prof. Ferrari
26/02/21
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INTRODUZIONE
il diritto internazionale può essere definito come diritto della comunità degli stati. tale
complesso di norme si forma al di sopra dello stato, scaturendo dalla cooperazione con gli altri
stati, e lo stato stesso con proprie norme si impegna a rispettarlo (art. 10 cost.).
la caratteristica più rilevante del diritto internazionale odierno è che esso non regola solo
materie attinenti a rapporti interstatali ma, pur indirizzandosi fondamentalmente agli stati,
tende a disciplinare rapporti che si svolgono all’interno delle varie comunità statali – simili
rapporti interni erano un tempo di quasi esclusiva pertinenza dell‟ordinamento statale, mentre
il diritto internazionale si occupava prevalentemente di materie esterne (immunità
diplomatiche, alleanze, ecc.).
le altre caratteristiche si possono distinguere in: funzione normativa, funzione di accertamento e
funzione di attuazione coattiva.
funzione normativa: occorre qui distinguere tra diritto internazionale generale e diritto
internazionale particolare, cioè tra le norme che si indirizzano a tutti gli stati e quelle che
vincolano una ristretta cerchia di soggetti – di solito quelli che hanno partecipato alla loro
formazione.
alle norme di diritto internazionale generale fa riferimento l‟art. 10 della costituzione
italiana: l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute. si intende dunque come si tratti di norme consuetudinarie,
formatesi nell‟ambito della comunità internazionale attraverso l‟uso – non sono molte.
sebbene esistano anche consuetudini particolari, le tipiche norme di diritto internazionale
particolare sono quelle poste da accordi internazionali che vincolano solo gli stati
contraenti – costituiscono la parte più rilevante del diritto internazionale.
vi sono poi i procedimenti previsti da accordi, che costituiscono fonti di diritto
internazionale particolare e che traggono la loro forza dagli accordi internazionali che li
prevedono, che vincolano solo gli stati aderenti agli accordi stessi.
funzione di accertamento del diritto internazionale: è in prevalenza una funzione di
carattere arbitrale che dunque, come anche nel campo del diritto statale, poggia sull‟accordo
tra le parti a sottoporre una controversia ad un determinato giudice NB non mancano
comunque istanze giurisdizionali istituzionalizzate, ossia tribunali permanenti istituiti da
singoli trattati ed innanzi ai quali gli stati contraenti possono essere citati, ma anche in questi
casi il fondamento della competenza del giudice resta pattizio, nel senso che solo gli stati che
hanno accettato detta competenza possono essere convenuti in giudizio.
funzione di attuazione coattiva delle norme: al contrario di quanto avviene nel diritto
interno, in cui quanto si sta per dire rappresenta un‟eccezione, nel diritto internazionale
l‟autotutela è la regola.
un punto sul quale si è discusso e tanto ancora si discute, riguarda l‟obbligatorietà del diritto
internazionale: il dibattito si incentra sulla mancanza di mezzi idonei a costringere i singoli
stati al rispetto delle norme internazionali. nessuno nega che delle norme si formino al si sopra
dello stato; ciò che si nega è che si tratti di un vero e proprio fenomeno giuridico capace di
imporsi al singolo stato. secondo il Conforti, soluzione al problema dell‟obbligatorietà è
rappresentata dagli operatori giuridici interni che, avendo il compito di applicare e far
rispettare il diritto, possono rendere quello internazionale più o meno obbligatorio – in italia,
come detto precedentemente, l‟art. 10 cost. prevede il rispetto delle norme internazionali
generalmente riconosciute, cui si aggiunge la previsione secondo cui i trattati stipulati dal
nostro stato sono normalmente oggetto di una legge ordinaria che ne ordina l‟applicazione.
possiamo dunque dire che l‟osservanza del diritto internazionale riposa sulla volontà degli
operatori giuridici interni di utilizzare gli strumenti che il diritto statale offre a garanzia della
stessa osservanza.
LO STATO COME SOGGETTO DI DIRITTO INTERNAZIONALE
abbiamo definito il diritto internazionale come diritto della comunità degli stati. ma cos’è lo
stato? si prende innanzitutto in considerazione l‟alternativa stato-comunità e stato-
organizzazione: la prima è la comunità umana stanziata su una parte della superficie terrestre
e sottoposta a leggi che la tengono unita; la seconda è l‟insieme dei governanti (secondo la
teoria generale del diritto). quale delle due concezioni corrisponde alla definizione di stato
nel diritto internazionale? secondo il Conforti si dovrebbe tenere in considerazione la
definizione di stato-organizzazione: è infatti all‟insieme degli organi statali che si ha riguardo
nell‟ambito del diritto in questione, sono gli organi statali che partecipano alla formazione delle
norme internazionali, è agli organi statali che si attaglia il contenuto delle norme materiali
internazionali.
e dunque, se il diritto internazionale si rivolge allo stato-organizzazione, va sottolineato che se
tale organizzazione è presa in considerazione in quanto destinataria delle norme internazionali,
come tale può pretendere che nei suoi confronti queste ultime siano rispettate, ma solo quando
eserciti effettivamente il suo potere su una comunità territoriale – primo requisito dello stato
inteso come stato-organizzazione, destinatario delle norme del diritto internazionale, è dunque
l‟effettività: va pertanto negata la soggettività dei governi in esilio, delle organizzazioni di
liberazione nazionale che abbiano sede in un territorio straniero ed è dubbia anche la
soggettività dei failed states, la cui caratteristica sta proprio nella mancanza di un governo
effettivo.
oltre al requisito dell‟effettività, un altro requisito è da considerare come necessario ai fini della
soggettività internazionale dello stato: l‟indipendenza - dunque occorre che l‟organizzazione di
governo non dipenda da un altro stato. tale requisito va inteso cum grano salis; se infatti lo si
intendesse come assoluta possibilità di determinarsi da sè si giungerebbe alla conclusione che
nessuno stato è soggetto, essendo l‟interdipendenza una delle caratteristiche ad oggi più
marcate nelle relazioni internazionali. secondo il Conforti, infatti, si dovrebbe far leva sul dato
formale: è indipendente e sovrano lo stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza
giuridica da una propria costituzione e non dall‟ordinamento giuridico di un altro stato.
una constatazione a questo punto è fondamentale: l‟organizzazione di governo che eserciti
effettivamente e indipendentemente il proprio potere su una comunità territoriale diviene
soggetto internazionale in modo automatico, senza alcuna necessità di essere riconosciuta come
tale dagli altri stati - la negazione del valore giuridico del riconoscimento respinge pertanto la
tesi che esso sia costitutivo della personalità internazionale.
i requisiti appena visti dell’effettività e dell’indipendenza dello stato affinchè possa essere
considerato soggetto internazionale, sono sufficienti o ne servono altri? limitandoci ai
requisiti che oggi più frequentemente ricorrono, ricordiamo: lo stato nuovo non deve costituire
una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, deve godere del consenso del popolo
espresso attraverso libere elezioni e non deve violare i diritti umani. dunque, possono
effettivamente non considerarsi come soggetti gli stati che tengano comportamenti del genere? a
detta del Conforti la risposta dovrebbe essere negativa, soprattutto in quanto non vi è alcun
riscontro nella realtà: stati che, permanentemente o temporaneamente, minacciano la pace o
sono autoritari o violano i diritti umani non mancano.. ed è pur vero che, secondo principi
generali del diritto internazionale contemporaneo, gli obblighi di uno stato a non minacciare la
pace ed a rispettare i diritti umani, non condizionano ma anzi presuppongono la personalità
giuridica dello stato medesimo.
oltre agli stati cui il diritto internazionale si dirige, esistono altri soggetti di diritto
internazionale? gran parte della dottrina contemporanea parla di una personalità, seppur
limitata, degli individui, persone fisiche o giuridiche. l‟opinione si ricollega strettamente alla
tendenza del diritto internazionale odierno di occuparsi di materie interne alle singole
comunità statali e anche di proteggere l’individuo nei confronti del proprio stato; a ciò si
aggiunga che sempre più spesso l‟individuo può ricorrere, se non vede riconosciuto il proprio
diritto,ad organi internazionali appositamente creati (CEDU, vari organi dell‟ONU, ecc.); vi
sono poi, oltre ai diritti umani, anche comportamenti e interessi individuali che vengono presi
in considerazione da norme internazionali, ma con riferimento ad essi è dubbia la natura di veri
e propri diritti e obblighi internazionali. come concludere dunque questa disputa? non c‟è
dubbio che molte norme internazionali si prestano ad essere interpretate come regole che si
indirizzano direttamente agli individui; è del pari innegabile che la protezione di interessi
individuali comporta in vari cari un potere di azione innanzi a organi internazionali; ma in
realtà, la considerazione degli individui come soggetti del diritto internazionale dipende molto
dall‟importanza che si attribuisce al fatto, anch‟esso innegabile, che l‟individuo non ha la
possibilità di avvalersi direttamente di mezzi coercitivi internazionali per costringere gli stati a
rispettare i suoi diritti e che per questo, forse, non può essere del tutto considerato come
soggetto del diritto internazionale.
resta da chiedersi: sono soggetti gli enti che operano nell’ambito della comunità
internazionale accanto agli stati, in posizione di indipendenza rispetto a questi ultimi? il
Conforti ritiene che sia innegabile, al contrario di quanto avveniva nel passato, la piena
personalità delle organizzazioni internazionali (ossia le associazioni tra gli stati: ONU, unione
europea, ecc.), dotate di organi per il perseguimento degli interessi comuni.
altro ente del tutto indipendente dagli stati e attivo nell‟ambito della comunità internazionale è
la santa sede, la cui personalità si concreta non solo nel potere di concludere accordi
internazionali, ma, data l‟esistenza dello stato città del vaticano, anche in tutte le situazioni
giuridiche che presuppongono il governo di una comunità territoriale.
con la santa sede e le organizzazioni internazionali, la lista dei soggetti internazionali può
ritenersi conclusa.
LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI
DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE
CONSUETUDINE ED ELEMENTI COSTITUTIVI
le norme di diritto internazionale generale, che vincolano cioè tutti gli stati, hanno natura
consuetudinaria. ma cosa deve intendersi per consuetudine internazionale? la nozione di
consuetudine secondo il diritto internazionale, come si ricava da giurisprudenza interna e
internazionale, non differisce dalla nozione di consuetudine elaborata dalla teoria generale del
diritto e utilizzata anche nel diritto interno: la consuetudine internazionale è costituita da un
comportamento costante ed uniforme tenuto dagli stati, dal ripetersi cioè di un dato
comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della necessità del
comportamento stesso.
due sono dunque gli elementi che caratterizzano questa fonte: diuturnitas e opinio juris sive
necessitatis. una simile concezione dualistica non ha però avuto unanimità di consensi in
dottrina: si è infatti sostenuto che la consuetudine sarebbe costituita dalla sola prassi, in quanto
ammettendosi la necessità dell‟opinio juris si arriverebbe inevitabilmente a considerarla nata da
un errore – se nel momento in cui la norma va formandosi lo stato crede che un dato
comportamento sia obbligatorio, cioè richiesto dal diritto, mentre in effetti il diritto non esiste
perchè è in formazione, è evidente che lo stato è in errore. in questa concezione, dunque, l‟opinio
juris non sarebbe uno degli elementi bensì l‟effetto psicologico dell‟esistenza della norma,
presupponendo pertanto che questa si sia già formata.
tuttavia, se si esamina la prassi dei tribunali internazionali si ha la conferma della tesi secondo
cui, nell‟opera delicata di ricostruzione di una consuetudine internazionale, entrambi gli
elementi devono venire in rilievo; tale orientamento è stato poi ribadito dalla corte
internazionale di giustizia, cosi come ad esso è favorevole anche la giurisprudenza interna – e
anche gli stati si sono pronunciati nel senso che l‟opinio juris fosse indispensabile per
l‟esistenza della consuetudine: è sintomatico al riguardo il fatto che molto spesso gli stati, per
evitare che la sola prassi crei diritto, si affrettano a dichiarare che un certo comportamento che
essi intendono tenere è dettato da mere ragioni di cortesia oppure che non può essere
considerato come capace di creare un precedente ai fini della formazione di una norma
consuetudinaria o dell‟abrogazione di una norma preesistente (desuetudine: costante
inosservanza di una norma).
inoltre, non bisogna sopravvalutare l‟obiezione secondo cui, ammettendosi l‟opinio juris, la
consuetudine riposerebbe sull‟errore: si è infatti sempre parlato di opinio juris sive necessitatis
(convincimento spontaneo dell’obbligatorietà di una condotta o della necessità che lo sia). in
questo modo l‟obbligatorietà si confonde con la necessità, cioè con la doverosità sociale: almeno
nel momento iniziale di formazione della consuetudine il comportamento non è tanto sentito
come giuridicamente dovuto, ma come socialmente dovuto. e a questo si aggiunge la
constatazione secondo cui se non si facesse leva sull‟opinio juris sive necessitatis, mancherebbe la
possibilità di distinguere il mero uso dalla consuetudine produttiva di norme giuridiche. e se a
ciò si è obiettato che la distinzione riposerebbe su altri elementi e in particolare sul fatto che il
mero uso consisterebbe in comportamenti poco importanti dal punto di vista sociale, si può
contro-obiettare che certi usi dettati da motivi di cortesia non rivestono affatto detta
caratteristica (della poca importanza da un punto di vista sociale) e che se non si concretano in
consuetudini giuridiche lo si deve proprio e soltanto alla circostanza che gli stati non sono
convinti della loro obbligatorietà.
oltre alle norme consuetudinarie generali si afferma di solito l‟esistenza di consuetudini
particolari, cioè vincolanti una ristretta cerchia di stati. la figura della consuetudine particolare
è certamente da ammettersi e la sua applicazione più rilevante è fornita dal diritto non scritto
che può formarsi a modifica o abrogazione delle regole poste da un determinato trattato: è
possibile dunque, come avviene soprattutto nel caso di trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali, che le parti contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo
tempo pattuite.
PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO RICONOSCIUTI DALLE NAZIONI CIVILI
esistono norme di diritto internazionale generale diverse da quelle consuetudinarie? l‟art. 38
dello statuto della corte di giustizia annovera tra le fonti i principi generali di diritto
riconosciuti dalle nazioni civili. secondo l‟interpretazione che comunemente si dà all‟articolo in
questione e argomentando dal fatto che detti principi sono indicati nell‟articolo al terzo posto,
dopo gli accordi e le consuetudini, si tratterebbe di una fonte utilizzabile laddove manchino
norme pattizie o consuetudinarie applicabili al caso concreto.
il tema del valore dei principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili nel sistema
delle fonti internazionali ha suscitato vaste polemiche e varietà di opinioni in dottrina fin dalla
costituzione della corte permanente di giustizia internazionale il cui statuto aveva una norma in
tutto e per tutto simile a quella dell‟art. 38 dello statuto dell‟attuale corte: c‟era infatti chi negava
che i principi generali potessero essere considerati come norme giuridiche internazionali, chi si
limitava a sottolinearne la funzione integratrice del diritto internazionale senza specificare su
quale fondamento ciò potesse avvenire, fino ad arrivare, attraverso posizioni intermedie, a chi li
poneva al primo grado della gerarchia delle fonti, al di sopra della consuetudine o
dell‟accordo. si discuteva poi se tali principi appartengano al diritto statale, internazionale o al
diritto tout court.
obiettivamente non è facile orientarsi nella materia, ma senza dubbio ogni ordinamento
giuridico ammette il ricorso ai principi generali in mancanza di norme specifiche e non si vede
perchè lo stesso non debba ammettersi nell‟ambito dell‟ordinamento internazionale; anche se
qui il problema nasce nel momento in cui i principi non sono ricavati dalle stesse norme
internazionali, ma prelevati dagli ordinamenti degli stati civili. e dunque: quali tra i principi
generali più o meno seguiti in tutti gli ordinamenti sono applicabili a titolo di norme
generali dell’ordinamento internazionale? secondo il parere del Conforti, due sono le
condizioni che debbono sussistere perchè principi statali possano essere applicati a titolo di
principi generali di diritto internazionale: devono esistere ed essere uniformemente applicati
nella maggior parte degli stati (diuturnitas) e, soprattutto, devono essere sentiti come
obbligatori o necessari anche dal punto di vista internazionale (opinio juris sive necessitatis).
cosi intesi, i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili non costituiscono altro
che una categoria sui generis di norme consuetudinarie internazionali.
NORME GENERALI SCRITTE
l‟art. 13 della carta delle nazioni unite prevede che l‟assemblea generale intraprenda studi e
faccia raccomandazioni per incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la
sua codificazione. sulla base di questa disposizione l‟assemblea costituì, nel 1947, la
commissione di diritto internazionale delle nazioni unite: composta da esperti che vi siedono
a titolo personale, ha il compito di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle
norme consuetudinarie relative a determinate materie, procedendo a studi, inviando
questionari agli stati, raccogliendo dati della prassi e predisponendo in tal modo progetti di
convenzioni multilaterali internazionali che poi di solito vengono adottati ed infine ratificati
dagli stati stessi.
la commissione del diritto internazionale non è, comunque, l‟unico organismo in seno al quale
si predispongono progetti di accordi di codificazione; l‟assemblea generale delle nazioni unite
ha infatti spesso seguito altre strade: in alcuni casi ha convocato conferenze di stati in seno alle
quali il progetto è stato anche redatto, altre volte la redazione del progetto è stata affidata ad
organi sussidiari dell’assemblea, ecc.
sorge a questo punto una domanda: dal momento in cui gli accordi di codificazione, in quanto
comuni accordi internazionali, vincolano gli stati contraenti, può dirsi comunque che essi, in
quanto si propongono di codificare il diritto in generale, hanno valore anche per gli stati non
contraenti? secondo il Conforti, sebbene sia fuori dubbio la grande importanza del contributo
che, con l‟opera di codificazione, le nazioni unite danno all‟affermazione del diritto nell‟ambito
della comunità internazionale, occorre essere molto cauti nel considerare gli accordi di
codificazione come corrispondenti al diritto consuetudinario generale e quindi nell‟estenderli
agli stati non contraenti. e questo per vari motivi, tra cui il più importante è l‟indebita illimitata
fiducia nell‟opera di codificazione nella quale spesso influisce la mentalità dell‟interprete e
dunque, in questo caso, di coloro che fanno parte della commissione.
possiamo dunque affermare che gli accordi di codificazione vanno considerati alla stregua dei
normali accordi internazionali e quindi vincolano solo le parti contraenti. e se è vero che
l‟accordo di codificazione costituisce un valido punto di partenza per l‟interprete che deve
ricostruire le norme generali consuetudinarie nella materia disciplinata dall‟accordo medesimo,
è pur vero che l‟interprete dovrà compiere un‟ulteriore verifica nel senso di dimostrare che le
norme contenute nell‟accordo corrispondono alla prassi degli stati; sarà solo a seguito dell‟esito
positivo di questa verifica che eventualmente la norma dell‟accordo di codificazione potrà
essere considerata norma di diritto generale.
un altro tema è poi importante in questo ambito: ammesso che l‟accordo di codificazione
corrisponda perfettamente al diritto internazionale consuetudinario al momento della sua
redazione, è possibile che in epoca successiva il diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti
per effetto della mutata pratica degli stati. cosa è previsto in questi casi? bisogna in realtà dire
che una simile eventualità è scarsamente presa in considerazione dagli accordi di codificazione,
che normalmente sono stipulati per una durata illimitata e solo alcuni di essi prevedono che dei
procedimenti per la revisione delle proprie norme possano essere messi in moto dagli stati
contraenti. qual è, dunque, il valore di una norma che, pur essendo contenuta in un accordo
di codificazione ancora in vigore, non corrisponde più al diritto internazionale generale?
nessun dubbio può sorgere circa l‟inapplicabilità di una simile norma agli stati non
contraenti; per quanto riguarda gli stati contraenti, invece, c‟è da dire che dal momento in cui
consuetudini e accordi internazionali sono in linea di principio tra loro derogabili, nulla vieta
che il diritto consuetudinario successivo abroghi quello pattizio anteriore.
DIRITTO INTERNAZIONALE PARTICOLARE
TRATTATI: PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE E COMPETENZA A STIPULARE
l‟accordo rappresenta la fonte delle norme internazionali particolari. la natura dell‟atto è quella
propria degli atti contrattuali: l‟accordo internazionale può essere definito come l‟incontro delle
volontà di due o più stati, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti che li riguardano.
i trattati, come tutte le fonti di norme giuridiche, possono dar vita a regole materiali, cioè a
norme che direttamente disciplinano i rapporti tra i destinatari imponendo obblighi o
attribuendo diritti, o a regole formali, cioè a norme che si limitano ad istituire fonti per la
creazione di ulteriori norme - tra gli accordi che istituiscono fonti acquistano oggi grande
importanza i trattati costitutivi di organizzazioni internazionali che, oltre a disciplinare
direttamente certi rapporti tra gli stati membri, demandano in più o meno larga misura agli
organi sociali la produzione di norme ulteriori.
come i contratti nel diritto interno sottostanno alla legge, cosi i trattati internazionali
sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di
formazione nonchè i requisiti di validità e di efficacia – tale complesso di regole forma il c.d.
diritto dei trattati, cui è dedicata una delle grandi convenzioni di codificazione promosse dalle
nazioni unite ed elaborate dalla commissione di diritto internazionale: la convenzione di vienna
del 1969 sul diritto dei trattati, in vigore dal 1980 e ratificata anche dall‟italia.
come si arriva alla conclusione o stipulazione di un accordo? è opinione universalmente
seguita che il diritto internazionale lasci la più ampia libertà in materia di forma e di
procedura per la stipulazione e che quindi un accordo possa risultare da ogni genere di
manifestazione di volontà degli stati purchè di identico contenuto e purchè dirette ad obbligarli.
l‟accordo può quindi realizzarsi istantaneamente oppure aversi al termine di una serie di
procedure, può essere scritto oppure orale, può essere consegnato in un documento ad hoc
oppure risultare dal processo verbale di un organo internazionale o dallo scambio di note
diplomatiche, ecc. carattere tassativo non ha del resto neppure l‟elencazione dei modi di
stipulazione contenuta nella convenzione di vienna, che tra l‟altro è limitata agli accordi
conclusi per iscritto.
ciò premesso, ancora oggi il procedimento normale, o meglio solenne, di formazione del trattato
ricalca quello già seguito alcuni secoli fa all‟epoca delle monarchie assolute, quando la
stipulazione del trattato era materia di competenza esclusiva del capo dello stato: veniva infatti
negoziato dai rappresentanti del sovrano (c.d. plenipotenziari: titolari di pieni poteri), che
predisponevano il testo dell’accordo e lo sottoscrivevano; seguiva poi la ratifica da parte del
sovrano, con la quale questi accertava se i plenipotenziari si fossero effettivamente attenuti al
mandato ricevuto; occorreva infine, perchè il trattato si formasse, che la volontà ultima del
sovrano fosse portata a conoscenza delle controparti mediante scambio delle ratifiche.
le fasi descritte di negoziazione, firma, ratifica e scambio delle ratifiche, sono ancora in uso nella
prassi internazionale nonostante sia venuta meno la posizione di preminenza del capo dello
stato.
1. fase della negoziazione: è tanto più complessa quanto più numerosi sono gli stati che
partecipano alla negoziazione medesima e quanto più è importante la materia da regolare.
secondo una prassi sempre più seguita nell‟ambito delle conferenze internazionali per
quanto concerne l‟adozione del testo, la vecchia regola dell‟unanimità va cedendo il passo al
principio di maggioranza; talvolta le due regole si combinano, come avviene quando si
prevede che la votazione a maggioranza abbia luogo solo dopo che sia stato compiuto ogni
sforzo per giungere ad un‟adozione concordata.
2. firma: rappresenta la fase conclusiva del negoziato e viene effettuata dai plenipotenziari.
NB nel procedimento normale, o solenne, la firma non comporta ancora alcun vincolo per gli
stati: ha fini di autenticazione del testo che è cosi predisposto in forma definitiva e potrà
quindi subire modifiche solo in seguito all‟apertura di nuovi negoziati.
3. ratifica: fase in cui lo stato manifesta di volersi impegnare. la competenza a ratificare è
disciplinata da ogni singolo stato con proprie norme costituzionali. da un punto di vista
comparativo e con ampia approssimazione, può dirsi che la ratifica rientri tutt‟ora nelle
attribuzioni del capo dello stato, ma che la competenza di quest‟organo, quando non si
riduca addirittura ad una competenza a dichiarare la volontà di altri organi, concorra sia con
quella del potere esecutivo sia, per ampie categorie di trattati, con quella degli organi
legislativi. per quanto riguarda l’ordinamento italiano l’art. 87 comma 8 cost. dispone che il
presidente della repubblica ratifica i trattati internazionali previa, quando occorra, autorizzazione delle
camere; a sua volta l’art. 80 cost. specifica che l’autorizzazione delle camere è necessaria, e va data con
legge, quando si tratti di trattati che hanno natura politica o prevedono regolamenti giudiziari o
comportano variazioni del territorio nazionale od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. le due
norme vanno poi combinare con la regola dell’art. 89 cost. secondo cui nessun atto del presidente
della repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la
responsabilità.
4. scambio delle ratifiche: rappresenta la conclusione dell’accordo, che può definirsi anche a
seguito del deposito delle ratifiche. nel caso dello scambio l‟accordo si perfeziona
istantaneamente; nel caso del deposito, che è la procedura normalmente adottata per i
trattati multilaterali, via via che le ratifiche vengono depositate, l‟accordo si forma tra gli
stati depositanti – anche se di solito si prevede nel testo del trattato che quest‟ultimo non
entri in vigore, neppure tra gli stati depositanti, finchè non si raggiunga un certo numero di
ratifiche.
abbiamo detto che questo appena descritto rappresenta il procedimento normale o solenne; può
anche darsi però che gli stati, avvalendosi dell‟ampia libertà di cui godono nella materia,
seguano un procedimento diverso. le procedure alternative possono distinguersi a seconda che
sfocino comunque nella ratifica e quindi non si discostino sostanzialmente dal procedimento
normale, oppure si caratterizzino per un differente modo di manifestazione della volontà da
parte degli stati:
procedure che sfociano comunque nella ratifica: sono caratterizzate dalle numerose
variazioni che nella prassi subiscono le fasi dei negoziati e della firma: per quanto riguarda la
modifica della fase della negoziazione, per molti trattati predisposti da organizzazioni
internazionali, alla negoziazione diretta si sostituisce la discussione e l’approvazione da
parte di un organo dell’organizzazione; per quanto riguarda invece la modifica della firma,
negli accordi multilaterali questa viene differita nel tempo: il testo del trattato, una volta
redatto dai plenipotenziari, è aperto alla firma e alla ratifica degli stati cosi che questi
possono, ciascuno nell‟epoca che gli fa più comodo, prima firmare e poi provvedere al
deposito della ratifica.
procedure caratterizzati da un differente modo di manifestazione della volontà: occorre
richiamare l‟attenzione sul fenomeno dei c.d. accordi in forma semplificata che, secondo una
definizione corrente, sono quelli conclusi con la sola sottoscrizione del testo da parte del
rappresentante dello stato; essendo questa la condizione, è ovvio che si abbia quando, dal
testo stesso o dal comportamento concludente delle parti, risulti che le medesime abbiano
inteso attribuire alla firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà.
sorgono poi alcune questioni inerenti l‟eventuale incompetenza dell’organo che stipula
l‟accordo o la violazione di forme o procedure previste dal diritto interno: deve ritenersi,
almeno in presenza di certe circostanze, che il trattato sia egualmente valido, oppure bisogna
concludere che la volontà dello stato, essendo viziata per il diritto interno, lo è anche per il
diritto internazionale? con quali conseguenze? la maggior parte degli scrittori che si sono
occupati dell‟argomento concordano, in presenza di una prassi internazionale incerta e
contraddittoria, nell‟escludere soluzioni radicali sia in senso internazionalistico, sia in senso
internistico: si esclude dunque, da un lato, che per il diritto internazionale i trattati stipulati
dall‟organo incompetente o in violazione di forme o procedure previste dal diritto interno,
siano in ogni caso validi; e si esclude, dall‟altro, che qualunque vizio, anche solo formale, possa
inficiare la validità internazionale dell‟accordo. la soluzione è fornita dall‟art. 46 della
convenzione di vienna del 1969, che stabilisce: il fatto che il consenso di uno stato ad essere
vincolato da un trattato sia stato espresso in violazione di una regola del suo diritto interno
sulla competenza a stipulare trattati non può essere invocato da tale stato come vizio del suo
consenso a meno che la violazione non sia manifesta e non concerna una regola del suo diritto
interno di importanza fondamentale. una violazione è manifesta se è obiettivamente evidente
per qualsiasi stato che si comporti in materia secondo la prassi abituale e in buona fede.
nell‟ambito dell‟ordinamento italiano si pone poi la questione se anche le regioni possano
concludere accordi internazionali. la corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su ricorsi
per conflitto di attribuzione con il governo centrale, prese in un primo tempo una posizione
drastica in senso antiregionalistico affermando in linea di principio l‟incompetenza degli
organi regionali in tema di formulazione di accordi con soggetti propri di altri ordinamenti,
compito spettante nel nostro sistema costituzionale esclusivamente agli organi dello stato
sovrano. la materia venne poi regolata dall‟art. 4 del dpr 616/1977, che riservava allo stato le
funzioni relative ai rapporti internazionali nelle materie trasferite e delegate alle regioni e che
faceva divieto alle regioni di svolgere attività promozionali all‟estero senza il preventivo
assenso governativo. dopo tale intervento legislativo la corte costituzionale tornò altre volte
sull‟argomento: capovolgendo il primitivo orientamento, sostenne che le regioni, procuratosi il
previo assenso del governo centrale ai sensi dell‟art. 4 del dpr 616/1977, potessero stipulare non
solo intese di rilievo internazionale, ma addirittura accordi in senso proprio, tali da impegnare
la responsabilità dello stato e purchè si trattasse di accordi riguardanti materie di competenza
regionale e non rientranti nelle categorie previste dall‟art. 80 cost. (trattati che hanno natura
politica o prevedono regolamenti giudiziari o comportano variazioni del territorio nazionale
od oneri alle finanze o modificazioni di leggi).
inefficacia dei trattati nei confronti degli stati terzi
le norme pattizie si distinguono dalle norme di diritto internazionale generale proprio perchè
valgono solo per gli stati che le pongono in essere. per il trattato internazionale vale ciò che si
dice per il contratto di diritto interno: esso fa legge tra le parti e solo tra le parti. dunque, diritti e
obblighi per terzi stati non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche
forma di partecipazione dei terzi stati al trattato medesimo – che avviene ad esempio quando il
trattato sia aperto: condizione che prevede la possibilità che stati diversi dai contraenti originari
partecipino a pieno titolo all‟accordo mediante una loro dichiarazione di volontà. può invece
darsi che una simile clausola di adesione manchi o che comunque non venga in rilievo la
piena e formale partecipazione di uno stato ad una convenzione già conclusa da altri, ma solo
la possibilità che singoli diritti a suo favore o singoli obblighi a suo carico discendano dalla
convenzione medesima: anche in questo caso dovrà dimostrarsi che diritti ed obblighi siano in
qualche modo accettati dallo stato terzo e che l‟eventualità dell‟accettazione sia, anche
implicitamente, prevista nel testo dell’accordo. fuori da simili ipotesi non potrà che applicarsi
il principio dell‟inefficacia dei trattati nei confronti degli stati non contraenti.
tra l‟altro, anche la convenzione di vienna del 1969 sul diritto dei trattati si conforma in linea di
massima al principio dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi e alla conseguente
regola per cui una qualche forma di accordo è necessaria perchè il terzo benefici di veri e
propri diritti o sia colpito da obblighi. l‟art. 34 sancisce, come regola generale, che un trattato
non crea obblighi o diritti per un terzo stato senza il suo consenso; l‟art. 35 specifica che un
obbligo può derivare da una disposizione di un trattato a carico di un terzo stato se le parti
contraenti del trattato intendono creare tale obbligo e se lo stato accetta espressamente per
iscritto l’obbligo medesimo; l‟art. 36 prevede a sua volta che un diritto possa nascere a favore di
uno stato terzo solo se questo vi consenta, ma aggiunge che il consenso si presume finchè non
vi siano indicazioni contrarie e sempre che il trattato non disponga altrimenti.
premesso l‟ovvio principio che un trattato può essere modificato o abrogato, in modo espresso o
implicito, da un trattato concluso in epoca successiva tra gli stessi contraenti, che cosa succede
se i contraenti dell’uno e dell’altro trattato coincidono solo in parte? può infatti darsi che uno
stato si impegni mediante accordo a tenere un certo comportamento e poi, con un accordo con
stati diversi, si obblighi a tenere il comportamento contrario. come ci si deve regolare? la
soluzione non può che discendere dalla combinazione di due principi: successione dei trattati
nel tempo e inefficacia dei trattati per i terzi. dunque, tra gli stati contraenti di entrambi i
trattati, il successivo prevale; nei confronti degli stati che siano parti di uno solo dei due trattati
restano invece integri, nonostante l’incompatibilità, tutti gli obblighi che da ciascuno di essi
derivano - poco credito riscuotono invece i tentativi diretti a ricostruire principi ad hoc che
regolino la materia dell‟incompatibilità in modo diverso da quanto risulta combinano i principi
di successione e inefficacia nei confronti dei terzi. ed in effetti da tale soluzione accolta non si
discosta la convenzione di vienna del 1969 sul diritto dei trattati: l‟art. 30 infatti, dopo aver
sancito la regola che tra due trattati conclusi tra le medesime parti il trattato anteriore si
applica solo nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato
posteriore, stabilisce: quando le parti del trattato anteriore non sono tutte parti contraenti del
trattato posteriore: a) nelle relazioni tra gli stati che partecipano ad entrambi i trattati, la
regola applicabile è quella di cui sopra (successione dei trattati nel tempo); b) nelle relazioni
tra uno stato partecipante ad entrambi i trattati ed uno solo dei trattati medesimi, il trattato
di cui i due stati sono parti regola i loro diritti ed obblighi reciproci.
le riserve nei trattati
sul tema delle riserve nei trattati vi è stata, a partire dal secondo dopoguerra, una sensibile
evoluzione della prassi internazionale di cui vi è ampia traccia negli articoli che la convenzione
di vienna dedica alla materia; ma la stessa convenzione di vienna è stata superata dalla prassi
successiva. ciò ha spinto la commissione di diritto internazionale a riprendere nel 1995 lo studio
della materia, sia pure dichiarando di voler assumere le norme della convenzione di vienna
come base di partenza della nuova opera di codificazione.
la riserva indica la volontà dello stato di non accettare certe clausole del trattato o di accettarle
con talune modifiche, cosicchè tra lo stato autore della riserva e gli altri stati contraenti
l‟accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva laddove il trattato resta
integralmente applicabile tra gli altri stati.
nell‟ambito della riserva troviamo anche la dichiarazione interpretativa, che mira a specificare
o a chiarire il senso o lo scopo attribuito dal dichiarante al trattato o ad alcune sue disposizioni.
la dichiarazione può essere condizionata o incondizionata: è condizionata quando lo stato
dichiara che intende vincolarsi al trattato solo se questo, o alcune sue clausole, sono
interpretati in un certo modo; è incondizionata se tale intento non risulta. dunque, la
dichiarazione condizionata equivale ad una riserva, mentre quella incondizionata è solo una
proposta che mira a salvaguardare una posizione giuridica, ad evitare il consolidarsi di una
prassi, ovvero a consolidarla, o ancora ad inaugurarla.
sia le riserve che le dichiarazioni interpretative hanno senso nei trattati multilaterali, soprattutto
in quelli stipulati da un numero rilevante di stati - nei trattati bilaterali lo stato che non vuole
assumere certi impegni o vuole formulare dichiarazioni interpretative non ha che da proporre
alla controparte di escluderli dal testo.
secondo il diritto internazionale classico la possibilità di apporre riserve doveva essere
tassativamente concordata nella fase della negoziazione e doveva quindi figurare nel testo del
trattato predisposto dai plenipotenziari; in mancanza, si riteneva che uno stato non avesse altra
alternativa che quella di ratificare o meno il trattato. due erano i modi attraverso i quali si
prevedeva la possibilità di apporre riserve: o i singoli stati dichiaravano al momento della
negoziazione di non voler accettare alcune clausole e quindi nel testo del trattato si faceva
menzione di tale riserva; oppure il testo prevedeva genericamente la facoltà di apporre riserve
al momento della ratifica o dell‟adesione ed in tale momento ciascuno stato decideva se
avvalersi o meno di una simile facoltà.
qual è la situazione oggi? come detto precedentemente si è verificata una notevole evoluzione
nella disciplina dell‟istituto al fine di renderlo più duttile e idoneo allo scopo di facilitare la
partecipazione degli stati agli accordi multilaterali – ciò anche se i due modi classici sopra
indicati sopravvivono. una tappa fondamentale in questa evoluzione fu segnata dal parere della
corte internazionale di giustizia a seguito della richiesta effettuata dall‟assemblea generale delle
nazioni unite avente ad oggetto la convenzione sulla repressione del genocidio: l‟assemblea
chiedeva alla corte se, non prevedendo la convenzione in discorso la facoltà di apporre riserve,
gli stati potessero ugualmente procedere alla formulazione di riserve al momento della ratifica.
nel rispondere la corte affermò un principio che da alcuni fu considerato rivoluzionario ma che
ancora ad oggi è consolidato solo come principio consuetudinario: una riserva può essere
formulata all‟atto della ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo
del trattato purchè sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. e comunque, un altro
stato contraente può contestare la riserva e può ritenere che il trattato non entri in vigore nei
suoi rapporti con lo stato autore della riserva – previsioni riprese dalla convenzione di vienna
agli artt. 19 e 20. dopo la convenzione di vienna la disciplina continuò ad evolversi e la prassi
internazionale successiva ha previsto la possibilità che uno stato formuli riserve in un momento
successivo rispetto a quello in cui ha ratificato il trattato; possibilità prevista purchè nessuna
delle altre parti contraenti sollevi obiezioni entro un termine fissato inizialmente in novanta
giorni e ad oggi di dodici mesi in seguito alle proteste degli stati per la sua brevità.
ma la tendenza innovatrice più significativa rispetto al diritto internazionale classico, al parere
della corte di giustizia internazionale e alla convenzione di vienna, è quella che riguarda le
conseguenza della accertata invalidità della riserva e in particolare quando questa sia esclusa
dal testo del trattato o contraria all‟oggetto e allo scopo dello stesso. secondo tale tendenza, se lo
stato formula una riserva invalida, questa non comporta l’estraneità dello stato rispetto al
trattato, ma la sola invalidità della riserva, che dovrà dunque ritenersi come non apposta.
abbiamo detto precedentemente che alla ratifica del trattato partecipano il capo dello stato in
concorrenza con il potere esecutivo e legislativo. in questi casi, può darsi che l‟apposizione di
una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri: cosa succede se il governo non tiene
conto di una riserva decisa dal parlamento o formula una riserva che il parlamento non ha
voluto? la reciproca delimitazione dei poteri tra l‟esecutivo e il legislativo in ordine alla
formulazione delle riserve dipendono dal sistema costituzionale vigente in ciascuno stato. per
limitarci al sistema italiano la prassi ora citata ha dato luogo a contrastanti giudizi dottrinali,
per cui alcuni si è sostenuto che il governo possa o non possa formulare riserve non previste
dalla legge di autorizzazione. chi sostiene che il governo possa agire “autonomamente” si ispira
dichiaratamente al fatto che il governo sia, almeno in linea principale e come si ricava dalla
prassi, il gestore dei rapporti internazionali; chi sostiene al contrario che il governo sia legato
alla legge di autorizzazione prevista dal parlamento, muove dalla necessità che la
collaborazione tra governo e parlamento voluta dall’art. 80 cost. sia effettiva, ma non è
sempre chiaro quale significato si dia all‟affermazione che il governo non possa aggiungere
riserve. secondo il parere del Conforti il problema si risolve solo se si tiene ben presente la
distinzione tra formazione e manifestazione della volontà dello stato da un lato e responsabilità
del governo di fronte al parlamento dall‟altro:
formazione e manifestazione della volontà dello stato: non c‟è dubbio che una riserva sia
valida sia che essa venga formulata autonomamente dal parlamento, sia che essa venga
formulata autonomamente dal governo. nell‟uno e nell‟altro caso, infatti, dovendo
concorrere ai fini della stipulazione del trattato la volontà di entrambi gli organi, è giocoforza
tenere conto del fatto che uno degli organi non vuole una parte dell‟accordo e arrivare cosi
alla conclusione che la manifestazione di volontà dello stato si forma solo per la parte residua
– unica alternativa ad una conclusione del genere sarebbe quella di ritenere che il mancato
concorso di volontà dei due organi sulla riserva renda invalida l‟intera manifestazione di
volontà dello stato; tesi che però appare poco credibile.
responsabilità del governo di fronte al parlamento: se il governo decide di discostarsi in tema
di riserve da quanto deliberato dal parlamento, se la decisione è presa prima che il
parlamento sia informato e se non si tratta di riserve dal contenuto del tutto tecnico, vi è
certamente materia perchè scattino i meccanismi di controllo del parlamento sull‟operato
dell‟esecutivo.
con riferimento ai riflessi internazionalistici della questione in esame, è chiaro che per il
diritto internazionale non presenta alcun interesse il profilo della responsabilità del governo,
ma solo quello della formazione della volontà dello stato: la riserva aggiunta dal governo e
dichiarata all‟atto del deposito della ratifica, essendo valida per il diritto costituzionale, lo sarà
anche per il diritto internazionale.
interpretazione dei trattati
la tendenza che oggi può dirsi prevalente in materia è nel senso dell‟abbandono del c.d.
metodo subbiettivistico: metodo in base al quale si renderebbe in tutti i casi e ad ogni costo
necessaria una ricerca della volontà effettiva delle parti come contrapposta alla volontà
dichiarata. si ritiene invece che, per regola generale, debba applicarsi il c.d. metodo
obiettivistico che consiste nell‟attribuire al trattato il senso che è fatto palese dal suo testo, che
risulta dai rapporti di connessione logica intercorrenti tra le varie parti del testo, che si
armonizza con l‟oggetto e la funzione dell‟atto desumibili dal testo stesso.
a favore del metodo obiettivistico si pronuncia anche la convenzione di vienna che regola
l‟interpretazione agli artt. 31-33:
art. 31: un trattato deve essere interpretato in buona fede secondo il significato ordinario da
attribuirsi ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce dell’oggetto e dello scopo del
trattato medesimo.
occorre tener conto anche del contesto in cui il trattato si situa, ossia degli altri accordi o
strumenti posti in essere dalle parti in occasione della conclusione del trattato.
occorre altresi tener conto di accordi successivi o di prassi seguite dalle parti
nell‟interpretazione o applicazione del trattato, nonchè di qualsiasi regola pertinente di
diritto internazionale applicabile tra le parti.
unica eccezione di rilievo alla regola generale è la seguente: a un termine del trattato può
attribuirsi un significato particolare se è certo che tale era l’intenzione delle parti.
art. 32: considera i lavori preparatori, momento nel quale si raccoglie la volontà effettiva
delle parti, come mezzo supplementare di integrazione da usarsi quando l‟esame del testo
lascia il senso ambiguo od oscuro oppure porta ad un risultato manifestamente assurdo o
irragionevole.
art. 33: si occupa del caso dei trattati redatti in più lingue, tutte ugualmente ufficiali,
stabilendo che se la comparazione tra i vari testi rivela una differenza di significato,
ineliminabile attraverso gli strumenti interpretativi di cui agli artt. 31 e 32 e se non è previsto
che un testo prevalga sugli altri, va adottato il significato che, tenuto conto dell’oggetto e
dello scopo del trattato, concilia meglio detti testi.
accanto poi al metodo obiettivistico valgono per l‟interpretazione dei trattati internazionali
quelle regole che la teoria generale ha elaborato con riguardo all‟interpretazione delle norme
giuridiche in genere e che possono considerarsi come vigenti più o meno in tutti gli
ordinamenti: regole sull‟interpretazione restrittiva o estensiva, regola per cui tra più
interpretazioni egualmente possibili occorre scegliere quella più favorevole alla parte più
onerata o al contraente più debole, ecc.
un particolare accento va posso sulla possibilità che l‟interprete ricorra ad un‟interpretazione
estensiva di un trattato o analogica. a tal proposito la corte suprema degli stati uniti d‟america
aveva elaborato la teoria dei poteri impliciti per estendere le competenze dello stato federale a
scapito delle competenze degli stati membri: ogni organo disporrebbe non solo dei poteri
espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri non espressi ma
comunque necessari per l‟esercizio dei poteri espressi. tale teoria si colloca all‟estremo opposto
rispetto alla vecchia tendenza all‟interpretazione restrittiva dei trattati internazionali in quanto
strumenti limitativi della sovranità degli stati; appare tuttavia eccessiva: occorre infatti essere
molto cauti nel trasferire sul piano del diritto internazionale dottrine particolari al diritto
costituzionale interno. in particolare, con riferimento alla teoria dei poteri impliciti, possiamo
dire che può essere utilizzata qualora serva per garantire ad un organo il pieno esercizio delle
funzioni che il trattato istitutivo dell‟organizzazione gli assegna; dilatarla oltre misura sarebbe
cosa non solo poco giustificabile dal punto di vista giuridico, ma anche suscettibile di risultare
controproducente dal punto di vista politico.
in ultimo, affrontiamo la questione dell‟interpretazione unilateralistica che la convenzione di
vienna sembra escludere. cos‟è? l‟interpretazione unilateralistica è un tipo di interpretazione
secondo cui una norma può assumere significati differenti a seconda dello stato contraente al
quale o all‟interno del quale tale norma deve essere applicata. due regole della convenzione
sono significative al riguardo, peraltro già analizzate in precedenza: l‟art. 31, secondo cui,
nell‟interpretare un trattato, occorre anche tenere conto delle norme internazionali in vigore
tra le parti; l‟art. 33 che, nel caso di testi non concordanti redatti in più lingue ufficiali, impone
un‟interpretazione che comunque concili tutti i testi – rifiutando cosi la vecchia tesi secondo
cui per ciascuno stato varrebbe il testo redatto nella sua lingua.
la successione degli stati nei trattati
il problema della successione degli stati nei trattati può impostarsi cosi: quando uno stato si
sostituisce ad un altro nel governo di un territorio, è vincolato dai trattati stipulati dal suo
predecessore e in vigore in quel territorio?
la sostituzione può avvenire per le cause e nei modi più vari: può darsi che una parte del
territorio di uno stato passi, per effetto di cessione o conquista, sotto la sovranità di un altro
stato già esistente, oppure si costituisca in stato indipendente; può darsi invece che il
cambiamento di sovranità riguardi l‟intero territorio dello stato, e cioè che l’intera comunità
territoriale sia incorporata o si fonda con un altro stato oppure si smembri e dia luogo a più
stati nuovi. e dunque: una volta verificatosi un cambiamento di sovranità, i diritti e gli obblighi
internazionali che facevano capo al predecessore, passano allo stato subentrante o si
estinguono? alla successione degli stati rispetto ai trattati è dedicata una convenzione di
codificazione, predisposta dalla commissione di diritto internazionale e firmata a vienna nel
1978, ma non ha avuto molta fortuna: è stata infatti ratificata soltanto da 22 stati, tra cui non
figura l‟italia e per questo la sua corrispondenza al diritto consuetudinario non può darsi
neppure per presunta.
un principio può dirsi pacifico nella dottrina e nella prassi in materia di successione ed è anche
enunciato nella convenzione del 1978: lo stato, in qualsiasi modo si sostituisce ad un altro nel
governo di una comunità territoriale, è vincolato nei trattati c.d. localizzabili, che cioè
riguardano l‟uso di determinate parti di territorio, conclusi dal predecessore. la successione nei
trattati localizzabili incontra tuttavia un limite: a norma del principio rebus sic stantibus, un
trattato o clausole di esso si estinguono se mutano in modo radicale le circostanze esistenti al
momento della conclusione.
passando ora a considerare i trattati non localizzabili, ossia la maggior parte dei trattati, qual è
la loro sorte in seguito al mutamento di sovranità? la risposta non è semplice sia perchè la prassi
è stata ed è tutt‟ora confusa, sia perchè sempre più spesso la successione nei trattati del
predecessore è regolata mediante accordi tra lo stato subentrante e le altre parti contraenti dei
precedenti trattati. secondo il Conforti, d‟accordo con la maggioranza della dottrina, la regola
fondamentale da assumere come punto di partenza in questi casi è la c.d. regola della tabula
rasa: lo stato che subentra nel governo di un territorio non è, in linea di principio e salvi alcuni
temperamenti ed eccezioni, vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore – la prassi è
tendenzialmente orientata in senso contrario alla successione.
esaminiamo ora le singole ipotesi di mutamento di sovranità assumendo come punto di
partenza la regola della tabula rasa nei trattati non localizzabili:
distacco, nel cui caso possono verificarsi due ipotesi:
distacco e cessione/conquista: la parte di territorio distaccata si aggiunge al territorio di
un altro stato preesistente. in questo caso gli accordi vigenti nello stato che subisce il
distacco cessano di aver vigore con riguardo al territorio distaccatosi, cui si estendono in
modo automatico gli accordi vigenti nello stato che acquista il territorio: mobilità delle
frontiere dei trattati, regola enunciata anche dalla convenzione del 1978 √
distacco e secessione: sulla parte di territorio distaccatasi si formano uno o più stati nuovi.
in questo caso gli accordi vigenti nello stato che subisce il distacco cessano di aver ragione
con riguardo al territorio che acquista l’indipendenza. la prassi si è sempre generalmente
orientata in tal senso: gli stati nuovi hanno in ogni tempo preteso ed il più spesso ottenuto
l‟applicazione del principio della tabula rasa sia che fossero ex colonie sia che non lo
fossero; la convenzione del 1978, invece, accoglie il principio della tabula rasa solo per i
territori coloniali staccatisi dalle potenze detentrici ed enuncia il principio della continuità
dei trattati per tutte le altre ipotesi di secessione ×
smembramento: mentre la secessione non implica l‟estinzione dello stato che la subisce, la
caratteristica dello smembramento sta proprio nel fatto che uno stato si estingue e sul suo
territorio si formano due o più stati nuovi. poichè nell‟una e nell‟altra ipotesi si verifica una
divisione del territorio dello stato e della popolazione che vi risiede, l‟unico criterio idoneo a
distinguere le due ipotesi è quello della continuità o meno dell‟organizzazione di governo
preesistente: l‟ipotesi dello smembramento è da ammettere ogni qualvolta nessuno degli stati
residui abbia, sia pure approssimativamente, la stessa organizzazione di governo dello stato
preesistente.
ai fini della successione lo smembramento è da assimilare al distacco: agli stati nuovi
formatisi sul territorio dello stato smembrato è applicabile il principio della tabula rasa,
temperato però dalla regola che, per i trattati multilaterali aperti, prevede la facoltà di
procedere ad una notificazione di successione. la convenzione del 1978, al contrario, prevede
l‟applicazione del principio della continuità dei trattati sia con riferimento ai trattati non
localizzabili in questione, sia con riferimenti ai trattati multilaterali aperti ×
incorporazione e fusione: la prima si ha quando uno stato, estinguendosi, passa a far parte di
un altro stato; la seconda quando due o più stati si estinguono tutti e danno vita ad uno stato
nuovo. anche qui, come nel caso di smembramento-secessione, il criterio di distinzione non
può che riferirsi all‟organizzazione di governo: si ha incorporazione ogni qualvolta vi sia
continuità tra l‟organizzazione di governo di uno degli stati preesistenti e l‟organizzazione di
governo che risulta dall‟unificazione.
in entrambe le ipotesi si applica il principio della mobilità delle frontiere dei trattati: i
trattati dello stato che si estingue cessano di aver vigore, mentre al territorio incorporato si
estendono i trattati dello stato incorporante (tabula rasa). la convenzione del 1978, anche in
questo caso, si discosta dal diritto consuetudinario prevedendo invece la continuità dei
trattati ×
un problema di successione nei trattati si pone anche nel caso in cui si verifichi un mutamento
di governo nell’ambito di una comunità statale, senza che il territorio dello stato subisca
ampliamenti o diminuzioni. in particolare, quando il mutamento avviene per vie extralegali
(colpo di stato) ed un regime radicalmente diverso si instaura, deve ritenersi che muti la
persona di diritto internazionale. qual è la sorte dei trattati stipulati dal vecchio governo? la
prassi sembra orientata ad affermare una successione del nuovo governo nei diritti e negli
obblighi contratti dal predecessore, eccezion fatta per i trattati incompatibili con il nuovo
regime in applicazione del principio rebus sic stantibus: i trattati si estinguono se mutano in
modo radicale le circostanze esistenti al momento della loro conclusione.
e cosa avviene con riferimento alla successione nel debito pubblico? nel caso in cui il debito
non sia stato contratto dal predecessore nell‟ambito del proprio diritto interno, ma abbia
formato oggetto di un accordo internazionale concluso con un altro stato o con
un‟organizzazione internazionale, il principio generale è quello della tabula rasa, salvi i debiti
localizzabili, ossia quelli contratti con esclusivo riguardo al territorio oggetto del cambiamento
di sovranità. deve però riconoscersi che anche per i debiti non localizzabili la prassi più recente
è nel senso di un‟equa ripartizione concordata tra gli stati sorti dallo smembramento e tra questi
stati ed i soggetti creditori.
cause di invalidità e di estinzione dei trattati
varie cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali sono analoghe a quelle
proprie dei contratti e, più in generale, dei negozi giuridici del diritto interno. la loro disciplina
è prevista non solo e non tanto da norme consuetudinarie ad hoc, quanto da quella particolare
categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali di diritto.
tra le cause di invalidità possiamo ricordare i classici vizi della volontà: errore essenziale, cioè
l‟errore circa un fatto o una situazione che lo stato supponeva esistente al momento in cui il
trattato è stato concluso e che costituiva una base essenziale del consenso di questo stato; dolo
e violenza fisica o morale esercitata sull‟organo stipulante. a proposito di quest‟ultima causa di
invalidità: può considerarsi come tale anche la violenza esercitata sullo stato nel suo complesso
e quindi quella particolare forma di violenza che si concreta nella minaccia o nell‟uso della
forza? la convenzione di vienna dà risposta positiva al quesito, stabilendo all‟art. 52 che è nullo
qualsiasi trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’uso della forza in
violazione dei principi del diritto internazionale incorporati nella carta delle nazioni unite – è
bene precisare che quando si parla di violenza sullo stato come causa di invalidità dell‟accordo
si ha riguardo alla minaccia o all‟uso della forza armata; non vi sono elementi della prassi che
autorizzano a ricomprendere sotto la nozione di violenza pressioni di altro genere, siano essere
economiche o politiche.
come cause di estinzione ricordiamo invece l‟avverarsi della condizione risolutiva, la scadenza
del termine finale, la denuncia o il recesso, l‟inadempimento della controparte, la
sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione e l‟abrogazione totale o parziale. ulteriore causa
di estinzione degli accordi internazionali viene poi in considerazione la c.d. clausola rec sic
stantibus: il trattato si estingue in tutto o in parte per il mutamento delle circostanze di fatto
esistenti al momento della stipulazione, purchè si tratti di circostanze senza le quali i contraenti
non si sarebbero indotti al trattato o ad una sua parte.
si discute se sia causa di estinzione dei trattati la guerra, tema del quale la convenzione di
vienna non si occupa. è ovvio che gli accordi conclusi dagli stati belligeranti prima della guerra
non trovino applicazione finchè durano le ostilità, ma qual è la loro sorte una volta ripristinato
lo stato di pace? dopo la guerra i trattati rimangono sospesi finchè le parti non decidono sulla
loro sorte oppure si estinguono? il problema si pose in italia alla fine della seconda guerra
mondiale e la soluzione fu data in maniera soltanto parziale dall‟art. 44 del trattato di pace del
1947: le potenze vincitrici avrebbero notificato all‟italia, entro sei mesi dall‟entrata in vigore del
trattato, quali accordi bilaterali intendessero mantenere in vigore o far rivivere e che gli accordi
non notificati sarebbero stati considerati come abrogati. non viene quindi considerata la
questione inerente ai rapporti multilaterali, nè quella riferita al tempo tra la fine della guerra e
l‟epoca della notifica. la regola classica era inizialmente nel senso dell‟estinzione, ma si è
affievolita nel corso degli ultimi anni e la prassi si è sempre più orientata a favore di eccezioni:
si nega l‟effetto estintivo e il perdurare di quello sospensivo della guerra in ordine ai trattati
multilaterali; si manifesta la tendenza a considerare estinte soltanto quelle convenzioni che, per
loro natura, per la materia di cui si occupano e per gli interessi che tutelano, siano incompatibili
con lo stato di guerra. in questo modo, si nota, si nega l‟autonomia della disciplina degli effetti
della guerra e si riporta la materia al principio rec sic stantibus: si dovrà dunque verificare di
volta in volta se la guerra abbia determinato un mutamento radicale delle circostanze esistenti
al momento della conclusione del trattato.
quando si verifica una causa di estinzione o di invalidità di un trattato, è necessario un
formale atto di denuncia oppure opera automaticamente? l‟eventuale denuncia è sufficiente a
liberare lo stato che la compie oppure bisogna considerare le reazioni degli altri contraenti? vi
sono cause che operano automaticamente, ma per la maggior parte, siano esse di invalidità o di
estinzione, la discussione è ancora aperta: c‟è chi propende per l‟automaticità, chi sostiene che
sia sempre necessario un atto di denuncia notificato agli altri stati contraenti, chi afferma che in
caso di obiezione di questi ultimi il trattato resta in vigore finchè la causa non sia accertata in
modo imparziale, ecc. non è chiaro poi se vi sia e quale sia, per coloro che non ammettono
l‟automaticità, un criterio idoneo a distinguere le cause ad effetto automatico dalle altre, anche
se, sentito il timore di legittimare gli abusi e di avallare scioglimenti unilaterali ed arbitrali, si
pensa di orientarsi in modo empirico e quindi escludendo l‟automaticità quando la causa
consista in fatti difficili da provare o di dubbia interpretazione.
vediamo ora la procedura prevista dalla convenzione di vienna per far valere l‟invalidità o
l‟estinzione di un trattato: lo stato che invoca un vizio del consenso o altro motivo riconosciuto
dalla convenzione come causa di estinzione o di invalidità deve notificare per iscritto la sua
pretesa alle altre parti contraenti del trattato in questione; se trascorso un termine che non può
essere inferiore a tre mesi salvo il caso di particolare urgenza, non vengono manifestate
obiezioni, lo stato può definitivamente dichiarare, con un atto comunicato alle altre parti e
sottoscritto dal capo dello stato o dal capo del governo o dal ministro degli esteri o comunque
da persona munita di pieni poteri, che il trattato è da ritenersi invalido o estinto. se invece
delle obiezioni vengono sollevate, lo stato che intende sciogliersi e la parte o le parti obbiettanti
devono ricercare una soluzione della controversia con mezzi pacifici quali negoziati,
conciliazione, arbitrato, ecc.; la soluzione deve intervenire entro dodici mesi. trascorso
inutilmente tale termine ciascuna parte può mettere in moto una complicata procedura
conciliativa che fa capo ad una commissione formata nell‟ambito delle nazioni unite e che non
sfocia però in una decisione obbligatoria ma solo in un rapporto avente mero valore di
esortazione.
non è detto nella convenzione cosa succede se il rapporto della commissione di conciliazione,
che eventualmente si pronunci per l’invalidità o l’estinzione del trattato, venga respinto dalla
o dalle parti controinteressate. a seguire autorevole parere la pretesa all‟invalidità o
all‟estinzione resta, in tal caso e per fondatissima che sia, paralizzata in perpetuo. conseguenza
ovviamente molto grave, ma che trae origine da un preciso e deciso schieramento della maggior
parte degli stati in seno alla conferenza di vienna contro la predisposizione di un sistema di
arbitrato obbligatorio.
IL FENOMENO DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
i trattati contengono non solo regole materiali, che disciplinano direttamente i rapporti tra i
destinatari imponendo obblighi o attribuendo diritti, ma anche regole formali, che si limitano
ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme. l‟esempio più importante in materia è oggi
fornito dal settore dell‟organizzazione internazionale: in tutti i casi in cui un‟organizzazione
internazionale è abilitata dal trattato che le dà vita (e che costituisce il suo statuto) ad emanare
decisioni vincolanti per gli stati membri, si è in presenza di una fonte prevista da accordo.
esaminiamo dunque le maggiori organizzazioni internazionali esistenti, ma partiamo da un
rilievo preliminare: gli stati, anche quelli che ufficialmente si dichiarano favorevoli ad un
potenziamento delle organizzazioni internazionali, sono ancora oggi restii, nella sostanza, a
dotarle di effettivi poteri vincolanti e a limitare conseguentemente la propria sovranità - il
numero delle organizzazioni esistenti è impressionante, ma solo alcune di esse e neanche in
tutti i casi, dispongono di un vero e proprio potere decisionale.
generalmente parlando il loro compito non è quello di emanare norme, quanto quello di
facilitare la collaborazione tra gli stati membri. ne deriva che l‟attività delle organizzazioni si
svolge molto spesso in una fase che ha scarso valore giuridico, consistendo nella mera
predisposizione di progetti di convenzione che gli stati membri sono poi liberi di tradurre o
meno in norme giuridiche attraverso la ratifica delle convenzioni medesime; altra attività è
costituita dall‟emanazione di raccomandazioni, cioè di atti che hanno valore di esortazione e
che come tali non vincolano gli stati cui si indirizzano.
NAZIONI UNITE
l‟organizzazione delle nazioni unite fu fondata dopo la seconda guerra mondiale dagli stati che
avevano combattuto contro le potenze dell‟asse e prese il posto della disciolta società delle
nazioni. la conferenza di san francisco nel 1945 ne elaborò la carta che venne ratificata dagli stati
fondatori; successivamente, secondo il procedimento di ammissione previsto dall‟art. 4, ne sono
via via divenuti membri quasi tutti gli stati del mondo.
l‟art. 7 considera come organi principali:
assemblea generale:
di importanza fondamentale
competenza: molto vasta; coincide con la competenza dell‟intera organizzazione
poteri: quasi nessuno vincolante
membri: rappresentanti di tutti gli stati con pari diritto di voto – esprimono dunque la
volontà del proprio stato
consiglio di sicurezza:
di importanza fondamentale
competenza: mantenimento della pace e sicurezza internazionale. per l‟importanza delle
materie di cui si occupa è l‟organo di maggior rilievo nell‟ambito dell‟organizzazione
poteri: in alcuni casi vincolanti
membri: rappresentanti di 15 stati – esprimono dunque la volontà del proprio stato. in
particolare: 5 membri sono a titolo permanente e con diritto di veto (diritto di impedire col
loro voto negativo l‟adozione di qualsiasi delibera che non abbia mero carattere
procedurale); gli altri 10 sono eletti per un biennio dall‟assemblea
consiglio economico e sociale:
membri: rappresentanti degli stati eletti dall‟assemblea per tre anni – esprimono dunque
la volontà del proprio stato
posizione subordinata rispetto all’assemblea generale: è tenuto a seguirne le direttive ed
in certi casi il suo compito si limita alla preparazione di atti
consiglio di amministrazione fiduciaria:
ha posizione subordinata rispetto all’assemblea generale in quanto è tenuto a seguirne le
direttive ed in certi casi il suo compito si limita alla preparazione di atti
membri: rappresentanti degli stati – esprimono dunque la volontà del proprio stato
corte internazionale di giustizia:
membri: 15 giudici – individui che assumono l’ufficio a titolo puramente individuale,
senza manifestare la volontà di alcuno stato e senza ricevere, anzi con l’obbligo di non
ricevere, istruzioni da alcun governo
funzioni:
dirimere le controversie tra stati
consultiva: può dare pareri su qualsiasi questione giuridica all‟assemblea generale o al
consiglio di sicurezza, oppure ad altri organi su autorizzazione dell‟assemblea. tali
pareri non sono però obbligatori nè vincolanti, non essendo alcun organo obbligato a
chiederli o a conformarvisi dopo averli richiesti
segretariato:
il segretario generale che ne è a capo è nominato dall‟assemblea su proposta del consiglio
di sicurezza - assume l’ufficio a titolo puramente individuale, senza manifestare la
volontà di alcuno stato e senza ricevere, anzi con l’obbligo di non ricevere, istruzioni da
alcun governo
organo esecutivo dell‟organizzazione.
gli scopi e la competenza dell‟organizzazione sono quanto mai ampi se non indeterminati; è
più facile indicare le materie di cui l‟organizzazione non può occuparsi che quelle oggetto delle
sue competenze. assume rilievo a tal riguardo la norma dell‟art. 2 della carta delle nazioni unite
in base alla quale l‟organizzazione non deve intervenire in questioni che appartengono
essenzialmente alla competenza interno di uno stato.
l‟ampiezza e l‟indeterminatezza dei fini appare dall‟elencazione che ne fa l‟art. 1, sulla base
della quale possono comunque individuarsi tre grandi settori di competenza dell‟ONU:
mantenimento della pace
sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli stati
collaborazione in campo economico, sociale, culturale ed umanitario.
quali sono i rari casi di decisioni vincolanti dell’ONU, che dunque possono considerarsi
come fonti? per quanto concerne l‟assemblea generale, un caso molto importante tra quelli
previsti dalla carta è dato dall‟art. 17, che attribuisce all‟assemblea il potere di ripartire tra gli
stati membri le spesse dell’organizzazione – ripartizione che, approvata a maggioranza di 2/3,
vincola tutti gli stati. a tale caso deve aggiungersi quello della competenza dell‟assemblea a
decidere circa modalità e tempi per la concessione dell’indipendenza ai territori sotto
dominio coloniale – tale competenza non trova il suo fondamento nella carta, ma in una norma
consuetudinaria che deve ritenersi formata nell‟ambito della stessa organizzazione.
per quanto riguarda invece il consiglio di sicurezza, le decisioni vincolanti sono previste
dall‟art. 39 e ss. della carta, il cui nucleo centrale è costituito dagli artt. 41 e 42: il primo
attribuisce al consiglio il potere di decidere quali misure non implicanti l’uso della forza
armata debbano essere adottate dagli stati membri contro uno stato che minacci o abbia
violato la pace (es. interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle
comunicazioni ferroviarie, aeree, ecc. o la rottura delle relazioni diplomatiche); l‟art. 42 prevede
invece, al contrario, che quando le misure di cui all‟art. 41 risultino inadeguate, il consiglio può
intraprendere azioni di tipo bellico contro uno stato.
ISTITUTI SPECIALIZZATI DELLE NAZIONI UNITE
in campo economico e sociale opera tutta una serie di organizzazioni internazionali sia a
carattere universale che a carattere regionale. un gran numero di organizzazioni universali
assumono il nome di istituti specializzati delle nazioni unite in quanto collegate con queste
ultime di cui subiscono un certo potere di coordinamento e di controllo. si tratta però di
organizzazioni autonome, sorte da trattati distinti dalla carta delle nazioni unite ed i cui membri
solo in linea di massima coincidono con i membri dell‟ONU.
il collegamento tra ciascun istituto specializzato e le nazioni unite nasce da un accordo che le
due organizzazioni stipulano; ad oggi il contenuto di ogni accordo di collegamento si è più o
meno conformato ad uno schema tipico, fissato nel 1946 in occasione delle convenzioni concluse
dall‟ONU con l‟ILO (organizzazione internazionale del lavoro), l‟UNESCO (organizzazione
delle nazioni unite per l‟educazione, la scienza e la cultura) e la FAO (organizzazione per
l‟alimentazione e l‟agricoltura): scambio di rappresentanti, osservatori, documenti, il ricorso a
consultazioni in caso di necessità, il coordinamento dei rispettivi servizi tecnici, l‟impegno
dell‟istituzione specializzata di prendere almeno in esame le raccomandazioni dell‟ONU, ecc.
ma l‟importanza dell‟accordo di collegamento sta soprattutto nella conseguente applicabilità
delle norme della carta che si occupano degli istituti e che, come detto, li sottopongono, entro
certi limiti, al potere di coordinamento e controllo dell‟ONU: l‟art. 17 dà all‟assemblea generale
il potere di esaminare i bilanci amministrativi degli istituti al fine di fare loro delle
raccomandazioni; l‟art. 58 abilita l‟assemblea e il consiglio economico e sociale ad emanare
raccomandazioni al fine di coordinare i programmi e le attività degli istituti specializzati;
l‟art. 64 attribuisce invece al consiglio economico e sociale la facoltà di richiedere agli istituti dei
rapporti regolari.
anche gli istituti specializzati, come le nazioni unite, emanano di solito raccomandazioni
oppure predispongono progetti di convenzione quindi esauriscono la loro attività in una fase
che ha scarso rilievo giuridico; tuttavia in alcuni casi emanano, a maggioranza, decisioni
vincolanti per gli stati membri o che comunque li vincolano se non manifestano entro un certo
periodo di tempo la volontà di ripudiarle. sono quest‟ultime le decisioni da inquadrare tra le
fonti previste da accordo.
vediamo di seguito un quadro degli istituti specializzati esistenti al fine di capire quali di essi
emettono atti vincolanti per gli stati membri – e dunque atti classificabili come fonti di norme
internazionali:
ILO (organizzazione internazionale del lavoro): le funzioni più importanti consistono
nell‟emanazione di raccomandazioni e nella predisposizione di progetti di convenzioni
multilaterale in materia di lavoro. questi ultimi vengono comunicati agli stati membri, poi
liberi di ratificarli o meno, ma comunque con l‟obbligo di sottoporli entro un certo termine
agli organi competenti per la ratifica.
UNESCO (organizzazione delle nazioni unite per l‟educazione, la scienza e la cultura): anche
i progetti di convenzione di questo istituto, come quelli del precedente, devono essere
sottoposti entro un certo periodo di tempo dallo stato membro agli organi competenti per la
ratifica, salva sempre la libertà di procedere o meno a quest’ultima.
ICAO (organizzazione per l‟aviazione civile internazionale): i poteri che le vengono conferiti
autorizzano il consiglio ad emanare, sottoforma di allegati alla convenzione, una serie di
disposizioni che, adottati a maggioranza di 2/3, entrano in vigore per tutti gli stati membri
dopo tre mesi dalla loro adozione se nel frattempo la maggioranza degli stessi non abbia
notificato la propria disapprovazione.
OMS (organizzazione mondiale della sanità): dispone di un certo potere vincolante nei
confronti degli stati membri. a norma dell‟art. 21 dell‟atto costitutivo, l‟assemblea può
emanare, a maggioranza di 2/3, regolamenti tecnici nelle materie di sua competenza: detti
regolamenti entrano in vigore per tutti gli stati membri eccettuati quelli che, entro un certo
periodo di tempo, comunicano il loro dissenso.
ITU (unione internazionale delle telecomunicazioni): le revisioni periodiche dei regolamenti
amministrativi, adottati a maggioranza semplice, vincolano tutti gli stati membri salvo che
questi non manifestino la loro opposizione al momento dell‟adozione o entro un certo
termine dopo l‟adozione.
o organismi tecnici internazionali: operano nel campo della tutela dell‟ambiente e della
conservazione delle risorse. non sono delle vere e proprie organizzazioni distinte dagli stati
membri, non creano un insieme permanente di organi, ma i trattati che li prevedono
demandano loro un certo potere normativo. tale potere consiste nell‟adozione di
emendamenti al trattato istitutivo, che necessitano di ratifica dei singoli stati per entrare in
vigore, ma anche, quando si tratti di materie tecniche, nell‟adozione, a maggioranza
qualificata, di decisioni vincolanti per tutti gli stati contraenti.
UNIONE EUROPEA
nel 1951 fu creata, con il trattato di parigi, la prima comunità europea del carbone e
dell‟acciaio, cui fecero seguito, pochi anni dopo, la comunità economica europea e la comunità
europea dell‟energia atomica. si trattò di un‟iniziativa senza precedenti mirante all‟integrazione
economica tra gli stati membri come premessa di un’integrazione politica.
già all‟epoca della loro costituzione le comunità si presentarono come organizzazioni
internazionali sui generis, dotate di ampi poteri vincolanti nei confronti degli stati membri.
modifiche di rilievo sono state poi apportate ai trattati istitutivi da vari trattati successive, fino
ad arrivare al trattato di lisbona del 2009.
il trattato di lisbona ha decretato l‟estinzione della comunità europea e la costituzione di un
solo soggetto: l‟unione europea, composta da 27 stati (a seguito del recesso effettuato dal regno
unito nel 2020) e la cui vita viene regolata dal trattato sull‟unione europea (TUE) e dal trattato
sul funzionamento dell‟unione europea (TFUE) che riproducono molte norme del trattato della
comunità europea con lievi e sostanziali modifiche.
TFUE: ha assorbito scopi e norme del trattato della comunità europea; tra queste, esistenti
fin dall‟origine della comunità, ricordiamo le norme sulla libera circolazione delle merci,
delle persone, dei servizi, dei capitali, sulla libertà di concorrenza, ecc.
già vari trattati, prima di quello di lisbona, avevano introdotto novità, modifiche ed
estensioni delle competenze degli organi, tutte intese a rafforzare l‟integrazione. tra queste
ricordiamo il rafforzamento delle funzioni del parlamento europeo, la creazione di una
cittadinanza dell’unione, l‟introduzione di un’unione economica e monetaria, la previsione
di una cooperazione rafforzata al fine di limitare ad alcuni stati membri un‟integrazione più
stretta, ecc. – a questo ultimo ambito vanno ricondotti i trattati di schengen, firmati nel 1985,
che hanno soppresso i controlli sulle persone alle frontiere.
TUE: attribuisce forza vincolante alla carta di nizza, carta contenente una serie molto ampia
di diritti umani sia pure limitatamente alla materia, fondamentalmente economica, del diritto
dell‟unione europea; dichiara di voler offrire ai cittadini dell‟unione uno spazio di libertà,
sicurezza e giustizia; contiene una serie di principi ispirati alle democrazie ed altre
dichiarazioni ricche di promesse di azione per rafforzare l’unione tra gli stati membri.
ciò premesso, non bisogna farsi eccessive illusioni sul futuro prossimo dell‟integrazione
europea: da un lato la maggior parte delle norme dei due trattati sono elastiche, generiche e
programmatiche, dunque non applicabili finchè gli organi dell’unione non le mettono in
pratica con i loro atti; dall‟altro non mancano stati che remano contro o comunque non
vogliono impegnarsi fino in fondo, come testimonia la massa di dichiarazioni che
accompagnano il trattato. in ogni caso, l‟azione degli organi deve rispettare i principi di
attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità: l‟unione può agire soltanto nei limiti delle
competenze che le sono attribuite; può intervenire, nelle materie che non sono di sua esclusiva
competenza, solo se gli obiettivi della sua azione non sono perseguibili in misura sufficiente
dagli stati membri; nella scelta dei contenuti e della forma della sua azione, deve limitarsi a
quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi fissati dal trattato.
la natura giuridica dell’unione europea è molto dibattuta: si tratta di una vera e propria
organizzazione internazionale oppure di un embrione di stato federale? senza dubbio l‟UE
presenta elementi che non si riscontrano in alcuna altra organizzazione internazionale, come
gli ampi poteri decisionali attribuiti ai suoi organi, la sua sostituzione agli stati membri nella
disciplina di molti rapporti puramente interni a questi ultimi; senza dubbio tra i principi
comunitari ve ne sono alcuni che sono propri del vincolo federale, come la prevalenza del
diritto comunitario sul diritto interno; ma nonostante questo l‟unione nel suo complesso resta
un‟organizzazione internazionale seppur altamente sofisticata.
con riferimento poi alla struttura istituzionale:
consiglio europeo:
membri: capi di stato e di governo dei paesi membri, presidente della commissione e
presidente del consiglio stesso
poteri: non ha funzioni legislative, ma da all’unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e
ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali (art. 15 TUE)
commissione:
membri: 27 individui (e non stati). le persone che la compongono siedono quindi a titolo
personale, non ricevono istruzioni da alcun governo e hanno anzi l‟obbligo di non
riceverne. la presenza di un organo del genere è un altro elemento che differenzia l‟UE da
altre organizzazioni internazionali nelle quali gli organi detentori dei poteri principali
sono di solito organi composti da stati di cui seguono le istruzioni
poteri: esecutivi e di iniziativa legislativa nei confronti del consiglio e del parlamento
consiglio dell‟unione europea:
membri: rappresentanti degli stati; presieduto a turno da ciascun membro per la durata di
sei mesi
poteri: adotta, congiuntamente al parlamento, gli atti più importanti della legislazione
comunitaria
parlamento europeo:
membri: rappresentanti dei popoli degli stati membri, eletti a suffragio universale e
diretto
poteri:
funzione legislativa insieme al consiglio dell‟unione europea, svolta secondo una
procedura ordinaria: se non vi è accordo vi è una navetta tra i due organi che può
protrarsi per vari mesi; navetta alla fine della quale l‟atto legislativo deve essere
approvato dal parlamento a maggioranza semplice dei voti espressi e dal consiglio a
maggioranza qualificata. in caso contrario decade (art. 294 TFUE) – a tale procedura
ordinaria si contrappongono una serie di procedure speciali che vedono come
legislatore principale in pochissimi casi il parlamento e nei restanti il consiglio
dell‟unione europea
funzione di controllo politico sulle altre istituzioni comunitarie, esercitata attraverso
l‟esame dei rapporti che gli altri organi sono tenuti a sottoporgli, l‟istituzione di
commissioni d‟inchiesta, ecc.
funzione consultiva vincolante nei confronti di alcuni atti del consiglio dell‟unione
europea, in particolare in materia di ammissione di nuovi stati e di conclusione di
accordi internazionali
corte dei conti:
membri: 27 persone che vi siedono a titolo individuale, nominate dal consiglio in modo
che ognuna abbia la cittadinanza di uno stato membro
poteri: funzione di controllo su tutte le entrate e le spese dell‟unione
corte di giustizia: veglia sul rispetto del diritto dell’unione, ha una serie di competenze
nuove e può essere adita anche dagli individui
banca centrale europea: insieme alle banche centrali nazionali costituisce il sistema europeo
di banche centrali, che persegue l‟obiettivo del mantenimento della stabilità dei prezzi e
sostiene le politiche economiche generali dell’unione.
per quel che riguarda l‟attività legislativa, l‟art. 288 TFUE prevede i seguenti atti vincolanti e
dunque classificabili tra le fonti di norme internazionali:
regolamento: atto legislativo più importante e completo attraverso il quale la legislazione
dell‟unione si sostituisce o si sovrappone alla legislazione interna dei singoli stati membri.
il regolamento ha portata generale. è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente
applicabile in ciascuno degli stati membri.
decisione: differisce dal regolamento perchè non ha portata generale e astratta, ma concreta.
può dunque indirizzarsi sia ad uno stato membro che ad un individuo o ad un’impresa
operante nel territorio dell‟unione.
direttiva: è, tra gli atti legislativi vincolanti, il più problematico. mentre i regolamenti e le
decisioni sono obbligatori in tutti i loro elementi, la direttiva vincola lo stato membro cui è
rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli
organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. appare chiaro dunque che la direttiva
dovrebbe limitarsi all‟enunciazione di principi e criteri generali, di regole finali destinate ad
essere tradotte dal singolo stato in norme di dettaglio; tuttavia la prassi degli organi
comunitari si è andata orientando in senso contrario: la direttiva è spesso dettagliata e
altrettanto spesso, dunque, la discrezionalità dello stato si riduce soltanto alla scelta della
forma giuridica interna da dare alla norma già fissata sul piano europeo.
come tutte le organizzazioni internazionali, anche l‟UE ha la capacità di concludere accordi
internazionali come previsto dal TUE e dal TFUE. in particolare, l‟art. 218 TFUE regola la
procedura normale di conclusione degli accordi: i negoziati sono condotti dalla commissione
su autorizzazione del consiglio, che può impartire direttive ai negoziatori; lo stesso consiglio
autorizza sia la firma del testo cosi negoziato sia la sua conclusione previa, in alcuni casi,
l‟autorizzazione del parlamento europeo. inoltre l‟art. 218 prevede che uno stato membro, il
parlamento, il consiglio dell‟unione europea o la commissione, può chiedere alla corte di
giustizia di dare in via precauzionale un parere circa la compatibilità dell’accordo con le
disposizioni del trattato; se il parere è negativo l‟accordo potrà entrare in vigore solo dopo una
modifica formale del trattato.
OCSE E CONSIGLIO D’EUROPA
subito dopo la seconda guerra mondiale furono costituite nell’ambito dell’europa occidentale
due organizzazioni che hanno dato un notevole contributo al rafforzamento dei vincoli tra i
paesi appartenenti a tale area geografica: l‟organizzazione europea per la cooperazione
economica (OECE) poi trasformata in organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico (OCSE) ed estera via via a vari paesi occidentali non europei; e il consiglio
d’europa, che attualmente comprende 47 stati membri (tutti gli stati dell‟europa occidentale e
quasi tutti quelli dell‟europa orientale).
scopo del consiglio d’europa, dice l‟art. 1 del trattato istitutivo, è di conseguire una stretta
unione tra i suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che
costituiscono il loro comune patrimonio e di favorire il loro progresso economico e sociale.
ogni membro del consiglio, aggiunge l‟art. 3, deve accettare il principio della preminenza del
diritto e quello in virtù del quale ogni persona, posta sotto la sua giurisdizione, deve godere dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – principi propri dello stato di diritto.
per quanto riguarda le sue funzioni, che normalmente non danno luogo ad atti vincolanti, va
sottolineata la predisposizione di convenzioni come quelle relativa ai diritti umani, economici,
sociali, civili e politici. a questi ultimi è dedicata la famosa convenzione europea dei diritti
dell‟uomo.
GERARCHIA DELLE FONTI INTERNAZIONALI
dopo un esame accurato delle norme internazionali generali e particolari e di quelle derivanti
dalle varie organizzazioni internazionali, siamo ora in grado di tracciare un quadro della
gerarchia esistente tra queste, fonti di norme internazionali:
al vertice della gerarchia si situano le norme consuetudinarie, tra cui troviamo anche quella
particolare categoria costituita dai principi generali di diritto comuni agli ordinamenti interni –
fonte di primo grado ed unica fonte di norme generali, in grado dunque di vincolare tutti gli
stati; il secondo posto della gerarchia spetta al trattato, che trova in una norma consuetudinaria
(pacta sunt servanda) il fondamento della sua obbligatorietà; il terzo posto è poi occupato dalle
fonti previste da accordi, particolarmente dagli atti delle organizzazioni internazionali.
quali sono i rapporti tra queste fonti? possono le norme di grado inferiore derogare alle norme
di grado superiore? cominciando dai rapporti tra consuetudine e accordo è il caso di precisare
che il fatto che le norme pattizie siano sottordinate alle norme consuetudinarie, non significa di
per sè inderogabilità di queste ultime da parte delle prime: una norma di grado inferiore può
derogare alla norma di grado superiore se quest‟ultima lo consente. in particolare, la soluzione
alla questione norme consuetudinarie-accordi, la risposta è positiva: in linea generale, infatti, le
norme consuetudinarie sono caratterizzate dalla loro flessibilità e dunque dalla loro
derogabilità mediante accordo. nonostante questo, è opinione comune che esista anche un
gruppo di norme di diritto internazionale generale che eccezionalmente sarebbero cogenti e
dunque inderogabili. di queste si occupa l‟art. 53 della convenzione di vienna sul diritto dei
trattati: è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in contrasto con una
norma imperativa del diritto internazionale generale. tale ultima è una norma accettata e
riconosciuta dalla comunità internazionale degli stati come norma alla quale non può essere
appostata nessuna deroga e che può essere modificata solo da una nuova norma di diritto
internazionale generale avente il medesimo carattere.
la convenzione di vienna non indica dunque quali norme internazionali siano imperative,
lasciando la ricostruzione dello jus cogens all‟interprete; questo dovrà anzitutto stabilire se una
norma trova riscontro negli elementi della diuturnitas e dell‟opinio juris sive necessitatis; ma
dovrà anche stabilire, sempre in base a questi elementi, se la maggior parte degli stati considera
detta norma come superiore alle comuni fonti internazionali in quanto ispirata a valori
fondamentali e universali – in questo modo la nozione di jus cogens ha carattere storico, potendo
mutare da un‟epoca all‟altra. allo stato attuale, comunque, il Conforti suggerisce, da un esame
di dottrina e giurisprudenza interna e internazionale, che allo jus congens appartengano il
nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto
dell’uso della forza fuori del caso di legittima difesa e, forse, il diritto allo sviluppo – lista
comunque esemplificativa. a questi è poi da aggiungere l‟art. 103 della carta delle nazioni unite
che sancisce l‟inderogabilità degli obblighi scaturenti dalla carta e dalle decisioni vincolanti
degli organi dell‟ONU NB le norme dello jus cogens oltre a prevalere sui trattati si caratterizzano
anche per la loro applicabilità erga omnes.
CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI
il contenuto del diritto internazionale attuale è talmente vasto da non poter essere descritto nei
dettagli: vi sono infatti delle convenzioni che si occupano di tutto, anche dei rapporti che una
volta erano gelosamente riservati dagli stati al proprio diritto nazionale. è vero anche però che il
diritto internazionale materiale, sia consuetudinario che pattizio, si snoda intorno ad un unico
filo conduttore che permette di descriverlo in maniera estremamente sintetica ma sistematica: il
contenuto del diritto internazionale è costituito da un insieme di limiti all‟uso della forza da
parte degli stati. in particolare, può trattarsi di forza internazionale, cioè diretta verso l‟esterno e
quindi nei confronti degli altri stati; oppure di forza interna, cioè nei confronti delle persone
fisiche o giuridiche e dei loro beni.
affermando dunque, in linea generale, che la forza internazionale si identifica con la violenza di
tipo bellico o comunque con qualunque atto che implichi operazioni militari, e che la forza
interna è rappresentata da un potere di governo esplicato dallo stato sugli individui e sui loro
beni, sorge una domanda: cosa deve intendersi per potere di governo delimitato dal diritto
internazionale? cominciamo col dire che non si può identificare sic et simpliciter con l‟esercizio
della coercizione in quanto forza materiale, in quanto anche una sentenza dichiarativa del
giudice o una legge che contenga un provvedimento concreto vengono considerati come poteri
di governo. secondo il Conforti non basta neppure la semplice emanazione di comandi
concreti, in quanto l‟attività di mero comando, anche se indirizzata a persone determinate e
vertente su questioni concrete, non ha di per sè rilievo per il diritto internazionale se non è
accompagnata dall‟attuale e concreta possibilità di agire coercivamente per farla rispettare. può
dunque concludersi che il potere di governo cosi come limitato dal diritto internazionale sia
costituito da qualsiasi misura concreta di organi statali, sia avente essa natura coercitiva, sia in
quanto, e solo in quanto, suscettibile di essere coercitivamente attuata.
SOVRANITA’ TERRITORIALE
la prima e fondamentale norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo
dello stato è quella della sovranità territoriale. come viene intesa la sovranità territoriale alla
stregua del diritto internazionale? può dirsi che la norma attribuisce ad ogni stato il diritto di
esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli
individui e sui loro beni che si trovano nell‟ambito del territorio; correlativamente ogni stato ha
l‟obbligo di non esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo, anche se in ogni caso
la violazione della sovranità territoriale si ha solo se vi è presenza fisica e non autorizzata
dell‟organo straniero nel territorio.
in linea di principio il potere di governo dello stato territoriale non solo è esclusivo rispetto a
quello degli altri stati, ma è anche libero nelle forme e nei modi del suo esercizio e nei suoi
contenuti; “in linea di principio” perchè la libertà dello stato, nata come libertà assoluta, è
andata restringendosi via via che il diritto internazionale moderno si evolveva. ad oggi, infatti,
vi sono una serie di eccezioni* - che sono conseguenza di norme convenzionali, e quindi di
norme che gli stati hanno liberamente accettato. le eccezioni che per prime si sono andate
affermando sono costituite dalle norme che impongono un certo trattamento degli stranieri –
anche se ad oggi i limiti che da esse derivano si sono di gran lunga affievoliti; molto più
importanti sono i limiti prodotti dalle norme che perseguono valori di giustizia, di
cooperazione e di solidarietà tra i popoli.
per quanto riguarda l‟acquisto della sovranità territoriale, cioè del diritto ad esercitare in modo
esclusivo e indisturbato il potere di governo, vale il criterio dell‟effettività: l‟esercizio effettivo
del potere di governo fa sorgere il diritto all‟esercizio del potere di governo medesimo. molti
aspetti della problematica dell‟acquisto della sovranità territoriale hanno ormai perso quasi del
tutto attualità, in quanto precedentemente legali all‟esistenza di territori di nessuno o non
ancora scoperti – che ad oggi non esistono; attuale è invece il problema degli acquisti di territori
effettuati in violazione di norme internazionali di fondamentale importanza: si pensi ai territori
acquistati in violazione dell‟art. 2 della carta dell‟ONU, che vieta la minaccia e l’uso della forza,
o in violazione del principio di autodeterminazione dei popoli. nonostante i tentativi fatti fin
dall‟epoca tra le due guerre mondiali per limitare la portata del principio di effettività e
disconoscere l‟espansione territoriale che sia frutto di violenza o di gravi violazioni di norme
internazionali, la prassi sembra ancora oggi sostanzialmente orientata nel senso che l‟effettivo e
consolidato esercizio del potere di governo su di un territorio comunque acquistato comporti
l‟acquisto della sovranità territoriale. è però vero che se ad un atto di aggressione non si
reagisce subito nell‟esercizio dell‟autotutela individuale o collettiva, la situazione si consolida.
tutto ciò che allora può sostenersi è che, oltre all‟obbligo (teorico) di restituzione gravante sullo
stato che abbia commesso l‟aggressione o detenga il territorio in dispregio del principio di
autodeterminazione dei popoli, su tutti gli altri stati grava l‟obbligo di negare effetti
extraterritoriali agli atti di governo emanati in quel territorio e sempre che l‟acquisto sia
contestato dalla maggioranza dei membri della comunità internazionale.
*limiti della sovranità territoriale
sebbene storicamente una compressione della sovranità territoriale si sia per prima verificata
con riguardo al trattamento degli stranieri, i limiti più importanti alla libertà dello stato di
comportarsi come crede nell‟ambito del suo territorio sono oggi costituiti dalle norme
internazionali, soprattutto convenzionali, che perseguono valori di giustizia, cooperazione e
solidarietà tra i popoli. con l‟affermarsi di tali norme, in particolare, si è andato
progressivamente erodendo il principio del dominio riservato o competenza interna dello stato,
espressione con cui si intende indicare le materie delle quali il diritto internazionale si
disinteressa e rispetto alle quali lo stato è conseguentemente libero da obblighi (es. rapporti
stato-sudditi, organizzazione delle funzioni di governo, politica economica e sociale, ecc.).
norme che perseguono valori di giustizia:
norme sui diritti umani: le iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della
dignità umana ovunque l‟individuo si trovi sono a tutti note. l‟azione dei governi in
questo settore, cui diede l‟avvio la famosa dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
del 1948, si è tradotta nella conclusione di numerose convenzioni tra cui ricordiamo la
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, i due patti delle
nazioni unite sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, ecc. tutte
queste convenzioni, oltre ad istituire degli organi destinati a vegliare sulla loro osservanza,
contengono un catalogo di diritti umani che gli stati contraenti sono tenuti a rispettare (es.
nell‟ambito del diritto al lavoro è prevista un‟equa retribuzione, assicurazioni e altre forme
di assistenza e di sicurezza sociale, il diritto di formare sindacati liberi e il diritto di
scioperare; nell‟ambito dei diritti civili e politici è previsto il consueto catalogo delle libertà
individuali). molto importante è anche la convenzione contro la tortura e le altre pene o
trattamenti crudeli, disumani e degradanti. quest‟ultima al suo art. 1 definisce la tortura
come qualunque atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona
dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere informazioni o
confessioni, di punirla per un atto che essa ha commesso, di intimorirla o di far pressioni
su di lei; prevede poi l‟obbligo degli stati contraenti di adottare tutte le misure atte a
prevenire e punire simili crimini commessi nei territori sottoposti alla loro giurisdizione
(art. 2), nonchè l‟obbligo di non espellere individui verso paesi nei quali, per un motivo o
per un altro, rischiano di essere sottoposti a tortura o a trattamenti disumani o degradanti
(art. 3).
l‟obbligo degli stati di rispettare i diritti umani è fondamentalmente un obbligo negativo,
di astensione: gli organi statali sono infatti tenuti ad astenersi dal ledere siffatti diritti e,
per quel che riguarda il diritto consuetudinario, dal compiere atti qualificabili come gross
violations (gravi violazioni di tali diritti); ma il rispetto dei diritti umani costituisce anche
l‟oggetto di un obbligo positivo o di protezione: lo stato deve infatti vegliare affinchè
violazioni dei diritti umani non siano commesse da individui che comunque si trovino
sul suo territorio – esso è pertanto tenuto a prendere tutte le misure idonee a prevenire e
reprimere dette violazioni.
alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi
interni: la violazione delle norme consuetudinarie sui diritti umani non può dirsi
consumata o comunque non può farsi valere sul piano internazionale, finchè esistono
nell‟ordinamento dello stato offensore rimedi adeguati ed effettivi per eliminare l‟azione
illecita o per fornire all‟individuo offeso una congrua riparazione.
norme sulla punizione dei crimini internazionali: i crimini internazionali individuali
possono essere distinti in crimini contro la pace, crimini contro l’umanità e crimini di
guerra. un elenco dettagliato che nella sostanza si ispira a tale ripartizione è oggi
contenuto negli artt. 5-8 dello statuto della corte penale internazionale, che prevede
quattro tipi di crimini:
genocidio, art. 6: riprende la definizione tradizionale contenuta anche nella convenzione
sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio secondo cui è tale la
distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso
crimini contro l‟umanità, art. 7: omicidio, riduzione in schiavitù, deportazione,
privazione di libertà, tortura, violenza carnale, prostituzione forzata, persecuzioni per
motivi politici, razziali, religiosi, di sesso, ecc. purchè perpetrati come parte di un esteso
o sistematico attacco diretto contro una popolazione civile
crimini di guerra, art. 8: considerati tali se commessi durante un conflitto armato sia
internazionale che interno, sia da appartenenti ad un esercito sia da civili, sia contro dei
militari che degli appartenenti alla popolazione civile. l‟articolo in questione, oltre a
riprodurre crimini già inclusi tra quelli contro l’umanità, si riferisce ad una serie di atti
specifici del tempo di guerra come l‟arruolamento forzato dei prigionieri di guerra, la
presa di ostaggi, gli attacchi intenzionalmente diretti contro popolazioni e obiettivi
civili, ecc.
crimine di aggressione (crimine contro la pace): l‟aggressione è stata definita in una
decisione dell‟assemblea degli stati parti dello statuto e più o meno corrispondente alla
definizione data da una risoluzione dell‟assemblea generale dell‟ONU; ma l‟entrata in
vigore della decisione è stata rinviata ad un‟ulteriore deliberazione dell‟assemblea degli
stati parti.
normalmente l‟individuo che commette un crimine internazionale è un organo del
proprio stato o di un‟entità di tipo statale – solo gli stati, infatti, sono normalmente in
grado di produrre attacchi estesi o sistematici contro una popolazione civile. ciò comporta
che quando è commesso un crimine del genere vi è una duplice responsabilità: quella
dello stato e quella dell‟individuo-organo. si tratta peraltro di due forme di responsabilità
diverse: a quella individuale consegue la punizione del colpevole; quella dello stato è
invece molto più labile.
il diritto internazionale consuetudinario, contiene un principio di giurisdizione
universale, nel senso che ogni stato ha la facoltà di cedere alla punizione ovunque e da
chiunque il crimine sia stato commesso – la ratio consisterebbe nel fatto che lo stato che
punisce il crimine persegue un interesse che è proprio della comunità internazionale? in
base alla prassi che è venuta formandosi nella materia si può ritenere che la giurisdizione
universale sia da ammettere, ma a condizione che il presunto criminale straniero si trovi
nel territorio dello stato al momento in cui deve essere sottoposto a giudizio e sempre
che esso non sia richiesto dallo stato nazionale o da uno stato che abbia con il crimine un
più stretto collegamento e sia seriamente intenzionato a punirlo – tale norma va peraltro
coordinata con le norme che prevedono l‟immunità dei capi di stato e di governo e di vari
altri organi stranieri finchè sono nell‟esercizio delle loro funzioni.
si discute se sia crimine internazionale il terrorismo, che secondo una norma
consuetudinaria ormai consolidata, consiste essenzialmente nella commissione di un atto
criminale con l‟intento di spargere terrore nella popolazione di uno stato o in una parte di
essa e sempre che l‟atto trascenda i confini di un singolo stato. il terrorismo, non
rientrando in realtà in una delle categorie di crimini appena esaminati sfugge al principio
della giurisdizione universale; dalla norma consuetudinaria che lo prevede discende
infatti soltanto l‟obbligo per gli stati di introdurlo nella loro legislazione come figura
autonoma di reato.
nelle convenzioni che si occupano di crimini internazionali o anche soltanto di gross
violations dei diritti umani è di solito contenuto il principio aut dedere aut judicare: lo stato
che non vuole o non può procedere alla punizione del presunto criminale ha l‟obbligo di
consegnarlo ad un altro stato che ne faccia richiesta o che sia competente a giudicarlo.
norme che perseguono valori di cooperazione e solidarietà:
norme sui rapporti economici: la libertà degli stati in materia economica è limitata da
numerosi accordi tendenti alla liberalizzazione del commercio internazionale e, in
particolare, all‟abbattimento degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, dei servizi e
dei capitali. varie sono le clausole contenute negli accordi commerciali che si esprimono
nel senso della liberalizzazione:
clausola della nazione più favorita: l‟eventuale trattamento più favorevole concesso in
qualsiasi modo da uno stato contraente ad uno stato terzo o ad un‟altra parte contraente
si estende all‟altra o alle altre parti contraenti
clausola del trattamento nazionale: gli stati contraenti si impegnano ad accordare ai
prodotti importati dagli altri stati contraenti un regime giuridico e fiscale non inferiore
a quello previsto per i prodotti nazionali
clausole che prevedono l‟abolizione progressiva dei dazi doganali e delle restrizioni
quantitative
clausole di salvaguardia secondo cui la liberalizzazione del commercio incontra alcuni
limiti attinenti alla vita della comunità statale, tra cui quelli relativi alla sicurezza
nazionale, alla difesa della moralità, della salute e della vita delle persone, nonchè della
vita degli animali e della preservazione delle piante.
norme sulla tutela dell‟ambiente: vengono qui in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento
delle risorse naturali del territorio al fine di ridurre i danni causati dalle attività
inquinanti o capaci di produrre irrimediabili distruzioni di risorse. la libertà di
sfruttamento incontra dei limiti di carattere consuetudinario? da più parti si sostiene che
lo stato abbia l‟obbligo di evitare che il suo territorio venga utilizzato in modo tale da
recare danno al territorio di altri stati. tale problema si pone oggi con particolare acutezza
in relazione all‟inquinamento atmosferico derivante da attività ultrapericolose e capaci di
produrre danni anche a notevole distanza, come l‟attività delle centrali atomiche, le
industrie chimiche, ecc. a simili attività ha riguardo il principio n.21 della dichiarazione
adottata a stoccolma nel 1972, ripreso al n.2 della dichiarazione della conferenza di rio
sull‟ambiente e lo sviluppo del 1992: gli stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro
risorse naturali conformemente alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di
assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro sovranità o sotto il loro
controllo non causino danni all’ambiente in altri stati.
ricordiamo poi una serie di obblighi di cooperazione previsti per gli usi nocivi del
territorio in generale: l‟obbligo dello stato di informare gli altri stati dell’imminente
pericolo di incidenti e l‟obbligo per tutti gli stati interessati di prendere di comune
accordo misure preventive o successive al verificarsi del danno all‟ambiente.
trattamento degli stranieri: due sono i principi di diritto internazionale generale che si sono
andati formando per consuetudine in materia di trattamento degli stranieri:
allo straniero non possono imporsi prestazioni e più in generale non possono richiedersi
comportamenti che non si giustifichino con un sufficiente attacco dello straniero e dei suoi
beni con la comunità territoriale
obbligo di protezione da parte dello stato territoriale nei confronti dello straniero: secondo
la formulazione classica lo stato deve predisporre di misure idonee a prevenire e a
reprimere le offese contro la persona o i beni dello straniero – l‟idoneità delle misure
viene commisurata a quanto di solito si fa per tutti gli individui in uno stato civile.
il diritto internazionale consuetudinario non prevede limiti per quanto riguarda
l‟ammissione degli stranieri; in questa materia rivive la norma sulla sovranità territoriale
che comporta quindi la libertà dello stato di stabilire la propria politica nel campo
dell’immigrazione. il problema è diverso quando, impedendo agli stranieri di entrare nel
territorio, lo stato commette una violazione dei diritti umani fondamentali tutelati anche dal
diritto consuetudinario – primo tra tutti il diritto alla vita.
per il diritto consuetudinario lo stato è anche libero di espellere gli stranieri. si ritiene però
che l‟espulsione debba aver luogo con modalità che non risultino oltraggiose nei confronti
dell‟espellendo e che al medesimo debba concedersi un lasso di tempo ragionevole qualora
egli debba regolare i propri interessi – tutto ciò non è altro che un‟applicazione del dovere
di protezione ed in particolare dell‟obbligo di predisporre di misure preventive delle offese
alla persona dello straniero e ai suoi beni. limiti particolari in tema di espulsione di stranieri
derivano da varie convenzioni internazionali: ricordiamo l‟art. 3 della convenzione delle
nazioni unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, che
obbliga gli stati a non estradare o espellere una persona verso paesi in cui rischia di essere
sottoposta a tortura – obbligo ricavato implicitamente dagli artt. 2 e 3 della convenzione
europea dei diritti dell‟uomo.
grande importanza assumono oggi, a causa dell‟intensificarsi dei flussi migratori, la
convenzione di ginevra del 1951 e il protocollo del 1967 sui rifugiati, entrambi ratificati
anche dall‟italia: secondo l‟art. 1 della convenzione lo status di rifugiato spetta a chi teme a
ragione che nel proprio paese possa essere perseguitato per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche.
secondo la convenzione ed il protocollo il rifugiato, che ovviamente è obbligato a rispettare
tutte le leggi dello stato di rifugio (art. 2), ha vari diritti tra cui quello di non essere
discriminato con riguardo alla razza (art. 3), di praticare la propria religione (art. 4), di
accedere ai tribunali (art. 16) e all‟assistenza (art. 20 ss.) e di ottenere il documento di
viaggio, ossia una sorta di passaporto che gli permette di circolare nei territori degli stati
contraenti (art. 28). ma la norma più importante è quella sancita dall‟art. 33 che prevede il
principio del non-refoulement: il rifugiato non può essere espulso verso territori dove la sua
vita o libertà sarebbe minacciata – e ciò sempre che motivi attinenti alla sicurezza pubblica
non lo richiedano. anche al rifugiato deve essere accordato un lasso di tempo per dimostrare i
motivi della richiesta.
numerosi accordi internazionali prevedono l‟obbligo di ciascuna parte contraente di riservare
alle persone fisiche e giuridiche appartenenti all‟altra o alle altre parti, condizioni di
particolare favore sia in tema di ammissione sia per quanto riguarda l’esercizio di attività
imprenditoriali, professionali, ecc. particolarmente importanti sono le norme sul diritto di
stabilimento contenute negli artt. 46 ss. del TFUE che mirano ad una quasi totale
parificazione tra cittadini e stranieri nell’ambito del territorio dell’UE – fini di parificazione
persegue anche la cittadinanza europea, che comporta il diritto di circolare liberamente
nell‟ambito dell‟unione, di partecipare alle elezioni locali nello stato membro in cui risiede e
di votare nello stesso stato per i rappresentanti al parlamento europeo.
se lo stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito
internazionale nei confronti dello stato al quale lo straniero appartiene, che potrà esercitare
la c.d. protezione diplomatica: lo stato assumerà la difesa del proprio suddito sul piano
internazionale agendo con proteste, minacce di contromisure contro lo stato territoriale,
proposte di arbitrato o, quando è possibile, ricorso ad istante giurisdizionali internazionali, al
fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio
suddito. prima però che lo stato agisca in protezione diplomatica occorre che lo straniero
abbia esaurito tutti i rimedi previsti dall‟ordinamento dello stato territoriale, purchè adeguati
ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. infatti, finchè siffatti
rimedi esistono, e dunque lo stato territoriale ha la possibilità di eliminare l‟azione illecito o
di fornire allo straniero offeso un‟adeguata riparazione, le norme sul trattamento degli
stranieri non possono neppure considerarsi violate. inoltre, l‟istituto della protezione
diplomatica ha oggi carattere residuale: una volta esauriti i ricordi interni ed avvenuta la
violazione, è anche necessario che non vi siano rimedi internazionali efficaci azionabili
dagli stessi stranieri lesi.
la protezione diplomatica in discorso può essere esercitata dallo stato nazionale sia a difesa
di una persona fisica sia a difesa di una persona giudica, in particolare di una società
commerciale – va però avvertito che la nazionalità delle persone giuridiche non è un concetto
altrettanto definito e definibile quanto quello delle persone fisiche dato che non sempre
risulta con chiarezza dalle legislazioni interne quale collegamento determini l‟appartenenza
di una persona giuridica ad un certo stato. con riferimento alla difesa di una persona
giuridica e, in particolare, alla difesa di una società commerciale, possiamo dire che lo stato
nazionale del singolo socio può agire quando questi sia stato leso direttamente in un suo
diritto. quando si verifica una lesione del diritto del singolo socio? in linea generale si può
dire che debba trattarsi della lesione di un diritto del socio nei confronti della società (es.
diritto ai dividendi, diritto di partecipare alle assemblee con diritto di voto, diritto di vedersi
assegnata una parte dei beni sociali in caso di liquidazione della società, ecc.).
trattamento di agenti diplomatici e di altri organi di stati stranieri
particolari limiti alla potestà di governo nell‟ambito del territorio sono previsti dal diritto
consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici. si parla a tal proposito di immunità
diplomatiche: queste accompagnano gli agenti diplomatici accreditati presso lo stato territoriale
e accompagnano l‟agente dal momento in cui esso entra nel territorio di tale stato per esercitarvi
le sue funzioni fino al momento in cui ne esce.
le immunità diplomatiche sono le seguenti:
inviolabilità personale: l‟agente diplomatico deve essere anzitutto protetto contro le offese
alla sua persona mediante particolari misure preventive e repressive. sotto questo aspetto
l‟obbligo dello stato territoriale di garantire l‟inviolabilità personale si confonde con il
generico dovere di protezione degli stranieri. bisogna precisare anche che alla nostra epoca la
persona dell‟agente ha perso quel carattere di quasi sacralità che aveva un tempo e che
faceva apparire la mancanza di protezione in questo senso come una delle massime offese
che si potessero arrecare ad uno stato estero.
inviolabilità domiciliare: per domicilio si intende sia la sede della missione diplomatica sia
l‟abitazione privata dell’agente. una volta si fingeva che la sede della missione fosse
extraterritoriale, che facesse parte cioè del territorio dello stato che invia l‟agente; in realtà
non è cosi: la sede della missione diplomatica è territorio dello stato che riceve l‟agente, ma
questo stato non può esercitarvi, senza il consenso dell‟agente, atti di coercizione – è per
questo che talvolta un perseguitato politico dal governo locale si rifugia, e talvolta resta a
lungo, in una sede diplomatica straniera. oltre a non esercitare atti di coercizione lo stato
locale è tenuto a proteggere sia la sede della missione che l‟abitazione privata dell‟agente da
attacchi da parte di cittadini privati.
immunità dalla giurisdizione penale e civile: a tal proposito bisogna distinguere tra atti
compiuti dal diplomatico in quanto organo dello stato e atti compiuti come privato. i primi
sono coperti da quella che viene chiamata immunità funzionale: l‟agente non può essere
citato in giudizio per rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti nell’esercizio
delle sue funzioni. sebbene l‟immunità funzionale sia prevista per garantire all‟agente
diplomatico l‟indisturbato esercizio della sua attività, non si può negare che essa derivi anche
dalla circostanza che simili atti non sono imputabili all‟agente, ma allo stato straniero; è per
questo che l‟agente diplomatico non può essere citato in giudizio neanche una volta che siano
cessate le sue funzioni.
anche gli atti che l‟agente compie come privato sono immuni dalla giurisdizione civile,
penale e amministrativa; ma al contrario di quanto avviene nel caso di immunità funzionale,
tale immunità sussiste finchè esplica le sue funzioni: una volta che la sua qualità di agente
diplomatico sia venuta meno egli potrà essere sottoposto a giudizio anche per gli atti o i reati
compiuti quando rivestiva tale qualità.
esenzione fiscale: sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali, ma per motivi di
cortesia lo stato di accreditamento può estenderla anche ad altri tributi.
a chi spettano le immunità diplomatiche? si è parlato fin qui di “agenti diplomatici”, qualifica
riferita solitamente ai capi-missione (ambasciatori, ministri plenipotenziari, incaricati d‟affari);
ma le immunità si estendono a tutto il personale diplomatico delle missioni (ministri,
consiglieri, segretari di legazione, ecc.) nonchè alle famiglie degli agenti e di coloro che fanno
parte di questo personale. si ritiene che l‟immunità, sia funzionale che personale, spetti per
diritto internazionale consuetudinario, anche a quelle supreme autorità degli stati che si
occupano di norma delle relazioni internazionali, quali capi di stato, capi di governo e ministri
degli esteri. è controversa la questione se per qualsiasi organo statale, oltre a quelli fin qui
considerati, il diritto internazionale preveda l‟immunità funzionale (quella personale è
certamente esclusa): la tesi affermativa ha dalla sua l‟argomento secondo cui l‟organo che agisce
nell‟esercizio delle sue funzioni svolge un‟attività imputabile allo stato ed è quest‟ultimo che
deve risponderne; tuttavia la prassi non depone sicuramente in questo senso e anzi presenta
ampi aspetti di ambiguità e incertezza. senza dubbio vi sono delle categorie di persone alle
quali l‟immunità è riconosciuta: consoli e corpi di truppa all’estero.
è poi certo che l‟immunità non è riconosciuta agli agenti segreti.
TRATTAMENTO DEGLI STATI STRANIERI
sempre a proposito dei limiti che incontra lo stato territoriale nell‟esercizio del suo potere di
imperio, occupiamoci ora degli obblighi dello stato per quanto riguarda il trattamento degli
stati stranieri. menzioniamo in primis il principio del non intervento negli affari interni e
internazionali di un altro stato: principio di cui è difficile precisare l’esatto contenuto, che è
venuto via via perdendo la sua autonoma sfera di applicazione con l‟affermarsi di altre e più
pregnanti regole generali che ne hanno assorbito la fattispecie. la più importante di queste
regole è costituita dal divieto della minaccia o dall‟uso della forza: gli interventi negli affari
interni e internazionali di un altro paese, attuati attraverso la minaccia o l‟impiego della forza di
tipo bellico, erano considerati un tempo come le principali fattispecie regolate dal principio in
discorso.
il problema più interessante in tema di trattamento degli stati stranieri è se questi siano
assoggettabili alla giurisdizione civile dello stato territoriale. in particolare: può uno stato
essere convenuto in giudizio davanti alle corti di un altro stato? sul tema ha lavorato per molti
anni la commissione di diritto internazionale e, più di recente, un comitato ad hoc dell‟assemblea
generale delle nazioni unite; alla fine dei lavori è stata adottata una convenzione di
codificazione che non è ancora entrata in vigore in quanto ratificata, per il momento, da soli 21
stati tra cui l‟italia. a tal proposito, alla fine dell‟800 la teoria universalmente accolta in merito al
problema del trattamento degli stati stranieri era quella favorevole all‟immunità assoluta; sono
state le giurisprudenza italiana e quella belga, nel periodo immediatamente successivo alla
prima guerra mondiale, a dare inizio ad un‟inversione di tendenza che ha portato poi alla
revisione della regola tradizionalmente sostenuta dell‟immunità assoluta, con l‟elaborazione
della teoria dell‟immunità ristretta, da considerarsi oggi comunemente ammessa tanto da
corrispondere allo stato del diritto internazionale consuetudinario. la teoria dell’immunità
ristretta prevede l‟esenzione degli stati stranieri dalla giurisdizione civile limitatamente agli atti
jure imperii e non anche agli atti jure gestionis: lo stato straniero è immune dalla giurisdizione
civile dello stato territoriale quando si tratti di atti attraverso cui si esplica l‟esercizio delle
funzioni pubbliche statali; non è immune quando si tratta di atti aventi carattere privatistico.
la distinzione tra atti jure imperii e atti jure gestionis, rispecchiando le incertezze che si
ricollegano alla distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, non è sempre facile da
applicare ai singoli casi concreti – e si deve sostenere, probabilmente, che in caso di dubbio si
debba concludere a favore dell’immunità anzichè a favore della sottoposizione dello stato
straniero alla giurisdizione; previsione che trova conferma anche nella giurisprudenza interna,
piuttosto incline ad ampliare anzichè a restringere la sfera degli atti jure imperii e quindi
dell‟immunità.
la tendenza a considerare che l‟immunità sia la regola e l’esercizio della giurisdizione
l’eccezione è anche alla base della convenzione delle nazioni unite che non formula
espressamente la distinzione tra atti jure imperii e atti jure gestionis ma, affermato il principio
dell‟immunità, elenca in via di eccezione i casi in cui lo stato straniero può essere convenuto in
giudizio – casi che riguardano grosso modo tutti gli atti jure gestionis. l‟elencazione comprende
le controversie relative alle transazioni commerciali, ai contratti di lavoro, ai danni causati a
persone o a cose, alla proprietà, al possesso e ad altri diritti reali, ecc.
l‟immunità dalla giurisdizione civile, nei limiti in cui è prevista per gli stati, viene anche
riconosciuta agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche pubbliche. è questa
un‟ulteriore prova del fatto che a formare la persona dello stato dal punto di vista del diritto
internazionale concorrono tutti coloro che esercitano il potere di governo nell‟ambito della
comunità internazionale e non solo gli organi del potere centrale.
TRATTAMENTO DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
un altro limite alla sovranità territoriale deriva dalle norme sul trattamento delle organizzazioni
internazionali; trattamento che riguarda soprattutto lo stato in cui l’organizzazione ha sede ma
che può dar luogo a problemi anche in altri stati quando gli organi di un’organizzazione
internazionale si trovino ad operare occasionalmente o stabilmente nel loro territorio.
per quanto riguarda il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali non
esistono norme consuetudinarie che impongono agli stati di concedere loro particolari
immunità – eventuali in tal senso possono essere previste solo da convenzioni. ed ugualmente
dal diritto convenzionale sono regolate le immunità dei rappresentati degli stati in seno agli
organi delle organizzazioni internazionali.
lo stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua
nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme
consuetudinarie sul trattamento degli stranieri. tale obbligo sussiste nei confronti dello stato
nazionale e la sua violazione dà luogo all‟esercizio della c.d. protezione diplomatica da parte
dello stato nazionale medesimo.
sussiste un obbligo di protezione anche nei confronti dell’organizzazione cui il funzionario
appartiene? può l‟organizzazione esercitare la protezione diplomatica in caso di mancata
adozione da parte dello stato territoriale delle misure atte a prevenire e a reprimere le offese
arrecate al funzionario? allo stato attuale può ritenersi che un obbligo di protezione del
funzionario sussista nei confronti dell’organizzazione, ma che questa possa agire sul piano
internazionale nei confronti dello stato territoriale solo per il risarcimento dei danni ad essa
arrecati e non di quelli arrecati all‟individuo in quanto tale ed ai suoi beni. ciò perchè per questi
ultimi danni è normalmente lo stato nazionale che agisce in protezione diplomatica.
nei limiti in cui gli stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello stato territoriale,
lo sono pure le organizzazioni internazionali. tale immunità ha cominciato ad essere ricavata
per interpretazione estensiva della norma sull‟immunità degli stati, ma può oggi considerarsi
come prevista da una norma consuetudinaria autonoma, anche se non mancano voci in senso
contrario.
DIRITTO INTERNAZIONALE MARITTIMO
vediamo ora le norme che delimitano il potere di governo degli stati negli spazi marini.
la materia del diritto internazionale marittimo ha formato oggetto di due importanti
conferenze di codificazione: la conferenza di ginevra del 1958 e la terza conferenza delle
nazioni unite sul diritto del mare. la conferenza di ginevra produsse quattro convenzioni: sul
mare territoriale e la zona contigua, sull‟alto mare, sulla pesca e la conservazione delle risorse
biologiche dell‟alto mare, sulla piattaforma continentale. dalla seconda è nata una nuova
convenzione firmata a montego bay nel 1982; secondo l‟art. 311 questa sostituisce, tra gli stati
contraenti, le quattro convenzioni di ginevra del 1958 – anche se queste erano già superate
ancor prima dell‟entrata in vigore della convenzione di montego bay.
per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio della libertà
dei mari: il singolo stato non può impedire e neanche soltanto intralciare l‟utilizzazione degli
spazi marini da parte degli altri stati, o meglio da parte delle navi che battono bandiera di altri
stati. in tal modo l‟utilizzazione degli spazi marini viene garantita e contemporaneamente
incontra il limite che è proprio di ogni regime di libertà e che consiste nel rispetto della libertà
altrui. è dunque inammissibile, in regime di libertà, che uno stato sottragga permanentemente
agli altri le risorse del mare, per esempio esaurendo o compromettendo una specie ittica in una
determinata zona, ecc.
in contrapposizione alla libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa degli stati ad
assicurarsi un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste; ma tale pretesa fino alla
prima metà del XX secolo non era riuscita quasi mai vittoriosa nel confronto col principio di
libertà: la prassi internazionale era sostanzialmente orientata nel senso che il principio di
libertà si estendesse anche ai mari adiacenti, salva la possibilità per lo stato costiera di
esercitare eccezionalissimi poteri sulle navi altrui per regolamentare la pesca e per reprimere
il contrabbando.
ancora nella seconda metà del XIX secolo sostanzialmente estranea alla prassi era la figura del
mare territoriale, inteso come una fascia di mare costiero addirittura equiparata al territorio
dello stato e dunque sottoposta in linea di principio, cosi come il territorio di terraferma,
all‟esclusivo potere di governo dello stato rivierasco. dopo di allora la tendenza si è invertita e
la pretesa degli stati costieri al controllo dei mari adiacenti ha cominciato via via a guadagnare
sempre più terreno fino al ricevere nel diritto internazionale dei nostri giorni una tutela senza
precedenti: il vecchio principio della libertà dei masi non appare più oggi come la regola prima
e generale, ma semmai come una delle regole che compongono il diritto internazionale
marittimo.
le tappe di questo processo di erosione del regime di libertà sono cosi sintetizzabili: a partire
dalla fine del XIX secolo si è andata diffondendo nella prassi la figura del mare territoriale come
zona sottoposta in tutto e per tutto al regime del territorio dello stato; gli anni
immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale hanno poi visto un‟estensione ben più
clamorosa dei poteri dello stato costiero con la generale accettazione della piattaforma
continentale: zona del fondo e del sottosuolo marino che costituisce il prolungamento della
terra emersa e che pertanto si mantiene a profondità costante prima di precipitare negli
abissi; negli ultimi anni del secolo scorso, infine, la prassi si è orientata a favore di un nuovo
istituto denominato zona economica esclusiva (ZEE): estesa fino a 200 miglia marine dalla costa,
prevede che tutte o quasi le risorse della zona e non solo quelle del fondo e del sottosuolo,
ma anche quelle delle acque sovrastanti, sono considerate di pertinenza dello stato costiero.
mare territoriale: fatte salve una serie di limitazioni il mare territoriale è, secondo il diritto
internazionale consuetudinario, sottoposto alla sovranità dello stato costiero cosi come il
territorio di terraferma. l‟acquisto della sovranità è automatico: la sovranità esercitata sulla
cosa implica la sovranità sul mare territoriale. stabilisce al riguardo l‟art. 2 della convenzione
di montego bay: la sovranità dello stato si estende, al di la del suo territorio e delle sue
acque interne, ad una zona di mare adiacente alle coste denominata mare territoriale – che
può estendersi fino ad un massimo di 12 miglia marine dalla costa. da quali punti della costa
si misura tale distanza? la questione ha dato luogo ad una serie di controversie in passato e
forma oggetto di varie norme della convenzione di montego bay ispirate ad una prassi
ormai consolidata: l‟art. 5 fissa il principio generale secondo cui la linea base per la
misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea; più importante è però
l‟art. 7 che riconosce la possibilità di derogare a siffatto principio ricorrendo al sistema delle
linee rette: la linea di base del mare territoriale è segnata congiungendo i punti sporgenti
della costa – l‟italia ha adottato il sistema delle linee rette lungo tutte le coste peninsulari e
delle isole maggiori con il dpr 816/1977.
secondo una dottrina formatasi nel periodo tra le due guerre mondiali lo stato costiero
avrebbe poi il diritto di esercitare poteri di vigilanza doganale in una zona contigua al mare
territoriale. tale dottrina venne recepita nella convenzione di ginevra del 1958 e trasfusa
nell‟art. 33 della convenzione di montego bay, che stabilisce: in una zona contigua al suo
mare territoriale lo stato costiero può esercitare il controllo necessario in vista a) di
prevenire la violazione delle proprie leggi doganali, fiscali, sanitarie o di immigrazione b) di
reprimere le violazioni alle medesime leggi qualora siano state commesse sul suo territorio o
nel suo mare territoriale – la larghezza massima della zona contigua è fissata a 24 miglia
marine, anche se si è sempre sostenuto che il potere dello stato costiero incontri, per il diritto
internazionale consuetudinario, un limite funzionale e non spaziale: lo stato può fare tutto
ciò che è necessario per prevenire e reprimere il contrabbando nella acque adiacenti alle sue
coste. la distanza dalla costa del luogo in cui la repressione avviene ha scarso significato: può
essere anche superiore alle 12 o alle 24 miglia, purchè non si tratti di una distanza tale da far
perdere ogni idea di adiacenza; ciò che è necessario è che sussista un qualche contatto tra la
nave e la costa costituito dal trasbordo delle merci di contrabbando dalla nave su
imbarcazioni locali, dal fatto che il carico sia destinato ad essere sbarcato nel territorio dello
stato costiero o ancora dalla particolare pericolosità sociale della merce, ecc.
quali poteri spettano allo stato costiero nel mare territoriale? in linea di principio si tratta
dei medesimi poteri esercitati nell’ambito del territorio, con le stesse limitazioni. in
particolare, ve ne sono due importanti:
diritto di passaggio inoffensivo o innocente da parte di navi straniere: ogni nave straniera
ha diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale sia per attraversarlo sia per entrare
nelle acque interne sia per prendere il largo provenendo da queste e purchè il passaggio
sia continuo e rapido. il passaggio è inoffensivo, dice l‟art. 19 della convenzione di
montego bay, finchè non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o alla sicurezza dello
stato costiero e indica poi una serie di casi in cui il passaggio non può considerarsi
inoffensivo; casi in cui lo stato costiero può prendere tutte le misure atte ad impedirlo –
eccezionalmente lo stato costiero può anche chiudere al traffico per motivi di sicurezza
determinate zone del mare territoriale, purchè pubblicizzi adeguatamente la chiusura e
non effettui discriminazioni tra le navi di diversa nazionalità.
limite all‟esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere: la giurisdizione penale
non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni alla nave straniera, cioè a fatti che
non abbiano alcuna ripercussione nell‟ambiente esterno e che non siano, dunque, idonei a
turbare il normale svolgimento della vita della comunità territoriale o che, trattandosi di
reati avvenuti a bordo, siano in qualche modo collegati con lo stato costiero.
piattaforma continentale: gli anni successivi alla seconda guerra mondiale segnano l‟inizio
della corsa all‟accaparramento delle risorse marine. i rapidissimi progressi della tecnica
mettono infatti in luce la possibilità di sfruttamento, dandone l‟avvio, di risorse notevoli.
la corsa all‟accaparramento delle risorse ha determinato la tendenza degli stati costieri ad
estendere il proprio controllo oltre il mare territoriale e comunque oltre le acque
strettamente adiacenti alle coste; tendenza che si è risolta nella generale accettazione della
dottrina della piattaforma continentale.
le regole in tema di piattaforma continentale possono cosi sintetizzarsi: ferma restando la
libertà di tutti gli stati di utilizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastanti, lo stato
costiero ha, al di là del mare territoriale, il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della
piattaforma, intesa come quella parte del suolo e sottosuolo marino contiguo alle cose che
costituisce il prolungamento naturale della terra emersa e che pertanto si mantiene ad una
profondità costante (circa 200 metri) per poi precipitare o degradare negli abissi. il diritto
esclusivo di sfruttamento viene acquistato automaticamente, cosi come avviene per la
sovranità sul mare territoriale (art. 77 della convenzione di montego bay).
il diritto sulla piattaforma continentale, a differenza del diritto di sovranità sul territorio e sul
mare territoriale, ha natura funzionale: lo stato costiero può esercitare il proprio potere di
governo non genericamente e dunque non per disciplinare qualsiasi aspetto della vita sociale,
ma solo nella misura strettamente necessaria per controllare e sfruttare le risorse della
piattaforma.
un problema molto importante, data la vastità delle aree marine impegnate dai poteri degli
stati costieri sulle risorse della piattaforma continentale, è quello della delimitazione della
piattaforma tra stati che si fronteggiano o tra stati contigui: l‟art. 6 della convenzione di
ginevra stabiliva che in entrambi i casi e salva diversa volontà delle parti, dovesse ricorrersi
al principio dell’equidistanza: consiste nell‟attribuire a ciascuno stato tutte le zone di
piattaforma che siano vicine a un qualsiasi punto della linea di base del suo mare territoriale
più di quanto siano vicine a un qualsiasi punto delle linee di base del mare territoriale di
ogni altro stato. tuttavia, la sentenza della corte internazionale di giustizia del 1969 nel caso
della delimitazione della piattaforma continentale del mare del nord, sentenza che costituisce
una pietra miliare nella materia, il criterio dell‟equidistanza non è imposto dal diritto
internazionale consuetudinario, con la conseguenza che la delimitazione può essere
effettuata soltanto mediante un accordo tra gli stati interessati; accordo che però, secondo la
corte, deve ispirarsi a principi di equità. ma qual è la situazione fino alla conclusione
dell‟accordo di delimitazione? il punto non viene trattato nella sentenza del 1969, ma
secondo il Conforti prima dell‟accordo nessuno stato può pretendere, nei confronti dei
vicini, l‟uso esclusivo delle zone di piattaforma controverse.
zona economica esclusiva (ZEE): ai poteri dello stato costiero sulla piattaforma continentale
si sono venuti sovrapponendo, negli ultimi anni, quelli esercitabili nel‟ambito della zona
economica esclusiva. la convenzione di montego bay se ne occupa agli artt. 55 ss: la zona
economica esclusiva può estendersi fino a 200 miglia marine a partire dalla linea di base del
mare territoriale.
quali sono i poteri dello stato costiero nella ZEE? l‟orientamento che è prevalso in seno alla
terza conferenza delle nazioni unite sul diritto del mare è nel senso dell‟attribuzione allo
stato costiero del controllo esclusivo su tutte le risorse economiche della zona, sia
biologiche che minerali, sia del suolo e del sottosuolo che delle acque sovrastanti.
che cosa resta, nell‟ambito della ZEE, agli stati diversi da quello costiero? l‟opinione
strenuamente difesa dalle potenze di tradizione marittima e non respinta dalla generalità
degli stati è che l‟attribuzione delle risorse allo stato costiero non debba pregiudicare la
partecipazione degli altri stati alle altre possibili utilizzazioni della zona: tutti gli stati, si dice,
continueranno a godere della “libertà” di navigazione, di sorvolo e di posa di condotte e di
cavi sottomarini. si tratta però di un regime che non è improntato nè alla libertà di tutti gli
stati nè alla sovranità dello stato costiero; i diritti, dello stato costiero e degli altri stati, hanno
carattere funzionale: all‟uno e agli altri sono consentite soltanto quelle attività indispensabili
rispettivamente allo sfruttamento delle risorse e alle comunicazioni e ai traffici marittimi
ed aerei.
mare internazionale e area internazionale dei fondi marini
negli spazi marini situati oltre la zona economica esclusiva cessa ogni tutela degli interessi degli
stati costieri. come vanno chiamati detti spazi e qual è il loro regime giuridico? la convenzione
di montego bay adotta la terminologia classica usando l‟espressione “alto mare”, ma ciò sembra
assurdo ove si consideri che di alto mare si parlava quando era impensabile un controllo dello
stato costiero entro le 200 miglia, che l‟alto mare era contrapposto al solo mare territoriale e che
ormai interi mari sono pressocchè interamente assorbiti dalle varie zone economiche esclusive
degli stati rivieraschi. si ritiene inoltre equivoco l‟uso del termine “mare libero”, dato che certi
aspetti della libertà dei mari permangono anche nella ZEE. per questo motivo si parlerà
semplicemente di “mare internazionale”, termine che più di ogni altro corrisponde alla
situazione reale in quanto si tratta di spazi marini sottratti al controllo, totale o parziale, di un
singolo stato.
il mare internazionale è l‟unica zona in cui trova ancora applicazione il vecchio principio della
libertà dei mari: tutti gli stati hanno eguale diritto a trarre dal mare internazionale tutte le utilità
che questo può offrire (navigazione, pesca, posa di cavi, sfruttamento delle risorse, ecc.).
per quanto riguarda invece le risorse minerarie del fondo e del sottosuolo internazionale, una
famosa risoluzione dell‟assemblea generale dell‟ONU le ha dichiarate patrimonio comune
dell‟umanità, principio che ormai fa parte del diritto internazionale consuetudinario. questo
segna un‟evoluzione nella disciplina dello sfruttamento delle risorse minerarie del mare
internazionale in quanto comporta che lo sfruttamento debba avvenire nell’interesse
dell’intera umanità. come? attraverso la costituzione di un‟organizzazione internazionale
capace di assicurare il perseguimento di tale interesse: l‟autorità internazionale dei fondi marini.
GLI SPAZI AEREI E COSMICI
sempre nel quadro dei limiti alla potestà di governo degli stati occorre ora dar conto di quanto
avviene negli spazi aerei e cosmici.
le norme sulla navigazione aerea si sono andate modellando su quelle relative alla navigazione
marittima. in particolare, due sono i principi generali che sono sempre stati affermati in tema di
navigazione aerea: il primo, sancito anche dall‟art. 1 della convenzione di chicago istitutiva
dell‟ICAO (organizzazione internazionale dell‟aviazione civile) prevede che la sovranità dello
stato si estenda allo spazio atmosferico sovrastante il territorio e il mare territoriale; il
secondo prevede invece che lo spazio che non sovrasta il territorio e il mare territoriale dello
stato, e dunque lo spazio aereo sovrastante l’alto mare e i territori inappropriati e
inappropriabili, deve restare libero all’utilizzazione di tutti i paesi – con la conseguenza che
ciascuno stato esercita il proprio, esclusivo, potere di governo sugli aerei aventi la sua
nazionalità. come si vede, dunque, si tratta di due principi modellati rispettivamente sul
principio che sancisce l‟estensione della sovranità dello stato nei mari costieri e sul principio
della libertà dei mari.
quando si parla di sovranità estesa allo spazio atmosferico sovrastante il territorio si intende
soprattutto far riferimento alla possibilità per lo stato territoriale di regolare il sorvolo e quindi
di stabilire quali sono le zone che non vanno sorvolate, di indicare le rotte che devono seguire
gli aerei i anche di impedire, a meno che non ci sia un obbligo internazionale di non farlo, il
sorvolo del proprio territorio di aerei aventi nazionalità straniera; per il resto vige lo stesso
principio che è applicabile alle navi nel mare territoriale: quando l‟aereo straniero sorvola il
territorio dello stato, tutto ciò che riguarda la vita della comunità aerea e che dunque non
implica alcun contatto con la comunità territoriale, sfugge a qualsiasi diritto di controllo da
parte dello stato territoriale.
passando poi alla navigazione cosmica, ad essa è applicabile, anzitutto, per analogia, il
principio sulla libertà di sorvolo degli spazi nullius: come vi è libertà di navigazione degli
spazi sovrastanti l‟alto mare e i territori nullius, cosi vi è libertà di navigazione degli spazi
cosmici. per quanto riguarda invece lo spazio sovrastante il territorio non sembra invece
applicabile l‟altro dei due principi e cioè l‟estensione della sovranità dello stato territoriale –
soprattutto nell‟impossibilità di parlare di un vero e proprio “sorvolo” del territorio da parte dei
mezzi cosmici.
il regime degli spazi cosmici ha formato oggetto di alcune convenzioni multilaterali, promosse
ed elaborate in seno all‟ONU, che si ispirano al principio di libertà sopraindicato. fondamentale
in tal senso è il trattato del 1967 che, oltre a confermare che lo spazio extra-atmosferico non può
essere sottoposto alla sovranità di alcuno stato, ne sancisce la denuclearizzazione, definisce gli
astronauti come inviati dell‟umanità impegnando gli stati a dar loro ogni possibile assistenza in
caso di incidenti, pericolo o atterraggio di emergenza, prevede la responsabilità dello stato
nazionale e dello stato dal cui territorio un oggetto spaziale è lanciato per i danni procurati
dalle attività cosmiche e, infine, attribuisce allo stato nel quale l’oggetto è registrato piena
giurisdizione e controllo sull’oggetto medesimo.
REGIONI POLARI
come spazi non soggetti alla sovranità di alcuno stato vanno considerate le regioni polari, su cui
non sono comunque mancate pretese di sovranità fondate principalmente sulla teoria dei
settori: gli stati i cui territori si estendono al di là del circolo polare dovrebbero considerarsi
come sovrani di tutti gli spazi, sia terrestri che marittimi, inclusi in un triangolo avente il vertice
nel polo nord e la sua base in una linea che congiunge i punti estremi delle cose proprie di
ciascuno stato.
la mancanza di sovranità territoriale comporta che ciascuno stato eserciti il proprio potere sulle
comunità che ad esse fanno capo: per quanto riguarda la comunità navali si tratta del normale
potere dello stato della bandiera; nel caso di spedizioni scientifiche si ritiene che lo stato che le
organizza eserciti il proprio potere, in analogia con quanto avviene per le comunità navali, su
tutte le persone, cittadini o stranieri, che le compongono, ecc.
un discorso a parte è quello sull‟antartide, internazionalizzato con il trattato di washington nel
1959 di cui sono parti contraenti una quarantina di paesi. norma chiave del trattato è quella che
congela sia le pretese alla sovranità sia le opposizioni alle medesime, consentendo in tal modo
al regime internazionale di funzionare.
le caratteristiche dell‟internaziolaizzazione sono: l‟interdizione di ogni attività militare ed in
particolare di ogni esperimento nucleare, la libertà della ricerca scientifica salvo l‟obbligo per
lo stato che intenda praticarla di notificare a tutte le altre parti contraenti l‟invio di spedizioni o
l‟istituzioni di basi in antartide, ecc.
il trattato antartico distingue due categorie di stati contraenti: le parti consultive e le parti non
consultive. in particolare le prime, costituite dagli originari firmatari del trattato e da quegli
stati che dimostrino il loro interesse per l‟antartide conducendovi attività sostanziale di ricerca
scientifica, hanno diritto di decidere su tutte le questioni rientranti nell‟oggetto del trattato e su
questioni connesse, oltre all‟esclusivo diritto di condurre ispezioni su navi, base, personale e
materiale altrui al fine di controllare l‟osservanza del trattato.
il regime internazionale dell‟antartide, essendo previsto da un trattato, peraltro aperto a
qualsiasi stato, vincola solo le parti contraenti; per quanto riguarda gli stati terzi il regime che
vige è soltanto quello di libertà.
APPLICAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI ALL’INTERNO DELLO
STATO
ADATTAMENTO DEL DIRITTO STATALE AL DIRITTO INTERNAZIONALE
(CONSUETUDINARIO)
una volta visto come si formano le norme internazionali e quale sia il loro contenuto,
occupiamoci ora dei mezzi attraverso cui ricevono applicazione.
l‟osservanza del diritto internazionale da parte di uno stato deve ritenersi affidata in primo
luogo agli operatori giuridici: detta osservanza passa cioè attraverso quelle norme, più o meno
esistenti in tutti gli ordinamenti statali, che provvedono ad adattare il diritto interno al diritto
internazionale. come avviene questo adattamento? si parla di due tipi di procedimenti:
procedimento ordinario di adattamento: l‟adattamento avviene mediante norme che
formalmente in nulla si distinguono dalle norme statali se non per il motivo per cui vengono
emanate, che è appunto quello di creare delle regole corrispondenti a determinate norme
internazionali. possiamo dunque dire che con questo procedimento ordinario le norme
internazionali vengono riformulate all‟interno dello stato.
procedimento speciale di adattamento: di fronte ad una certa norma internazionale, ad un
certo gruppo o ad un‟intera categoria di norme internazionali da introdurre nell‟ordinamento
statale, gli organi preposti alle funzioni normative si limitano ad ordinare l’osservanza della
o delle norme internazionali medesime / es. l‟art. 10 della costituzione italiana stabilisce che
l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute, adottando in questo modo un procedimento speciale di
adattamento a tutte le norme di diritto internazionale generale.
dal punto di vista del diritto internazionale e della sua esatta applicazione all‟interno dello
stato, il procedimento speciale è di gran lunga quello preferibile. nel caso del procedimento
ordinario, infatti, l‟interprete si trova di fronte ad una norma che in nulla differisce dalle norme
statali se non per il motivo che l‟ha ispirata: non potrà dunque che applicare la norma interna e
potrà tenere conto della norma internazionale che ha fornito l‟occasione per l‟emanazione della
norma interna solo se vi siano dei dubbi circa l’esatta interpretazione della medesima. la
situazione è diversa nel caso del procedimento speciale: qui la norma interna opera un mero
rinvio alla norma o alle norme internazionali, per cui l’ordine di osservarle vige finchè esse
vigono nell’ordinamento internazionale.
se è vero che il procedimento speciale è più idoneo ad assicurare l‟osservanza del diritto
internazionale, è anche vero che il procedimento ordinario può rivelarsi preferibile, o
addirittura indispensabile, in certi casi e cioè quando la norma internazionale non è
direttamente applicabile (norma non self-executing): una norma non è direttamente applicabile
quando la loro applicazione deve passare necessariamente per un’attività normativa
integratrice da parte degli organi statali. è ovvio poi che il procedimento speciale e il
procedimento ordinario possono coesistere integrandosi a vicenda.
una volta introdotte nell‟ordinamento interno, le norme internazionali sono fonti di diritti e di
obblighi per gli organi statali e per tutti i soggetti pubblici e privati che operano all‟interno
dello stato, al pari di una qualsiasi norma di origine nazionale. ma qual è la sfera di
applicazione della norma internazionale introdotta nell‟ordinamento interno? soprattutto nel
caso del procedimento speciale di adattamento la determinazione della fattispecie astratta e la
conseguente applicazione della norma ai rapporti interni possono rivelarsi complicate a causa
della formulazione internazionalistica della norma. si dice, in particolare, che tale tipo di
adattamento comporta una trasformazione del contenuto della norma internazionale per
renderla applicabile ai rapporti interni; in realtà non si tratta tanto di una trasformazione
quanto di un‟esatta determinazione dei limiti entro cui la norma può essere applicata.
qual è il rango assunto dal diritto internazionale generale nel sistema della gerarchia delle
fonti italiane? dal momento in cui il diritto internazionale generale viene introdotto
nell‟ordinamento italiano mediante procedimento speciale (l‟art. 10 cost. prevede infatti che
l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute), si può ritenere che, essendo tale adattamento previsto dalla
costituzione, tali norme si situino comunque ad un livello superiore alla legge ordinaria; una
legge ordinaria contraria al diritto internazionale consuetudinario sarà pertanto
costituzionalmente illegittima in quanto violerà indirettamente l‟art. 10 della costituzione e
potrà quindi essere annullata dalla corte costituzionale – e la giurisprudenza costituzionale è
nettamente orientata in tal senso. fatta questa premessa, e dunque confermato che le norme
internazionali generali, nazionalizzate per il tramite della costituzione si situano ad un livello
superiore della legge, sorge una domanda: può ritenersi che queste abbiano pieno rango
costituzionale oppure deve ritenersi che restino sottoposte alla costituzione, non potendo in
alcun modo derogare alle norme contenute in quest’ultima? il Conforti ritiene che l‟art. 10
della costituzione, in quanto prescrive l‟adattamento dell‟ordinamento giuridico italiano e
quindi del diritto italiano nella sua totalità, al diritto internazionale, intenda escludere che il
diritto consuetudinario sia subordinato al diritto costituzionale, con la conseguenza che il primo
prevarrà normalmente sul secondo a titolo di diritto speciale; sembra però che lo stesso articolo
in questione, se interpretato sistematicamente, contenga una clausola implicita di salvaguardia
dei principi fondamentali consegnati nella nostra costituzione: il diritto internazionale prevale
sul diritto nazionale finchè non si spinga oltre il limite di rottura con quei principi
fondamentali.
ADATTAMENTO DEL DIRITTO STATALE AI TRATTATI E ALLE FONTI DERIVATE
DAI TRATTATI
l‟adattamento alle norme pattizie internazionali avviene normalmente in italia con un atto ad
hoc relativo ad ogni singolo trattato. tale atto è l‟ordine di esecuzione che, come il
procedimento automatico di adattamento alle norme consuetudinarie previsto dall‟art. 10 cost.,
è un procedimento speciale: si limita infatti ad esprimere la volontà che il trattato sia eseguito
e applicato all‟interno dello stato, senza riformularne le norme ma rimettendo all‟interprete
interno la ricostruzione e l‟interpretazione delle medesime – tale ordine di esecuzione è di solito
dato con legge ordinaria.
ma quale valore ha il trattato per l’ordinamento italiano qualora non vi sia stato l’ordine di
esecuzione? il problema può sorgere nel caso dei trattati stipulati in forma semplificata
(conclusi con la sola sottoscrizione del testo) e in tutti i casi in cui un accordo vincoli sul piano
internazionale l‟italia ma non si sia provveduto ad eseguirlo all‟interno: la giurisprudenza è
unanime nel ritenere che, in difetto dell‟ordine di esecuzione, il trattato non abbia valore per
l‟ordinamento interno.
passiamo ora al problema del rango delle norme convenzionali introdotte nell‟ordinamento
italiano mediante l‟ordine di esecuzione, sia rispetto alla legislazione ordinaria sia rispetto alle
norme costituzionali:
trattati – legislazione ordinaria: fino all‟entrata in vigore della l. 3/2001 che ha modificato il
titolo V della costituzione, doveva ritenersi che tale rapporto fosse in tutto e per tutto un
rapporto tra norme di pari rango, regolato quindi dal principio per cui la legge posteriore
abroga l‟anteriore e la legge speciale prevale sulla legge comune. ma l‟art. 3 della legge in
questione, che modifica l‟art. 117 cost. ha rinnovato la materia, per cui ora si prevede che la
legislazione statale deve esercitarsi nel rispetto dei vincoli internazionali: viene dunque
sancita una preminenza degli obblighi internazionali e quindi anche degli obblighi derivanti
dai trattati, sulla legislazione ordinaria. di conseguenza deve ritenersi che sia viziata da
illegittimità costituzionale, per violazione indiretta della costituzione, e possa come tale
essere annullata dalla corte costituzionale, la legge ordinaria che non rispetti i vincoli
derivanti da un trattato.
trattati – norme costituzionali: in questo ambito non vi è alcun motivo per discostarsi dai
principi relativi alla gerarchia delle nostre fonti, per cui le norme pattizie immesse potranno
essere sottoposte a controllo di costituzionalità e annullate se violano norme della nostra
costituzione.
l’adattamento ad un trattato implica anche l’adattamento alle eventuali fonti da esso
previste? in particolare: l‟ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di un‟organizzazione
internazionale, implica l‟adattamento alle decisioni delle organizzazioni vincolanti per il nostro
stato oppure è indispensabile uno specifico atto interno di adattamento per ciascuna decisione?
può darsi innanzitutto che il trattato preveda espressamente la diretta applicabilità delle
decisioni degli organi all‟interno degli stati membri; in tal caso, che per quanto riguarda le
organizzazioni internazionali di cui è membro l‟italia fa riferimento solo ai regolamenti dell‟UE,
l‟immissione automatica delle norme prodotte dagli organi non può neanche essere messa in
discussione. quando poi, come di solito avviene, il trattato istitutivo dell‟organizzazione nulla
dispone in materia il problema va risolto interamente alla luce dell‟ordinamento interno: l‟italia,
cosi come la maggioranza degli altri paesi, è orientata nel senso dell‟adozione di singoli atti di
esecuzione per ciascuna decisione di organo internazionale vincolante l‟italia. è da precisare
tuttavia che una simile prassi non appare comunque decisiva per concludere che prima
dell‟emanazione degli specifici atti di adattamento le decisioni degli organi internazionali non
abbiano valore per l‟ordinamento italiano: secondo il Conforti, infatti, l‟ordine di esecuzione
del trattato istitutivo di una determinata organizzazione, in quanto copre anche la parte del
trattato che prevede la competenza di quella organizzazione ad emanare decisioni vincolanti,
già attribuisca a queste ultime piena forza giuridica interna. l‟emanazione dei singoli atti di
adattamento nella forma ordinaria serve infatti, da un lato ai fini di una maggiore certezza e,
dall‟altro, ad integrare il contenuto non sempre autosufficiente (non sempre self-executing)
della decisione internazionale; ma per quanto riguarda la forza formale delle decisioni detta
emanazione è superflua.
ADATTAMENTO DEL DIRITTO STATALE AL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
come ha luogo l’adattamento del diritto statale ai trattati dell’unione e ai vari atti della
legislazione comunitaria? a tutti i trattati succedutisi nel tempo si è dato sempre esecuzione
con legge ordinaria. per effetto dell‟ordine di esecuzione non solo hanno acquistato forza
giuridica le norme dei trattati, ma anche e automaticamente le norme dei regolamenti. su questo
dubbio non vi può essere alcun dubbio, dato che l‟art. 288 TFUE prevede espressamente che i
regolamenti sono direttamente applicabili in ciascuno degli stati membri. la diretta e automatica
applicabilità dei regolamenti riguarda la forza formale dei regolamenti medesimi: ciò significa
che tutti i regolamenti acquistano tale e forza e possono creare diritti e obblighi all‟interno del
nostro stato indipendentemente da provvedimenti di adattamento ad hoc. ciò non significa
comunque che tutti i regolamenti siano direttamente o meglio immediatamente applicabili (self-
executing) anche per quanto riguarda il contenuto – al contrario, vi sono infatti dei regolamenti
che nascono incompleti ad abbisognano comunque, per poter produrre i loro effetti o taluni di
questi, di atti statali di esecuzione ed integrazione.
se i regolamenti sono direttamente applicabili al diritto nazionale ai sensi dell’art. 288 TFUE,
cosa succede per le direttive e le decisioni? per molto tempo l‟opinione più diffusa al riguardo
è stata che, prescrivendo l‟art. 288 TFUE la diretta applicabilità dei soli regolamenti, le
direttive e le decisioni non fossero automaticamente applicabili in virtù della legge di
esecuzione dei trattati, ma necessitassero in ogni caso di atti di adattamento ad hoc. tuttavia,
dal momento in cui l‟ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di un‟organizzazione
internazionale come l‟unione europea copre anche la competenza della stessa ad emanare
decisioni vincolanti, è da escludere che le direttive e le decisioni siano del tutto inapplicabili
prima e indipendentemente dai provvedimenti interni che le eseguono. tale tesi infatti si
fondava sul di un argomento a contrario (e cioè la previsione della diretta applicabilità per i soli
regolamenti) ma dimenticava che l‟art. 288 TFUE sanciva l‟obbligatorietà anche degli altri due
tipi di atti e dunque l‟osservanza di direttive e decisioni.
in conclusione: regolamenti, direttive e decisioni sono tutti sullo stesso piano per quanto
concerne la loro diretta applicabilità; l‟emanazione di atti interni di esecuzione è necessaria solo
quando il regolamento, la direttiva o la decisione sono incompleti; la direttiva, essendo
incompleta per definizione, può produrre immediatamente solo gli effetti conciliabili con
l‟obbligo di risultato.
efficacia diretta negli ordinamenti degli stati membri deve riconoscersi anche agli accordi
conclusi dall‟UE con stati terzi, sempre che, e nei limiti in cui, tali accordi contengano norme
complete – ciò in applicazione del principio per cui l‟adattamento ad un trattato implica
l‟automatico adattamento agli atti che il trattato medesimo considera come vincolanti.
occupiamoci ora del rango delle norme dell’UE:
norme comunitarie – legislazione ordinaria: sul punto la nostra corte costituzionale ha
cambiato più volte opinione. l‟ultimo e definitivo cambiamento è nel senso che non solo il
diritto comunitario direttamente applicabile prevalga sulle leggi interne anteriori o
posteriori ad esso che siano, ma è anche dell‟opinione che qualsiasi giudice o organo
amministrativo debba disapplicare le leggi dello stato nel caso di conflitto con una norma
comunitaria direttamente applicabile.
norme comunitarie – norme costituzionali: la corte di giustizia dell‟unione ha inizialmente
affermato che la tutela dei diritti fondamentali dell‟individuo, anche se non espressamente
prevista dai trattati comunitari, non fosse comunque estranea al diritto comunitario in
quanto comunque garantita dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri. e ad un
tale indirizzo si sono successivamente conformate sia la corte costituzionale italiana che
quella tedesca. quest‟ultima, in particolare, dopo aver più volte dichiarato di non voler
comunque rinunciare alla sua funzione di garante del rispetto dei diritti fondamentali
neppure in ordine agli atti comunitari, ha cambiato opinione, promettendo che non avrebbe
più controllato la legislazione comunitaria finchè la corte di giustizia avrebbe assicurato in
linea generale una protezione effettiva dei diritti fondamentali.
tuttavia, in un secondo momento, sia la corte costituzionale italiana che quella tedesca si sono
allontanate da questa iniziale visione condivisa con la corte comunitaria: la prima si è infatti
riservata la possibilità di verificare se una qualsiasi norma del trattato non venga in
contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano; la seconda si è invece
riservata di intervenire nei casi in cui, attraverso le procedure innanzi alla corte comunitaria,
non sia assicurato lo standard di protezione dei diritti umani considerato come
irrinunciabile dalla legge fondamentale.
DIRITTO INTERNAZIONALE E COMPETENZA DELLE REGIONI
quando il diritto internazionale o comunitario interferiscono in materia che in italia formano
oggetto di legislazione regionale, sia la competenza esclusiva o concorrente con lo stato, in che
modo avviene il coordinamento tra i due tipi di norme? un principio sempre applicato e
tutt‟ora valido è quello del rispetto, da parte delle regioni, degli obblighi internazionali – tale
principio è oggi sancito dall‟art. 117 cost. come modificato dalla l. 3/2001 che obbliga il
legislatore regionale al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali.
sorge però un‟altra domanda: quando si tratta di adottare norme interne di esecuzione di
norme internazionali o comunitarie non direttamente applicabili e queste riguardano materie
di competenza regionale, esclusiva o concorrente che sia, in che misura le regioni possono
intervenire? all‟inizio degli anni ‟70 la corte costituzionale aveva ritenuto che, rientrando i
rapporti internazionali e comunitari nella materia degli affari esteri, soltanto lo stato potesse
procedere alla loro attuazione e che l‟unica possibilità lasciata alle regioni fosse quella di
agire per delega degli organi statali centrali con conseguente esercizio da parte di questi ultimi
di un potere di controllo o di sostituzione in caso di inerzia. successivamente alla modifica
dell‟art. 117 cost. con la l. 3/2001, la situazione è andata via via cambiando: si è avuta infatti una
sempre maggiore apertura delle competenze delle regioni. in particolare, la corte costituzionale
ha riconosciuto ad esse la competenza autonoma ed originaria a partecipare, per le materie
rientranti nelle loro attribuzioni, all’attuazione del diritto internazionale e comunitario
direttamente applicabile; la corte costituzionale ha peraltro dilatato il potere sostitutivo dello
stato non limitandolo al solo caso di inerzia delle regioni, ma estendendolo in modo tale da
lasciare del tutto incerti i suoi confini e da giustificare una molteplicità di interventi degli organi
centrali / ad esempio in caso di urgenza o per esigenze di uniformità sorrette dall‟interesse
nazionale, ecc.
VIOLAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI E CONSEGUENZE
FATTO ILLECITO ED ELEMENTI COSTITUTIVI
può darsi che il diritto interno non riesca, nonostante i procedimenti di adattamento, ad evitare
che lo stato incorra in una violazione del diritto internazionale e dunque in fatto illecito
internazionale. si pone allora il problema della responsabilità internazionale degli stati:
quando si ha un fatto illecito internazionale e dunque quali sono i suoi elementi costitutivi?
quali sono le conseguenze che scaturiscono da questo e dunque di quali mezzi si dispone
nell‟ambito della comunità internazionale per reagire contro di esso? alla responsabilità degli
stati la dottrina ha dedicato approfondite indagini dagli inizi del „900 ad oggi e già ai tempi
della società delle nazioni furono fatti vari tentativi di codificazione ma senza alcun risultato
valido. dal 1953 la commissione di diritto internazionale ha poi intrapreso lo studio
dell‟argomento, ma ha un progetto definitivo di codificazione ha visto la luce solo nel 2001,
cinquant‟anni dopo – il che prova la complessità della materia e delle implicazioni fortemente
politiche che essa presenta. questo progetto definitivo si occupa, in 59 articoli, sia degli
elementi dell‟illecito, sia delle sue conseguenze – e che la materia sia importante anche da un
punto di vista politico viene testimoniato dal fatto che la stessa commissione ha raccomandato
all‟assemblea generale delle nazioni unite di prendere soltanto atto del rapporto e di
considerarne semmai in futuro l‟eventuale trasfusione in una convenzione di codificazione (per
ora non ancora avvenuta).
una caratteristica fondamentale del progetto è quella di considerare i principi sulla
responsabilità come valevoli in linea di massima per la violazione di qualsiasi norma
internazionale; tutti i precedenti tentativi di codificazione e buona parte delle indagini
dottrinali, infatti, si erano limitati ad esaminare la responsabilità nel quadro delle norme sul
trattamento degli stranieri in quanto unico ambito in cui esisteva una prassi abbondante ed
omogenea, fondata sulla responsabilità aquiliana: chi cagiona ad altri un danno ingiusto è
tenuto a ripararlo. al contrario, infatti, quando si cerca di ricostruire un regime di responsabilità
che abbracci tutte le possibili violazioni del diritto internazionale, si va incontro a serie
difficoltà: vuoi perchè la prassi diviene frammentaria ed incerta, vuoi perchè per molte e gravi
violazioni il parlare di un obbligo di riparazione ha poco o nessun senso, vuoi perchè la scarsità
dei mezzi diretti ad assicurare l‟attuazione delle norme internazionali diviene ancora più
evidente, ecc.
elemento soggettivo: data la coincidenza tra lo stato come soggetto di diritto internazionale e
lo stato-organizzazione (insieme dei governanti), è ovvio che il fatto illecito consista in un
comportamento di uno o più organi statali, essendo questi tutti coloro che partecipano
all‟esercizio del potere di governo. dunque, sono solo gli organi statali con cui lo stato si
identifica i possibili autori delle violazioni del diritto internazionale.
questo viene confermato nel progetto del 2001 che indica all‟art. 2 gli elementi del fatto
illecito: un comportamento a) attribuibile allo stato b) consistente in una violazione di un
obbligo internazionale dello stato; all‟art. 4 specifica poi il primo elemento (soggettivo):
comportamento di un qualsiasi organo dello stato, sia esso legislativo, giudiziario o
esecutivo, del governo centrale o di un ente territoriale.
se l‟illecito internazionale è opera degli organi statali, resta esclusa la responsabilità dello
stato per atti di privati che arrechino danni a individui, organi o stati stranieri. a configurare
una responsabilità dello stato in questi termini perveniva una vecchia teoria germanica della
solidarietà di gruppo: il gruppo è responsabile per le azioni dannose dei suoi membri. la
teoria fu però abbandonata a favore di una dottrina che limitava la responsabilità dello stato
ai soli casi di tolleranza delle azioni compiute dai privati nel proprio territorio. dunque,
possiamo dire che il comportamento di cui è responsabile lo stato nel caso di atti di privati
dannosi nei confronti di individui, organi o stati stranieri, consiste in un‟omissione; si sta
però facendo strada l‟opinione secondo cui in certi casi, di fronte alla violazione di norme
internazionali da parte di privati, lo stato risponderebbe direttamente per una sorta di
complicità col violatore e pertanto per un illecito commissivo e non omissivo – questi casi
sono quelli in cui lo stato tollera ripetutamente la violazione o la incoraggia o coopera col
violatore.
elemento oggettivo: il progetto si occupa agli artt. 12 ss. del secondo elemento del fatto
illecito e cioè dell‟illiceità del comportamento dell‟organo statale. si tratta dell‟elemento
oggettivo di cui l‟art. 12 dà una definizione lapalissiana: si ha violazione di un obbligo
internazionale da parte di uno stato quando un fatto di tale stato non è conforme a ciò che
gli è imposto dal predetto obbligo.
all‟elemento oggettivo dell‟illecito internazionale attengono anche le cause, o circostanze,
escludenti l’illiceità:
consenso dello stato leso, art. 20: il consenso validamente dato da uno stato alla
commissione da parte di un altro stato di un fatto determinato esclude l’illiceità di tale
fatto nei confronti del primo stato sempre che il fatto medesimo resti nei limiti del
consenso. la norma in questione, ispirata al principio volenti non fit iniuria, trova ampio
riscontro nella prassi internazionale ed ha quindi natura consuetudinaria.
autotutela, artt. 21 e 22: tipologia di azione diretta a reprimere l’illecito altrui e che per
questa funzione non può essere considerata come antigiuridica anche qualora violino
norme internazionali.
forza maggiore, art. 23: verificarsi di una forza irresistibile o di un evento imprevisto, al
di là del controllo dello stato, che rende dunque materialmente impossibile l‟adempimento
dell‟obbligo.
stato di necessità, artt. 24 e 25: consiste nell‟aver commesso il fatto per evitare un pericolo
grave, imminente e non volontariamente causato.
a norma dell‟art. 24 l’illiceità di un atto di uno stato non conforme ad un obbligo
internazionale è escluso se l’autore di quell’atto non ha nessun altro mezzo, in una
situazione di estremo pericolo, per salvare la propria vita o quella delle altre persone
affidate alle sue cure. e l‟art. 25 prosegue: lo stato non può invocare lo stato di necessità
come causa di esclusione dell’illiceità di un atto non conforme ad uno dei suoi obblighi
internazionali se non quando tale atto a) costituisca l’unico mezzo per proteggere un
interesse essenziale contro un pericolo grave ed imminente e b) non leda gravemente un
interesse essenziale dello stato o degli stati nei confronti dei quali l’obbligo sussiste,
oppure della comunità internazionale nel suo complesso. in ogni caso lo stato di necessità
non può essere invocato da uno stato come motivo di esclusione dell’illiceità se a)
l’obbligo internazionale in questione esclude la possibilità di invocare lo stato di
necessità o b) lo stato ha contribuito al verificarsi della situazione di necessità.
non è del tutto azzardata la tesi secondo cui l‟illiceità sia esclusa quando l‟osservanza di
una norma internazionale, quando non si tratti di jus cogens, urti contro principi
fondamentali della costituzione dello stato. infatti, la corte costituzionale italiana annullò
una serie di norme interne di esecuzione di norme internazionali pattizie contrarie a
principi costituzionali.
o colpa: per aversi responsabilità è necessaria la sussistenza della colpa dell‟organo statale
autore della violazione? partiamo innanzitutto da qualche concetto di teoria generale che
individua tre tipi di responsabilità:
responsabilità per colpa: l‟autore dell‟illecito ha compiuto il fatto intenzionalmente (dolo)
o almeno con negligenza, ossia trascurando di adottare le misure necessarie per impedire
l‟evento dannoso. la responsabilità si gradua a seconda del grado di diligenza richiesto.
responsabilità oggettiva relativa: sorge per effetto del solo compimento dell’illecito, ma
l‟autore può invocare, per sottrarsi alla responsabilità, una causa di giustificazione
consistente in un evento esterno che gli ha reso impossibile il rispetto della norma.
responsabilità oggettiva assoluta: sorge automaticamente dal comportamento contrario ad
una norma giuridica e non ammette alcuna causa di giustificazione.
con riferimento al diritto internazionale possiamo dire che per molto tempo la responsabilità
dello stato (studiata inizialmente solo in relazione alla violazione delle norme sul trattamento
degli stranieri) è stata configurata come responsabilità per colpa; solo agli inizi del secolo
scorso la visione è iniziata a mutare nella direzione della natura obiettiva della responsabilità
internazionale. in particolare, oggi si ritiene che il regime della responsabilità debba
risultare anzitutto dalla specifica situazione, e che nei casi residui si debba parlare di
responsabilità oggettiva relativa: lo stato deve risponde di qualunque violazione del diritto
internazionale da parte dei suoi organi purchè non dimostri l‟impossibilità assoluta
dell‟osservanza dell‟obbligo.
o danno: per aversi responsabilità è necessario l‟elemento del danno e dunque la lesione di un
interesse diretto e concreto dello stato nei cui confronti l‟illecito è perpetrato? la commissione
di diritto internazionale ha preso una posizione negativa al riguardo in vista del fatto che ad
oggi vi sono norme di diritto internazionale la cui inosservanza da parte di uno dei loro
destinatari è certamente sentita come un illecito anche quando non vi sia un danno.
CONSEGUENZE DEL FATTO ILLECITO INTERNAZIONALE
commessa una violazione del diritto internazionale, lo stato deve risponderne. ma in che cosa
consiste la sua responsabilità e dunque quali sono le conseguenze dell’illecito? di quali
mezzi si dispone nella comunità internazionale per reagire contro lo stato offensore? chi e in
quali circostanze può ricorrere a siffatti mezzi? le conseguenze del fatto illecito internazionale
hanno formato oggetto di un‟estesa speculazione teorica che ha contribuito in modo notevole
alla sistemazione della materia. l‟opinione oggi più diffusa è che le conseguenze dell‟illecito
consistano in una nuova relazione giuridica tra lo stato offeso e lo stato offensore; rapporto
discendente da una norma apposita, c.d. norma secondaria contrapposta alla norma primaria
ossia alla norma violata. secondo l‟Anzilotti le conseguenze del fatto illecito consisterebbero,
più o meno come nell‟illecito civile nel diritto interno, unicamente nel diritto dello stato offeso
di pretendere e nell‟obbligo dello stato offensore, di fornire un‟adeguata riparazione – diritto e
obbligo che costituirebbero, appunto, il contenuto della norma secondaria. questa riparazione
comprenderebbe sia il ripristino della situazione quo ante sia il risarcimento del danno o, nel
caso di danno immateriale, la soddisfazione (presentazione ufficiale di scuse, omaggio alla
bandiera dello stato offeso, ecc.).
lo schema dell‟Anzilotti circa il nuovo rapporto che si costituisce tra i due stati è stato seguito da
molti autori ed ha subito, nel corso del tempo, una serie di modifiche la più rilevante delle quali
riguarda la tendenza di considerare tra le conseguenze giuridiche autonome dell‟illecito anche i
mezzi di autotutela ed in particolare le rappresaglie (o contromisure): dal fatto illecito
discenderebbe per lo stato offeso sia il diritto di chiedere la riparazione sia il diritto di
ricorrere a contromisure coercitive, non necessariamente implicanti l‟uso della forza, aventi lo
scopo di infliggere una vera e propria punizione allo stato offensore. da questa visione si
discosta un‟autorevole corrente di pensiero che fa capo al Kelsen: afferma infatti che sia inutile
una costruzione delle conseguenze dell‟illecito in termini di diritti e obblighi in quanto si
arriverebbe ad un regressus ad infinitum derivante dal fatto che la violazione dell‟obbligo di
riparare, costituendo a sua volta fatto illecito, produrrebbe un altro obbligo di riparare, e cosi
via; secondo l‟autore, infatti, l‟illecito ha come unica ed immediata conseguenza il ricorso alle
misure di autotutela, mentre la riparazione sarebbe soltanto eventuale e dipenderebbe in ultima
analisi dalla volontà dello stato offeso e dello stato offensore di evitare l‟uso della coercizione
regolando in modo pacifico la questione. non c‟è dubbio che le idee del Kelsen siano in larga
misura derivate dalla sua forte concezione imperativistica, ma è anche vero che se a prescindere
da queste si analizza quello che avviene nella prassi, questa è la teoria che più vi si avvicina.
la normale reazione contro l’illecito è, dunque, l’autotutela e cioè il farsi giustizia da sè – ciò
che nel diritto interno è un fatto eccezionale, ammesso solo entro certi limiti e in presenza di
circostanze eccezionali, nel diritto internazionale è la regola in quanto manca un sistema
accentrato di garanzia dell‟attuazione delle norme.
a partire dalla fine della seconda guerra mondiale si è fatta strada l‟opinione, espressa anche
dalla corte internazionale di giustizia, secondo cui l‟autotutela non possa consistere nella
minaccia o nell‟uso della forza, peraltro vietati dall‟art. 2 della carta delle nazioni unite e dallo
stesso diritto internazionale consuetudinario; tale principio trova tuttavia un limite generale
nella legittima difesa: risposta ad un attacco armato già sferrato cosi come previsto dall‟art. 51
della stessa carta. vi sono altre eccezioni che consentono l’uso della forza? sono stati fatti vari
tentativi per poter dare una risposta affermativa alla domanda e possiamo ricondurli a due
filoni:
scopi umanitari: gli interventi armati sono ammissibili per proteggere la vita dei propri
cittadini all’estero o per ridurre alla ragione stati che compiano violazioni gravi dei diritti
umani nei confronti dei loro stessi cittadini
estensione della categoria della legittima difesa: tale estensione è stata praticata per
legittimare l‟uso della forza in via preventiva o per giustificare le reazioni contro stati sul cui
territorio gruppi terroristici stabiliscono le loro basi o preparano attacchi contro altri stati.
la legalità dell‟uso della forza nelle eccezioni sopra menzionate ha sempre suscitato
l‟opposizione da parte di molti stati e sono stati sollevati forti dubbi anche in dottrina: per
quanto riguarda il filone umanitario si è insistito sul fatto che l‟uso della forza, a parte la
legittima difesa, non possa che essere autorizzato dal consiglio di sicurezza dell’ONU nel
quadro di un sistema di sicurezza collettiva; con riferimento invece all‟estensione dei casi di
legittima difesa, questa è stata considerata un espediente per giustificare un illegittimo uso
della forza.
la specie più importante di autotutela è la rappresaglia o, con termine più appropriato, la
contromisura. secondo l‟insegnamento comune, riflesso anche dall‟art. 49 del progetto, la
contromisura consiste in un comportamento dello stato leso, che in sè sarebbe illecito, ma che
diviene lecito in quanto costituisce reazione ad un illecito altrui: lo stato leso può, per reagire
contro lo stato offensore, violare a sua volta, nei confronti di quest‟ultimo, gli obblighi che gli
derivano da norme consuetudinarie.
le contromisure incontrano vari limiti previsti dal diritto internazionale sia generale che
particolare:
proporzionalità tra violazione subita e violazione commessa per contromisura. non si tratta
di una perfetta corrispondenza tra le due violazioni e per questo si dice che più che la
proporzionalità il diritto internazionale richiede che non vi sia un‟eccessiva sproporzione tra
le due violazioni – è chiaro infatti che se la sproporzione c‟è la contromisura diventa illecita
per la parte eccedente; ed è chiaro pure che se si vuole esser certi che la reazione non sia
sproporzionata la strada più praticabile è quella di farla consistere nella violazione del
medesimo obbligo violato.
impossibilità di ricorrere a violazioni del diritto internazionale cogente, anche nel caso in cui
si tratti di reagire contro violazioni dello stesso tipo. e poichè tra le norme di jus cogens vi è
anche quella che tutela la dignità umana, è ovvio anche il limite del rispetto dei principi
umanitari - secondo il Conforti, tra l‟altro, il diritto cogente segna l‟ambito in cui la
contromisura diviene illegittima
si ritiene poi, e l‟opinione è accolta anche dall‟art. 52 del progetto, che alla contromisura non
possa farsi ricorso se non si sia prima tentato di giungere ad una soluzione concordata della
controversia – in realtà sul punto la prassi non è univoca e dunque non si può dire che vi sia
un regola generale.
come altra specie del genere autotutela va considerata anche la ritorsione, che si distingue dalla
contromisura in quanto non consiste in una violazione di norme internazionali ma in un
comportamento solo inamichevole, come ad esempio l‟attenuazione o la rottura dei rapporti
diplomatici o della collaborazione economica e commerciale.
fin qui si è sempre considerata l‟ipotesi che a reagire contro l‟illecito sia direttamente lo stato
offeso. ma una reazione nei confronti di un illecito internazionale può provenire anche da
stati che non abbiano subito alcuna lesione? il problema viene posto anzitutto per certe
convenzioni multilaterali che tutelano interessi che fanno capo alla collettività degli stati
contraenti o addirittura che tutelano valori particolarmente sentiti nell‟ambito della comunità
internazionale, ma anche con riferimento alle norme che prevedono obblighi erga omnes. che
reazioni possono mettere in atto gli omnes in caso di inosservanza di simili obblighi? diciamo
subito che la questione non può essere risolta in termini teorici; non si può dire, cioè, che
trattandosi di obblighi esistenti erga omnes ogni stato abbia senz‟altro diritto a reagire con
contromisure in caso di violazione ed in nome dell‟interesse comune. e anzi, è da evidenziare
che si tratti di obblighi sprovvisti di sanzioni, per cui si verifica normalmente il caso di un
illecito internazionale da cui non consegua alcuna responsabilità o comunque una
responsabilità attenuata. ciò premesso è innegabile che la possibilità per stati terzi di intervenire
sia prevista, con specifiche modalità e in ordine a specifici obblighi internazionali, da singole
norme consuetudinarie internazionali. il caso più importante è quello della legittima difesa
collettiva in caso di attacchi armati, riconosciuta dall‟art. 51 della carta della nazioni unite ed
ammessa, secondo l‟opinione espressa anche dalla corte internazionale di giustizia, dallo stesso
diritto internazionale generale – come la corte ha stabilito, infatti, le misure anche militari che lo
stato terzo può prendere devono rispondere ai criteri della necessità e della proporzionalità e
comunque presuppongono una precisa richiesta dello stato aggredito; è poi possibile, passando
dal piano del diritto consuetudinario a quello del diritto pattizio, che una convenzione
multilaterale preveda essa stessa, in caso di violazione di una delle sue norme, il diritto di
ciascuno stato contraente di intervenire con sanzioni, anche se non direttamente leso – anche se
in realtà la prassi non offre esempi del genere.
DUNQUE, escluso quanto possono prescrivere le singole norme consuetudinarie o pattizie,
esistono principi generali che consentono ad uno stato di intervenire a tutela di un interesse
fondamentale della comunità internazionale o di un interesse collettivo? nonostante tale
ultima tesi sia sostenuta da larga parte della dottrina, il Conforti ha sempre dato una risposta
negativa con riferimento a vere e proprie contromisure e in realtà la prassi non offre elementi
significativi e decisivi in senso contrario. e per quanto riguarda le ritorsioni? l‟art. 41 del
progetto della commissione di diritto internazionale individua come particolari conseguenze
derivanti da illeciti internazionali l‟obbligo di tutti gli stati di non cooperare con lo stato
autore dell‟illecito – viene cosi riconosciuta la possibilità, per gli stati non lesi, di reagire
mediante ritorsione nei confronti di un illecito che leda un interesse fondamentale della
comunità o un interesse collettivo.
un‟altra conseguenza del fatto illecito internazionale, oltre alla responsabilità dello stato
offensore e alla possibilità, per lo stato offeso, di ricorrere all‟autotutela nei limiti sopra visti, è
rappresentata dalla riparazione. la riparazione è l‟obbligo che incombe sullo stato autore
dell‟illecito di riparare il torto causato; nella riparazione si è soliti far rientrare l‟obbligo della
restituzione in forma specifica, ossia del ristabilimento della situazione di fatto e di diritto
esistente prima del compimento dell‟illecito – ove possibile. anche la soddisfazione è
considerata una forma di riparazione e precisamente una forma di riparazione di danni morali,
cioè riparazione dovuta per il solo fatto che l‟illecito sia stato compiuto e a prescindere dalla
richiesta di risarcimento di eventuali danni patrimoniali – si ritiene che, a titolo di riparazione
morale, lo stato offensore sia tenuto a dare soddisfazione allo stato leso mediante
comportamenti come la presentazione di scuse, l‟omaggio alla bandiera, il versamento di una
somma simbolica, ecc. a tal proposito possiamo dire che, se si guarda alla prassi
contemporanea, la soddisfazione, se accettata dallo stato, fa normalmente venir meno le
ulteriori conseguenze del fatto illecito e in particolare il ricorso all‟autotutela di cui sopra.
in definitiva, quindi, l‟unica vera forma di riparazione è costituita dal risarcimento del danno
prodotto dall‟illecito internazionale. ma sorge una domanda: l’obbligo di risarcire scaturisce da
ogni e qualsiasi violazione di norme internazionali? senza dubbio, come si ricava da
un‟abbondante prassi, è previsto che nel caso di maltrattamento dello straniero da parte dello
stato nazionale, lo stato straniero può far valere la protezione diplomatica per il risarcimento
del danno procurato alla persona o ai beni del suo suddito; negli altri casi la prassi non può
dirsi certa e può dirsi pertanto che il risarcimento sia senz‟altro dovuto quando la violazione del
diritto internazionale consista in, o si accompagni ad, un‟azione violenta contro beni, mezzi ed
organi dello stato; fuori di questi casi, invece, è difficile ritenere che il diritto internazionale
consuetudinario imponga che il danno venga risarcito – e ciò ove si consideri che vi è tutta una
serie di settori in cui danni patrimoniali certamente vengono prodotti agli altri stati ma che
normalmente non costituiscono oggetto di pretese di risarcimento. ancor meno sembra che un
obbligo di risarcimento scaturisca dalle guerre di aggressione: basti pensare in proposito alle
vicende delle riparazione di guerra imposte alla germania dopo la prima guerra mondiale mai
ottenute e alle fine cancellate.
RESPONSABILITA’ DA FATTI LECITI
si discute se in alcuni casi la responsabilità internazionale, ed in particolare l‟obbligo del
risarcimento dei danni, possa derivare da fatti leciti. il settore che è soprattutto preso in
considerazione a tal fine è il settore delle attività altamente pericolose ed inquinanti, e ci si
chiede: lo stato, pur essendo libero di svolgere o far svolgere nel suo territorio qualsiasi
attività,anche la più pericolosa, deve rispondere dei danni causati al territorio di altri stati? la
risposta non è facile, tanto più in un ordinamento primitivo come quello internazionale. per
dare una definizione: una responsabilità oggettiva può essere qualificata come responsabilità
senza illecito quando lo stato è chiamato a rispondere non soltanto delle attività svolte dai suoi
organi, ma anche da quelle svolte dagli individui posti sotto il suo controllo e dunque quando
l‟attività che darebbe luogo a responsabilità non è imputabile allo stato. ma il diritto
internazionale, come sopra detto assai primitivo, non conosce una responsabilità cosi sofisticata
e cosi improntata al solidarismo come la responsabilità da fatto lecito. numerose convenzioni si
preoccupano del risarcimento dei danni prodotti da attività pericolose: queste, a parte la
convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti spaziali il cui art.
II prevede che lo stato di lancio risponda dei danni causati dai suoi oggetti spaziali alla
superficie terrestre, non si riferiscono alla responsabilità internazionale ma a quella di diritto
interno: si tratta infatti di convenzioni che si limitano ad imporre agli stati contraenti l‟obbligo
di predisporre al loro interno sistemi appropriati di responsabilità civile o addirittura penale.
IL SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVA PREVISTO DALLA CARTA DELL’ONU
la carta delle nazioni unite da un lato sancisce, all‟art. 2, il divieto dell’uso della forza nei
rapporti internazionali, dall‟altro, all‟art. 39 ss., accentra in un organo delle nazioni unite, il
consiglio di sicurezza, la competenza a compiere le azioni necessarie per il mantenimento
dell‟ordine e della pace tra gli stati ed in particolare ad usare la forza a fini di polizia
internazionale - la maggior parte degli interventi del consiglio hanno riguardato crisi interne
agli stati, come guerre civili, violazioni gravi e ripetute dei diritti umani, ecc.
ai sensi del capitolo VII della carta delle nazioni unite, il consiglio di sicurezza accerta anzitutto
l‟esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione
(art. 39); successivamente stabilisce sia quali misure sanzionatorie ma non implicanti l‟uso della
forza (art. 41) sia quali misure implicanti l‟uso della forza (art. 42 ss.) debbano essere prese nei
confronti o all‟interno di uno stato. peraltro, prima di ricorrere alle une o alle altre, il consiglio
può invitare le parti interessate a prendere quelle misure provvisorie che consideri necessarie al
fine di non aggravare la situazione (art. 40).
nell‟accertare se sussista una minaccia o violazione della pace o un atto di aggressione, il
consiglio gode di un larghissimo potere discrezionale che può esercitarsi soprattutto con
riferimento all‟ipotesi della “minaccia della pace”: si tratta infatti di un‟ipotesi assai vaga ed
elastica che, a differenza dell‟aggressione e della violazione della pace, non è necessariamente
caratterizzata da operazioni militari e che quindi si presta ad inquadrare i più vari
comportamenti di uno stato e le più varie situazioni.
esaminiamo ora le tre fasi dell’azione del consiglio:
misure provvisorie, art. 40: al fine di prevenire un aggravarsi della situazione il consiglio di
sicurezza può invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che
esso consideri necessarie o desiderabili. tali misure provvisorie non devono pregiudicare i
diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate.
misure non implicanti l‟uso della forza, art. 41: il consiglio può vincolare gli stati membri
dell‟ONU a prendere tutta una serie di misure, da quelle più blande a quelle più severe,
contro uno stato che, sempre a giudizio insindacabile dell‟organo, minacci o abbia violato la
pace, oppure, nelle crisi interne, contro gruppi armati, o ancora, nel quadro della lotta contro
il terrorismo internazionale, contro gruppi terroristici.
misure implicanti l‟uso della forza: gli artt. 42 ss. si occupano dell‟ipotesi che il consiglio
decida di impiegare la forza: contro uno stato colpevole di aggressione, minaccia o
violazione della pace; all’interno di uno stato, intervenendo in una guerra civile. il ricorso a
misure violente da parte del consiglio è chiaramente concepito come un‟azione di polizia
internazionale.
passiamo ora alle modalità attraverso cui il consiglio di sicurezza può agire: gli artt. 43, 44 e 45
prevedono l‟obbligo per gli stati membri di stipulare con il consiglio degli accordi intesi a
stabilire il numero, il grado di preparazione, la dislocazione, ecc. delle forze armate utilizzabili
poi dall‟organo, totalmente o parzialmente, via via che se ne presenti la necessità; secondo gli
artt. 46 e 47 l‟utilizzazione in concreto dei vari contingenti nazionali deve far capo ad un
comitato di stato maggiore composto dai capi di stato maggiore dei cinque membri permanenti
e posto sotto l‟autorità del consiglio. gli artt. 43 ss. non hanno mai ricevuto applicazione: gli
accordi per la messa a disposizione del consiglio dei contingenti militari nazionali non hanno
mai visto la luce; nè ha mai funzionato il comitato di stato maggiore.
possiamo però dire che fino ad oggi il consiglio è intervenuto in crisi internazionali o interne
con misure di carattere militare in due modi diversi, talvolta cumulandoli: ha creato delle forze
delle nazioni unite (c.d. caschi blu) incaricate, ma con compiti assai limitati, di operare per il
mantenimento della pace; ha autorizzato l’uso della forza da parte degli stati membri, sia
singolarmente sia nell‟ambito delle organizzazioni regionali; ma l‟impiego delle forze dell‟ONU
ha finito col rivelarsi abbastanza impraticabile per una serie di ragioni di vario tipo e per questo
il consiglio di sicurezza si è orientato sempre di più verso l‟impiego diretto di contingenti
militari da parte degli stati membri. è legittima l‟autorizzazione dell‟uso della forza agli stati da
parte del consiglio? a causa della constatata inefficienza del sistema di sicurezza collettiva si è
fatta strada la prassi dell‟autorizzazione agli stati: ormai il consiglio tende sempre di più a
seguire tale prassi, sia pure mantenendo un certo controllo sulle operazioni e peraltro senza
incontrare alcuna opposizione da parte degli stati stessi; ne consegue dunque che
l‟autorizzazione agli stati può considerarsi prevista da una norma consuetudinaria ad hoc.
ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI
ARBITRATO E CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA
la funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi natura arbitrale, essendo ancorata al
principio per cui un giudice internazionale non può giudicare se la sua giurisdizione non è stata
preventivamente accettata da tutti gli stati parti dei una controversia – il che non aiuta di certo
all‟affermazione della giustizia nei rapporti tra gli stati.
gli stati sono liberi di deferire ad un tribunale internazionale una qualsiasi controversia che
riguardi i loro rapporti; ciò che è importante è che essi siano d‟accordo nel sottoporre la
controversia ad un‟istanza giurisdizionale internazionale accettandone come vincolante la
decisione – se manca tale accordo non è possibile costringere lo stato a sottoporsi a giudizio.
dunque non esistono controversie giustiziabili e non giustiziabili: il diritto internazionale è in
grado di pronunciarsi su qualunque rapporto tra stati; esistono solo controversie per cui le parti
assumono l‟impegno di sottoporsi ad un tribunale internazionale comunque costituito e
controversie per cui tale impegno non viene assunto e viene invece preferita la “via
diplomatica*”.
l‟istituto dell‟arbitrato internazionale si è notevolmente evoluto a partire dalla seconda metà del
XIX secolo: seppur tale evoluzione non ha intaccato il fondamento volontaristico del processo
internazionale, si sono comunque posti in essere degli accorgimenti per favorire la formazione
dell‟accordo e l‟istituzionalizzazione della funzione arbitrale.
punto di partenza dell‟evoluzione dell‟istituto è l‟arbitrato isolato: sorta una controversia tra
due o più stati si stipulava un accordo, definito compromesso arbitrale, col quale si nominava
un arbitro o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola procedurale e ci si
obbligava a rispettare la sentenza emessa. si trattava dunque della forma più rudimentale e
approssimativa possibile di accertamento giudiziale del diritto. si è avuta poi un‟evoluzione che
è possibile distinguere in due fasi:
prima fase: si è iniziato a ricorrere ad una serie di meccanismi per facilitare l‟accordo degli
stati necessario per l‟instaurazione del processo internazionale; sono sorti cosi la clausola
compromissoria e il trattato generale di arbitrato: la clausola compromissoria accede ad una
qualsiasi convenzione e crea l‟obbligo per gli stati di ricorrere all‟arbitrato per tutte le
controversie che sorgano in futuro in ordine all‟applicazione ed interpretazione della
convenzione medesima; il trattato generale di arbitrate crea invece un obbligo generico di
ricorrere ad arbitrato per tutte le controversie che possano sorgere in futuro tra le parti
contraenti, eccetto alcune controversie - clausola compromissoria e trattato generale di
arbitrati creano dunque soltanto l‟obbligo di stipulare l‟accordo; se questo non si ha non può
comunque pervenirsi all‟emanazione di una sentenza.
nello stesso periodo si assiste poi all‟avvio della tendenza ad istituzionalizzare i tribunali
internazionali, cioè a creare degli organi arbitrali permanenti e a predisporre regole di
procedura applicabili in ogni procedimento. l‟avvio dell‟istituzionalizzazione si ha con la
corte permanente di arbitrato, tutt‟ora esistente, creata dalle convenzione dell‟aja del 1899 e
del 1907 sulla guerra terrestre – tuttavia nella corte l‟istituzionalizzazione è minima: si tratta
infatti di un elenco di giudici, periodicamente aggiornato, tra i quali gli stati possono
scegliere ai fini della composizione del collegio arbitrale.
seconda fase: si è avuto anzitutto un maggior processo di istituzionalizzazione con la creazione
prima della corte permanente di giustizia internazionale e poi della corte internazionale di
giustizia (organo dell‟ONU) che l‟ha sostituita. quest‟ultima presenta un forte grado di
istituzionalizzazione: si tratta infatti di un corpo permanente di giudici eletti dall‟assemblea
generale e dal consiglio di sicurezza, che giudica in base a precise e complesse regole di
procedura inderogabili dalle parti; si tratta però sempre di un tribunale arbitrale che giudica
solo sul presupposto di un accordo tra tutte le parti di una controversia.
la seconda fase è anche marcata poi da una decisiva evoluzione anche per quanto riguarda
l‟accordo necessario per l‟instaurazione del processo internazionale: compare infatti la figura
della clausola compromissoria “completa” e del trattato generale di arbitrato “completo”. si
tratta in questo caso di due atti che al contrario di quelli introdotti nella prima fase, che
dunque creavano solo l‟obbligo di stipulare il compromesso, prevedono l‟obbligo di
sottoporsi al giudizio di un tribunale internazionale già predisposto e perfettamente in grado
di funzionare – come si capisce il fondamento del giudizio resta pur sempre volontaria,
dipendendo questo dall‟esistenza di una clausola compromissoria o di un trattato generale.
ma cosa c’è da dire circa la propensione degli stati che compongono l’attuale comunità
internazionale verso il regolamento giudiziario delle controversie? è innegabile che l‟arbitrato
abbia attraversato, a partire dagli anni ‟60 e fino agli anni ‟80, una consistente fase di declino,
vuoi per lo scarso numero di ricorsi vuoi per il rifiuto di eseguire le sentenze una volta emesse;
ma la situazione si è andata modificando a partire dagli anni ‟80 ed è esplosa negli ultimi tempo
fino al punto da far parlare, con riguardo al gran numero sia di decisioni arbitrali sia di
tribunali settoriali e regionali, di una giurisdizionalizzazione del diritto internazionale. a parte
le eccessive generalizzazione si può quindi dire che nell‟attuale comunità internazionale si va
sempre più affermando la tendenza verso un diffuso accertamento indipendente ed
imparziale del diritto.
TRIBUNALI INTERNAZIONALI SETTORIALI E REGIONALI
negli ultimi anni si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali che hanno
competenze settoriali e che il più delle volte presentano caratteristiche diverse dall‟arbitrato.
alcuni tra i tribunali internazionali settoriali hanno carattere regionale, altri carattere
universale; i primi riguardano di solito il settore dei diritti umani e della cooperazione o
integrazione economica.
la moltiplicazione dei giudici internazionali sarebbe, secondo una parte della dottrina, una delle
cause della frammentazione del diritto internazionale; ciò perchè più giudici possono
pronunciarsi in modo diverso sull‟esistenza o interpretazione della stessa norma – in realtà i
casi in cui ciò è avvenuto sono pochissimi e, a detta del Conforti, sembra comunque che queste
divergenze siano salutari in quanto contribuiscono all‟evoluzione della prassi internazionale.
corte di giustizia dell‟unione europea: presenta una serie di competenze sui generis che
fanno addirittura dubitare della sua qualifica di tribunale internazionale. in comune con gli
altri tribunali internazionali ha infatti solo l‟origine pattizia, essendo sorta e disciplinata dai
trattati che via via hanno dato vita alle comunità europee prima e all‟unione dopo e potendo
esercitare la sua funzione solo nei confronti degli stati membri dell‟unione stessa; la maggior
parte delle sue competenze, invece, sono accostabili piuttosto a quelle dei tribunali interni
ed il loro esercizio non dipende, come nell‟arbitrato internazionale, dalla volontà degli stessi
soggetti destinate a subirle.
vediamo le principali competenze della corte:
ricorsi per la violazione dei trattati da parte di uno stato membro
controllo di legittimità sugli atti degli organi dell’unione:
risoluzione di questioni pregiudiziali, art. 267 TFUE: al fine di assicurare
l‟interpretazione uniforme del diritto dell‟unione negli stati membri.
organo per la soluzione delle controversie (OMC): è a capo del sistema di soluzione delle
controversie tra stati nel settore del commercio internazionale
corte europea dei diritti dell‟uomo: è l‟organo che controlla il rispetto della convenzione
europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei suoi
protocolli.
comitato per i diritti dell‟uomo del patto delle nazioni unite sui diritti civili e politici: la
procedura non sfocia mai in atti vincolanti, ma in rapporti e tentativi di amichevole
composizione.
comitato per i diritti previsti del patto delle nazioni unite sui diritti economici, sociali e
culturali: assiste il consiglio economico e sociale delle nazioni unite nella formulazione di
raccomandazioni di ordine generale.
corte penale internazionale: creata nel 1988, lo statuto venne adottato a roma da un‟apposita
conferenza di stati ed aperto alla firma e ratifica di tutti gli stati. lo statuto prevede che la
giurisdizione della corte sia complementare a quella degli stati: può essere esercitata solo
quando lo stato che ha giurisdizione sul crimine non voglia o non abbia la capacità di
perseguirlo.
tribunali amministrativi delle organizzazioni internazionali: competente nelle controversie di
lavoro con i funzionari delle organizzazioni internazionali.
ESECUZIONE DELLE SENTENZE INTERNAZIONALI
anche per le sentenze internazionali, sia quelle arbitrali che quelle emanate dai tribunali
settoriali e regionali ci si può chiedere quali mezzi ne assicurino l‟esecuzione in via coattiva. è
ovvio che, in linea generale, il problema va riportato a quello dell‟attuazione coattiva delle
norme internazionali: come per le norme cosi per le sentenze, dunque, c‟è, da un lato, la
scarsezza dei mezzi coercitivi e, dall‟altro, l‟affidamento al diritto interno degli stati che
devono o in cui si deve osservare la sentenza.
anche alle sentenze internazionali si applica la teoria dei controlimiti: la loro esecuzione deve
ritenersi esclusa qualora esse contrastino con principi fondamentali della costituzione.
*MEZZI DIPLOMATICI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI
tali mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie in quanto
tendono esclusivamente a facilitare l‟accordo delle parti: essi non hanno carattere vincolante
per le parti e il contenuto dell‟accordo è sempre il compromesso tra le opposte pretese e non la
determinazione di chi ha torto e chi ha ragione.
negoziato: condotto dalle parti della controversia è il mezzo di risoluzione più facile. dal
punto di vista giuridico non presenta alcuna particolarità, essendo semplicemente un
accordo tra le parti che può avere qualunque contenuto anche a prescindere dall‟esistenza di
una controversia.
buoni uffici e mediazione: si hanno quando si verifica l‟intervento di uno stato terzo o di un
organo supremo di uno stato o del segretario di un’organizzazione internazionale a titolo
personale. tale intervento è meno intenso nel caso dei buoni uffici e più penetrante nel caso
della mediazione: nel primo caso infatti induce le parti a negoziare e nel secondo partecipa
attivamente alle trattative.
conciliazione: forma diplomatica più evoluta di soluzione delle controversie, che più si
avvicina all‟arbitrato. le commissioni di conciliazione, istituite talvolta su base permanente e
talvolta in modo occasionale, sono di solito composte da individui e non da stati; hanno il
compito sia di esaminare i fatti che hanno dato luogo alla controversia sia di formulare una
proposta di soluzione che le parti sono comunque libere di accettare o meno.
spesso il ricorso alla conciliazione è previsto come obbligatorio, con la conseguente
possibilità, per uno degli stati contraenti, di dare unilateralmente l‟avvio alla procedura
conciliativa.
funzione conciliativa del consiglio di sicurezza (ONU): la carta delle nazioni unite stabilisce,
all‟art. 2, che gli stati membri hanno l‟obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi
pacifici. alla soluzione pacifica delle controversie la carta dedica un capitolo, nel quale
disciplina, con regole assai precise e dettagliate, la funzione conciliativa del consiglio di
sicurezza: in base all‟art. 34 il consiglio dispone di un potere d’inchiesta che può esercitare
sia direttamente sia creando un organo ad hoc (commissione di inchiesta); l‟art. 36 prevede
che il consiglio indichi quale specifico procedimento, tra quelli elencati dall‟art. 33
(negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad
organizzazioni, accordi regionali o ad altri mezzi pacifici di scelta degli stati parti di una
controversia) sia appropriato in ordine al caso di specie. nella funzione conciliativa del
consiglio rientra anche il potere previsto dall‟art. 37 di raccomandare termini di regolamento,
ossia di suggerire alle parti come risolvere nel merito la controversia; tale potere dovrebbe
essere esercitato solo in presenza di alcuni presupposti (la controversia deve essere stata
portata all‟esame del consiglio dalle parti o da almeno una di esse e vi è accertata
impossibilità di raggiungere un‟intesa attraverso i mezzi elencati dall‟art. 33): si dice
“dovrebbe” perchè la prassi del consiglio, salvo rarissimi casi, si è nettamente orientata, fin
dall‟inizio, nel senso di un‟ampia libertà dell‟organo in materia. questo significa che il
consiglio ha finito con l‟entrare nel merito delle questioni, senza andare in contro a
significative opposizioni di natura procedurale da parte degli stati interessati, se e quando ha
voluto.
funzione conciliativa dell‟assemblea generale (ONU): la prevede l‟art. 14 secondo cui
l’assemblea può raccomandare misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che
essa ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra le
nazioni – è ovvio che una formula cosi generica permette di far rientrare nella funzione
conciliativa dell‟assemblea tutte le misure adottabili anche dal consiglio di sicurezza. a
differenza del consiglio di sicurezza, l‟assemblea non è vincolata da norme procedurali
dettagliate. l‟unico limite procedurale importante è dato dall‟art. 12: l‟assemblea deve
astenersi dall’intervenire su questioni di cui si stia occupando il consiglio.
attività di mediazione del segretario generale dell‟ONU: la carta non prevede simili
iniziative, salva l‟ipotesi che il segretario generale agisca su autorizzazione del consiglio di
sicurezza o dell’assemblea generale.
funzione conciliative delle organizzazioni regionali (es. NorthAtlanticTreatyOrganization,
OrganizzazioneSicurezzaCooperazioneEuropa): l‟art. 52 della carta delle nazioni unite
prevede che in seno a tali organizzazioni si compia ogni sforzo per giungere ad una soluzione
pacifica delle controversie di carattere locale prima di deferirle al consiglio di sicurezza.