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(IVALDI)
Diritto Internazionale
Università degli Studi di Genova (UNIGE)
55 pag.
NOZIONE DI DIP
Con l’espressione “diritto internazionale privato” ci si riferisce all’insieme delle norme che ciascuno Stato si
dà per disciplinare quelle situazioni e rapporti, che coinvolgono i privati, che non sono totalmente interni
all’ordinamento, e cioè che presentano, rispetto all’ordinamento statale in questione, qualche carattere di
estraneità/internazionalità. L’espressione non viene sempre utilizzata con la medesima portata.
o In senso lato, e cioè secondo l’accezione più ampia, essa riguarda tutti i settori dell’ordinamento giuridico
che toccano soggetti privati (ad es. diritto penale, diritto processuale penale internazionale, diritto
amministrativo internazionale ecc.);
o Secondo un’accezione intermedia, si parla di diritto internazionale privato in relazione ai profili sia
processuali che materiali dei rapporti privatistici, vale a dire solo rispetto alle categorie di diritto
processuale civile internazionale e diritto privato internazionale;
o Invece, nel suo significato più ristretto, la nozione di DIP esclude anche i profili processuali, residuando
cioè solo la categoria del diritto privato; ed è proprio rispetto a questa categoria di norme che si è
storicamente cominciato ad avvertire il problema della disciplina applicabile a situazioni non totalmente
interne. In merito, si parla di norme di conflitto, tradizionalmente definite dall’art.1 l.218/95 come
norme idonee a porre i criteri per l’individuazione della legge applicabile da parte del giudice italiano.
FONTI DI DIP
1) DIRITTO ITALIANO
Una prima fonte di DIP, ricavabile dal diritto italiano, è la Legge 218/1995 che reca la Riforma del sistema
italiano di DIP. Tale legge ha carattere onnicomprensivo, in quanto, ex art.1, essa “determina l’ambito della
giurisdizione italiana, pone i criteri per l’individuazione del diritto applicabile e disciplina l’efficacia delle
sentenze e degli atti stranieri”. È da questa prima disposizione che può dedursi la funzione delle norme
riportate dalla legge: esse vanno, da un lato, a delimitare la giurisdizione italiana, non essendo conveniente
che i giudici nazionali abbiano a decidere di qualsiasi controversia venga loro sottoposta; dall’altro lato
vanno a definire i casi nei quali sentenze e atti stranieri sono suscettibili di produrre effetti nel nostro
ordinamento (effetti che altrimenti, alla luce del principio della separatezza degli ordinamenti giuridici, non
si produrrebbero). Si tratta dunque di determinare quali contatti tra la controversia e il nostro ordinamento
siano sufficienti per giustificare l’intervento dei nostri giudici nazionali. La legge riporta norme sia di
funzionamento (art. da 13 a 19) sia di conflitto (art. da 20 a 63).
Altra fonte italiana è il Codice della navigazione del 1942, che contiene disposizioni (art. da 1 a 14) poi
trasfuse nella l.218/95. Ad esempio, l’art.5 sulla legge della bandiera, secondo cui: gli atti compiuti a bordo
di una nave o di un aeromobile in un luogo o spazio soggetto alla sovranità di uno Stato estero sono regolati
dalla legge nazionale della nave o dell'aeromobile. Tale norma si applica come criterio di collegamento
previsto dalla norma di conflitto generale in materia di illecito (art.64 l.218/95).
Infine, ultime categorie di norme, fonti del diritto internazionale privato, sono quelle in tema di adozione
(la l.184/1983 infatti regola direttamente l’adozione internazionale di minori stranieri con una
combinazione di norme di DIP materiale e di applicazione necessaria) e di arbitrato internazionale ed
efficacia dei lodi stranieri.
2) DIRITTO INTERNAZIONALE
Alcune norme di DIP possono derivare anche da fonti di origine internazionale. Tra queste: la Convenzione
dell’Aja (1980) sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori: essa ha permesso l’istituzione, in
3) REGOLAMENTI CE/UE
La Comunità/Unione europea si è mostrata sempre più attenta alla promozione di misure in materia di DIP
volte alla progressiva comunitarizzazione del diritto internazionale privato degli Stati membri. Gli strumenti
attraverso cui vengono adottate tali misure sono le convenzioni e i regolamenti che, oltre ad essere
direttamente applicabili all’interno degli ordinamenti nazionali, consentono di uniformarne completamente
le normative. I primi regolamenti sono stati adottati sulla base dell’art.81 TFUE e riguardano il diritto
processuale civile internazionale: esso stipula che l’Unione sviluppi una cooperazione giudiziaria nelle
materie civili con implicazioni transnazionali, determinando un miglioramento e la semplificazione delle
decisioni in materia civile e commerciale, e la promozione della compatibilità delle regole applicabili agli
Stati membri ai conflitti di leggi; il Consiglio, su consultazione del Parlamento europeo, delibera
all’unanimità secondo la procedura legislativa ordinaria, salvo che in materia di diritto di famiglia che è
soggetto a una procedura speciale. Altra base giuridica che regola le fonti di derivazione comunitaria è
l’art.67 TFUE, in base al quale l’Unione è tenuta a realizzare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nel
rispetto dei diritti fondamentali, dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli
Stati membri; le libertà da tutelare sono quelle del mercato interno, concernenti la circolazione delle
persone, dei servizi, delle merci e capitali, e delle decisioni. Al fine di assicurare ciò, in tale spazio deve
essere facilitato l’accesso alla giustizia, attraverso il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni.
Lo scopo ultimo di queste normative è dunque quello di promuovere la prevedibilità e la certezza nel
diritto, riducendo il forum shopping (quel fenomeno che prevede, in luogo di una controversia, la ricerca
del tribunale potenzialmente più favorevole e davanti al quale è più conveniente promuovere il giudizio in
funzione delle norme di conflitto
che questo è tenuto ad applicare).
LA QUALIFICAZIONE
La qualificazione consiste nella determinazione del significato di quelle espressioni mediante le quali le
norme di conflitto delimitano il proprio ambito materiale di applicazione: ciascuna norma infatti riguarda
una più o meno ampia categoria di fattispecie, individuata attraverso una formula giuridica differente (ad
es. l’art.29 riguarda i rapporti personali tra coniugi, l’art.36 i rapporti tra genitori e figli ecc..). Il giudice,
dopo aver accertato di avere la giurisdizione, deve decidere quale norma di conflitto applicare al caso
sottopostogli, ovvero a quale norma esso sia riconducibile (ciascuna norma di conflitto, infatti, impiega suoi
propri criteri di collegamento e conduce a un differente risultato, cioè all’applicazione del diritto di questo o
quello Stato); la qualificazione serve dunque per identificare la norma di conflitto più adatta, quella nel cui
campo di applicazione rientra il caso di specie.
La qualificazione delle norme di conflitto dovrà svolgersi alla luce del sistema normativo cui la norma in
questione appartiene, cioè secondo i canoni interpretativi propri dell’ordinamento nel quale la norma è
inquadrata. Ciò significa che, per quanto concerne le norme di conflitto poste dal nostro legislatore, la
qualificazione deve essere operata sulla base del diritto italiano, ossia sulla base della lex fori, mentre per le
norme di conflitto poste da atti comunitari l’operazione va svolta sulla base del diritto comunitario. A tal
fine, si terrà conto non solo del diritto materiale del foro ma anche delle valutazioni poste dalle stesse
norme di conflitto, nonché della funzione che il legislatore assegna a tali norme. Ciò implica che la
qualificazione non sia totalmente appiattita sul diritto materiale del foro (c.d. qualificazione omogenea) ma
debba essere autarchica, nel senso che occorre sì muovere dalla lex fori, dando però alle espressioni
giuridiche impiegate dalle norme un significato più ampio ed elastico di quello che essi hanno nei
corrispondenti precetti di diritto materiale. Non può trovare accoglimento, invece, la tesi della seconda
qualificazione, secondo la quale l’interpretazione delle norme di conflitto dovrebbe essere operata alla luce
dell’ordinamento competente a regolare la fattispecie (qualificazione sulla base della lex causae): questo
perché, a individuare tale ordinamento si giunge applicando la norma di conflitto, pertanto sarebbe del
tutto illogico servirsi delle categorie giuridiche dell’ordinamento straniero richiamato per individuare quella
tra le norme di conflitto del foro che deve operare il richiamo.
Il fatto che si debba procedere alla qualificazione sulla base della lex fori può tuttavia compromettere
l’armonia internazionale delle soluzioni, in quanto la risoluzione di un determinato caso sarà diversa a
seconda che venga sottoposto ai giudici dell’uno o dell’altro Stato, pur avendo questi identiche norme di
conflitto. Questa conseguenza è stata chiaramente percepita nel caso Bartholo del 1889. Il sig. e la sig.ra
Bartholo, cittadini maltesi, si sposano a Malta per poi trasferirsi in Algeria, di cui il sig. Bartholo acquista la
cittadinanza. Alla sua morte egli dispone di tutti i suoi beni in favore di una persona diversa dalla moglie e
questa, dunque, richiede giudizialmente una quota dei beni del marito. La qualificazione operata dai due
ordinamenti (maltese e algerino) è diversa: il diritto maltese considerava la questione come successoria,
mentre quello algerino come attinente ai rapporti tra coniugi. Le norme di conflitto dei due ordinamenti,
invece, coincidono: per le questioni successorie si applica la legge nazionale del de cuius al momento del
IL RINVIO
Nella legge di riforma del 1995, le norme di conflitto vere e proprie (art.20-63), volte a indicare il diritto
applicabile, sono precedute da alcune norme di funzionamento, racchiuse negli art. da 13 a 19, nelle quali
il legislatore ha provveduto a regolare espressamente alcune questioni generali della materia. La prima di
queste norme è l’art.13 dove ci si occupa del rinvio. Il problema del rinvio consiste nel domandarsi se il
richiamo di un ordinamento straniero da parte delle norme di conflitto si riferisca solo alle norme materiali,
oppure includa le norme di DIP di detto ordinamento nel suo complesso, e dunque se queste ultime
possano produrre un rinvio dall’ordinamento straniero, individuato come applicabile dalla norma italiana
(cioè del foro), a quello di un altro Stato. Si prospettano quindi due distinte soluzioni: la prima, accolta dai
Reg. Roma I, II, III, esclude l’operatività del rinvio nei confronti delle norme di DIP del paese straniero;
l’art.20 del Reg. Roma I, infatti, dispone che il rinvio si riferisca solo alle norme giuridiche in vigore in quel
paese ad esclusione delle norme di diritto internazionale privato, salvo che l’ordinamento non disponga
altrimenti. La seconda soluzione invece è quella accolta dall’art.13 della l.218/95; esso dispone che il rinvio,
operato dal diritto internazionale privato straniero verso la legge di un altro Stato, abbia rilevanza: se il
diritto di tale Stato accetta il rinvio (c.d. rinvio altrove accettato), o se si tratta di rinvio alla legge italiana
(c.d. rinvio indietro). Il rinvio altrove accettato si ha quando le norme di DIP dello Stato A richiamano il
diritto dello Stato B, le cui norme richiamano il diritto dello Stato C (schema A – B – C – C): ciò ad esempio
quando il cittadino di B, della cui successione ereditaria si discute davanti ai giudici dello Stato A, abbia
avuto ultimo domicilio nello Stato C. In questo caso, si suole dire che la catena si spezza solo quando il DIP
di C utilizza anch’esso il domicilio come criterio di collegamento per la successione ereditaria; si dice
dunque che il diritto dello Stato C accetta il rinvio, altrimenti la catena dei passaggi proseguirebbe con il
rischio che si cada nel circolo del rinvio altrove (Stato A – B – C – D – … ). Il rinvio indietro, invece, si ha
quando le norme di DIP dello Stato A richiamano quelle dello Stato B, ma questo richiama a sua volta il
diritto dello Stato A: questo schema implica una catena senza fine di rimandi da A a B e viceversa, che non
ammette sul piano logico una via d’uscita (schema A – B – A); ad esempio nel caso di una controversia
relativa all’eredità di un cittadino dello Stato B, domiciliato nello Stato A, che venga portata davanti ai
giudici dello Stato A, il cui DIP sottopone le successioni per causa di morte al diritto dello Stato di cui il
defunto era cittadino al momento della morte (cioè lo Stato B). Tale soluzione prospettata dall’art.13,
nonostante la difficile configurazione, è stata comunque accolta, pur con molte eccezioni.
A fare emergere il problema del rinvio è stata una vicenda successoria ottocentesca nota come Caso Forgo
(1878), in cui la Corte di cassazione francese ammise per la prima volta il rinvio nella sua declinazione di
“rinvio indietro”. Il signor Forgo, cittadino bavarese, si era trasferito in giovane età in Francia, senza averne
mai acquistato la cittadinanza o il domicilio. Egli, morendo in Francia senza testamento, aveva lasciato un
ingente patrimonio mobiliare, tutto situato in Francia. I soli parenti di Forgo erano alcuni collaterali della
madre, i quali sarebbero stati eredi se la successione fosse stata regolata dal diritto materiale bavarese,
mentre il diritto materiale francese non li considerava tali e prevedeva che a succedere, in mancanza
appunto di altri successibili, fosse lo Stato francese. La Corte, in primo grado, sostenne che la successione
dovesse essere regolata dal diritto francese, in quanto, secondo le norme di DIP di tale Stato, andava
L’ORDINE PUBBLICO
Gli Stati, come soggetti del diritto internazionale, nascono e si affermano nei fatti attraverso fenomeni
basati sull’effettività. Il diritto internazionale, in quanto ad essi preesistente, non prescrive precisi assetti
organizzativi o modalità procedimentali al fine dell’attribuzione della personalità giuridica; esso si limita a
prendere atto della loro esistenza e a verificare la presenza fattuale di una serie di requisiti. Ogni Stato,
pertanto, trova in se stesso la fonte che ne origina l’esistenza e che legittima l’attribuzione a suo beneficio
della personalità giuridica internazionale con la conseguente operatività delle norme di diritto
internazionale. I requisiti richiesti ai fini dell’attribuzione della soggettività sono, nello specifico, la sovranità
esterna e la sovranità interna degli Stati. Per quanto riguarda la sovranità esterna, essa deve intendersi in
termini di indipendenza giuridica, e cioè di indipendenza dell’ordinamento giuridico dello Stato rispetto ad
altri ordinamenti o sistemi normativi; in questo senso, si tratta quindi di verificarne l’originarietà. La
presenza del requisito dell’indipendenza è stata disconosciuta in alcune situazioni in cui l’ente governativo
di uno Stato, che pur appare indipendente sul piano formale, è in realtà totalmente condizionato
dall’autorità di un altro Stato per propria volontà (i c.d. governi fantoccio). Per quanto riguarda la sovranità
interna, invece, essa comporta necessariamente la capacità di esercitare effettivamente un potere di
governo collettivo nei confronti di un popolo stanziato su di un territorio (triade
governo/popolo/territorio). La progressiva evoluzione del sistema normativo internazionale sembra voler
qualificare ulteriormente le modalità attraverso cui deve manifestarsi il requisito relativo alla sovranità
interna, al fine dell’accertamento della personalità giuridica di uno Stato. Secondo alcuni autori, infatti, il
potere di governo collettivo deve affermarsi nel rispetto dei diritti dell’uomo (tanto che, in caso di una loro
violazione, si legittima l’intervento da parte di altri Stati per garantirne l’osservanza), nonché del principio di
autodeterminazione dei popoli. Tali requisiti e circostanze rivestono una precisa valenza politica e
producono alcuni effetti giuridici che si esprimono soprattutto attraverso il riconoscimento degli Stati; in
realtà, l’acquisto della personalità giuridica internazionale avviene in presenza del fattuale riscontro degli
elementi costitutivi dello Stato, a prescindere da qualsiasi procedimento formale. Il riconoscimento di uno
Stato da parte di un altro Stato non è, infatti, prerequisito necessario per l’attribuzione della personalità
giuridica, bensì esso produce effetti meramente dichiarativi; questo perché, in caso contrario, si verrebbe
ad ammettere che gli Stati preesistenti possano esercitare nei confronti di un nuovo Stato una sorta di
potere di ammissione nella comunità internazionale.
Fino al Novecento, i soggetti primari cui era indirizzata la disciplina internazionalistica erano enti o
organizzazioni collettive (e in particolare gli Stati); un’eventuale applicazione del diritto internazionale agli
individui poteva avvenire solamente per il tramite degli Stati e nell’ambito degli ordinamenti statali. Con
l’avvento del DI contemporaneo, però, in conseguenza di regole di diritto pattizio, anche gli individui sono
diventati destinatari a tutti gli effetti del diritto internazionale, e ciò a causa di due particolari fenomeni: in
primo luogo, l’affermarsi di una responsabilità penale personale direttamente prevista, e
giurisdizionalmente azionabile, nell’ambito dell’ordinamento nazionale nei confronti degli individui che
commettono determinati comportamenti considerati crimina juris gentium; in secondo luogo, la previsione
di obblighi posti a carico degli enti dotati di personalità giuridica internazionale (in primis gli Stati) non più
funzionali alla reciproca tutela della loro autonomia, indipendenza e sovranità, bensì alla diretta protezione
dei diritti fondamentali dei governati. Per quanto riguarda i c.d. crimina juris gentium, già in passato alcuni
comportamenti venivano valutati da parte del diritto internazionale come crimini: si trattava della pirateria,
della tratta degli schiavi, del contrabbando di guerra ecc. Oggi tale concetto è stato ampliato dal Tribunale
Militare Internazionale di Norimberga, in relazione a condotte lesive di valori fondamentali della Comunità
internazionale, e in particolare: crimini di guerra, crimini contro la pace, crimini contro l’umanità. Negli
ultimi decenni si è così affermata la rilevanza e diretta applicazione di quelle norme che provvedono a
sanzionare gli individui per la commissione di specifici comportamenti criminali. Tali principi sono stati
progressivamente affinati e precisati sino alla formulazione accolta dallo Statuto del Tribunale penale per la
ex Jugoslavia, e da quello della Corte penale internazionale. Per converso, all’affermarsi di obblighi e
procedimenti direttamente operanti nei confronti degli individui corrisponde anche il definitivo
consolidamento di diritti e garanzie previsti dal diritto internazionale direttamente a favore degli individui e
autonomamente azionabili da questi ultimi con sempre maggiore grado di intensità ed effettività. Ciò si
riscontra con particolare riguardo alla tutela dei diritti dell’uomo, affermati con norme rivolte a favore degli
individui, in virtù delle quali questi vengono riconosciuti come diretti titolari di situazioni giuridiche protette
nell’ordinamento internazionale. Di fronte a tale evoluzione del diritto internazionale sembra pertanto
possibile riconoscere una pur limitata personalità internazionale degli individui; si tratta di una personalità
giuridica diversa rispetto a quella degli Stati, in quanto gli individui potranno far valere solamente alcune
specifiche situazioni giuridiche in ambito internazionale, ciò sempre entro precisi limiti e determinate
condizioni; inoltre non possono valersi delle garanzie di attuazione previste dal DI generale proprio perché
esse sono strutturate in funzione delle caratteristiche dei soggetti primari della Comunità internazionale.
ALTRE FONTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE Dal punto di vista strettamente tecnico, rilevano anche altre
fonti di diritto internazionale, riconducibili a tale diritto anche se non idonee a dar vita a norme generali.
Direttamente prevista da regole del diritto generale è l’efficacia obbligatoria della promessa unilaterale,
che costituisce una dichiarazione di uno Stato di adottare un certo comportamento nei confronti di altri
soggetti; la conseguenza della promessa è l’obbligatorietà del comportamento che ne è oggetto
indipendentemente da qualsiasi reciprocità. Più indirettamente possono essere poi ricondotte al diritto
internazionale generale le fonti costituite da quegli atti emanati da organizzazioni internazionali in base ai
propri statuti. Si tratta qui di atti previsti come obbligatori dalle norme di tali statuti, che trovano perciò il
loro fondamento in tali norme, aventi carattere pattizio: per tale ragione si parla comunemente di fonti di
terzo grado (considerando di primo grado le norme generali e di secondo grado quelle pattizie). I casi in cui
il potere di emanare atti vincolanti è attribuito a determinate organizzazioni internazionali non sono molto
frequenti, ma rivestono un notevole significato: si pensi alle decisioni vincolanti emanate dal Consiglio di
sicurezza delle N.U., e ai regolamenti, direttive e decisioni dell’Unione europea. Un ultimo caso si ha
nell’ipotesi di una sentenza pronunciata ex aequo et bono da giudici internazionali: in casi del genere, la
sentenza fondata sull’equità acquista significato e valore di fonte di norme vincolanti per le parti in causa.
Non appartiene alla tematica delle fonti la materia della c.d. soft law. Tale categoria comprende una
molteplicità di atti e di manifestazioni della prassi, i quali hanno in comune un elemento di carattere
negativo, che consiste nell’assenza di effetti giuridici vincolanti. Non si tratta dunque di fatti inquadrabili in
una precisa categoria tecnico-giuridica, quanto piuttosto di proposizioni, definite da taluni semi-normative,
aventi la stessa struttura logica delle vere e proprie norme giuridiche vincolanti: un dato comportamento
viene infatti indicato come doveroso al verificarsi di determinati presupposti; inoltre, tale doverosità si
colloca ad un livello diverso da quello proprio dell’obbligo giuridico, o perché il soggetto dal quale proviene
la proposizione è privo del potere di emanare regole di condotta vincolanti, o perché la valutazione viene
espressamente compiuta in termini diversi da quelli strettamente giuridici, risolvendosi nell’indicazione di
comportamenti meramente raccomandati, oppure definiti come doverosi dal punto di vista solo morale o
sociale. Nell’ambito della categoria rientrano le più varie manifestazioni della prassi: si può trattare di
accordi di natura politica, nei quali è assente la volontà degli Stati di obbligarsi giuridicamente (uno degli
esempi più noti è rappresentato dall’Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in
Europa, i c.d. Accordi di Helsinki del 1975); si può trattare poi di risoluzioni, di per sé prive di effetti
vincolanti, dell’Assemblea generale delle N.U.; oppure possono essere proposizioni semi-normative nella
forma di codici di condotta o di guidelines, volte a fissare degli standard nella gestione di certe materie (es.
l’ambiente).
Strumenti primari In tale contesto, l’art.31.3 impone di tenere in considerazione ogni accordo ulteriore
intervenuto fra le parti in materia di interpretazione del trattato (lett. a), la prassi successiva che dimostri
l’accordo delle parti relativamente all’interpretazione delle sue disposizioni (lett. b) e ogni regola di diritto
internazionale applicabile nelle relazioni tra le parti (lett. c). Il primo caso riguarda l’ipotesi alquanto
frequente in cui gli Stati specifichino il significato o l’applicazione di un termine, mediante un accordo
concluso a questo fine e che obbliga gli Stati a non discostarsi dall’interpretazione così convenuta; quanto
alla prassi applicativa, si tratta di un elemento di accettazione del significato della norma applicata che
costituisce la manifestazione oggettiva del consenso degli Stati sul significato e la portata del trattato;
quanto infine alle regole di diritto internazionale applicabili alle parti, si tratta del consenso dei rapporti
Strumenti complementari L’art.32 permette il ricorso ad altri strumenti esegetici quando si voglia
trovare conferma ulteriore del risultato al quale si è giunti sulla base della regola enunciata all’art.31, o
quando l’utilizzazione di questa non abbia eliminato i dubbi sul significato del testo che sia rimasto ambiguo
o oscuro oppure abbia condotto ad attribuirvi un significato assurdo o irragionevole. Tra i mezzi
complementari l’art.32 cita esplicitamente i lavori preparatori del trattato, cioè i negoziati in senso ampio
come documentati nei resoconti di seduta, e le circostanze della sua conclusione, ovvero le vicende
storiche che hanno portato alla conclusione del trattato. Ciò non esclude che possano essere utilizzati
strumenti diversi, come la prassi successiva unilaterale, che non rientra nell’art.31.3, o alcuni principi
esegetici generali che costituiscono regole tecniche del ragionamento interpretativo (in particolare
l’analogia). L’art.32 non prende però posizione sull’opponibilità dei lavori preparatori agli Stati aderenti al
trattato, che era stata esclusa da alcune decisioni internazionali; la soluzione dipenderà dunque dal caso
concreto e dall’accessibilità dei lavori preparatori per lo Stato in questione.
Interpretazione in più lingue La Convenzione di Vienna si occupa poi dei trattati in più lingue, per i quali
dispone, come regola generale, che indipendentemente dalle versioni linguistiche in cui il testo è redatto e
autenticato, il principio di uguaglianza degli Stati comporta l’uguaglianza dei testi autentici. In mancanza di
tale volontà espressa, l’unità del trattato, che non può che contenere un’unica serie di espressioni e termini
sui quali si è formato il consenso, comporta che si debbano applicare gli art.31 e 32, sulla base della
presunzione che tutte le versioni abbiano lo stesso significato. Ove si concluda che le diverse versioni
linguistiche hanno significati diversi, l’art.33.4 impone che si dia la preferenza al significato che meglio
riconcilia i testi alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato: si tratta di individuare, sulla base della
natura del trattato e del contesto particolare in cui il termine viene utilizzato, il significato che rispetti
l’armonizzazione dei testi disposta dall’art.33 e che elimini ogni divergenza tra di essi.
Interpretazione dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali La flessibilità del metodo codificato
nella Convenzione di Vienna risulta evidente ove si tratti di interpretare i trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali, nei quali l’aspetto teleologico risulta prevalente nella prospettiva della vita e dello sviluppo
dell’attività di tali enti. Il richiamo alle regole contenute nella Convenzione di Vienna non ha impedito la
piena utilizzazione a tali trattati della teoria dei poteri impliciti, in quanto applicazione particolare del
principio di effettività. Questa teoria è stata utilizzata dalla Corte internazionale di giustizia per giustificare
l’esercizio di competenze non previste esplicitamente dalla Carta delle Nazioni unite, affermando in sintesi
che gli Stati membri, attribuendo determinate funzioni all’organizzazione con i relativi obblighi e
responsabilità, vi hanno aggiunto i poteri necessari per adempiere a tali funzioni, dunque si deve ritenere
che quei poteri le siano stati conferiti necessariamente in modo implicito in quanto essenziali per
l’adempimento dei suoi obblighi. Nell’ambito dell’UE, la teoria dei poteri impliciti è stata poi utilizzata dalla
Corte di giustizia già nel quadro del Trattato CECA per fondare la competenza a concludere accordi
internazionali.
Le riserve ai Trattati
L’aumento del numero degli Stati e la volontà di ottenere la più ampia partecipazione possibile a un trattato
hanno comportato un uso maggiore delle riserve, che consistono in dichiarazioni unilaterali depositate
dallo Stato al momento della firma o della manifestazione del consenso, che escludono o modificano
Procedura per far valere una causa di invalidità La Convenzione istituisce anche una procedura
alquanto complessa per far valere una causa di invalidità, estinzione o sospensione, agli art.65-67. Secondo
la Corte di giustizia dell’Unione europea non si tratta di norme di codificazione, mentre per la Corte
internazionale di giustizia essa quantomeno riflettono il diritto internazionale consuetudinario. Secondo la
Convenzione, la parte che intenda far valere una causa di invalidità, estinzione o sospensione deve
notificare la sua pretesa per iscritto alle altre parti. In mancanza di obiezioni entro un periodo di almeno tre
mesi, lo Stato può adottare la misura in questione. Qualora invece vengano sollevate obiezioni, le parti
devono cercare una soluzione della controversia secondo l’art.33 della Carta delle N.U. o attraverso altri
L’obbligo di risultato posto dalle norme internazionali L’individuazione delle tecniche di attuazione, da
parte degli Stati, degli obblighi a loro carico in virtù del diritto internazionale è di regola rimessa alla loro
libera determinazione: è raro infatti che vengano imposte espressamente a questi ultimi le modalità
attraverso le quali operare le modifiche dei rispettivi ordinamenti interni. Normalmente il diritto
internazionale si limita a richiede ai suoi destinatari che venga conseguito un determinato risultato, di cui la
norma internazionale è espressione. Da un lato, dunque, gli Stati godono di un ampio margine di scelta;
dall’altro sono tuttavia esposti a responsabilità sul piano internazionale qualora, pur avendo formalmente
adempiuto gli obblighi loro facenti carico adeguando la normativa interna a quella prevista dalla
convenzione, consentano, o quantomeno tollerino violazioni significative e sistematiche degli obblighi
Rango della norma interna risultante dall’adattamento A proposito del valore delle norme risultanti
dall’adattamento del diritto interno al diritto internazionale, si è da tempo affermato a livello
giurisprudenziale un principio di carattere generale. Esso attiene al rango che le norme di adattamento
assumono nell’ambito della gerarchia delle fonti interne: tale rango coincide con quello dello strumento
normativo con il quale si è provveduto ad immettere nell’ordinamento interno la disciplina
internazionale: ad esempio, le norme internazionali generalmente riconosciute, una volta trasposte
nell’ordinamento interno per il tramite dell’art.10 Cost., assumono rango costituzionale. Tale principio è
destinato ad operare non solo con riferimento alle norme consuetudinarie, cui il nostro ordinamento si
adegua per il tramite dell’art.10 Cost., ma anche con riguardo a quelle previste in accordi internazionali, il
cui adattamento avviene, per ogni singolo trattato, con un atto ad hoc consistente nell’ordine di esecuzione
adottato con legge ordinaria. Conseguentemente anche le norme di derivazione pattizia possono assumere
una rilevanza costituzionale, laddove l’adattamento venga operato per il tramite di una legge
costituzionale. Dopo la riforma del 2001, infatti, alle disposizioni previste in trattati internazionali vincolanti
per l’Italia viene riconosciuta la funzione di norme interposte nel giudizio di costituzionalità, in quanto
dirette a rendere concretamente operativo il parametro costituito dall’art.117 Cost. (Corte cost. sentenze
gemelle).
3 - ADATTAMENTO DEL DIRITTO ITALIANO AL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
Per quanto riguarda l’adattamento al diritto dell’Unione europea, al fine di garantire il primato del diritto
comunitario, si è progressivamente affermata una soluzione analoga a quella già consolidata con riguardo
al diritto internazionale generale, ossia quella fondata sull’idoneità delle fonti UE ad incidere sulle norme
costituzionali interne, con il solo controlimite dei principi supremi dell’ordinamento. Le fonti previste dai
trattati istitutivi vengono sinteticamente indicate come diritto derivato. In linea di principio, l’ordine di
esecuzione formulato dalla legge ordinaria con la quale si è proceduto all’adeguamento del diritto italiano
ai trattati è idoneo a garantire anche l’adattamento alle fonti di diritto derivato dell’UE previste dai Trattati,
vale a dire regolamenti, direttive e decisioni. I regolamenti non richiedono integrazioni quanto al loro
contenuto precettivo; ciò implica dunque la loro efficacia diretta. Nel caso delle altre due fonti, direttive e
decisioni, la regola è invece il recepimento. In tale prospettiva, a partire dalla legge La Pergola, sono state
elaborate delle modalità di trasmissione degli atti non direttamente applicabili adottati dall’Unione: la
disciplina più recente, che ha sostituito la c.d. legge Buttiglione, è stata formulata con la legge 234/2012,
…NELL’ADATTAMENTO AI TRATTATI
L’art.117 Cost., a seguito delle modifiche introdotte dalla legge cost. n.3/2001, contiene diverse disposizioni
rilevanti a proposito delle competenze riconosciute in capo alle Regioni, nonché alle Province autonome, in
materia di rapporti internazionali: tra queste, in particolare, il quinto comma dell’art.117 Cost., in base al
quale: le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, provvedono
all’attuazione e all’esecuzione di accordi internazionali, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da
legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
L’articolo si limita a formalizzare a livello costituzionale la prassi già esistente che assegnava un ruolo attivo
alle regioni in sede di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali (esso comunque non pone in
discussione il principio, da sempre affermato, secondo il quale va esclusa la soggettività internazionale degli
enti sub-statali, per difetto dei requisiti prescritti). Il quinto comma dell’art.117 demanda allo Stato il
compito di stabilire le norme di procedura che le Regioni debbono rispettare nel provvedere all’attuazione
e all’esecuzione degli accordi internazionali. A questo proposito, rileva innanzitutto l’art.6 primo comma
l.131/2003, secondo cui le Regioni e Province autonome, nelle materie di propria competenza legislativa,
provvedono direttamente all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali ratificati, dandone
preventiva comunicazione al Ministero degli affari esteri e alla Presidenza del Consiglio dei ministri, i quali,
nei successivi trenta giorni, possono formulare criteri e osservazioni. Alla luce di tale disposizione, che
impiega l’avverbio “direttamente” per definire la misura del coinvolgimento degli enti sub-statali nella fase
discendente, il quinto comma dell’art.117 Cost. assumerebbe un significato fortemente innovativo se
interpretato come abilitante le Regioni e le Province autonome a dare esecuzione agli accordi internazionali
indipendentemente da un previo atto statale di immissione. L’opinione prevalente sembra però ribadire
l’assunto tradizionale circa la necessità di un previo recepimento statale; d’altro canto, il primo comma
dell’art.6 opera una limitazione del proprio campo applicativo, forse non del tutto conforme al quinto
comma dell’art.117 Cost., circoscrivendo tale ambito ai soli accordi internazionali ratificati (in tal modo la
disposizione esclude l’attuazione da parte delle Regioni di qualsiasi accordo stipulato in forma semplificata).
È possibile talvolta che determinate attività svolte da uno Stato nel proprio territorio e nell’esercizio delle
proprie funzioni pubbliche violino la sovranità territoriale di un altro Stato, se poste in essere con modalità
e risultati capaci di portare un concreto pregiudizio alla possibilità di quest’ultimo di attuare il proprio
ordinamento in una specifica situazione garantendone i valori essenziali. Conseguenze del genere possono
prodursi in due distinte situazioni: in primo luogo, attraverso l’estensione e l’applicazione da parte di uno
Stato di proprie normative interne a comportamenti avvenuti nel territorio di altri Stati, quando il criterio
su cui esse si fondano è la nazionalità del soggetto e l’esercizio del potere da parte del primo Stato porta ad
imporre comportamenti in violazione degli ordinamenti degli altri Stati e degli interessi essenziali da essi
tutelati; in secondo luogo, con l’emanazione di appositi atti pubblici, lo Stato che li ha emanati ha diritto a
che questi siano opposti a tutti gli altri Stati: è quindi illecito il comportamento degli Stati che pretendano di
sottoporre a sindacato il contenuto degli atti stessi, in particolare sottoponendo a giudizio lo Stato che ne è
autore davanti alle proprie autorità (operano in questo senso le regole internazionali che garantiscono agli
Stati l’immunità in relazione ai loro atti iure imperii).
NOZIONE GENERALE DI IMMUNITÀ
Per “immunità” si intendono quelle situazioni giuridiche soggettive privilegiate riconosciute a determinati
soggetti in considerazione del loro ruolo e funzione. In diritto internazionale essa costituisce una deroga
all’esclusività della sovranità degli Stati sul proprio territorio, giustificata dall’esigenza di garantire la
sovrana eguaglianza degli Stati e il mantenimento delle loro relazioni diplomatiche. Tradizionalmente, si
sono identificate tre differenti tipologie di immunità statale:
Immunità statale in senso stretto, che spetta a tutti gli Stati, i quali non possono essere sottoposti a
giudizio davanti a tribunali di un paese straniero in relazione agli atti compiuti nell’esercizio della potestà
d’imperio (immunità dalla giurisdizione di cognizione) e ai beni destinati all’assolvimento di detta
funzione (immunità dalla giurisdizione esecutiva);
Deroghe e limiti all’immunità: la teoria della soddisfazione per equivalenti I principi sull’immunità degli
Stati assumono un rilievo determinante dal momento che garantiscono i diversi soggetti della scena
internazionale dall’interferenza reciproca nella gestione dei propri affari interni. Per questo motivo le
immunità sono riconosciute e garantite anche a scapito dell’esercizio di prerogative sovrane dello Stato del
foro. Esse dunque rappresentano norme fondamentali tali da giustificare il sacrificio di una prerogativa
tipica della sovranità statale, quale l’esercizio della funzione giurisdizionale; detto sacrificio comporta la
contestuale limitazione di un diritto fondamentale, garantito dalla Costituzione a tutti i soggetti privati: il
diritto di agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e dei propri interessi (tutelato dall’art.24 Cost.). Se
la giurisprudenza più risalente sembra affermare la supremazia dei principi relativi all’immunità, e dunque
un totale sacrificio del diritto di azione, oggi prende campo una posizione più evoluta che asserisce
l’impossibilità di sacrificare i diritti degli individui. Laddove si assista ad un contrasto tra regole
sull’immunità e diritto individuale di azione, deve procedersi ad un loro contemperamento, nel senso che la
deroga alla giurisdizione nazionale è legittima esclusivamente nell’ipotesi in cui tale diritto possa essere
soddisfatto “per equivalenti” all’esterno del foro. In altri termini, al singolo, impedito nell’esercizio del
proprio diritto all’interno del foro, deve essere garantito l’accesso ad un organo giurisdizionale straniero,
dotato di imparzialità e indipendenza, nonché capace di giudicare la lite osservando appropriate regole di
procedura. Dunque, l’immunità giurisdizionale non può derogare ma semplicemente determinare una sorta
di affievolimento nella tutela del diritto di azione (tuttavia l’esistenza di organi non giurisdizionali, purché
imparziali, è sufficiente per garantire il principio supremo della tutela giurisdizionale). L’orientamento in
esame è stato confermato dalla Corte di Strasburgo con riferimento all’art.6 della CEDU, il quale garantisce
ad ogni persona il diritto ad un equo processo e, in particolare, il diritto di azione. Sembra tuttavia doversi
dare atto di una particolare posizione assunta nei confronti delle Nazioni Unite, e non accogliente tale
teoria (es. nel caso Madri di Srebrenica, la Corte EDU ha negato che l’assenza di strumenti alternativi di
tutela possa determinare automaticamente una violazione del diritto di accesso alle corti; o ancora, nel
contesto dell’epidemia di colera ad Haiti, in cui si assumeva che la malattia fosse stata introdotta nel paese
da alcuni membri della missione ONU, la Corte distrettuale di New York ha negato la propria giurisdizione,
riconoscendo alle Nazioni Unite un’immunità assoluta).
Immunità per crimini internazionali La regola dell’immunità nella versione ristretta non ha,
tradizionalmente, conosciuto eccezioni; questo non solo a livello di Supreme corti appartenenti a paesi
stranieri, ma anche a livello di tribunali internazionali, come testimonia la stessa CEDU, la quale ha
precisato come il principio dell’immunità statale non sia derogabile neppure in caso di violazione di norme
primarie del diritto internazionale (come la norma che impone il divieto della tortura). Dal 2004 la
giurisprudenza italiana si è però segnalata per l’introduzione di una nuova limitazione all’immunità
statale, che attiene alla commissione di crimini internazionali. A partire dal Caso Ferrini, infatti, la
giurisprudenza della Corte di cassazione ha seguito un orientamento costante nel negare l’immunità allo
Stato straniero in ipotesi di commissione di crimina iuris gentium. Tale conclusione non appare però così
pacifica all’attuale stadio di evoluzione del diritto consuetudinario; non a caso la Germania ha chiesto alla
CIG di dichiarare contraria alle regole internazionali sull’immunità giurisdizionale la possibilità di celebrare
processi in Italia basati sulla violazione di norme a protezione dei diritti umani commesse dal III Reich
durante la Seconda guerra mondiale (Germania c. Italia, con intervento della Grecia, 2012). La sentenza
della Corte internazionale di Giustizia ha, in un primo momento, indotto il legislatore italiano a modificare
la disciplina interna per porre fine alla violazione del diritto internazionale ma, a seguito dell’adozione di
Codificazione in materia di immunità Per superare le divergenti soluzioni elaborate nell’ambito dei
paesi membri della Comunità Internazionale, si sono predisposti appositi strumenti dedicati al tema
dell’immunità statale. La testimonianza più significativa è la Convenzione ONU di New York sull’immunità
degli Stati e dei loro beni, adottata nel 2004 (essa, nonostante le più recenti ratifiche, tra cui anche quella
italiana, non è tuttavia ancora in vigore). La Convenzione, all’art.5, stabilisce che ogni Stato gode
dell’immunità dalla giurisdizione dei tribunali di ogni altro Stato contraente, ad eccezione di una serie di
casi espressamente elencati nella Parte III della Convenzione stessa, modellati su di un’altra convenzione
internazionale, ossia la Convenzione di Basilea del 1972 sull’immunità degli Stati. L’elenco dei casi in cui
l’immunità non può essere invocata è così ampio e significativo da impedire di poter realmente considerare
il principio immunitario come principio generale. Questi ultimi riguardano: le operazioni commerciali, le
azioni di risarcimento danni da illeciti imputabili allo Stato, le proprietà e il possesso di beni immobili situati
nello Stato del foro, i diritti su beni acquistati dallo Stato per successione o donazione, i diritti di proprietà
intellettuale e industriale, la partecipazione in società o altri enti collettivi, l’utilizzazione di navi per usi
diversi da quelli pubblici non commerciali, i procedimenti giudiziari relativi ad arbitrati.
Immunità statale e rapporti di lavoro subordinato L’applicazione del criterio che fa leva sulla distinzione
tra attività iure imperii e attività iure privatorum si rivela particolarmente complessa in materia di rapporti
di lavoro subordinato, non solo per la difficoltà di distinguere tra rapporti pubblicistici e privatistici, ma per
l’insoddisfazione cui porta comunque l’applicazione di tale criterio. Affermare la ricorrenza dell’immunità
tutte le volte in cui il lavoratore, dipendente di uno Stato straniero, sia impiegato nell’ambito di un’attività
pubblicistica, significa di fatto riconoscere quasi sempre l’immunità: questo perché è inevitabile individuare
una partecipazione diretta o indiretta di qualunque lavoratore alla corretta esplicazione di una funzione
pubblicistica. Si è proposto dunque di abbandonare del tutto il criterio che fa leva sulla partecipazione alle
funzioni pubbliche, facendo riferimento esclusivamente al luogo di svolgimento del rapporto e alla
cittadinanza del lavoratore. L’ordinamento italiano non è rimasto indifferente al nuovo orientamento. La
Suprema Corte precisa che i rapporti di lavoro di cittadini italiani con gli Stati esteri non si sottraggono alla
giurisdizione del giudice italiano quando abbiano a oggetto prestazioni manuali e meramente accessorie
delle attività di tipo pubblicistico dell’ente sovrano estero. La giurisprudenza italiana si attesta quindi su una
posizione tradizionale, che appare modellata sulla Convenzione elaborata in seno alle Nazioni unite, il cui
art.11 precisa: uno Stato non può invocare l’immunità dalla giurisdizione davanti al tribunale di un altro
Stato, ove il lavoro debba essere svolto nel territorio di tale Stato; questa disposizione non si applica se il
dipendente è stato assunto per svolgere funzioni strettamente connesse all’esercizio dell’attività di
governo, o se sia cittadino dello Stato datore di lavoro. In materia, un rilievo sempre maggiore nel
2) IMMUNITÀ FUNZIONALE
L’immunità funzionale riguarda le norme che garantiscono l’esenzione dalla giurisdizione del foro a favore
degli individui-organi (di qualunque grado e livello) che operano nell’esercizio delle mansioni loro affidate
da uno Stato estero. Una prima questione sorge già a livello definitorio: si tratta di verificare quali atti
possano dirsi compiuti nell’esercizio di un incarico ufficiale e quali, invece, appartengano alla sfera privata
dell’agente; al riguardo appaiono utilizzabili due criteri: l’uno tendente ad avvalorare un’interpretazione
restrittiva della nozione; l’altro invece favorevole a riconoscere tale qualifica in un maggior numero di
ipotesi. Utilizzando il primo criterio si ritiene compiuto nell’esercizio delle mansioni ufficiali solamente il
comportamento realizzato per finalità pubblicistiche; questa posizione cela però un grande rischio: la sua
applicazione consentirebbe infatti a qualunque tribunale nazionale di perseguire e condannare un agente
straniero imputandogli di aver commesso un fatto che, seppur posto in essere attraverso tecniche e
strumenti pubblicistici, risulti finalizzato al perseguimento di un interesse privato. Tale criterio è stato infatti
rigettato nella serie di decisioni relative al caso Pinochet, ove tuttavia la House of Lords ha negato
l’immunità all’ex Capo di Stato cileno, posto che questa è stata ritenuta persa, anche a fronte della ratifica
da parte dei tre Stati interessati nella controversia (Regno Unito, Cile e Spagna) della convenzione contro la
tortura, crimine per il quale la Spagna chiedeva l’estradizione (salvo poi non essersi proceduto in
considerazione delle condizioni di salute dell’ex Capo di stato straniero). In base al secondo criterio, invece,
deve ritenersi compiuto nell’esercizio delle mansioni ufficiali l’atto che presenti un qualunque
collegamento (diretto o indiretto) con la funzione cui l’organo è preposto, rilevando anche il solo impiego
di strumenti pubblicistici a disposizione dell’individuo-organo in ragione della qualifica ricoperta. Allo stesso
modo, si ritiene coperto dall’immunità funzionale il comportamento dell’individuo-organo che non si sia
strettamente attenuto agli ordini superiori, ovvero abbia agito in eccesso di potere, purché la sua azione sia
riportabile, anche solo formalmente, all’ambito delle mansioni assegnate.
Dal punto di vista soggettivo, l’immunità funzionale non conosce eccezioni, dal momento che qualunque
individuo-organo che agisca nell’esercizio di funzioni ufficiali gode dell’immunità. Analogamente, dal punto
di vista temporale, l’immunità funzionale è illimitata nel tempo. Incontra invece alcuni limiti dal punto di
vista oggettivo, in relazione al compimento di illeciti e alle attività poste in essere dagli individui-organi
nell’ambito di missioni non autorizzate. L’immunità non è sancita da regole di ius cogens, per questo è
derogabile con accordi internazionali: un esempio, la Convenzione per la repressione del delitto di
genocidio (1948). La derogabilità della regola dell’immunità funzionale è espressamente prevista non solo
con riferimento alla giurisdizione delle corti statali, ma anche con riferimento ai tribunali penali
internazionali, i cui Statuti consentono di perseguire gli autori di determinati crimini, nonostante la loro
qualifica di pubblici ufficiali. In merito, si fa riferimento all’art.27 dello Statuto della Corte penale
internazionale, secondo il quale l’immunità o norme procedurali speciali inerenti alla posizione ufficiale di
una persona non impediscono alla Corte di esercitare la sua giurisdizione su tale persona. Riguardo a tale
norma si evidenziano tuttavia incertezze nella prassi: in particolare, è noto che la Corte penale
internazionale ha emesso il suo primo ordine di arresto nei confronti di Al-Bashir, presidente del Sudan
(non Stato-parte dello Statuto di Roma) e ad oggi tale ordine di arresto non è stato eseguito dagli Stati-
parte. L’Unione africana si è infatti opposta all’applicazione dell’art.27 nei confronti di uno Stato-non-parte
(rilevando inoltre che la mancata cattura di Al-Bashir ha costituito una violazione della disciplina interna di
adattamento dello Statuto di Roma).
In relazione, invece, alle attività compiute all’estero, senza previa autorizzazione dello Stato territoriale, si
rinviene una prassi non uniforme: le decisioni dei tribunali appartenenti ai paesi la cui sovranità è stata
violata si presentano infatti estremamente variegate e assumono posizioni discordanti in ordine al
riconoscimento dell’immunità funzionale nei confronti degli autori dello sconfinamento. In linea di
massima, i militari sono sottoposti esclusivamente a misure provvisorie restrittive della libertà personale, e
vengono liberati laddove la lite sia stata definita a livello internazionale tra Stato del foro e Stato di
appartenenza. Se lo Stato si assume la responsabilità della missione, i giudici interni si attengono al
principio dell’assorbimento della responsabilità individuale nell’ambito della responsabilità statale,
evitando di punire l’agente; se invece lo Stato non si assume la responsabilità, i giudici non seguono alcun
criterio di assorbimento, sanzionando direttamente l’agente che ha compito l’illecito (caso emblematico è
quello della nave Rainbow Warrior, affondata in Nuova Zelanda da due agenti dei servizi segreti francesi
tramite il posizionamento di un ordigno; la Corte non ha declinato la giurisdizione nei confronti degli agenti
stranieri, nonostante il governo francese si fosse espressamente addossato la responsabilità dell’azione,
dichiarandosi pronto anche a risarcire i danni). Le decisioni dei tribunali interni e la prassi degli Stati
sembrano dunque testimoniare l’assenza di una consuetudine tesa a garantire l’immunità funzionale agli
individui-organi che abbiano compiuto missioni non autorizzate in territorio straniero, confermando la
mancanza, al riguardo, tanto della diuturnitas quanto dell’opinio juris.
3) IMMUNITÀ PERSONALE
La terza tipologia di immunità statale è rappresentata dall’immunità ratione personae, che spetta a taluni
individui-organi dello Stato in relazione agli atti compiuti al di fuori dei propri incarichi ufficiali. I soggetti
che ne godono possono fruire di un’esenzione pressoché totale dalla giurisdizione degli Stati stranieri, dal
momento che quando agiscono nell’ambito del proprio mandato sono garantiti dall’immunità funzionale,
mentre quando operano come privati godono, appunto, dell’immunità personale.
L’immunità personale si presenta, tuttavia, soggettivamente, oggettivamente e temporalmente limitata.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’immunità personale spetta solo a determinati soggetti, ossia i
diplomatici, i Capi di Stato e di Governo, nonché i Ministri degli esteri (con riferimento ai diplomatici, la
regola è espressamente codificata nell’ambito della Convenzione di Vienna del 1961). Per quanto riguarda i
limiti di carattere oggettivo, l’immunità personale va distinta: essa è assoluta in relazione alla giurisdizione
penale (il soggetto che ne gode, a fronte del compimento di qualunque reato, non può essere chiamato in
giudizio, anche nel caso di commissione di crimini internazionali); in relazione invece alla giurisdizione civile,
l’immunità personale è relativa, e cioè esistono delle eccezioni per le quali il soggetto immune può essere
citato in giudizio davanti ai tribunali stranieri (questo per: azioni reali riguardanti immobili situati nello Stato
del foro; controversie relative ad una successione nella quale il diplomatico risulti essere erede, legatario,
amministratore o esecutore testamentario; cause inerenti ad attività professionali o commerciali esercitate
al di fuori delle funzioni ufficiali; domande riconvenzionali presentate nell’ambito di azioni promosse dal
soggetto). L’immunità personale è, infine, temporalmente limitata, nel senso che spetta ai diplomatici, Capi
di Stato e di Governo e Ministri degli esteri, esclusivamente durante il loro permanere nella carica; una
volta che sia cessato il mandato, l’agente straniero sarà di nuovo perseguibile.
L’inviolabilità personale
Questi soggetti, oltre che dell’immunità dalla giurisdizione, godono anche della c.d. inviolabilità personale,
per garantire la quale gli Stati ospitanti sono gravati da precisi obblighi di fare e di non fare. Per quanto
riguarda il “non fare”, l’inviolabilità impedisce agli Stati stranieri di assoggettare i diplomatici a misure
repressive e coercitive che limitino la loro libertà personale; sul fronte del “fare”, invece, gli Stati ospitanti
hanno un obbligo speciale di protezione delle persone che godono dell’inviolabilità. Essa spetta anche ai
consoli, secondo quanto disposto dalla Convenzione di Vienna del 1963, anche se non viene loro garantita
in forma assoluta: essi non sono infatti protetti da inviolabilità in caso di reato grave o a seguito di una
decisione dell’autorità giudiziaria competente. L’inviolabilità spetta non solo all’agente diplomatico e al
console, ma anche al Capo di Stato e di Governo, nonché ai Ministri degli esteri; alcune prerogative
riguardano però solo le prime due categorie di agenti, ossia l’inviolabilità domiciliare e l’immunità fiscale:
l’inviolabilità domiciliare protegge da qualunque intrusione da parte dello Stato ospitante, sia i locali
dell’ambasciata e del consolato, sia quelli impiegati dal diplomatico per la sua abitazione privata. Anche
Lo Stato, di fronte a un soggetto non perseguibile a causa dell’immunità personale (ma anche funzionale)
non può fare altro che intimare al soggetto in questione (tipicamente un diplomatico) di lasciare il proprio
territorio, dichiarandolo persona non grata. Dopo tale dichiarazione, il soggetto viene di solito richiamato in
patria; se ciò non avviene, lo Stato ospitante potrebbe rifiutarsi di riconoscerlo come agente diplomatico, e
quindi perseguirlo.
ILLECITO E RESPONSABILITÀ
La commissione, da parte di un soggetto internazionale (sia esso uno Stato o un altro ente titolare di
posizioni giuridiche soggettive), di un atto internazionalmente illecito costituisce il presupposto necessario
per l’insorgere di una responsabilità internazionale a carico di tale soggetto. L’espressione “responsabilità
internazionale”, intesa in senso stretto quale conseguenza nascente nell’ordinamento internazionale dalla
violazione di uno degli obblighi in esso vigenti, sta ad indicare la relazione giuridica che insorge tra lo Stato
responsabile e lo Stato leso, in seguito alla commissione dell’illecito. In tale prospettiva si sono delineate
due tipologie di norme: le norme che definiscono il contenuto dell’obbligazione violata sono qualificate
come primarie; le regole che invece definiscono le condizioni generali affinché un soggetto sia considerato
responsabile dell’azione illecita sono definite come secondarie.
1) ELEMENTO SOGGETTIVO
Affinché una condotta possa essere caratterizzata come internazionalmente illecita, è in primo luogo
necessario che essa sia attribuibile allo Stato. Il principio generale di attribuibilità è espresso dalla regola
secondo la quale può essere riferita allo Stato solo la condotta dei suoi organi, ossia di quegli enti,
individuali o collettivi, attraverso i quali lo Stato si organizza e agisce. L’attribuzione di una condotta allo
Stato è basata su criteri determinati dal diritto internazionale; tuttavia è compito del diritto interno (e non
del diritto internazionale) determinare cosa costituisce organo di uno Stato. Per quanto lo Stato si ripartisca
al suo interno in una serie di organi aventi diverse funzioni e personalità, ai fini del diritto internazionale lo
Stato è trattato come una singola persona giuridica; pertanto, la condotta di qualsiasi organo statale viene
considerata come atto dello Stato, sia che esso eserciti funzioni legislative, esecutive o giudiziarie, e a
prescindere dal suo carattere di organo centrale o di ripartizione territoriale. Inoltre, la condotta è
attribuibile allo Stato nel caso in cui uno dei suoi organi agisca al di fuori della sfera di sua competenza, in
violazione del diritto interno.
Casi di atti non compiuti da organi dello Stato ma ciononostante ad esso attribuibili Allo stesso tempo
può essere attribuita allo Stato la condotta dell’ente che NON può essere ritenuto organo dello Stato, ma
che tuttavia è autorizzato dal diritto interno ad esercitare elementi di potere di governo. Il fenomeno
riguarda gli enti c.d. parastatali, o quegli enti privati che conservano poteri di regolamentazione (come ad
es. le compagnie aeree che abbiano poteri di disciplina e controllo del fenomeno dell’immigrazione o in
materia doganale). Tale rilievo comporta anche che la condotta posta in essere da soggetti formalmente
estranei all’organizzazione statale, ma di fatto sotto la totale dipendenza dello Stato, sia considerata come
condotta dello Stato, e che pertanto possa sorgere a carico di questo una responsabilità internazionale
(poiché i privati agiscono come meri strumenti privi di qualsiasi autonomia). Paradigmatica di tale
situazione è la vicenda dell’occupazione, nel 1979, da parte di studenti islamici, dei locali dell’ambasciata
statunitense in Iran e della presa in ostaggio del personale diplomatico e consolare ivi in servizio. In
secondo luogo, vi sono comportamenti di persone non inquadrabili né de iure né de facto
nell’organizzazione dello Stato che risultano comunque attribuibili a questo. Tale situazione si verifica
quando la condotta illecita di tali soggetti sia stata adottata sulla base di istruzioni o sotto la direzione o il
controllo dello Stato. In particolare, a tale fattispecie può essere ricondotta la situazione dello Stato
sponsor di atti di terrorismo internazionale. A parere della CIG, affinché si abbia attribuzione di un
comportamento allo Stato, non basta che questo eserciti sul gruppo di cui fa parte l’individuo un controllo
generale (overall control): si richiede infatti la prova di un controllo effettivo (effective control) sull’azione
durante la quale l’illecito è stato commesso. Lo stesso può verificarsi infine qualora il privato abbia agito in
sostituzione dello Stato, come nel caso di calamità naturali, quando le autorità sono venute meno o non
sono in grado di operare; allo stesso modo può essere attribuita allo Stato l’attività di un movimento
insurrezionale, se e quando esso assume le funzioni di nuovo governo dello Stato. Al di fuori dei casi
particolari, comunque, una condotta tenuta da un soggetto privato non può essere attribuita allo Stato (e
quindi non può generare una responsabilità internazionale). In questi casi lo Stato può avere solo una
responsabilità omissiva per non aver adottato le misure necessarie per prevenire o punire atti compiuti dai
privati.
2) ELEMENTO OGGETTIVO
Il secondo elemento costitutivo dell’illecito, definito oggettivo, è dato dal contrasto tra il comportamento
in concreto tenuto dallo Stato e quello richiesto dalla norma internazionale. Al fine della qualificazione,
non rileva la fonte dell’obbligo internazionale violato da parte dello Stato: la responsabilità può infatti
sorgere per violazione di un obbligo pattizio, o assunto con atto unilaterale, come anche di un obbligo posto
da una norma consuetudinaria. Non rileva neppure la particolare natura della norma violata: sussiste un
illecito internazionale a prescindere dall’importanza, maggiore o minore, dell’obbligo violato. Tale
parificazione non consente dunque di distinguere tra categorie diverse di illecito (tanto che la Commissione
di diritto internazionale, nel testo degli Articoli del 2001, ha evitato di riprendere la distinzione tra crimini e
delitti internazionali). Per ultimo, vi è irrilevanza anche del diritto interno: un atto può infatti essere un
illecito internazionale anche se lecito in base al diritto interno dello Stato agente (o se addirittura lo Stato
era obbligato a compierlo).
Problema di rilevo pratico, soprattutto in riferimento alle conseguenze che derivano dall’illecito, è quello
della determinazione del momento in cui un illecito può dirsi compiuto. A tal proposito si afferma una
distinzione tra illecito istantaneo e illecito di durata: nel primo caso, la violazione di un obbligo
internazionale si ha per mezzo di un atto che non si estende nel tempo, bensì si verifica nel momento in cui
ha luogo il comportamento dello Stato; nel secondo caso, invece, la violazione è di carattere continuativo e
si estende per l’intero periodo in cui il comportamento si svolge.
2. La legittima difesa
La legittima difesa giustifica l’illiceità di un comportamento qualora, attraverso di esso, lo Stato abbia inteso
evitare il compimento di un fatto illecito nei propri confronti, o impedire che un illecito già in atto venga
portato ad ulteriori conseguenze. L’effetto scriminante di tale comportamento, generalmente implicante
l’uso della forza, sussiste, secondo l’art.21 degli Articoli, solo se questa viene adottata nei limiti riconosciuti
dalla Carta N.U. nel suo art.51. Deve pertanto ritenersi che la legittima difesa non giustifichi la violazione
delle regole di diritto umanitario applicabili ai conflitti armati o che tutelano i diritti dell’uomo o l’ambiente.
3. Le contromisure
Un comportamento in astratto illecito non fa sorgere una responsabilità internazionale se esso costituisce
l’esercizio legittimo di una contromisura (o rappresaglia) adottata contro il soggetto nei cui confronti
l’osservanza dell’obbligo era dovuta, e quale reazione, posta in essere a scopo coercitivo, ad un precedente
illecito di questo Stato (art.22 degli Articoli). La condotta: deve essere proporzionale all’illecito subito, e
non deve consistere nell’uso della forza armata o nella violazione dello ius cogens; deve mirare alla
cessazione dell’illecito o alla reintegrazione dell’obbligo giuridico violato (una volta raggiunto tale
ripristino, la contromisura deve interrompersi). Nel linguaggio internazionale occorre però tenere distinte la
nozione di contromisure, che sono atti in astratto illeciti che divengono leciti in casi specifici, e la nozione di
ritorsioni, che sono invece atti inamichevoli ma leciti in via generale (es. rottura di una collaborazione
economica).
4. La forza maggiore
Ulteriore causa di esclusione dell’illiceità, prevista dall’art.23 degli Articoli, è la forza maggiore, ossia il
verificarsi di una situazione in cui lo Stato è costretto ad agire in modo contrastante con quanto richiesto
da un obbligo cui è soggetto: l’autore del fatto, pur rendendosi conto che il suo comportamento lede un
5. L’estremo pericolo
L’illiceità di un comportamento non conforme a diritto è esclusa se il suo autore, in una situazione di
estremo pericolo (distress), non aveva altro modo ragionevolmente praticabile di salvare la propria vita o
le vite di altre persone affidate alla sua cura (art.24 degli Articoli). A differenza della forza maggiore, la
persona che agisce in uno stato di pericolo compie volontariamente un atto in contrasto con il diritto
internazionale: l’autore del fatto, che pure si rende conto che il suo comportamento non è conforme ad un
obbligo che gli incombe e potrebbe evitare tale comportamento, decide di violare la norma, quale male
minore rispetto alla perdita di vite umane. La possibilità di invocare l’esistenza di un estremo pericolo è
comunque esclusa nel caso in cui esso sia stato creato dallo Stato in questione o se il comportamento
tenuto è probabile fonte di un pericolo comparabile o più grande.
6. Lo stato di necessità
Lo stato di necessità rappresenta una esimente della responsabilità internazionale solo in casi strettamente
definiti (art.25 degli Articoli). Esso può essere invocato solo se ricorrono una serie di condizioni:
- l’adozione del comportamento in astratto illecito deve essere l’unico modo per salvaguardare un
interesse essenziale dello Stato nei confronti di un grave ed imminente pericolo. Lo stato di necessità
dunque non può essere invocato se lo Stato aveva a disposizione altri mezzi di salvaguardia, anche se più
dispendiosi o meno convenienti;
- il pericolo deve essere imminente ed oggettivamente stabilito (non ritenuto meramente possibile);
- l’atto altrimenti illecito non deve pregiudicare seriamente un interesse essenziale dello Stato, ovvero
l’interesse che lo Stato ha inteso salvaguardare deve avere un rilievo superiore rispetto agli interessi lesi
dal comportamento dello Stato (tale valutazione comparativa deve essere fatta in via oggettiva e non
semplicemente dal punto di vista soggettivo dello Stato che invoca lo stato di necessità).
A prescindere dal ricorrere di tali condizioni, l’invocabilità dello stato di necessità può essere esclusa
dall’obbligo internazionale in questione; inoltre, tale invocazione è esclusa se lo Stato ha contribuito alla
creazione della situazione di necessità.
LE CONSEGUENZE DELL’ILLECITO
La commissione di un atto internazionalmente illecito produce una serie di conseguenze giuridiche in capo
al responsabile, soggetto ad obblighi nei confronti di un altro Stato.
In primo luogo, tale Stato ha l’obbligo di cessare il comportamento che costituisce la violazione
dell’obbligo internazionale (art.30 degli Articoli). Tale obbligo sussiste a prescindere da qualsiasi richiesta
dello Stato leso; laddove però la commissione di un illecito sia stata constatata con sentenza della Corte
internazionale di giustizia, l’obbligo di cessare la condotta illecita deriva sia dall’obbligo generale di ogni
Stato di tenere una condotta conforme al diritto internazionale, sia dall’obbligo specifico incombente agli
Stati-parte di controversie di fronte alla Corte di rispettare le sue decisioni. La cessazione è però
La responsabilità nei confronti del privato Deve viceversa rilevarsi che gli obblighi nascenti dall’illecito
internazionale sono sempre e soltanto obblighi di soggetti dell’ordinamento giuridico internazionale verso
altri soggetti dello stesso ordinamento. Non vi è responsabilità internazionale dello Stato verso gli individui.
La responsabilità internazionale di soggetti diversi dagli Stati Sebbene gli Articoli considerino solo la
responsabilità dello Stato, una responsabilità per un atto internazionalmente illecito può insorgere in capo
ad ogni soggetto di diritto internazionale che violi un obbligo internazionale. Possibili destinatari dunque
sono anche le organizzazioni internazionali. La questione della responsabilità delle O.I. è stata fatta oggetto
di studio specifico da parte della Commissione del diritto internazionale per giungere all’elaborazione di un
Progetto di articoli, approvato nel 2011. Questo Progetto si svolge con una struttura largamente
corrispondente a quella del testo degli Articoli sulla responsabilità dello Stato e con contenuti comparabili,
fatte salve alcune peculiarità.
Il problema della responsabilità senza illecito Si discute da tempo se qualche regime di responsabilità
sia ricollegabile allo svolgimento di attività che, per quanto non costituiscano violazione di norme
internazionali siano idonee a provocare un pregiudizio economico ad altro soggetto. Esempi di tali attività
sono normalmente quelle altamente pericolose (come il lancio di oggetti spaziali) o inquinanti (come lo
sfruttamento dell’energia atomica in centrali nucleari o l’esercizio dell’industria chimica). Sulla possibilità di
configurare un siffatto regime in diritto internazionale generale, sono stati avanzati seri e fondati dubbi, e
pertanto essa appare da escludere (si potrebbe piuttosto ripensare la liceità di certe attività degli Stati).
Divieto di minaccia dell’uso della forza La norma non vieta il solo impiego della forza, ma ne proibisce
anche la semplice minaccia, consistente nell’esplicito annuncio dell’impiego della forza delle armi, al
verificarsi o meno di un certo accadimento o ad una certa data (non si esclude che la minaccia possa essere
avanzata implicitamente attraverso comportamenti concludenti). Non integrano tuttavia gli estremi della
minaccia vietata:
- il semplice rafforzamento del proprio potenziale bellico;
- l’esercizio di un diritto;
- la disponibilità a un uso della forza conforme alla Carta ONU.
1. La legittima difesa
Nell’ordinamento nazionale, la legittima difesa (o autotutela) è oggetto di una previsione di diritto
internazionale generale, come anche è prevista nel sistema della Carta all’art.51, secondo cui nessuna
disposizione può pregiudicare il diritto naturale di autotutela, individuale o collettiva, nel caso che abbia
luogo un attacco armato contro uno Stato, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure
Legittima difesa collettiva L’art.51 della Carta riconosce il diritto di autotutela non solo in capo allo Stato
che direttamente subisce l’attacco armato (legittima difesa individuale), ma anche in capo agli altri Stati
della Comunità internazionale, nei cui confronti l’attacco non è diretto, ma che egualmente sono legittimati
a reagire, esercitando così il diritto di legittima difesa collettiva. Questa viene ammessa dalla Carta solo in
due casi (alternativamente): a seguito di una richiesta di intervento da parte dello Stato attaccato (richiesta
che deve essere spontanea e autenticamente proveniente dal governo del Paese vittima dell’attacco);
oppure se prevista da un Trattato stipulato tra lo Stato attaccato e gli Stati intervenienti.
IL CONTESTO ITALIANO
L’Italia dedica alla disciplina dell’uso della forza armata l’art.11 Cost.: l’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad
un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il bisogno di pace, percepito
anche a livello internazionale, si traduce nella Costituzione nell’ideale pacifista del ripudio della guerra. Il
divieto di fare guerra non è tuttavia assoluto: è vietata la guerra di aggressione, mentre sono consentiti gli
attacchi per legittima difesa, nonché le operazioni autorizzate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU