllante) e attività operativa (controllate) - sia quella più significativa a livello pratico-applicativo.
41
G.I.P. Trib. Milano, ord. 9 novembre 2004 [nota 22].
42
su queste distinzioni terminologiche v., ad es., DI TORO, Falso in bilancio, gruppi aziendali e responsabilità degli
amministratori, Padova 2000, 2, nt. 3.
43
Trib. Milano, ord. 20 dicembre 2004 [nota 24].
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 115

Nello stesso solco si inserisce anche una successiva sentenza emessa con il rito
abbreviato dal Gip di Milano44, nella quale, in un caso di aggiotaggio su strumenti
finanziari, si è ribadito che aderendo all’“interpretazione restrittiva del concetto di
«interesse dell’ente», si sposerebbe una visione inattuale dell’ente, concepito come una
monade isolata all’interno del complesso sistema economico attuale, con conseguenti
evidenti lacune di tutela tutte le volte in cui l’interesse perseguito sia ricollegabile non
all’ente di cui fa parte l’autore del reato, ma ad una società controllata o controllante,
oppure al gruppo nel suo insieme”; cosicché risulterebbe “evidente che, in presenza di
gruppi d’imprese, il perseguire l’interesse di gruppo attraverso la commissione di un
reato, realizza una delle condizioni richieste ai fini dell’integrazione dei criteri
d’imputazione oggettiva della responsabilità”. Tale decisione presenta però un profilo
di eccentricità rispetto alle altre menzionate nel testo, avendo utilizzato il criterio dell’
“interesse di gruppo” rispetto ad enti non avvinti da forme “istituzionali” di direzione
e controllo da parte di una capogruppo, ma da ben più tenui e sfuggenti
compartecipazioni incrociate, tali comunque da giustificare una qualche cointeressenza
in uno o più affari societari45.

3.2.1. Rilievi critici

Essendo l’interesse di gruppo ricondotto nell’impostazione del Tribunale milanese


alla mera “prospettiva della partecipazione agli utili”46 ottenuti direttamente dalle
controllate, resta poco chiaro se esso trascenda realmente quello delle singole
articolazioni societarie ovvero si configuri come la semplice somma degli autonomi e
distinti interessi delle varie società del gruppo al conseguimento del rispettivo
utile47.
Di fatto, a fronte di questo “etereo”48 interesse del gruppo, l’unico argine
garantistico alla migrazione della responsabilità verso la capogruppo è dato dall’im-
prescindibile esigenza “di un rapporto qualificato tra l’agente e l’ente, nella specie la
posizione apicale di amministratore della controllante da parte di chi ha commesso il
reato da cui dipende l’«illecito amministrativo»”49. A ben vedere, però, trattasi di un
baluardo assai fragile sia sul piano empirico, avuto riguardo alla molteplicità di
cariche, di diritto ma anche di fatto, spesso ricoperte da soggetti apicali all’interno
delle varie società di un gruppo50, sia sul piano giudiziario, considerati i ricorrenti
tentativi della giurisprudenza di affermare la corresponsabilità di chi amministra
l’holding di vertice nel reato commesso dal dirigente della controllata ricorrendo da
un lato allo schema del concorso per omesso impedimento di reati altrui ex artt. 40

44
G.I.P. Trib. Milano, dr.ssa Cerreti, 26 febbraio 2007, reperibile su www.rivista231.it.
45
V. sul tema ASTROLOGO, Reciproca cointeressenza, compartecipazioni incrociate e d.lgs. n. 231/2001, in questa
Rivista, 4-2007, pp. 95 ss.
46
V. soprattutto la citata ord. 20 dicembre 2004 [nota 24].
47
Si ricordi che l’“interesse di gruppo”, secondo la dottrina civilistica, in cui tale concetto è stato originariamente
coniato, “è il punto di equilibrio, il centro di convergenza, l’asse di coordinamento tra l’interesse della controllante e
l’interesse delle altre società del gruppo”: cfr. MONTALENTI, Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi
compensativi, in Giur. Comm., 1995, I, pp. 719 ss..
48
Usa tale espressione PISTORELLI, Brevi osservazioni sull’interesse di gruppo quale criterio oggettivo di imputazione
della responsabilità da reato, in questa Rivista, 1-2006, p. 15.
49
Cfr. Trib. Milano, sez. ries., 20 dicembre 2004 [nota 24].
50
Ad es.: amministratore della società figlia e dirigente della società madre; amministratore della controllante e
amministratore esecutivo della controllata; amministratore di diritto della holding e amministratore di fatto della società
partecipata.
116 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

cpv. e 110 c.p.51 oppure al paradigma dell’amministratore di fatto, e dall’altro ad una


normativizzazione del dolo (quando richiesto), che lo spoglia di qualsiasi connotazione
psicologica reale.
Per impedire che l’interesse di gruppo diventi un’etichetta onnivora52 e, per
converso, scongiurare facili elusioni della responsabilità da parte della capogruppo
che abusi di una società figlia, va quindi assegnato il giusto peso non solo al requisito
del rapporto qualificato tra autore del reato ed ente di cui all’art. 5, lett. a) e b) (sotto
questo profilo, prestando particolare attenzione alla veste in cui ha agito il reo che
ricopra più ruoli formali all’interno del gruppo), ma anche al criterio dell’interesse.
Circa quest’ultimo, vanno evitate deduzioni sostanzialmente presuntive dalla mera
direzione unitaria della capogruppo di un suo interesse alla consumazione di reati
immediatamente vantaggiosi per le controllate53. In questo senso paiono inaccettabili
“generalizzazioni secondo cui ogni vantaggio patrimoniale conseguito dalle società
operative è destinato inevitabilmente, in un modo o nell’altro, a riverberarsi sulla
persona giuridica che detiene le partecipazioni azionarie di maggioranza”54. Oltre che
irragionevoli dal punto di vista politico-criminale, simili espedienti si risolverebbero,
a nostro avviso, in una patente violazione del divieto di analogia in malam partem
desumibile dall’art. 2 d.lgs. 231/2001, posto che tale decreto non contempla una
disciplina ad hoc del gruppo di impresa55 e, soprattutto, manca di riconoscerlo come
entità giuridica unitaria, e quindi come “ente” titolare di un interesse generale56.

4. La cd. “colpa di organizzazione”. I requisiti di idoneità preventiva ed


efficace attuazione dei Modelli Organizzativi ante factum e post factum
nell’elaborazione giurisprudenziale

All’adozione ed efficace implementazione di modelli organizzativi e gestionali


idonei a prevenire la commissione di reati il legislatore ha assegnato un ruolo cardine
nell’economia del diritto punitivo degli enti. Essi non solo esprimono la vocazione
accentuatamente preventiva del d.lgs. 231/2001 (quali strumenti di profilassi dei reati
rientranti nel rischio dell’attività di impresa), ma mirano a salvaguardare, anche

51
Cfr. SGUBBI, Gruppo societario e responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del d.lgs. 231/2001, in questa
Rivista, 1-2007, pp. 9 ss., per il quale “per ovviare a ciò, l’unica strada è quella di munire la holding di un Modello di
Organizzazione volto a prevenire anche i delitti realizzabili nelle altre società del gruppo” (p. 9).
52
In senso critico sulla possibilità di fondare la responsabilità delle società appartenenti ad un gruppo sul concetto di
“interesse di gruppo” anche SCAROINA, Il problema del gruppo di imprese. Societas delinquere potest, Milano 2006, pp.
223 ss.; ZANNOTTI R. [nota 26], 84.
53
Non va dimenticato al riguardo che le diverse società di un gruppo sono soggetti giuridici distinti, riguardando
l’unitarietà solo il profilo economico: cfr., per tutti, GALGANO, Diritto commerciale. Le società, Bologna 14a ed., 2004, p.
242. Su queste basi il Cons. di Stato, nel parere dell’11 gennaio 2005, ha escluso che il provvedimento applicativo di una
misura cautelare ex art. 45 d.lgs. 231/2001 nei confronti della capogruppo (nel caso di specie, divieto di contrattare con la
p.a.) possa ritenersi automaticamente esteso anche alle società controllate o partecipate da quest’ultima, tanto più che in
tal modo si colpirebbero soggetti rimasti estranei al procedimento, in violazione del diritto di difesa.
54
Così SANTORIELLO, Gruppi di società e sistema sanzionatorio del d.lgs. n. 231/2001, in questa Rivista, 4-2007, p. 50.
55
Lo nota, ancorché in senso critico, ad esempio, DI GIOVINE [nota 12], pp. 117 ss.
56
Non manca, anche sotto questo profilo, qualche segnale di conforto nella giurisprudenza, come nel caso
della già citata sent. La Fiorita [nota 34], in cui si richiama alla necessità di accertare scrupolosamente “se e in che
limiti la commissione dei reati abbia fatto conseguire un interesse diretto alla società La Fiorita prescindendo da ogni
considerazione sull’interesse o sul vantaggio derivato dai reati posti in essere a favore” di altra società sostanzialmente
controllata dalla prima.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 117

rispetto all’illecito dell’ente, i tradizionali cardini garantistici della responsabilità


penale di matrice costituzionale (art. 27, comma 1, Cost.)57. In quest’ottica il “modello”,
oltre a costituire il “supporto materiale” del “dovere di organizzazione” - e sua
“susseguente concretizzazione «modale»” - incardinato in capo alla societas58, delimita
lo spazio della cd. colpa organizzativa dell’ente59, intesa come deficit “oggettivo” di
organizzazione direttamente correlato al reato commesso a favore dell’ente; e forse
può divenire persino l’oggetto di una sorta di “rimproverabilità personale” - quindi di
una più autentica “colpevolezza normativa” - dell’ente collettivo, per i profili attinenti
l’esigibilità della condotta conforme a dovere60.
Tale impostazione politico-criminale è stata declinata in un costrutto normativo
piuttosto complesso: a) se istituiti in modo adeguato ed efficacemente attuati prima
della commissione del fatto (artt. 6 e 7), i compliance programs possono assicurare
l’esonero della responsabilità dell’ente, avendo esso adempiuto, secondo la diligenza
oggettivamente richiesta, all’obbligo di prevenzione del rischio-reato; b) ove
approntati ex post factum, possono invece alleggerire in vario modo la risposta
sanzionatoria: riduzione della sanzione pecuniaria da un terzo alla metà (art. 12,
comma 2, lett. b); esclusione delle sanzioni interdittive (art. 17, purché ricorrano
anche le altre condizioni ivi previste); conversione delle sanzioni interdittive in
sanzione pecuniaria, nel caso in cui l’ente abbia posto in essere tardivamente le
condotte di cui all’art. 17 (art. 78); nonché, nella fase cautelare, impossibilità di
applicare le misure interdittive (art. 45, sub specie accertamento del pericolo di
reiterazione del reato), ovvero sospensione e successiva revoca delle stesse (art.
49).
Il vaglio ultimo sulla rispondenza dei Modelli Organizzativi alle condizioni stabilite
dalla legge per l’operatività dell’esimente spetta al giudice penale61, sebbene il
legislatore abbia riconosciuto ai “codici di comportamento” predisposti dalle
associazioni di categoria il ruolo di specificare le direttive generali contenute nel
decreto (art. 6, comma 3) e così di orientare, specie a ridosso dell’emanazione della
nuova normativa, gli operatori del settore. Tuttavia, è subito apparso chiaro che le
“linee guida” tempestivamente elaborate dalle associazioni imprenditoriali (ad es.
Confindustria, Abi, Ance), non potevano fornire agli enti desiderosi di conformarsi ai
dettami legali più che una traccia di massima nella costruzione del Modello adeguato
alla singola realtà aziendale. Si è così immediatamente profilata una questione di
tassatività-determinatezza, per il rischio che fosse lasciato al giudice un eccessivo, e

57
Cfr., in una vasta letteratura, PALIERO, Il d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231/2001, da ora in poi, societas delinquere (et
puniri) potest, in Il corr. giur., 2001, pp. 845 ss.; ALESSANDRI, Riflessioni penalistiche sulla nuova disciplina, in Id. (a cura
di), La responsabilità amministrativa degli enti, Milano 2002, p. 43, il quale rimarca come la “colpa di organizzazione”
sia “colma di istanze preventive”; PIERGALLINI, Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, in
Riv. trim. dir. pen. ec., 2002, pp. 587 ss.; MEREU, La responsabilità “da reato” degli enti collettivi e i criteri di attribuzione
della responsabilità tra teoria e prassi, in Ind. pen., 2006, pp. 62 ss.; DE VERO [nota 17], pp. 164 ss., con accenti critici sul
modo in cui il legislatore ha fatto ricorso a tale paradigma imputativo.
58
PALIERO e PIERGALLINI, La colpa di organizzazione, in questa Rivista, 3-2006, pp. 174, 184.
59
Sul tema v., da ultimo, CORI, La colpa dell’organizzazione quale criterio di imputazione soggettiva nel sistema del
d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in SIRACUSANO P. (a cura di), Scritti di diritto penale dell’economia, Torino 2007, pp. 235
ss. Ritiene che rispetto al reato degli apicali la responsabilità dell’ente non si fondi sulla colpa di organizzazione, ad es.,
TRIPODI, “Situazione organizzativa” e “colpa in organizzazione”, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2004, pp. 500 ss. Sulla “colpa
di organizzazione” quale sottocategoria della “colpevolezza d’impresa”, v., in generale, DE VERO [nota 17], pp. 63 ss.
60
Per questa ulteriore possibile valenza dei compliance programs cfr. DI GIOVINE [nota 26], pp. 1341 ss.
61
V., per tutti, DE SIMONE, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli enti: la “parte generale”
e la “parte speciale” del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in GARUTI [nota 13], p. 109.
118 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

per certi versi incontrollato, potere discrezionale nella valutazione della capacità
preventiva del Modello62.
Anche alla luce di queste considerazioni, appare di cruciale importanza gettare
uno sguardo sul modo - invero ancora frammentario e poco esaustivo - in cui la
giurisprudenza ha cercato di dare concretezza al precetto legale, quando si è trovata
a dover giudicare dell’efficacia prevenzionistica di modelli di organizzazione elaborati
da enti coinvolti in un procedimento penale.
Tra le prime pronunce espressamente cimentatesi sui parametri essenziali di
un compliance program idoneo a fini preventivi (nella specie sottoponendo ad
esame il modello di organizzazione adottato dopo l’inizio del procedimento dalla
società convenuta), rientra un’ordinanza cautelare emessa dal Gip del Tribunale
di Roma63, a seguito della richiesta di applicazione ad una S.p.A. della misura
interdittiva del divieto di contrattare con la P.A., in relazione ad una vasta vicenda
corruttiva finalizzata all’aggiudicazione di appalti pubblici. In quest’occasione, il
giudice adito ha sostenuto che lo scrutinio d’idoneità di un Modello adottato
medio tempore, pur potendo rifarsi ai criteri generali previsti dagli artt. 6 e 7, è
necessariamente più rigoroso e specifico rispetto al settore aziendale in cui si
asserisce realizzato il reato. In tal caso, infatti, si richiede “una valutazione da
formularsi non in termini esclusivamente prognostici ed ipotetici, ma anche in
considerazione del dato fattuale desumibile dalla prospettazione dell’accusa”;
cosicché i Modelli Organizzativi postumi “dovranno necessariamente risultare
maggiormente incisivi in termini di efficacia dissuasiva e dovranno valutare in
concreto le carenze dell’apparato organizzativo e operativo dell’ente che hanno
favorito la perpetrazione dell’illecito”64. Con queste premesse il Gip romano,
peraltro disattendendo le conclusioni del perito all’uopo nominato65, ha espresso
un giudizio negativo sul modello predisposto post factum dall’ente, censurando in
particolare:
a. l’omessa predisposizione di un codice di regolamentazione per l’area dei
subappalti (e, segnatamente, di un divieto espresso di stipulare contratti di subappalto
all’interno delle società del gruppo), settore “ad alto rischio” secondo la prospettazione
accusatoria, giacché le attività illecite erano state realizzate proprio per il tramite di
un subappaltatore;

62
V. MUSCO, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive, in Dir. giust., 23-2001, p.
10, e, da ultimo, PANAGIA, Rilievi critici sulla responsabilità punitiva degli enti, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2008, pp. 155,
162 ss., secondo cui occorrerebbe che “le norme organizzative intese a vanificare i rischi-reato, nell’esercizio dell’impresa
collettiva, siano imposte nel dettaglio, per singoli settori di attività, con atti normativi aventi dignità legislativa”. Invece, per
GIUNTA, La responsabilità da reato dell’ente collettivo, reperibile sul sito www.lex.unict.it, p. 8, “la strada da percorrere
sembra [...] quella di estendere alla responsabilità da reato gli sforzi compiuti nel campo della colpa generica, allo scopo
di ricostruire un concetto di negligenza compatibile con il principio di determinatezza”.
63
G.I.P. Trib. Roma, dr.ssa Finiti, ord. 4 aprile 2003, in Foro it., 2004, II, pp. 317 ss., commentata da DI GERONIMO,
in Cass. pen., 2004, pp. 253 ss.
64
Nel fare espresso richiamo a tale pronuncia, la succitata ord. 9 novembre 2004 del Trib. di Milano [nota 22] ha,
però, puntualizzato che “non sussiste una diversità strutturale tra modelli organizzativi a seconda che gli stessi vengano
elaborati ex ante ovvero ex post”, cosicché più che una maggiore incisività del modello elaborato ex post, rileva “l’assoluta
necessità che (esso) tenga presente la storia dell’ente e prenda in serio esame i segnali di rischio evidenziati”. Secondo,
invece, Gip Trib. Napoli, dr.ssa Saraceno, ord. 26 giugno 2007, Impregilo s.p.a. e altre, pubbl. su www.rivista231.it, i
modelli adottati ex post devono reagire ai reati già commessi con misure più stringenti: “previsioni specifiche, procedure
esattamente determinate e determinabili, regole individuate anche nella loro rigida sequenza e funzionalmente dirette a
garantire il conseguimento di precisi risultati”.
65
Gip Roma, ord. 22 novembre 2002, in Foro it., 2004, II, pp. 317 ss.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 119

b. la costituzione dell’organismo di vigilanza (O.d.V.) nella sola capogruppo, e


non anche nelle società controllate di medio-grandi dimensioni66, peraltro senza
assicurare l’autonomia e l’indipendenza dei membri dell’organo istituito, il quale
dovrebbe essere svincolato dal controllo gerarchico del management e sprovvisto di
“compiti operativi che, facendolo partecipe di decisioni dell’attività dell’ente, potrebbero
pregiudicare la serenità di giudizio al momento delle sue verifiche”. In particolare,
l’ordinanza de qua, nel mentre ritiene opportuno che restino al di fuori dell’O.d.V.
membri di organi sociali e che, all’opposto, ne facciano parte “collaboratori esterni,
forniti della necessaria professionalità”, conclude per l’inadeguatezza di soggetti già
deputati a svolgere compiti di controllo interno nell’ente, come il “responsabile delle
procedure ISO 9002 e della sicurezza all’interno della principale società operativa”,
giacché in tal caso “v’è un’indubbia commistione tra il ruolo di vigilanza impostogli
dalla partecipazione all’O.d.V. e un ruolo di amministrazione attiva”. Neppure la
composizione collegiale dell’O.d.V. - che comunque si imporrebbe, secondo il
giudice adito, nelle imprese medio-grandi - è stata ritenuta, nel caso esaminato,
sufficiente ad escludere tali “pericoli di interferenza tra organo di controllo e società
controllata”;
c. infine l’omessa previsione, a garanzia della stabilità ed effettività del modulo
organizzativo adottato, di un termine di non modificabilità, nonché - in deroga all’art.
2388 c.c. - di una maggioranza qualificata (particolarmente significativa) del C.d.A.
per apportarvi modifiche.
Anche la già citata ordinanza emessa nel caso Siemens67 ha fornito qualche spunto
utile sui requisiti di solidità del Modello preventivo, precisando che ad integrare la
condizione riparatoria di cui all’art. 17, lett. b) (eliminazione delle carenze organizzative
determinatrici del reato) non basta la predisposizione di un mero “codice etico”,
occorrendo, piuttosto, l’elaborazione di un più strutturato Modello Organizzativo, nel
rispetto dei criteri fissati dagli artt. 6 e 768. Il provvedimento in esame ha, sotto questo
profilo, reputato del tutto insufficiente la condotta dell’ente successiva alla scoperta
del reato, anche per la mancata sospensione o sottoposizione a procedimento
disciplinare dei dirigenti coinvolti nell’illecito, che furono invece semplicemente
trasferiti in un’altra divisione. Ha osservato al riguardo il Tribunale che “il problema
non è quello di collaborare con l’Autorità Giudiziaria (profilo che riguarda semmai
le persone fisiche) ma di fornire risposte precise tali da poter assicurare che sia stato
adottato un nuovo e migliore modulo organizzativo” dopo la scoperta dell’illecito,
atto a prevenire il suo ripetersi.
Alcuni passaggi dell’ordinanza de qua sembrano avvalorare, inoltre, le sensazioni
scettiche di chi ravvisa una probatio diabolica, con margini di successo pressoché
irrilevanti, nella possibilità concessa all’ente imputato di dimostrare la sua estraneità
al reato commesso da un esponente di rango verticistico (art. 6)69. Si osserva, infatti,

66
Nelle società di piccole dimensioni l’ord. in commento ammette invece l’affidamento dei compiti di vigilanza
all’organo dirigente, in linea con l’art. 6, comma 4.
67
G.I.P. Trib. Milano, 28 aprile 2004 [nota 9].
68
Vale a dire: “l’istituzione di organi di controllo dotati di autonomo potere di iniziativa, l’approntamento di specifici
protocolli diretti a programmare la formazione e 1’attuazione delle decisioni dell’Ente in relazione ai reati da prevenire,
l’individuazione delle modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione di reati (e qui
devono essere affrontati i problemi relativi all’esistenza di fondi extra contabili), l’adozione di un efficace sistema
di veicolazione delle informazioni all’interno della società, l’introduzione infine di un sistema disciplinare idoneo a
sanzionare seriamente il mancato rispetto dei comportamenti e delle misure indicate”.
69
Cfr., da ultimi, AMBROSETTI, MEZZETTI e RONCO, Diritto penale dell’impresa, Bologna 2008, pp. 49 ss.
120 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

con parole chiaramente ispirate dalla teoria cd. organicistica, che “chi, come il
dirigente apicale, impersona l’Ente, non trascina nella responsabilità l’Ente stesso solo
nella situazione limite o quasi manualistica” in cui possa dimostrarsi “non certo per
ipotesi o presunzione, che egli abbia pervertito e frustrato con l’inganno l’intero
sistema decisionale e di controllo della società”. In tale visione, il reato commesso dai
vertici nell’interesse della società è ritenuto ipso facto frutto d’una strategia aziendale
ascrivibile all’ente collettivo, anzi espressivo della voluntas sociale secondo il criterio
dell’immedesimazione organica. Non stupisce, poi, che un ente così “umanizzato”
venga descritto anche come “ispiratore e complice dei reati ascritti” alle persone
fisiche. Tuttavia, una prospettiva così assolutizzante non convince, giacché l’idea di
una perfetta e costante coincidenza tra politica di impresa e volontà dei soggetti
apicali pare plausibile solo rispetto a realtà organizzative di minori dimensioni o non
particolarmente complesse, in cui di norma sussiste una forte concentrazione
decisionale, mentre negli altri casi non è affatto scontata70.
Sui tratti essenziali dei “Modelli di Organizzazione e Gestione idonei a prevenire
reati della stessa specie di quello verificatosi” si è soffermata anche la successiva
ordinanza di appello71. Ravvisando nell’“efficacia, specificità e dinamicità” i connotati
essenziali del Modello di Organizzazione suscettibile di vaglio positivo in sede
giudiziale, il Tribunale milanese ha constatato come non fossero stati correttamente
adempiuti gli obblighi successivi alla scoperta del reato ex art. 7, n. 3 d.lgs. 231/2001,
non essendo, ad esempio, state approntate misure idonee ad assicurare l’assoluta
trasparenza della contabilità (come la chiusura dei conti esteri contenenti fondi
“riservati”) e neppure istituito un adeguato sistema disciplinare.
Le summenzionate ordinanze emesse nel procedimento Ivri Holding sono però
quelle più prodighe di indicazioni contenutistiche sui requisiti d’idoneità ed effettiva
attuazione dei Modelli. Nell’ordinanza applicativa del provvedimento cautelare si
rileva, in linea con il dettato legale e i codici di comportamento delle associazioni di
categoria, che nella costruzione dei Modelli occorre muovere da “un’analisi
approfondita della realtà aziendale con l’obiettivo di individuare le aree che risultano
interessate dalle potenziali casistiche di reato e realizzare una rappresentazione
esaustiva di come i reati possono essere attuati rispetto al contesto operativo interno ed
esterno in cui opera l’azienda”. A tal fine, la dovuta attenzione dovrà essere prestata
alla storia dell’ente (anche giudiziaria) e alle caratteristiche degli altri soggetti operanti
nel medesimo settore. Solo ciò può permettere di individuare “i momenti della vita
dell’ente che devono più specificamente essere parcellizzati e procedimentalizzati in
modo da potere essere adeguatamente ed efficacemente controllati”72. Invece, i Modelli
redatti ex post dalle società indagate sono stati ritenuti inidonei, anzitutto, per carenza
di specificità e concretezza, esaurendosi - secondo il giudice milanese - “in una mera
iterazione del dettato normativo”73.

70
Cfr. PIERGALLINI [nota 57], 589 s.; PALIERO, La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento
italiano: profili sistematici, in AA.VV., Societas [nota 17], 29 s., che parla di possibile “dissociazione di personalità” tra la
società e i suoi amministratori; contra MEREU, [nota 57], pp. 65 ss. ed autori ivi richiamati.
71
Trib. Milano, ord. 28 ottobre 2004 [nota 9].
72
Es. presentazione delle offerte per gli enti che partecipano ad appalti pubblici; contatti con la concorrenza;
costituzione di ATI; modalità di esecuzione degli appalti; consulenze a soggetti esterni di cui vanno controllati costi ed
effettività; gestione delle risorse economiche; movimentazioni di denari all’interno del gruppo.
73
Ad es., la sezione dei modelli delle società IVRI Holding e Cogefi, dove si prevedeva la “predisposizione di
meccanismi di archiviazione delle scritture contabili atti ad una ricostruzione rapida e precisa della vita contabile
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 121

Per quanto concerne l’organismo di vigilanza, si è ritenuto che fossero stati


disattesi i requisiti di autonomia, indipendenza e professionalità. In particolare, non
basterebbe un rinvio del Modello ai curricula “dei singoli componenti dell’organo”,
dovendosi esigere capacità specifiche in tema di attività ispettiva e consulenziale
(campionamento statistico; tecniche di analisi e valutazione dei rischi; tecniche di
intervista e di elaborazione di questionari, metodologie per l’individuazione delle
frodi). Circa le cause di ineleggibilità a componente dell’O.d.V., il Modello dovrebbe
prevedere la sentenza di condanna (o di patteggiamento) per uno dei reati elencati
nel decreto, anche se non passata in giudicato.
Quanto alla formazione del personale, ritenuta altro capitolo essenziale del
Modello Organizzativo, l’ordinanza in esame rimarca la necessità di differenziarla “a
seconda che la stessa si rivolga ai dipendenti nella loro generalità, ai dipendenti che
operino in specifiche aree di rischio, all’organo di vigilanza ed ai preposti al controllo
interno”; nonché di prevedere “il contenuto dei corsi, la loro frequenza, l’obbligatorietà
della partecipazione ai programmi di formazione”, e “controlli di frequenza e di
qualità sul contenuto dei programmi di formazione”.
Circa il sistema disciplinare si pretende anche la “comminazione di sanzione
disciplinare nei confronti degli amministratori, direttori generali e compliance officers
che per negligenza ovvero imperizia non abbiano saputo individuare, e
conseguentemente eliminare, violazioni del modello e, nei casi più gravi, perpetrazione
di reati”.
Riguardo all’esigenza di controllo e monitoraggio del funzionamento e
dell’aggiornamento del modello è stata censurata la mancata previsione di “sistematiche
procedure di ricerca ed identificazione dei rischi quando sussistano circostanze
particolari (ad es. emersione di precedenti violazioni, elevato turn-over del personale),
così come di controlli di routine e controlli a sorpresa - comunque periodici - nei
confronti delle attività aziendali sensibili”.
Un’ulteriore lacuna dei Modelli è stata ravvisata nella mancata previsione e
regolamentazione, in contrasto con le guidelines di categoria, dell’“obbligo per i
dipendenti, i direttori, gli amministratori della società di riferire all’organismo di
vigilanza notizie rilevanti e relative alla vita dell’ente, a violazioni del Modello o alla
consumazione di reati”, nonché delle relative modalità di adempimento.
L’ordinanza emessa dal Gip presso il Tribunale di Napoli nel procedimento che
vedeva coinvolte varie società del gruppo Impregilo per la nota vicenda dello
smaltimento dei rifiuti campani74, ricalca in gran parte i rilievi mossi nell’ordinanza
testé esaminata, nel giudicare inidonei i Modelli Organizzativi elaborati ex post dalle
società indagate. Non manca, però, qualche spunto più originale, come la richiesta di
specificare scadenze e modalità della periodica attività ispettiva nel regolamento
dell’O.d.V.; la contrarietà alla nomina come membro dell’O.d.V. della capogruppo di
chi già rivesta la carica di amministratore (nella specie indipendente) di società
controllate; l’esigenza di prevedere un’apposita sanzione per la violazione degli
obblighi di vigilanza sui sottoposti da parte dei soggetti apicali e, più in generale, di
una maggiore tipizzazione dei comportamenti illeciti e delle relative sanzioni, al di là
di un’elencazione esemplificativa.

societaria”, non indicava “concretamente le modalità, i meccanismi ed i tempi di archiviazione delle scritture e, dunque,
gli effettivi poteri di controllo esercitabili dall’Organo di Vigilanza”.
74
G.I.P. Trib. Napoli, ord. 26 giugno 2007 [nota 64].
122 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

Per quanto concerne specificamente i protocolli di prevenzione elaborati dalle


società prevenute, sono stati ritenuti del tutto generici sia quelli di carattere generale
che quelli congegnati per specifiche classi di reati (tra cui quelli contro la P.A.)75.
La carenza di specificità è stata la ragione essenziale anche del giudizio d’inidoneità
formulato in un’ordinanza del Tribunale di Bari sui moduli organizzativi adottati ex
post dalle società indagate76: previsioni del tutto generiche ed astratte, spesso
tautologiche rispetto alle prescrizioni penali vigenti o meramente ripetitive delle linee
guida redatte dalle associazioni di categoria, ed assenza di qualsiasi “chiaro protocollo
di lavoro in relazione alle diverse procedure normalmente seguite all’interno di un
ente che pure ha quale oggetto esecuzione di appalti anche pubblici”; mancata
previsione di “sanzioni disciplinari, oltre che degli illeciti e della correlazione
(eventuale? necessaria? improbabile?) tra illecito e sanzione”77.
Degno di menzione è, infine, il chiarimento fornito da una sentenza emessa
all’esito di un giudizio abbreviato dal Tribunale di Lucca78, secondo cui, alla luce della
formulazione adottata dall’art. 12, comma 2, lett. b), l’idoneità dei Modelli Organizzativi
redatti ex post “non (può) che essere valutata ed apprezzata, in questa sede, soltanto
in via teorica ed astratta, cioè ex ante e «sulla carta»”; non richiedendosi in altre parole
la verifica della loro efficace attuazione79. Nella specie, però, la riduzione della
sanzione è stata contenuta nel limite minimo di 1/3, giacché l’adozione del Modello
Organizzativo era “avvenuta soltanto ad indagini abbondantemente esaurite ed, anzi,
soltanto dopo la richiesta di giudizio abbreviato e, ancor più in particolare, pochi
giorni prima della data di celebrazione del processo”.

4.1. Rischi di un eccessivo formalismo. La necessità di appurare uno


specifico legame tra il difetto organizzativo e il tipo di reato commesso

Le censure di genericità rivolte a molti dei Modelli Organizzativi finora sottoposti


a vaglio giudiziale paiono avvalorare talune previsioni dottrinali che la filosofia
preventiva sottesa al d.lgs. 231 sarebbe prevalentemente sfociata in prassi di
adeguamento puramente “cosmetiche”.
D’altra parte, desta qualche preoccupazione anche l’atteggiamento formalistico
solitamente assunto dalla giurisprudenza nella prognosi d’idoneità dei compliance
programs. Infatti, nello stilare la lista delle lacune e dei difetti che avrebbero
compromesso (o - nei Modelli adottati ex post factum - avrebbero potuto pregiudicare
per il futuro) l’idoneità preventiva del programma di conformità, è stata quasi sempre
del tutto pretermessa la verifica del legame tra le carenze organizzative contestate e
il tipo di reato specificamente realizzatosi (o ulteriormente realizzabile, nel caso di

75
In particolare è stata reputata del tutto astratta la previsione che “i dati e le informazioni riportati in atti attestazioni
e richieste aventi come destinatario la PA sono sempre preventivamente vagliati e autorizzati dai responsabili delle funzioni
che hanno prodotto ed elaborato i dati ivi contenuti”.
76
G.I.P. Trib. di Bari, dott. De Benedictis, ord. 18 aprile 2005, pubbl. su www.rivista231.it.
77
Anche l’effettiva attuazione del modello adottato medio tempore dalle società prevenute è stata valutata
negativamente, giacché “la gestione delle procedure per l’aggiudicazione degli appalti viene lasciata a soggetti, ex
amministratori, completamente estranei e non considerati nei modelli medesimi”.
78
G.U.P. Trib. Lucca, dott. Dal Torrione, sent. 26 ottobre 2006, pubbl. su www.rivista231.it.
79
In senso critico in dottrina, per il rischio che siano prodotti in giudizio modelli meramente “cosmetici”: cfr. ARENA
e CASSANO, La responsabilità da reato degli enti collettivi, Milano 2007, p. 256.
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti 123

modelli successivi al fatto)80. Quindi: nessuna verifica del contributo concretamente


fornito alla realizzazione dell’illecito da parte della violazione organizzativa denunciata
e neppure della reale appartenenza del reato occorso alla sfera di rischio coperta dalla
cautela doverosa (cd. giudizio di concretizzazione del rischio)81; piuttosto una
tendenza a desumere ex post dalla stessa commissione del reato l’inidoneità del
Modello o la sua inefficace attuazione82. Ma questo è l’ineluttabile approdo di uno
schema di pensiero in cui l’ipotetica carenza organizzativa rileva in sé, come intrinseco
fattore della colpa organizzativa dell’ente, la quale, scolorando in una sorta di
colpevolezza per una condotta di vita aziendale “disordinata”83, perde di vista
l’effettivo coinvolgimento dell’ente nel reato commesso.
Anche nella valutazione dei Modelli adottati dopo l’illecito - come detto l’ipotesi
sinora più frequente nella prassi applicativa - è prevalso finora un atteggiamento
improntato ad un rigoroso formalismo, per effetto del quale, alla puntigliosa ricerca
di un qualsivoglia scostamento dalla diligenza pretesa dall’ipotetico “ente modello”,
non ha fatto riscontro un’adeguata spiegazione della sua incidenza sul pericolo di
ricaduta nello specifico illecito già realizzato84. Emblematico di un approccio attento
più all’astratta conformità che alla sostanza della prevenzione organizzativa ci sembra
il rilievo mosso, in un caso giudiziario85, contro la previsione dell’ineleggibilità
nell’O.d.V. di chi sia stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato
previsto dal decreto, piuttosto che con sentenza anche solo di primo grado o di
patteggiamento; ciò ancorché, in concreto, nessuno dei componenti dell’organo di
controllo fosse mai stato attinto da un giudizio di colpevolezza, anche solo in prima
istanza.
Appare inoltre eccessiva, e per certi aspetti illusoria, la pretesa talvolta avanzata dalla
giurisprudenza d’una stringente e penetrante procedimentalizzazione (“regole individuate
anche nella loro rigida sequenza”86) delle aree in cui si è manifestato il reato, a fini di
prevenzione della sua ripetizione. Ciò sembra sottendere una visione “meccanicistica” del

80
Per un forte richiamo alla necessità di “un legame specifico tra la violazione organizzativa e il singolo fatto
criminoso” concretamente realizzato, v. ROMANO, La responsabilità amministrativa degli enti, società, associazioni:
profili generali, in Riv. soc., 2002, p. 409. La questione, però, nel caso di reati commessi dagli apici, è complicata
dall’inversione dell’onere della prova - sancita dall’art. 6, comma 1 - in ordine all’adozione ex ante di un idoneo modello
preventivo (in tal caso sembrerebbe che la colpevolezza dell’ente e il suo nesso con il reato siano presunti; però trattasi,
in ogni caso, di presunzione vincibile dall’ente). Ma anche rispetto ai reati commessi dai subordinati sussistono dubbi,
discutendosi se la correlazione con il deficit organizzativo debba articolarsi nei termini di una mera agevolazione ovvero
di un nesso condizionalistico in senso stretto (sulla questione v. PASCULLI, La responsabilità ‘da reato’ degli enti collettivi
nell’ordinamento italiano, Bari 2006, pp. 198 ss., nonché nel primo senso DE VERO [nota 17], 194 e nel secondo DE
SIMONE [nota 17], 675 s.). Ci sembra comunque innegabile che il giudice abbia quanto meno l’obbligo di valutare
l’idoneità preventiva del modello - adottato ex ante o ex post dall’ente - non in termini generali e assoluti ma in rapporto
alla specifica tipologia del reato commesso.
81
Sulla necessità di tale verifica v. DI GIOVINE [nota 26], 1338; Id. [nota 12], 83. Cfr., altresì, GIUNTA, Attività
bancaria e responsabilità ex crimine degli enti collettivi, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2004, p. 14, il quale ritiene condizione
necessaria e sufficiente per un’imputazione del reato all’ente che esso rientri “nello spettro preventivo del modello
organizzativo e gestionale doveroso”, in presenza del quale “perde di rilevanza il nesso di causalità tra la violazione del
modello e la verificazione del reato”.
82
Esito paventato, tra gli altri, da CARMONA, La responsabilità “amministrativa” degli enti: reati presupposto e modelli
organizzativi, in questa Rivista, 1-2006, p. 209.
83
In senso critico sulla “colpevolezza di organizzazione”, quando “appare assumere i caratteri di una colpevolezza
per la condotta di vita” v. PATRONO, Verso la soggettività penale di società ed enti, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2002, pp.
191 ss.
84
Significativo al riguardo è l’art. 17 che richiede, per escludere l’applicazione di sanzioni interdittive, l’eliminazione
delle “carenze organizzative che hanno determinato il reato”.
85
Cfr. Gip Trib. Napoli, ord. 26 giugno 2007 [nota 64].
86
Così, ancora, Gip Trib. Napoli, ord. 26 giugno 2007 [nota 64].
124 La responsabilità amministrativa delle società e degli enti

sistema preventivo, secondo cui ad una maggiore rigidità e pervasività delle misure
preventive e ad un più alto tasso di burocratizzazione corrisponderebbe, quasi
automaticamente, l’eliminazione del rischio di commissione di reati.
La problematica dei gruppi societari cela qualche ulteriore insidia, per la possibilità
che si diffondano pressioni giudiziali verso una penetrante azione preventiva della
capogruppo nell’attività operativa delle controllate87, che di fatto finirebbe per imporre
restrizioni alla loro autonomia “che, a tacer d’altro, risulterebbero scarsamente
compatibili con i diritti delle minoranze azionarie”88. Vanno, quindi, evitate forme di
indebita ingerenza negli affari delle società figlie che, quando un reato nell’interesse
diretto di quest’ultime sia stato commesso, finirebbero per favorire proprio quella
risalita della responsabilità alla capogruppo che si vorrebbe scongiurare.

5. Responsabilità in sede civile degli amministratori per mancata adozione


del Modello Organizzativo 231

In una recente sentenza, il Tribunale civile milanese89 ha per la prima volta


affrontato la questione delle conseguenze, sul piano civilistico, della mancata
adozione del Modello Organizzativo ai sensi del d.lgs. 231/2001. In questo modo il
dilemma “obbligatorietà/facoltatività” del programma preventivo si è arricchito di un
nuovo capitolo. E’ noto, infatti, che la mancata adozione del Modello non è di per sé
sanzionata dal legislatore90, ma costituisce, in ogni caso, il fulcro dell’addebito di
negligenza organizzativa rivolto all’ente.
Tale pronuncia, con argomentazioni piuttosto succinte, ha stabilito che l’amministratore
che non abbia adottato i suddetti Modelli, esponendo la società amministrata all’inflizione
di sanzioni punitive ai sensi del decreto citato, possa essere sanzionato per mala gestio.
In particolare, nel caso di specie, il giudice adito ha accolto parzialmente la richiesta
risarcitoria avanzata dalla società nei riguardi del suo amministratore delegato, a seguito
della condanna dell’ente al pagamento di una sanzione pecuniaria, essendosi ritenuto il
concorso di colpa dell’amministratore per il venir meno al dovere di attivazione del
consiglio di amministrazione, rimasto inerte in merito all’adozione dei Modelli.
Con tale pronuncia non siamo ancora alla perentoria dichiarazione dell’obbligatorietà
dei Modelli, ma di sicuro gli amministratori di società avranno d’ora in poi un ulteriore
motivo per ritenere i compliance programs requisito aziendale sostanzialmente
necessario.
(prima parte)

87
Al riguardo l’ordinanza del GIP milanese nel caso Ivri Holding sostiene “che avrebbero, poi, dovuto essere previsti
meccanismi tali da rendere estremamente difficoltoso per i vertici di IVRI Holding e Cogefi «coordinare» le attività corruttive
funzionali a fare in modo che le società operative (le controllate) potessero ottenere l’aggiudicazione di appalti pubblici”.
A nostro avviso potrebbe al più richiedersi un flusso informativo periodico di informazioni tra controllante e controllate.
88
Così PISTORELLI [nota 48], 16. Sull’impossibilità di istituire un organismo di vigilanza di gruppo, v., LECIS,
L’organismo di vigilanza nei gruppi di società, in questa Rivista, 2-2006, 46, sebbene l’A. ammetta “la riproposizione della
stessa compagine in più di un Organismo di Vigilanza” (p. 47).
89
Trib. Milano, sez. VIII civ., sent. 13 febbraio 2008, n. 1774, consultabile su www.rivista231.it.
90
Che si tratti di mero onere, e non di obbligo, è ritenuto sinora dalla maggioritaria dottrina: v. sul punto la
ricognizione di LA ROSA M., Teoria e prassi del controllo “interno” ed “esterno” sull’illecito dell’ente collettivo, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2006, p. 1303. Invece, secondo PULITANO’ [nota 20], 961, costituisce un onere solo l’adozione del modello
ex art. 6, giacché rispetto al reato dei sottoposti la loro predisposizione costituisce “un obbligo, ad un tempo, dei soggetti
apicali e dell’ente che essi «impersonano»”.

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