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DIRITTO INTERNAZIONALE.
Conforti.
INTRODUZIONE.
1.Definizione del diritto internazionale. Precisazioni
terminologiche.
Il diritto internazionale può essere definito come il diritto (o ordinamento)
della “comunità degli stati”. Tale complesso di norme si forma al di sopra
dello stato, scaturendo dalla cooperazione con gli altri stati, e lo stato stesso
con proprie norme, anche di rango costituzionale, si impegna a rispettarlo.
Il diritto internazionale regola “rapporti tra stati”; si tratta di un’espressione
equivoca che può anche usarsi ma a patto di precisare che con essa si intende
descrivere solo un dato formale e approssimativo e precisamente il fatto che le
norme internazionali si indirizzano in linea di massima agli stati e creano,
cioè, diritti e obblighi per questi ultimi.
La caratteristica più rilevante del diritto internazionale odierno è proprio data
dalla circostanza che esso non regola solo materie attinenti a rapporti
interstatali ma, pur indirizzandosi fondamentalmente agli stati, tende a
disciplinare rapporti che si svolgono all’interno delle varie comunità statali.
Diritto internazionale pubblico e diritto internazionale privato. Il diritto
internazionale viene anche chiamato diritto internazionale pubblico in
contrapposizione al diritto internazionale privato. Col secondo non siamo più
al di sopra dello stato, nell’ambito della comunità degli stati, ma al di sotto,
nell’ambito dell’ordinamento statale. Il diritto internazionale privato è
formato da quelle norme statali che delimitano il diritto privato di uno stato
stabilendo quando esso va applicato e quando invece i giudici di quello stato
sono tenuti ad applicare norme di diritto privato straniere. Le norme di diritto
internazionale privato sono contenute nelle disposizioni preliminare al codice
civile, riformate dalla legge 31.5.1995 n.218.
Esempio: l’art 20 della legge del 95 dice: “la capacità giuridica delle persone
fisiche è regolata dalla loro legge nazionale”. Ciò vuol dire che il giudice
italiano applicherà alla capacità giuridica delle persone il codice civile e le
altre norme privatistiche italiane se la persona ha cittadinanza italiana: se,
invece, la persona è straniera il giudice applicherà la legge nazionale della
medesima.
Occorre anche chiedersi se accanto agli stati, che sono senza dubbio i
principali protagonisti della scena internazionale, vi siano altri enti cui il
diritto internazionale formalmente si rivolga e, quindi, possano considerarsi
anch’essi come soggetti. A nostro avviso, l’unica alternativa utile ai fini
dell’individuazione dello stato come soggetto internazionale è quella tra stato-
comunità e stato-organizzazione.
In linea di massima quando ci si chiede “cos’è lo stato?” si è portati,
innanzitutto, a pensare ad una comunità umana stanziata su di una parte
della superficie terrestre e sottoposta a leggi che la tengono unita (stato-
comunità).
Un altro fenomeno poi avvertibile, anch’esso empiricamente, è quello
costituito dall’insieme dei governanti e cioè dall’insieme degli organi che
esercitano il potere di imperio sui singoli associati (stato-organizzazione).
Attribuzione della soggettività internazionale allo stato organizzazione. Ora,
ci si chiede, quale dei due viene in rilievo dal punto di vista del diritto
internazionale? Si tende ad avallare maggiormente la tesi secondo cui la
qualifica di soggetto di diritto internazionale spetti allo stato-organizzazione.
È infatti, all’insieme degli organi statali che si ha riguardo allorché si lega la
soggettività internazionale dello stato al criterio dell’effettività, ossia
dell’effettivo esercizio del potere di governo; sono gli organi statali che
partecipano alla formazione delle norme internazionali ed è agli organi statali
che si attaglia il contenuto delle norme materiali internazionali (norme
generalmente dirette a disciplinare e limitare l’esercizio del potere di
governo); sono, infine, solo gli organi statali che, con la loro condotta,
possono ingenerare la responsabilità internazionale dello stato.
Nozione di organo dello stato ai fini del diritto internazionale. Quando
parliamo di organi statali facciamo riferimento a tutti gli organi e, quindi,
tutti coloro che partecipano all’esercizio del potere di governo nell’ambito del
territorio. Non si tratta dei solo organi esecutivi o dei soli organi del potere
centrale ma anche di amministrazioni locali e di enti pubblici minori che, dal
punto di vista del diritto interno, hanno di solito una personalità giuridica
distinta da quella dello stato.
Effettività dello stato-organizzazione. Si afferma che il diritto internazionale
si disinteressi dell’organizzazione statale oppure che esso, quando ha
necessità di far riferimento all’organizzazione statale, si limiti a rinviare al
diritto interno, o ancora che l’organizzazione statale sia presupposta dal
diritto internazionale. Queste affermazioni possono essere condivise ma solo
nel senso che la partecipazione all’esercizio del potere di governo,
partecipazione che contraddistingue la qualità di organo, debba trovare
considerare come un vero e proprio stato staccatosi per secessione dalla Serbia, e si occupa
soprattutto della conformità o meno della dichiarazione alla risoluzione n.1244 del 99 del
consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tale risoluzione aveva sottoposto il Kosovo ad
una amministrazione provvisoria internazionale facente capo alle nazioni unite e che
ancora partecipa, in una certa misura, alle attività di governo del territorio. Secondo la
corte, sebbene la risoluzione sia piuttosto ambigua, essa non sarebbe stata violata dalla
dichiarazione di indipendenza sia perché gli autori di quest’ultima non avrebbero agito
come membri dell’assemblea legislativa e sia perché la dichiarazione farebbe salve tutte le
competenze residue dell’amministrazione provvisoria internazionale.
In materia si è pronunciato anche il Tribunale dell’unione europea in Spagna c.
Commissione, sentenza del 23.9.2020: il Kosovo non costituisce uno stato ma è, di per sé,
comunque dotato della capacità di stipulare accordi internazionali.
affermatisi con la forza, gli stati “non democratici”, gli stati “non amanti della
pace”, gli stati che violano i diritti umani, ecc.
Il vero è che tutto ciò non si è mai tradotto in norme internazionali per il
semplice motivo che gli stati, anche quando si trovano d’accordo sul valore da
porre a base del riconoscimento, divergono poi (il più delle volte per ragioni
politiche) sulla sua riscontrabilità in ciascun caso concreto.
La tendenza degli stati preesistenti a decidere circa l’ammissione talvolta si è addirittura
burocratizzata: è il caso delle due dichiarazioni che vennero emesse dai ministri degli esteri
dei paesi della CEE nella riunione di Bruxelles del 91. Nella prima dichiarazione (“direttive
sul riconoscimento dei nuovi stati nell’Europa orientale e nell’Unione sovietica”), i 12 paesi
comunitari si dichiararono disposti a riconoscere gli stati che via via si fossero formati
“attraverso un processo democratico” nella regione, purché avessero presentato
determinati requisiti tra cui, ad esempio, il rispetto della carta delle Nazioni Unite. Nella
seconda dichiarazione, le repubbliche iugoslave, che desiderassero essere riconosciute,
furono inviate a presentare domanda entro il 23.12.91.
In epoca successiva alle due dichiarazioni, l’unione sovietica si estinse e le repubbliche
divenute conseguentemente indipendenti furono via via riconosciute dagli altri paesi; ci
riferiamo a Croazia, Slovenia, Bosnia Erzegovina a la Macedonia. Ma, solo le prime tre
vennero riconosciute nei mesi immediatamente successivi dai paesi comunitari; la
Macedonia non venne subito riconosciuta solo a causa di ferma opposizione della Grecia.
La questione si è protratta fino ai giorni nostri e sembrerebbe essere stata pienamente
risolta nel 2018 con un accordo internazionale tra governo greco e governo macedone col
quale quest’ultimo si è impegnato ad accettare la denominazione “Repubblica della
Macedonia del Nord” (perché la questione era proprio questa: la Grecia aveva timore che
l’uso del nome Macedonia potesse implicare mire sulla omonima regione della Grecia
settentrionale).
Parte prima.
LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI.
4.Il diritto internazionale generale.
La consuetudine e i suoi elementi costitutivi.
Art 38 dello statuto della CIG. Le fonti individuate dall’art 38 sono,
nell’ordine: a) i trattati; b) la consuetudine internazionale; c) i principi
generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili. L’art 38 menziona altresì
le “decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più autorevoli delle varie
nazioni”. Queste ultime non vengono in rilievo in qualità di fonti di
produzione ma “come mezzi ausiliari per determinare le norme giuridiche”
(quindi, vale a dire, come fonti di cognizione del diritto internazionale).
Alle fonti indicate dallo statuto all’art 38 se ne sono affiancate altre due: i
principi generali propri dell’ordinamento internazionale e gli atti vincolanti
delle organizzazioni internazionali.
Inoltre, l’ordine indicato dall’art 38 non va inteso in senso gerarchico ma in
senso di percorso logico che la corte deve seguire nella identificazione delle
regole attraverso cui definire la controversia di fronte ad essa. Infatti, è del
tutto ragionevole che la corte incominci col verificare se la materia oggetto del
contendere è disciplinata da norme di diritto particolare (i trattati) in vigore
tra gli stati in lite ed applichi il diritto internazionale generale solo in caso di
esito negativo di tale verifica.
Le norme di diritto internazionale generale hanno natura consuetudinaria.
Iniziamo col capire cosa debba intendersi per consuetudine internazionale. La
stessa nozione di consuetudine di diritto internazionale non differisce da
quella elaborata dalla teoria generale del diritto e utilizzata anche nel diritto
interno la consuetudine internazionale è costituita da un comportamento
costante e uniforme tenuto dagli stati, dal ripetersi cioè di un dato
comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della
necessità del comportamento stesso.
Elementi della consuetudine. Due sono gli elementi che caratterizzano questa
fonte: la diuturnitas e l’opinio juris sive necessitatis. Ma, una simile
concezione dualistica in dottrina non è stata molto appoggiata e, infatti, più
autori hanno sostenuto che la consuetudine sarebbe costituita dalla sola
“prassi” in quanto, ammettendosi le necessità dell’opinio juris, si arriverebbe
inevitabilmente a considerarla come errore. Se nel momento in cui la norma
va formandosi, si dice, lo stato crede che un dato comportamento sia
obbligatorio, cioè richiesto dal diritto, mentre in effetti il diritto non esiste
Il tempo può essere così breve e così diffuso essendo, infatti, le consuetudini
“istantanee” non solo una contraddizione in termini ma anche un fenomeno
che non può generare norme giuridiche per la mancanza di quel carattere di
stabilità che è insito nel diritto non scritto.
Quali organi dello stato concorrono nel procedimento di formazione della
norma consuetudinaria? la possibilità a partecipare, generalmente, è
riconosciuta a tutti gli organi statali. Quindi, a formare la consuetudine
possono concorrere non solo atti “esterni” degli stati (trattati, note
diplomatiche ecc) ma anche atti “interni” (leggi, sentenze, atti
amministrativi).
Ruolo della giurisprudenza interna nella formazione della consuetudine.
Nella formazione di certe norme consuetudinarie, precisamente di quelle che
più sono destinate a ricevere applicazione all’interno dello stato, è la
giurisprudenza interna a giocare un ruolo decisivo. Si pensi al campo delle
immunità degli stati stranieri dalla giurisdizione civile. L’attuale norma sulla
immunità degli stati dalla giurisdizione civile si è andata formando a partire
dalla prima guerra mondiale, in deroga ad una vecchia consuetudine che
sanciva l’immunità assoluta degli stati stranieri, proprio ad opera della
giurisprudenza di vari paesi e sotto la spinta iniziale della giurisprudenza
italiana e belga. Ora, la stessa giurisprudenza sta elaborando nuove regole in
un particolare settore sempre dell’immunità degli stati ossia quello dei
rapporti di lavoro con stati esteri.
Notiamo come, talvolta, c’è sintonia nell’ambito dello stesso stato tra il
comportamento delle corti e quello che il potere esecutivo tiene sul piano
internazionale; la mancanza di sintonia cresce via via che le corti interne si
liberano dalla dipendenza dei governi dei loro paesi. Come rilevato dalla CDI
nelle Draft Conclusion del 2018, tale incoerenza potrà tuttavia incidere
negativamente sul peso da attribuire alla prassi dello stato in questione ai fini
dell’identificazione del diritto consuetudinario.
Applicabilità della consuetudine ai nuovi stati. Secondo l’insegnamento
comune le norme consuetudinarie si impongono anche agli stati di nuova
formazione. Questo principio è stato discusso a lungo dagli stati sorti dal
processo di decolonizzazione, ossia dagli stati che costituiscono la
maggioranza degli attuali membri della comunità internazionale. Ma questo
problema della contestazione del diritto consuetudinario è ormai superato e
va risolto in modo diverso a seconda che la contestazione provenga da un
singolo stato o da un gruppo di stati.
Applicabilità della consuetudine all’obiettore persistente. Nel primo caso, la
contestazione, anche ripetuta (cd “persistent objector”), si ritiene sia
In primo luogo, il soft law può assumere un’efficacia dichiarativa del diritto
internazionale generale, qualora si limiti a riprodurre per iscritto una norma
consuetudinaria (un esempio in tal senso è dato dal contributo che la
dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e la dichiarazione sulla
protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura o ad altre pene o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1957 hanno dato alla
ricostruzione della natura consuetudinaria e cogente del divieto di tortura).
Inoltre, il soft law può produrre efficacia cristallizzante, quando porti
definitivamente a compimento il processo di formazione di un’emergente
norma consuetudinaria, sicché a seguito dell’adozione dell’atto, e della
solenne manifestazione di consenso che l’ha accompagnata, l’esistenza della
norma risulti incontroversa nella comunità internazionale.
Infine, può darsi il caso che un atto di soft law produca un effetto generatore
(o catalizzatore) allorquando, in seguito alla sua adozione, gli stati prendano a
modello il contenuto normativo in esso dichiarato: è il caso del principio di
autodeterminazione che ha avuto origine da una serie di risoluzioni che lo
hanno affermato solennemente a partire dalla dichiarazione sulla concessione
dell’indipendenza a paesi e popoli coloniali.
In ogni caso, affinché uno specifico strumento di soft law possa effettivamente
riflettere norme di diritto internazionale generale, è necessario che vengano
soddisfatte due condizioni: il primo requisito, endogeno e letterale, impone
che l’atto sia stato scritto con linguaggio propriamente normativo, di modo
che possa costituire la base di una regola di condotta; un secondo elemento,
esogeno e contestuale, richiede che l’atto abbia registrato una partecipazione
ampia e rappresentativa, desumibile dal grado di consenso registrato al
momento della sua adozione avvenuta all’unanimità, per consensus o a larga
maggioranza.
Consuetudini particolari. Oltre alle norme consuetudinarie generali vi sono
anche consuetudini particolari che cioè vincolano una stretta cerchia di stati.
La figura della consuetudine particolare è certamente da ammettersi e la sua
applicazione più rilevante è fornita, più che da norme a carattere regionale,
dal diritto non scritto che può formarsi a modifica o abrogazione delle regole
poste da un determinato trattato: in altri termini, è possibile che le parti
contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo
pattuite.
Anche la consuetudine particolare è per definizione un fenomeno di gruppo e
come tale non scomponibile in relazione ai singoli stati. In altri termini, la
consuetudine regionale, o quella che si forma a modifica di un trattato, risulta
pur sempre dai contegni rilevabili in seno ad un gruppo di stati, senza che sia
il principio applicato dal tribunale è che un soggetto non possa invocare lo stato di
necessità per venire meno ai suoi impegni se ha contribuito a crearlo.
Il tema del valore dei principi generali di diritti riconosciuti dalle nazioni civili
nel sistema delle fonti internazionali ha suscitato vaste polemiche e varietà di
opinioni in dottrina; obiettivamente non è facile orientarsi nella materia.
Senza dubbio ogni ordinamento giuridico ammette il ricorso ai principi
generali in mancanza di norme specifiche e non si vede perché lo stesso non
debba ammettersi nell’ambito del diritto internazionale: qui, l’unico
“problema” è che detti principi non sono ricavati per astrazione dalle stesse
norme internazionali ma prelevati dagli ordinamenti degli stati civili.
I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili come norme
consuetudinarie. A nostro avviso due condizioni debbono sussistere perché
principi statali possano essere applicati a titolo di principi generali di diritto
internazionale: a) occorre che essi esistano e siano uniformemente applicati
nella più gran parte degli stati; b) occorre che essi siano sentiti come
obbligatori o necessari anche dal punto vista internazionale.
Così intesi i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili non
costituiscono altro che una categoria sui generis di norme consuetudinarie
internazionali, rispetto alle quali la diuturnitas è data dalla loro uniforme
previsione e applicazione da parte degli stati all’interno dei rispettivi
ordinamenti. Per quanto riguarda l’opinio juris sive necessitatis essa è
certamente presente in tutte quelle regole che sono intese da tutti gli organi
dello stato come aventi un valore universale e quindi come necessariamente
applicabili in qualsiasi ordinamento giuridico e, quindi, anche in quello
internazionale.
Il ricorso ai principi generali di diritto è particolarmente attuato nella materia della
punizione di crimini internazionali ad opera di tribunali internazionali penali, in
particolare dei tribunali per i crimini commessi nella ex Iugoslavia e nel Ruanda.
Nella prospettiva, sin qui delineata, i principi generali di diritto comuni agli
ordinamenti statali finiscono col perdere la loro caratteristica di principi
destinati soltanto a colmare le lacune del diritto internazionale; il loro
rapporto con le vere e proprie norme consuetudinarie viene ad essere il
normale rapporto tra norme di pari grado (norma posteriore abroga
l’anteriore; la norma speciale deroga quella comune).
Principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili e giudici interni .
Abbiamo detto che uno dei requisiti per l’esistenza di un principio generale di
diritto comune agli ordinamenti statali è che esso sia uniformemente seguito
nella più gran parte (e non nella totalità) degli stati. Ne deriva che la
ricostruzione di un principio generale può consentire al giudice di uno stato di
di principi, è difeso con forza da una parte non indifferente dei suoi membri,
come i Paesi occidentali. Le dichiarazioni svolgono un ruolo importante ai fini
dello sviluppo del diritto internazionale e del suo adeguamento alle esigenze
di solidarietà e di interdipendenza sempre più sentite al mondo d’oggi.
Dichiarazioni e diritto consuetudinario. Per quanto riguarda il diritto
consuetudinario, le dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua
formazione, in quanto prassi degli stati, in quanto somma degli atteggiamenti
degli stati che le adottano, e non come atti dell’ONU.
Le dichiarazioni come accordi. Circa il diritto pattizio, certe dichiarazioni
hanno valore di veri e propri accordi internazionali: sono quelle dichiarazioni
che equiparano l’inosservanza dei principi espressi alla violazione della Carta.
Ma poiché l’assemblea non ha poteri interpretativi obbligatori per i singoli
Stati, anche tali dichiarazioni restano mere raccomandazioni. È vero però che,
equiparandosi l’inosservanza di un certo principio all’inosservanza della carta,
gli Stati che partecipano col loro voto favorevole all’atto intendono obbligarsi.
Le dichiarazioni inquadrabili come accordi vanno propriamente considerate,
in vista del modo in cui vengono in essere, come accordi in forma
semplificata.
9.I trattati.
Procedimento di formazione e competenza a stipulare.
Parliamo ora dell’accordo, quale importante fonte di norme particolari.
Per indicare gli accordi parliamo anche di trattato, convenzione e patto. Ma,
talvolta, parliamo anche di carta o statuto per i trattati istitutivi di
organizzazioni internazionali o anche di scambio di note per l’accordo
risultante dallo scambio di note diplomatiche ecc.
Pur cambiandone il nome, la natura dell’accordo non cambia e questa è quella
propria degli atti contrattuali l’accordo internazionale può essere definito
come l’unione (o meglio l’”incontro”) delle volontà di due o più stati, dirette a
regolare una determinata sfera di rapporti che riguardano questi ultimi.
Norme pattizie materiali e strumentali. I trattati possono dar vita a regole
materiali, cioè norme che direttamente disciplinano i rapporti fra destinatari
(nella specie, le parti contraenti del trattato) imponendo obblighi o
attribuendo diritti; ma anche a regole strumentali o formali, cioè norme che
si limitano ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme, pensiamo ai
trattati istitutivi di organizzazioni internazionali.
Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. Come i contratti nel
diritto interno, i trattati internazionali sottostanno ad una serie di norme
accordi internazionali sono pubblicati nella raccolta ufficiale dell’ONU, la United Nations
Treaty Series.
Alla categoria degli accordi in forma semplificata sono da riportare anche gli
scambi di note diplomatiche o di altri strumenti simili, sempre che dagli
strumenti medesimi o aliunde si ricavi l’intenzione delle parti di vincolarsi
immediatamente.
semplificata è dato dal divieto, che la prevalente dottrina considera come implicitamente
previsto dalla Costituzione, di concludere accordi segreti.
L’art 30, inoltre, precisa “che il par. 4 si applica senza pregiudizio dell’art 41”.
L’art 41 stabilisce che due o più parti di un trattato possono concludere cd
accordi modificativi “inter se” ossia accordi che contengono modifiche che
riguardano solo i rapporto tra esse intercorrenti, senza pregiudizio ai rapporti
che ciascuna di esse ha con le altre parti del trattato multilaterale. In base a
questa disposizione le parti, tuttavia, “non possono” concludere un simile
emendamento al trattato (sia pure nei loro rapporti reciproci) quando la
modifica è vietata dal trattato multilaterale oppure pregiudica la posizione
delle altre parti contraenti o ancora è incompatibile con la realizzazione
dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme.
oramai consolidato: una riserva può essere formulata all’atto della ratifica
anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato
purché essa sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. La corte
aggiunse che un altro stato contraente può contestare la riserva e può ritenere
che il trattato non entri in vigore nei suoi rapporti con lo stato autore della
riserva.
Su questa scia, la Conv di Vienna codifica il principio che una riserva può
essere sempre formulata purché non sia espressamente esclusa dal testo del
trattato oppure sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato
medesimo. La Convenzione, inoltre, stabilisce che la riserva, quando non sia
prevista nel testo del trattato, possa essere contestata da un’altra parte
contraente ed aggiunge che, se tale contestazione o obiezione non è
manifestata entro 12 mesi dalla notifica della riserva alle altre parti
contraenti, la riserva si intende accettata.
Importante è poi la norma ricavata dal combinato disposto degli articoli 20 e
21 della convenzione. Secondo tale norma, l’obiezione ad una riserva non
impedisce che questa esplichi i suoi effetti tra lo stato che la formula e lo stato
obiettante se quest’ultimo non abbia espressamente e “nettamente”
manifestato l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti
tra i due stati. In altre parole: lo stato che obietta, se non vuole dare alla sua
obiezione un valore puramente teorico, deve dirlo espressamente.
Dopo la Convenzione di Vienna la disciplina della riserva ha continuato ad
evolversi, soprattutto perché nella convenzione manca una disciplina delle
dichiarazioni interpretative incondizionate. Secondo la prassi, un’altra parte
contraente può fare obiezione all’interpretazione, magari contrapponendole
un’interpretazione alternativa. Non mancano casi in cui lo stato che obbietta
lo fa perché considera la dichiarazione come una vera e propria riserva. È
ovvio che, trattandosi di interpretazioni incondizionate aventi per definizione
il valore di proposte, non valgono per esse particolari condizioni di validità
formale o sostanziale, né l’autore dell’obiezione può pretendere che il trattato
non entri in vigore.
Riserve e giudice internazionale o interno. Altro tema di cui non si occupa la
convenzione è quello dei rapporti tra il criterio oggettivo della invalidità
formale o sostanziale della riserva (in particolare per la sua contrarietà
all’oggetto e allo scopo del trattato) e quello soggettivo dell’obiezione di
un’altra parte contraente. In pratica: se la riserva è stata accettata, deve essa
ritenersi ammissibile anche se oggettivamente non è valida? Viceversa, se ha
incontrato obiezioni, essa è inammissibile nei rapporti con lo stato obiettante
anche se è oggettivamente valida? Innanzitutto, chiariamo sulla questione
Ora parliamo dei trattati non localizzabili. Qual è la loro sorte in seguito al
mutamento di sovranità? La regola fondamentale rispetto a questi trattati e la
cd regola della tabula rasa. Lo stato che subentra nel governo di un territorio
non è, in linea di principio, vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore.
NB una variante alla tesi della tabula rasa è costituita dall’opinione secondo cui i trattati
del predecessore resterebbero “sospesi” finché lo stato nuovo e gli altri stati contraenti non
abbiano regolato la materia.
Regola della tabula rasa. È importante una particolarità della convenzione del
1979. Essa distingue la situazione degli stati sorti dalla decolonizzazione
(“stati di nuova indipendenza”), dalla situazione di ogni altro stato che
subentri nel governo di un territorio. Mentre per la prima assume come
regola fondamentale in materia la regola della tabula rasa, per la seconda
assume come regola fondamentale quella, opposta, della continuità dei
trattati.
Distacco di parti di territorio. Il principio della tabula rasa si applica
innanzitutto alle ipotesi del distacco di una parte del territorio di uno stato.
Può darsi che la parte di un territorio distaccatasi si aggiunga, per effetto di
cessione o di conquista, al territorio di un altro stato preesistente. In questo
caso gli accordi vigenti nello stato che subisce il distacco cessano di avere
vigore con riguardo al territorio distaccatosi. A questo si estendono, invece, in
modo automatico gli accordi vigenti nello stato che acquista il territorio. La
dottrina parla di mobilità delle frontiere dei trattati.
Può accadere che sulla parte distaccatasi si formino uno o più stati nuovi
(secessione). Anche in questo caso gli accordi vigenti nello stato che subisce il
distacco cessano di avere vigore con riguardo al territorio che acquista
l’indipendenza. La prassi si è sempre orientata in tal senso. Gli stati nuovi
hanno in ogni tempo preteso ed il più spesso ottenuto l’applicazione del
principio della tabula rasa, fossero essi ex colonie oppure no. La prassi
relativa agli stati sorti dalla decolonizzazione non ha fatto altro che sugellare
questa tendenza.
Un caso che non si inquadra nella tendenza generale è quello della Siria che, avendo
costituito nel 1958 con l’Egitto la Repubblica Araba Unita, se ne staccò nel 1961. Dopo il
distacco la Siria continuò ad applicare sia i trattati conclusi dalla RAU tra il 1958 e il 1961
sia i trattati che la stessa Siria aveva stipulato prima del 1958.
Quindi, la convenzione del 1978 accoglie il principio della tabula rasa per i
territori di tipo coloniale staccatisi dalle potenze detentrici, mentre enuncia
l’opposto principio della continuità dei trattati per tutte le altre ipotesi di
secessione.
Accordi di devoluzione. Sul problema della successione non influiscono i cd accordi di
devoluzione, di cui si sono avuti vari esempi durante il processo di decolonizzazione specie
nell’ambito delle colonie inglesi. Con tali accordi, che intercorrono tra la ex madrepatria e
lo stato di nuova indipendenza, quest’ultimo consente a subentrare nei trattati già conclusi
dalla prima con stati terzi. L’accordo, però, non potendo avere efficacia rispetto alle altre
parti contraenti dei trattati devoluti, pone solo l’obbligo per la ex colonia di compiere i
passi necessari affinché siffatti trattati vengano rinnovati.
L’applicazione del principio della tabula rasa agli stati nuovi formatisi per
distacco è integrale per quanto riguarda i trattati bilaterali conclusi dal
predecessore e vigenti nel territorio distaccatosi. Simili trattati potranno
continuare ad avere valore solo se rinnovati attraverso un apposito accordo
con la controparte, accordo che potrà anche essere tacito, ossia risultare da
fatti concludenti.
Lo stesso dovrà dirsi dei trattati multilaterali chiusi, ossia dei trattati che non
prevedono la partecipazione, mediante adesione, di stati diversi da quelli
originari: anche in tal caso occorrerà un nuovo accordo con tutte le
controparti.
Notificazione di successione. Circa i trattati multilaterali aperti all’adesione di
stati diversi da quelli originari, il principio della tabula rasa subisce un
temperamento: lo stato di nuova formazione può, anziché aderire
(succedendo ex nunc), procedere alla cd notificazione di successione, con cui
la sua partecipazione retroagisce al momento dell’acquisto dell’indipendenza
(succedendo ex tunc).
radicale delle circostanze (si può, anzi, dire, trattandosi di diritto non scritto,
che più di regole specifiche si tratti dello stesso p. rebus sic stan. applicato ad
ipotesi tipiche).
Principio rebus sic stan. e trattati tra loro incompatibili. Importante è il ruolo di
questo principio in tema di incompatibilità tra norme convenzionali. Di fronte ad un
accordo con cui le parti modificano impegni contratti nei confronti di altri stati, è
opportuno chiedersi se quegli impegni non siano venuti meno per il radicale mutamento
delle circostanze. Es: caso degli accordi con cui l’Italia e la Iugoslavia hanno regolato la
questione triestina, procedendo tra l’altro alla spartizione del territorio di Trieste. I due
accordi derogano agli artt 21 e 22 e agli allegati VI-X del trattato di pace del 1947 tra Italia
e le potenze alleate ed associate, i quali prevedevano la costituzione di un territorio libero
di Trieste amministrato dal consiglio di sicurezza delle nazioni unite, e muovono dal
presupposto di un radicale mutamento delle circostanze dovuto alla impossibilità di
funzionamento di tale consiglio di sicurezza.
Effetto della guerra sui trattati. Si discute se la guerra sia causa di estinzione
dei trattati. Di ciò non si occupa la convenzione di Vienna. Della materia si è
occupata la CDI che nel 2011 ha definitivamente approvato un testo di articoli
predisposto dal relatore speciale Lucius Caflisch, sottoponendolo
all’assemblea generale delle nazioni unite per l’eventuale trasformazione in
un testo convenzionale.
È ovvio che, fatti salvi quei trattati che sono stipulati proprio in vista della
guerra e che appartengono, pertanto, al diritto internazionale bellico, gli
accordi conclusi dagli stati belligeranti prima della guerra non trovino di
norma applicazione finché durano le ostilità. Ma qual è la loro sorte una volta
ripristinato lo stato di pace? In pratica: dopo la guerra, i trattati rimangono
sospesi finché le parti non decidano sulla loro sorte, oppure si estinguono?
Il problema si pose in Italia alla fine della seconda guerra mondiale: ad esso
venne data una soluzione parziale con l’art 44 del trattato di pace del 1947, il
quale stabilì che le potenze vincitrici avrebbero notificato all’Italia entro sei
mesi dall’entrata in vigore del trattato, quali accordi bilaterali intendessero
“mantenere in vigore” o “far rivivere”, lasciava impregiudicata la questione se,
per il periodo tra la fine della guerra e l’epoca della notifica, gli accordi
bilaterali dovessero ritenersi vigenti o estinti.
La regola classica era sicuramente nel senso dell’estinzione ma questa si è
andata affievolita nel tempo. Infatti, la prassi si è sempre più orientata in
favore di due eccezioni: si è così negato l’effetto estintivo, ed anche il
perdurare di quello sospensivo, della guerra in ordine ai trattati multilaterali;
ma, più in generale, si è manifestata nella giurisprudenza interna, compresa
la giurisprudenza italiana, la tendenza a considerare estinte solo quelle
convenzioni che, per loro natura, per la materia di cui si occupano e per gli
interessi che tutelano, siano incompatibili con lo stato di guerra.
Il testo predisposto dalla CDI non è poi tanto dissimile da questa impostazione. Il principio
generale dal quale il testo parte, e che la CDI riprende, è che “l’esistenza di un conflitto
armato non pone termine o sospende ipso facto l’operatività dei trattati”. Secondo l’art 6
del testo, per stabilire se il trattato non resti sospeso o non si estingua in caso di guerra,
occorre badare alla sua natura, in particolare alla materia di cui si occupa, al numero delle
parti e alla durata e alla intensità del conflitto. Notiamo, infine, come nel testo del CDI non
si parla di guerra ma di conflitto armato e ciò perché il conflitto può eventualmente
intercorrere tra uno stato e un gruppo armato organizzato.
governo non provveda alla denuncia nonostante una sollecitazione, in tal senso, dal
parlamento oppure non informi, tempestivamente, quest’ultimo della volontà di
denunciare.
Procedura prevista dalla convenzione di Vienna per far valere la invalidità o
l’estinzione dei trattati. In sintesi la procedura è la seguente: lo stato il quale
invoca un vizio del consenso o un altro motivo riconosciuto come causa di
estinzione o di invalidità, deve notificare per iscritto la sua pretesa alle altre
parti contraenti del trattato in questione. Se, trascorso un termine non
inferiore a tre mesi, non vengono sollevate obiezioni, lo stato può
definitivamente dichiarare, con un atto comunicato alle altre parti, e che deve
essere sottoscritto dal capo dello stato (o dal capo del governo o dal ministro
degli esteri), che il trattato è da ritenersi invalido o estinto.
Se, invece, vengono sollevate delle obiezioni, lo stato che intende sciogliersi e
la/e parte/i obiettanti devono ricercare una soluzione della controversia con
mezzi specifici (negoziazione, conciliazione, arbitrato). La soluzione deve
intervenire entro 12 mesi. Trascorso inutilmente questo termine, ciascuna
parte può mettere in moto una complicata procedura conciliativa che fa capo
ad una commissione formata nell’ambito delle nazioni unite che, però, non
sfocia in una decisione obbligatoria ma solo in rapporto avente mero valore di
esortazione (una decisione obbligatoria è prevista, in caso eccezionale, solo se
la pretesa di invalidità o di estinzione si fondi su una norma di ius cogens).
Nei rapporti fra paesi aderenti alla convenzione, la procedura di cui agli artt.
65 ss. si sostituisce al tradizionale atto di denuncia, ossia un atto posto in
essere senza l’osservanza di particolari forme, termini e modalità.
15.Le fonti previste da accordi.
Il fenomeno delle organizzazioni internazionali.
Le nazioni unite.
Abbiamo detto che i trattati possono contenere non solo regole materiali ma
anche regole formali e strumentali, cioè regole che istituiscono ulteriori
procedimenti o fonti di produzione di norme. L’oggetto più importante in
materia è oggi fornito dal settore dell’organizzazione internazionale: in tutti i
casi in cui un’organizzazione internazionale è abilitata dal trattato che le da
vita (e che costituisce il suo statuto) ad emanare decisioni vincolanti per gli
stati membri, si è in presenza di una fonte prevista da accordo (anche detta
fonte di terzo grado).
Attualmente, il numero delle organizzazioni internazionali esistenti è
impressionante ma solo alcune di esse dispongono di un vero e proprio potere
decisionale.
meno conformato ad uno schema tipico, fissato nel 1946 in occasione delle
convenzioni concluse dall’ONU con ILO, UNESCO e FAO: tale schema
prevede lo scambio di rappresentanti, osservatori, documenti, il ricorso a
consultazioni in caso di necessità, il coordinamento dei rispettivi servizi
tecnici, ecc. Ma l’importanza dell’accordo di collegamento sta soprattutto
nella conseguente applicabilità delle norme della Carta che si occupano degli
Istituti e che li sottopongono al potere di coordinamento e controllo
dell’ONU.
Funzioni normative degli istituti specializzate. Anche gli Istituti specializzati,
come le Nazioni Unite, emanano di solito raccomandazioni oppure
predispongono progetti di convenzione e quindi esauriscono la loro attività in
una fase di scarso rilievo giuridico. In alcuni casi essi emanano, però, a
maggioranza, decisioni vincolanti per gli Stati membri o, meglio, decisioni che
divengono vincolanti se gli stati non manifestano entro un certo periodo di
tempo la volontà di ripudiarle; tali decisioni vanno inquadrate tra le fonti
previste da accordo, cioè dall’accordo istitutivo della relativa organizzazione.
Funzioni operative degli istituti specializzati. Oltre a simili funzioni di tipo
normativo, gli Istituti specializzati svolgono funzioni di tipo operativo (deliberazione ed
esecuzione di programmi di assistenza tecnica, di aiuti, di prestiti, ecc.); intensi al riguardo
sono i collegamenti con gli organi dell’ONU preposti alla cooperazione per lo sviluppo,
collegamenti che avvengono su base paritaria e non si traducono in rapporti di dipendenza.
FAO (Food and Agricultural Organization) creata nel 1945, ha sostituito l’Istituto
Internazionale di Agricoltura (esistente dal 1905); suoi organi sono la Conferenza,
composta di un delegato per Stato membro e che si riunisce ogni due anni, il Consiglio e il
Direttore generale; ha funzioni di ricerca, informazione, promozione ed esecuzione di
programmi di aiuti e assistenza nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione.
ILO (International Labour Organization) è l’Organizzazione Internazionale del Lavoro,
costituita con i Trattati di pace alla fine della prima guerra mondiale; ogni Stato partecipa
alla Conferenza generale con quattro delegati, di cui due rappresentano il Governo e gli
altri due rispettivamente i datori di lavoro e i lavoratori; altri organi sono il Consiglio di
Amministrazione, di cui fanno permanentemente parte dieci Stati fra i più industrializzati
del mondo, e l’Ufficio internazionale del lavoro con a capo un Direttore generale; ha
funzioni relative all’emanazione di raccomandazioni e alla predisposizione di progetti di
convenzione multilaterale in materia di lavoro; i progetti di convenzione vengono
comunicati agli Stati membri che sono liberi di ratificarli o meno, ma che hanno l’obbligo
di sottoporli entro un certo termine agli organi competenti per la ratifica.
UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization) si propone
di diffondere la cultura, lo sviluppo dei mezzi di educazione, l’accesso all’istruzione, di
assicurare la conservazione del patrimonio artistico e scientifico, ecc.; suoi organi sono la
Conferenza generale, il Comitato esecutivo ed il Segretariato; anche i suoi progetti di
convenzione devono essere sottoposti entro un certo periodo di tempo dallo Stato membro
agli organi competenti a ratificare, salva sempre la libertà di procedere o meno a
quest’ultima.
ICAO (International Civil Aviation Organization) il Consiglio può emanare, sotto forma
di allegati alla Convenzione, tutta una serie di disposizioni (denominate standard
internazionali o pratiche raccomandate) relative al traffico aereo: gli allegati entrano in
vigore per tutti gli Stati membri dopo tre mesi dalla loro adozione se nel frattempo la
maggioranza degli Stati membri non abbia notificato la propria disapprovazione; sono atti
che costituiscono una vera e propria fonte di norme internazionali di carattere tecnico,
vincolanti tutti gli Stati membri, compresi quelli dissenzienti.
WHO (World Health Organization) ha come obiettivo principale il conseguimento da
parte di tutti i popoli del livello più alto possibile di salute; l’Assemblea può emanare
‘regolamenti’ in tema di procedure per prevenire la diffusione di epidemie, di
nomenclatura di malattie epidemiche e mortali, di caratteristiche di prodotti farmaceutici,
ecc.; detti regolamenti entrano in vigore per tutti i Paesi membri eccettuati quei Paesi che,
entro un certo periodo di tempo, comunicano il loro dissenso.
IMO (International Maritime Organization)ha preso vita nel 1958 e si occupa di
problemi relativi alla sicurezza ed efficienza dei traffici marittimi, emanando
raccomandazioni e predisponendo progetti di convenzione.
ITU (International Telecommunication Union), WMO (World Meteorological
Organization), UPU (Universal Postal Union) esistono da circa un secolo e svolgono
un’attività di predisposizione di testi convenzionali e di ‘regolamenti’; i regolamenti degli
ultimi due Istituti non vincolano lo Stato membro indipendentemente dalla sua volontà,
mentre le revisioni periodiche ai regolamenti amministrativi del primo vincolano tutti gli
Stati membri, salvo che questi non manifestino la loro opposizione al momento
dell’adozione o entro un certo termine dall’adozione.
FMI (fondo monetario internazionale), BIRD (banca internazionale per la ricostruzione e
lo sviluppo), IFC (International Finance Corporation), IDA (International Development
Association) il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la
Ricostruzione e lo Sviluppo sono stati creati nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods; gli
organi principali del Fondo sono il Consiglio dei Governatori, organo deliberante composto
da un Governatore e da un supplente nominati da ciascuno Stato membro (e che delibera
secondo maggioranze corrispondenti all’entità delle quote di capitale sottoscritte e quindi
con un peso determinate dei Paesi ricchi, degli Stati Uniti in particolare), il Comitato
esecutivo e il Direttore generale; ha funzioni di promozione della collaborazione monetaria
internazionale, della stabilità dei cambi, dell’equilibrio delle varie bilance dei pagamenti,
ecc. e dispone di un capitale sottoscritto pro quota dagli Stati membri; questi ultimi
possono ricorrere alle riserve del Fondo entro certi limiti rapportati alla quota sottoscritta,
secondo regole precise ed a determinate condizioni stabilite di volta in volta (nel caso dei
c.d. stand-by agreements), allorché abbiano necessità di procurarsi valuta estera al fine di
fronteggiare squilibri nella propria bilancia dei pagamenti; le condizioni di volta in volta
fissate costituiscono oggetto di una lettera di intenti sottoscritta da un rappresentante dello
Stato richiedente; la Banca ha un cospicuo capitale sottoscritto dagli Stati membri e suo
scopo principale è la concessione di mutui agli Stati membri (oppure a privati, ma con
garanzia circa la restituzione prestata da uno Stato membro) per investimenti produttivi e
ad un tasso di interesse variabile a seconda del grado di sviluppo dello Stato membro
interessato; affiliati alla Banca sono gli altri due Istituti specializzati.
norme medesime; altrettanto può fare un altro organo dell’Organizzazione, deputato alla
soluzione delle controversie, il Dispute Settlement Body.
L’unione nel suo complesso resta, almeno allo stato attuale delle cose,
un’organizzazione internazionale sia pure altamente sofisticata sebbene ci
siano comunque dei principi che si sono affermati molto nella prassi, primo
fra tutti il principio della prevalenza del diritto comunitario su quello interno.
Struttura dell’unione europea. Li ho elencati senza descriverli: consiglio europeo,
commissione europea, consiglio, parlamento europeo, corte dei conti, corte di giustizia,
banca centrale europea.
Parte seconda.
IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI.
21.Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti
all’uso della forza internazionale ed interna agli stati.
Iniziamo col distinguere la forza internazionale dalla forza interna.
Forza internazionale. Per essa intendiamo la violenza di tipo bellico o
comunque qualsiasi atto che implichi operazioni militari, come
l’attraversamento della frontiera da parte di truppe regolari o di bande armate
assoldate dallo stato, il bombardamento di parti del territorio ecc, l’atto
contro navi o aerei militari ecc.
Forza interna. Più complesso è definire la forza interna, intesa come potere di
governo (o potere di imperio, o sovranità o potestà di governo) esplicato dallo
stato sugli individui e i loro beni. Cosa deve intendersi per potere di governo
delimitato dal diritto internazionale (oppure: potere di governo il cui esercizio
può costituire violazione del diritto internazionale)? Qual è la nozione di
potere di governo secondo il diritto internazionale?
Iniziamo col dire che non si può identificare sic et sempliciter detto potere
con l’esercizio della coercizione in quanto forza materiale e sostenere quindi
che rilevanti per il diritto internazionale siano solo le azioni di polizia,
l’esecuzione forzata sui beni, l’esecuzione delle condanne penali ecc; in altre
parole l’esercizio di ciò che la dottrina anglosassone definisce “jurisdictio to
enforce”. Una parte della dottrina sostiene questa tesi (che veniva sostenuta
anche nelle precedenti edizioni di questo manuale) ma, dopo una più matura
riflessione, non sembra che si possa sostenere che una violazione del diritto
internazionale derivi sempre e solo dall’effettivo esercizio della coercizione:
anche la sentenza dichiarativa di un giudice (es la sentenza che sottoponga
uno stato straniero alla giurisdizione del foro) o una legge che contenga un
provvedimento concreto (es legge che nazionalizzi i beni di una compagnia
straniera) possono costituire, entro certi limiti, un comportamento illecito.
Escluso che il potere di governo si identifichi con la coercizione materiale
bisogna anche guardarsi dal riportargli ogni manifestazione della sovranità
dello stato, e quindi anche la mera attività normativa astratta, sia essa
esplicata attraverso le leggi oppure atti amministrativi. Finché al comando
astratto non segue la sua applicazione ad un caso concreto, non può
propriamente parlarsi di una violazione del diritto internazionale. Il
contenzioso relativo alle violazioni del diritto internazionale, come dimostra
la prassi, è un contenzioso su questioni concrete.
Concludiamo dicendo che il potere di governo così come limitato dal diritto
internazionale (jurisdiction dello stato) sia costituito da qualsiasi misura
concreta di organi statali, sia avente essa stessa natura coercitiva sia in
quanto, e solo in quanto, suscettibile di essere coercitivamente attuata. In
questo senso può dirsi che il diritto internazionale pone limiti alla forza
interna degli stati.
Poteri di governo e attività incoercibili. Si tratti della forza internazionale o
della forza interna, ciò che è delimitato dal diritto internazionale è sempre
l’azione esercitata dallo stato su persone o cose. Si dice che certi fenomeni,
essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che non possono
essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di governo dello stato: lo si è
detto per le comunicazioni via radio, poi per le attività spaziali. Oggi, lo si dice
per le comunicazioni in rete, con prese di posizione da parte degli utenti che
suonano addirittura come una sfida agli stati a non tentare di penetrare nel
ciberspazio. A noi sembra che, anche in questi casi, punto di riferimento della
disciplina internazionalistica restano le persone e le cose; i diritti e gli
obblighi internazionali di cui lo stato è titolare presuppongono sempre la sua
possibilità di governare, magari solo nei luoghi di partenza o di arrivo, le
attività umane.
Tenuto conto del fatto che un principio fondamentale di diritto internazionale
vieta in linea generale l’uso della violenza di tipo bellico, la materia dei limiti
tale contenuto? Può dirsi che la norma attribuisce ad ogni stato il diritto di
esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua comunità
territoriale, cioè sugli individui (e sui loro beni) che si trovano nell’ambito del
territorio. Correlativamente ogni stato ha l’obbligo di non esercitare in
territorio altrui (e senza il consenso del sovrano locale) il proprio potere di
governo, ossia di non svolgervi con propri organi azioni di natura coercitiva o
comunque suscettibili di essere coercitivamente attuate. In ogni caso la
violazione della sovranità territoriale si ha solo se vi è presenza fisica e non
autorizzata dall’organo straniero nel territorio.
Cattura di criminali in territorio straniero. Fu ad esempio illecita, anche se
moralmente giustificabile, la cattura da parte di agenti del governo israeliano del criminale
nazista Eichman, avvenuta in territorio argentino nel 1960 (fu poi processato e giustiziato
in Israele). La illiceità della cattura fu poi affermata anche dal consiglio di sicurezza delle
nazioni uniti: con risoluzione 23.6.1960, n.138 il consiglio, pur sottolineando la necessità
di perseguire i nazisti macchiatisi di crimini contro gli ebrei e avvertendo di non volere con
la risoluzione medesima in alcun modo “giustificare i crimini odiosi di cui Eichman è
accusato”, chiese al governo israeliano di assicurare al governo argentino “una riparazione
adeguata conformemente alla carta delle nazioni unite e alle norme del diritto
consuetudinario”.
La illiceità della cattura di criminali all’estero si esaurisce peraltro nei rapporti tra stati.
Essa, invece, non comporta dal punto di vista del diritto internazionale, l’assenza della
potestà di punire, potestà sempre esercitabile anche sugli stranieri sempre che vi sia un
collegamento del reato con lo stato che punisce e sempre che non sussista un problema di
immunità internazionale dell’autore.
Regime delle capitolazioni. La presenza e l’esercizio di pubbliche funzioni da parte di
organi stranieri è autorizzata in una serie di ipotesi tipiche, prime fra tutte quelle relative
all’attività di agenti diplomatici e di consoli stranieri. Una forma intensa di attività
giurisdizionale svolta all’estero era quella esercitata nel quadro del cd. regime delle
capitolazioni regime in base al quale alcuni stati che venivano ritenuti poco affidabili
sotto l’aspetto dell’amministrazione della giustizia consentivano agli europei di essere
giudicati dai consoli dei loro paesi. Tale regime cessò dopo la seconda guerra mondiale.
comportarsi nel suo territorio come meglio crede e se è vero che, nel dubbio, è
sempre questo principio a doversi applicare, le eccezioni non si contano più.
Le eccezioni che per prime si sono andate affermando sono costituite da
norme che impongono un certo trattamento degli stranieri, persone fisiche o
giuridiche, e degli stessi stati membri. I limiti che da queste norme derivano
al potere dello stato non sono oggi i più importanti; anzi, per quanto riguarda
la condizione degli stranieri, la loro specificità si è andata molto attenuando,
essendo essi confluiti per una certa parte nelle norme che tutelano tutti gli
essere umani.
Sovranità territoriale, paesi in sviluppo e sovranità sulle risorse naturali. La
libertà dello stato nell’ambito del suo territorio è ribadita da alcuni principio del nuovo
“ordine economico internazionale” molto cari ai paesi in sviluppo. Ci riferiamo, in primis,
al principio della sovranità permanente dello stato sulle risorse naturali; poi al principio
per cui ogni stato ha il diritto di scegliere il proprio sistema economico, oltre che i suoi
sistemi politici, sociali e culturali, conformemente alla volontà del suo popolo nonché di
scegliere i suoi obiettivi e i suoi mezzi di sviluppo, di mobilitare e di utilizzare
integralmente le sue risorse, di operare delle riforme economiche e sociali progressive e di
assicurare la piena partecipazione del suo popolo al processo e ai vantaggi dello sviluppo.
Sovranità territoriale e divieto della minaccia o dell’uso della forza. La
sovranità territoriale è oggi indirettamente tutelata anche da un altro principio
fondamentale del diritto internazionale, vale a dire dal principio che vieta la minaccia o
l’uso della forza nei rapporti internazionali. Tale divieto riguarda principalmente le azioni
di tipo bellico rivolte contro il territorio dello stato e, non a caso, l’art 2 par 4 della carta
delle nazioni unite pone in primo piano proprio la necessità di proteggere “l’integrità
territoriale” degli stati.
contengono un catalogo dei diritti umani che gli stati contraenti sono tenuti a
rispettare.
Molto importante è la convenzione del 10.12.1984 contro la tortura e le altre
pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti, ratificata a tutt’oggi da 171
stati, tra cui l’Italia. La convenzione definisce, all’art 1, la tortura come
“qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una
persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di
ottenere informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa ha
commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei”. Essa prevede l’obbligo
degli stati contraenti di adottare tutte le misure atte a prevenire e punire
simili crimini commessi nei territori sottoposti alla loro giurisdizione. Va
anche sottolineato l’art 3 il quale prevede l’obbligo di non espellere individui
verso paesi nei quali essi rischiano di essere sottoposti a tortura o a
trattamenti disumani o degradanti.
Rispetto dei diritti umani secondo il diritto consuetudinario . La materia dei
diritti umani è anche una materia nella quale si sono venute formando delle
norme consuetudinarie, precisamente dei principi generali di diritto
riconosciuti dalle nazioni civili. A differenza delle convenzioni, le quali
contengono cataloghi ben dettagliati, il diritto consuetudinario si limita
peraltro alla protezione di un nucleo fondamentale e irrinunciabile di diritti
umani. Si tratta del divieto delle cd gross violations, ossia delle violazioni
gravi di tali diritti, categoria cui si è soliti riportare quelle pratiche di governo
particolarmente irrispettose della dignità umana, come la tortura e i
trattamenti disumani e degradanti, il lavoro forzato ecc.
A maggior ragione rientrano nelle gross violations i crimini internazionali
(genocidio, crimini di guerra ecc) in quanto commessi dagli stati o da questi
non impediti. Sull’appartenenza di questi divieti al diritto internazionale
generali, anzi allo juc cogens internazionale, concordano tutti gli stati.
Non si può dire, invece, che sia prevista dal diritto consuetudinario
l’abolizione della pena di morte, nonostante le pressioni esercitate in questo
senso da forti correnti dell’opinione pubblica mondiale. Ricordiamo, a tal
proposito, l’adozione da parte dell’assemblea generale, di una serie di
risoluzioni con le quali si chiede una moratoria universale delle esecuzioni
capitali in vista della loro definitiva abolizione.
Tortura e trattamenti disumani e degradanti. Nonostante le tante dichiarazioni e
norme che le condannano, le gross violations continuano purtroppo ad essere praticate.
Quelle più ricorrenti sono la tortura e i trattamenti disumani e degradanti. La prima si
distingue dai secondi per la maggiore intensità delle sofferenze fisiche o psichiche inflitte,
dovendo infatti far riferimento ad una soglia minima di gravità. Anche se, sempre a
fondamento di una maggiore tutela dei diritti dell’uomo sembra non esserci distinzione tra
Obblighi negativi e positivi nella tutela dei diritti umani. L’obbligo degli stati
di rispettare i diritti umani nasce come obbligo negativo, o di astensione gli
organi statali sono, anzitutto, tenuti ad astenersi dal ledere siffatti diritti e dal
compiere atti qualificabili come gross violations.
Ma, il rispetto dei diritti umani costituisce anche l’oggetto di un diritto
positivo o di protezione lo stato deve vegliare affinché le violazioni dei
diritti umani non siano commesse da individui che comunque si trovino sul
suo territorio.
Le norme sui diritti umani vengono anche in rilievo con riguardo alla
protezione delle minoranze nonché delle popolazioni indigene.
Diritti delle minoranze per quanto riguarda le minoranze (ossia “un gruppo
numericamente più esiguo del resto della popolazione dello stato al quale esso
appartiene ed avente caratteristiche culturali, fisiche o storiche, una religione,
una lingua diversi da quelli del resto del paese”) la loro protezione è
esclusivamente affidata al diritto convenzionale e norme in materia si trovano
in quasi tutte le convenzioni sui diritti umani.
Diritti delle popolazioni indigene il tema della tutela delle popolazioni
indigene è molto attuale e in vari stati dell’Africa e dell’America, dove
popolazioni del genere esistono, si vanno moltiplicando le rivendicazioni, da
quelle relative al diritto al godimento delle terre e delle relative risorse, che gli
indigeni tradizionalmente possedevano, a quelle relative al diritto alla
conservazione e protezione dell’ambiente, al diritto al mantenimento della
propria identità culturale, delle proprie tradizioni e dei propri costumi ecc,
insomma tutto ciò che per secoli i colonizzatori hanno negato o compromesso.
In realtà, le norme internazionali vincolanti che si occupano specificatamente
della materia sono poche, se si eccettuano due convenzioni dell’OIL del 1957
n.107 e del 1989 n.169.
È significativa la sentenza della Corte Suprema del Belize del 2007 che considera anzitutto
come contraria alla costituzione la violazione dei diritti dei Maya sulla loro terra, diritti
protetti dal diritto consuetudinario di quella popolazione. La corte ritiene poi che la
protezione di detti diritti discenda anche dalle norme sulla proprietà contenute nel patto
delle nazioni unite sui diritti civili e politici e dalla convenzione delle nazioni unite
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale.
Regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Questa regola si applica alla
materia dei diritti umani: la violazione delle norme consuetudinarie sui diritti
umani non può dirsi consumata, o comunque non può farsi valere sul piano
internazionale, finché esistono nell’ordinamento dello stato offensore rimedi
adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire all’individuo
offeso una congrua riparazione. Inoltre, tutte le convenzioni sui diritti umani
le quali prevedono organi di controllo sul rispetto di tali diritti contengono la
regola del previo esaurimento.
24.Le punizioni dei crimini internazionali commessi da individui.
Responsabilità internazionale degli individui autori di crimini . La
caratteristica delle norme che disciplinano siffatti crimini è che esse danno
luogo ad una responsabilità propria delle persone fisiche che li commettono.
Trattasi, quindi, di regole che direttamente si indirizzano agli individui,
concorrendo alla formazione della soggettività internazionale di questi ultimi.
Questo non è esclude la contemporanea responsabilità degli stati qualora,
come spesso avviene, gli individui siano anche loro organi.
La comunità internazionale si va organizzando oggi per attuare la punizione
dei crimini internazionali individuali attraverso l’istituzione di tribunali
internazionali. Una notevole prassi giurisprudenziale ha caratterizzato i due
Tribunali per i crimini commessi nella ex Iugoslavia e nel Ruanda; più
limitata è, invece, l’attività della corte penale internazionale, dotata di una
competenza generale. La punizione, quindi, è in larga parte affidata ai
tribunali interni, nell’esercizio della sovranità territoriale.
Un crimine internazionale era considerata la pirateria, nel senso che qualsiasi stato potesse
catturare la nave pirata e punire i membri dell’equipaggio. Altro esempio era quello dei
crimini di guerra, crimini che attualmente costituiscono una importante componente dei
crimini internazionali; ma prima le cose stavano diversamente essendo, infatti, la
punizione dei criminali limitata agli stati belligeranti e si riteneva che essa dovesse
comunque cessare con la cessazione delle ostilità (cd clausola di amnistia). Le cose stanno
diversamente oggi.
In modo ancora più esplicito, le sezioni unite della nostra corte di cassazione
hanno escluso la vigenza di un “principio di giurisdizione civile universale per
le azioni risarcitorie” da crimini internazionali, una conclusione
successivamente confermata dalla Grande camera della corte europea dei
diritti dell’uomo in relazione al crimine di tortura.
Terrorismo. Si discute se sia crimine internazionale il terrorismo che,
secondo una norma consuetudinaria ormai consolidata, consiste
essenzialmente nella commissione di un atto criminale con l’intento di
spargere terrore nella popolazione di uno stato o in una parte di essa e sempre
che l’atto trascenda i confini di un singolo stato.
Quindi, nella norma non rientrano gli atti terroristici commessi dai cittadini
nel territorio del loro stato.
Non rientrando nella categoria dei crimini contro l’umanità, il terrorismo
sfugge al principio di giurisdizione universale. In Italia è previsto all’art
270bis cp: “compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine
democratico”.
Un caso di terrorismo che eccezionalmente sembra possa riportarsi nella
categoria dei crimini contro l’umanità è quello degli atti commessi negli
ultimi anni, prima e dopo il disumano attacco alle torri gemelle, dal gruppo di
Al Qaeda.
NB anche ai terroristi (e ancor più agli individui sospettati di terrorismo)
vanno riconosciuti i diritti umani fondamentali. Pensiamo alla sentenza del
2008 che condanna l’Italia per aver espulso uno straniero condannato per
terrorismo nel suo paese, straniero che rischiava di essere sottoposto a tortura
e trattamenti disumani.
Principio “aut dedere aut judicare” lo stato che non vuole o non può
procedere alla punizione del presunto criminale ha l’obbligo di consegnarlo
ad un altro stato che ne faccia richiesta e che sia competente a giudicarlo.
Secondo una sentenza della CIG del 2012, lo stato che non intende procedere
alla consegna ha l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per
instaurare il giudizio contro il presunto criminale.
I limiti relativi ai rapporti economici e sociali.
La protezione dell’ambiente.
Diritto internazionale economico. Sono molti i limiti che la sovranità
territoriale dello stato incontra in quella parte del diritto internazionale che
va sotto il nome di diritto internazionale economico. Il diritto internazionale
economico è il settore in cui più che in ogni altro la formazione di norme
maggior tutela rispetto agli interessi nazionali, o infine che ciascuno stato
debba esercitare il proprio potere nella materia in esame entro limiti
ragionevoli.
Tutto ciò è stato detto per reagire alla cd dottrina degli effetti, vale a dire al
principio secondo cui la giurisdizione dello stato si radicherebbe
ogniqualvolta un atto produca effetti all’interno del territorio nazionale,
indipendentemente da dove e da chi l’atto sia stato compiuto. È proprio grazie
all’uso di tale dottrina, infatti, che gli stati uniti hanno giustificato
l’applicazione della propria legislazione antitrust ad imprese operanti
all’estero.
Libertà di sfruttamento delle risorse del territorio e suoi limiti. In tema di
protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento
delle risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività
inquinanti o capaci di produrre irrimediabili distruzioni di risorse.
Iniziamo col chiederci se la libertà di sfruttamento incontri dei limiti di
carattere consuetudinario. Da più parti si sostiene che lo stato abbia l’obbligo
di evitare che il suo territorio venga utilizzato in modo tale da recare danno al
territorio (o alle navi e agli aerei che navigano o sorvolano in alto mare) di
altri stati. Normalmente il problema viene posto sotto il profilo della
responsabilità dello stato territoriale: ci si chiede se una responsabilità per
danni oltre frontiera sussista, se essa vada considerata come responsabilità da
atto illecito oppure sorga anche qualora si ritenga che l’attività nociva sia
lecita, ed infine se la responsabilità stessa abbia carattere assoluto o
presupponga la colpa dello stato territoriale.
Dobbiamo capire se il diritto internazionale consuetudinario imponga
l’obbligo di non compiere atti nocivi. Nel caso in cui l’indagine dia un risultato
positivo, la responsabilità derivante dalla violazione di tale obbligo dovrà
configurarsi come responsabilità (assoluta o almeno per colpa) da illecito; nel
caso di risultato negativo, resterà da stabilire se si possa configurare una
responsabilità da atti leciti.
Rapporti di vicinato. Il problema che stiamo considerando si è posto
dapprima nel quadro dei rapporti di vicinato, soprattutto con riguardo alle
utilizzazioni dei fiumi internazionali modificanti l’afflusso delle acque al
territorio di uno stato contiguo, e alle immissioni di fiumi e sostanze tossiche
dovute ad attività industriali poste in prossimità dei confini.
Inquinamento oltre frontiera. Esso si pone oggi in maniera molto accurata in
relazione all’inquinamento atmosferico derivante da attività ultrapericolose e
capaci di produrre danni anche a notevole distanza, come l’attività delle
Principio del “chi inquina paga”. Non bisogna confondere gli obblighi dello
stato sul piano internazionale con quelli degli individui, persone fisiche o
giuridiche, o al limite dello stato stesso, sul piano interno: se un’industria,
pubblica o privata, provoca danni nel territorio di un altro stato, può essere
chiamata a rispondere a rispondere innanzi ai giudici di questo stato, nel
quadro del normale esercizio della sovranità territoriale (oppure innanzi ai
giudici dello stato dal cui territorio proviene l’inquinamento).
Secondo il principio del “chi inquina paga” è stabilito che, in caso di
inquinamento causato da attività economiche, i costi di bonifica ambientale
devono essere sostenuti da chi ne trae profitto.
Un esempio significativo della distinzione tra responsabilità internazionale e
responsabilità interna è il caso deciso dalla corte distrettuale di Rotterdam e poi dalla corte
di appello dell’Aja. La prima aveva ritenuto che la responsabilità di una ditta francese per
l’inquinamento del Reno sussistesse sia in base al diritto olandese che in base al diritto
internazionale; la seconda ha invece considerato come non pertinente il richiamo del
diritto internazionale, affermando la responsabilità unicamente sulla base del diritto
olandese.
Sviluppo sostenibile, responsabilità intergenerazionale e approccio
precauzionale. Una linea di tendenza in formazione, anche se non ancora
identificabile come diritto generale, riguarda l’esistenza dell’obbligo a gestire
razionalmente le risorse del proprio territorio secondo criteri di “sviluppo
sostenibile” (ovvero contemperare le esigenze di sviluppo economico con
quelle della tutela ambientale), della “responsabilità intergenerazionale”
(ossia salvaguardando le generazioni presenti e future) e di “approccio
precauzionale” (cioè evitare attività rischiose per l’ambiente in mancanza di
Per quanto concerne le misure preventive è ovvio che esse debbano essere
adeguate alle circostanze relative ad ogni singolo caso concreto.
Diniego di giustizia. Per quanto concerne le misure repressive, occorre che lo
stato disponga di un normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo
straniero possa far valere le proprie pretese ed ottenere giustizia. Si chiama,
appunto, diniego di giustizia l’eventuale illecito dello stato in questa specifica
materia. Questo illecito si ha quando la giustizia è negata appunto per difetto
di organizzazione giudiziaria.
Protezione degli investimenti stranieri. Sul tradizionale obbligo di protezione
dei beni degli stranieri si sono innestate, per quanto riguarda la materia degli
investimenti stranieri, le rivendicazioni dei paesi in sviluppo, aventi per
oggetto la sovranità permanente sulle risorse naturali. In una loro
formulazione estrema simili rivendicazioni tendevano addirittura a sostenere,
all’epoca della decolonizzazione, l’assoluta libertà dello stato territoriale di
espropriare beni di proprietà degli stranieri, con il conseguente venir meno
dell’obbligo di protezione e della connessa obbligazione di pagare un
indennizzo al soggetto espropriato.
Oggi, la situazione è abbastanza mutata. Perché? perché gli stati che ricevono
gli investimenti, di cui i paesi in sviluppo hanno particolarmente bisogno,
hanno interesse a creare le condizioni necessarie affinché i capitali stranieri
non cessino dall’affluire (affinché soggetti stranieri decidano di investire in un
certo paese, è infatti necessario che quest’ultimo offra adeguate garanzie di
protezione). Ciò ha portato, da un lato ad un parziale ridimensionamento
delle rivendicazioni statali in tema di sovranità sule risorse naturali e,
dall’altro, all’assunzione di impegni pattizi volti a creare un quadro giuridico
rassicurante per gli investitori stranieri.
Tali impegni sono assunti nell’ambito di trattati in materia di investimenti
(bilaterali o multilaterali) nei quali ciascuno stato si impegna a garantire
alcune tutele di carattere sia sostanziale (esempio: gli stati si impegnano a
non espropriare gli investimenti stranieri se non in presenza di giustificati
motivi e previo pagamento di un indennizzo “pronto, adeguato ed effettivo”
cd formula di Hull) sia procedurale (gli stati si impegnano a consentire la
sottoposizione delle controversie relative alla violazione degli standard
sostanziali di tutela a tribunali arbitrali internazionali ad hoc, la cui
costituzione può essere attivata, con decisione unilaterale, dall’investitore
straniero. Tali tribunali agiscono all’interno di un quadro istituzionale e
rispettano regole procedurali predefinite; pensiamo all’ICSID, “centro
internazionale per il regolamento delle controversie tra stati e investitori
stranieri”) agli investitori provenienti dalle altre parti contraenti.
ragione” che nel proprio paese possa essere perseguitato per “motivi di razza,
religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo social o per le
sue opinioni politiche”. Il rifugiato deve ovviamente rispettare tutte le leggi
dello stato di rifugio e, inoltre, ha vari diritti tra cui quelli di non essere
discriminato con riguardo alla razza, di praticare la propria religione, di
accedere ai tribunali e all’assistenza e di ottenere il “documento di viaggio”,
ossia una sorta di passaporto che gli permette di circolare nei territori degli
stati contraenti.
Non-refoulement. Ma, la norma più importante è sicuramente quella dell’art
33 che prevede il principio del non-refoulement, secondo cui il rifugiato non
può essere espulso verso territori verso la sua vita e libertà sarebbero
minacciate per i motivi sopra indicati e ciò sempre che motivi attinenti alla
sicurezza pubblica non lo richiedano. Secondo un’interpretazione evolutiva di
questo principio, esso si applica ormai in ogni caso in cui il rifugiato potrebbe
essere sottoposto nel suo paese, o nel paese nel quale rischia di essere inviato,
a trattamenti che violino i principi fondamentali e inalienabili della persona
umana.
Diritto di asilo. La figura del rifugiato ha assorbito quella del richiedente asilo
politico. Ciò anche sul piano meramente terminologico, in quanto si dice che
chi chiede il riconoscimento dello status di rifugiato è ritenuto “cercare asilo”.
È implicito nel principio del non-refoulement che al richiedente lo status di
rifugiato vada accordato un lasso di tempo per dimostrare i motivi della sua
richiesta. È pertanto da condannare la prassi, seguita per un certo tempo dal
governo italiano, consistente nel respingere in alto mare stranieri che fuggono
dal loro stato e di respingerli addirittura verso la Libia di Gheddafi, stato non
vincolato dalla convenzione.
NB il respingimento in alto mare verso la Libia da parte del governo italiano è stato
condannato anche dalla sentenza CEDU del 23.2.2012, nel caso Hirsi c. Italia per
violazione indiretta dell’art 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo; la
particolarità della sentenza sta peraltro nel fatto che la corte abbia ritenuto di avere
giurisdizione anche per violazioni perpetrate dallo stato fuori del proprio territorio e
precisamente fuori del proprio mare territoriale.
proprio stato ed essere in grado di tutelare lo straniero più del suo stato
nazionale. La protezione diplomatica spetta infatti agli organi del cd potere
estero, di solito organi del potere esecutivo.
Protezione diplomatica delle società commerciali. La protezione diplomatica
può essere esercitata dallo stato nazionale sia a difesa di una persona fisica
che a difesa di una persona giuridica, in particolare di una società
commerciale.
Per quanto concerne le società commerciali ci si chiede se, ai fini dell’esercizio
della protezione diplomatica, si debba aver riguardo a criteri formali o legali,
come il luogo di costituzione e quello della sede principale, oppure a criteri
sostanziali e quindi ritenere ad esempio che la protezione sia esercitabile dallo
stato a cui appartengono la maggioranza dei soci o comunque coloro che
controllano la società.
A favore della prima tesi, si è pronunciata la CIG in una sentenza del 1970
(relativamente all’affare Barcelona Traction, Light and Power): si tratta di
una tesi che finisce con l’avere una sua logica proprio in relazione alla pratica
oggi assai diffusa tra i privati e consistente nell’ancorare l’esistenza legale di
una società a stati particolarmente “compiacenti” dal punto di vista fiscale, da
quello dei controlli sulla gestione ecc.
Caso della Barcelona Traction. Rispetto a questo caso la CIG ha anche affermato la
necessità che oltre al luogo di costituzione e della sede sociale debba concorrere a
determinare la nazionalità della società qualche altra “permanente e stretta connessione”
con lo stato individuato dai detti criteri. Ma, non è chiaro cosa succede se i vari criteri
conducano a stati diversi.
Nella dottrina e nella prassi successive alla Barcelona Traction si è cercato di precisare che
cosa debba intendersi per “permanente e stretta connessione” di una società con lo stato
agente in protezione diplomatica. Soprattutto si discute al riguardo sulla rilevanza della
nazionalità di coloro che hanno il controllo della società e se il criterio del controllo sua
aggiuntivo o alternativo ai criteri del luogo di incorporazione e della sede sociale. Non c’è
dubbio che nella giurisprudenza della corte il criterio non è considerato come alternativo,
nella misura in cui la corte dichiara infatti che, anche se una società di mantenga, e finché
si mantenga in vita con un solo azionista, la nazionalità di quest’ultimo non avrebbe
rilevanza ai fini della protezione diplomatica per violazioni concernenti i beni e le attività
sociali.
Protezione dei singoli soci. Si afferma, anzitutto, che lo stato nazionale del
singolo socio possa agire quando questi sia stato leso “direttamente” in un suo
diritto (direct rights) ma non è facile individuare i casi in cui ciò avviene. Si
deve trattare di una lesione del diritto del socio nei confronti della società
(pensiamo il diritto ai dividendi, il diritto di partecipare alle assemblee con
diritto di voto ecc).
A parte il tema dei direct rights, una più importante e discussa questione in
materia di protezione diplomatica del socio da parte del suo stato nazionale
riguarda la cd protezione “in sostituzione” o “sussidiaria”. Ci si chiede anche
se detto stato possa intervenire quando la società abbia legalmente cessato di
esistere, oppure abbia essa la nazionalità dello stato presunto violatore, o
ancora il suo stato nazionale non possa o non voglia intervenire.
Non c’è dubbio che qualora la società abbia cessato di esistere, i soci possano
essere protetti dai loro stati nazionali per quanto riguarda i residui beni
societari a loro attribuibili. Si discute, invece, se la protezione sussista
nell’ipotesi in cui la società abbia la nazionalità dello stato presunto violatore;
la discussione nasce dal fatto che, nonostante quanto detto nell’obiter dictum
della Barcelon Traction, la stessa CIG nella successiva sentenza Diallo si è
rifiutata di ritenere che detta forma di intervento “in sostituzione” sia prevista
dal diritto consuetudinario: la corte ha negato, in particolare, che una norma
consuetudinaria potesse ricavarsi dalla vasta rete di trattati in materia di
investimenti che adottano una soluzione contraria.
Protezione della comunità navale. Alla regola secondo cui sono le società e
non i singoli azionisti a godere della protezione diplomatica può accostarsi il
caso della protezione della comunità navale da parte dello stato nazionale o
dello stato della bandiera, protezione che assorbirebbe quella dei singoli
membri dell’equipaggio. In tal senso è citabile la sentenza del tribunale
internazionale del diritto del mare: nella specie si trattava della cattura e del
sequestro di una nave in alto mare e conseguente arresto dell’equipaggio, e la
controversia non riguardava le regole sul trattamento dello straniero ma
quelle di diritto internazionale del mare.
27.Il trattamento degli agenti diplomatici e di altri organi di stati
stranieri.
Particolari limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono
previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici.
Essi si concretano nel rispetto delle cd. Immunità diplomatiche. La materia è
anche regolata da una Convenzione di codificazione promossa dalle Nazioni
Unite: la Convenzione di Vienna del 1961 promossa dall’ONU.
Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati presso lo stato
territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel
territorio di tale stato per esercitarvi le sue funzioni fino al momento in cui ne
esce. La presenza dell’agente è, come quella di qualsiasi straniero,
subordinata alla volontà dello Stato territoriale; volontà che si esplica, per
quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento (che precede
l’accreditamento) e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la cd.
Parliamo, per prima cosa, del principio del non intervento negli affari interni
ed internazionali di un altro stato. Il principio della non ingerenza negli affari
altrui però, in concreto, ha perso sempre di più la sua autonoma sfera di
applicazione con l’affermarsi di altre regole generali, le quali ne hanno
assorbito la fattispecie.
Non ingerenza e divieto della minaccia o dell’uso della forza. La più
importante di queste regole è costituita dal divieto della minaccia o dell’uso
della forza: interventi negli affari interni ed internazionali di un altro paese,
attuati attraverso la minaccia o l’impiego della forza di tipo bellico.
È sintomatico quanto afferma la CIG nella sentenza del 1986 nel caso delle attività militari
e paramilitari in e contro il Nicaragua, a proposito di una delle fattispecie di solito riportate
al principio di non ingerenza e cioè dell’assistenza prestata da uno stato, sottoforma di
fornitura di armi, di assistenza logistica e altro, a forze ribelli che agiscono nel territorio di
un altro stato. Anche se la corte non ritiene che detta fattispecie sia assorbita dal principio
che vieta la minaccia o l’uso della forza, essa però considera salomonicamente l’assistenza
alle forze ribelli come contraria sia all’uno che all’altro principio.
Bisogna, infine, chiedersi se dal principio della non ingerenza derivi l’obbligo
di impedire che nel proprio territorio si tengano comportamenti che possono
indirettamente turbare l’ordine pubblico e più in generale l’indisturbato
svolgersi della vita nell’ambito di stati stranieri. Nessuno dubita che sia lecite
manifestazioni di condanna o di critica del sistema politico o del regime
economico, sociale ecc di uno stato stranieri (manifestazioni che riguardano
atti jure gestionis ma, una volta affermato il principio della immunità, elenca
in via di eccezione i casi in cui lo stato straniero può essere convenuto in
giudizio. L’elencazione comprende le controversie relative alle transazioni
commerciali, ai contratti di lavoro, ai danni causati a persone o a cose, alla
proprietà ecc.
Immunità degli stati stranieri in materia di rapporti di lavoro . Uno dei campi
in cui la distinzione tra i due atti è difficile è quello relativo alle controversie
in tema di lavoro: trattasi, per lo più, di giudizi instaurati da lavoratori aventi
la nazionalità dello stato territoriale, per lavoro prestato presso ambasciate,
istituti di cultura ed altri uffici istituiti da stati stranieri.
In realtà la distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis, anche se ancora
utilizzata da varie corti interne in materia di rapporti di lavoro, non fu
escogitata in relazione a detti rapporti. Nulla da obiettare se il lavoratore ha la
nazionalità dello stato straniero e quindi è naturalmente sottoposto alle leggi
e ai giudici del suo stato. Il problema si pone per i lavoratori che vengono
reclutati nello stato del giudice ed abbiano la nazionalità o siano cittadini di
uno stato terzo, ma abbiano la residenza abituale nello stato del giudice.
Impedire a costoro di rivolgersi al loro giudice naturale è ingiusto almeno
quando si tratta di rivendicazioni di carattere patrimoniale.
Va apprezzata una tendenza progressista diretta a tutelare il lavoratore, che si
va ad affermare nella prassi più recente. Ci riferiamo, anzitutto, alla
“convenzione europea sull’immunità degli stati” la quale adotta per i rapporti
di lavoro il criterio della nazionalità del lavoratore cumulato con quello del
luogo delle prestazioni: se il lavoratore ha la nazionalità dello stato straniero
che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la
nazionalità dello stato territoriale, o quivi risieda abitualmente pur essendo
cittadino di un terzo stato, e il lavoro deve essere prestato nel territorio,
l’immunità è esclusa.
Immunità e violazioni gravi dei diritti umani. Può ritenersi che l’immunità
non sia invocabile dallo stato citato in giudizio per le conseguenze civilistiche
(risarcimento del danno) di violazioni gravi dei diritti umani? la
giurisprudenza interna e quella internazionale non è orientata in tal senso, se
si esclude una serie di sentenze emesse contro la Germania dalla nostra
cassazione, nonché la sentenza della corte costituzionale del 22.10.2014
n.238, tutte relative ai crimini di guerra commessi dalle truppe tedesche
durante la seconda guerra mondiale.
Anche in Grecia la corte suprema si è pronunciata contro l’immunità della
Germania, e per gli stessi crimini (ma tale orientamento è stato
successivamente sconfessato dalla corte suprema speciale greca).
Dottrina dell’act of state. Dottrina secondo cui una corte interna non potrebbe
rifiutarsi di applicare una legge o un altro atto di sovranità straniero, ad
esempio una legge richiamata dalle norme di diritto internazionale privato, in
quanto contraria al diritto internazionale e neppure in quanto
illegittimamente adottata alla stregua dei principi del suo ordinamento di
origine. In pratica: le corti di uno stato, anche nei giudizi tra parti private, non
potrebbero controllare la legittimità internazionale o interna delle leggi,
sentenze ed atti amministrativi stranieri che in un modo o nell’altro vengano
in rilievo nei giudizi medesimi.
Dottrina dell’atto politico (political question). La dottrina dell’act o state è
eseguita soprattutto nei paesi di common law. Nello specifico più che una
dottrina imposta dal diritto internazionale essa è considerata come una sorta
di principio (di diritto interno) di autolimitazione da parte delle corti:
autolimitazione giustificata dalla necessità di non creare imbarazzo al proprio
governo nei rapporti con i governi stranieri.
La dottrina dell’act of case viene spesso applicata anche ai giudizi che riguardano lo stato
del giudice: nei paesi anglosassoni essa assume la denominazione di “political question); in
Italia viene in rilievo come “teoria dell’atto politico”: essa è stata applicata dalla corte di
cassazione in una sentenza del 2002 la corte ha ritenuto di non poter esercitare la
propria giurisdizione in relazione al risarcimento dei danni provocati a privati dalla guerra
aerea della NATO contro la Iugoslavia nel 1999, guerra a cui l’Italia partecipò fornendo le
basi agli aerei utilizzati per i bombardamenti del territorio iugoslavo.
Immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione civile. Nei limiti in cui gli
stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello stato territoriale, lo
sono pure le organizzazioni internazionali.
Rispetto a questa materia, anche per le organizzazioni internazionali un
problema importante è quello dell’immunità in tema di controversie di lavoro.
Anche in questo caso si assiste ad un’evoluzione necessaria per assicurare al
lavoratore maggiore tutela rispetto al passato. L’evoluzione è nel senso che
l’immunità è esclusa se l’organizzazione non ha nel suo ordinamento interno
un organo di natura giudiziaria, che offra tutte le garanzie di indipendenza e
imparzialità al quale il lavoratore possa rivolgersi.
30.Il diritto internazionale marittimo.
Libertà dei mari e controllo degli stati costieri sui mari adiacenti.
Codificazione del diritto internazionale marittimo. La materia del diritto
internazionale ha formato oggetto di due successive importanti Conferenze di
codificazione: a) la Conferenza di Ginevra del 1958; b) la Terza Conferenza
delle Nazioni Unite sul diritto del mare, tenutasi tra il 1974 ed il 1982; (tra le
due si inserì una seconda conferenza che fu indetta nel 1960, al solo scopo di
fissare il limite esterno del mare territoriale, ma che non ebbe alcun seguito).
La Conferenza di Ginevra produsse quattro convenzioni, ratificate ciascuna da
non più di una cinquantina di stati: a) La Convenzione sul mare territoriale e
Presenza costruttiva. Tesi secondo cui la nave che sia in acque internazionali
ma abbia contatti con la costa, particolarmente nel caso di trasbordo di merci
su imbarcazioni dirette verso la costa, è come se si trovasse negli spazi
sottoposti al potere di governo dello stato costiero.
Ciò che diciamo, chiariamo, vale solo ed esclusivamente per la repressione del
contrabbando e non anche per le altre fattispecie previste dall’art 33 della
convenzione di Montego Bay.
Per questi motivi è da approvare la sentenza della cassazione 1° sezione penale del 2010,
per la parte in cui ritiene insussistente la giurisdizione italiana nei confronti dei membri
dell’equipaggio di un’imbarcazione straniera per violazione delle leggi sull’immigrazione,
cattura avvenuta oltre i limiti delle nostre acque territoriali. Nella stessa sentenza si
sostiene l’inapplicabilità nella specie dell’istituto della zona contigua, non avendo la
Turchia (stato nazionale dell’imbarcazione) ratificato la convenzione di Montego Bay.
Secondo gli autori del nostro manuale, l’opinione è esatta se riferita alla violazione delle
leggi sanitarie, fiscali e di immigrazione; per quanto riguarda, invece, la repressione del
contrabbando, repressione autorizzata dal diritto consuetudinario, essa non lo è.
Nel caso della repressione del contrabbando di droga non è citabile, in senso contrario alla
tesi funzionale da noi sostenuta, l’art 17 della convenzione di Vienna del 1988, sulla
repressione del traffico illecito di droghe e di sostanze psicotrope. È vero che l’art 17
subordina al previo consenso dello stato della bandiera la visita e la cattura di navi che
esercitano siffatto traffico, ma esso fa salvi diritti e obblighi degli stati costieri e perciò deve
ritenersi applicabile solo ai mari non adiacenti.
Limite esterno del mare territoriale italiano. In base a quanto detto finora, deve
ritenersi conforme al diritto consuetudinario la legge italiana 24.8.1974 n.359 la quale ha
modificato l’art 2 del codice della navigazione estendendo il nostro mare territoriale a 12
miglia (non più 6 miglia).
Limite interno del mare territoriale. Da quali punti della costa si misura la
distanza di 12 miglia? è questo il problema del limite esterno (o linea di base)
del mare territoriale. Tale problema in passato ha dato luogo a molte
controversie (famosa quella tra Norvegia e Gran Bretagna a proposito delle
pescherie norvegesi) e forma oggetto di varie norme della convenzione di
Montego Bay.
L’art 5 di questa convenzione fissa il principio secondo cui la linea di base per
la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea; l’art 7,
invece, riconosce la possibilità di derogare a questo principio ricorrendo al
sistema delle linee rette in base a tale sistema, la linea di base del mare
territoriale non è segnata seguendo, come nel caso della bassa marea, le
sinuosità della costa ma congiungendo i punti sporgenti di questa o, nel caso
vi siano corone di isole o scogli in prossimità della costa, congiungendo le
estremità delle isole e degli scogli medesimi, o ancora in presenza di un delta
o di altra caratteristica naturale che renda la costa “suscettibile di cambiare
rapidamente”, unendo comunque i punti più avanzati.
Qual è la sporgenza massima utilizzabile per tracciare ciascuna linea retta
(quindi, qual è la massima lunghezza di una linea retta)? L’art 7 non fornisce
una risposta precisa, ma si limita a prescrivere un criterio elastico stabilendo
che la linea di base non deve “discostarsi in misura apprezzabile dalla
direzione generale della costa”, che le acque situate all’interno della linea
devono essere “sufficientemente legate al dominio terrestre per essere
sottoposte al regime delle acque interne” e che si può tener conto, per la
determinazione di certe linee di base, “degli interessi economici delle regioni
costiere, attestati da un lungo uso”.
Baie. L’art 10 della convenzione riguarda le baie. In base ai par. 4 e 5 dell’art
10 se la distanza fra i punti naturali d’entrata della baia non supera le 24
miglia, il mare territoriale viene misurato a partire dalla linea che congiunge
detti punti e tutte le acque della baia sono considerate come acque interne; se
la distanza, invece, eccede le 24 miglia, può tracciarsi all’interno della baia
una linea retta, sempre di 24 miglia, in modo tale da lasciare come acque
interne la maggior superficie di mare possibile.
L’art 10 considera come baie solo le insenature che penetrano in profondità
nella costa (precisamente solo le insenature la cui superficie sia eguale o
superiore a quella di semicerchio avente per diametro la linea di entrata).
Baie storiche. L’art 10 al par. 6 fa salvo, oltre al sistema delle linee rette, anche il regime
delle baie storiche, cioè le baie per le quali lo stato costiero possa vantare diritti esclusivi
consolidati nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri stati.
Rilevanza dell’accordo degli stati interessati alla delimitazione. Sia la CIG che
altri tribunali internazionali hanno confermato la tesi che la delimitazione
debba avvenire mediante accordo e che l’accordo debba ispirarsi a principi di
equità.
Ma che senso ha subordinare l’accordo ad equità? Praticamente nessuno
perché, se e quando un accordo di delimitazione è concluso, esso resta valido,
equi o iniqui che siano i criteri applicati; a meno di non ritenere che l’equità
assurda a jus cogens.
Quello che possiamo dire è che la giurisprudenza internazionale, rifacendosi
all’equità e tenendo conto delle particolarità geografiche che possono incidere
in varia misura sulla delimitazione, ha finito con l’indicare una serie di criteri
pratici: proporzionalità fra l’estensione delle zone di piattaforma attribuiti a
ciascuno stato e la lunghezza delle coste rispettive, l’eliminazione degli effetti
distorti provocati dalle isole dell’uno o dell’altro stato, la divisione in parti
uguali delle zone di piattaforma che si accavallano ecc. Chiariamo, però, che
questi criteri hanno carattere correttivo rispetto a quello di equidistanza che è
da considerare comunque come criterio base.
Zona economica esclusiva. Ai poteri dello stato costiero sulla piattaforma
continentale si sono venuti sovrapponendo quelli esercitabili in ambito della
ZEE, istituto da considerare ormai di diritto consuetudinario.
Giurisdizione penale per i crimini commessi su nave straniera. Sia chiaro che
la sottoposizione della nave al potere dello stato della bandiera riguarda solo
l’attività di imperio esercitata a bordo della nave (come l’arresto di persone).
Nulla esclude, invece, che uno stato diverso da quello della bandiera, così
come può esercitare nel suo territorio la giurisdizione su reati commessi in un
territorio straniero, così pure possa farlo su reati commessi su una nave
straniera.
L’art. 92 della convenzione Di Montego Bay stabilisce che “le navi navigano
sotto una bandiera di un solo stato e sono sottoposte, salvi i casi eccezionali
espressamente previsti dai trattati internazionali o dalla presente
convenzione, alla sua giurisdizione esclusiva in alto mare”. Questa norma va
interpretata nel senso di riservare allo stato della bandiera soltanto l’attività
di imperio esercitata a bordo della nave. Solo nel caso di collisioni o di altri
incidenti della navigazione, la convenzione prevede, all’art 97, che stati diversi
da quello della bandiera o dello stato nazionale dell’autore o degli autori
dell’incidente non possano esercitare neppure nel proprio territorio la
giurisdizione penale sugli autori medesimi.
Eccezioni al potere esclusivo dello stato nazionale. Il principio della
sottoposizione della nave al potere d’imperio esclusivo dello stato della
bandiera subisce varie eccezioni a seconda dello spazio in cui la nave si trovi,
eccezioni le quali aumentano via via che la nave entra nelle coste di un altro
paese.
Cominciando dall’ipotesi della nave in acque internazionali, un’eccezione
fermamente stabilita dal diritto consuetudinario è quella che concerne la
pirateria: la nave pirata, cioè la nave che commette atti di violenza contro
altre navi ai fini di preda o altri fini non politici può essere catturata da
qualsiasi stato e sottoposta a misure repressive quali la punizione dei membri
dell’equipaggio e di coloro che hanno partecipato all’atto di pirateria, la
confisca della nave o del carico etc. C’è chi ritiene che questa sia una facoltà
dello stato, altri ritengono invece che si tratti di un obbligo dello stato di
reprime.
Pirateria nelle acque somale. La pirateria è esplosa soprattutto nelle acque al largo
delle coste somale e per fronteggiarla sono state istituite forme di cooperazione
internazionale: ad esempio, l’Italia partecipa all’azione comune Atlanta, decretata dal
consiglio europeo per la dissuasione, la prevenzione e la repressione, con forze militari,
degli atti di pirateria e di rapina a mano armata al largo della Somalia; a ragione di ciò con
una legge del 2001 è stata, inoltre, prevista la possibilità, nel quadro della lotta contro la
pirateria, di avere a bordo uomini armati, sia militari che guardie armate private.
l’immatricolazione delle navi nei propri registri navali ma aggiunge che “deve
esistere un legame sostanziale (genuine link) tra lo Stato e la nave”.
La convenzione delle Nazioni Unite sulle condizioni di immatricolazione delle
navi del 1986 (artt.7-9) afferma che alla proprietà della nave partecipi un
numero di cittadini dello stato d’immatricolazione sufficiente ad assicurare
un controllo effettivo sulla nave e che l’equipaggio sia formato per una quota
soddisfacente da cittadini o residenti abituali nello Stato d’immatricolazione.
Cosa avviene se lo stato di immatricolazione non rispetta la norma sul
“genuine link”? gli altri stati sono autorizzati a disconoscere il carattere
“internazionale” della nave ed esercitare su di essa il loro potere di governo.
35.La protezione dell’ambiente marino e del patrimonio culturale
sottomarino.
La lotta all’inquinamento marino non può non fondarsi su una stretta
cooperazione a livello internazionale; ecco perché la convenzione di MB
dedica all’inquinamento (inteso come una situazione di degrado dei mari e
degli oceani) più di 40 articoli, tra i quali spiccano proprio quelli che
impegnano gli stati a collaborare tra loro.
Sono numerosi gli accordi, sia universali che regionali, stipulati a tutela dell’ambiente
marino; pensiamo alla convenzione per la preservazione delle acque del mare
dall’inquinamento da idrocarburi; la convenzione sulla prevenzione dell’inquinamento
marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre materie; la convenzione sulla prevenzione
dell’inquinamento causato da navi, ecc.
Per il resto vige lo stesso principio che è applicabile alle navi nel mare
territoriale: quando l’aereo straniero sorvola il territorio dello stato, quando vi
entra, quando sorvola le acque adiacenti alle coste di uno stato, tutto ciò che
riguarda la vita della comunità aerea (insomma, la vita di bordo) sfugge a
qualsiasi diritto di controllo da parte dello stato territoriale.
Zone di identificazione aerea. Si tratta di zone che si estendono anche per
centinaia di miglia nello spazio sovrastante l’alto mare intorno alle coste. Gli
stati costieri impongono, agli aerei stranieri che entrano in dette zone e che
sono diretti verso le coste, l’obbligo di sottoporsi alla identificazione, alla
localizzazione, e ad altre misure di controllo esercitate da terra. Gli aerei che
si sottraggono all’osservanza di simili obblighi si espongono a diverse
sanzioni, come l’essere intercettati in volo ed essere costretti ad atterrare.
Dalla prassi in materia di zone di identificazione aerea può dedursi un limite
al principio della libertà dello spazio atmosferico extraterritoriale, nel senso
che un certo esercizio del potere di governo sugli aerei altrui è quivi
consentito per quanto strettamente richiesto da esigenze di difesa.
Libertà di navigazione negli spazi aerei. Passando alla navigazione cosmica ad
essa è applicabile, per analogia, il principio sulla libertà di sorvolo degli spazi
nullius. Come vi è libertà di navigazione degli spazi sovrastanti l’alto mare e i
territori nullius, così vi è libertà di navigazione degli spazi cosmici. Lo stato
che lancia il satellite o la nave spaziale ha diritto al governo esclusivo di questi
ultimi e nessun altro stato può interferirvi.
Convenzioni sul regime degli spazi cosmici. Il regime degli spazi cosmici ha
formato oggetto di alcune convenzioni multilaterali, promosse ed elaborate
dall’ONU. Fondamentale è il trattato del 27.1.1967 (“trattato sui principi
relativi alle attività degli stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello
spazio extra-atmosferico, inclusi la Luna e altri corpi celesti”) il quale, oltre a
confermare che lo spazio extra-atmosferico non può essere sottoposto alla
sovranità di alcuno stato, ne sancisce la denuclearizzazione, definisce gli
astronauti come “inviati dall’umanità”, impegnando gli stati a dar loro ogni
possibile assistenza in caso di incidenti.
Risorse dello spazio. Anche per gli spazi aerei e cosmici possiamo parlare di
risorse naturali: ci riferiamo alla utilizzabilità degli spazi a fini di radio e
telecomunicazioni e, in particolare, alle frequenze d’onda e alle orbite
utilizzate dai satelliti a detti fini.
La libertà di utilizzazione dello spazio a fini di radio e telecomunicazioni
costituisce un aspetto importante che, però, incontra il consueto limite del
rispetto delle pari libertà altrui: come abbiamo visto, l’utilizzazione delle
risorse da parte di uno stato non può essere spinta, in regime di libertà, fino al
punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte di altri stati. Le
radio e le telecomunicazioni si ritiene che siano limitate sia lo spettro delle
onde radio, sia la cd orbita geostazionaria, cioè l’orbita circolare intorno
all’equatore, nella quale i satelliti ruotano con lo stesso periodo di rotazione
della terra, restando praticamente fissi rispetto a questa.
37.Le regioni polari.
Teoria dei settori. Per quanto riguarda il continente antartico, può parlarsi di
territorio internazionalizzato, nel senso che in esso non vige solo un regime di
libertà, ma anche un complesso di norme che ne disciplina l’utilizzazione.
Non sono mancate le pretese alla sovranità sulle regioni polari, fondate
principalmente sulla teoria dei “settori” teoria dapprima formulata con
riguardo alla regione artica, da alcuni degli stati i cui territori si estendo al di
là del circolo polare: in base ad essa, detti stati dovrebbero considerarsi come
sovrani di tutti gli spazi, sia terrestri che marittimi, inclusi in un triangolo
avente il vertice nel polo nord e la sua base in una linea che congiunge i punti
estremi delle coste proprie di ciascuno stati.
Nella sua applicazione al continente antartico la teoria dei settori ha subito
qualche modifica dovuta al fatto che le pretese alla sovranità sono state
avanzate da sette paesi, alcuni dei quali non aventi contiguità geografica con il
continente medesimo (Argentina, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Francia,
Gran Bretagna, Norvegia). Poiché il continente si estende a partire dal 60°
parallelo sud fino al polo, i sette paesi menzionati hanno provveduto ciascuno
a rivendicare un triangolo avente la base sul 60° parallelo ed il vertice nel
polo.
Tali pretese alla sovranità sui territori polari, però, sono state sempre respinte
dalla maggioranza degli stati.
Comunità umane nei territori polari e delimitazione dei poteri degli stati . La
mancanza della sovranità territoriale comporta che ciascuno stato eserciti il
proprio potere sulle comunità che ad esso fanno capo. Per quanto riguarda le
comunità navali, si tratta del normale potere della bandiera. Nel caso di
spedizioni scientifiche o di basi su terraferma, si ritiene che lo stato che le
organizza eserciti il proprio potere su tutte le persone, cittadini o stranieri,
che le compongono. Un’eccezione è prevista dall’art 8 del trattato di
Washington sull’Antartide che prevede che il personale scientifico scambiato
fra le basi, nonché gli osservatori destinati a controllare il rispetto del trattato
medesimo, siano sottoposti ai rispettivi stati nazionali.
Parte terza.
Più controversa, invece, è l’estensione della portata applicativa del reato di tortura operata
dall’art 613bis cp, introdotto con la l.2017 n.110 al fine di dare attuazione all’obbligo di
criminalizzazione sancito dall’art 4 della convenzione delle nazioni unite contro la tortura
ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. A differenza di quanto sancito
dalla convenzione, che espressamente definisce all’art 1 la “tortura” come condotta propria
del pubblico ufficiale (o di chi agisce sotto la sua istigazione), l’art 613bis punisce la tortura
come reato comune, prevedendo al 1 comma che tale condotta delittuosa possa essere
commessa da chiunque. La sua eventuale perpetrazione ad opera del pubblico ufficiale,
infatti, determina solamente un aggravamento della pena.
Idoneità delle forme internazionali a produrre diritti ed obblighi interni in
seguito all’adattamento. Una volta prodotte nell’ordinamento interno, le
norme internazionali sono fonti di diritti e di obblighi per gli organi statali e
per tutti i soggetti pubblici e privati che operano all’interno dello stato, al pari
di una qualsiasi norma internazionale. Ovviamente questo succede con netta
evidenza quando l’adattamento avviene mediante procedimento ordinario
dato che in questo caso la norma internazionale addirittura scompare.
Norme self-executing e non self-executing. La nozione di norma non sel-
executing (o non direttamente applicabile) va circoscritta a tre casi precisi: a)
caso in cui una norma attribuisca semplici facoltà agli stati, il cui esercizio è
rimesso alla discrezionalità degli organi del potere legislativo; b) caso in cui
una norma, pur imponendo obblighi, non possa ricevere esecuzione in quanto
non esistono organi o procedure indispensabili alla sua applicazione; c)
quando la sua applicazione comporti particolari adempimenti di carattere
costituzionale.
Esempio di norma non self-executing: norma relativa al sistema delle linee rette in tema di
misurazione del mare territoriale; pensiamo anche all’art 6 par 1 della convenzione
europea del 1967 sull’adozione, resa esecutiva in Italia con la l. 357/1974 secondo cui “la
legislazione nazionale non può permettere l’adozione di un minore se non da parte di due
persone unite in matrimonio o da parte di un singolo adottante”. Secondo la cassazione e la
corte costituzionale, tale articolo, che avrebbe solo lo scopo di vietare l’adozione fuori delle
due ipotesi previste, lascerebbe comunque lo stato libero di ammettere o meno entrambe le
ipotesi e in particolare quella dell’adozione da parte del singolo (quindi, l’art 6 della
convenzione, paragrafo 1, non sarebbe direttamente applicabile in Italia, dove la
legislazione vigente non conosce siffatta forma di adozione).
Ciò che diciamo vale soprattutto per quella parte della giurisprudenza di vari
paesi che esclude la diretta applicabilità di una convenzione a causa del suo
contenuto “vago” o “indeterminato”, di un accordo in particolare che
contenga principi generali anziché norme di dettaglio. Il criterio
dell’indeterminatezza è stato usato in vari paesi, ad esempio in Germania, per
escludere la diretta applicabilità dei principi del GATT relativi alla
liberalizzazione del commercio internazionale.
Allo stesso modo è da respingere l’opinione secondo cui un trattato non è self-
executing se prevede che, in caso di sospensione o di mancata applicazione, o
di difficoltà nell’applicazione, delle sue norme, debba farsi ricorso a procedure
di conciliazione o altri mezzi internazionali di soluzione delle controversie che
tengano, tra l’altro, conto delle esigenze dello stato che ha sospeso o non
applicato il trattato: dal che dovrebbe dedursi la “flessibilità” delle sue
disposizioni.
In realtà tutto ciò che può dirsi, in casi del genere, è che lo stato contraente ha
facoltà di adottare delle misure non conformi al trattato: può adottarle, in casi
come quelli previsti dal GATT di fronte a certe difficoltà di ordine economico,
e salva poi la procedura di conciliazione sul piano internazionale; può
adottarle, nel caso delle reciprocità, quando l’altra parte contraente abbia
violato il trattato. E’ evidente che, dopo che lo stato abbia preso misure
(legislative o regolamentari) del genere, l’operatore giuridico interno è tenuto
ad applicarle; ma è anche vero che, fin quando le misure non siano prese, il
trattato deve ricevere applicazione all’interno dello stato.
Valore delle clausole di esecuzione. Non si può neppure ritenere che
costituisca un impedimento alla diretta applicabilità di un trattato il fatto che
questo contenga una “clausola di esecuzione”, ossia preveda che gli stati
contraenti “adotteranno” tutte le misure di ordine legislativo o altro, e magari
progressivamente, per dare effetto alle sue disposizioni.
Clausole del genere si rinvengono specialmente nelle convenzioni sui diritti
dell’uomo: basti richiamare in proposito l’art 2 par 2 del patto delle nazioni
unite sui diritti civili e politici e l’art 2 par 1 del patto sui diritti economici,
sociali e culturali. Ma, in linea di principio, si tratta di clausole dalle quali ci
sembra assurdo ricavare niente altro che la volontà e l’aspettativa del trattato
di essere applicato e, soprattutto, esse si giustificano solo se e quando il
trattato medesimo contenga delle norme effettivamente non self-executing ed
impegnano lo stato a prendere, in ordine a siffatte norme, i provvedimenti
legislativi ed amministrativi appropriati.
Criticabili sono, inoltre, quelle sentenze che escludono la diretta applicabilità
delle norme internazionali in virtù del fatto che queste ultime si limiterebbero
essere invocate in Italia dallo stato interessato e dai suoi cittadini, nonostante
l’impegno sia stato assunto nei confronti di altri paesi.
Non si tratta, in questi casi, di attribuire all’accordo internazionale
un’efficacia nei confronti dei terzi, efficacia che è da escludere in base ai
principi consuetudinari sul diritto dei trattati: si tratta appunto di applicare la
norma internazionale, una volta divenuta norma interna ed in quanto
invocabile innanzi agli organi italiani e tra soggetti che operano nell’ambito
dell’ordinamento italiano, alle fattispecie cui essa vuole essere applicata.
Rango delle norme internazionali introdotte nell’ordinamento interno. La
distinzione tra procedimenti ordinari e speciali di adattamento attiene al
mezzo attraverso cui l’ordinamento interno si adatta al diritto internazionale
e, quindi, attiene al “come” penetra il diritto internazionale nell’ordinamento
statale.
Occorre, poi, stabilire quale rango, nella gerarchia delle fonti interne,
assumono le norme internazionali una volta introdotte. Il problema del rango
del diritto internazionale una volta nazionalizzato è molto complesso: se a
procedere all’adattamento è il costituente, allora le norme internazionali così
introdotte tenderanno ad avere rango costituzionale; se a procedere
all’adattamento è il legislatore ordinario (come avviene per i trattati), le
norme internazionali così introdotte tenderanno ad avere rango di legge
ordinaria.
Apertura dell’ordinamento italiano al diritto internazionale. I problemi
relativi al rango delle norme internazionali nell’ordinamento italiano vanno
affrontati nella prospettiva della Legge costituzionale 18.10.2001 n.3 che ha
modificato il titolo V della Costituzione. In particolare è stato novellato l’art
117 stabilendo che il potere legislativo statale deve esercitarsi “nel rispetto dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali”. Viene, così, sancita a livello costituzionale la prevalenza degli
obblighi internazionali e comunitari sulle norme interne incompatibili,
indipendentemente dalla fonte interna che ha provveduto all’adattamento.
Tale prevalenza è frutto di due scelte importanti per l’Italia: la cooperazione
pacifica tra stati attraverso il rispetto del diritto internazionale e la protezione
dei diritti inviolabili della persona umana, come diritti universali che spettano
ad ogni individuo in quanto tale.
Per questo motivo l’obbligo di assicurare detta prevalenza incombe non solo
sul potere legislativo ma anche su coloro che sono in seguito chiamati ad
applicare il diritto internazionale e a risolvere i conflitti tra diritto
internazionale e diritto interno (e, quindi, i giudici). Ma non solo:
quest’obbligo vale anche per la corte costituzionale che negli ultimi anni ha
esclusivo all’art 94 che obbliga gli stati membri ad adeguarsi alle pronunce
della CIG.
In secondo luogo mentre la corte annulla le due disposizioni di legge ora
menzionate, per quanto riguarda la consuetudine internazionale, così come
rilevata dalla CIG, adotta una sentenza interpretativa di rigetto. Il ricorso a
tale tecnica interpretativa si spiega col fatto che, una volta esclusa
l’operatività interna della “parte della norma sull’immunità dalla giurisdizione
degli stati che confligge con gli articoli 2 e 24”, il giudizio di costituzionalità
rimane, sotto questo profilo, privo di oggetto. Infatti, se “la norma
internazionale alla quale il nostro ordinamento si è conformato in virtù
dell’art 10, primo comma, non comprende l’immunità degli stati dalla
giurisdizione civile in relazione ad azioni di danni derivanti da crimini di
guerra e contro l’umanità”, allora “i diritti inviolabili della persona” non
risulteranno “privi della necessaria tutela giurisdizionale effettiva”;
In terzo luogo è chiaro come il legislatore abbia voluto comunque impedire,
o rendere assai difficile, l’eventuale esecuzione delle condanne di stati
stranieri e, nel caso specifico della Germania, adottando la L. 10.11.2014
n.162. Questa legge prevede che siano esenti tutti i conti correnti bancari e
postali che i Capi delle missioni diplomatiche e consolari abbiano dichiarato,
con comunicazione inviata al ministero degli affari esteri, trattasi di denaro
destinato a fini pubblicistici;
In quarto luogo chiariamo come, nello specifico, la Germania non ha mai
negato la sua responsabilità non solo morale, ma anche giuridica, per i
crimini commessi durante il regime hitleriano. Tuttavia, l’esistenza di una
sentenza della CIG ad essa favorevole e l’impossibilità, come abbiamo detto,
di aggredire i beni dello stato tedesco rendono estremamente improbabile
l’idoneità delle misure indicate dalla corte costituzionale a conseguire, in via
giudiziaria, il risultato pratico del risarcimento delle vittime. Infatti, la
Germania non si è presentata davanti al tribunale di Firenze e, per ottenere il
risarcimento richiesto dai suoi cittadini, l’Italia dovrà comunque negoziare
una soluzione col governo di Berlino.
Altra norma di adattamento al diritto internazionale consuetudinario può
essere quella prevista dall’art 11 della costituzione: “l’Italia ripudia la guerra
come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione di controversie internazionali”.
Infatti, il diritto internazionale prevede il divieto (a partire dalla seconda
guerra mondiale) dell’uso della forza; ma, si vedrà che il divieto, quando si è
in presenza di una vera e propria guerra e non di isolati episodi di uso della
forza, finisce per restare lettera morta, sempre che il consiglio di sicurezza
delle nazioni unire non decida di intervenire con un’azione efficace a tutela
della pace.
La formulazione della prima parte dell’art 11 risente dell’orrore suscitato dalla
seconda guerra mondiale e perciò prende espressamente in considerazione
l’aggressione. È ovvio che, con una simile formulazione, la norma fa salva la
guerra di difesa ed è proprio in ciò che si conforma al diritto internazionale
generale e alla carta delle nazioni unite, che entrambi ammettono per
l’appunto la legittima difesa individuale.
La prima parte dell’art 11 va poi coordinata con la seconda parte secondo cui
“l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri stati alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo”.
Questa norma è stata utilizzata dalla nostra corte costituzionale per assicurare
un primato al diritto dell’unione europea sul diritto italiano ma non anche alle
altre organizzazioni internazionali e neppure al diritto delle nazioni unite.
Deve ritenersi però che anche se non si ammette tale primato, la seconda
parte dell’art 11 permette comunque l’uso della forza nei casi previsti dalla
carta delle nazioni unite e cioè nel senso della partecipazione dell’Italia alla cd
legittima difesa collettiva o alle operazioni cd di peacekeeping organizzate o
autorizzate dal consiglio di sicurezza.
La prassi italiana è senz’altro orientata nel senso di non partecipare ad interventi armati
che non siano organizzati o previsti dalle nazioni unite: un’eccezione si ebbe quando l’Italia
partecipò alla guerra aerea della NATO contro la repubblica federale di Iugoslavia nel
1999.
Rango dei trattati nel diritto interno. Passiamo al problema del rango delle
norme convenzionali introdotte nell’ordinamento italiano mediante l’ordine
di esecuzione.
La giurisprudenza sia italiana che straniera ha poi spesso fatto ricordo alla
presunzione di conformità delle norme interne al diritto internazionale: se la
legge posteriore è ambigua, essa va comunque interpretata in modo da
consentire allo stato il rispetto degli obblighi internazionali assunti in
precedenza.
La prevalenza del trattato è stata anche assicurata, sempre sul piano
interpretativo, considerando il trattato come diritto speciale ratione materiae
o personarum. Criterio applicato maggiormente dalla giurisprudenza italiana
nei rapporti tra codice della navigazione e codice di procedura civile e le
convenzioni rispettivamente di diritto marittimo uniforme e di assistenza
giudiziaria, concluse dall’Italia in epoca anteriore.
Specialità sui generis dei trattati. Vi è infine il criterio, seguito dalla Corti americane e
svizzere, secondo cui la legge posteriore prevale solo se vi è una chiara indicazione della
volontà del legislatore di contravvenire al trattato, solo se, in altri termini, il legislatore
contravviene con piena coscienza di causa: occorre che la norma posteriore intenda
ripudiare gli impegni internazionali già contratti. Il trattato internazionale, una volta
introdotto nell’ordinamento interno, prevale dunque finché non si dimostri la volontà del
legislatore di venir meno agli impegni internazionali; questo principio di carattere
interpretativo è un principio di specialità sui generis, di una specialità che non va confusa
con quella ratione materiae o ratione personarum: la specialità consiste nel fatto che la
norma internazionale è sorretta non solo dalla volontà che certi rapporti siano regolati in
un certo modo, quanto dalla volontà che tali obblighi siano rispettati.
novellato art 117 (nel senso che una norma di legge ad esse contraria è
incostituzionale) restano comunque a loro volta soggette al controllo di
costituzionalità e potranno pertanto essere “espunte” dall’ordinamento
italiano (leggi: annullate) se in contrasto con norme costituzionali. Quindi: le
norme pattizie assumo la forza propria delle norme “interposte” (tra legge
ordinaria e costituzione) essendo: a) parametro di costituzionalità delle leggi
e b) oggetto di tale giudizio, in quanto norme di rango inferiore alla
costituzione.
Ci troviamo, chiaramente, di fronte ad una ulteriore applicazione della teoria
dei controlimiti da valutare, in quest’ottica, alla luce dei tre criteri 1) della
prevalenza della norma che meglio tutela i diritti umani; 2) dell’eccezionalità
della deroga alla norma internazionale per le esigenze particolari del caso
concreto; 3) necessità di una motivazione densa e argomentata per
giustificare tale deroga sul piano interpretativo.
Una volta ricevuto il ricorso la corte costituzionale non procede
automaticamente alla declaratoria di incostituzionalità ex 117 della legge
contraria al trattato; essa, infatti, condurrà preliminarmente ulteriori e
approfonditi controlli interpretativi circa i rapporti tra norma pattizia e legge
ordinaria e norma pattizia e interno complesso di valori espressi nella nostra
costituzione bisogna, quindi, operare un bilanciamento tra esigenza di
garantire il rispetto degli obblighi internazionali e quello di impedire che tale
rispetto possa comportare una violazione della stessa costituzione.
Dopo questa valutazione, la corta dovrà operare una scelta tra queste tre
soluzioni: a) procedere all’annullamento della norma italiana incompatibile;
b) tentare di risolvere il conflitto attraverso un’interpretazione
costituzionalmente orientata della norma internazionale, arrivando alla
conclusione che il lamentato contrasto non sussiste; c) fa prevalere la norma
nazionale qualora ravvisi un conflitto insanabile tra norma del trattato e
principi della nostra costituzione.
Adattamento agli atti delle organizzazioni internazionali. Circa il problema se
l’ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di un’organizzazione
internazionale implichi l’adattamento alle decisioni delle organizzazioni
vincolanti per il nostro stato, può darsi anzitutto che il trattato preveda
espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli organi all’interno
degli Stati membri (tale caso si verifica solo con riguardo ai regolamenti
dell’unione europea).
Quando il trattato istitutivo dell’organizzazione nulla dispone in materia, il
problema va risolto alla luce del diritto interno: la prassi italiana è orientata
nel senso dell’adozione di singoli atti di esecuzione per ciascuna decisione
nazionali per far valere gli effetti che essa si propone. Secondo la corte, però,
imponendo la direttiva ex art 288 TFUE, obblighi allo stato, essa può essere
invocata solo contro lo Stato o altri organismi incaricati di pubbliche funzioni
(effetti verticali) e non anche nelle controversie degli individui fra loro (effetti
orizzontali); d) nel caso in cui le direttive fissano un termine per la loro
esecuzione nel diritto interno, lo Stato, che non ha vincoli fino alla scadenza
del termine, ha però l’obbligo di non adottare disposizioni che possano
compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva; e) la diretta
applicabilità caratterizza anche le direttive che impongono allo stato obblighi
procedurali o quelle direttive che toccano una materia lasciata, dal diritto
interno, alla discrezionalità della pubblica amministrazione.
Risarcimento del danno provocato ai singoli dalla non attuazione delle
direttive. Va, infine, accennato un effetto che la corte di giustizia riconosce
alle direttive non direttamente applicabili che restino inattuate e quindi
comportino una violazione del diritto comunitario (oggi diritto dell’unione).
Tale effetto non è limitato alle direttive ma riguarda tutti i casi di violazione:
tale effetto consiste nel diritto dei singoli colpiti dalla violazione di chiedere il
risarcimento del danno subito, purché si tratti di violazioni di norme che
attribuiscano loro dei diritti e vi sia un nesso di causalità tra l’inattuazione e il
danno.
Efficacia diretta delle decisioni; adattamento agli accordi conclusi dall’UE.
L’efficacia diretta è stata riconosciuta dalla corte di giustizia anche per le
decisioni indirizzate agli stati e agli accordi conclusi dell’unione con stati terzi
sempre che si tratti di accordi che contengano norme complete, ossia norme
che non sono destinate ad essere completate da atti degli organi dell’UE.
Rango delle norme comunitarie nel diritto interno. Occupiamoci, ora, del
rango delle norme dell’UE e cominciamo dai loro rapporti con la legislazione
ordinaria.
Rapporti con le leggi ordinarie. Sul punto la nostra corte costituzionale ha
cambiato più volte opinione e, l’ultimo definitivo cambiamento, risale alla
sentenza 170/84: la corte non solo ritiene oggi che il diritto comunitario
direttamente applicabile prevalga sulle leggi interne, sia anteriori che
posteriori, ma è anche dell’opinione che qualsiasi giudice o organo
amministrativo debba disapplicare le leggi dello stato in caso di conflitto con
una norma comunitaria direttamente applicabile. Tutto ciò discenderebbe dal
già incontrato art 11 della cost: secondo tale articolo il diritto interno e il
diritto comunitario (oggi diritto dell’unione) si coordinino secondo il
principio del primato del secondo sul primo quindi, le regole comunitarie
prevalgono e vigono su quelle interne incompatibili e a disapplicare il diritto
Via via poi e fino alla modifica dell’art 117 si è avuta una “apertura” sempre
maggiore delle competenze delle regioni da parte della corte costituzionale.
La corte ha finito col riconoscere alle regioni una competenza autonoma ed
originaria a partecipare, nelle materie rientranti nelle loro attribuzioni,
all’attuazione del diritto internazionale nonché del diritto comunitario
direttamente applicabile. D’altro canto, però, essa ha dilatato il potere
sostitutivo dello stato, non limitandolo al solo caso di inerzia delle regioni, ma
estendendolo in modo tale da lasciare del tutto incerti i suoi confini e da
giustificare una molteplicità di interventi degli organi centrali, ad esempio in
caso di “urgenza”, o per “esigenze di uniformità sorrette dall’interesse
nazionale” o ancora per “finalità attuative”.
La materia è dal 2001 regolata dall’art 117, 5 comma, della costituzione
secondo il quale “le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle
materie di loro competenza provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli
accordi internazionali e degli atti dell’unione europea, nel rispetto delle
norme di procedura stabilite da legge dello stato, che disciplina le modalità di
esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.
Parte quarta.
LA VIOLAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI E LE SUE
CONSEGUENZE.
43.Il fatto illecito e i suoi elementi costitutivi: l’elemento
soggettivo.
Lavori di codificazione sulla responsabilità internazionale degli stati. Ci si
chiede, quindi, quando effettivamente si ha un fatto illecito internazionale,
quali sono i suoi elementi costitutivi e quali conseguenze scaturiscono dal
medesimo e di quali mezzi si dispone, nell’ambito della comunità
internazionale, per reagire contro di esso.
Al tema della responsabilità degli stati la dottrina ha dedicato approfondite
indagini.
Dal 1953 la CDI ha intrapreso lo studio dell’argomento ma un progetto
definitivo di codificazione ha visto la luce solo nel 2001; nel 1996 la
commissione approvò un progetto provvisorio di articoli (vecchio progetto); il
progetto definitivo (“progetto di articoli sulla responsabilità degli stati per
atti illeciti internazionali”) ha visto la luce nell’agosto del 2001: esso si
occupa, in 59 articoli, sia degli elementi dell’illecito sia delle sue conseguenze.
In ogni caso, la commissione raccomanda all’assemblea generale dell’ONU di
prenderne per ora soltanto atto e di considerarne sono in futuro l’eventuale
trasfusione in una convenzione di codificazione.
Il Progetto considera i principi sulla responsabilità come valevoli in linea di
massima per la violazione di qualsiasi norma internazionale: tutti i precedenti
tentativi di codificazione si erano limitati ad esaminare la responsabilità nel
quadro delle norme sul trattamento degli stranieri; infatti, solo in tema di
responsabilità dello stato per danni arrecati agli stranieri nel suo territorio
esisteva, infatti, ed esiste una prassi omogenea.
Responsabilità delle organizzazioni internazionali. Quanto si dirà sulla
responsabilità degli stati vale anche per gli altri soggetti internazionali, ad
esclusione degli individui la cui responsabilità è regolata da norma del diritto
penale internazionale (la loro responsabilità si sostanzia nella loro punizione
nel caso di crimini internazionali).
Sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali la CDI, nel 2011, ha
approvato definitivamente un progetto di articoli redatto per larga parte dal
relatore speciale Gaja; tra gli articoli segnaliamo anzitutto l’art 17 il quale
prevede la responsabilità dell’organizzazione qualora questa, per sfuggire ad
un suo obbligo internazionale, induca, con decisione vincolante, uno o più
Illeciti commessi dall’organo fuori dei limiti della sua competenza. Una
questione discussa è se le responsabilità dello stato sorga quando l’organo
abbia commesso un’azione internazionalmente illecita avvalendosi di tale sua
qualità, agendo dunque nell’esercizio delle sue funzioni, ma al di fuori dei
primo momento (prima che il governo italiano facesse propria l’azione degli studenti)
l’illecito commesso da tale governo consisté precisamente nel non avere adottato le misure
atte a prevenire l’azione dannosa.
44.L’elemento oggettivo.
Antigiuridicità del comportamento dell’organo statale. Si tratta del secondo
elemento del fatto illecito e cioè la illiceità (antigiuridicità) del
comportamento dell’organo statale.
L’art. 12 del Progetto definisce lapalissianamente l’elemento oggettivo
dell’illecito, dichiarando che “si ha violazione di un obbligo internazionale da
parte di uno stato quando un fatto di tale stato non è conforme a ciò che gli è
imposto dal predetto obbligo”.
L’art. 13 contiene la regola tempus regit actum, ossia prevede che
l’obbligazione debba esistere al momento in cui il comportamento dello stato
ha luogo. È poi importante la determinazione del tempus commissi
delicti (negli illeciti istantanei, in quelli continui e in quelli composti)
soprattutto in relazione all’interpretazione dei trattati di arbitrato e di
regolamento giudiziario, trattati che di solito dichiarano di non volersi
applicare alle controversie relative a fatti avvenuti prima della loro entrata in
vigore o comunque prima di une certa data (c.d. data critica).
Cause escludenti l’illiceità. All’elemento obbiettivo dell’illecito internazionale
attengono alcune cause escludenti l’illiceità.
1. consenso dello Stato leso l’art. 20 del progetto afferma che “il
consenso validamente dato da uno stato alla commissione da parte di
un altro stato di un fatto determinato esclude l’illiceità di tale fatto nei
confronti del primo stato, sempre che il fatto medesimo resti nei limiti
del consenso”; tale consenso non configura un accordo (tra stato
autorizzante e stato autorizzato), ma è sostanzialmente un atto
unilaterale, che non può violare una norma imperativa, essendo
assoluta l’inderogabilità dello jus cogens.
2. Autotutelaè costituita da quelle azioni rivolte a reprimere l’illecito
altrui e che, per tale funzione, non possono essere considerate
antigiuridiche anche quando consistono in violazioni di norme
internazionali; il progetto prevede la legittima difesa e le contromisure
(rappresaglie).
3. Forza maggiore è il verificarsi di una forza irresistibile o di un evento
imprevisto, al di là del controllo dello stato, che rende materialmente
impossibile adempiere l’obbligo.
4. Stato di necessitàossia l’aver commesso il fatto per evitare un pericolo
grave, imminente e non volontariamente causato; è controverso se
per la riparazione dei danni causati dal suo oggetto spaziale alla superficie
della terra o agli aeromobili in volo”. La stessa convenzione, invece, prevede
all’art III che per i danni causati ad altri oggetti spaziali, il regime di
responsabilità sia quello per colpa.
Regola residuale: responsabilità oggettiva relativa. A parte i regimi specifici,
sia consuetudinari che convenzionali, il regime residuale, valido cioè in tutti
gli altri casi, è quello di responsabilità oggettiva relativa: lo stato risponde di
qualsiasi violazione del diritto internazionale da parte dei suoi organi, purché
non dimostri l’impossibilità assoluta, ossia da lui non provocata,
dell’osservanza dell’obbligo.
Il progetto non dedica alla colpa alcun articolo; ma dalla circostanza che la
colpa non è menzionata, all’art. 2, come elemento dell’illecito internazionale e
dalla circostanza che l’art. 23 considera la forza maggiore come causa di
esclusione dell’illiceità, può dedursi che il regime della responsabilità
obbiettiva relativa sia considerato dalla commissione come il regime generale
applicabile.
Danno. Il danno, sia materiale che morale, e dunque la lesione di un interesse
diretto e concreto dello stato nei confronti del quale l’illecito è perpetrato, non
è, per la commissione, elemento dell’illecito. L’inosservanza di determinate
norme, ad es. di quelle che obbligano lo stato a tutelare i diritti umani dei
propri cittadini o della norma sul divieto dell’uso della forza, da parte di uno
dei loro destinatari è sentita come un illecito nei confronti di tutti gli altri
anche quando un interesse diretto e concerto di questi ultimi non sia leso.
46.Le conseguenze del fatto illecito internazionale.
L’autotutela individuale e collettiva.
Le eccezioni all’uso della forza in autotutela.
Inquadramento delle conseguenze dell’illecito. Commessa una violazione del
diritto internazionale, lo stato deve risponderne. Ma quali sono le
conseguenze del fatto illecito?
Oggi, l’opinione più diffusa è che le conseguenze dell’illecito consistono in una
nuova relazione giuridica tra stato offeso e stato offensore, discendente da
una norma apposita, la cd norma secondaria contrapposta alla norma
primaria ossia alla norma violata. Non vi è accordo sul contenuto da dare a
questa relazione giuridica.
Secondo l’Anzilotti unicamente nel diritto dello stato offeso di pretendere e
nell’obbligo dello stato offensore di fornire un’adeguata riparazione (diritto e
obbligo= norma secondaria).
nell’uso della forza, minaccia ed uso essendo vietati dall’art 2 par 4 della carta
delle nazioni unite.
Liceità della legittima difesa come risposta all’aggressione armata . Il
principio che vieta il ricorso alla forza ha carattere cogente ma trova un limite
generale nella legittima difesa, intesa come risposta ad un attacco armato già
sferrato. L’art 51 della carta, infatti, riconosce “il diritto naturale di legittima
difesa individuale e collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato
contro un membro delle nazioni unite”.
Nozione di aggressione. L’attacco o aggressione si ha non solo quando ad attaccare
sono forze regolari ma anche quando lo stato agisce con bande irregolari o di mercenari da
esso assoldati. La corte ha affermato che non costituisce aggressione armata la sola
assistenza data a forze ribelli che agiscono sul territorio di uno stato, sotto forma di
fornitura di armi, assistenza logistica e simili (tale assistenza concreterebbe solo un’ipotesi
di violazione del divieto di ingerirsi negli affari altrui).
In due importanti sentenze la corte ha ribadito che la legittima difesa è circoscritta al caso
di risposta ad un attacco armato e non “a forme meno gravi di uso della forza”.
Legittima difesa e armi nucleari. La legittima difesa ex art. 51 può essere esercitata
anche con armi nucleari, purché nel rispetto del principio di proporzionalità della risposta
rispetto all’attacco e del diritto umanitario di guerra.
Uso della forza per scopi umanitari. Ci si chiede se il divieto dell’uso della
forza abbia altre eccezioni oltre quella prevista dall’art 51 della carta delle
nazioni unite. Abbiamo due filoni.
Primo filone è quello umanitario: c’è chi sostiene che interventi armati
siano ammissibili per proteggere la vita dei propri cittadini all’estero, o anche
per ridurre alla ragione stati che compiano violazioni gravi di diritti umani nei
confronti dei loro stessi cittadini (intervento degli stati della NATO contro la
Repubblica Iugoslava per i massacri compiuti nel Kosovo). A riguardo
parliamo di un cd “responsabilità di proteggere” qualora lo stato venga
meno a tale responsabilità anche nei confronti dei propri cittadini, gli altri
stati possono intervenire.
Legittima difesa non prevista dalla carta delle nazioni unite. Secondo filone
è quello dell’estensione della categoria della legittima difesa individuale e
collettiva ad ipotesi chiaramente non previste dall’art 51 della carta delle
nazioni unite: l’estensione è stata praticata per legittimare l’uso della forza in
via preventiva o per giustificare le reazioni contro stati sul cui territorio
gruppi terroristici stabiliscono le loro basi e preparano attacchi contro altri
stati.
La dottrina della legittima difesa preventiva è contenuta nel documento
“strategia per la sicurezza nazionale degli stati uniti” (cd dottrina Bush):
Non c’è dubbio che il divieto della minaccia o dell’uso della forza abbia come
pendant il sopra accennato sistema di sicurezza collettiva delle nazioni unite,
e deve quindi fare i conti con la nota inefficienza del consiglio di sicurezza. Da
ciò consegue che, quando la forza è usata su larga scala, quando si è in
presenza di una vera e propria guerra internazionale, e non di un episodio
isolato di uso della forza, e d’altro canto il sistema di sicurezza collettiva
dell’ONU non riesce a controllarla e a funzionare, forse c’è da prendere atto
che il diritto internazionale, sia quello consuetudinario che quello delle
nazioni unite, ha esaurito la sua funzione. La guerra non può allora essere
valutata giuridicamente ma solo politicamente e moralmente: politicamente e
moralmente essa può essere giustificata o condannata a seconda dei valori che
persegue e del suo eventuale presentarsi come male minore, ma dal punto di
vista giuridico essa non è né lecita né illecita, è indifferente.
Jus in bello e jus ad bellum. Tutto ciò fin qui detto riguarda il cd jus ad bellum
(diritto di fare la guerra). Diverso è il jus in bello (ossia esteso corpo di
regole, sia consuetudinarie che pattizie, che entrano in vigore tra i belligeranti
una volta che la guerra sia scatenata). Esso è costituito da norme che tendono
a mitigare le asprezze della lotta tra i belligeranti, a proteggere le popolazioni
sia una forma di autotutela, dato che lo stato può sempre tenere un
comportamento inamichevole verso un altro stato anche senza aver subito un
illecito.
Ma, l’opinione non è convincente perché, in un ordinamento come quello
internazionale in cui manca un sistema accentrato di garanzie per l’attuazione
del diritto, non è il caso di sottolineare sui mezzi di pressione che gli stati
possono porre in essere per sopperire a tale mancanza, purché si tratti di
mezzi leciti.
Altro argomento che ci porta a ricondurre la ritorsione alla categoria
dell’autotutela è fornito dalla prassi in materia di sanzioni economiche
(interruzione parziale o totale dei rapporti commerciali, interruzione di un
programma di aiuto allo sviluppo), sanzioni alle quali sempre di più si ricorre
per far cessare violazioni di norme internazionali ed anche di norme che non
riguardano rapporti economici.
Ritorsione e misure decise dalle Nazioni Unite. La ritorsione va inoltre tenuta
distinta dalle misure che il consiglio di sicurezza dell’ONU può deliberare in base all’art. 41
della Carta, in caso di minaccia o violazione della pace o di atto di aggressione. Tali misure
comprendono “l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle
comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali ecc e la rottura delle relazioni
diplomatiche”: si tratta di misure che, inquadrandosi nel sistema di difesa collettiva della
Nazioni Unite, gli stati possono essere obbligati ad attuare .
erga omnes partes? Che reazione possono mettere in atto gli “omnes” in caso
di inosservanza di simili obblighi?
Legittima difesa collettiva contro attacchi armati. Diciamo che, però, non si
può dire che trattandosi di obblighi esistenti erga omnes o erga omnes partes,
ogni stato abbiano senz’altro il diritto a reagire con contromisure in caso di
violazione ed in nome dell’interesse comune. Nulla esclude, invece, che si
tratti di obblighi sprovvisti di sanzioni: nulla esclude che, pur sussistendo
l’illecito internazionale, non ne conseguenza una responsabilità, o ne
conseguenza una forma attenuta di responsabilità dello stato autore.
Ciò premesso è innegabile che la possibilità per stati terzi di intervenire sia
prevista da singole norme consuetudinarie internazionali. Il caso più
importante è quello della legittima difesa collettiva in caso di attacchi armati,
riconosciuta dall’art 51 della carta nazionale delle nazioni unite ed ammessa
dallo stesso diritto internazionale generale: come la corte ha stabilito le
misure, anche militari, che lo stato terzo può prendere devono rispondere ai
criteri della necessità e della proporzionalità e comunque presuppongono
una precisa richiesta dello stato aggredito.
Altra norma consuetudinaria che possiamo ricordare è quella che vincola tutti
gli stati a negare effetti extraterritoriali agli atti di governo (leggi, sentenze,
atti amministrativi) emanati in un territorio acquistato con la forza o detenuto
in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli. Egualmente può
ricordarsi la norma che autorizza tutti gli stati a prestare supporto ai
movimenti che lottano per la liberazione del loro territorio dal dominio
straniero e quindi contro la violazione, nel territorio medesimo, del principio
di autodeterminazione dei popoli.
Inesistenza di un regime generale di autotutela collettiva. Quindi, è chiaro che
quando ci si chiede se stati non direttamente lesi possano reagire in caso di
illeciti internazionali, la questione ha valore residuale rispetto ai casi ora
indicati. Trattasi di stabilire se, escluso il sistema delle nazioni unite, escluso
quanto possano prescrivere singole norme consuetudinarie o pattizie,
esistano principi generali che consentano ad uno stato di intervenire a tutela
di un interesse fondamentale della comunità internazionale o di un interesse
collettivo.
Nonostante questa tesi sia sostenuta in larga parte dalla dottrina, gli autori
del manuale hanno sempre dato una risposta negativa per quanto riguarda la
possibilità di adottare vere e proprie contromisure, ossia la possibilità di
sospendere l’esecuzione di obblighi che gravino sullo stato non direttamente
leso nei confronti dello stato offensore. A nostro avviso la prassi non offre
elementi significativi e decisivi in senso contrario. È sintomatico che coloro
ricorsi per far valere la responsabilità di coloro che hanno svolto la relativa
attività pericolosa.
In questo quadro della responsabilità da atto lecito dovremmo inserire anche la norma di
cui all’art 110 della convenzione di MB che autorizza eccezionalmente la visita di navi
mercantili straniere in alto mare quando vi sia il sospetto che esse pratichino la pirateria,
la tratta degli schiavi ecc; ma aggiunge che se il sospetto si dimostra infondato la nave
stessa deve essere indennizzata.
Gli artt. 43 ss. non hanno mai, dal 1945 ad oggi, ricevuto applicazione; gli
accordi, che ex art. 43 dovevano essere conclusi “al più presto”, non hanno
mai visto la luce; né mai ha funzionato il comitato di stato maggiore del
consiglio. Ciò premesso, fino ad oggi, il consiglio di sicurezza è intervenuto in
crisi internazionali o interne con misure di carattere militare in due modi
diversi, talvolta cumulandoli: esso o ha creato delle Forze delle Nazioni Unite
(i famosi caschi blu) incaricate, ma con compiti per lo più assai limitati, di
operare per il mantenimento della pace (peacekeeping operations) o ha
autorizzato l’uso della forza da parte degli Stati membri, sia singolarmente
che nell’ambito di organizzazioni regionali.
Le prime forze aventi compiti di peace-keeping furono organizzate all’epoca
della guerra fredda: la più importante fu l’ONUC che operò nel Congo negli
anni 60 per aiutare questo paese ad uscire dallo stato di guerra civile e di vera
e propria anarchia in cui versava. La caratteristica fondamentale delle peace-
keeping operations è costituita dalla delega del consiglio al segretario
generale in ordine al reperimento, attraverso accordi con gli stati membri, e al
comando delle forze internazionali. Normalmente (ma esistono delle varianti)
dette operazioni sono autorizzate dal governo locale, hanno funzione di forze
cuscinetto per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine nel territorio in
cui operano e possono usare le armi solo per legittima difesa.
A parte gli insuccessi che hanno spesso caratterizzato l’azione delle forze
dell’ONU, non sempre l’azione di queste ultime è stata commendevole:
pensiamo al brutale attacco dei caschi blu operanti in Somalia contro il
quartier generale di uno dei cd “signori della guerra somali”, quale
rappresaglia per l’uccisione di un gruppo di caschi blu pakistani (tale attaccò,
attuato con dispregio di qualsiasi norma del diritto umanitario, provocò la
morte di vittime innocenti, suscitando la deplorazione del mondo civile).
L’impiego delle forze dell’ONU ha finito col rivelarsi abbastanza impraticabile
per una serie di ragioni e, di conseguenza, il consiglio di sicurezza è andato
sempre più orientandosi verso l’impiego diretto di contingenti militari da
parte degli stati membri, sia individualmente e sia per il tramite di
organizzazioni ragionali. Un paio di volte durante la guerra fredda (e diverse
volte dagli inizi degli anni 90) il consiglio ha autorizzato o raccomandato agli
stati singolarmente considerati di usare la forza contro uno stato o all’interno
dello stato, rimettendo nelle loro mani, e sia pure sotto la sua autorità, il
comando e il controllo delle operazioni militari. In due casi si è trattato
dell’autorizzazione a condurre vere e proprie guerra internazionali, per
respingere aggressioni esterne: il primo è il caso della guerra in Corea, del
1950, quando gli stati membri furono “invitati” ad aiutare la Corea del sud a
difendersi dall’attacco della Corea del Nord; il secondo è il caso della guerra
Parte quinta.
L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI
NELL’AMBITO DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE.
50.La corte internazionale di Giustizia.
Natura arbitrale della funzione giurisdizionale internazionale. La funzione
giurisdizionale internazionale (inteso il termine giurisdizione nel senso di
accertamento vincolante del diritto) ha ancor oggi sostanzialmente natura
arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice internazionale non
può giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata
da tutti gli stati parti di una controversia.
Nozione di controversia internazionale. Ai fini dell’esercizio della funzione
giurisdizionale internazionale, infatti, la nozione di controversia
internazionale è stata definita da una sentenza del 1924 della Corte
Permanente di Giustizia: la controversia è un disaccordo su di un punto di
diritto o di fatto, un contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi
tra due soggetti.
Controversie giuridiche e controversie politiche. Non esistono controversie
“giustiziabili” e controversie “non giustiziabili”, dato che su qualsiasi rapporto
tra stati il diritto internazionale è capace di pronunciarsi se non altro a favore
della libertà dello stato da cui la controparte pretende qualcosa; esistono solo
controversie per le quali le parti assumono l’impegno di sottoporsi al
tribunale internazionale comunque costituito e controversie per le quali tale
impegno non viene assunto, restando la loro eventuale soluzione affidata, alle
“vie diplomatiche”. La stessa distinzione tra controversie giuridiche e
controversie politiche è molto importante e consiste nel fatto che, nelle
seconde, a differenza delle prime, entrambe le parti (o almeno una, a seconda
delle varie tesi) non invocassero il diritto internazionale ma pretendessero di
mutarlo a loro favore. Ma, col tempo, questa distinzione ha perso di
significato: è vero che accordi tuttora vigenti limitano espressamente l’obbligo
di regolamento giudiziario da essi previsto alle controversie “giuridiche”, ma è
anche vero che ciò ha assai di rado indotto i tribunali internazionali a negare
la propria giurisdizione.
Il processo internazionale ha dunque carattere sostanzialmente arbitrale,
riposando sulla volontà e quindi sull’accordo di tutti gli stati parti di una
Nella seconda fase è marcata da una decisa evoluzione anche per quanto
riguarda l’accordo necessario per l’instaurazione del processo internazionale.
Compare, infatti, la figura della clausola compromissoria “completa” e del
trattato generale di arbitrato anch’esso “completo”. Si tratta di misure che
prevedono direttamente l’obbligo di sottoporre le proprie controversie al
Tribunale internazionale del diritto del mare. Nel campo del diritto
internazionale marittimo opera oggi il tribunale internazionale del diritto del
mare, il cui statuto è contenuto nella Convenzione di Montego Bay. Il
Tribunale con sede ad Amburgo, è composto da 21 giudici indipendenti, eletti
tra persone che, oltre ad avere la più alta reputazione di imparzialità ed
integrità abbiano una competenza notoria nel campo del diritto del mare. Il
Tribunale, da quando è stato istituito, cioè dal 1996, ha prodotto una decina
di sentenze, rappresenta solo una delle istanze giurisdizionali che, nel quadro
di detto sistema, sono a disposizione delle parti. Per le controversie tra stati
esso non si discosta molto dai tribunali arbitrali istituzionalizzati: la sua
giurisdizione riposa sulla volontà delle parti.
Organo della WTO per la soluzione delle controversie. Per la soluzione delle
controversie tra stati nel settore del commercio internazionale, “l’accordo
istitutivo dell’organizzazione mondiale per il commercio” prevede un apposito
organo del WTO nel quale sono rappresentati tutti gli stati membri.
L'organizzazione mondiale del commercio (OMC), conosciuta anche con il
nome inglese di World Trade Organization (WTO), è un'organizzazione
internazionale creata allo scopo di supervisionare numerosi accordi
commerciali tra gli stati membri. Vi aderivano, a luglio del 2008, 153 Paesi a
cui si aggiungono 30 Paesi osservatori, che rappresentano circa il 97% del
commercio mondiale di beni e servizi.
Tale organo si articola in due gradi di giudizio: il primo costituito da panels di
esperti volta a volta nominati dall’organo e il secondo consistente, invece, in
un corpo permanente di appello in cui siedono sette giudici.
Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale corte ha sede a Strasburgo ed è
l’organo che controlla il rispetto della Convenzione europea sulla salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali da parte degli stati
contraenti. La Corte nata dalla fusione, avvenuta nel 1988, con la
commissione europea dei diritti dell’uomo è formata da un numero di giudici
pari a quello degli stati contraenti (oggi 47) e scelti tra “giureconsulti di
notoria esperienza”.
Il ricorso alla corte può essere proposto da un altro stato contraente
nell’interesse obbiettivo (cd ricorso interstatale) sia da qualsiasi persona fisica
o giuridica o organizzazione o gruppo di individui (cd ricorso individuale), ma
in questo caso occorre che il ricorrente si pretenda vittima di una violazione di
una convenzione.
Proprio il ricorso individuale (quale vera e propria rivoluzione nel campo
della giurisdizione internazionale) ha marcato il grande successo del sistema
Corte penale internazionale. Nel 1998 è stata poi istituita la corte penale
internazionale, prima autorità giurisdizionale a carattere permanente competente a
giudicare gli individui responsabili dei “crimini internazionali più gravi, motivo di allarme
per l’intera comunità internazionale”. Rispetto ai tribunali istituiti ad hoc per la
repressione dei crimini commessi nella ex Iugoslavia e in Ruanda, è stata creata con un
accordo internazionale (lo statuto di Roma) adottato da un’apposita conferenza di stati ed
aperto alle firme a ratifica di tutti gli stati. La corte è operativa dal 2002 e ha sede all’Aia. È
composta da: presidenza, tre sezioni giudiziarie, ufficio del procuratore e cancelleria.
I crimini (individuali) di cui la corte è competente a conoscere sono: il genocidio, i crimini
contro l’umanità e i crimini di guerra. Inoltre, recentemente, è stata attivata anche la
giurisdizione della corte sul crimine di aggressione.
Buoni uffici e mediazione. L’accordo tra le parti può essere anzitutto facilitato
da negoziati diretti tra le parti medesime; sicché i negoziati sono considerati
come il mezzo più semplice di soluzione diplomatica delle controversie.
Si parla, poi, di buoni uffici e mediazione quando si verifica l’intervento di
uno stato terzo, o anche di un organo supremo di uno stato o del segretariato
di un’organizzazione internazionale a titolo personale, intervento che è meno
intenso nel caso dei buoni uffici e più penetrante nel caso della mediazione.