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DIRITTO INTERNAZIONALE

(IVALDI)
Diritto Internazionale
Università degli Studi di Genova (UNIGE)
55 pag.

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PARTE 1 :
DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO

NOZIONE DI DIP
Con l’espressione “diritto internazionale privato” ci si riferisce all’insieme delle norme che ciascuno Stato si
dà per disciplinare quelle situazioni e rapporti, che coinvolgono i privati, che non sono totalmente interni
all’ordinamento, e cioè che presentano, rispetto all’ordinamento statale in questione, qualche carattere di
estraneità/internazionalità. L’espressione non viene sempre utilizzata con la medesima portata.
o In senso lato, e cioè secondo l’accezione più ampia, essa riguarda tutti i settori dell’ordinamento giuridico
che toccano soggetti privati (ad es. diritto penale, diritto processuale penale internazionale, diritto
amministrativo internazionale ecc.);
o Secondo un’accezione intermedia, si parla di diritto internazionale privato in relazione ai profili sia
processuali che materiali dei rapporti privatistici, vale a dire solo rispetto alle categorie di diritto
processuale civile internazionale e diritto privato internazionale;
o Invece, nel suo significato più ristretto, la nozione di DIP esclude anche i profili processuali, residuando
cioè solo la categoria del diritto privato; ed è proprio rispetto a questa categoria di norme che si è
storicamente cominciato ad avvertire il problema della disciplina applicabile a situazioni non totalmente
interne. In merito, si parla di norme di conflitto, tradizionalmente definite dall’art.1 l.218/95 come
norme idonee a porre i criteri per l’individuazione della legge applicabile da parte del giudice italiano.

FONTI DI DIP
1) DIRITTO ITALIANO
Una prima fonte di DIP, ricavabile dal diritto italiano, è la Legge 218/1995 che reca la Riforma del sistema
italiano di DIP. Tale legge ha carattere onnicomprensivo, in quanto, ex art.1, essa “determina l’ambito della
giurisdizione italiana, pone i criteri per l’individuazione del diritto applicabile e disciplina l’efficacia delle
sentenze e degli atti stranieri”. È da questa prima disposizione che può dedursi la funzione delle norme
riportate dalla legge: esse vanno, da un lato, a delimitare la giurisdizione italiana, non essendo conveniente
che i giudici nazionali abbiano a decidere di qualsiasi controversia venga loro sottoposta; dall’altro lato
vanno a definire i casi nei quali sentenze e atti stranieri sono suscettibili di produrre effetti nel nostro
ordinamento (effetti che altrimenti, alla luce del principio della separatezza degli ordinamenti giuridici, non
si produrrebbero). Si tratta dunque di determinare quali contatti tra la controversia e il nostro ordinamento
siano sufficienti per giustificare l’intervento dei nostri giudici nazionali. La legge riporta norme sia di
funzionamento (art. da 13 a 19) sia di conflitto (art. da 20 a 63).
Altra fonte italiana è il Codice della navigazione del 1942, che contiene disposizioni (art. da 1 a 14) poi
trasfuse nella l.218/95. Ad esempio, l’art.5 sulla legge della bandiera, secondo cui: gli atti compiuti a bordo
di una nave o di un aeromobile in un luogo o spazio soggetto alla sovranità di uno Stato estero sono regolati
dalla legge nazionale della nave o dell'aeromobile. Tale norma si applica come criterio di collegamento
previsto dalla norma di conflitto generale in materia di illecito (art.64 l.218/95).
Infine, ultime categorie di norme, fonti del diritto internazionale privato, sono quelle in tema di adozione
(la l.184/1983 infatti regola direttamente l’adozione internazionale di minori stranieri con una
combinazione di norme di DIP materiale e di applicazione necessaria) e di arbitrato internazionale ed
efficacia dei lodi stranieri.

2) DIRITTO INTERNAZIONALE
Alcune norme di DIP possono derivare anche da fonti di origine internazionale. Tra queste: la Convenzione
dell’Aja (1980) sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori: essa ha permesso l’istituzione, in

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ogni Stato aderente, di autorità centrali convenzionali con funzioni di raccordo tra il cittadino e le autorità
di un altro Stato aderente; tali istituzioni prevedono delle apposite istanze in materia rimpatrio, nonché
relative all’esercizio del diritto di visita: una disciplina creata con l’obiettivo di proteggere il minore contro
gli effetti nocivi derivanti da un suo trasferimento o mancato rientro; la Convenzione di Vienna (1980) sui
contratti di compravendita internazionale di merci: essa si applica ai contratti di vendita tra parti le cui sedi
d’affari si trovino in Stati diversi, a condizione che si tratti di Stati contraenti, dunque se il contratto rientra
nell’ambito di applicazione della Convenzione, questa prevale sulle norme di conflitto altrimenti applicabili
in materia (ad esempio, il giudice italiano, di fronte a un contratto con cui un produttore con sede in Italia
vende a un’impresa con sede in Germania, applicherà le norme uniformi della Convenzione di Vienna; se
invece un contratto analogo è concluso tra il venditore con sede in Italia e l’acquirente con sede in
Portogallo – stato non contraente – il giudice italiano applicherà le norme di DIP in materia contrattuale,
vale a dire il regolamento Roma I); la Convenzione dell’Aja (1955) sulla legge applicabile ai trust (tale
convenzione si applica ai contratti di compravendita a carattere internazionale aventi ad oggetto cose
mobili corporee da fabbricare o da produrre, contratti per i quali la parte che si obbliga alla consegna si
obbliga anche alla procurazione autonoma delle materie prime necessarie alla fabbricazione/produzione;
infine, la Convenzione di New York (1958) per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali
straniere: in base ad essa le autorità giurisdizionali di uno Stato membro hanno la facoltà di rinviare le parti
all’arbitrato, sospendere il procedimento o dichiarare irricevibile la domanda, o ancora di esaminare
l’eventuale nullità/ inoperatività/inapplicabilità della convenzione arbitrale conformemente al proprio
diritto nazionale.
In presenza di fonti di origine internazionale, si è rivelato perciò necessario un meccanismo di
coordinamento tra le norme di DIP codificate da tali fonti internazionali con quelle previste dal diritto
italiano. A ciò ha provveduto l’art.2 della l.218/95, in base al quale: “le disposizioni della presente legge non
pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia; nell’interpretazione di tali
convenzioni si terrà conto del loro carattere internazionale e dell’esigenza della loro applicazione uniforme”.

3) REGOLAMENTI CE/UE
La Comunità/Unione europea si è mostrata sempre più attenta alla promozione di misure in materia di DIP
volte alla progressiva comunitarizzazione del diritto internazionale privato degli Stati membri. Gli strumenti
attraverso cui vengono adottate tali misure sono le convenzioni e i regolamenti che, oltre ad essere
direttamente applicabili all’interno degli ordinamenti nazionali, consentono di uniformarne completamente
le normative. I primi regolamenti sono stati adottati sulla base dell’art.81 TFUE e riguardano il diritto
processuale civile internazionale: esso stipula che l’Unione sviluppi una cooperazione giudiziaria nelle
materie civili con implicazioni transnazionali, determinando un miglioramento e la semplificazione delle
decisioni in materia civile e commerciale, e la promozione della compatibilità delle regole applicabili agli
Stati membri ai conflitti di leggi; il Consiglio, su consultazione del Parlamento europeo, delibera
all’unanimità secondo la procedura legislativa ordinaria, salvo che in materia di diritto di famiglia che è
soggetto a una procedura speciale. Altra base giuridica che regola le fonti di derivazione comunitaria è
l’art.67 TFUE, in base al quale l’Unione è tenuta a realizzare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nel
rispetto dei diritti fondamentali, dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli
Stati membri; le libertà da tutelare sono quelle del mercato interno, concernenti la circolazione delle
persone, dei servizi, delle merci e capitali, e delle decisioni. Al fine di assicurare ciò, in tale spazio deve
essere facilitato l’accesso alla giustizia, attraverso il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni.
Lo scopo ultimo di queste normative è dunque quello di promuovere la prevedibilità e la certezza nel
diritto, riducendo il forum shopping (quel fenomeno che prevede, in luogo di una controversia, la ricerca
del tribunale potenzialmente più favorevole e davanti al quale è più conveniente promuovere il giudizio in
funzione delle norme di conflitto
che questo è tenuto ad applicare).

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Anche in ambito comunitario è previsto un meccanismo di coordinamento tra le norme di DIP previste dai
regolamenti UE con quelle in vigore negli ordinamenti nazionali. Nel sistema italiano, ex art.11 e 117 Cost.,
quando si profila un contrasto tra norme interne e disposizione dell’Unione provviste di efficacia diretta, le
norme interne risultano non applicabili, sulla base di una valutazione effettuata dal giudice comune nel
rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inalienabili dell’individuo; in tali circostanze, allora, la norma
interna si ritrae e non è più operante, e viene pertanto disapplicata.

TECNICHE DI COORDINAMENTO DELLE NORME DI


CONFLITTO
Quello del coordinamento con gli ordinamenti stranieri è un problema unitario, cui i legislatori nazionali
danno risoluzione grazie alle norme di conflitto, disciplinando in un unico contesto tre diversi profili:
l’ambito della giurisdizione, l’individuazione della legge applicabile, e il riconoscimento delle sentenze
straniere.
o Il metodo di coordinamento più utilizzato è quello della localizzazione in via legislativa. Esso individua la
disciplina da applicare a una fattispecie tramite la localizzazione della stessa in un dato ordinamento,
mediante connessioni di tipo spaziale. Ad esempio, l’art.51 l.218/95 stabilisce che il possesso, la
proprietà e gli altri diritti reali siano regolati “dalla legge dello Stato in cui i beni si trovano”; o ancora,
l’art.4 Reg. Roma II in materia di illecito dispone che la legge applicabile alle obbligazioni
extracontrattuali che derivano da fatto illecito sia “quella del paese in cui il danno si verifica”. Si tratta
quindi di una tecnica aprioristica, dove la giustizia viene prefigurata dal legislatore in astratto.
o Un secondo metodo di coordinamento è dato dalla localizzazione in virtù del principio di prossimità.
Essa mira all’individuazione da parte del giudice, nel singolo caso concreto, della prossimità della
fattispecie a un certo ordinamento, sulla base del criterio del c.d. collegamento più stretto. Per esempio,
in materia di illecito, il Reg. Roma II, pur disponendo una primaria localizzazione in via legislativa, al terzo
comma stabilisce che, in presenza di collegamenti manifestamente più stretti tra il fatto illecito e un
paese diverso da quello in cui esso si è verificato, allora “si applica la legge di quest’altro paese”.
Analogamente, ex art.29 l.218/95, i rapporti personali tra i coniugi sono, per regola, disciplinati dalla
legge nazionale comune ma, se i coniugi avessero cittadinanze diverse o più cittadinanze comuni, allora
tali rapporti sarebbero regolati dalla “legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente
localizzata”.
o Il terzo metodo di coordinamento è quello delle considerazioni materiali, e si concreta nella valutazione
di determinati interessi e circostanze che, per la regolamentazione delle singole fattispecie, consentono
di raggiungere finalità di indole materiale; in questo modo risulterà applicabile quel diritto che assicura il
risultato preferito dal legislatore. Ad esempio, la l.218/95 all’art.36 stabilisce che i rapporti personali e
patrimoniali tra genitori e figli siano regolati “dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla
legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita”. Si tratta quindi di
applicare non la normativa più prossima, bensì quella più favorevole nei confronti del soggetto ritenuto
meritevole di tutela (qui, il figlio). In quest’ottica, prende campo la questione della volontà delle parti
come criterio di individuazione del centro di gravità: l’art.8.1 Reg. Roma I, infatti, dispone che un
contratto individuale di lavoro sia disciplinato “dalla legge scelta dalle parti conformemente all’art.3”;
qui, la volontà delle parti si esplica in maniera immediata dichiarando applicabile alla fattispecie una
certa legge, qualunque sia il collegamento con l’ordinamento scelto dalle parti.
o L’ultimo metodo di coordinamento prevede l’applicazione della legge materiale del foro (c.d. lex fori), in
base alla quale, alla fattispecie, deve applicarsi il diritto in vigore nell’ordinamento del giudice adito.
L’art. 38 l.218/95 in materia di adozione, ad esempio, rimanda al diritto nazionale dell’adottante per
quanto riguarda i presupposti, la costituzione o la revoca dell’atto; se però è richiesta al giudice italiano
l’adozione di un minore, idonea ad attribuirgli lo stato di figlio, allora si applicherà il diritto italiano. O

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ancora, l’art.5 della Convenzione dell’Aja conferisce alle autorità dello Stato contraente, in cui il minore
abbia residenza abituale, le competenze per “adottare misure tendenti alla protezione della sua persona
o dei suoi beni”. Pertanto, l’applicazione della lex fori si configura come limite all’operatività delle norme
di conflitto.
DIP E LE SFIDE DEL NUOVO MILLENNIO
NEUTRALITÀ DELLE NORME
Durante la vigenza del Codice civile del 1942, e in particolare degli art. 17-31 disp. preleggi, si è tenuto un
acceso dibattito circa la possibilità che fosse dato riscontrare vizi di costituzionalità in taluna delle norme in
essi racchiuse. A lungo si è ritenuto che, in quanto strumentali, le norme di conflitto si configurassero come
neutrali e si dovesse pertanto escludere la possibilità che al loro riguardo fosse configurabile una questione
di legittimità costituzionale. Si è sostenuto infatti che la scelta del diritto nazionale del marito, operata
dall’art.18 prel. ai fini della disciplina dei rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, non comportasse una
discriminazione costituzionalmente illegittima ai danni della moglie, posto che in concreto la soluzione
prevista dal diritto materiale richiamato nel caso di specie poteva non essere penalizzante per la donna.
Questa tesi è stata però alla fine disattesa dalla Corte costituzionale che ha riconosciuto che, sebbene non
regolino direttamente la fattispecie, le norme di conflitto si ispirano a principi sottesi alla disciplina giuridica
interna all’istituto, e formulano quindi una scelta di ordine normativo suscettibile di essere messa a
confronto con le scelte di fondo a carattere costituzionale. Si è altresì diffusa la consapevolezza che le
norme di DIP non siano in realtà neutre e neppure abbiano carattere meramente strumentale. Si è visto
infatti come la Corte costituzionale, nel 1987, abbia riconosciuto la parziale illegittimità, per contrasto con
gli art. 3.1 e 29.2 Cost., degli art. 18 e 20 disp. prel. in quanto le norme di conflitto ivi poste riconoscevano
una posizione preminente del marito in seno alla famiglia. La Corte ha espressamente rifiutato di fornire
all’interprete indicazioni utili a colmare il vuoto legislativo prodotto dalle sue pronunce, e le incertezze che
ne sono derivate sono state superate dalla legge di riforma, essendo il legislatore ormai consapevole della
necessità di conformare le norme di conflitto ai principi sanciti dalla Costituzione. La Corte costituzionale è
successivamente tornata sul problema e, richiamando le decisioni del 1987, ha dichiarato l’illegittimità
dell’art.19 disp. prel. che, in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, richiamava esclusivamente la legge
nazionale del marito al tempo della celebrazione delle nozze.

DIP E CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE (MIGRAZIONI / STATUS PERSONALI)


Per lungo tempo, uno dei temi cruciali del DIP ha riguardato la scelta di accordare alla cittadinanza e al
domicilio la classificazione come criterio di collegamento valido per la disciplina dello statuto personale
degli individui. Il criterio della cittadinanza riflette l’appartenenza dell’individuo a uno Stato, e si carica di
intensi significati politici e ideologici; il criterio del domicilio riflette invece un legame meno politico e
ideologico con una data comunità sociale, bensì uno più economico e territoriale. La scelta dell’uno
piuttosto che dell’altro criterio sembrava generalmente rispondere a indirizzi di politica legislativa che
vedevano schierati sul fronte del criterio della cittadinanza gli Stati a forte emigrazione, interessati a tener
vivo il legame coi propri cittadini all’estero permettendo ai propri giudici di esercitare la giurisdizione nei
loro confronti e di applicare loro la legge nazionale; sul fronte dei criteri di tipo domiciliare si schieravano
invece gli Stati verso i quali si dirigevano importanti correnti di immigrazione, interessati alla integrazione
degli immigrati anche attraverso la possibilità di applicare loro la legislazione locale. Questa tendenza
appare evidente anche nella legge italiana di riforma, sebbene in questi ultimi decenni l’emigrazione si sia
ridotta, mentre sono andati ad aumentare i flussi immigratori.
Con riguardo al criterio di collegamento della cittadinanza, e in particolare alla possibilità del
mantenimento degli status personali dell’individuo, si ricollega una sentenza della Corte di cassazione del
2016, che si era pronunciata sull’impugnazione di un decreto che aveva riconosciuto a T, nato in Spagna e
figlio di due madri coniugate tra loro in tale paese, oltre alla cittadinanza spagnola (quella della madre A
che lo ha partorito), anche la cittadinanza italiana della madre genetica B, in quanto figlio anche questa

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sulla base di un atto valido trascrivibile in Italia. In primo grado si era ritenuto che il rapporto di filiazione tra
la madre B e il minore, nonché la cittadinanza di questo, fossero regolati dal DIP italiano e quindi dall’art.33
l.218/95, che rimette ogni determinazione della questione alla legge nazionale del figlio; i ricorrenti in
Cassazione imputavano dunque che fosse stata erroneamente esclusa la contrarietà all’ordine pubblico di
un atto di nascita attestante una doppia maternità. La Cassazione, nel decidere sull’impugnativa, ha
affermato che il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità dell’atto di nascita con l’ordine
pubblico, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o
difforme rispetto a una o più norme interne, ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti
fondamentali dell’uomo: la ratio di base del decreto impugnato stava infatti nella tutela dell’interesse
superiore del minore, che, nel caso di specie, si sostanzia nel diritto a conservare lo status di figlio
riconosciutogli da un atto validamente formato in un altro Paese dell’Unione. Il mancato riconoscimento in
Italia del rapporto di filiazione, legalmente esistente in Spagna, tra T e la madre biologica B determinerebbe
un’incertezza giuridica che influirebbe negativamente sulla definizione dell’identità personale del minore;
neppure si può ricorrere alla nozione di ordine pubblico per giustificare discriminazioni nei confronti dei
minori. La Cassazione, pertanto, ha rigettato il ricorso.

DIP E COMMERCIO INTERNAZIONALE (CONTRATTI / ENTI E SOCIETÀ)


In tema di contratti, la fonte normativa principale è il Regolamento Roma I, il cui campo di applicazione
sono le obbligazioni contrattuali in materia civile e commerciale, in circostanze che comportino un conflitto
di leggi. La disciplina ivi prevista tende ad operare un bilanciamento tra due fondamentali valori:
l’autonomia della volontà delle parti a scegliere il diritto più adatto, e l’esigenza comunitaria di imporre il
rispetto di norme imperative. La volontà delle parti costituisce il criterio di collegamento primario in
materia di obbligazioni contrattuali o, come detta il considerando 11 reg. Roma I, una delle pietre angolari
del sistema delle regole di conflitto; essa è corollario della libertà individuale, nonché prolungamento del
principio di autonomia negoziale proprio del diritto interno. Per la maggior parte dei tipi contrattuali,
dunque, il Regolamento assicura ai privati contraenti libertà totale circa la determinazione della legge
applicabile, che può pertanto essere anche quella di uno Stato totalmente estraneo al contratto da
regolare. Tuttavia, la scelta operata dalle parti non può recare pregiudizio all’applicazione di alcune
disposizioni imperative, poste da parte degli Stati o dell’Unione, a tutela di interessi pubblicistici e
economico-generali. L’art.3.3, ad esempio, impone uno standard minimo nazionale, in base al quale la
scelta di una legge straniera ad opera dei contraenti, qualora nel momento della scelta tutti gli altri
elementi pertinenti alla situazione si riferiscano a un unico Stato, non può limitare o escludere
l’applicazione delle norme cui la legge di tale Stato non permette di derogare mediante contratto. L’art.9
delinea poi una serie di norme di applicazione necessaria, ossia quelle il cui rispetto è ritenuto cruciale da
un paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali l’organizzazione politica, sociale o economica,
al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione,
qualunque sia la legge applicabile al contratto. Infine, l’art.3.4 configura uno standard minimo
comunitario, in base al quale, qualora le parti convengano di sottoporre il loro contratto a una legge diversa
da quella di uno Stato membro e, nel momento in cui operano questa scelta, il contratto sia totalmente
intracomunitario (ossia tutti gli elementi pertinenti siano ubicati in uno o più Stati membri), deve comunque
essere assicurato il rispetto di quelle norme di diritto comunitario non suscettibili di deroga per volontà
privata. Nonostante questi limiti, comunque, in materia contrattuale l’autonomia della volontà viene
valorizzata al massimo. A conferma di ciò vi è il nuovo fenomeno del dépeçage volontario, o più
comunemente “frazionamento della fattispecie”, il quale, ex art.3.1 del regolamento, consente ai
contraenti di designare la legge applicabile a tutto il contratto, o a una parte soltanto di esso. Tale
frazionamento, operato non dal legislatore bensì dall’accordo stesso delle parti, va a determinare una
progressiva delocalizzazione della disciplina dei contratti, una situazione vista ancora oggi con diffidenza dal
diritto UE.

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Al DIP spetta inoltre porre la disciplina dei soggetti del commercio internazionale, ivi comprese le società.
L’art.25 l.218/95 prevede che ogni ente pubblico o privato, seppur privo di natura associativa, sia
disciplinato dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione; se
però la sede dell’amministrazione è situata in Italia, o se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti,
allora si applicherà la legge italiana. Il diritto internazionale privato viene comunque influenzato dai principi
e dalle regole del diritto UE, comportando quindi un’interazione tra la norma di conflitto in materia di
società e le norme UE che sanciscono la libertà di stabilimento. Si assiste in particolare a un mutuo
riconoscimento degli status delle società da parte dell’Unione, vale a dire che una società validamente
costituita in uno Stato membro beneficia del diritto di stabilimento e, di conseguenza, la sua personalità
giuridica deve essere riconosciuta in tutti gli altri Stati membri, salvi eventuali limiti imposti dallo Stato di
destinazione.

LA QUALIFICAZIONE
La qualificazione consiste nella determinazione del significato di quelle espressioni mediante le quali le
norme di conflitto delimitano il proprio ambito materiale di applicazione: ciascuna norma infatti riguarda
una più o meno ampia categoria di fattispecie, individuata attraverso una formula giuridica differente (ad
es. l’art.29 riguarda i rapporti personali tra coniugi, l’art.36 i rapporti tra genitori e figli ecc..). Il giudice,
dopo aver accertato di avere la giurisdizione, deve decidere quale norma di conflitto applicare al caso
sottopostogli, ovvero a quale norma esso sia riconducibile (ciascuna norma di conflitto, infatti, impiega suoi
propri criteri di collegamento e conduce a un differente risultato, cioè all’applicazione del diritto di questo o
quello Stato); la qualificazione serve dunque per identificare la norma di conflitto più adatta, quella nel cui
campo di applicazione rientra il caso di specie.
La qualificazione delle norme di conflitto dovrà svolgersi alla luce del sistema normativo cui la norma in
questione appartiene, cioè secondo i canoni interpretativi propri dell’ordinamento nel quale la norma è
inquadrata. Ciò significa che, per quanto concerne le norme di conflitto poste dal nostro legislatore, la
qualificazione deve essere operata sulla base del diritto italiano, ossia sulla base della lex fori, mentre per le
norme di conflitto poste da atti comunitari l’operazione va svolta sulla base del diritto comunitario. A tal
fine, si terrà conto non solo del diritto materiale del foro ma anche delle valutazioni poste dalle stesse
norme di conflitto, nonché della funzione che il legislatore assegna a tali norme. Ciò implica che la
qualificazione non sia totalmente appiattita sul diritto materiale del foro (c.d. qualificazione omogenea) ma
debba essere autarchica, nel senso che occorre sì muovere dalla lex fori, dando però alle espressioni
giuridiche impiegate dalle norme un significato più ampio ed elastico di quello che essi hanno nei
corrispondenti precetti di diritto materiale. Non può trovare accoglimento, invece, la tesi della seconda
qualificazione, secondo la quale l’interpretazione delle norme di conflitto dovrebbe essere operata alla luce
dell’ordinamento competente a regolare la fattispecie (qualificazione sulla base della lex causae): questo
perché, a individuare tale ordinamento si giunge applicando la norma di conflitto, pertanto sarebbe del
tutto illogico servirsi delle categorie giuridiche dell’ordinamento straniero richiamato per individuare quella
tra le norme di conflitto del foro che deve operare il richiamo.
Il fatto che si debba procedere alla qualificazione sulla base della lex fori può tuttavia compromettere
l’armonia internazionale delle soluzioni, in quanto la risoluzione di un determinato caso sarà diversa a
seconda che venga sottoposto ai giudici dell’uno o dell’altro Stato, pur avendo questi identiche norme di
conflitto. Questa conseguenza è stata chiaramente percepita nel caso Bartholo del 1889. Il sig. e la sig.ra
Bartholo, cittadini maltesi, si sposano a Malta per poi trasferirsi in Algeria, di cui il sig. Bartholo acquista la
cittadinanza. Alla sua morte egli dispone di tutti i suoi beni in favore di una persona diversa dalla moglie e
questa, dunque, richiede giudizialmente una quota dei beni del marito. La qualificazione operata dai due
ordinamenti (maltese e algerino) è diversa: il diritto maltese considerava la questione come successoria,
mentre quello algerino come attinente ai rapporti tra coniugi. Le norme di conflitto dei due ordinamenti,
invece, coincidono: per le questioni successorie si applica la legge nazionale del de cuius al momento del

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decesso, mentre per quelle inerenti ai rapporti patrimoniali tra coniugi si applica l’ultima legge nazionale
comune. Si è tuttavia osservato, studiando il caso, che se pure il diritto maltese e quello algerino fossero
stati identici e entrambi avessero previsto la medesima qualificazione, gli esiti del caso sarebbero stati
diversi, qualora a deciderlo fossero stati chiamati i giudici di Malta anziché quelli di Algeri: infatti, i primi
avrebbero considerato la questione come ereditaria e avrebbero applicato la norma di conflitto relativa alle
successioni (quindi il diritto materiale algerino, in quanto legge nazionale del de cuius al momento della
morte); i secondi, invece, avrebbero considerato la questione come inerente ai rapporti tra coniugi, e
avrebbero dunque applicato la norma di conflitto relativa a tali fattispecie (ovvero il diritto materiale
maltese, in quanto ultima legge nazionale comune ai coniugi).

IL RINVIO
Nella legge di riforma del 1995, le norme di conflitto vere e proprie (art.20-63), volte a indicare il diritto
applicabile, sono precedute da alcune norme di funzionamento, racchiuse negli art. da 13 a 19, nelle quali
il legislatore ha provveduto a regolare espressamente alcune questioni generali della materia. La prima di
queste norme è l’art.13 dove ci si occupa del rinvio. Il problema del rinvio consiste nel domandarsi se il
richiamo di un ordinamento straniero da parte delle norme di conflitto si riferisca solo alle norme materiali,
oppure includa le norme di DIP di detto ordinamento nel suo complesso, e dunque se queste ultime
possano produrre un rinvio dall’ordinamento straniero, individuato come applicabile dalla norma italiana
(cioè del foro), a quello di un altro Stato. Si prospettano quindi due distinte soluzioni: la prima, accolta dai
Reg. Roma I, II, III, esclude l’operatività del rinvio nei confronti delle norme di DIP del paese straniero;
l’art.20 del Reg. Roma I, infatti, dispone che il rinvio si riferisca solo alle norme giuridiche in vigore in quel
paese ad esclusione delle norme di diritto internazionale privato, salvo che l’ordinamento non disponga
altrimenti. La seconda soluzione invece è quella accolta dall’art.13 della l.218/95; esso dispone che il rinvio,
operato dal diritto internazionale privato straniero verso la legge di un altro Stato, abbia rilevanza: se il
diritto di tale Stato accetta il rinvio (c.d. rinvio altrove accettato), o se si tratta di rinvio alla legge italiana
(c.d. rinvio indietro). Il rinvio altrove accettato si ha quando le norme di DIP dello Stato A richiamano il
diritto dello Stato B, le cui norme richiamano il diritto dello Stato C (schema A – B – C – C): ciò ad esempio
quando il cittadino di B, della cui successione ereditaria si discute davanti ai giudici dello Stato A, abbia
avuto ultimo domicilio nello Stato C. In questo caso, si suole dire che la catena si spezza solo quando il DIP
di C utilizza anch’esso il domicilio come criterio di collegamento per la successione ereditaria; si dice
dunque che il diritto dello Stato C accetta il rinvio, altrimenti la catena dei passaggi proseguirebbe con il
rischio che si cada nel circolo del rinvio altrove (Stato A – B – C – D – … ). Il rinvio indietro, invece, si ha
quando le norme di DIP dello Stato A richiamano quelle dello Stato B, ma questo richiama a sua volta il
diritto dello Stato A: questo schema implica una catena senza fine di rimandi da A a B e viceversa, che non
ammette sul piano logico una via d’uscita (schema A – B – A); ad esempio nel caso di una controversia
relativa all’eredità di un cittadino dello Stato B, domiciliato nello Stato A, che venga portata davanti ai
giudici dello Stato A, il cui DIP sottopone le successioni per causa di morte al diritto dello Stato di cui il
defunto era cittadino al momento della morte (cioè lo Stato B). Tale soluzione prospettata dall’art.13,
nonostante la difficile configurazione, è stata comunque accolta, pur con molte eccezioni.
A fare emergere il problema del rinvio è stata una vicenda successoria ottocentesca nota come Caso Forgo
(1878), in cui la Corte di cassazione francese ammise per la prima volta il rinvio nella sua declinazione di
“rinvio indietro”. Il signor Forgo, cittadino bavarese, si era trasferito in giovane età in Francia, senza averne
mai acquistato la cittadinanza o il domicilio. Egli, morendo in Francia senza testamento, aveva lasciato un
ingente patrimonio mobiliare, tutto situato in Francia. I soli parenti di Forgo erano alcuni collaterali della
madre, i quali sarebbero stati eredi se la successione fosse stata regolata dal diritto materiale bavarese,
mentre il diritto materiale francese non li considerava tali e prevedeva che a succedere, in mancanza
appunto di altri successibili, fosse lo Stato francese. La Corte, in primo grado, sostenne che la successione
dovesse essere regolata dal diritto francese, in quanto, secondo le norme di DIP di tale Stato, andava

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applicata la legge dell’ultimo domicilio del de cuius; in secondo grado, però, venne obiettato che Forgo non
avesse mai avuto il domicilio in Francia, e che dunque dovesse applicarsi il diritto materiale bavarese. In
ultimo grado, tuttavia, si osservò che il DIP bavarese sottoponeva la devoluzione successoria di beni mobili
alla legge del domicilio o residenza abituale, nonché anche, in materia di statuto reale, alla legge del luogo
ove i beni mobili o immobili sono situati. Si è operato pertanto un rinvio dal diritto francese a quello
bavarese e da questo, di nuovo, al diritto francese, concludendo dunque che ad applicarsi forse il DIP della
Francia.
Tra le materie per le quali l’art.13 dispone, in generale, l’applicazione del rinvio vi sono quelle dei rapporti
di famiglia, delle successioni, della capacità delle persone fisiche e giuridiche, dei diritti reali ecc. Una
particolare attenzione va estesa riguardo all’interferenza tra il problema del rinvio e la tematica della
qualificazione. Disponendo la nostra legge che si debba tener conto del DIP straniero, sembra ragionevole
che esso non venga letto in maniera puramente formale ma che, al contrario, debba tenersi conto della
qualificazione che della fattispecie verrebbe data nell’ordinamento straniero richiamato. Ciò trova
conferma, del resto, nella previsione dell’art.15, in base al quale la legge straniera è applicata secondo i
propri criteri di interpretazione, con il risultato che si potrebbe pervenire a una qualificazione discordante
da quella del nostro ordinamento. In forza delle previsioni dell’art.13, dunque, il giudice italiano dovrebbe
applicare la norma di conflitto, tra quelle dell’ordinamento richiamato, nel cui ambito d’applicazione la
fattispecie rientri secondo la qualificazione operata alla luce dello stesso ordinamento richiamato (c.d.
seconda qualificazione).
Non sono tuttavia mancate, in materia di rinvio, considerazioni e critiche. Innanzitutto, si è notato come
l’art.13 impegni il giudice italiano a compiere complicate valutazioni circa il funzionamento di uno o più
sistemi di DIP, rendendo quindi tale ruolo molto più gravoso; inoltre l’utilizzo del rinvio incide
negativamente sul grado di prevedibilità delle soluzioni, e sulla ricerca di una loro armonia internazionale: il
rinvio, infatti, non è di per sé idoneo a far sì che il giudice applichi lo stesso diritto materiale straniero che
sarebbe applicato dai giudici di altri Stati (un diritto che nel caso di specie non vorrebbe essere applicato).
Infine, l’applicazione dell’art.13 finisce per snaturare le scelte di politica legislativa: non si comprende infatti
la ragione per cui uno Stato si dia delle regole per stabilire quale ordinamento straniero debba indicare il
diritto da far applicare ai giudici, portando cioè al sacrificio di quella che il nostro legislatore ha visto come
la soluzione giusta per quella specifica norma di conflitto. Tali considerazioni hanno dunque portato a
sostenere l’opportunità di un’interpretazione restrittiva dell’art.13, in modo da non andare oltre a quanto
dettato dal testo legislativo, pur talvolta disattendendo a ardite ipotesi applicative avanzate in dottrina.

CONOSCENZA DEL DIRITTO STRANIERO APPLICABILE


Le norme di conflitto, si è stabilito, devono essere applicate d’ufficio dal giudice italiano, alla stregua di
tutte le altre disposizioni di cui non sia espressamente prevista la sola applicabilità su richiesta
dell’interessato. Un problema correlato riguarda il trattamento processuale del diritto straniero richiamato
dalle norme di conflitto; in merito si sono prospettate due tesi contrastanti: la prima, in omaggio al
principio della separazione degli ordinamenti giuridici, considera il diritto straniero come mero fatto; la
seconda ritiene invece che il richiamo ad esso operato dalla nostra norma di conflitto sia idoneo a integrarlo
con valenza giuridica nel nostro ordinamento. La prima soluzione fa gravare sulle parti l’onere di provare al
giudice il contenuto del diritto straniero, ed esclude che si possa impugnare per cassazione la sentenza di
un giudice di merito per far valere la violazione o l’errore di interpretazione del diritto straniero. La seconda
soluzione conduce invece al risultato opposto. L’art.14 l.218/95, sotto la rubrica “conoscenza della legge
straniera applicabile”, stabilisce che l’accertamento della legge straniera è compiuto d’ufficio dal giudice, e
prosegue con l’indicazione dei mezzi di cui egli può avvalersi; il giudice non sarà quindi solo abilitato, ma del
tutto tenuto a utilizzare gli strumenti previsti dalle apposite convenzioni internazionali. L’esplicita
enunciazione operata dall’art.14 del principio iura novit curia conferma ovviamente la possibilità che una
sua violazione o errata applicazione dia luogo a ricorso per cassazione. Non è possibile però escludere che

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le disposizioni del diritto straniero restino ignote al giudice italiano; questa circostanza non può in alcun
modo giustificare il fatto che esso ammetta l’impossibilità di rispondere alla domanda di giustizia rivoltagli.
La risposta qui, come espressamente dispone il secondo comma dell’art.14, è invece da ricercare nella lex
fori, cioè nel diritto materiale comunemente applicato dal giudice italiano e che, in questo caso, ridiventa
applicabile proprio per l’impossibilità di rispettare la norma di conflitto (la quale avrebbe voluto vedere la
fattispecie regolata da una legge diversa). Il ripiegamento sulla lex fori deve però avvenire solo come
soluzione residuale, quando cioè non sia in alcun modo possibile rispettare la volontà legislativa di
sottoporre la fattispecie a un diritto straniero. Così, l’art.14.2 prevede che, di fronte alla inconoscibilità
della legge richiamata, si valuti la possibilità di applicare tale legge richiamata mediante altri criteri di
collegamento impiegati in successione (cioè a cascata), e solo come ultima ratio si potrà decidere di
applicare la legge italiana. Il principio iura novit curia vale dunque non solo con riguardo al diritto materiale
straniero, ma anche rispetto al DIP dell’ordinamento straniero richiamato dalla norma di conflitto italiana;
l’accertamento di tale DIP straniero deve essere sempre compito d’ufficio dal giudice, e dovrebbe includere
la “riqualificazione” della fattispecie alla luce dell’ordinamento straniero richiamato. Qualora il giudice
italiano non sia in grado di accertare quanto previsto dalla competente norma di conflitto dell’ordinamento
richiamato da una norma di conflitto italiana, che impiega un solo criterio di collegamento, egli deve
applicare il diritto materiale di quell’ordinamento; ove invece la norma di conflitto italiana utilizzi una
pluralità di criteri di collegamento, il giudice italiano è costretto a ripiegare gradatamente sui criteri
sussidiari previsti dalla propria norma di conflitto, e se nessuno di questi conducesse a un risultato utile
bisognerebbe ritornare al primo criterio e applicare il diritto materiale straniero cui esso conduce.

INTERPRETAZIONE E APPLICAZIONE DEL DIRITTO


STRANIERO
Il problema della conoscenza della legge straniera richiamata implica un’attività più complessa che passa,
da un lato, attraverso l’individuazione delle regole che lo stesso ordinamento straniero richiamato ritiene
idonee a disciplinare la fattispecie in oggetto, e dall’altro lato attraverso l’accertamento del significato che
esse hanno nel proprio contesto normativo. A conferma di tale problema subentra l’art.15 l.218/95 in base
al quale la legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo.
Tale disposizione deve essere utilizzata anche per risolvere l’eventuale dubbio che la norma straniera
specificamente applicabile non sia conforme alla Costituzione dello Stato cui appartiene. Se
nell’ordinamento straniero il sindacato di costituzionalità delle leggi è operato direttamente da ciascun
giudice (controllo diffuso), anche al giudice italiano, chiamato ad applicare una norma di
quell’ordinamento, sarà consentito verificarne la conformità con i precetti costituzionali cui è subordinata;
se viceversa nell’ordinamento straniero il controllo di costituzionalità è accentrato, ossia demandato a un
apposito organo, il giudice italiano dovrà tener conto delle decisioni già adottate da tale organo. Solo in un
secondo momento, dopo aver positivamente risolto il quesito circa la conformità di una norma straniera
alla Costituzione dell’ordinamento di appartenenza, si pone il problema della compatibilità di quella norma
rispetto ai valori costituzionali dell’ordinamento del foro. Se il dubbio circa la costituzionalità della norma
straniera riguarda principi costituzionali di ordine sostanziale, e questi trovano riscontro nell’ordinamento
italiano, il suo superamento e una soluzione corretta del caso di specie potranno essere ottenuti attraverso
lo strumento dell’ordine pubblico. Se, infatti, le conseguenze che deriverebbero nell’ordinamento
dall’applicazione di una norma dell’ordinamento straniero richiamato risultassero in conflitto con i principi
sanciti dalla nostra Costituzione, il giudice italiano non potrebbe in nessun modo utilizzare quella norma
straniera per risolvere il caso sottopostogli.

L’ORDINE PUBBLICO

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Il nostro ordinamento si munisce di strumenti idonei a operare in senso opposto alle norme di conflitto, e
cioè in modo da richiudere l’ordinamento in sé stesso. Tra questi strumenti il principale è la clausola di
ordine pubblico, il cui fine primario è di preservare l’armonia interna dell’ordinamento, precludendo
l’applicazione, da parte del giudice italiano, di norme straniere, suscettibili di produrre effetti non
compatibili con i principi etici, economici, politici e sociali del nostro ordinamento giuridico. Il limite
dell’ordine pubblico dunque attribuisce al giudice il compito di mediare tra l’esigenza di preservare la
coerenza interna dell’ordinamento e quella di aprirlo verso l’esterno coordinatamente con gli ordinamenti
stranieri. Da qui il suo primario carattere necessario. Il limite dell’ordine pubblico trova espressione
nell’art.16 l.218/95 secondo cui la legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine
pubblico. In passato si è spesso operata una distinzione tra due nozioni, ordine pubblico interno e ordine
pubblico internazionale, operata sul fatto che l’inderogabilità di alcune norme italiane risponde ad esigenze
diverse, più o meno forti, valevole in assoluto o solo in relazione a fattispecie totalmente interne; in altre
parole, svariate norme italiane possono cedere il passo all’applicazione, prescritta da una norma di
conflitto, di una disposizione straniera, senza che da ciò derivino conseguenze intollerabili per
l’ordinamento. L’aggettivo internazionale non compare tuttavia nell’art.16, ma esso appare desumibile sulla
base della collocazione sistematica delle disposizioni in esame. In questo senso si è pronunciata anche la
Corte di cassazione, secondo la quale il concetto di ordine pubblico non si identifica con il c.d. ordine
pubblico interno (e cioè con qualsiasi norma imperativa dell’ordinamento civile) bensì con quello di ordine
pubblico internazionale, costituito dai soli principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico-
giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico. La clausola di ordine pubblico, inoltre,
compare sempre, oltre che nei sistemi internazionali di DIP, anche nelle convenzioni e persino nei
regolamenti comunitari: quelli sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I art.21) ed
extracontrattuali (Roma II art.26).
Il limite dell’ordine pubblico presenta una serie di caratteristiche. Innanzitutto si tratta di un limite
eccezionale, al quale si ricorre unicamente in presenza di un’incompatibilità manifesta. Questo aggettivo ha
lo scopo di dissuadere i giudici dal ricorrere con troppa frequenza all’eccezione, che è da utilizzare solo
quando gli effetti che si risentirebbero nel foro, se una data norma straniera fosse applicata, sarebbero
eccessivamente dirompenti (tra i casi eccezionali in cui l’ordine pubblico dovrebbe intervenire vi è in
particolare la mancanza, nell’ordinamento straniero richiamato, di regole idonee a disciplinare una data
situazione). Il limite dell’ordine pubblico è poi relativo nel tempo e nello spazio: la relatività nel tempo
discende dalla possibilità che mutino i caratteri dell’ordinamento del foro (ad es. il radicale mutamento che
la legge sul divorzio del 1970 ha apportato alla disciplina del matrimonio, introducendo la possibilità dello
scioglimento, che ha reso possibile al giudice italiano di applicare leggi divorziste straniere, prima precluso
dal limite dell’ordine pubblico); la relatività nello spazio, invece, discende dai differenti valori che
improntano i vari sistemi giuridici, alcuni dei quali impediscono l’apertura a soluzioni che sono invece del
tutto corrette per altri (ad es. in presenza di regole che vietano il matrimonio tra persone che professano
religioni diverse, il giudice italiano invocherebbe il limite dell’ordine pubblico per escludere l’applicazione di
una simile regola). Altra caratteristica è la sua efficacia negativa, in quanto si risolve nella disapplicazione (e
non applicazione) della norma straniera individuata dalla norma di conflitto. Una funzione positiva è
comunque configurabile se si guarda, ad es., all’art.10 Reg. Roma III, secondo cui, qualora la legge
applicabile non preveda il divorzio o non conceda a uno dei coniugi pari condizioni di accesso al divorzio o
alla separazione personale, si applica la legge del foro. Essa rappresenta poi un limite successivo rispetto
all’operare del DIP: la clausola dell’ordine pubblico infatti è destinata a funzionare quando la norma di
conflitto ha già condotto alla legge straniera e all’interno di questa si è pervenuti all’individuazione della
norma applicabile alla fattispecie. È a questo punto che la clausola di ordine pubblico interviene
richiedendo al giudice di esprimere una valutazione concreta degli effetti che deriverebbero (limite quindi
anche concreto): se il giudice reputa che detti effetti urtino contro uno dei principi cardine del nostro
ordinamento, non si applica la disposizione straniera.

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Si sono inoltre prospettati una serie di interrogativi. In primis se fosse possibile un’ evizione parziale, cioè
l’applicazione di una norma, privata della disposizione in essa contenuta in contrasto con la clausola di
ordine pubblico. Un riferimento a ciò viene dato dal Considerando (25) del Reg. Roma III, secondo cui
considerazioni di interesse pubblico dovrebbero dare alle autorità giurisdizionali degli Stati membri la
possibilità di disapplicare una disposizione della legge straniera qualora in una data fattispecie sia
manifestamente contraria all’ordine pubblico del foro. Altro interrogativo attiene alla possibilità di una
graduazione del limite stesso a seconda di quanto sia più o meno intensa la connessione con la realtà
sociale considerata nella fattispecie. Per risolvere a tale dubbio si è recuperata la distinzione tra ordine
pubblico interno e internazionale: quest’ultima nozione opererà rispetto a situazioni e rapporti che
presentano soltanto una tenue connessione con l’ordinamento italiano (c.d. ordine pubblico attenuato);
viceversa l’ordine pubblico interno, più rigoroso, va ad operare rispetto a situazioni e rapporti che, sebbene
non totalmente interni, presentano connessioni molto significative con l’ordinamento giuridico italiano. In
questo scenario, un ruolo importante viene svolto dalla Corte EDU, la cui giurisprudenza sembra orientata a
considerare come violazione della Convenzione la condotta di uno Stato, pur riconducibile ad una
normativa vigente nello Stato medesimo, che tuttavia si discosta dalla soluzione normativa accolta nella
generalità degli Stati della convenzione. Ove ciò si verifichi, infatti, si ritiene che lo scostamento non trovi
giustificazione in una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale,
l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine, la prevenzione dei reati, la
protezione della salute o della morale o la protezione dei diritti e libertà altrui (eccezioni previste dallo
stesso art.8 CEDU).

NORME DI APPLICAZIONE NECESSARIA


L’art.17 della nostra legge di DIP, sotto la rubrica “Norme di applicazione necessaria” prende atto della
presenza di norme che, in ragione del loro oggetto e dello specifico fine cui tendono, si applicano, oltre che
ai rapporti giuridici totalmente interni, anche a quelli che presentano elementi di estraneità rispetto al foro
e che potrebbero trovarsi sottoposti a una legge straniera. Una definizione di questa categoria di norme è
andata col tempo consolidandosi nella giurisprudenza della Corte di giustizia, alla quale si ispira il Reg.
Roma I sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, che all’art.9 definisce di applicazione necessaria
le disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un paese per la salvaguardia dei suoi interessi politici,
quali la sua organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l’applicazione a tutte le
situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile . La dottrina ha
messo a fuoco questa categoria di norme (dette autolimitate) che provvedono esse stesse a determinare il
proprio ambito di applicazione. Caratteristica fondamentale, sottolineata dall’art.17, è quella di dover
essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera operato dalle normali norme di conflitto
italiane, sulle quali pertanto tali disposizioni sono destinate a prevalere. In tal modo, dunque, l’art.17
evidenzia la funzione di limite preventivo all’operare delle norme di conflitto del foro; le norme di
applicazione necessaria, ovvero, esigono di essere applicate dal giudice già prima che questi possa
determinare quale diritto straniero sarebbe richiamato dalla norma di conflitto del foro. Nell’interpretare la
norma ed accertarne l’eventuale carattere di norma di applicazione necessaria, dunque, il giudice possiede
inevitabilmente, come rispetto alla clausola di ordine pubblico, un certo margine di discrezionalità; qui però
egli deve solo interpretare quanto la norma stessa dice circa il proprio ambito spaziale di applicazione; esse
dunque esprimono l’esigenza che tutte le situazioni in qualche modo collegate con il nostro ordinamento
giuridico siano assoggettate a una disciplina uniforme, ignorando programmaticamente l’obiettivo
dell’armonia e uniformità nazionale delle soluzioni.
Esempio di norme di applicazione necessaria sono quelle in materia matrimoniale, di unioni civili e di
responsabilità genitoriale. A seguito dell’entrata in vigore della l.76/2016 che regolamenta le unioni civili
tra persone dello stesso sesso, il matrimonio omosessuale celebrato all’estero da cittadini italiani è
trascritto come matrimonio ma produce gli effetti dell’unione civile; quanto alla costituzione in Italia

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dell’unione civile da parte di uno straniero, il nuovo art.32ter della l.218/95 precisa che le disposizioni del
primo articolo della l.76/2016, che elencano le cause impeditive dell’unione civile, sono di applicazione
necessaria. Quanto poi alla materia della responsabilità genitoriale, il Governo ha riformato gli art.33 e
seguenti della legge di DIP sulla base della delega contenuta nella l.219/2012 che sancisce l’unicità dello
status di figlio: in particolare, è stato introdotto nell’art.33 il quarto comma secondo cui sono di
applicazione necessaria le norme del diritto italiano che sanciscono l’unicità dello stato di figlio. Nuovo poi è
l’art.36bis che qualifica di applicazione necessaria le norme del diritto italiano che attribuiscono ad
entrambi i genitori la responsabilità genitoriale, che stabiliscono il dovere di entrambi i genitori di
provvedere al mantenimento del figlio, e che attribuiscono al giudice il potere di adottare provvedimenti
limitativi o ablativi in presenza di condotte pregiudizievoli per il figlio.
La presenza di norme di applicazione necessaria dà luogo a due problemi che non trovano espressa
soluzione nell’art.17, il quale si occupa soltanto delle norme italiane di applicazione necessaria: si tratta
della presenza di norme di applicazione necessaria nell’ordinamento straniero su cui ricade il richiamo
operato dalla nostra norma di conflitto (lex causae), o in un altro ordinamento straniero col quale la
fattispecie da regolare presenti una qualche connessione. Quanto al primo caso, la presenza di norme di
applicazione necessaria nella lex causae non determina spostamenti di competenza legislativa rispetto alla
previsione della norma di conflitto italiana, e la loro imperatività può venire agevolmente riconosciuta in
base al principio per cui la legge straniera è applicata secondo i suoi propri criteri di interpretazione
(art.15). Quanto al secondo caso, invece, l’art.9.3 del Reg. Roma I autorizza il giudice a dare efficacia alle
norme di applicazione necessaria di un terzo Stato sulla base di concrete valutazioni attinenti al caso di
specie.

RICHIAMO DI ORDINAMENTI PLURILEGISLATIVI


La problematica del c.d. conflitti di leggi interne si presenta in relazione agli Stati plurilegislativi, ovvero a
quegli Stati in cui vigono più legislazioni civilistiche, sia su base territoriale (conflitti interlocali) sia su base
personale (conflitti interpersonali). I conflitti interlocali si pongono quando nelle varie zone in cui lo Stato è
suddiviso vigono normative differenti: le ipotesi sono quelle degli Stati federali (come USA e Canada) e degli
Stati politicamente unitari ma legislativamente differenziati (come il Regno Unito). I conflitti interpersonali,
invece, si producono quando nel territorio dello Stato vigono contemporaneamente più legislazioni,
ciascuna delle quali però è applicabile soltanto a una determinata categoria di persone; il fenomeno è
andato tuttavia riducendosi con la decolonizzazione, sebbene persista tuttora anche in alcuni Stati europei
soprattutto in materia matrimoniale. A risolvere entrambi i tipi di conflitto provvede lo Stato centrale
attraverso l’emanazione di norme attributive di competenza, ovvero di norme deputate a determinare la
sfera di competenza dei vari sotto-ordinamenti, territoriali o personali. Le norme di conflitto italiane sono
formulate in modo da richiamare nel loro complesso gli ordinamenti di altre entità di tipo statuale dotate di
soggettività giuridica internazionale: l’art.18 l.218/95, sotto la rubrica “ordinamenti plurilegislativi”, dispone
infatti che, qualora nell’ordinamento richiamato dalle disposizioni della presente legge coesistono più
sistemi normativi a base territoriale o personale, la legge applicabile si determina secondo i criteri utilizzati
da quell’ordinamento. Tale norma, da un lato, si conforma alla regola generale dell’art.15 secondo cui
l’ordinamento straniero oggetto del richiamo internazional-privatistico va ricostruito e applicato seguendo i
principi che gli sono propri; dall’altro, la scelta legislativa operata dall’art.18 rappresenta una conseguenza
obbligatoria dell’esigenza di mantenersi fedele al criterio della cittadinanza.
Diversa è la soluzione adottata dal legislatore comunitario nei regolamenti: tanto il Regolamento Roma I
all’art.22, quanto il Regolamento Roma II all’art.25, infatti, escludono del tutto il richiamo alle normative
interlocali, affermando che, ove uno Stato si componga di più unità territoriali, ciascuna con una normativa
propria, ogni unità territoriale è considerata come un paese ai fini della determinazione della legge
applicabile. Più articolate e complesse sono le disposizioni del Regolamento Roma III in materia di divorzio e
di successione: per quanto riguarda i conflitti territoriali di leggi (così la rubrica dell’art.14 Roma III), il

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richiamo è inteso come riferito alla legge in vigore nella singola unità territoriale e, in particolare, alla
residenza abituale in una data unità territoriale; qualora tuttavia il regolamento richiami la lex patriae, ogni
riferimento alla cittadinanza è inteso come riferimento all’appartenenza all’unità territoriale designata dalla
legge o, in mancanza di norme pertinenti, all’unità territoriale con la quale i coniugi hanno il legame più
stretto. Quanto invece ai conflitti interpersonali di leggi, oggetto di richiamo è il sistema giuridico
determinato dalle norme in vigore nello Stato; in mancanza di tali norme, si applica il sistema giuridico con
cui i coniugi hanno il legame più stretto.

PLURICITTADINI, APOLIDI, RIFUGIATI


Il giudice italiano può trovarsi di fronte a individui che possiedono più di una cittadinanza (pluricittadini) o
che nessuno Stato considera come propri cittadini (apolidi); è poi presente anche il fenomeno dei rifugiati,
cioè di individui che, avendo abbandonato il territorio dello Stato di cui sono cittadini, in quanto da esso
perseguitati per ragioni politiche, non possono essere sottoposti alla legge di tale Stato. L’art.19 l.218/95
provvede a disciplinare tali situazioni con disposizioni distinte, che indicano quale tra le diverse cittadinanze
debba prevalere per i pluricittadini e quali criteri sussidiari debbano funzionare per apolidi e rifugiati. Con
riferimento a questi ultimi, il comma 1 dell’art.19 indica, come criteri sussidiari rispetto a quello della
cittadinanza, i criteri (in successione tra loro) del domicilio e della residenza, conformando in tal modo il
nostro diritto comune a quanto stabilito dai rispettivi art.12 della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa
allo statuto dei rifugiati e della Convenzione di New York del 1954 relativa allo statuto degli apolidi, ed
estendendone al contempo la portata anche nei confronti di tali soggetti. Il secondo comma dell’art.19 non
indica criteri di collegamento sussidiari rispetto a quello della cittadinanza, e si limita a fornire una chiave di
scelta fra le due o più cittadinanze possedute dalla persona la cui legge nazionale deve essere applicata,
distinguendo innanzitutto a seconda che tra esse vi sia o meno la cittadinanza italiana. È infatti previsto che
quest’ultima prevalga sempre, con la conseguenza di rendere applicabile il diritto materiale italiano, mentre
ove a concorrere siano soltanto cittadinanze straniere è stabilito che a prevalere sia la cittadinanza, e quindi
la legge, dello Stato con il quale l’individuo ha il collegamento più stretto.

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PARTE 2 :
DIRITTO INTERNAZIONALE PUBBLICO
LE FASI EVOLUTIVE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
L’origine del diritto internazionale viene tradizionalmente fatta risalire all’età moderna, e precisamente alla
pace di Westfalia del 1648, quando gli Stati consolidarono definitivamente la propria indipendenza rispetto
all’Impero e al Papato, affermando dunque il proprio dominio esclusivo su un determinato territorio e sulla
relativa popolazione. In questa prima fase, definita del diritto internazionale classico, i popoli risultano così
riuniti in varie comunità organizzate in Stati, ciascuno con le proprie caratteristiche e tradizioni. Non
rilevano le modalità organizzative adottate al fine di gestire la loro indipendenza e sovranità: ciò che rileva è
che lo Stato risulti effettivamente quale ente in grado di soddisfare due fondamentali esigenze: garantire la
sicurezza e realizzare la solidarietà degli individui. Tuttavia, nessuno Stato si dimostrò abbastanza potente
da stabilire dei principi fondamentali in grado di regolare le relazioni internazionali tra gli Stati: questi
infatti, nella fase iniziale del diritto internazionale, godono di un’ampia sfera di libertà per quanto riguarda
l’organizzazione interna, la politica estera e la materia economica; si trovano in una posizione di
uguaglianza sovrana (sono cioè indipendenti da qualsiasi altro ente normativo, mentre internamente si
articolano nella triade popolo/governo/territorio); infine, risultano caratterizzati da un ampio
decentramento delle funzioni giuridiche: mancando un sistema di organi centralizzati, nonché un’autorità
superiore idonea a legittimare le nuove situazioni, la forza risulta la principale fonte di legittimazione della
comunità internazionale, vale a dire che spetta a ciascuno Stato creare e modificare le norme per risolvere
le controversie.
La seconda fase si apre nel 1945 e viene definita del diritto internazionale moderno o intermedio. Essa
prende le mosse soprattutto dalla stipulazione di una serie di accordi e trattati, come la Carta delle Nazioni
Unite (1945) e la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), che hanno contribuito a riaffermare il
tradizionale principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati. A questo sono stati affiancati una serie di altri
principi, primo fra tutti, in materia di tutela dei diritti umani, l’adempimento in buona fede degli obblighi
derivanti dalla Carta; vigevano poi l’obbligo di risolvere le controversie in maniera pacifica, e il derivante
divieto di minaccia e dell’uso della forza, una condotta traducibile nel c.d. principio di non ingerenza. Tale
principio diviene centrale soprattutto nella terza fase del diritto internazionale, qui definito
contemporaneo. Essa prende avvio con la Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale in
materia di relazioni amichevoli e di cooperazione fra gli Stati, stipulata nel 1970. In particolare, il principio di
non ingerenza risulta, da un lato, rafforzato dal costante divieto della minaccia e dell’uso della forza,
dall’altro, attenuato a causa dello sviluppo della cooperazione internazionale e del principio di tutela dei
diritti umani. Risultano infatti preponderanti due nuovi principi: il dovere di cooperazione tra Stati (come
risulta dalla Dichiarazione del 1970) e il diritto all’autodeterminazione dei popoli, che risulta ora

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imprescindibile per legittimare l’esercizio del potere di governo da parte delle autorità. Le norme di diritto
internazionale, come risultano dalla loro evoluzione storica, si presentano dunque caratterizzate da una
serie di aspetti: sono innanzitutto generali, formulate cioè in maniera vaga (e per questo spesso oggetto di
applicazioni contraddittorie); hanno come destinatari non solo gli Stati ma anche altri soggetti
internazionali, come gli insorti, popoli rappresentati da MDL nazionali ecc.; hanno carattere cogente, per cui
non è consentita alcuna deroga; inoltre sono valevoli erga omnes e possono stabilire obblighi e diritti
solidali di cui si deve pretendere il rispetto da parte di tutta la comunità internazionale. È infine discusso se
si possa parlare di una quarta fase del diritto internazionale, definibile qui post-moderno. Essa avvierebbe il
proprio decorso a partire dal 1992, anno della Dichiarazione di Rio in cui si è parlato di diritto internazionale
dell’ambiente; in tale dichiarazione, e in particolare nel principio n.7, è stato infatti previsto un regime di
responsabilità comuni ma differenziate, per le quali i paesi sviluppati debbono incentivare il perseguimento
dello sviluppo sostenibile, in ragione delle pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e
delle risorse finanziarie di cui dispongono
I SOGGETTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
Nel diritto internazionale, i soggetti primari della disciplina sono enti collettivi; di questi i più importanti
sono gli Stati, dotati di personalità giuridica e titolari di diritti e obblighi internazionali. In origine essi erano
gli unici destinatari della disciplina internazionalistica, in quanto i soli a cui venne espressamente
riconosciuta la soggettività giuridica, mentre con l’avvento del Novecento subentrarono nuovi soggetti,
dotati di soggettività giuridica limitata, ma ai quali venne estesa la disciplina del diritto internazionale.

Gli Stati, come soggetti del diritto internazionale, nascono e si affermano nei fatti attraverso fenomeni
basati sull’effettività. Il diritto internazionale, in quanto ad essi preesistente, non prescrive precisi assetti
organizzativi o modalità procedimentali al fine dell’attribuzione della personalità giuridica; esso si limita a
prendere atto della loro esistenza e a verificare la presenza fattuale di una serie di requisiti. Ogni Stato,
pertanto, trova in se stesso la fonte che ne origina l’esistenza e che legittima l’attribuzione a suo beneficio
della personalità giuridica internazionale con la conseguente operatività delle norme di diritto
internazionale. I requisiti richiesti ai fini dell’attribuzione della soggettività sono, nello specifico, la sovranità
esterna e la sovranità interna degli Stati. Per quanto riguarda la sovranità esterna, essa deve intendersi in
termini di indipendenza giuridica, e cioè di indipendenza dell’ordinamento giuridico dello Stato rispetto ad
altri ordinamenti o sistemi normativi; in questo senso, si tratta quindi di verificarne l’originarietà. La
presenza del requisito dell’indipendenza è stata disconosciuta in alcune situazioni in cui l’ente governativo
di uno Stato, che pur appare indipendente sul piano formale, è in realtà totalmente condizionato
dall’autorità di un altro Stato per propria volontà (i c.d. governi fantoccio). Per quanto riguarda la sovranità
interna, invece, essa comporta necessariamente la capacità di esercitare effettivamente un potere di
governo collettivo nei confronti di un popolo stanziato su di un territorio (triade
governo/popolo/territorio). La progressiva evoluzione del sistema normativo internazionale sembra voler
qualificare ulteriormente le modalità attraverso cui deve manifestarsi il requisito relativo alla sovranità
interna, al fine dell’accertamento della personalità giuridica di uno Stato. Secondo alcuni autori, infatti, il
potere di governo collettivo deve affermarsi nel rispetto dei diritti dell’uomo (tanto che, in caso di una loro
violazione, si legittima l’intervento da parte di altri Stati per garantirne l’osservanza), nonché del principio di
autodeterminazione dei popoli. Tali requisiti e circostanze rivestono una precisa valenza politica e
producono alcuni effetti giuridici che si esprimono soprattutto attraverso il riconoscimento degli Stati; in
realtà, l’acquisto della personalità giuridica internazionale avviene in presenza del fattuale riscontro degli
elementi costitutivi dello Stato, a prescindere da qualsiasi procedimento formale. Il riconoscimento di uno
Stato da parte di un altro Stato non è, infatti, prerequisito necessario per l’attribuzione della personalità
giuridica, bensì esso produce effetti meramente dichiarativi; questo perché, in caso contrario, si verrebbe
ad ammettere che gli Stati preesistenti possano esercitare nei confronti di un nuovo Stato una sorta di
potere di ammissione nella comunità internazionale.

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Nel corso del Novecento è stata progressivamente riconosciuta una personalità giuridica internazionale
anche a soggetti diversi dagli Stati, ossia a enti o organizzazioni collettive dotate di effettività ed
indipendenza rispetto ad altri ordinamenti giuridici, oltreché finalizzati a realizzare valori riconosciuti o
attribuiti dalla Comunità internazionale o da alcuni suoi componenti. Si tratta tuttavia di una personalità
giuridica limitata, non piena come quella degli Stati, implicante solo alcune delle situazioni giuridiche ad
essi riconosciute.
 L’ordinamento internazionale garantisce l’attribuzione della personalità giuridica, innanzitutto, alle
organizzazioni intergovernative create dagli Stati in virtù di accordi internazionali rivolti a perseguire
collettivamente e istituzionalmente fini e valori internazionalmente rilevanti. È stato il periodo del
secondo dopoguerra che ha visto affermarsi il ruolo sempre più centrale delle organizzazioni
intergovernative, con una precisa attribuzione di uno status; in passato, infatti, gli obblighi e i privilegi
riconosciuti a tali enti erano ricondotti direttamente in capo agli Stati partecipi della costituzione e del
loro funzionamento, mentre in seguito la loro personalità giuridica si è lentamente distinta da quella
degli Stati membri, a condizione però che esse dispongano di organi adeguatamente autonomi e di una
propria missione ben definita. La personalità giuridica delle organizzazioni intergovernative opera,
quindi, entro limiti strettamente funzionali allo svolgimento della loro missione, per questo deve
intendersi come una capacità ristretta, limitata cioè al perseguimento dei suoi soli fini, anche in virtù del
fatto di un’organizzazione priva di qualsiasi base territoriale. Oggi l’organizzazione intergovernativa
principale è costituita dall’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), creata nel 1945 con il fine primario
di mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Essa si compone alcuni organi principali: l’assemblea
generale, dove si riuniscono tutti i rappresentanti degli Stati membri incaricati di votare, con un voto
ciascuno, atti non vincolanti sottoforma di raccomandazioni; il Consiglio di Sicurezza, che può approvare,
a maggioranza di nove Stati membri, raccomandazioni non vincolanti o decisioni con carattere
vincolante, volte al perseguimento del fine primario; il segretario generale, che rappresenta le Nazioni
unite e dirige l’apparato amministrativo; infine la Corte internazionale di giustizia, con sede a L’Aja,
incaricata di risolvere le controversie tra gli Stati membri attraverso l’emissione di pareri consultivi.
 Altro ente a cui viene estesa l’attribuzione, pur limitata, della personalità giuridica è il Sovrano Ordine
Militare di Malta. Si tratta di un ente sorto a fini militari e di assistenza sanitaria che manifestò la propria
autonomia e indipendenza nel XIV secolo, quando si dotò di una vera e propria sovranità territoriale su
Rodi e Malta; tale sovranità venne successivamente persa alla fine del XVIII sec., pur comunque
mantenendo relazioni diplomatiche con vari Stati, nonché alcune sedi extraterritoriali. Proprio in virtù
dell’esigenza di garantire il perseguimento dei suoi fini, tradizionalmente condivisi e valorizzati come
essenziali dalla Comunità internazionale, si è dunque pensato di riconoscere la qualità di soggetto
internazionale al Sovrano Ordine di Malta; si tratta comunque di una forma particolare di soggettività,
avente carattere funzionale, nel senso che opera esclusivamente per il raggiungimento delle sue finalità
istituzionali di assistenza sanitaria e ospedaliera.
 La ratio alla base dell’attribuzione della personalità giuridica al Sovrano Ordine di Malta si ha anche con
riferimento alla Santa Sede, ente esponenziale della Chiesa cattolica e governo dello Stato della Città del
Vaticano. Pur essendo discutibile che lo Stato della Città del Vaticano sia di per sé un vero e proprio
Stato, è stato sempre ammesso che la Santa Sede goda della sovranità nelle relazioni internazionali per
via della sua natura e in conformità alle sue tradizioni. Per questo, nei limiti delle esigenze relative alla
sua funzione istituzionale condivisa dalla Comunità internazionale, la Santa Sede gode della maggior
parte dei diritti e dei privilegi garantiti dal diritto internazionale agli Stati; si tratta comunque di una
personalità giuridica limitata esclusivamente a quelle situazioni giuridiche rivolte a consentire alla Santa
Sede di svolgere la propria missione di ordine religioso a portata universale, mantenendo una minima
base territoriale.
 Tra i soggetti che stanno assumendo un’importanza sempre più significativa, a causa dell’affermarsi del
principio di autodeterminazione dei popoli, vi sono i c.d. Insorti, entità organizzate che portano avanti
un’insurrezione contro l’autorità di governo di uno Stato. Al fine di portare avanti le loro missioni, e per

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essere dunque rivestiti della personalità giuridica internazionale, tali enti devono esercitare un controllo
effettivo e minimamente stabile sulla popolazione delle cui istanze sono portatori; non si richiedono
stabilità e modalità organizzative pari a quelle degli Stati, se non che si deve comunque garantire la
presenza di un comando responsabile, che operi con modalità tali da permettere di condurre operazioni
continue e concertate (come indicato dal Protocollo del 1977 addizionale alla Convenzione di Ginevra del
1949 sui conflitti armati internazionali). Talvolta gli insorti possono essere espressione di Movimenti di
liberazione nazionale, vale a dire entità organizzate rappresentative delle istanze di autodeterminazione
delle popolazioni dei cui interessi si propongono come enti esponenziali, pur non essendo riconducibili a
vere e proprie organizzazioni di tipo statuale in seno alla Comunità internazionale. Nei confronti di tali
comitati, l’elemento costitutivo del controllo effettivo è valutato con minor rigore quando la loro
funzione operi come veicolo istituzionale rivolto a realizzare l’autodeterminazione di un popolo soggetto
ad occupazione straniera o coloniale. In difetto di un controllo effettivo sul territorio e su una
popolazione, tali Movimenti possono soltanto essere ascoltati nelle varie sedi internazionali in cui si
dibattono i temi relativi alle popolazioni e ai territori di cui essi si pongono come interpreti delle istanze
autonomistiche; in
queste occasioni potranno godere soltanto di alcuni limitati privilegi previsti dal diritto internazionale.
Molto più complessa è invece la valutazione dello status di quegli enti definiti terroristi, rivolti ad
operare secondo una logica anti-sistema, con un ampio impiego di atti di violenza e senza alcuna
sensibilità per il rispetto dei diritti umani universali; valutazione difficile anche in considerazione del fatto
che tali enti risultano localizzati in territori appartenenti a Stati che, pur non consentendo tale loro
presenza, non sono in grado di impedirla. Di tali fenomeni, uno dei più significativi è quello del califfato
dell’ISIS, autoproclamatosi Stato islamico, che opera da sedi localizzate prevalentemente in Libia, Siria e
Iraq. Si è dibattuto, e si dibatte ancora con esiti incerti, se a tale ente debba essere attribuita una
soggettività internazionale; prescindendo da ciò, si ritiene comunque che anch’esso sia tenuto a
rispettare gli obblighi erga omnes previsti dal diritto internazionale, come quelli a tutela dei diritti
dell’uomo, tanto che nei suoi confronti direttamente le Nazioni unite non hanno esitato a denunciarne la
violazione e ad invocare l’utilizzo della forza per la relativa repressione.
 Sempre in virtù del principio di autodeterminazione, e dell’esigenza di liberare popolazioni sottoposte a
dominazione coloniale, o di uno Stato estero, oppure a fenomeni di apartheid, è stato possibile
legittimare la creazione di nuovi Stati. Un esempio: il Ciskei. Nel corso degli anni ’70, sono state costituite
in Stati alcune collettività politiche del Sudafrica, dotate di una formale autonomia e indipendenza
giuridica, pur essendo però, per propria volontà, totalmente dipendenti dallo Stato del Sudafrica dal
punto di vista economico e della politica di bilancio; tra queste il Ciskei, che dichiarò la propria
indipendenza nel 1981. Nonostante un’iniziale posizione a favore della personalità giuridica
internazionale, gli altri Stati e l’ONU si rifiutarono di riconoscerlo come Stato, rilevando che esso non
disponeva della capacità di esercitare un’azione di governo propria, in quanto di fatto dipendente dal
Sudafrica, il quale invece vi esercitava la propria autorità di governo e ne era responsabile economico. A
seguito di tali constatazioni, dunque, il Ciskei venne pacificamente considerato privo di personalità
giuridica, per poi essere ufficialmente reincorporato nel Sudafrica nel 1994 con la fine dell’apartheid.
Altro caso particolare è quello del Kosovo. A seguito del ritiro delle truppe jugoslave nel ’99, sul territorio
del Kosovo si insediano amministrazioni militari e civili, della NATO e dell’ONU, prima di giungere nel
2008 alla sua indipendenza. La Dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, adottata contestualmente alla
creazione del nuovo Stato, rappresenta l’espressione compiuta del principio secondo cui ogni Stato si
autolegittima, ovvero trova in se stesso la fonte che ne origina l’esistenza, purché non vi sia stato l’uso
illegittimo della forza o la violazione delle norme di diritto internazionale generale, come stabilito dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ultimo importante caso, la Palestina. Inizialmente,
l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (c.d. OLP) non fu riconosciuta come soggetto giuridico
internazionale; solo successivamente a questa venne attribuita una limitata soggettività internazionale, al
fine di discutere su basi di perfetta parità con gli Stati territoriali i modi e i tempi dell’autodeterminazione

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dei popoli. In tale prospettiva dunque, nell’ambito delle N.U. è stato inizialmente assegnato all’OLP lo
status di osservatore, e solo dopo il riconoscimento della sua mutata denominazione in “Palestina” gli
venne conferito il diritto di adottare documenti che fossero ufficiali per le Nazioni unite. Oggi lo Stato di
Palestina ha un apparato analogo a quello degli Stati, ed esercita una certa autorità sui territori ove è
localizzato, che però rimangono sostanzialmente sotto il controllo di Israele (solo alcuni paesi hanno
infatti riconosciuto la Palestina come Stato a tutti gli effetti).
 Vi sono infine una serie di enti (o “attori”) internazionali che, pur essendo ancora privi di una vera e
propria personalità giuridica internazionale, partecipano ai processi di elaborazione normativa
nazionale. Tra essi assumono una particolare importanza le c.d. Organizzazioni non governative (ONG) e
le Imprese multinazionali (IMN). Esse, infatti, sono rappresentative, le prime, degli interessi pubblicistici
della società civile universale, le seconde, degli interessi produttivi di un sistema economico-finanziario
globale coerente con modelli organizzativi idonei a massimizzarne l’efficienza e l’aumento del valore.
Attualmente, in un sistema globalizzato, si è assistito al progressivo svuotamento dei poteri sovrani degli
Stati di fronte alla internazionalizzazione dei capitali e alla liberalizzazione dei relativi movimenti; di
converso, le IMN risultano direttamente assoggettate ad alcuni principi di diritto internazionale, relativi
alla tutela dei diritti dell’uomo, alla salvaguardia dei diritti sociali dei lavoratori e al rispetto di alcuni
valori propri degli Stati, configurando così una vera e propria responsabilità sociale delle imprese
multinazionali.

Fino al Novecento, i soggetti primari cui era indirizzata la disciplina internazionalistica erano enti o
organizzazioni collettive (e in particolare gli Stati); un’eventuale applicazione del diritto internazionale agli
individui poteva avvenire solamente per il tramite degli Stati e nell’ambito degli ordinamenti statali. Con
l’avvento del DI contemporaneo, però, in conseguenza di regole di diritto pattizio, anche gli individui sono
diventati destinatari a tutti gli effetti del diritto internazionale, e ciò a causa di due particolari fenomeni: in
primo luogo, l’affermarsi di una responsabilità penale personale direttamente prevista, e
giurisdizionalmente azionabile, nell’ambito dell’ordinamento nazionale nei confronti degli individui che
commettono determinati comportamenti considerati crimina juris gentium; in secondo luogo, la previsione
di obblighi posti a carico degli enti dotati di personalità giuridica internazionale (in primis gli Stati) non più
funzionali alla reciproca tutela della loro autonomia, indipendenza e sovranità, bensì alla diretta protezione
dei diritti fondamentali dei governati. Per quanto riguarda i c.d. crimina juris gentium, già in passato alcuni
comportamenti venivano valutati da parte del diritto internazionale come crimini: si trattava della pirateria,
della tratta degli schiavi, del contrabbando di guerra ecc. Oggi tale concetto è stato ampliato dal Tribunale
Militare Internazionale di Norimberga, in relazione a condotte lesive di valori fondamentali della Comunità
internazionale, e in particolare: crimini di guerra, crimini contro la pace, crimini contro l’umanità. Negli
ultimi decenni si è così affermata la rilevanza e diretta applicazione di quelle norme che provvedono a
sanzionare gli individui per la commissione di specifici comportamenti criminali. Tali principi sono stati
progressivamente affinati e precisati sino alla formulazione accolta dallo Statuto del Tribunale penale per la
ex Jugoslavia, e da quello della Corte penale internazionale. Per converso, all’affermarsi di obblighi e
procedimenti direttamente operanti nei confronti degli individui corrisponde anche il definitivo
consolidamento di diritti e garanzie previsti dal diritto internazionale direttamente a favore degli individui e
autonomamente azionabili da questi ultimi con sempre maggiore grado di intensità ed effettività. Ciò si
riscontra con particolare riguardo alla tutela dei diritti dell’uomo, affermati con norme rivolte a favore degli
individui, in virtù delle quali questi vengono riconosciuti come diretti titolari di situazioni giuridiche protette
nell’ordinamento internazionale. Di fronte a tale evoluzione del diritto internazionale sembra pertanto
possibile riconoscere una pur limitata personalità internazionale degli individui; si tratta di una personalità
giuridica diversa rispetto a quella degli Stati, in quanto gli individui potranno far valere solamente alcune
specifiche situazioni giuridiche in ambito internazionale, ciò sempre entro precisi limiti e determinate
condizioni; inoltre non possono valersi delle garanzie di attuazione previste dal DI generale proprio perché
esse sono strutturate in funzione delle caratteristiche dei soggetti primari della Comunità internazionale.

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 In questo contesto si colloca in primis la Corte penale internazionale, istituzione permanente, avente
una giurisdizione di carattere generale, nata nel 1998 a seguito dell’adozione del proprio Statuto; essa
giudica sui crimini più gravi nel contesto internazionale, quali il genocidio, i crimini contro l’umanità, i
crimini di guerra e di aggressione, espressi dagli art.5-8 dello Statuto (che rappresentano la codificazione
della prassi formatasi a seguito dell’istituzione dei Tribunali militari di Norimberga e Tokyo). Al crimine di
genocidio è dedicata una norma ad hoc (art.6) distinta dai crimini contro l’umanità definiti nell’art.7: si
tratta di undici fattispecie, indicate come uno qualsiasi degli atti commessi intenzionalmente nell’ambito
di un attacco a vasto raggio o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile . Di tali crimini
rispondono le persone fisiche: ex art.25 dello Statuto della corte, infatti, chiunque commetta un reato
sottoposto alla giurisdizione della Corte è individualmente responsabile e può essere sanzionato; non
rileva dunque qualsivoglia distinzione basata sulla qualifica ufficiale, né essa costituisce motivo di
riduzione della pena.
 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata il 4 novembre 1950, in vigore fra tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, è una delle forme
più evolute per la protezione dei diritti dell’uomo. Si compone di 59 articoli e 16 Protocolli addizionali,
nei quali vengono attribuite competenze sia alla Corte europea, quale organo giudiziario cui si rivolgono
gli Stati e gli individui, sia al Comitato dei ministri, quale organo esecutivo avente il compito di sorvegliare
che le sentenze della Corte siano eseguite dallo Stato convenuto in giudizio. Il catalogo dei diritti protetti
dalla CEDU viene enunciato, oltre che dalla Convenzione (es. diritto alla vita, ad un processo equo, al
rispetto della vita privata e familiare, libertà di espressione, di pensiero, coscienza religione ecc.), anche
dal Protocollo addizionale n.1, che aggiunge al catalogo il diritto al rispetto dei propri beni e il diritto di
votare e presentarsi come candidati.
 Per assicurare il rispetto degli impegni derivanti dalle Alte Parti contrenti della CEDU, l’art.19 della
Convenzione istituisce una Corte europea dei Diritti dell’uomo (c.d. Corte EDU), composta da un numero
di giudici pari a quello degli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno ratificato la CEDU. È un
tribunale permanente, con sede a Strasburgo, con competenza generale su tutte le questioni concernenti
l’interpretazione e l’applicazione della CEDU o dei suoi Protocolli (art.32). Il ricorso ad essa può farsi da
parte del singolo individuo, per lamentare la violazione di uno dei diritti previsti dalla Convenzione o
anche la lesione di altre disposizioni ove lo Stato abbia ostacolato il ricorso, o da parte di uno Stato
membro, per far valere qualsiasi inosservanza delle disposizioni CEDU (il Protocollo 11 prevede però che
il ricorso individuale non sia più soggetto all’accettazione da parte degli Stati, ai quali invece viene
imposto senza deroga alcuna). Il ricorso alla Corte EDU può essere presentato da una persona fisica o
giuridica, che sia stata parte in una controversia davanti ai giudici nazionali, in presenza di due
condizioni: che siano stati esauriti tutti i possibili rimedi giurisdizionali davanti agli stessi giudici nazionali
(cioè fino alla cassazione); che non venga presentato oltre il termine perentorio di sei mesi a decorrere
dalla data di pubblicazione della sentenza (il Protocollo n.15 intende comunque modificare l’art.35 CEDU,
riducendo il termine per il ricorso da sei a quattro mesi). Nel ricorso vanno indicate le norme che si
pretendono violate da parte dello Stato di cui si tratta, perché solo quest’ultimo assume il ruolo di
controparte nella procedura europea (anche se di per sé la causa si era celebrata davanti ai giudici
nazionali in contraddittorio con altri soggetti privati o pubblici); la Corte dovrà pronunciare una sentenza
a carattere vincolante: essa non sarà immediatamente esecutiva negli ordinamenti giuridici nazionali, ma
vincola gli Stati contraenti che, ai sensi dell’art.46 CEDU, devono conformarsi (sarà poi compito del
Comitato dei ministri controllare l’effettiva esecuzione della sentenza). Inoltre, il Protocollo n.16
attribuisce alla Corte anche una funzione consultiva: esso prevede l’introduzione di un meccanismo
simile al rinvio pregiudiziale, secondo cui i giudici nazionali possono, nel rispetto di determinati requisiti,
sospendere il procedimento a quo e chiedere alla Corte EDU pareri consultivi su questioni di principio
relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla CEDU o dai suoi
Protocolli.

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LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
Le fonti del diritto internazionale si suddividono in: fonti del diritto generali o consuetudinarie, e fonti del
diritto particolari o pattizie. Le prime sono norme non scritte, ma che possono essere codificate, avente
portata generale, dunque applicabili a tutti i soggetti del diritto internazionale; le seconde invece sono
norme tendenzialmente scritte ma con portata solo inter partes, e cioè valevoli solo nei confronti dei
soggetti che stipulano l’accordo. Questo sistema di fonti viene sancito dall’art.38 dello Statuto della Corte
Internazionale di Giustizia dove si legge che la Corte, incaricata di regolare conformemente al diritto
internazionale le divergenze che le sono sottoposte, applica: le convenzioni internazionali (che stabiliscono
norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite), la consuetudine internazionale (come prova di una
pratica generale accettata come diritto), i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili, le
decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più qualificati (come mezzi sussidiari per la determinazione
delle norme giuridiche); tale disposizione, in ogni caso, non pregiudica il potere della Corte di decidere una
controversia “ex aequo et bono” qualora le parti siano d’accordo.

Diritto internazionale generale


Le forme nelle quali si manifesta il diritto internazionale generale sono essenzialmente due: la
consuetudine internazionale e i principi generali di diritto.

CONSUETUDINE INTERNAZIONALE  Le norme consuetudinarie internazionali sono la risultante di 2


distinti
elementi, uno di carattere oggettivo (o materiale), l’altro di carattere soggettivo (o psicologico): il primo
consiste nella ripetizione costante e conforme di un determinato comportamento, considerato come
doveroso, permesso o vietato dalla norma  l’usus; il secondo consiste invece nell’opinione o nella
convinzione che il comportamento stesso corrisponda a quanto previsto dalla norma  opinio iuris et
necessitatis. La descrizione della consuetudine internazionale che si legge nel testo dell’art.38 risulta
chiaramente ispirata all’idea della presenza di entrambi gli elementi della consuetudine, tanto quello
oggettivo (“la pratica generale”) quanto quello soggettivo (“accettata come diritto”, dove il termine
accettata va inteso nel senso di riconosciuta). A tale descrizione, la giurisprudenza internazionale si è
sempre mantenuta fedele quando si è trovata a dover accertare l’esistenza e il contenuto di una data
regola di diritto internazionale consuetudinario; la Corte di giustizia ha però precisato che la sola presenza
di una pratica diffusa (l’usus) non è di per sé sufficiente per affermare l’esistenza della norma
consuetudinaria, se non è accompagnata dalla convinzione della giuridica obbligatorietà del
comportamento (opinio iuris et necessitatis). La stessa Corte si è trovata a ribadire tale principio nel 1996
quando si è trovata a dover dare un parere consultivo in merito all’esistenza o meno di una norma
consuetudinaria che qualifichi come illeciti la minaccia o l’impiego di armi nucleari. Di per sé, gli Stati che
assumono la posizione che l’uso di armi nucleari sia illecito, si sono sforzati di dimostrare l’esistenza di una
norma consuetudinaria che vieta tale uso (essi si riferiscono ad una prassi uniforme di non utilizzazione di
armi nucleari dal 1945); altri Stati, che invece affermano la liceità della minaccia e dell’uso di armi nucleari
in certe circostanze, hanno invocato a sostegno della loro tesi la c.d. politica della dissuasione, secondo cui,
se non sono state utilizzate armi nucleari dal 1945, non è a causa di una consuetudine esistente o in via di
formazione, ma solo perché non si sono fortunatamente verificate circostanze che ne avrebbero giustificato
l’impiego. In queste condizioni, la Corte non ritiene di poter riscontrare l’esistenza di una tale opinio iuris,
anche in ragione del fatto che essa non è accompagnata da alcuna pratica (costante e conforme) della
stessa.
L’elemento della prassi costante e uniforme richiede che essa sia osservata dalla generalità dei soggetti di
diritto internazionale, ma non necessariamente dalla loro totalità; né è necessario che la prassi sia
perfettamente costante: è sufficiente che i soggetti abbiano tenuto il comportamento nella maggior parte
dei casi, e che le eventuali condotte non conformi alla prassi vengano trattate come violazioni o eccezioni di

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una norma giuridica. Una norma consuetudinaria nasce su base consensuale, tuttavia una volta nata
acquista un carattere di oggettività, vincolando anche quegli Stati che non avevano partecipato alla sua
creazione. Può formarsi anche in un arco di tempo abbastanza breve, se vi è un’opinio iuris molto evidente
e una prassi frequente e intensa; ciò avviene tipicamente in materie nuove (come le attività aerospaziali)
dove gli Stati avvertono il forte bisogno di una disciplina nuova e adatta. Sulla questione dell’oggettività si
sono tuttavia prospettate opinioni discordanti: secondo una parte della dottrina, gli Stati che sin da subito si
sono opposti alla nascita di una norma consuetudinaria (i c.d. obiettori persistenti) non devono essere
vincolati ad essa, dal momento che hanno inequivocabilmente manifestato il proprio dissenso sin dalla fase
di formazione; secondo però la dottrina più convincente, tali Stati sono comunque vincolati, in quanto non
può sussistere un’eccezione al principio generale della vincolatività della consuetudine internazionale. Le
norme consuetudinarie possono comunque venire meno per desuetudine, qualora la maggioranza dei
soggetti internazionali non mostri più un’opinio iuris e una prassi conformi ad essa; se la non conformità
riguarda solo uno Stato, la consuetudine continuerà ad esistere e i comportamenti non conformi saranno
delle violazioni; se invece la non conformità riguarda un gruppo di Stati tra loro concordi, ciò potrebbe
creare una norma locale derogatoria della norma generale.
Recentemente è stato intrapreso un tentativo di elencazione degli elementi rilevanti ai fini
dell’identificazione delle norme consuetudinarie da parte della Commissione di diritto internazionale, che
nel 2012 ha nominato a tal fine il relatore speciale Michael Wood: il programma dei lavori prevede
l’approvazione da parte della Commissione di un insieme di conclusioni, corredate da un commentario.
Anzitutto, vengono in considerazione quei fatti che costituiscono, nel loro insieme, la c.d. prassi
diplomatica degli Stati, ossia quelle intenzioni, richieste e pretese che trovano posto nella corrispondenza
diplomatica dei vari Stati (queste manifestazioni rappresentano l’espressione più immediata della posizione
degli Stati su determinate questioni); in secondo luogo, gli Stati possono prendere posizione su questioni
che implicano l’esistenza o l’applicazione di norme internazionali generali, attraverso l’adozione di specifici
atti o la tenuta di specifici comportamenti; infine, particolarmente significativa ai fini della rilevazione della
prassi internazionale è stata negli ultimi decenni la c.d. diplomazia multilaterale, il cui contribuito è venuto
ad accrescersi grazie alle crescenti Organizzazioni internazionali, specie l’ONU.
Accanto alla prassi degli Stati, una posizione di rilievo va riconosciuta, ai fini della rilevazione delle norme
consuetudinarie, alla giurisprudenza internazionale e alla dottrina degli autori più qualificati. L’art.38 dello
Statuto della Corte ne fa menzione al par.1 lett. d) precisando che si tratta di mezzi sussidiari per la
determinazione delle norme giuridiche. Infine, possono venire in rilievo anche i trattati internazionali; tali
accordi possono condurre alla creazione di diritto internazionale consuetudinario quando siano destinati
all’adesione da parte degli Stati in generale e siano in fatto largamente accettati. Un tipo particolare di
accordi internazionali sono i c.d. atti di codificazione, facendo qui riferimento all’attività dell’ONU: quanto
alle principali realizzazioni da parte della Commissione di diritto internazionale (CDI) si ricordano le
Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche (1961) e sul diritto dei trattati (1969), la Convenzione di
Montego Bay sul diritto del mare (1982), la Convenzione contro il genocidio (1948), nonché i due progetti di
articoli sulla responsabilità degli Stati e delle OI, approvati in seconda lettura rispettivamente nel 2001 e nel
2011. Quando uno di questi atti viene stipulato, è necessario determinarne gli effetti e i rapporti con il
diritto generale preesistente. La giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia ha distinto, a tal
riguardo, tre diverse ipotesi. Vi è innanzitutto la possibilità che un determinato atto di codificazione si limiti
a tradurre in forma scritta il contenuto di una norma generale già esistente: la norma continuerà in questo
caso a valere e ad applicarsi nel suo significato e portata originari, e l’effetto proprio dell’accordo avrà
carattere meramente ricognitivo. Una seconda ipotesi è che l’accordo intervenga a completare un processo
di formazione di una norma consuetudinaria già in corso, costituendone così il momento di cristallizzazione:
in questo modo il processo di definizione della norma generale viene perfezionato proprio dalla conclusione
dell’accordo. Infine un’ultima ipotesi è rappresentata da un accordo di codificazione che contenga una o più
norme, in sé nuove rispetto al diritto preesistente, che costituiscono il punto di partenza di un processo
destinato a tradursi nella creazione di una nuova norma generale.

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PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO  Fanno parte del diritto internazionale generale anche i principi generali
di diritto. Questa denominazione ricomprende due fenomeni distinti: da una parte si parla di principi
generali di diritto per indicare i caratteri fondamentali e le regole generali che si ricavano in via induttiva
dalle regole espresse dal sistema; dall’altra, si utilizza l’espressione per richiamare quei principi generali di
diritto riconosciuti dalle Nazioni civili, ai quali fa riferimento l’art.38 dello Statuto della Corte. Tali principi
possono essere considerati come ricavati in via induttiva da varie regole consuetudinarie, e partecipano dei
caratteri propri di queste quanto ai loro elementi costitutivi e al loro valore formale. Si può introdurre una
distinzione all’interno della categoria dei principi generali, tra quelli che attengono alla disciplina degli
aspetti formali fondamentali dell’ordinamento, come quelli che attengono ai soggetti e alle fonti, e quelli
che hanno carattere materiale, in quanto riguardano direttamente la regolamentazione delle relazioni
internazionali. Tra i primi, va sottolineato il ruolo del principio che si suole esprimere con la formula pacta
sunt servanda, ossia il principio che attribuisce all’accordo dei soggetti l’idoneità a porre in essere norme
giuridiche internazionali; per quanto riguarda i secondi, serve invece richiamare l’enunciazione che ne è
stata fatta dall’Assemblea generale delle N.U. nel 1970 con la Dichiarazione relativa ai principi di diritto
internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli Stati: in tale dichiarazione
vengono solennemente proclamati sette principi (eguaglianza sovrana degli Stati, autodeterminazione dei
popoli, non-intervento negli affari interni o esterni di un altro Stato, divieto della minaccia e dell’uso della
forza, obbligo di soluzione pacifica delle controversie internazionali, obbligo degli Stati di cooperare
reciprocamente, obbligo di adempiere in buona fede gli obblighi assunti in conformità con la Carta ONU).
Non si trova enunciato nella Dichiarazione alcun principio specifico riguardante il rispetto dei diritti umani
fondamentali; è generalmente ritenuto esistente, tuttavia, un principio che vieta le c.d. gross violations dei
diritti fondamentali (violazioni gravi e generalizzate, quali genocidio, discriminazione razziale ecc.). Non
significa, ovviamente, che i soli principi generali individuabili siano quelli enunciati dalla Dichiarazione; al
contrario, la giurisprudenza internazionale si è riferita non di rado ad altri principi, ed esempio: il principio
della libertà di traffico marittimo, i principi generali di diritto umanitario (ai quali le Convenzioni di Ginevra
del 1949 danno specifica espressione), il principio di prevenzione in materia di ambiente.
Tutt’altro significato hanno i principi generali degli ordinamenti nazionali, dei quali fa menzione l’art.38
dello Statuto della Corte parlando di principi riconosciuti dalle Nazioni civili. Non si tratta di principi
ricavabili dalle norme dello stesso diritto internazionale, ma di principi validi sul piano del diritto interno
degli Stati, ed accolti dalla maggioranza di questi nell’ambito dei propri sistemi giuridici. Tali principi
operano, in particolare, nel senso di integrazione del diritto internazionale, attraverso il richiamo a regole
generali di logica giuridica e di giustizia sostenute dai valori generalmente accolti dagli ordinamenti interni.
La prassi internazionale mostra ipotesi di utilizzazione dei principi generali di diritto interno in svariati
settori, ad esempio: in materia processuale, il principio dell’eguaglianza delle parti nel processo; in materia
di obbligazioni, il principio dell’integrale riparazione in caso di violazione di obbligazioni internazionali, e il
principio del c.d. estoppel (in base al quale una parte non può opporre all’altra il fatto che quest’ultima non
ha eseguito un’obbligazione, e non si è avvalsa di un mezzo di ricorso, se la prima, con qualche atto
contrario al diritto, ha impedito alla seconda di adempiere l’obbligazione in questione, o di ricorrere alla
giurisdizione cui avrebbe potuto avere accesso); infine, in materia penale, i principi enunciati dal Tribunale
internazionale per la ex Jugoslavia.
Nel corso degli ultimi decenni si è pervenuti all’individuazione di una serie di principi propri e specifici del
diritto internazionale, ai quali si attribuisce un valore fondamentale, capace di tradursi nell’inderogabilità
delle relative norme, e quindi di condurre all’invalidità dei trattati che si ponessero in contrasto con essi: si
tratta dello ius cogens internazionale. Ne è risultata la formulazione di un’apposita norma, l’art.53 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, secondo il quale è nullo qualsiasi trattato che sia in conflitto
con una norma imperativa del diritto internazionale generale. Risulta evidente la mancanza di qualsiasi
criterio idoneo a permettere la sicura identificazione di tali norme; tuttavia, la prassi e la dottrina indicano
quali principi di diritto cogente: il divieto della minaccia e dell’uso della forza, il rispetto della sovranità e

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dell’eguaglianza degli Stati, la tutela dei diritti umani fondamentali e dei connessi principi di diritto
umanitario, l’autodeterminazione dei popoli.
Nello stesso filone si inserisce anche la nozione di obbligazioni internazionali erga omnes. Si tratta di
obblighi che si instaurano, non nei confronti di un solo Stato, ma nei confronti della Comunità
internazionale nel suo insieme, e dunque costituiscono diritti che possono essere fatti valere verso uno
Stato da qualsiasi altro soggetto. La Corte internazionale di giustizia, nel caso Barcelona Traction, li ha
definiti come obbligazioni derivanti, nel diritto internazionale contemporaneo, dalla messa al bando degli
atti di aggressione e del genocidio, dalle regole concernenti i diritti fondamentali della persona umana,
nonché, come affermato nel caso Timor orientale, dai principi sull’autodeterminazione esterna dei popoli.

ALTRE FONTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE  Dal punto di vista strettamente tecnico, rilevano anche altre
fonti di diritto internazionale, riconducibili a tale diritto anche se non idonee a dar vita a norme generali.
Direttamente prevista da regole del diritto generale è l’efficacia obbligatoria della promessa unilaterale,
che costituisce una dichiarazione di uno Stato di adottare un certo comportamento nei confronti di altri
soggetti; la conseguenza della promessa è l’obbligatorietà del comportamento che ne è oggetto
indipendentemente da qualsiasi reciprocità. Più indirettamente possono essere poi ricondotte al diritto
internazionale generale le fonti costituite da quegli atti emanati da organizzazioni internazionali in base ai
propri statuti. Si tratta qui di atti previsti come obbligatori dalle norme di tali statuti, che trovano perciò il
loro fondamento in tali norme, aventi carattere pattizio: per tale ragione si parla comunemente di fonti di
terzo grado (considerando di primo grado le norme generali e di secondo grado quelle pattizie). I casi in cui
il potere di emanare atti vincolanti è attribuito a determinate organizzazioni internazionali non sono molto
frequenti, ma rivestono un notevole significato: si pensi alle decisioni vincolanti emanate dal Consiglio di
sicurezza delle N.U., e ai regolamenti, direttive e decisioni dell’Unione europea. Un ultimo caso si ha
nell’ipotesi di una sentenza pronunciata ex aequo et bono da giudici internazionali: in casi del genere, la
sentenza fondata sull’equità acquista significato e valore di fonte di norme vincolanti per le parti in causa.
Non appartiene alla tematica delle fonti la materia della c.d. soft law. Tale categoria comprende una
molteplicità di atti e di manifestazioni della prassi, i quali hanno in comune un elemento di carattere
negativo, che consiste nell’assenza di effetti giuridici vincolanti. Non si tratta dunque di fatti inquadrabili in
una precisa categoria tecnico-giuridica, quanto piuttosto di proposizioni, definite da taluni semi-normative,
aventi la stessa struttura logica delle vere e proprie norme giuridiche vincolanti: un dato comportamento
viene infatti indicato come doveroso al verificarsi di determinati presupposti; inoltre, tale doverosità si
colloca ad un livello diverso da quello proprio dell’obbligo giuridico, o perché il soggetto dal quale proviene
la proposizione è privo del potere di emanare regole di condotta vincolanti, o perché la valutazione viene
espressamente compiuta in termini diversi da quelli strettamente giuridici, risolvendosi nell’indicazione di
comportamenti meramente raccomandati, oppure definiti come doverosi dal punto di vista solo morale o
sociale. Nell’ambito della categoria rientrano le più varie manifestazioni della prassi: si può trattare di
accordi di natura politica, nei quali è assente la volontà degli Stati di obbligarsi giuridicamente (uno degli
esempi più noti è rappresentato dall’Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in
Europa, i c.d. Accordi di Helsinki del 1975); si può trattare poi di risoluzioni, di per sé prive di effetti
vincolanti, dell’Assemblea generale delle N.U.; oppure possono essere proposizioni semi-normative nella
forma di codici di condotta o di guidelines, volte a fissare degli standard nella gestione di certe materie (es.
l’ambiente).

Diritto internazionale particolare


L’accordo, o trattato, può definirsi come l’incontro delle volontà di due o più Stati (o altri soggetti
dell’ordinamento internazionale) che acconsentono ad assumere obblighi e diritti reciproci in relazione a
una determinata materia e a rispettarli in buona fede, secondo forme di cooperazione, per perseguire
finalità comuni. Il fondamento della giuridicità dell’accordo come fonte di norme particolari, dette anche
pattizie o convenzionali, è costituito secondo molti autori dalla regola generale pacta sunt servanda. Con il

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termine “trattato” si è soliti indicare anche il testo nel quale la disciplina è incorporata, sia esso un trattato,
un patto, una convenzione, una carta o uno statuto. Gli Stati sono liberi quanto alla materia oggetto del
trattato e alla natura delle norme in esso contenute; l’unico vincolo posto dal diritto internazionale è
costituito dal rispetto delle norme di ius cogens, che non possono essere derogate mediante trattato.
I trattati sono fonti di obbligazioni tra gli Stati contraenti che, soli, possono pretenderne l’adempimento
reciproco (effetti inter partes); in questo le norme pattizie differiscono dalle norme consuetudinarie, che
vincolano invece la generalità degli Stati. Si è discusso a lungo in passato circa la possibilità che trattati
multilaterali ad ampia partecipazione avessero un valore legislativo o quasi legislativo (c.d. law-making
treaties): gli Stati hanno talvolta stipulato accordi destinati ad avere effetti di carattere generale o erga
omnes, in quanto istitutivi di regimi internazionali o status internazionalmente riconosciuti (si pensi all’atto
finale del Congresso di Vienna del 1815 nel quale è disposta la neutralizzazione della Svizzera e la libertà di
navigazione su alcuni corsi d’acqua internazionali); in realtà occorre sempre tenere distinta la posizione
degli Stati contraenti da quella degli Stati terzi, che sono ritenuti i meri beneficiari delle disposizioni
contenute nel trattato: la massima pacta tertiis nec nocent neque prosunt, che esclude la possibilità di
creare obblighi o diritti a carico o a favore di Stati terzi senza il loro consenso, non conosce infatti eccezioni.

La Convenzione di Vienna (1969)


I trattati sono sottoposti a una serie di norme internazionali che ne disciplinano i requisiti di validità ed
efficacia, il procedimento di formazione, l’interpretazione, gli effetti ecc. La maggior parte di esse sono state
codificate nella Convenzione sul diritto dei trattati, adottata dalla conferenza delle Nazioni Unite tenutasi a
Vienna nel 1969, su un progetto della Commissione di diritto internazionale, ed entrata formalmente in
vigore solo nel 1980 (oggi vincola più di cento Stati). Si tratta di un esempio tipico di atto di codificazione,
pur tuttavia presentando al suo interno, oltre a norme che sono espressione di regole consuetudinarie
preesistenti, anche norme c.d. di sviluppo progressivo, norme cioè non già presenti nel diritto generale e
per questo valevoli solo per gli “Stati parte” della convenzione. La Convenzione non si applica a tutti i
trattati, ma solo agli accordi fra Stati (1), stipulati per iscritto (2) e retti dal diritto internazionale (3),
oppure ai trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. (1) La Convenzione di Vienna del 1969 disciplina
solo i trattati fra Stati indipendenti (trattati fra Stati e organizzazioni internazionali e quelli tra
organizzazioni internazionali sono invece oggetto di una successiva convenzione, stipulata a Vienna nel
1986, ma non ancora entrata in vigore); non sono invece trattati ma contratti internazionali, e come tali non
sottoposti al DI, gli accordi conclusi tra Stati e società straniere, come anche i contratti relativi allo
sfruttamento delle risorse naturali di uno Stato. (2) Non esistono norme internazionali che impongano
condizioni di forma per la conclusione dei trattati, ad esempio, un accordo può essere costituito da un
comunicato congiunto o dal verbale di riunioni; la forma scritta resta comunque la più utilizzata. (3) Non
tutti gli accordi tra Stati sono soggetti al diritto internazionale: da un lato, gli Stati concludono talvolta
accordi regolati dalle norme interne di uno di essi, come avviene quando creano imprese internazionali
costituite secondo un diritto nazionale; dall’altro, gli atti che rientrano nella c.d. soft law sono sottratti al
diritto internazionale in quanto non creano obblighi e diritti reciproci.

Procedura di formazione del trattato


Nelle diverse fasi della procedura che porta alla formazione del trattato, gli Stati sono rappresentati dai c.d.
plenipotenziari, persone espressamente autorizzate dall’organo competente dello Stato a negoziare,
adottare, autenticare o firmare il testo del trattato e ad esprimere eventualmente il consenso dello Stato. Il
documento che identifica il rappresentante ne indica l’ampiezza dei poteri si chiama “pieni poteri”: qualora
un atto relativo alla conclusione di un trattato sia compiuto da un soggetto non autorizzato, tale atto non
avrà effetto, salvo che sia successivamente confermato dallo Stato in questione. Alcune categorie di
persone sono esentate dalla presentazione dei pieni poteri, godono cioè di pieni poteri impliciti per effetto
della funzione che svolgono nell’apparato dello Stato: si tratta dei Capi di Stato e di Governo, dei ministri
degli affari esteri, dei capi di missione diplomatica e dei rappresentanti degli Stati accreditati presso una
conferenza o un’OIG (limitatamente alla negoziazione e all’adozione del testo del trattato).

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Le fasi della procedura che porta alla stipulazione di un trattato sono diverse a seconda che si tratti di
accordi in forma solenne o in forma semplificata. La forma solenne prevede una prima fase di negoziato,
che può svolgersi su impulso di uno o più Stati; questi possono determinare le modalità di svolgimento della
procedura e le maggioranze necessarie per la votazione dei singoli articoli. La Convenzione pone come
regola generale per l’adozione l’unanimità, ma prevede che nel caso di una conferenza internazionale, che
presuppone la presenza di un numero rilevante di Stati, il testo sia adottato a maggioranza di 2/3.
All’adozione segue l’autenticazione, che fissa in modo definitivo il contenuto del testo del trattato. Questa
può avvenire secondo modalità stabilite nel testo stesso o convenute fra gli Stati o, in mancanza, dalla firma
ad referendum o dalla parafatura da parte dei plenipotenziari, alla quale segue la firma definitiva. Nei
trattati stipulati in forma solenne, la manifestazione del consenso dello Stato a obbligarsi al trattato si
esprime solitamente in un momento successivo rispetto alla firma, quando siano stati esauriti eventuali
procedimenti interni di controllo: la convenzione menziona, in proposito, la ratifica, l’accettazione,
l’approvazione o l’adesione. Le prime tre espressioni coincidono e indicano la manifestazione del consenso
da parte di uno Stato che ha partecipato al negoziato e ha adottato e firmato il testo del trattato; l’adesione
invece riguarda gli Stati che vogliano partecipare al trattato in un momento successivo alla firma, i quali
possono eventualmente depositare il proprio consenso anche prima dell’entrata in vigore internazionale
(l’adesione è possibile però solo per i trattati aperti). Con la manifestazione del consenso, uno Stato diventa
contraente di un trattato, indipendentemente dal fatto che il trattato stesso sia entrato in vigore; uno Stato
parte è invece uno Stato nei cui confronti il trattato è in vigore: si tratta però di una distinzione
terminologica non obbligatoria, che può conoscere eccezioni nella prassi. Le modalità e i tempi per
l’entrata in vigore sono molto vari e sono generalmente stabiliti nelle disposizioni finali del trattato.
La forma semplificata di stipulazione viene adottata solitamente per gli accordi bilaterali, per quelli conclusi
tra gruppi ristretti di Stati e che riguardano generalmente questioni di carattere tecnico e amministrativo.
Per questi trattati la firma del testo o lo scambio dei documenti o degli strumenti contenenti il trattato
costituisce la manifestazione del consenso, nonché il momento della loro entrata in vigore (anche se gli
Stati possono comunque stabilire un momento successivo).
Ogni Stato determina liberamente quali organi hanno il potere al proprio interno di manifestare il
consenso a obbligarsi mediante trattato. Si tratta generalmente di disposizioni contenute nella costituzione,
e comportano spesso il concorso dell’attività di più organi. Per quanto concerne gli accordi in forma
solenne, la Costituzione italiana attribuisce il potere di ratifica al Presidente della Repubblica ex art.87; tale
norma prevede però che la ratifica sia sottoposta ad autorizzazione preventiva da parte delle Camere nei
casi indicati dall’art.80 Cost., ovvero: i trattati di natura politica e che comportano modificazioni di leggi, e
alcuni tipi di trattati identificati secondo il contenuto specifico (cioè quelli che comportano oneri alle
finanze o variazioni del territorio dello stato, o che prevedono l’instaurazione di procedure di regolamento
giudiziario). La legge di autorizzazione alla ratifica deve essere approvata con la procedura normale di
esame e non può essere sottoposta a referendum. Il potere di concludere accordi in forma semplificata
spetta invece al Governo; sono ammessi per tutte le materie diverse da quelle per le quali l’art.80 dispone
l’autorizzazione parlamentare. L’unico limite che viene posto al potere del Governo discende da un divieto
costituzionale implicito alla conclusione di trattati segreti, che però sembra scontrarsi con l’art.39.1
l.124/2007 il quale stabilisce il segreto di Stato su tutti gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra
cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi
internazionali.
Poteri delle regioni in relazione alla stipulazione di trattati  La modifica dell’art.117 Cost. a opera della
legge costituzionale n.3/2001 ha mutato profondamente l’ambito rispettivo di competenza dello Stato e
delle Regioni sia sul piano materiale, sia sul piano del potere di stipulare trattati internazionali. Fino ad
allora il potere di rappresentare lo Stato era concentrato nelle mani del Governo, e le Regioni potevano
concludere solo accordi o intese prive dello status di fonti di norme internazionali. Il nuovo art.117 ha
esplicitamente attribuito alle Regioni il potere di stipulare trattati nelle materie di loro competenza. La
norma distingue tra “intese con enti territoriali interni ad altro Stato” e “accordi con Stati”, e ha trovato

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nell’art.6 l.131/2003 la definizione delle proprie modalità di applicazione. Il primo comma attribuisce alle
regioni il potere di concludere intese volte a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale con enti
territoriali interni ad altro Stato, dandone comunicazione prima della firma alla Presidenza del consiglio e al
ministero degli affari esteri, che possono presentare osservazioni entro trenta giorni. In questa attività esse
non possono comunque esprimere valutazioni relative alla politica estera dello Stato, né possono assumere
obblighi dai quali derivino vincoli o oneri finanziari per lo Stato. Più limitati appaiono i poteri delle regioni in
relazione alla stipulazione di accordi con Stati, che il secondo comma dell’art.6 circoscrive agli accordi
esecutivi di accordi internazionali entrati in vigore, agli accordi di natura tecnico-amministrativa e a quelli di
natura programmatica finalizzati a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale nel rispetto della
Costituzione, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e dagli indirizzi di politica estera italiana
(corte cost.238/2004). La comunicazione preventiva riguarda in questo caso già la fase delle trattative, che
possono essere soggette a criteri dettati dal ministero degli affari esteri. La firma dell’accordo è soggetta
altresì all’attribuzione di pieni poteri da parte dello stesso ministero secondo la Convenzione di Vienna. La
responsabilità in caso di inadempimento da parte delle Regioni spetta allo Stato.
Mancato rispetto delle norme interne sulla competenza a stipulare  Qualora vengano violate le norme
costituzionali sulla competenza a stipulare, la Convenzione di Vienna prevede all’art.46 che uno Stato possa
far valere tale violazione come vizio del proprio consenso, e dunque motivo di invalidità del trattato. Si deve
trattare però di una violazione manifesta, cioè evidente per qualsiasi Stato che si comporti in buona fede, e
deve riguardare una norma di diritto interno di importanza fondamentale. Si tratta di una soluzione
internazionalistica, coerente con un principio generale secondo il quale uno Stato non può invocare il
proprio diritto interno per giustificare l’inadempimento di un obbligo internazionale; tale principio risulta
codificato all’art.27 della stessa Convenzione, che menziona come unica eccezione proprio l’art.46. Il
problema si pone nel nostro ordinamento soprattutto in relazione ai casi in cui il Governo stipuli in forma
semplificata dei trattati per i quali l’art.80 Cost. impone l’autorizzazione parlamentare. La prassi non è
univoca: in alcuni casi (ad es. nel Memorandum d’intesa per Trieste del 1954) il Governo ha presentato il
trattato al Parlamento in un momento successivo ottenendo l’autorizzazione alla ratifica; in altri casi invece,
relativi principalmente ad accordi di cooperazione in materia militare o volti alla concessione di basi
militari, il Governo non ha mai richiesto l’autorizzazione parlamentare, ma nondimeno tali accordi sono
stati rispettati dalle parti e non è mai sorta sul piano internazionale alcuna questione sulla loro validità.

L’interpretazione dei trattati


La Commissione del diritto internazionale ha individuato alcuni principi generali nei quali ha riconosciuto
vere e proprie regole vincolanti sull’interpretazione dei trattati, che sono state codificate agli art.31-33 della
Convenzione (metodo esegetico). Il primo elemento del procedimento interpretativo è costituito dalla
ricerca del significato letterale del testo in base all’art.31.1, secondo cui un trattato deve essere
interpretato in buona fede, secondo il significato naturale dei termini utilizzati nel loro contesto, alla luce
del suo oggetto e del suo scopo. Il significato naturale dei termini però deve essere determinato nel quadro
del contesto generale del trattato, che viene definito al par.2 come l’insieme del testo, compreso il
preambolo e gli allegati, oltre agli eventuali accordi relativi al trattato stipulati tra tutti gli Stati al momento
della conclusione.

Strumenti primari  In tale contesto, l’art.31.3 impone di tenere in considerazione ogni accordo ulteriore
intervenuto fra le parti in materia di interpretazione del trattato (lett. a), la prassi successiva che dimostri
l’accordo delle parti relativamente all’interpretazione delle sue disposizioni (lett. b) e ogni regola di diritto
internazionale applicabile nelle relazioni tra le parti (lett. c). Il primo caso riguarda l’ipotesi alquanto
frequente in cui gli Stati specifichino il significato o l’applicazione di un termine, mediante un accordo
concluso a questo fine e che obbliga gli Stati a non discostarsi dall’interpretazione così convenuta; quanto
alla prassi applicativa, si tratta di un elemento di accettazione del significato della norma applicata che
costituisce la manifestazione oggettiva del consenso degli Stati sul significato e la portata del trattato;
quanto infine alle regole di diritto internazionale applicabili alle parti, si tratta del consenso dei rapporti

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internazionali tra gli Stati contraenti in cui il trattato si inserisce ed è destinato ad operare: si farà
riferimento non solo al tessuto normativo del diritto generale al quale certamente ogni trattato si riferisce,
ma anche ai trattati in vigore tra le parti nella stessa materia o in materie affini. Ben più ampio è invece
l’effetto dell’art.31.4, che permette agli Stati di utilizzare un significato speciale per i termini del trattato,
che è destinato a prevalere sul significato oggettivo determinato sulla base dei commi precedenti: è
possibile infatti che le parti in quel contesto abbiano inteso attribuire a un termine un significato
particolare, che costituisce per loro il senso ordinario, in quanto lo ritengano più opportuno al fine della
regolamentazione pattuita.

Strumenti complementari  L’art.32 permette il ricorso ad altri strumenti esegetici quando si voglia
trovare conferma ulteriore del risultato al quale si è giunti sulla base della regola enunciata all’art.31, o
quando l’utilizzazione di questa non abbia eliminato i dubbi sul significato del testo che sia rimasto ambiguo
o oscuro oppure abbia condotto ad attribuirvi un significato assurdo o irragionevole. Tra i mezzi
complementari l’art.32 cita esplicitamente i lavori preparatori del trattato, cioè i negoziati in senso ampio
come documentati nei resoconti di seduta, e le circostanze della sua conclusione, ovvero le vicende
storiche che hanno portato alla conclusione del trattato. Ciò non esclude che possano essere utilizzati
strumenti diversi, come la prassi successiva unilaterale, che non rientra nell’art.31.3, o alcuni principi
esegetici generali che costituiscono regole tecniche del ragionamento interpretativo (in particolare
l’analogia). L’art.32 non prende però posizione sull’opponibilità dei lavori preparatori agli Stati aderenti al
trattato, che era stata esclusa da alcune decisioni internazionali; la soluzione dipenderà dunque dal caso
concreto e dall’accessibilità dei lavori preparatori per lo Stato in questione.

Interpretazione in più lingue  La Convenzione di Vienna si occupa poi dei trattati in più lingue, per i quali
dispone, come regola generale, che indipendentemente dalle versioni linguistiche in cui il testo è redatto e
autenticato, il principio di uguaglianza degli Stati comporta l’uguaglianza dei testi autentici. In mancanza di
tale volontà espressa, l’unità del trattato, che non può che contenere un’unica serie di espressioni e termini
sui quali si è formato il consenso, comporta che si debbano applicare gli art.31 e 32, sulla base della
presunzione che tutte le versioni abbiano lo stesso significato. Ove si concluda che le diverse versioni
linguistiche hanno significati diversi, l’art.33.4 impone che si dia la preferenza al significato che meglio
riconcilia i testi alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato: si tratta di individuare, sulla base della
natura del trattato e del contesto particolare in cui il termine viene utilizzato, il significato che rispetti
l’armonizzazione dei testi disposta dall’art.33 e che elimini ogni divergenza tra di essi.

Interpretazione dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali  La flessibilità del metodo codificato
nella Convenzione di Vienna risulta evidente ove si tratti di interpretare i trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali, nei quali l’aspetto teleologico risulta prevalente nella prospettiva della vita e dello sviluppo
dell’attività di tali enti. Il richiamo alle regole contenute nella Convenzione di Vienna non ha impedito la
piena utilizzazione a tali trattati della teoria dei poteri impliciti, in quanto applicazione particolare del
principio di effettività. Questa teoria è stata utilizzata dalla Corte internazionale di giustizia per giustificare
l’esercizio di competenze non previste esplicitamente dalla Carta delle Nazioni unite, affermando in sintesi
che gli Stati membri, attribuendo determinate funzioni all’organizzazione con i relativi obblighi e
responsabilità, vi hanno aggiunto i poteri necessari per adempiere a tali funzioni, dunque si deve ritenere
che quei poteri le siano stati conferiti necessariamente in modo implicito in quanto essenziali per
l’adempimento dei suoi obblighi. Nell’ambito dell’UE, la teoria dei poteri impliciti è stata poi utilizzata dalla
Corte di giustizia già nel quadro del Trattato CECA per fondare la competenza a concludere accordi
internazionali.

Le riserve ai Trattati
L’aumento del numero degli Stati e la volontà di ottenere la più ampia partecipazione possibile a un trattato
hanno comportato un uso maggiore delle riserve, che consistono in dichiarazioni unilaterali depositate
dallo Stato al momento della firma o della manifestazione del consenso, che escludono o modificano

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l’effetto di determinate disposizioni del trattato con riferimento a tale Stato. Le riserve intervengono solo
nei trattati multilaterali (poiché in quelli bilaterali la proposta di uno Stato di limitare nei propri confronti
l’applicazione di una disposizione costituirebbe in realtà una proposta di modifica che la controparte
potrebbe accettare o rifiutare). La Convenzione di Vienna ha adottato agli art.19-23 alcune regole, ritenute
da molti di diritto progressivo, che riprendono in gran parte il parere dato dalla CIG nel 1951 sulle riserve
apposte alla Convenzione sul crimine di genocidio. La Convenzione permette infatti a uno Stato di
formulare una riserva, salvo che il trattato in questione la vieti o preveda solo certe riserve e quella
proposta non rientri tra queste, oppure se la riserva sia incompatibile con il suo oggetto e il suo scopo
(art.19). L’art.20 richiede che la riserva venga accettata, in assenza di obiezioni entro dodici mesi, da tutte
le altre parti. L’effetto della riserva è dunque di limitare o modificare la portata del trattato nei rapporti
reciproci tra lo Stato autore della riserva e gli Stati che la accettano, mentre non ha alcun effetto nei
rapporti tra questi ultimi tra loro (per essi il trattato varrà nella sua interezza).
La disciplina delle riserve è parsa però imprecisa e lacunosa, tanto che la Commissione del diritto
internazionale ha ripreso i lavori in materia a partire dal 1994, producendo sedici rapporti e un progetto di
linee guida. I punti più controversi riguardano la distinzione tra riserve e dichiarazioni interpretative, e il
regime delle riserve nei trattati in materia di diritti umani. Gli Stati tendono a presentare dichiarazioni
interpretative soprattutto quando il trattato esclude qualsiasi riserva o una riserva del tipo proposto. Al fine
di determinare la natura giuridica della dichiarazione, si deve guardare al di là della denominazione, e
cercare di determinarne il contenuto sostanziale. La prassi relativa ai trattati sulla protezione dei diritti
umani, invece, contiene numerose affermazioni sull’inapplicabilità delle regole contenute nella
Convenzione di Vienna a questi trattati. Particolare importanza in proposito rivestono i commenti
presentati nel 1994 dal Comitato sui diritti civili e politici; il Comitato, ritenendo che l’art.19.3 della
Convenzione riflettesse il diritto generale in materia, affermò che, sebbene i trattati permettano agli Stati di
derogare inter se all’applicazione di norme di diritto internazionale generale, è diversa la situazione dei
trattati in materia di diritti umani, che sono stipulati a beneficio di soggetti all’interno della loro
giurisdizione: tali trattati, di conseguenza, non possono essere oggetto di riserve.

Le cause di invalidità dei trattati


Nel diritto internazionale, costituiscono cause di invalidità dei trattati alcune circostanze che attengono alla
manifestazione del consenso dello Stato o che intervengono al momento della conclusione e rendono nullo
il trattato ex tunc. Le cause di invalidità possono essere invocate solo con riguardo al trattato nel suo
complesso salva diversa pattuizione: in questo caso esse investiranno solo quelle clausole del trattato
purché: siano separabili dal resto, non abbiano costituito per le altre parti una base essenziale del loro
consenso, e non sia ingiusto continuare ad applicare il resto del trattato (questa possibilità è esclusa per i
trattati viziati da violenza e da contrasto per norme di ius cogens). Qualora siano stati compiuti atti in
applicazione di un trattato nullo, ogni parte può chiedere che sia ristabilita la situazione che si sarebbe
avuta se tali atti non fossero stati compiuti; gli atti compiuti in buona fede in esecuzione di un trattato nullo
non sono considerati illeciti per questo solo motivo. Accanto alla violazione delle norme interne sulla
competenza a stipulare, la Convenzione di Vienna prevede: la violazione da parte del rappresentante dei
poteri a lui conferiti (art.47), l’errore (art.48), il dolo (art.49), la corruzione del rappresentante (art.50), la
violenza sul rappresentante o sullo Stato (art.51-52), la contrarietà a norme di ius cogens (art.53). Alcune
di queste disposizioni costituiscono la codificazione di norme preesistenti, mentre altre sono state proposte
per la prima volta nel corso dei lavori della conferenza.
 Qualora un atto relativo alla conclusione di un trattato sia compiuto da un soggetto non autorizzato a tal
fine, l’atto non ha effetto salvo che sia successivamente confermato dallo Stato. L’art.47 della
convenzione concerne, invece, la diversa ipotesi del rappresentante che manifesti il consenso dello
Stato al di fuori dei pieni poteri ricevuti, cioè senza tener conto di restrizioni specifiche e relative proprio
al consenso. In linea di principio, tali restrizioni possono essere opposte agli altri Stati contraenti solo se
sono state loro notificate prima che il consenso viziato sia stato espresso; in caso contrario, il consenso

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dello Stato dovrà ritenersi validamente prestato. Si tratta dunque di un’ipotesi che può verificarsi
esclusivamente in relazione ad accordi in forma semplificata, dato che gli accordi in forma solenne sono
tutelati in tal senso.
 Secondo l’art.48, uno Stato può invocare l’errore quale vizio del proprio consenso, solo se si tratti di un
errore relativo a un fatto o a una situazione che lo Stato stesso riteneva esistente al momento della
conclusione del trattato, e che costituiva una base essenziale del consenso. Si tratta di una disposizione
applicata raramente: nella maggior parte dei casi che si sono verificati, l’errore ha riguardato la
predisposizione di mappe e cartine geografiche. La disposizione codifica poi una norma pacifica di diritto
generale, secondo la quale uno Stato non può invocare l’errore quale vizio del proprio consenso se la
parte che lo invoca ha contribuito con il proprio comportamento all’errore o avrebbe potuto evitarlo, o se
le circostanze erano tali che lo Stato avrebbe dovuto rendersi conto della possibilità di un errore.
 Anche il dolo non è frequente, tanto che la Commissione del DI non ha ritenuto di doverlo definire in
modo dettagliato, ma ha lasciato alla prassi il compito di precisarne lo scopo e l’ambito di applicazione.
Quanto alla corruzione del rappresentante, essa riguarda il caso di atti volti in modo specifico a
esercitare un’influenza sostanziale sulla manifestazione del consenso del rappresentante che altrimenti
non l’avrebbe prestato, o non in quei termini (non rientrano in questa ipotesi però cortesie e favori
minori).
 Gli art.51 e 52 riguardano due diverse ipotesi di violenza, rivolta nel primo caso contro il rappresentante
dello Stato e nel secondo caso contro lo Stato. I casi di violenza contro il rappresentante attraverso atti o
minacce rivolti direttamente contro di lui sono piuttosto rari: si ricorda il caso del trattato del 1939 tra
Germania e Cecoslovacchia che stabiliva un protettorato tedesco in Boemia e Moravia, dove, alla
violenza diretta contro il rappresentante cecoslovacco, al quale fu messa a forza la penna in mano,
seguirono minacce di bombardamenti contro la città di Praga. In caso di violenza contro lo Stato (che
inizialmente non era considerata causa di invalidità), l’invalidità del trattato non dipende dal fatto che lo
Stato vittima della violenza invochi il vizio del proprio consenso, sì che la Commissione del DI ha ritenuto
di dover parlare qui di nullità anziché di invalidità del trattato; una volta infatti terminata la violenza, lo
Stato potrà valutare se concludere un nuovo accordo con il medesimo contenuto. Non è discussa invece
la validità dei trattati di pace, che talvolta sono conclusi dallo Stato sconfitto ancora sotto la pressione
dell’uso della forza bellica da parte dei vincitori.
 L’art.53 pone infine una causa di invalidità che riguarda il contenuto del trattato. Essa sancisce un limite
alla libertà degli Stati, che non possono stipulare trattati che contrastino con norme inderogabili di diritto
internazionale generale, cioè con le norme di ius cogens. Quando si applica questa norma, le parti
devono eliminare le conseguenze di qualsiasi atto compiuto sulla base di una disposizione contraria a
una norma di ius cogens e rendere conformi a essa i reciproci rapporti.

Le cause di estinzione e di sospensione dei trattati


A differenza delle cause di invalidità, le cause di estinzione e di sospensione dei trattati operano ex nunc, in
un momento successivo alla stipulazione, al verificarsi di una situazione o di una circostanza che impedisce
che un trattato valido continui a produrre i suoi effetti tra tutte le Parti contraenti o solo per alcune di esse.
Questo può avvenire per una manifestazione espressa di volontà degli Stati volta a porre termine o a
sospendere il trattato (art.54-59), per effetto dell’inadempimento di una o più parti (art.60),
dell’impossibilità sopravvenuta (art.61), del mutamento fondamentale delle circostanze (art.62) o della
sopravvenienza di una nuova norma di ius cogens (art.64). L’estinzione o la sospensione sono regolate in
via esclusiva dalla volontà espressa delle parti del trattato o, in sua assenza, da queste disposizioni. Uno
Stato non può comunque far valere le cause di estinzione o sospensione quando abbia esplicitamente
accettato di mantenere in vigore il trattato o si debba desumere dal suo comportamento che abbia prestato
acquiescenza alla continuazione della sua applicazione.
 Qualora un trattato contenga disposizioni specifiche relative all’estinzione, alla denuncia o al recesso
degli Stati partecipanti, dovrà essere seguita tale procedura; in mancanza, sarà necessario il consenso di

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tutte le parti e la consultazione con gli altri Stati contraenti. Nel silenzio del trattato invece si ritiene che
questi non siano possibili, salvo che risulti che le parti intendevano ammetterli oppure che il diritto di
denuncia o recesso possa essere dedotto dalla natura del trattato. Secondo il Comitato delle Nazioni
unite, il Patto sui diritti civili e politici del 1996 non può essere estinto né denunciato dalle parti perché
non ha carattere temporaneo, ma anzi, una volta che alle popolazioni sia accordata la tutela dei diritti
garantiti dal Patto, tale tutela si trasferisce con il territorio e continua ad appartenere a esse,
indipendentemente dal mutamento del governo dello Stato. Inoltre, mente la denuncia o il recesso non
comportano di per sé l’estinzione del trattato, un trattato può estinguersi per la stipulazione da parte di
tutti gli Stati contraenti di un nuovo trattato sulla stessa materia qualora risulti implicitamente che tale
fosse la loro volontà o qualora sia impossibile applicare contemporaneamente le disposizioni dei due
trattati perché tra loro incompatibili.
 Il principio generale inadimplenti non est adimplendum, secondo il quale la violazione di una norma
contenuta in un trattato da parte di uno Stato legittima gli altri contraenti a porre termine al trattato o a
sospendere l’adempimento dei propri obblighi nei confronti del primo, vi è divergenza quanto alle
condizioni alle quali tali reazioni sono sottoposte. La Convenzione di Vienna esclude qualsiasi effetto
automatico dell’inadempimento e prevede l’estinzione del trattato solo in caso di violazione di norme
importanti del trattato stesso. Per poter rilevare, la violazione deve consistere nel ripudio pretestuoso
del trattato in quanto non autorizzato dalla Convenzione; violazioni minori non portano all’estinzione,
ma comportano la responsabilità internazionale dello Stato e legittimano eventualmente l’adozione di
misure di ritorsione o rappresaglia. L’art.60.5 esclude che questa regola possa applicarsi alle disposizioni
contenute in trattati sulla protezione della persona umana e, in particolare, alle disposizioni che vietano
qualsiasi rappresaglia contro le persone ivi protette (es. la Convenzione di Ginevra del 1949, le
Convenzioni sui rifugiati, sul genocidio ecc.).
 La Convenzione di Vienna prevede poi la possibilità di chiedere l’estinzione del trattato quando la
scomparsa o la distruzione di un oggetto indispensabile all’esecuzione del trattato l’abbiano resa
impossibile (si tratta di una regola consuetudinaria, applicata per esempio in caso di inabissamento di
un’isola). Questa situazione non deve però derivare dalla violazione, da parte dello Stato che la invoca, di
un obbligo derivante dal trattato o di un altro obbligo internazionale. Se l’impossibilità è solo
temporanea, si può giustificare la richiesta di sospensione dell’applicazione del trattato.
 L’art.62, che codifica il principio di diritto generale rebus sic stantibus, considera quale causa di
estinzione o sospensione di un trattato il mutamento fondamentale delle circostanze, purché queste
abbiano costituito la base essenziale del consenso delle parti a vincolarsi al trattato. Tuttavia, uno Stato
non può invocare il mutamento fondamentale delle circostanze se esso deriva dalla violazione di un
obbligo derivante dal trattato o di qualsiasi altro obbligo internazionale a opera dello stesso Stato. Si
ritiene che la guerra abbia l’effetto di sospendere gli accordi in vigore tra gli Stati belligeranti, almeno
fino al termine delle ostilità; la prassi è invece incerta sull’estinzione di tali trattati alla fine della guerra,
che era stata affermata in passato, ma che conosce ora molte eccezioni.
 La Convenzione di Vienna prevede infine all’art.64 che lo sviluppo di una nuova norma di ius cogens
costituisca una causa di estinzione del trattato, parallelamente a quanto si è visto in relazione
all’esistenza di una tale norma quale motivo di invalidità di un trattato.

Procedura per far valere una causa di invalidità  La Convenzione istituisce anche una procedura
alquanto complessa per far valere una causa di invalidità, estinzione o sospensione, agli art.65-67. Secondo
la Corte di giustizia dell’Unione europea non si tratta di norme di codificazione, mentre per la Corte
internazionale di giustizia essa quantomeno riflettono il diritto internazionale consuetudinario. Secondo la
Convenzione, la parte che intenda far valere una causa di invalidità, estinzione o sospensione deve
notificare la sua pretesa per iscritto alle altre parti. In mancanza di obiezioni entro un periodo di almeno tre
mesi, lo Stato può adottare la misura in questione. Qualora invece vengano sollevate obiezioni, le parti
devono cercare una soluzione della controversia secondo l’art.33 della Carta delle N.U. o attraverso altri

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strumenti applicabili nelle relazioni reciproche. Se non sia stata raggiunta una soluzione entro dodici mesi,
la Convenzione distingue le controversie concernenti l’invalidità o l’estinzione per contrasto con norme di
ius cogens dalle altre: le prime possono essere sottoposte ad arbitrato con l’accordo di tutte le parti o alla
corte internazionale di giustizia con ricorso unilaterale, e le decisioni avranno effetto vincolante per le parti;
le altre sono sottoposte a una procedura di conciliazione obbligatoria, che si attiva su domanda al segretario
generale delle Nazioni Unite e si conclude con un rapporto non vincolante.

La successione degli Stati nei trattati


La Convenzione di Vienna nel 1969 esclude di occuparsi delle questioni che si possono porre in relazione a
un trattato in seguito a una successione di Stati. A esse è dedicata un’apposita Convenzione, conclusa a
Vienna nel 1978 ed entrata in vigore quasi vent’anni più tardi tra un numero molto ristretto di Stati (tra i
quali non figura l’Italia), che contiene disposizioni molto complesse e dettagliate che non sembrano
completamente conformi alla prassi internazionale. Generalmente le questioni che sorgono nei casi di
successione tra Stati vengono regolate mediante accordi, tanto che alcuni ritengono non possa addirittura
parlarsi di norme generali in materia. La prassi internazionale sembra però dimostrare l’esistenza di due
diversi principi. In primo luogo viene in considerazione la regola della tabula rasa, secondo la quale lo Stato
successore è libero da qualsiasi vincolo derivante da trattati stipulati dallo Stato predecessore in relazione
al suo territorio, salvo che non dichiari di volerli mantenere in vigore. La regola della tabula rasa è stata
prevista dalla Convenzione di Vienna del 1978 solo per gli Stati di nuova dipendenza, mentre gli altri casi di
successione sono sottoposti al principio di continuità, con una serie di disposizioni che vengono ritenute di
sviluppo progressivo. In secondo luogo, in caso di distacco e di incorporazione, si applica solitamente la
regola della mobilità delle frontiere dei trattati, secondo la quale gli accordi in vigore per lo Stato
incorporante si applicano all’interno dei nuovi e più ampi confini, mentre per lo Stato che vede ridursi il
proprio territorio si restringerà in modo corrispondente anche l’ambito di applicazione dei trattati ai quali è
parte. Fanno eccezione a queste regole i trattati c.d. localizzabili, che istituiscono regimi territoriali specifici
concernenti l’uso di territori considerati connessi con i territori in questione, che continuano a vincolare lo
Stato che succede nell’esercizio della sovranità su quel dato territorio. Questo principio prevede come
unica eccezione gli accordi di concessione di basi militari e i trattati di natura prevalentemente politica,
poiché la successione può costituire un mutamento fondamentale delle circostanze che hanno motivato il
consenso degli Stati originari. Una seconda eccezione, in via di formazione, riguarda i trattati in materia di
diritti dell’uomo, dei quali si richiede il rispetto da parte dello Stato successore indipendentemente dagli
eventi che hanno portato all’avvicendamento nella sovranità del territorio.

L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO AL DIRITTO


INTERNAZIONALE E AL DIRITTO DELL’UNIONE
MONISMO/DUALISMO E PRINCIPIO DELL’INDIFFERENZA
Con la locuzione “adattamento del diritto italiano al diritto internazionale” si allude alle diverse tecniche
impiegate nell’ordinamento italiano allo scopo di legittimare e garantire l’operatività di norme esterne di
derivazione internazionale. Tale accezione presuppone la separazione tra diritto internazionale e diritto
interno e, pertanto, una logica dualista nella ricostruzione dei rapporti intercorrenti tra essi. Secondo la tesi
dualista (o pluralista), che deve la propria iniziale elaborazione a Heinrich Triepel, il diritto interno e il
diritto internazionale costituiscono due ordinamenti giuridici originali ed autonomi, separati e distinti.
Secondo la concezione monista, invece, il diritto interno e il diritto internazionale vanno riportati ad un
sistema normativo unitario, con esclusione di ogni reciproca indipendenza. Muovendo da tale condivisa
premessa, sono state tuttavia sviluppate due diverse formulazioni della teoria in questione: da un lato la
variante internazionalistica, sostenuta da Hans Kelsen e dalla Scuola di Vienna, per la quale il principio
unitario si rintraccia nella norma fondamentale di diritto internazionale che sancisce l’obbligatorietà degli
accordi e delle consuetudini internazionali, dall’altra quella statalista, incentrata sul principio della

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sovranità dello Stato, per la quale il diritto internazionale è invece parte del diritto statale. All’impostazione
monista viene per lo più associata l’idea del primato del diritto internazionale rispetto al diritto interno; si
tratta però di una generalizzazione priva di fondamento, in quanto tale ricostruzione è in astratto
compatibile anche con la posizione opposta al principio del primato del diritto nazionale, considerando il
diritto internazionale alla stregua di un ordinamento giuridico delegato dall’ordinamento statale.
La giurisprudenza italiana ha tradizionalmente aderito all’impostazione dualista, in linea rispetto alla
giurisprudenza internazionale maturata. In particolare, è stata postulata l’irrilevanza del diritto
internazionale per il diritto interno finché non intervenga l’adattamento, cioè l’adozione della norma
interna necessaria all’adempimento degli obblighi che fanno carico all’Italia in virtù del diritto
internazionale. L’adattamento è stato così inteso dalla giurisprudenza quale condizione necessaria a
rendere efficace e applicabile la norma esterna di derivazione internazionale all’interno dell’ordinamento
italiano, e a giustificarne al contempo l’operatività in tale ambito.

ART.117 COST. E SUPERAMENTO PARZIALE DEL PRINCIPIO DELL’INDIFFERENZA


La nostra Costituzione prevede, all’art.10 primo comma, una norma generale di adattamento unicamente
con riguardo alle norme di diritto consuetudinario. Queste, salvo ne venga ravvisato il contrasto con i
principi fondamentali della Costituzione, vengono recepite in modo permanente all’interno
dell’ordinamento italiano ove assumono il medesimo rango costituzionale della norma che ha proceduto
all’adattamento. Un’analoga disposizione non è invece prevista con riferimento ai trattati internazionali. A
seguito della riforma operata dalla legge cost. n.3/2001, può venire in rilievo in tal senso l’art.117 Cost.
Tale norma prescrive al legislatore il rispetto, oltre che della Costituzione, dei vincoli derivanti dagli obblighi
internazionali. Essa comunque non si presta ad essere considerata alla stregua di una norma di
adattamento automatico dei trattati: come ha precisato la Corte, infatti, la “copertura costituzionale”
offerta ai trattati a seguito della riforma del 2001 non permette di attribuire rango costituzionale alle norme
contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento. I trattati internazionali
che costituiscono fonte di obblighi internazionali, ai sensi dell’art.117 Cost., devono soddisfare due
condizioni: che il trattato sia in vigore sul piano internazionale, e che il medesimo trattato sia vincolante per
l’Italia. Un profilo problematico attiene però alla possibilità di individuare una condizione ulteriore: ci si
chiede infatti se costituiscano oggetto del rinvio agli obblighi internazionali, tutti i trattati internazionali in
vigore per l’Italia, o soltanto quelli che abbiano ricevuto attuazione nell’ordinamento interno (i c.d. pacta
recepta). La prima tesi, definita massimalista, include tra gli obblighi internazionali, di cui al primo comma
dell’art.117 Cost., tutti i trattati, compresi gli accordi conclusi in forma semplificata, a prescindere dal loro
recepimento; si tratta tuttavia di un’interpretazione eccessiva, in quanto non sembra accordarsi con l’art.80
Cost. Quest’ultima disposizione, infatti, prescrivendo l’adozione della legge di autorizzazione alla ratifica dei
trattati, fa apparire a fortiori necessario il passaggio parlamentare affinché un trattato internazionale sia
idoneo a produrre vincoli per il legislatore futuro. La seconda tesi è dunque preferibile. Per quanto riguarda
gli accordi riconducibili al primo comma dell’art.117 Cost., è comunque ragionevole desumere non solo
l’obbligo negativo di non legiferare in contrasto con gli accordi internazionali, ma anche quello positivo di
dare attuazione ai trattati internazionali e di rimuovere tutti gli ostacoli ad una loro compiuta esecuzione.

L’obbligo di risultato posto dalle norme internazionali  L’individuazione delle tecniche di attuazione, da
parte degli Stati, degli obblighi a loro carico in virtù del diritto internazionale è di regola rimessa alla loro
libera determinazione: è raro infatti che vengano imposte espressamente a questi ultimi le modalità
attraverso le quali operare le modifiche dei rispettivi ordinamenti interni. Normalmente il diritto
internazionale si limita a richiede ai suoi destinatari che venga conseguito un determinato risultato, di cui la
norma internazionale è espressione. Da un lato, dunque, gli Stati godono di un ampio margine di scelta;
dall’altro sono tuttavia esposti a responsabilità sul piano internazionale qualora, pur avendo formalmente
adempiuto gli obblighi loro facenti carico adeguando la normativa interna a quella prevista dalla
convenzione, consentano, o quantomeno tollerino violazioni significative e sistematiche degli obblighi

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assunti (ad esempio permettendo il consolidarsi di una prassi giurisprudenziale interna totalmente
contraddittoria rispetto a quella formatasi negli altri Stati contraenti). Un esempio di ciò è dato dalla
sentenza Germania c. Italia, con la quale la Corte ha affermato l’illiceità dell’orientamento giurisprudenziale
italiano tendente a negare alla Germania l’immunità dalla giurisdizione per i crimini internazionali
commessi durante la 2a Guerra Mondiale.

L’obbligo di garantire interpretazione ed applicazione uniformi  Al fine di un puntuale adempimento


degli obblighi, la giurisprudenza ha inoltre sottolineato il vincolo specifico, per gli Stati, a fornire
un’interpretazione della disciplina di origine internazionale in virtù dei criteri propri dell’ordinamento
nell’ambito del quale essa si è formata. Un’interpretazione strettamente letterale mal si concilia infatti con
le convenzioni internazionali improntate ad una tecnica legislativa meno rigorosa di quella propria delle
norme interne, sia perché riflettono le esigenze di ordinamenti ed istituti diversi, sia perché spesso frutto di
patteggiamenti e compromessi. La Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, in particolare agli
art.31-33, codifica sul punto apposite norme di diritto internazionale generale.

PROCEDIMENTO ORDINARIO E PROCEDIMENTO SPECIALE DI ADATTAMENTO


Nel nostro ordinamento, l’adattamento del diritto italiano al diritto internazionale viene operato mediante
due diverse tecniche: il procedimento ordinario, che consiste nel riprodurre le norme internazionali
riformulandole nell’ordinamento nazionale mediante norme interne ad hoc, e il procedimento speciale,
che consiste invece nel disporre un rinvio a norme internazionali, ordinando la loro osservanza. Quando si
ricorre al procedimento speciale, il legislatore dispone un rinvio formale e mobile nei confronti delle norme
internazionali di cui si vuole garantire l’applicazione in ambito interno; conseguentemente le norme che ne
costituiscono l’oggetto preservano la loro matrice internazionale. Quando invece si procede
all’adattamento mediante il procedimento ordinario, la norma internazionale oggetto di recepimento viene
nazionalizzata, recidendo ogni suo collegamento con l’ordinamento internazionale. Tale norma viene infatti
materialmente incorporata nell’ordinamento nazionale ed è quindi omologata alle norme del legislatore
italiano.
Quando le norme internazionali non sono self-executing, non dettano cioè una disciplina del tutto
completa ed autosufficiente, e sono prive quindi della compiutezza normativa necessaria affinché sia
possibile una loro applicazione immediata, l’impiego del procedimento speciale appare insufficiente a
garantire la loro puntuale attuazione; si pone dunque la necessità della formulazione, da parte del
legislatore interno, di norme materiali interne ad hoc che rendano possibile la loro piena operatività
(procedimento ordinario). In mancanza di norme interne a contenuto integrativo, rispetto alle norme non
self-executing contenute in una convenzione internazionale, l’ordine di esecuzione ha la funzione di attuare
un principio di adattamento per il quale le norme stesse pervengono a spiegare nell’ordinamento statale
effetti assimilabili a quelli spiegati da norme di principio o di organizzazione. Alle norme non
immediatamente applicative non deve comunque essere disconosciuto ogni effetto a livello interno: esse
sono infatti destinate a svolgere, quanto meno, una funzione orientativa dell’interpretazione del diritto
esistente.

1 - ADATTAMENTO DEL DIRITTO ITALIANO AL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE: ART.10 COST.


L’art.10 primo comma Cost. costituisce l’unica norma di adattamento di portata generale prevista nel
nostro ordinamento (la medesima funzione non è ascrivile all’art.117 Cost., che in riferimento ai trattati
appresta una “copertura costituzionale”). Esso dispone che l’ordinamento giuridico italiano si debba
conformare alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Si tratta di una norma con
funzione di rinvio mobile o formale, la cui operatività produce l’effetto di realizzare l’adattamento
automatico e permanente dell’ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generale, vale a
dire alle regole consuetudinarie e ai principi generali riconosciuti come vincolanti dall’intera comunità
internazionale.

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Non ha avuto seguito in giurisprudenza, salvo qualche caso isolato, la tesi in base alla quale il trasformatore
permanente previsto dall’art.10 primo comma Cost. funzionerebbe come norma di adattamento anche in
relazione ai trattati: l’orientamento consolidato nel nostro ordinamento è nel senso infatti di escludere che
l’art.10 Cost. possa essere invocato per giustificare l’operatività della disciplina prevista dai trattati
internazionali di cui l’Italia è parte (il significato testuale dell’art.10 non ne giustifica infatti l’impiego).

2 - ADATTAMENTO DEL DIRITTO ITALIANO AL DIRITTO INTERNAZIONALE PATTIZIO (= TRATTATI)


Al fine dell’adattamento del diritto italiano alla disciplina prevista dai trattati, si utilizza la tecnica
dell’adattamento in via speciale, fondata sull’ordine di esecuzione. Essa presenta elementi di analogia con
la tecnica impiegata dall’art.10 primo comma Cost., pur differenziandosene per un aspetto essenziale:
mentre il rinvio operato da quest’ultima ha carattere generale, quello compiuto dal legislatore interno per il
tramite dell’ordine di esecuzione si riferisce solo al singolo trattato. Con riguardo ai trattati per la cui
ratifica, ex art.80 Cost., è richiesta una previa autorizzazione, l’ordine di esecuzione è normalmente
contestuale a tale autorizzazione. Rientrano nell’ambito di applicazione di tale disposizione: i trattati
internazionali che sono di natura politica, quelli che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o
importano variazioni del territorio, oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Nei casi non contemplati
dall’art.80 Cost. invece la scelta dello strumento interno con il quale formulare l’ordine di esecuzione
dipende dal livello al quale, se necessarie, vanno apportate le modifiche all’ordinamento interno.

Rango della norma interna risultante dall’adattamento  A proposito del valore delle norme risultanti
dall’adattamento del diritto interno al diritto internazionale, si è da tempo affermato a livello
giurisprudenziale un principio di carattere generale. Esso attiene al rango che le norme di adattamento
assumono nell’ambito della gerarchia delle fonti interne: tale rango coincide con quello dello strumento
normativo con il quale si è provveduto ad immettere nell’ordinamento interno la disciplina
internazionale: ad esempio, le norme internazionali generalmente riconosciute, una volta trasposte
nell’ordinamento interno per il tramite dell’art.10 Cost., assumono rango costituzionale. Tale principio è
destinato ad operare non solo con riferimento alle norme consuetudinarie, cui il nostro ordinamento si
adegua per il tramite dell’art.10 Cost., ma anche con riguardo a quelle previste in accordi internazionali, il
cui adattamento avviene, per ogni singolo trattato, con un atto ad hoc consistente nell’ordine di esecuzione
adottato con legge ordinaria. Conseguentemente anche le norme di derivazione pattizia possono assumere
una rilevanza costituzionale, laddove l’adattamento venga operato per il tramite di una legge
costituzionale. Dopo la riforma del 2001, infatti, alle disposizioni previste in trattati internazionali vincolanti
per l’Italia viene riconosciuta la funzione di norme interposte nel giudizio di costituzionalità, in quanto
dirette a rendere concretamente operativo il parametro costituito dall’art.117 Cost. (Corte cost. sentenze
gemelle).
3 - ADATTAMENTO DEL DIRITTO ITALIANO AL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
Per quanto riguarda l’adattamento al diritto dell’Unione europea, al fine di garantire il primato del diritto
comunitario, si è progressivamente affermata una soluzione analoga a quella già consolidata con riguardo
al diritto internazionale generale, ossia quella fondata sull’idoneità delle fonti UE ad incidere sulle norme
costituzionali interne, con il solo controlimite dei principi supremi dell’ordinamento. Le fonti previste dai
trattati istitutivi vengono sinteticamente indicate come diritto derivato. In linea di principio, l’ordine di
esecuzione formulato dalla legge ordinaria con la quale si è proceduto all’adeguamento del diritto italiano
ai trattati è idoneo a garantire anche l’adattamento alle fonti di diritto derivato dell’UE previste dai Trattati,
vale a dire regolamenti, direttive e decisioni. I regolamenti non richiedono integrazioni quanto al loro
contenuto precettivo; ciò implica dunque la loro efficacia diretta. Nel caso delle altre due fonti, direttive e
decisioni, la regola è invece il recepimento. In tale prospettiva, a partire dalla legge La Pergola, sono state
elaborate delle modalità di trasmissione degli atti non direttamente applicabili adottati dall’Unione: la
disciplina più recente, che ha sostituito la c.d. legge Buttiglione, è stata formulata con la legge 234/2012,

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che contempla due distinti strumenti normativi: la legge di delegazione europea da un lato, e la legge
europea dall’altro.

4 - ADATTAMENTO DEL DIRITTO ITALIANO ALLE FONTI C.D. DI TERZO GRADO


Con riguardo invece all’adattamento agli atti adottati da organizzazioni internazionali ed enti diversi
dall’Unione europea, si ripropone l’alternativa tra procedimento ordinario e speciale di adattamento. La
peculiarità riscontrabile con riferimento alle fonti c.d. di terzo grado consiste nel pressoché unanime
orientamento della prassi a condizionare la loro efficacia nell’ordinamento interno all’adozione di norme ad
hoc, da parte del legislatore italiano, volte al recepimento diretto e materiale della disciplina in esse
contenuta (procedimento ordinario). Parte della dottrina critica però tale orientamento e sostiene che sia
sufficiente l’ordine di esecuzione: la semplice volontà espressa del legislatore ad autorizzare la ratifica e
ordinare l’esecuzione di un trattato, produce infatti l’effetto di rendere operative e vincolanti
nell’ordinamento statale tutte le disposizioni contenute nel trattato, comprese quelle che istituiscono fonti
di terzo grado.

IL RUOLO DELLE REGIONI…

…NELL’ADATTAMENTO AI TRATTATI
L’art.117 Cost., a seguito delle modifiche introdotte dalla legge cost. n.3/2001, contiene diverse disposizioni
rilevanti a proposito delle competenze riconosciute in capo alle Regioni, nonché alle Province autonome, in
materia di rapporti internazionali: tra queste, in particolare, il quinto comma dell’art.117 Cost., in base al
quale: le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, provvedono
all’attuazione e all’esecuzione di accordi internazionali, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da
legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
L’articolo si limita a formalizzare a livello costituzionale la prassi già esistente che assegnava un ruolo attivo
alle regioni in sede di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali (esso comunque non pone in
discussione il principio, da sempre affermato, secondo il quale va esclusa la soggettività internazionale degli
enti sub-statali, per difetto dei requisiti prescritti). Il quinto comma dell’art.117 demanda allo Stato il
compito di stabilire le norme di procedura che le Regioni debbono rispettare nel provvedere all’attuazione
e all’esecuzione degli accordi internazionali. A questo proposito, rileva innanzitutto l’art.6 primo comma
l.131/2003, secondo cui le Regioni e Province autonome, nelle materie di propria competenza legislativa,
provvedono direttamente all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali ratificati, dandone
preventiva comunicazione al Ministero degli affari esteri e alla Presidenza del Consiglio dei ministri, i quali,
nei successivi trenta giorni, possono formulare criteri e osservazioni. Alla luce di tale disposizione, che
impiega l’avverbio “direttamente” per definire la misura del coinvolgimento degli enti sub-statali nella fase
discendente, il quinto comma dell’art.117 Cost. assumerebbe un significato fortemente innovativo se
interpretato come abilitante le Regioni e le Province autonome a dare esecuzione agli accordi internazionali
indipendentemente da un previo atto statale di immissione. L’opinione prevalente sembra però ribadire
l’assunto tradizionale circa la necessità di un previo recepimento statale; d’altro canto, il primo comma
dell’art.6 opera una limitazione del proprio campo applicativo, forse non del tutto conforme al quinto
comma dell’art.117 Cost., circoscrivendo tale ambito ai soli accordi internazionali ratificati (in tal modo la
disposizione esclude l’attuazione da parte delle Regioni di qualsiasi accordo stipulato in forma semplificata).

…NELL’ADATTAMENTO AL DIRITTO DELL’UNIONE


Un quadro normativo in certa misura analogo a quello descritto in relazione al diritto internazionale
disciplina la partecipazione delle Regioni e delle Province autonome alla fase discendente del diritto
dell’Unione europea, anch’essa prevista dall’art.117 quinto comma Cost. La legge 234/2012 assegna a tali
enti una potestà diretta ed esclusiva nelle materie di competenza regionale mentre, per quelle di
competenza concorrente, i principi generali regolatori vengono definiti annualmente nell’ambito della

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legge di delegazione europea. Alla concreta individuazione delle direttive riservate all’attuazione regionale
presiede un’apposita deliberazione della Conferenza Stato-Regioni.

CONTRASTO TRA NORME INTERNE E NORME DI ADATTAMENTO AL DIRITTO INTERNAZIONALE

1 – Norme interne e norme di adattamento al diritto consuetudinario


La giurisprudenza si è dovuta misurare frequentemente con il problema dei rapporti tra le norme risultanti
dall’adattamento al diritto internazionale e le norme interne, in contrasto con le prime. Nelle ipotesi in cui il
problema si è posto con riferimento alle norme di adattamento al diritto consuetudinario, è stato enunciato
il principio secondo cui va dichiarata l’incostituzionalità delle disposizioni interne incompatibili.

2 – Norme interne e norme di adattamento ai trattati istitutivi


Nell’ipotesi invece di antinomie tra norme interne e norme di adattamento ai trattati istitutivi, si è
pervenuti a soluzioni significativamente diverse. Poiché l’adattamento ai trattati è avvenuto tramite legge
ordinaria, per lungo tempo è stato riconosciuto dal giudice comune il potere di disapplicare norme interne
in contrasto con tali trattati, ma soltanto se antecedenti alle norme di adeguamento. Un più incisivo potere
del giudice comune di disapplicazione delle norme interne è stato riconosciuto solo successivamente e in
modo graduale: è stato con la sentenza Granital che le norme interne non conformi a norme dell’Unione
(antecedenti o successive), dotate di diretta applicabilità e/o effetto diretto, vengono considerate non
applicabili sulla base di una valutazione affidata direttamente al giudice comune. Il rimedio da attivare
invece nelle ipotesi in cui il giudice comune ravvisi un’incompatibilità tra norme interne e norme
dell’Unione prive di effetti diretti è costituito dalla prospettazione, dinanzi alla Corte costituzionale, di una
questione incidentale, volta a far dichiarare l’illegittimità delle norme interne confliggenti (in tal modo le
disposizioni di origine internazionale acquisiscono il valore di norme interposte, cioè di norme di cui la
Costituzione prescrive il rispetto da parte del legislatore). In base a quanto desumibile dalle sentenze
gemelle (348 e 349/2007) è possibile individuare tre distinte fasi nell’ambito del giudizio di costituzionalità.
 Nella prima fase, il giudice comune deve verificare se sia possibile superare il contrasto tra le norme
convenzionali e la norma interna con una soluzione interpretativa internazionalmente orientata (al
giudizio incidentale si può giungere soltanto se risulti fallito ogni altro tentativo in tale direzione); il
giudice delle leggi, dunque, accerta che il contrasto ipotizzato dal giudice rimettente sia effettivamente
insanabile.
 Nella seconda fase, il compito affidato al giudice delle leggi è duplice: si tratta non solo di accertare la
compatibilità di tali norme con tutto il testo costituzionale, ma di operare anche un ragionevole
bilanciamento tra il vincolo derivante da tale giurisprudenza internazionale e l’eventuale esigenza di
tutela di altri interessi costituzionalmente protetti.
 La terza fase, infine, ha luogo una volta accertata la conformità a Costituzione della norma interposta, ed
è incentrata sulla verifica della compatibilità, rispetto a quest’ultima, della norma interna censurata (di
cui, nel caso, andrà dichiarata l’illegittimità).
Sindacato di costituzionalità sulle norme di adattamento al diritto internazionale
Nel caso venga ipotizzato il contrasto tra norme risultanti dall’adattamento al diritto internazionale e norme
costituzionali, il sindacato di legittimità accentrato (riservato cioè alla Corte costituzionale) avrà ad oggetto
la norma interna per il tramite della quale è stata recepita la norma internazionale, e può concludersi
affermandone l’illegittimità limitatamente alla parte in cui tale atto consente l’ingresso di quelle specifiche
disposizioni contrarie alle norme costituzionali, senza che si renda necessario espungere dall’ordinamento
l’intero trattato internazionale. In base a tali criteri, infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza
238/2014, nel dichiarare la parziale illegittimità di una legge, si è preoccupata di precisare che la sua
decisione riguarda una sola norma di tale legge e solo limitatamente ad un aspetto specifico. Sotto ogni
altro profilo, invece, rimane inalterato l’impegno dello Stato italiano al rispetto di tutti gli obblighi
internazionali, ivi compreso il vincolo ad uniformarsi alle decisioni della Corte di giustizia.

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SOVRANITÀ TERRITORIALE E REGOLE DI IMMUNITÀ
SOVRANITÀ TERRITORIALE / JURISDICTION
La sovranità esterna e la sovranità interna rappresentano le condizioni necessarie affinché ad uno Stato
possa venire attribuita piena soggettività internazionale. Viene generalmente ammessa poi anche la
presenza di alcuni principi fondamentali che affermano valori quali l’eguaglianza sovrana degli Stati e il non
intervento negli affari interni o esterni di un altro Stato. Allo Stato viene infatti conferito, dal diritto
internazionale generale, il potere di esercitare le proprie funzioni di governo e la propria attività di gestione
di interessi collettivi in modo esclusivo, ossia ad esclusione di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento. La
situazione giuridica soggettiva così attribuita agli Stati ha carattere di fondamentale importanza, in quanto
rappresenta il principio ordinatore e fondante della Comunità internazionale degli Stati nell’assetto che
ancora oggi le è proprio. Per designare nel suo insieme il contenuto della situazione giuridica soggettiva
degli Stati, la dottrina italiana, e in genere quella europea continentale, utilizza l’espressione “sovranità
territoriale”, che comprende il diritto di ciascuno Stato di svolgere le proprie funzioni e di esercitare i propri
poteri nell’ambito del proprio territorio, escludendone qualsiasi altro soggetto internazionale. Diversa,
invece, la terminologia più frequentemente usata nei paesi anglosassoni: qui infatti si tende a distinguere
tra una territorial sovereignty, riferita al solo diritto sul territorio, ed una situazione giuridica denominata
jurisdiction, riguardante il diritto internazionalmente riconosciuto a ciascuno Stato allo svolgimento in via
esclusiva delle proprie funzioni sovrane nei confronti dei soggetti presenti nel territorio, o dei propri
cittadini (distinguendosi poi ulteriormente tra territorial e personal jurisdiction). La nozione di jurisdiction
non può quindi essere fatta coincidere con quello che si esprime con il termine italiano giurisdizione: il
primo comprende infatti, oltre la funzione giurisdizionale in senso proprio, anche quello che la tradizione
europeo-continentale fa rientrare nella nozione di amministrazione e nell’ambito del potere legislativo
dello Stato.

È possibile talvolta che determinate attività svolte da uno Stato nel proprio territorio e nell’esercizio delle
proprie funzioni pubbliche violino la sovranità territoriale di un altro Stato, se poste in essere con modalità
e risultati capaci di portare un concreto pregiudizio alla possibilità di quest’ultimo di attuare il proprio
ordinamento in una specifica situazione garantendone i valori essenziali. Conseguenze del genere possono
prodursi in due distinte situazioni: in primo luogo, attraverso l’estensione e l’applicazione da parte di uno
Stato di proprie normative interne a comportamenti avvenuti nel territorio di altri Stati, quando il criterio
su cui esse si fondano è la nazionalità del soggetto e l’esercizio del potere da parte del primo Stato porta ad
imporre comportamenti in violazione degli ordinamenti degli altri Stati e degli interessi essenziali da essi
tutelati; in secondo luogo, con l’emanazione di appositi atti pubblici, lo Stato che li ha emanati ha diritto a
che questi siano opposti a tutti gli altri Stati: è quindi illecito il comportamento degli Stati che pretendano di
sottoporre a sindacato il contenuto degli atti stessi, in particolare sottoponendo a giudizio lo Stato che ne è
autore davanti alle proprie autorità (operano in questo senso le regole internazionali che garantiscono agli
Stati l’immunità in relazione ai loro atti iure imperii).
NOZIONE GENERALE DI IMMUNITÀ
Per “immunità” si intendono quelle situazioni giuridiche soggettive privilegiate riconosciute a determinati
soggetti in considerazione del loro ruolo e funzione. In diritto internazionale essa costituisce una deroga
all’esclusività della sovranità degli Stati sul proprio territorio, giustificata dall’esigenza di garantire la
sovrana eguaglianza degli Stati e il mantenimento delle loro relazioni diplomatiche. Tradizionalmente, si
sono identificate tre differenti tipologie di immunità statale:
 Immunità statale in senso stretto, che spetta a tutti gli Stati, i quali non possono essere sottoposti a
giudizio davanti a tribunali di un paese straniero in relazione agli atti compiuti nell’esercizio della potestà
d’imperio (immunità dalla giurisdizione di cognizione) e ai beni destinati all’assolvimento di detta
funzione (immunità dalla giurisdizione esecutiva);

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 Immunità funzionale (o ratione materiae) che spetta a tutti gli individui-organi dello Stato, i quali non
possono essere sottoposti alla giurisdizione dei tribunali stranieri in relazione all’attività svolta in
esecuzione delle funzioni loro affidate;
 Immunità personale (o ratione personae) che spetta a determinati individui-organi dello Stato, i quali
non possono essere sottoposti alla giurisdizione dei tribunali stranieri neppure in relazione all’attività
svolta al di fuori di ogni incarico ufficiale.
Le norme internazionali sull’immunità non appartengono allo ius cogens, pertanto vi si può derogare
attraverso specifiche regolamentazioni pattizie, in virtù del principio di reciproca derogatività. È inoltre
possibile che uno Stato, in una specifica controversia, invochi la rinuncia all’immunità: ciò anche quando
l’immunità riguardi una persona fisica, dal momento che essa tutela un interesse dello Stato e perciò solo
questo è legittimato ad operare la rinuncia. Diversa è invece la situazione quando uno Stato svolga le
proprie funzioni pubbliche nel proprio territorio ma queste comportino il riferimento a fatti e situazioni che
si siano verificati nel territorio di un altro Stato. Ipotesi tipiche sono l’applicazione, in via amministrativa o
giurisdizionale, di norme interne a soggetti o situazioni localizzati al di fuori del territorio, per le quali si
parla spesso di esercizio extraterritoriale di giurisdizione: ciò è concesso, salvo quando vi sia una disciplina
internazionalmente uniforme sull’esercizio della giurisdizione (ma normative del genere possono
riscontrarsi solo negli ultimi decenni e solo nell’ambito di cerchie integrate di Stati).

Deroghe e limiti all’immunità: la teoria della soddisfazione per equivalenti  I principi sull’immunità degli
Stati assumono un rilievo determinante dal momento che garantiscono i diversi soggetti della scena
internazionale dall’interferenza reciproca nella gestione dei propri affari interni. Per questo motivo le
immunità sono riconosciute e garantite anche a scapito dell’esercizio di prerogative sovrane dello Stato del
foro. Esse dunque rappresentano norme fondamentali tali da giustificare il sacrificio di una prerogativa
tipica della sovranità statale, quale l’esercizio della funzione giurisdizionale; detto sacrificio comporta la
contestuale limitazione di un diritto fondamentale, garantito dalla Costituzione a tutti i soggetti privati: il
diritto di agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e dei propri interessi (tutelato dall’art.24 Cost.). Se
la giurisprudenza più risalente sembra affermare la supremazia dei principi relativi all’immunità, e dunque
un totale sacrificio del diritto di azione, oggi prende campo una posizione più evoluta che asserisce
l’impossibilità di sacrificare i diritti degli individui. Laddove si assista ad un contrasto tra regole
sull’immunità e diritto individuale di azione, deve procedersi ad un loro contemperamento, nel senso che la
deroga alla giurisdizione nazionale è legittima esclusivamente nell’ipotesi in cui tale diritto possa essere
soddisfatto “per equivalenti” all’esterno del foro. In altri termini, al singolo, impedito nell’esercizio del
proprio diritto all’interno del foro, deve essere garantito l’accesso ad un organo giurisdizionale straniero,
dotato di imparzialità e indipendenza, nonché capace di giudicare la lite osservando appropriate regole di
procedura. Dunque, l’immunità giurisdizionale non può derogare ma semplicemente determinare una sorta
di affievolimento nella tutela del diritto di azione (tuttavia l’esistenza di organi non giurisdizionali, purché
imparziali, è sufficiente per garantire il principio supremo della tutela giurisdizionale). L’orientamento in
esame è stato confermato dalla Corte di Strasburgo con riferimento all’art.6 della CEDU, il quale garantisce
ad ogni persona il diritto ad un equo processo e, in particolare, il diritto di azione. Sembra tuttavia doversi
dare atto di una particolare posizione assunta nei confronti delle Nazioni Unite, e non accogliente tale
teoria (es. nel caso Madri di Srebrenica, la Corte EDU ha negato che l’assenza di strumenti alternativi di
tutela possa determinare automaticamente una violazione del diritto di accesso alle corti; o ancora, nel
contesto dell’epidemia di colera ad Haiti, in cui si assumeva che la malattia fosse stata introdotta nel paese
da alcuni membri della missione ONU, la Corte distrettuale di New York ha negato la propria giurisdizione,
riconoscendo alle Nazioni Unite un’immunità assoluta).

1) IMMUNITÀ STATALE IN SENSO STRETTO

1 – Immunità dalla giurisdizione di cognizione

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L’immunità degli Stati dalla giurisdizione di cognizione ha rappresentato una regola consuetudinaria
unanimemente riconosciuta, identificabile nel tradizionale principio par in parem non habet iudicium,
secondo il quale gli enti sovrani non possono essere convenuti in giudizio davanti ai tribunali di un paese
straniero, salvo il loro consenso. Essa si presenta come illimitata dal punto di vista soggettivo e invece
limitata dal punto di vista oggettivo. Partendo dal primo profilo, si rileva che l’immunità giurisdizionale
spetta a tutti gli Stati muniti di sovranità esterna da qualsiasi altro ente e sovranità interna su territorio e
popolazione. Per quanto concerne invece i limiti che la regola dell’immunità statale incontra dal punto di
vista oggettivo, essi si sono venuti delineando nei primi decenni del secolo passato. Originariamente, il
principio non conosceva infatti alcuna deroga, concretandosi in una sorta di intoccabilità che i sovrani
riconoscevano reciprocamente (teoria dell’immunità assoluta). Ancora oggi alcuni Stati continuano a fare
riferimento alla teoria dell’immunità assoluta: Cina, Hong Kong e Russia. Tale prassi tuttavia, ponendosi in
contrasto sia con precise norme consuetudinarie sia con la Convenzione di New York del 2004, ha portato la
Corte EDU a valutarne l’illegittimità per violazione dell’art.6 CEDU. A partire dalla giurisprudenza italiana e
belga di fine ‘800, inizia così ad affermarsi la teoria dell’immunità ristretta, riguardante cioè solo quegli atti
compiuti dagli Stati nell’ambito dei propri poteri di imperio (iure imperii) e non anche per gli atti compiuti
iure privatorum (agendo cioè alla stregua di un soggetto privato). L’applicazione della regola dell’immunità
ristretta ha creato non pochi problemi alla giurisprudenza interna nei paesi di civil law, chiamata a
delineare la distinzione, non sempre facile, tra attività iure privatorum e attività iure imperii. Ad esempio
la Cassazione si è pronunciata sulla possibilità di sottoporre a giudizio in Italia lo Stato argentino per il
mancato adempimento di titoli obbligazionari. Inizialmente, la Suprema corte parte dall’assunto per cui la
collocazione sul mercato borsistico internazionale di titoli di debito pubblico costituisce attività economica
di diritto privato; di conseguenza non è consentito allo Stato straniero sottrarsi alla potestà dello Stato
ospitante. La Cassazione italiana non perviene però alla medesima conclusione, precisando che tali
provvedimenti manifestano evidentemente la potestà sovrana dello Stato. Più recentemente, anche la
Corte di cassazione tedesca ha assunto una simile presa di posizione, mentre invece l’atteggiamento
assunto dalle giurisdizioni degli Stati Uniti è stato diametralmente opposto (secondo queste si trattava di
atti iure privatorum, dunque l’immunità allo Stato argentino è rifiutata). Per evitare queste difficoltà
interpretative, alcuni paesi di common law hanno provveduto ad accogliere la regola dell’immunità
ristretta in disposizioni normative interne, capaci di precisare l’ampiezza delle immunità statali e
l’individuazione delle relative eccezioni: si pensi allo State Immunity Act britannico (1978) e al Foreign
Sovereign Immunities Act (FSIA) statunitense (1976). Viene così sottratto alle autorità giudiziarie il compito
di individuare le categorie di atti in relazione alle quali lo Stato straniero gode di immunità, provvedendo
alla loro individuazione per via legislativa (c.d. metodo della lista).

Immunità per crimini internazionali  La regola dell’immunità nella versione ristretta non ha,
tradizionalmente, conosciuto eccezioni; questo non solo a livello di Supreme corti appartenenti a paesi
stranieri, ma anche a livello di tribunali internazionali, come testimonia la stessa CEDU, la quale ha
precisato come il principio dell’immunità statale non sia derogabile neppure in caso di violazione di norme
primarie del diritto internazionale (come la norma che impone il divieto della tortura). Dal 2004 la
giurisprudenza italiana si è però segnalata per l’introduzione di una nuova limitazione all’immunità
statale, che attiene alla commissione di crimini internazionali. A partire dal Caso Ferrini, infatti, la
giurisprudenza della Corte di cassazione ha seguito un orientamento costante nel negare l’immunità allo
Stato straniero in ipotesi di commissione di crimina iuris gentium. Tale conclusione non appare però così
pacifica all’attuale stadio di evoluzione del diritto consuetudinario; non a caso la Germania ha chiesto alla
CIG di dichiarare contraria alle regole internazionali sull’immunità giurisdizionale la possibilità di celebrare
processi in Italia basati sulla violazione di norme a protezione dei diritti umani commesse dal III Reich
durante la Seconda guerra mondiale (Germania c. Italia, con intervento della Grecia, 2012). La sentenza
della Corte internazionale di Giustizia ha, in un primo momento, indotto il legislatore italiano a modificare
la disciplina interna per porre fine alla violazione del diritto internazionale ma, a seguito dell’adozione di

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tale disciplina, è intervenuta la Corte costituzionale, chiamata a valutare la legittimità costituzionale tanto
della norma internazionale prodotta nell’ordinamento italiano dall’art.10 Cost., quanto della legge di
adattamento alle Nazioni unite. Queste norme sono state valutate alla luce degli art.2 e 24 Cost, principi
supremi dell’ordinamento costituzionale italiano: la prima non può essere recepita, ex art.10, nella misura
in cui essa copre crimini internazionali; la seconda, allo stesso modo, non può essere recepita nella misura
in cui obbliga lo Stato italiano a conformarsi a una sentenza della CIG che afferma l’immunità statale anche
per crimini internazionali (sentenza 238/2014). La Corte costituzionale si sofferma sull’obbligo per la
Repubblica italiana a conformarsi alle decisioni della CIG. Essa, in particolare, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art.1 della legge di adattamento, limitatamente alla parte in cui vincola lo Stato italiano a
conformarsi alla sentenza del 2012 della CIG, che lo costringe a negare la propria giurisdizione in ordine agli
atti di uno Stato straniero, nonché alle azioni di risarcimento danni per crimini contro l’umanità, in palese
violazione del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali. Il principio fatto proprio dalla Corte
costituzionale è stato ripreso recentemente anche dalla Corte di cassazione penale, che ha più
genericamente affermato che l’immunità dalla giurisdizione italiana non può assicurare copertura ad atti
che concretizzano crimini internazionali, che non giustificano mai il sacrificio della tutela dei diritti
inviolabili.

Codificazione in materia di immunità  Per superare le divergenti soluzioni elaborate nell’ambito dei
paesi membri della Comunità Internazionale, si sono predisposti appositi strumenti dedicati al tema
dell’immunità statale. La testimonianza più significativa è la Convenzione ONU di New York sull’immunità
degli Stati e dei loro beni, adottata nel 2004 (essa, nonostante le più recenti ratifiche, tra cui anche quella
italiana, non è tuttavia ancora in vigore). La Convenzione, all’art.5, stabilisce che ogni Stato gode
dell’immunità dalla giurisdizione dei tribunali di ogni altro Stato contraente, ad eccezione di una serie di
casi espressamente elencati nella Parte III della Convenzione stessa, modellati su di un’altra convenzione
internazionale, ossia la Convenzione di Basilea del 1972 sull’immunità degli Stati. L’elenco dei casi in cui
l’immunità non può essere invocata è così ampio e significativo da impedire di poter realmente considerare
il principio immunitario come principio generale. Questi ultimi riguardano: le operazioni commerciali, le
azioni di risarcimento danni da illeciti imputabili allo Stato, le proprietà e il possesso di beni immobili situati
nello Stato del foro, i diritti su beni acquistati dallo Stato per successione o donazione, i diritti di proprietà
intellettuale e industriale, la partecipazione in società o altri enti collettivi, l’utilizzazione di navi per usi
diversi da quelli pubblici non commerciali, i procedimenti giudiziari relativi ad arbitrati.

Immunità statale e rapporti di lavoro subordinato  L’applicazione del criterio che fa leva sulla distinzione
tra attività iure imperii e attività iure privatorum si rivela particolarmente complessa in materia di rapporti
di lavoro subordinato, non solo per la difficoltà di distinguere tra rapporti pubblicistici e privatistici, ma per
l’insoddisfazione cui porta comunque l’applicazione di tale criterio. Affermare la ricorrenza dell’immunità
tutte le volte in cui il lavoratore, dipendente di uno Stato straniero, sia impiegato nell’ambito di un’attività
pubblicistica, significa di fatto riconoscere quasi sempre l’immunità: questo perché è inevitabile individuare
una partecipazione diretta o indiretta di qualunque lavoratore alla corretta esplicazione di una funzione
pubblicistica. Si è proposto dunque di abbandonare del tutto il criterio che fa leva sulla partecipazione alle
funzioni pubbliche, facendo riferimento esclusivamente al luogo di svolgimento del rapporto e alla
cittadinanza del lavoratore. L’ordinamento italiano non è rimasto indifferente al nuovo orientamento. La
Suprema Corte precisa che i rapporti di lavoro di cittadini italiani con gli Stati esteri non si sottraggono alla
giurisdizione del giudice italiano quando abbiano a oggetto prestazioni manuali e meramente accessorie
delle attività di tipo pubblicistico dell’ente sovrano estero. La giurisprudenza italiana si attesta quindi su una
posizione tradizionale, che appare modellata sulla Convenzione elaborata in seno alle Nazioni unite, il cui
art.11 precisa: uno Stato non può invocare l’immunità dalla giurisdizione davanti al tribunale di un altro
Stato, ove il lavoro debba essere svolto nel territorio di tale Stato; questa disposizione non si applica se il
dipendente è stato assunto per svolgere funzioni strettamente connesse all’esercizio dell’attività di
governo, o se sia cittadino dello Stato datore di lavoro. In materia, un rilievo sempre maggiore nel

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bilanciamento delle regole sull’immunità nei rapporti di lavoro e nel meccanismo di accesso alle corti è
svolto dai diritti fondamentali, garantiti da convenzioni internazionali e dal diritto dell’Unione.

2 – Immunità dalla giurisdizione di esecuzione


Oltre a non poter essere citati in giudizio di fronte ai tribunali di un paese straniero nella fase di cognizione,
gli Stati non possono essere sottoposti a procedimenti esecutivi e cautelari all’estero. Come l’immunità
dalla giurisdizione di cognizione, anche l’immunità dall’esecuzione forzata è accolta in una versione
ristretta, dal momento che essa riguarda esclusivamente i beni destinati all’espletamento di una funzione
pubblica, mentre non interessa i beni detenuti da uno Stato a titolo privato. L’analogia tra le due immunità
non significa però coincidenza tra le relative norme: l’immunità degli Stati dalla giurisdizione cautelare ed
esecutiva dello Stato del foro è infatti autonoma rispetto all’immunità dalla giurisdizione di cognizione. Per
comprendere ciò basti prendere in considerazione due elementi: il primo riguarda la necessità di operare
un’apposita rinuncia da parte dello Stato che intenda sottoporsi a giudizio esecutivo (si tratta di una
rinuncia ulteriore, distinta ed autonoma in quanto, quand’anche uno Stato abbia rinunciato all’immunità
dalla giurisdizione di cognizione, non per questo potrà essere sottoposto ad un procedimento di
esecuzione); il secondo elemento è rappresentato dall’evoluzione differenziata che le due norme hanno
avuto nel corso del tempo (all’imporsi del carattere relativo dell’immunità dalla giurisdizione non ha infatti
corrisposto una contemporanea evoluzione del diritto internazionale consuetudinario, che ha continuato ad
affermare il carattere assoluto dell’immunità di esecuzione). Qualora azioni esecutive vengano promosse su
beni destinati a missioni diplomatiche, e più specificamente sui conti correnti, rileva in primo luogo la
natura autonoma dell’immunità diplomatica. Su questo punto, l’art.19bis della l.162/2014 dispone che non
sono soggette ad esecuzione forzata le somme depositate su conti correnti bancarie o postali, in relazione
ai quali il capo della rappresentanza, del posto consolare o il direttore dell’organizzazione internazionale ha
dichiarato che il conto contiene esclusivamente somme destinate all’espletamento delle funzioni pubbliche.

2) IMMUNITÀ FUNZIONALE
L’immunità funzionale riguarda le norme che garantiscono l’esenzione dalla giurisdizione del foro a favore
degli individui-organi (di qualunque grado e livello) che operano nell’esercizio delle mansioni loro affidate
da uno Stato estero. Una prima questione sorge già a livello definitorio: si tratta di verificare quali atti
possano dirsi compiuti nell’esercizio di un incarico ufficiale e quali, invece, appartengano alla sfera privata
dell’agente; al riguardo appaiono utilizzabili due criteri: l’uno tendente ad avvalorare un’interpretazione
restrittiva della nozione; l’altro invece favorevole a riconoscere tale qualifica in un maggior numero di
ipotesi. Utilizzando il primo criterio si ritiene compiuto nell’esercizio delle mansioni ufficiali solamente il
comportamento realizzato per finalità pubblicistiche; questa posizione cela però un grande rischio: la sua
applicazione consentirebbe infatti a qualunque tribunale nazionale di perseguire e condannare un agente
straniero imputandogli di aver commesso un fatto che, seppur posto in essere attraverso tecniche e
strumenti pubblicistici, risulti finalizzato al perseguimento di un interesse privato. Tale criterio è stato infatti
rigettato nella serie di decisioni relative al caso Pinochet, ove tuttavia la House of Lords ha negato
l’immunità all’ex Capo di Stato cileno, posto che questa è stata ritenuta persa, anche a fronte della ratifica
da parte dei tre Stati interessati nella controversia (Regno Unito, Cile e Spagna) della convenzione contro la
tortura, crimine per il quale la Spagna chiedeva l’estradizione (salvo poi non essersi proceduto in
considerazione delle condizioni di salute dell’ex Capo di stato straniero). In base al secondo criterio, invece,
deve ritenersi compiuto nell’esercizio delle mansioni ufficiali l’atto che presenti un qualunque
collegamento (diretto o indiretto) con la funzione cui l’organo è preposto, rilevando anche il solo impiego
di strumenti pubblicistici a disposizione dell’individuo-organo in ragione della qualifica ricoperta. Allo stesso
modo, si ritiene coperto dall’immunità funzionale il comportamento dell’individuo-organo che non si sia
strettamente attenuto agli ordini superiori, ovvero abbia agito in eccesso di potere, purché la sua azione sia
riportabile, anche solo formalmente, all’ambito delle mansioni assegnate.

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Una volta individuate le categorie di atti coperte dall’immunità funzionale, si tratta di verificare l’esistenza e
i limiti di operatività della regola, la quale viene generalmente affermata in dottrina e in giurisprudenza
sulla base di prospettazioni differenti. Essa viene fatta discendere: dall’applicazione del principio generale
del rispetto dell’organizzazione interna degli Stati stranieri; dal divieto di intromissione nella vita
costituzionale di ordinamenti stranieri (è lo Stato l’unico soggetto cui spetta la sovranità, compresa la
potestà di giudicare e condannare i propri agenti); infine, dalla regola dell’immunità degli Stati dalla
giurisdizione (a sostegno di tale posizione si cita la Convenzione ONU di New York del 2004, il cui art.2
identifica la nozione di Stato in senso estremamente ampio, tale da comprendere anche i rappresentanti
dello Stato che agiscono in tale veste. La Corte di cassazione italiana, nel caso Calipari in relazione
all’uccisione di un funzionario italiano del SISMI da parte di un soldato statunitense che prestava servizio a
Baghdad, ha precisato che la regola dell’immunità funzionale costituisce un corollario della norma
consuetudinaria sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione.

Dal punto di vista soggettivo, l’immunità funzionale non conosce eccezioni, dal momento che qualunque
individuo-organo che agisca nell’esercizio di funzioni ufficiali gode dell’immunità. Analogamente, dal punto
di vista temporale, l’immunità funzionale è illimitata nel tempo. Incontra invece alcuni limiti dal punto di
vista oggettivo, in relazione al compimento di illeciti e alle attività poste in essere dagli individui-organi
nell’ambito di missioni non autorizzate. L’immunità non è sancita da regole di ius cogens, per questo è
derogabile con accordi internazionali: un esempio, la Convenzione per la repressione del delitto di
genocidio (1948). La derogabilità della regola dell’immunità funzionale è espressamente prevista non solo
con riferimento alla giurisdizione delle corti statali, ma anche con riferimento ai tribunali penali
internazionali, i cui Statuti consentono di perseguire gli autori di determinati crimini, nonostante la loro
qualifica di pubblici ufficiali. In merito, si fa riferimento all’art.27 dello Statuto della Corte penale
internazionale, secondo il quale l’immunità o norme procedurali speciali inerenti alla posizione ufficiale di
una persona non impediscono alla Corte di esercitare la sua giurisdizione su tale persona. Riguardo a tale
norma si evidenziano tuttavia incertezze nella prassi: in particolare, è noto che la Corte penale
internazionale ha emesso il suo primo ordine di arresto nei confronti di Al-Bashir, presidente del Sudan
(non Stato-parte dello Statuto di Roma) e ad oggi tale ordine di arresto non è stato eseguito dagli Stati-
parte. L’Unione africana si è infatti opposta all’applicazione dell’art.27 nei confronti di uno Stato-non-parte
(rilevando inoltre che la mancata cattura di Al-Bashir ha costituito una violazione della disciplina interna di
adattamento dello Statuto di Roma).
In relazione, invece, alle attività compiute all’estero, senza previa autorizzazione dello Stato territoriale, si
rinviene una prassi non uniforme: le decisioni dei tribunali appartenenti ai paesi la cui sovranità è stata
violata si presentano infatti estremamente variegate e assumono posizioni discordanti in ordine al
riconoscimento dell’immunità funzionale nei confronti degli autori dello sconfinamento. In linea di
massima, i militari sono sottoposti esclusivamente a misure provvisorie restrittive della libertà personale, e
vengono liberati laddove la lite sia stata definita a livello internazionale tra Stato del foro e Stato di
appartenenza. Se lo Stato si assume la responsabilità della missione, i giudici interni si attengono al
principio dell’assorbimento della responsabilità individuale nell’ambito della responsabilità statale,
evitando di punire l’agente; se invece lo Stato non si assume la responsabilità, i giudici non seguono alcun
criterio di assorbimento, sanzionando direttamente l’agente che ha compito l’illecito (caso emblematico è
quello della nave Rainbow Warrior, affondata in Nuova Zelanda da due agenti dei servizi segreti francesi
tramite il posizionamento di un ordigno; la Corte non ha declinato la giurisdizione nei confronti degli agenti
stranieri, nonostante il governo francese si fosse espressamente addossato la responsabilità dell’azione,
dichiarandosi pronto anche a risarcire i danni). Le decisioni dei tribunali interni e la prassi degli Stati
sembrano dunque testimoniare l’assenza di una consuetudine tesa a garantire l’immunità funzionale agli
individui-organi che abbiano compiuto missioni non autorizzate in territorio straniero, confermando la
mancanza, al riguardo, tanto della diuturnitas quanto dell’opinio juris.

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Vi è poi la possibilità di ritenere superata la regola dell’immunità funzionale nel caso in cui l’agente statale
si renda autore di una particolare categoria di illeciti, ossia i c.d. crimina iuris gentium. Al riguardo, è stato
sostenuto che la norma sull’immunità dovrebbe, in determinati casi, cedere il passo rispetto alla norma di
ius cogens che tutela i diritti umani fondamentali, di modo tale che il pubblico ufficiale diverrebbe
perseguibile da qualunque tribunale nazionale, senza poter invocare l’immunità funzionale. Larga parte
della dottrina concorda nel ritenere che, a fronte del compimento di un crimen juris gentium, si sia ormai
affermata una norma consuetudinaria tesa ad attribuire giurisdizione universale a favore dei tribunali
interni di tutti gli Stati, e che tale norma sarebbe destinata a prevalere sulle regole d’immunità. Tale
orientamento è stato accolto dalla Corte di cassazione italiana fin dalla sentenza Ferrini. Una posizione più
prudente sembra invece essere seguita dalla CIG, la quale ha affermato che né dalla giurisprudenza delle
Supreme corti nazionali, né dalle regole relative all’immunità o alla responsabilità penale delle persone che
hanno un incarico ufficiale, è dato dedurre che nel diritto internazionale consuetudinario esiste una
qualunque eccezione all’operatività delle regole sull’immunità.

3) IMMUNITÀ PERSONALE
La terza tipologia di immunità statale è rappresentata dall’immunità ratione personae, che spetta a taluni
individui-organi dello Stato in relazione agli atti compiuti al di fuori dei propri incarichi ufficiali. I soggetti
che ne godono possono fruire di un’esenzione pressoché totale dalla giurisdizione degli Stati stranieri, dal
momento che quando agiscono nell’ambito del proprio mandato sono garantiti dall’immunità funzionale,
mentre quando operano come privati godono, appunto, dell’immunità personale.
L’immunità personale si presenta, tuttavia, soggettivamente, oggettivamente e temporalmente limitata.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’immunità personale spetta solo a determinati soggetti, ossia i
diplomatici, i Capi di Stato e di Governo, nonché i Ministri degli esteri (con riferimento ai diplomatici, la
regola è espressamente codificata nell’ambito della Convenzione di Vienna del 1961). Per quanto riguarda i
limiti di carattere oggettivo, l’immunità personale va distinta: essa è assoluta in relazione alla giurisdizione
penale (il soggetto che ne gode, a fronte del compimento di qualunque reato, non può essere chiamato in
giudizio, anche nel caso di commissione di crimini internazionali); in relazione invece alla giurisdizione civile,
l’immunità personale è relativa, e cioè esistono delle eccezioni per le quali il soggetto immune può essere
citato in giudizio davanti ai tribunali stranieri (questo per: azioni reali riguardanti immobili situati nello Stato
del foro; controversie relative ad una successione nella quale il diplomatico risulti essere erede, legatario,
amministratore o esecutore testamentario; cause inerenti ad attività professionali o commerciali esercitate
al di fuori delle funzioni ufficiali; domande riconvenzionali presentate nell’ambito di azioni promosse dal
soggetto). L’immunità personale è, infine, temporalmente limitata, nel senso che spetta ai diplomatici, Capi
di Stato e di Governo e Ministri degli esteri, esclusivamente durante il loro permanere nella carica; una
volta che sia cessato il mandato, l’agente straniero sarà di nuovo perseguibile.

L’inviolabilità personale
Questi soggetti, oltre che dell’immunità dalla giurisdizione, godono anche della c.d. inviolabilità personale,
per garantire la quale gli Stati ospitanti sono gravati da precisi obblighi di fare e di non fare. Per quanto
riguarda il “non fare”, l’inviolabilità impedisce agli Stati stranieri di assoggettare i diplomatici a misure
repressive e coercitive che limitino la loro libertà personale; sul fronte del “fare”, invece, gli Stati ospitanti
hanno un obbligo speciale di protezione delle persone che godono dell’inviolabilità. Essa spetta anche ai
consoli, secondo quanto disposto dalla Convenzione di Vienna del 1963, anche se non viene loro garantita
in forma assoluta: essi non sono infatti protetti da inviolabilità in caso di reato grave o a seguito di una
decisione dell’autorità giudiziaria competente. L’inviolabilità spetta non solo all’agente diplomatico e al
console, ma anche al Capo di Stato e di Governo, nonché ai Ministri degli esteri; alcune prerogative
riguardano però solo le prime due categorie di agenti, ossia l’inviolabilità domiciliare e l’immunità fiscale:
 l’inviolabilità domiciliare protegge da qualunque intrusione da parte dello Stato ospitante, sia i locali
dell’ambasciata e del consolato, sia quelli impiegati dal diplomatico per la sua abitazione privata. Anche

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l’inviolabilità domiciliare si sostanzia in precisi obblighi positivi e negativi per lo Stato ospitante: per
quanto concerne gli obblighi di astensione, i locali della missione nonché quelli in cui il diplomatico fissa
la propria dimora privata sono inviolabili da parte dello Stato accreditatario e dei suoi agenti, che non
sono legittimati ad entrarvi se non previo consenso dell’agente diplomatico. Sul fronte degli obblighi di
fare, invece, allo Stato accreditatario spetta uno speciale obbligo di protezione dei locali.
 l’immunità fiscale invece copre essenzialmente le imposte personali dirette, pur essendovi avuti casi
nella prassi di estensione dei privilegi ad imposte indirette.

Lo Stato, di fronte a un soggetto non perseguibile a causa dell’immunità personale (ma anche funzionale)
non può fare altro che intimare al soggetto in questione (tipicamente un diplomatico) di lasciare il proprio
territorio, dichiarandolo persona non grata. Dopo tale dichiarazione, il soggetto viene di solito richiamato in
patria; se ciò non avviene, lo Stato ospitante potrebbe rifiutarsi di riconoscerlo come agente diplomatico, e
quindi perseguirlo.

IMMUNITÀ DEI SOGGETTI DIVERSI DALLO STATO


Il riconoscimento di immunità, anche se non del tutto assimilabili a quelle statali, è da lungo tempo
consolidato anche in relazione a quei soggetti che, pur differenti dagli Stati, nell’ordinamento italiano
godono di una speciale rilevanza in ragione delle funzioni esercitate e del ruolo loro riconosciuto nella
storia: si tratta del Sovrano Ordine militare di Malta, la Santa Sede e le organizzazioni internazionali.

ILLECITO E RESPONSABILITÀ
La commissione, da parte di un soggetto internazionale (sia esso uno Stato o un altro ente titolare di
posizioni giuridiche soggettive), di un atto internazionalmente illecito costituisce il presupposto necessario
per l’insorgere di una responsabilità internazionale a carico di tale soggetto. L’espressione “responsabilità
internazionale”, intesa in senso stretto quale conseguenza nascente nell’ordinamento internazionale dalla
violazione di uno degli obblighi in esso vigenti, sta ad indicare la relazione giuridica che insorge tra lo Stato
responsabile e lo Stato leso, in seguito alla commissione dell’illecito. In tale prospettiva si sono delineate
due tipologie di norme: le norme che definiscono il contenuto dell’obbligazione violata sono qualificate
come primarie; le regole che invece definiscono le condizioni generali affinché un soggetto sia considerato
responsabile dell’azione illecita sono definite come secondarie.

LE FONTI DELLA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ


La disciplina generale della responsabilità internazionale è posta unicamente da regole di diritto
internazionale consuetudinario, le quali sono state oggetto di una complessa opera di codificazione, curata
dalla Commissione del diritto internazionale, e sfociata nell’adozione, nel 2001, di un Progetto di articoli (la
Parte Prima è stata approvata in prima lettura nel 1980; la Parte Seconda e Terza, invece, sono state
adottate in prima lettura nel 1996 ma approvate definitivamente in seconda lettura nel 2001). Oltre alla
disciplina della responsabilità dello Stato, oggetto di studio da parte della Commissione è stata anche la
questione della responsabilità delle organizzazioni internazionali, sfociata anche qui nell’adozione di un
Progetto di articoli (2001). Quanto invece al diritto internazionale pattizio, non sussiste alcuna
regolamentazione in via generale. Sono tuttavia possibili una serie di “regimi speciali” con i quali si possono
prevedere obblighi diversi da quelli previsti dal diritto internazionale generale (con il solo limite dello ius
cogens).

GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELL’ILLECITO


Per stabilire l’esistenza di una responsabilità internazionale occorrono in primo luogo due elementi,
ritenuti, dall’art.2 del Progetto, costitutivi dell’illecito: il primo consiste nell’attribuibilità dell’atto allo Stato
ai sensi del diritto internazionale; il secondo è dato dalla violazione di un obbligo internazionale vigente per

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lo Stato al momento della commissione dell’atto. Tali elementi sono designati rispettivamente come
soggettivo e oggettivo.

1) ELEMENTO SOGGETTIVO
Affinché una condotta possa essere caratterizzata come internazionalmente illecita, è in primo luogo
necessario che essa sia attribuibile allo Stato. Il principio generale di attribuibilità è espresso dalla regola
secondo la quale può essere riferita allo Stato solo la condotta dei suoi organi, ossia di quegli enti,
individuali o collettivi, attraverso i quali lo Stato si organizza e agisce. L’attribuzione di una condotta allo
Stato è basata su criteri determinati dal diritto internazionale; tuttavia è compito del diritto interno (e non
del diritto internazionale) determinare cosa costituisce organo di uno Stato. Per quanto lo Stato si ripartisca
al suo interno in una serie di organi aventi diverse funzioni e personalità, ai fini del diritto internazionale lo
Stato è trattato come una singola persona giuridica; pertanto, la condotta di qualsiasi organo statale viene
considerata come atto dello Stato, sia che esso eserciti funzioni legislative, esecutive o giudiziarie, e a
prescindere dal suo carattere di organo centrale o di ripartizione territoriale. Inoltre, la condotta è
attribuibile allo Stato nel caso in cui uno dei suoi organi agisca al di fuori della sfera di sua competenza, in
violazione del diritto interno.

Casi di atti non compiuti da organi dello Stato ma ciononostante ad esso attribuibili  Allo stesso tempo
può essere attribuita allo Stato la condotta dell’ente che NON può essere ritenuto organo dello Stato, ma
che tuttavia è autorizzato dal diritto interno ad esercitare elementi di potere di governo. Il fenomeno
riguarda gli enti c.d. parastatali, o quegli enti privati che conservano poteri di regolamentazione (come ad
es. le compagnie aeree che abbiano poteri di disciplina e controllo del fenomeno dell’immigrazione o in
materia doganale). Tale rilievo comporta anche che la condotta posta in essere da soggetti formalmente
estranei all’organizzazione statale, ma di fatto sotto la totale dipendenza dello Stato, sia considerata come
condotta dello Stato, e che pertanto possa sorgere a carico di questo una responsabilità internazionale
(poiché i privati agiscono come meri strumenti privi di qualsiasi autonomia). Paradigmatica di tale
situazione è la vicenda dell’occupazione, nel 1979, da parte di studenti islamici, dei locali dell’ambasciata
statunitense in Iran e della presa in ostaggio del personale diplomatico e consolare ivi in servizio. In
secondo luogo, vi sono comportamenti di persone non inquadrabili né de iure né de facto
nell’organizzazione dello Stato che risultano comunque attribuibili a questo. Tale situazione si verifica
quando la condotta illecita di tali soggetti sia stata adottata sulla base di istruzioni o sotto la direzione o il
controllo dello Stato. In particolare, a tale fattispecie può essere ricondotta la situazione dello Stato
sponsor di atti di terrorismo internazionale. A parere della CIG, affinché si abbia attribuzione di un
comportamento allo Stato, non basta che questo eserciti sul gruppo di cui fa parte l’individuo un controllo
generale (overall control): si richiede infatti la prova di un controllo effettivo (effective control) sull’azione
durante la quale l’illecito è stato commesso. Lo stesso può verificarsi infine qualora il privato abbia agito in
sostituzione dello Stato, come nel caso di calamità naturali, quando le autorità sono venute meno o non
sono in grado di operare; allo stesso modo può essere attribuita allo Stato l’attività di un movimento
insurrezionale, se e quando esso assume le funzioni di nuovo governo dello Stato. Al di fuori dei casi
particolari, comunque, una condotta tenuta da un soggetto privato non può essere attribuita allo Stato (e
quindi non può generare una responsabilità internazionale). In questi casi lo Stato può avere solo una
responsabilità omissiva per non aver adottato le misure necessarie per prevenire o punire atti compiuti dai
privati.

La complicità nell’illecito internazionale


Alla questione della complicità nell’illecito internazionale sono rivolte quelle regole che definiscono in quale
misura uno Stato può essere ritenuto responsabile per l’atto di un altro Stato. In una prima direzione, una
responsabilità può insorgere per lo Stato che aiuta o assiste un altro Stato nella commissione da parte di
questo di un atto internazionalmente illecito. In tal caso lo Stato che presta l’assistenza diventa

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responsabile per il proprio comportamento se agisce con la consapevolezza delle circostanze dell’illecito, e
quando quell’atto sarebbe illecito se da lui direttamente commesso. Alle stesse condizioni, diventa
internazionalmente responsabile lo Stato nei confronti del quale venga messo a disposizione l’organo di
un altro Stato per la condotta posta in essere da questo nell’espletamento di funzioni di governo. La
condotta di tale organo viene infatti attribuita allo Stato per il quale agisce, ad eccezione delle situazioni in
cui l’organo agisce senza il consenso dello Stato a disposizione del quale è messo, o sulla base di istruzioni
dello Stato di appartenenza. In una seconda direzione, invece, deve ritenersi internazionalmente
responsabile dell’illecito lo Stato che costringe altro Stato alla sua commissione, nel caso in cui quell’atto,
se non fosse frutto di coercizione, sarebbe un atto illecito dello Stato costretto a commetterlo, e se agisce
con la consapevolezza delle circostanze dell’atto; in tal modo si esclude la responsabilità in capo allo Stato
che, sotto coercizione, commette l’illecito.

2) ELEMENTO OGGETTIVO
Il secondo elemento costitutivo dell’illecito, definito oggettivo, è dato dal contrasto tra il comportamento
in concreto tenuto dallo Stato e quello richiesto dalla norma internazionale. Al fine della qualificazione,
non rileva la fonte dell’obbligo internazionale violato da parte dello Stato: la responsabilità può infatti
sorgere per violazione di un obbligo pattizio, o assunto con atto unilaterale, come anche di un obbligo posto
da una norma consuetudinaria. Non rileva neppure la particolare natura della norma violata: sussiste un
illecito internazionale a prescindere dall’importanza, maggiore o minore, dell’obbligo violato. Tale
parificazione non consente dunque di distinguere tra categorie diverse di illecito (tanto che la Commissione
di diritto internazionale, nel testo degli Articoli del 2001, ha evitato di riprendere la distinzione tra crimini e
delitti internazionali). Per ultimo, vi è irrilevanza anche del diritto interno: un atto può infatti essere un
illecito internazionale anche se lecito in base al diritto interno dello Stato agente (o se addirittura lo Stato
era obbligato a compierlo).
Problema di rilevo pratico, soprattutto in riferimento alle conseguenze che derivano dall’illecito, è quello
della determinazione del momento in cui un illecito può dirsi compiuto. A tal proposito si afferma una
distinzione tra illecito istantaneo e illecito di durata: nel primo caso, la violazione di un obbligo
internazionale si ha per mezzo di un atto che non si estende nel tempo, bensì si verifica nel momento in cui
ha luogo il comportamento dello Stato; nel secondo caso, invece, la violazione è di carattere continuativo e
si estende per l’intero periodo in cui il comportamento si svolge.

LA COLPA E IL DANNO NELL’ILLECITO INTERNAZIONALE


Si discute se, accanto ai due elementi soggettivo e oggettivo, sia necessaria la presenza dell’elemento
psicologico della colpa, ai fini della qualificazione di una condotta internazionalmente illecita. In alcuni casi,
la norma stessa offre la risposta (positiva o negativa) in merito. Per gli altri casi, pur di fronte a una prassi
internazionale non univoca, e per quanto gli Articoli non menzionino la colpa tra gli elementi costitutivi
dell’illecito, deve ritenersi che l’elemento della colpa possegga un certo rilievo, quantomeno in negativo, a
proposito dell’insorgere della responsabilità: lo Stato che cioè dimostri l’assenza di colpa nel suo
comportamento può andare esente da responsabilità.
Allo stesso modo si discute se un fatto possa qualificarsi internazionalmente illecito solo se esso provoca un
danno, morale o materiale, ad altro soggetto. Di per sé, qualsiasi violazione di un obbligo internazionale
comporta necessariamente un danno giuridico, consistente nella violazione dell’ordinamento dello Stato. Al
di fuori di questi casi, sembra doversi escludere che il danno, inteso come pregiudizio morale o materiale,
sia elemento costitutivo dell’illecito: possono infatti verificarsi illeciti per i quali insorge una responsabilità
anche in assenza di danno (la presenza o l’assenza di danno non è comunque irrilevante nella disciplina
della responsabilità in quanto va a condizionarne il contenuto e, in particolare, le modalità di riparazione).
LE CIRCOSTANZE DI ESCLUSIONE DELL’ILLICEITÀ
Accanto alle regole che definiscono in positivo il carattere illecito di un atto, il diritto internazionale
contempla norme che danno rilevo, in negativo, a una serie di fatti il cui ricorrere ha l’effetto di

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interrompere la relazione tra il verificarsi di un fatto illecito e la responsabilità del soggetto autore. Le
circostanze che escludono il carattere illecito di un atto sono: il consenso, la legittima difesa, le
contromisure, la forza maggiore, l’estremo pericolo, e lo stato di necessità. Sussistono però alcuni limiti al
ricorrere di tali circostanze: in primo luogo, dalla loro sussistenza non deriva di per sé l’estinzione
dell’obbligo internazionale violato, ma ne consegue solo l’esclusione di responsabilità; in secondo luogo, il
ricorrere di una causa di giustificazione non esclude l’eventuale sussistenza di un obbligo di reintegrazione
patrimoniale per il danno comunque causato; infine, essa può non essere sufficiente a scusare
l’inadempimento di un obbligo discendente da una norma imperativa di diritto internazionale (ius cogens).

1. Il consenso dello Stato leso


Il consenso, ex art.20 degli Articoli, preclude l’insorgere della responsabilità del soggetto che ha tenuto il
comportamento nei confronti del soggetto che ha dato il consenso. Perché sia valido, il consenso:
- deve essere stato validamente prestato, e non risultare viziato dalla coercizione o altro fattore (ad es.
nel processo di Norimberga a carico dei criminali di guerra nazisti, il Tribunale internazionale negò che
l’annessione dell’Austria al III Reich fosse giustificata da un valido consenso);
- deve essere reale, e non meramente presunto;
- deve provenire da un ente la cui espressione di volontà sia idonea a impegnare lo Stato, e non sia
controllato de facto dallo Stato autore dell’illecito (non possono quindi trovare giustificazione gli
interventi compiuti da alcuni Stati dietro l’invito di autorità prive di reale potere di governo, come fu il
caso dell’intervento sovietico in Afghanistan, giustificato con la richiesta del Capo di governo insediatosi
proprio con l’aiuto delle truppe invasori);
- deve essere relativo ad ogni aspetto della condotta, altrimenti gli aspetti non coperti sarebbero illeciti;
- deve essere precedente, o quantomeno contemporaneo, al fatto che sarebbe altrimenti illecito (un
consenso alla violazione dato in un momento successivo costituisce invece una rinuncia al diritto dello
Stato leso di ottenere una riparazione).
La revoca del consenso non è subordinata a particolari formalità.

2. La legittima difesa
La legittima difesa giustifica l’illiceità di un comportamento qualora, attraverso di esso, lo Stato abbia inteso
evitare il compimento di un fatto illecito nei propri confronti, o impedire che un illecito già in atto venga
portato ad ulteriori conseguenze. L’effetto scriminante di tale comportamento, generalmente implicante
l’uso della forza, sussiste, secondo l’art.21 degli Articoli, solo se questa viene adottata nei limiti riconosciuti
dalla Carta N.U. nel suo art.51. Deve pertanto ritenersi che la legittima difesa non giustifichi la violazione
delle regole di diritto umanitario applicabili ai conflitti armati o che tutelano i diritti dell’uomo o l’ambiente.

3. Le contromisure
Un comportamento in astratto illecito non fa sorgere una responsabilità internazionale se esso costituisce
l’esercizio legittimo di una contromisura (o rappresaglia) adottata contro il soggetto nei cui confronti
l’osservanza dell’obbligo era dovuta, e quale reazione, posta in essere a scopo coercitivo, ad un precedente
illecito di questo Stato (art.22 degli Articoli). La condotta: deve essere proporzionale all’illecito subito, e
non deve consistere nell’uso della forza armata o nella violazione dello ius cogens; deve mirare alla
cessazione dell’illecito o alla reintegrazione dell’obbligo giuridico violato (una volta raggiunto tale
ripristino, la contromisura deve interrompersi). Nel linguaggio internazionale occorre però tenere distinte la
nozione di contromisure, che sono atti in astratto illeciti che divengono leciti in casi specifici, e la nozione di
ritorsioni, che sono invece atti inamichevoli ma leciti in via generale (es. rottura di una collaborazione
economica).

4. La forza maggiore
Ulteriore causa di esclusione dell’illiceità, prevista dall’art.23 degli Articoli, è la forza maggiore, ossia il
verificarsi di una situazione in cui lo Stato è costretto ad agire in modo contrastante con quanto richiesto
da un obbligo cui è soggetto: l’autore del fatto, pur rendendosi conto che il suo comportamento lede un

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diritto spettante ad uno Stato, non è materialmente in grado di impedire l’evento. In tale misura, dunque, il
comportamento dello Stato risulta privo di ogni elemento intenzionale. Una situazione di forza maggiore
rilevante ricorre solo se sono contemporaneamente soddisfatte tre condizioni:
- l’atto illecito si produce quale conseguenza di una forza irresistibile o di un evento imprevedibile;
- tale forza o evento sono esterni alla sfera di controllo dello Stato;
- essi rendono materialmente impossibile l’adempimento dell’obbligo internazionale.
Esempio tipico di tale situazione è la perdita di controllo dell’aeromobile militare da parte del suo
equipaggio per effetto di predominanti forze atmosferiche. Per effetto di tali requisiti, dunque, alla nozione
di forza maggiore non possono essere ricondotte le situazioni in cui l’adempimento di un obbligo è
diventato semplicemente più oneroso (la forza maggiore deve comportare l’assoluta impossibilità), né la
situazione di forza maggiore quando essa è conseguenza della condotta dello Stato che la invoca; allo stesso
modo, il ricorrere di una causa di forza maggiore non esclude l’illiceità se lo Stato in questione si è assunto
l’obbligo di impedire il verificarsi di tale situazione o se ne è assunto il rischio.

5. L’estremo pericolo
L’illiceità di un comportamento non conforme a diritto è esclusa se il suo autore, in una situazione di
estremo pericolo (distress), non aveva altro modo ragionevolmente praticabile di salvare la propria vita o
le vite di altre persone affidate alla sua cura (art.24 degli Articoli). A differenza della forza maggiore, la
persona che agisce in uno stato di pericolo compie volontariamente un atto in contrasto con il diritto
internazionale: l’autore del fatto, che pure si rende conto che il suo comportamento non è conforme ad un
obbligo che gli incombe e potrebbe evitare tale comportamento, decide di violare la norma, quale male
minore rispetto alla perdita di vite umane. La possibilità di invocare l’esistenza di un estremo pericolo è
comunque esclusa nel caso in cui esso sia stato creato dallo Stato in questione o se il comportamento
tenuto è probabile fonte di un pericolo comparabile o più grande.

6. Lo stato di necessità
Lo stato di necessità rappresenta una esimente della responsabilità internazionale solo in casi strettamente
definiti (art.25 degli Articoli). Esso può essere invocato solo se ricorrono una serie di condizioni:
- l’adozione del comportamento in astratto illecito deve essere l’unico modo per salvaguardare un
interesse essenziale dello Stato nei confronti di un grave ed imminente pericolo. Lo stato di necessità
dunque non può essere invocato se lo Stato aveva a disposizione altri mezzi di salvaguardia, anche se più
dispendiosi o meno convenienti;
- il pericolo deve essere imminente ed oggettivamente stabilito (non ritenuto meramente possibile);
- l’atto altrimenti illecito non deve pregiudicare seriamente un interesse essenziale dello Stato, ovvero
l’interesse che lo Stato ha inteso salvaguardare deve avere un rilievo superiore rispetto agli interessi lesi
dal comportamento dello Stato (tale valutazione comparativa deve essere fatta in via oggettiva e non
semplicemente dal punto di vista soggettivo dello Stato che invoca lo stato di necessità).
A prescindere dal ricorrere di tali condizioni, l’invocabilità dello stato di necessità può essere esclusa
dall’obbligo internazionale in questione; inoltre, tale invocazione è esclusa se lo Stato ha contribuito alla
creazione della situazione di necessità.

LE CONSEGUENZE DELL’ILLECITO
La commissione di un atto internazionalmente illecito produce una serie di conseguenze giuridiche in capo
al responsabile, soggetto ad obblighi nei confronti di un altro Stato.
 In primo luogo, tale Stato ha l’obbligo di cessare il comportamento che costituisce la violazione
dell’obbligo internazionale (art.30 degli Articoli). Tale obbligo sussiste a prescindere da qualsiasi richiesta
dello Stato leso; laddove però la commissione di un illecito sia stata constatata con sentenza della Corte
internazionale di giustizia, l’obbligo di cessare la condotta illecita deriva sia dall’obbligo generale di ogni
Stato di tenere una condotta conforme al diritto internazionale, sia dall’obbligo specifico incombente agli
Stati-parte di controversie di fronte alla Corte di rispettare le sue decisioni. La cessazione è però

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condizionata alla circostanza che la regola violata sia ancora in vigore. Se le circostanze lo richiedono, lo
Stato ha l’obbligo di offrire assicurazioni e garanzie di non ripetizioni del comportamento (altrimenti si
presume la buona fede dello Stato trasgressore).
 In secondo luogo, lo Stato ha l’obbligo di riparare il pregiudizio, morale e materiale, causato con l’atto
illecito (art.31 degli Articoli). Come regola generale, lo Stato responsabile di un illecito internazionale è
obbligato alla restituzione in forma specifica (o in natura), ossia al ristabilimento della situazione che
esisteva prima dell’illecito (status quo ante). Qualora il danno non possa essere integralmente riparato
con la restituzione in forma specifica, lo Stato è tenuto alla riparazione per equivalente. Tale forma di
riparazione si traduce in primo luogo nel pagamento allo Stato leso di un ammontare monetario, che
corrisponde al valore stimato della restituzione in forma specifica. A tale somma può essere aggiunto il
risarcimento del danno: questo deve coprire ogni danno diretto ed immediato, di carattere sia materiale
che morale, includendo dunque, oltre alla perdita patrimoniale che lo Stato leso ha subito (danno
emergente), anche il profitto non conseguito a causa del fatto illecito (lucro cessante), includendo inoltre
eventuali interessi. La determinazione del risarcimento per danno non pecuniario si basa
necessariamente su considerazioni equitative; gli indennizzi per danno morale infatti non hanno e non
devono avere la finalità di fornire una consolazione economica o un arricchimento a spese dello Stato
convenuto. Deve dunque essere considerata estranea al diritto internazionale vigente ogni forma di
risarcimento avente scopo punitivo. La soddisfazione costituisce invece una forma di riparazione dovuta
laddove le altre modalità (in forma specifica o per equivalente) non siano idonee a rimediare all’illecito
commesso dallo Stato. La soddisfazione può consistere sia nel riconoscimento o nella dichiarazione
giudiziale della violazione della norma, sia in espressioni di rincrescimento, in scuse formali o in qualche
altra modalità appropriata (ad es. nel caso Rainbow warrior, il Tribunale arbitrale ordinò che la Francia
desse soddisfazione in due modalità: mediante la pubblicazione della dichiarazione solenne che la
Francia aveva violato i suoi obblighi internazionali e mediante il pagamento di una somma in un fondo
per la promozione di relazioni più strette tra cittadini francesi e neozelandesi). In ogni caso deve
sussistere una proporzione tra offesa e soddisfazione, che non può assumere forme umilianti per lo Stato
tenuto a darla.
 Specifiche conseguenze, aggiuntive rispetto a quelle del sistema generale della responsabilità, derivano
nel caso in cui lo Stato sia venuto meno al rispetto di un obbligo nascente da una norma imperativa di
diritto internazionale generale (ius cogens) e la violazione sia seria, ossia sistematica o di rilevante
importanza. Oltre che a influire sul contenuto della responsabilità dello Stato che le ha violate, tale
situazione comporta l’obbligo per tutti gli Stati di cooperare allo scopo di mettere fine, usando mezzi
legittimi, alla violazione, nonché il divieto di riconoscere come legittima la situazione creatasi per effetto
della violazione e di rendere aiuto o assistenza per il suo mantenimento (ad es. nel parere del 2004 sulle
Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi, la Corte internazionale di
giustizia ha affermato che tutti gli Stati hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale derivante
dalla costruzione del muro nei territori palestinesi occupati; essi hanno altresì l’obbligo di non prestare
aiuto o assistenza al mantenimento della situazione creata da tale costruzione).

LA LEGITTIMAZIONE AD INVOCARE LA RESPONSABILITÀ DELLO STATO


Si tratta ora di individuare lo Stato nei cui confronti gli obblighi di riparazione sono dovuti e che, quindi, è
legittimato a invocarne il rispetto. Principio generale è che tale legittimazione spetta allo Stato leso, ossia
allo Stato nei confronti del quale era dovuto il comportamento prescritto dalla norma violata.
L’individuazione dello Stato leso è invece più complessa nel caso di violazione di una norma, che obbliga ad
un comportamento dovuto nei confronti di un gruppo di Stati. In tal caso, secondo le Commissione del
diritto internazionale, uno Stato potrà essere considerato “Stato leso”, sebbene un comportamento non
fosse specificamente dovuto nei suoi confronti, purché la violazione lo tocchi in modo particolare, o abbia
tale natura da modificare radicalmente la posizione di tutti gli altri Stati nei cui confronti sussisteva l’obbligo
(come avviene in relazione a quei trattati, ad es. in materia di disarmo, in cui l’adempimento di ogni

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contraente è condizionato all’adempimento di tutti gli altri). Se si tratta invece di un obbligo erga omnes
(verso cioè tutta la Comunità internazionale), tutti gli Stati hanno un interesse giuridico alla protezione dei
diritti coinvolti, perciò tutti sono legittimati ad invocare la responsabilità.
Sebbene la responsabilità sorga quale automatico effetto giuridico della commissione dell’illecito, la sua
messa in opera è condizionata ad un’effettiva reazione dello Stato legittimato ad invocarla. Tale invocazione
deve necessariamente consistere in passi formali (una semplice protesta non appare a tal fine sufficiente):
gli Articoli prevedono che lo Stato che intende invocare la responsabilità debba darne comunicazione allo
Stato la cui responsabilità è messa in gioco, e in tale comunicazione deve essere specificata la condotta che
deve essere tenuta per far cessare l’atto illecito. La necessità di una reazione è resa evidente anche dalla
possibilità che il diritto di invocare la responsabilità venga meno: tale situazione si produce se lo Stato leso
vi ha rinunciato o se si può ritenere che esso ha prestato acquiescenza al venire meno della pretesa.

La responsabilità nei confronti del privato  Deve viceversa rilevarsi che gli obblighi nascenti dall’illecito
internazionale sono sempre e soltanto obblighi di soggetti dell’ordinamento giuridico internazionale verso
altri soggetti dello stesso ordinamento. Non vi è responsabilità internazionale dello Stato verso gli individui.

La responsabilità internazionale di soggetti diversi dagli Stati  Sebbene gli Articoli considerino solo la
responsabilità dello Stato, una responsabilità per un atto internazionalmente illecito può insorgere in capo
ad ogni soggetto di diritto internazionale che violi un obbligo internazionale. Possibili destinatari dunque
sono anche le organizzazioni internazionali. La questione della responsabilità delle O.I. è stata fatta oggetto
di studio specifico da parte della Commissione del diritto internazionale per giungere all’elaborazione di un
Progetto di articoli, approvato nel 2011. Questo Progetto si svolge con una struttura largamente
corrispondente a quella del testo degli Articoli sulla responsabilità dello Stato e con contenuti comparabili,
fatte salve alcune peculiarità.

Il problema della responsabilità senza illecito  Si discute da tempo se qualche regime di responsabilità
sia ricollegabile allo svolgimento di attività che, per quanto non costituiscano violazione di norme
internazionali siano idonee a provocare un pregiudizio economico ad altro soggetto. Esempi di tali attività
sono normalmente quelle altamente pericolose (come il lancio di oggetti spaziali) o inquinanti (come lo
sfruttamento dell’energia atomica in centrali nucleari o l’esercizio dell’industria chimica). Sulla possibilità di
configurare un siffatto regime in diritto internazionale generale, sono stati avanzati seri e fondati dubbi, e
pertanto essa appare da escludere (si potrebbe piuttosto ripensare la liceità di certe attività degli Stati).

L’USO DELLA FORZA


L’USO DELLA FORZA: EVOLUZIONE STORICA
Nel diritto internazionale, fino al XIX sec., l’uso della forza, e della forza armata in particolare, veniva
considerato come il mezzo fisiologico tipico della Comunità internazionale per la soluzione delle
controversie. La posizione giuridicamente paritaria degli Stati e l’assenza di un ente capace di imporsi
quale creatore del diritto e regolatore dei conflitti spiegano il diritto degli Stati di ricorrere alla forza armata
anche nella forma più grave: la guerra. In un simile contesto giuridico, si assiste alla creazione di un corpo di
norme che hanno ad oggetto il modo di fare la guerra e il comportamento dei belligeranti: lo ius in bello,
diritto bellico o diritto umanitario (inteso in senso ampio). Diversamente, nell’attuale diritto internazionale
l’impiego della forza è sottoposto a rigide condizioni. L’evoluzione tecnologica e la progressione degli
armamenti infatti fecero della Prima guerra Mondiale un’occasione di riflessione su come la guerra potesse
mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità. In questo clima storico prese corpo il primo
tentativo di abolire il ricorso alla forza armata: la stipulazione del Patto delle Società delle Nazioni (1919);
non si trattò di una rinuncia assoluta alla guerra, quanto piuttosto della stipulazione di un impegno a non
ricorrere in determinati casi alle armi. In termini più espliciti, la rinuncia alla guerra è contenuta nella Carta
delle Nazioni Unite, entrata in vigore nel 1945: in base ad esso, gli Stati stipulanti devono risolvere le loro

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controversie internazionali, in primis, attraverso mezzi pacifici, in modo che la pace, la sicurezza
internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo (art.2 par.3 Carta), mediante cioè negoziati,
inchieste, mediazioni, conciliazioni, arbitrato ecc. L’art.1 della Carta, nell’elencare i fini delle Nazioni Unite,
considera innanzitutto il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; l’obiettivo deve essere
conseguito soprattutto attraverso il divieto (quasi assoluto) di uso della forza da parte degli Stati, previsto
dall’art.2.4 della Carta, secondo cui: i Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla
minaccia o dell’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato,
sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. Il divieto di uso della forza è
espresso in particolare nella Dichiarazione sulle relazioni amichevoli fra gli Stati (1970) e poi ribadito, negli
stessi termini, nella Risoluzione sulla definizione di aggressione (1974). Un ulteriore mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali, non implicanti l’uso della forza, è quello del ricorso ai Tribunali
internazionali specializzanti (come la CEDU o la Corte di giustizia dell’UE) o, in particolare, alla Corte
Internazionale di Giustizia: essa svolge una funzione giurisdizionale, tesa ad emettere sentenze vincolanti
per ciascuno Stato membro dell’ONU, nonché una funzione consultiva, svolta su richiesta del CdS o
dell’Assemblea generale, con la quale può fornire pareri non vincolanti su qualunque questione giuridica.

La nozione di forza vietata


Il divieto di ricorrere all’uso della forza richiede un chiarimento circa la corretta identificazione del
comportamento vietato. Innanzitutto, il divieto non è assoluto: altre norme consentono agli Stati, sia pure
eccezionalmente, di ricorrere alla forza (così è per la legittima difesa). In ogni caso, rientra nella nozione di
“uso vietato della forza” ogni ricorso alla forza armata, non solo la guerra, comprese tutte le ipotesi di
aggressione previste dall’art.3 della Risoluzione dell’AG. Non costituisce invece un’imposizione derivante
dal divieto dell’uso della forza il divieto per gli Stati di applicare misure coercitive economiche, politiche o di
altra natura, ma potrà comunque costituire illecito internazionale sotto altri profili. L’uso vietato della forza
ha assunto inoltre valore di norma internazionale consuetudinaria, costituendo oggi (almeno nel suo nucleo
essenziale) una norma di ius cogens.

Divieto di minaccia dell’uso della forza  La norma non vieta il solo impiego della forza, ma ne proibisce
anche la semplice minaccia, consistente nell’esplicito annuncio dell’impiego della forza delle armi, al
verificarsi o meno di un certo accadimento o ad una certa data (non si esclude che la minaccia possa essere
avanzata implicitamente attraverso comportamenti concludenti). Non integrano tuttavia gli estremi della
minaccia vietata:
- il semplice rafforzamento del proprio potenziale bellico;
- l’esercizio di un diritto;
- la disponibilità a un uso della forza conforme alla Carta ONU.

LE ECCEZIONI AL DIVIETO DI USO DELLA FORZA


Nonostante il carattere prevalentemente assoluto di tale divieto, il diritto internazionale non preclude agli
Stati ogni forma di ricorso alla forza armata. È pacificamente ammessa infatti l’esistenza di diverse
eccezioni, le più importanti: la legittima difesa, gli interventi militari autorizzati, gli interventi con il
consenso dello Stato interessato. Vi è poi un dibattito sull’esistenza di altre due eccezioni, vale a dire
l’intervento umanitario e la responsabilità di proteggere.

1. La legittima difesa
Nell’ordinamento nazionale, la legittima difesa (o autotutela) è oggetto di una previsione di diritto
internazionale generale, come anche è prevista nel sistema della Carta all’art.51, secondo cui nessuna
disposizione può pregiudicare il diritto naturale di autotutela, individuale o collettiva, nel caso che abbia
luogo un attacco armato contro uno Stato, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure

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necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Tanto il diritto consuetudinario quanto
l’art.51 della
Carta subordinano la qualificazione in termini di legittima difesa dell’uso della forza a una serie di
condizioni.
 Innanzitutto, deve aver avuto luogo un attacco armato. La nozione di attacco armato, per quanto non
qualificata dalla Carta, richiede un certo grado di intensità capace di distinguerlo da ipotesi minori di
impiego della forza (dal momento che non ogni ipotesi ne consente l’invocabilità). L’art.3 della
Risoluzione dell’Assemblea generale sulla definizione dell’aggressione fa rientrare sicuramente nella
nozione di attacco armato una serie di ipotesi di aggressione, ad es.: invasione o attacco al territorio di
uno Stato; ogni forma di occupazione militare; bombardamenti; blocco dei porti o delle coste; attacchi
alle forze armate di un altro Stato; l’invio di bande armate o mercenarie. Quest’ultima ipotesi, definita
anche di aggressione indiretta, va distinta dal caso della semplice assistenza a gruppi di ribelli che
agiscono contro lo Stato territoriale, rispetto alla quale la Corte non integra gli estremi dell’attacco
armato.
Al di fuori di tale ipotesi, è dubbio se la legittima difesa possa essere invocata per giustificare interventi
militari in reazione ad un attacco proveniente da gruppi di terroristi che non siano direttamente
controllati dallo Stato verso il cui territorio è diretto l’intervento. Vari paesi, in primis gli Stati Uniti,
rispondono di sì, invocando la c.d. unwilling or unable doctrine, secondo cui gli Stati devono potersi
difendere in conformità con il diritto naturale di legittima difesa previsto dall’art.51 della Carta delle N.U.
Tradizionalmente però gli Stati e le Nazioni Unite hanno mostrato di non condividere il ricorso alla
legittima difesa per giustificare attacchi armati contro Stati vicini ritenuti responsabili di ospitare,
proteggere o comunque cooperare con forze irregolari presenti sul territorio. Il Consiglio di Sicurezza
infatti, in particolare dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, non si è mostrato favorevole a
qualificare tali atti come un attacco armato. Esso, con la risoluzione 1368/2001, si è limitato a
riconoscere il diritto naturale di legittima difesa, individuale o collettiva, a fronte di attacchi terroristici
definiti come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale (tuttavia sussistono dubbi circa la
corrispondenza di tale dottrina all’istituto della legittima difesa).
 Nonostante il silenzio dell’art.51 circa le modalità della reazione all’attacco armato, si ritiene legittima
una risposta che abbia i requisiti della necessità e della proporzionalità (che però non devono essere
intesi in senso eccessivamente formalistico o strettamente fenomenologico). Il requisito della necessità
va correlato all’esigenza di prevenire possibili attacchi futuri (dovendo altrimenti concludersi che la
reazione non è mai necessaria, per il semplice fatto che l’attacco è ormai esaurito). Allo stesso modo, il
requisito della proporzione non può essere inteso in senso assolutamente oggettivo: l’essenziale è che la
reazione abbia la finalità di porre fine e respingere l’attacco nemico e non possieda, invece, finalità
retributive (ad es. in una sentenza, la Corte ha valutato se la distruzione, da parte di forze armate
statunitensi, di due piattaforme petrolifere iraniane fosse qualificabile come reazione proporzionata a
seguito dello scoppio di una mina iraniana che aveva seriamente danneggiato una nave da guerra
americana in acque internazionali; l’esito della Corte è stato che la distruzione delle piattaforme non può
essere considerata come un uso proporzionato della forza nell’ambito del diritto di autotutela).
 Ulteriore requisito cui è subordinata la legittima difesa è quello temporale, con riguardo tanto al
momento iniziale della reazione, quanto al suo momento finale. Sotto il primo profilo, si richiede che la
reazione sia immediata, per quanto si tratti di una condizione da valutare con una certa elasticità (sì che
la reazione non perderà il suo carattere lecito per difetto di immediatezza, se anche intervenga dopo un
tempo apprezzabile dall’inizio dell’attacco armato, perdurando lo stato di occupazione da parte delle
forze nemiche). Con riferimento al momento finale, invece, il diritto di autotutela è concepito come una
fase transitoria, suscettibile di proseguire soltanto fintantoché il CdS non abbia preso le misure
necessarie per mantenere la pace e la sicurezza nazionale.

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Legittima difesa preventiva  Non rientra nell’autotutela ammessa dall’art.51 della Carta la pratica
consistente nell’anticipare la soglia temporale della reazione armata per impedire un attacco armato che si
reputa probabile nell’immediato futuro (legittima difesa preventiva). La norma infatti consente il ricorso alla
legittima difesa solo nel caso che abbia luogo un attacco armato, lasciando così supporre che l’attacco
debba già essere stato sferrato. Nella prassi più recente, gli Stati raramente hanno invocato la legittima
difesa preventiva rispetto ad un attacco sicuro e imminente (anticipatory self-defence), preferendo
giustificare l’azione anticipata ampliando la nozione di attacco armato (così anticipandone la soglia
temporale di inizio). Nettamente rifiutata è stata invece la pre-emptive self-defence, o c.d. dottrina di Bush,
che si rivolgeva nei confronti di una minaccia possibile ma non imminente.

Legittima difesa collettiva  L’art.51 della Carta riconosce il diritto di autotutela non solo in capo allo Stato
che direttamente subisce l’attacco armato (legittima difesa individuale), ma anche in capo agli altri Stati
della Comunità internazionale, nei cui confronti l’attacco non è diretto, ma che egualmente sono legittimati
a reagire, esercitando così il diritto di legittima difesa collettiva. Questa viene ammessa dalla Carta solo in
due casi (alternativamente): a seguito di una richiesta di intervento da parte dello Stato attaccato (richiesta
che deve essere spontanea e autenticamente proveniente dal governo del Paese vittima dell’attacco);
oppure se prevista da un Trattato stipulato tra lo Stato attaccato e gli Stati intervenienti.

2. Consenso dell’avente diritto


Al di fuori della legittima difesa, un’altra causa di giustificazione per l’uso della forza è costituita dal
consenso dell’avente diritto. Lo Stato infatti, titolare della sovranità territoriale, può acconsentirne la
parziale o totale compressione realizzata attraverso l’ingresso nel suo territorio di forze militari straniere.
Affinché il consenso possa giustificare l’uso della forza occorre che esso:
- venga espresso dal governo realmente rappresentativo dello Stato nel cui territorio l’intervengo avrà
luogo
- sia genuino (ovvero non viziato da coercizione)
- non consenta la violazione dello ius cogens.

3. L’intervento umanitario e la responsabilità di proteggere


Occorre poi considerare, quali possibili ulteriori cause di giustificazione dell’uso della forza, l’intervento
umanitario e la responsabilità di proteggere.
In tempi recenti, data la frequente incapacità del CdS di fronteggiare efficacemente le crisi internazionali, è
andato crescendo un dibattito circa l’ammissibilità di un diritto di intervento umanitario in capo agli Stati
singolarmente considerati, per reagire alla massiccia violazione dei diritti umani fondamentali che si verifica
nel territorio di uno Stato terzo. Alla base di questo dibattito si pone il conflitto sempre maggiore tra il
divieto dell’uso della forza e la tutela della sovranità degli Stati, da un lato, e la crescente attenzione del
diritto internazionale alla tutela dei diritti umani, dall’altro. L’esame della prassi, tuttavia, non offre ancora
elementi tali da indurre l’interprete a rilevare con certezza o a negare l’esistenza di un diritto di intervento
umanitario. Oggi l’orientamento prevalente sembra negare la configurazione di una norma consuetudinaria
che legittimi l’uso della forza a scopi umanitari: l’impiego della forza a finalità umanitarie, infatti, è ancora
rimesso alla valutazione del CdS che, peraltro, può essere messo in grado di non intervenire per la contraria
volontà di un Membro permanente. Non è però da escludere che il sistema si stia evolvendo verso la
creazione di una nuova causa di giustificazione, la cui attualità deve però essere ancora negata.
Al di fuori dell’intervento umanitario, una risposta all’esigenza di reagire contro massicce violazioni dei
diritti umani fondamentali è stata ricercata nella dottrina della responsabilità di proteggere. Nella sua
formulazione originaria, tale dottrina poggia sul principio per cui la sovranità degli Stati implica
responsabilità per la protezione della propria popolazione; laddove inoltre una popolazione soffra un serio
pregiudizio, e lo Stato in questione non intenda o non riesca a rimuovere tale situazione, il principio di non
ingerenza cede a favore della responsabilità internazionale di proteggere.

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L’intervento a favore dei cittadini all’estero  Talvolta confuso con l’intervento umanitario è l’intervento
che lo Stato compie nel territorio di un altro Stato per salvare la vita o i diritti fondamentali di propri
cittadini senza il consenso dello Stato territoriale. Prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni unite
si riconosceva l’esistenza di una norma di diritto internazionale generale a favore di tale intervento; oggi,
nonostante alcuni rilievi contrari, la prassi sembra orientata nel senso di ammettere l’intervento a
protezione dei propri cittadini, per quanto esso, secondo altre teorie, non assurgerebbe ad autonoma causa
di giustificazione, essendo piuttosto una più ampia interpretazione della legittima difesa. La prassi consente
comunque di confermare l’esistenza di una causa di giustificazione autonoma, la cui operatività resta
subordinata ad alcune condizioni: attuale pericolo di gravi violazioni a danno di propri cittadini; assenza di
protezione adeguata da parte del sovrano territoriale; proporzionalità dell’intervento all’obiettivo di
protezione del cittadino. La mancanza delle prime due condizioni non consente allo Stato di intervenire,
rimanendo il dovere di protezione esclusivamente allo Stato territoriale; il mancato rispetto del principio di
proporzionalità implica invece la violazione del divieto di cui all’art.2.4 della Carta.

IL RUOLO DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA (CdS)


I poteri del Consiglio di sicurezza, nel quadro del Capitolo VII della Carta, consistono innanzitutto
nell’accertamento dell’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di
aggressione (art.39). In seguito alla constatazione di una delle tre situazioni, il Consiglio può raccomandare
o decidere l’adozione di misure sanzionatorie nei confronti di uno Stato, ma non implicanti l’uso della
forza armata (art.41): queste possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle relazioni
economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio o altre, e la
rottura delle relazioni diplomatiche. Se però tali misure si sono rivelate inidonee al mantenimento o al
ristabilimento della pace, il Consiglio può intraprendere azioni implicanti l’uso della forza armata (art.42).
Le Nazioni Unite hanno elaborato modelli alternativi di intervento per fronteggiare una controversia
internazionale (definita come disaccordo su questioni di fatto o di diritto, o conflitto di interessi giuridici tra
due soggetti).
- Tra questi modelli spiccano le c.d. operazioni di peace-keeping. Esse si caratterizzano per l’obiettivo di
mantenere e consolidare la pace. L’uso delle armi è normalmente vietato, salvo il ricorrere di situazioni
di legittima difesa; esso è inoltre subordinato al consenso dello Stato territoriale, e il suo contegno deve
essere caratterizzato da rigorosa neutralità rispetto alle parti in conflitto (non devono dunque esserci
ostilità in corso).
- Sono state successivamente individuate, secondo un altro criterio classificatorio, operazioni di peace-
building e di peace-enforcement. Le prime fungono da supporto alla ricostruzione della pace e sono
caratterizzate da un mandato che investe, oltre a obiettivi di tipo militare, anche finalità di ordine sociale
e umanitario. Le operazioni di peace-enforcement sono invece dirette al ristabilimento della pace, anche
attraverso l’impiego della forza armata. Esse non richiedono infatti il consenso delle parti, potendo
dunque concretarsi anche in operazioni coercitive, e non impongono la totale assenza di ostilità tra gli
Stati.

IL CONTESTO ITALIANO
L’Italia dedica alla disciplina dell’uso della forza armata l’art.11 Cost.: l’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad
un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il bisogno di pace, percepito
anche a livello internazionale, si traduce nella Costituzione nell’ideale pacifista del ripudio della guerra. Il
divieto di fare guerra non è tuttavia assoluto: è vietata la guerra di aggressione, mentre sono consentiti gli
attacchi per legittima difesa, nonché le operazioni autorizzate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU

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(trattandosi infatti di interventi diretti a mantenere o ristabilire la pace, essi non rispondono ad una logica
di aggressione).

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