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Diritto internazionale Conforti, XII edizione

Diritto Internazionale (Università degli Studi di Salerno)

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DIRITTO INTERNAZIONALE.
Conforti.

INTRODUZIONE.
1.Definizione del diritto internazionale. Precisazioni
terminologiche.
Il diritto internazionale può essere definito come il diritto (o ordinamento)
della “comunità degli stati”. Tale complesso di norme si forma al di sopra
dello stato, scaturendo dalla cooperazione con gli altri stati, e lo stato stesso
con proprie norme, anche di rango costituzionale, si impegna a rispettarlo.
Il diritto internazionale regola “rapporti tra stati”; si tratta di un’espressione
equivoca che può anche usarsi ma a patto di precisare che con essa si intende
descrivere solo un dato formale e approssimativo e precisamente il fatto che le
norme internazionali si indirizzano in linea di massima agli stati e creano,
cioè, diritti e obblighi per questi ultimi.
La caratteristica più rilevante del diritto internazionale odierno è proprio data
dalla circostanza che esso non regola solo materie attinenti a rapporti
interstatali ma, pur indirizzandosi fondamentalmente agli stati, tende a
disciplinare rapporti che si svolgono all’interno delle varie comunità statali.
Diritto internazionale pubblico e diritto internazionale privato. Il diritto
internazionale viene anche chiamato diritto internazionale pubblico in
contrapposizione al diritto internazionale privato. Col secondo non siamo più
al di sopra dello stato, nell’ambito della comunità degli stati, ma al di sotto,
nell’ambito dell’ordinamento statale. Il diritto internazionale privato è
formato da quelle norme statali che delimitano il diritto privato di uno stato
stabilendo quando esso va applicato e quando invece i giudici di quello stato
sono tenuti ad applicare norme di diritto privato straniere. Le norme di diritto
internazionale privato sono contenute nelle disposizioni preliminare al codice
civile, riformate dalla legge 31.5.1995 n.218.
Esempio: l’art 20 della legge del 95 dice: “la capacità giuridica delle persone
fisiche è regolata dalla loro legge nazionale”. Ciò vuol dire che il giudice
italiano applicherà alla capacità giuridica delle persone il codice civile e le
altre norme privatistiche italiane se la persona ha cittadinanza italiana: se,
invece, la persona è straniera il giudice applicherà la legge nazionale della
medesima.

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Quindi, il diritto internazionale pubblico e quello privato sono due cose


contrapposte: non si tratta di due rami del medesimo ordinamento ma di
norme che appartengono ad ordinamenti totalmente diversi (ordinamento
della comunità degli stati, il primo; ordinamento statale, il secondo).
2.Quadro sintetico delle funzioni di produzione, accertamento e
attuazione coattiva del diritto internazionale.
Distinguiamo tra funzione normativa, funzione di accertamento del diritto e
funzione di attuazione coattiva delle norme.
Funzione normative. Per quanto riguarda la funzione normativa, occorre
distinguere tra diritto internazionale generale e diritto particolare e cioè tra
norme che si indirizzano a tutti gli stati e quelle che vincolano una cerchia
ristretta di soggetti (che di solito sono quelli che hanno partecipato
direttamente alla loro formazione).
Consuetudini. Alle norme di diritto internazionale generale fa riferimento
l’art 10 della costituzione italiana (“l’ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”).
Tali norme generali sono le norme consuetudinarie formatesi attraverso l’uso:
di queste norme può affermarsi l’esistenza solo se si dimostra che esse
corrispondono ad una prassi costantemente seguita dagli stati. La
caratteristica della consuetudine, che possiamo considerare come fonte
primaria o di primo grado nell’ordinamento internazionale, è che essa ha dato
luogo ad uno scarso numero di norme: a parte le norme strumentali (come
quelle che regolano i requisiti di validità ed efficacia dei trattati) non sono
molte le norme consuetudinarie materiali (ossia norme che direttamente
impongono diritti e obblighi agli stati).
Accordi. Le tipiche norme di diritto internazionale particolare sono quelle
posta da accordi (o patti, o convenzioni, o trattati) internazionali e che
vincolano solo gli stati contraenti. A differenza delle consuetudini sono molto
numerose ma chiariamo come gli accordi sono subordinati alla consuetudine,
così come, nel diritto statale, il contratto è subordinato alla legge (cosa vuol
dire? che gli accordi hanno natura consuetudinaria).
Fonti previste da accordi. Al di sotto degli accordi troviamo i procedimenti
previsti da accordi (detti anche fonti di terzo grado). Costituiscono fonte di
diritto internazionale particolare e traggono la loro forza dagli accordi
internazionali che li prevedono, e vincolano soltanto gli stati aderenti agli
accordi medesimi. Tale categoria oggi è molto importante perché in essa
possiamo collocare molti degli atti delle organizzazioni internazionali (ONU,
UE, e così via).

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Rispetto a queste organizzazioni, un loro problema attiene alla sistemazione


dei loro atti tra le fonti internazionali. In realtà le organizzazioni
internazionali non hanno di solito poteri vincolanti nei confronti degli stati
membri: lo strumento di cui normalmente si servono sono le
raccomandazioni, che hanno appunto carattere di mera esortazione. Non
mancano, però, casi in cui le organizzazioni emanano decisioni vincolanti
(pensiamo a quelle dell’unione europea). Per ora sottolineiamo che le
decisioni vincolanti degli organi internazionali si trovano nella gerarchia delle
fonti al di sotto degli accordi, poiché proprio da un accordo (cd trattato
istitutivo) ciascuna organizzazione prende vita.
Arbitrato. Per quanto riguarda la funzione di accertamento giudiziario del
diritto internazionale diciamo che essa è in prevalenza di carattere arbitrale.
L’arbitrato, a differenza della giurisdizione, poggia sull’accordo tra le parti,
accordo diretto a sottoporre una controversia ad un determinato giudice.
Anche la corte internazionale di giustizia (CIG) ha funzione essenzialmente
arbitrale; non mancano peraltro istanze giurisdizionali istituzionalizzate,
ossia tribunali permanenti istituiti da singoli trattati, ed innanzi ai quali gli
stati contraenti possono essere citati da altri stati contraenti o anche da
singoli individui.
Anche in questi casi, comunque, il fondamento della competenza del giudice
resta pattizio, nel senso che solo gli stati che hanno accettato in un modo o
nell’altro detta competenza possono essere convenuti in giudizio (differenza
col diritto statale, dove la sottoposizione alla funzione giurisdizionale è
imposta dalla legge).
Autotutela. Per quanto attiene i mezzi che nel diritto internazionale sono
adoperati per assicurare coattivamente l’osservanza delle norme e per
reprimere le violazioni, occorre riconoscere che questi mezzi sono tutti quasi
riconducibili alla categoria dell’autotutela. Quindi quella che è un’accezione
al diritto interno (in quanto solo a determinate condizioni e entro certi limiti,
quando non possono intervenire gli organi statali, si può reagire agli illeciti
altrui) diventa la regola nel diritto internazionale.
Carattere obbligatorio del diritto internazionale. Ma, ci si chiede, il diritto
internazionale è un vero e proprio diritto? la difesa dell’obbligatorietà del
diritto internazionale e la ricerca del fondamento di una simile obbligatorietà
hanno impegnato e impegnano i massimi cultori della materia. In
contrapposizione a questo c’è un elevato scetticismo che pone l’accento sulla
mancanza di mezzi idonei a costringere i singoli stati al rispetto delle norme
internazionali, e delle stesse sentenze dei giudici internazionali che pure,

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emesse su base volontaristica, hanno un maggiore coefficiente di


osservabilità.
Diritto internazionale e operatori giuridici. A nostro avviso una soluzione al
problema dell’obbligatorietà, o meglio della capacità di ricevere concreta e
stabile attuazione, del diritto internazionale non può non passare attraverso
gli operatori giuridici interni (giudici) che, nelle singole comunità statali,
hanno il compito di applicare e far rispettare il diritto.
Infatti, gli ordinamenti statali prevedono che il “diritto internazionale sia
osservato al pari del diritto interno”.
Una tesi sostenuta dalla dottrina positivistica tedesca del 19 secolo (Jellinek)
considerava il diritto internazionale come il frutto di un’autolimitazione del
singolo stato; infatti, la comunità internazionale nel suo complesso non
dispone di mezzi giuridici per reagire efficientemente e imparzialmente in
caso di violazione di norme internazionali. Ciò che occorre superare è però
l’idea di arbitrio del singolo stato (la sua libertà di sciogliersi in ogni momento
da qualsiasi impegno internazionale), insita anch’essa nella teoria
dell’autolimitazione. Una corretta applicazione del diritto all’interno dello
stato costituisce l’unica remora efficace, dal punto di vista giuridica,
all’esercizio di un simile arbitrio.
La cooperazione del diritto interno è indispensabile per assicurare
compiutamente al diritto internazionale il suo valore e la sua forza, in quanto
fenomeno giuridico. Se, invece, pensassimo al diritto internazionale come
“scollegato” dagli ordinamenti giuridici statali, ma collegandolo
esclusivamente alla sua esistenza nell’ambito della comunità internazionale,
lo stesso apparirebbe come un punto di riferimento e di sostegno di una sana
diplomazia: lo stato che può dimostrare che un suo comportamento è
conforme alle regole del diritto internazionale ha un argomento molto forte a
favore della sua causa (aspetto politico diplomatico del diritto
internazionale).
3.Lo stato come soggetto di diritto internazionale.
Altri soggetti e presenti tali.
Stato-comunità e stato-organizzazione. Abbiamo definito il diritto
internazionale come diritto della comunità degli stati. A questo punto
dobbiamo approcciarci alla definizione dello “stato” e, più precisamente, allo
stato come soggetto o destinatario di norme internazionali o, se si vuole, come
membro della comunità internazionale.

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Occorre anche chiedersi se accanto agli stati, che sono senza dubbio i
principali protagonisti della scena internazionale, vi siano altri enti cui il
diritto internazionale formalmente si rivolga e, quindi, possano considerarsi
anch’essi come soggetti. A nostro avviso, l’unica alternativa utile ai fini
dell’individuazione dello stato come soggetto internazionale è quella tra stato-
comunità e stato-organizzazione.
In linea di massima quando ci si chiede “cos’è lo stato?” si è portati,
innanzitutto, a pensare ad una comunità umana stanziata su di una parte
della superficie terrestre e sottoposta a leggi che la tengono unita (stato-
comunità).
Un altro fenomeno poi avvertibile, anch’esso empiricamente, è quello
costituito dall’insieme dei governanti e cioè dall’insieme degli organi che
esercitano il potere di imperio sui singoli associati (stato-organizzazione).
Attribuzione della soggettività internazionale allo stato organizzazione. Ora,
ci si chiede, quale dei due viene in rilievo dal punto di vista del diritto
internazionale? Si tende ad avallare maggiormente la tesi secondo cui la
qualifica di soggetto di diritto internazionale spetti allo stato-organizzazione.
È infatti, all’insieme degli organi statali che si ha riguardo allorché si lega la
soggettività internazionale dello stato al criterio dell’effettività, ossia
dell’effettivo esercizio del potere di governo; sono gli organi statali che
partecipano alla formazione delle norme internazionali ed è agli organi statali
che si attaglia il contenuto delle norme materiali internazionali (norme
generalmente dirette a disciplinare e limitare l’esercizio del potere di
governo); sono, infine, solo gli organi statali che, con la loro condotta,
possono ingenerare la responsabilità internazionale dello stato.
Nozione di organo dello stato ai fini del diritto internazionale. Quando
parliamo di organi statali facciamo riferimento a tutti gli organi e, quindi,
tutti coloro che partecipano all’esercizio del potere di governo nell’ambito del
territorio. Non si tratta dei solo organi esecutivi o dei soli organi del potere
centrale ma anche di amministrazioni locali e di enti pubblici minori che, dal
punto di vista del diritto interno, hanno di solito una personalità giuridica
distinta da quella dello stato.
Effettività dello stato-organizzazione. Si afferma che il diritto internazionale
si disinteressi dell’organizzazione statale oppure che esso, quando ha
necessità di far riferimento all’organizzazione statale, si limiti a rinviare al
diritto interno, o ancora che l’organizzazione statale sia presupposta dal
diritto internazionale. Queste affermazioni possono essere condivise ma solo
nel senso che la partecipazione all’esercizio del potere di governo,
partecipazione che contraddistingue la qualità di organo, debba trovare

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comunque il suo fondamento nell’ordinamento giuridico statale o in un


ordinamento da questo derivato.
Se il diritto internazionale si rivolge allo stato-organizzazione va, però,
sottolineato che tale organizzazione è presa in considerazione in quanto è
destinataria di norme internazionali e, come tale, può pretendere che nei suoi
confronti queste ultime siano rispettate, in quanto e finché eserciti
effettivamente il proprio potere su di una comunità territoriale.
Il requisito della effettività è essenziale.
Governi in esilio e comitati di liberazione con sede all’estero. Va, pertanto,
negata la soggettività dei governi in esilio o alle organizzazioni, o fronti, o
comitati di liberazione nazionale che abbiano sede in un territorio straniero,
avendo quivi costituito, fin dall’inizio, una sorta di organizzazione di governo.
Tipico esempio di comitato di liberazione all’estero è stato, per tanti anni,
l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Altro esempio è il
Fronte Polisario, che lotta per l’autodeterminazione del popolo saharawi e la
cessazione dell’occupazione militare del Sahara occidentale da parte del
Marocco.
La cassazione ha sostenuto la tesi secondo cui l’OLP e tutti gli altri movimenti di
liberazione nazionale godrebbero di una soggettività limitata allo scopo di “discutere, su
basi di perfetta parità con gli stati territoriali, i modi e i tempi dell’autodeterminazione die
popoli da loro politicamente controllati, in applicazione del principio di
autodeterminazione dei popoli ritenuto norme consuetudinaria di carattere cogente”.
Esclusa, invece, la soggettività piena, la corte ha negato che agli organi supremi di siffatti
movimenti spettassero le immunità previste dal diritto internazionale, ed in particolare
l’immunità della giurisdizione penale riconosciuta ai capi di stati esteri.
Spunto interessante è dato da una sentenza del 2015 dal tribunale dell’unione europea: è
stata riconosciuta al fronte polisario, in quanto rappresentante del popolo saharawi, la
legittimazione ad impugnare un accordo di cooperazione economica tra Unione Europea e
Marocco suscettibile di produrre effetti nella regione del Sahara occidentale.

In ogni caso, la soggettività della Palestina è ancora dubbia, dopo i vari


accordi tra OLP ed Israele per il graduale passaggio di buona parte dei
territori palestinesi occupati da Israele sotto il controllo dell’autorità
palestinese. A parte l’interruzione del processo di pace e i drammatici
avvenimenti che hanno sempre caratterizzato e che ancora caratterizzano i
rapporti tra Israeliani e Palestinesi, è comunque ancora dubbia la stessa
natura di veri e propri accordi internazionali di queste intese, le quali
somigliano piuttosto agli accordi conclusi dalle potenze coloniali con i
rappresentanti delle popolazioni locali, all’epoca della decolonizzazione, al
fine di provvedere al graduale avvio all’indipendenza dei territori dominati. Si
tratta di accordi che, d’altro canto, non sono stati nemmeno registrati presso

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il Segretariato delle Nazioni Unite; inoltre, non è molto chiaro l’assetto


territoriale delle zone interessate: anche se Israele si è ritirata dalla zona di
Gaza e da una parte della Cisgiordania, continuando nell’altra a compiere
illegittimi atti di colonizzazione, tutto il territorio è sotto la minaccia continua
delle sue forze armate, con la conseguenza che ai palestinesi è lasciata una
forma di autonomia più che di governo. Né la situazione è cambiata, da un
punto di vista giuridico, per effetto della risoluzione dell’assemblea generale
dell’ONU del 2012 che ha deciso di accordare alla Palestina lo status di “stato
non membro” con funzione di osservatore.
Soggettività molto dubbia è anche quella dei cd failed states, la cui
caratteristica sta proprio nella mancanza di un governo effettivo; il che può
avvenire quando sia in atto una diffusa guerra civile. Il termine “failed states”
può essere tradotto in italiano con quello di “stati falliti”, a condizione di non
confondere la mancanza di effettività con il fallimento economico. Nessuno,
ad esempio, può dubitare che siano soggetti internazionali alcuni stati europei
che hanno rischiato il fallimento a causa della grave crisi economica mondiale
iniziata nel 2008; è però vero che, anche nel caso delle failed states, la
generalità degli stati, per evitare che il territorio del paese fallito sia
considerato come terra nullius, e quindi soggetto ad occupazione, preferisce
fingere l’esistenza di un governo capace di agire sul piano internazionale,
soprattutto non abolendo il seggio che tale parvenza di governo occupa alle
nazioni unite.
Di failed states si è parlata nel caso della Somalia, paese che per circa 20 anni
è stato dominato per singole zone da “signori della guerra”, e in presenza di
un debole governo centrale mancante di effettività e non in grado di
assicurare il rispetto di norme internazionali fondamentali quali quelle sulla
tutela dei diritti umani e sul trattamento degli stranieri. La situazione della
Somalia sembra vada mutando dal 2012 con il consolidamento di un governo
federale. Come la Somalia, situazione analoga è anche quella della Libia.
Indipendenza dello stato-organizzazione. Oltre alla effettività, altro requisito
da considerare come necessario ai fini della soggettività internazionale dello
stato, è quello della indipendenza (o sovranità esterna) occorre, quindi, che
l’organizzazione di governo non dipenda da altro stato.
Stati membri di stati federali. In quanto difettano del requisito dell’indipendenza, non
sono da considerare come soggetti di diritto internazionale gli stati membri di stati
federali. Questi sono, talvolta, autorizzati dalla costituzione federale a stipulare accordi con
stati terzi, normalmente col consenso del potere centrale. Ma allora essi agiscono da un
punto di vista internazionale, come ha osservato il Quadri, come organi dello stato federale
nel suo complesso. Anche le regioni italiane posso stipulare accordi internazionali, agendo
anch’esse come organi dello stato italiano.

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Confederazione. Lo stato federale non deve essere confuso con la Confederazione, la


quale è un’unione (internazionale) fra stati perfettamente indipendenti e sovrani, creata
per scopi di comune difesa e caratterizzata da un organo assembleare rappresentativo di
tutti i membri, con ampi poteri in materia di politica estera. La confederazione è un
fenomeno che appartiene molto di più al passato. Pensiamo alla confederazione degli Stati
Uniti d’America (1778-1787), alla confederazione germanica e quella elvetica. Notiamo
come, quindi, lo stadio confederale ha spesso costituito una fase di passaggio verso la
formazione di uno stato federale (NB è molto difficile il contrario e cioè che dissoltosi
uno stato federale, sopravviva tra i suoi membri, divenuti indipendenti, un vincolo di tipo
confederale. Ciò perché la confederazione è pur sempre dotata di un organo che ha ampi
poteri decisionali nei confronti degli stati membri, in materia di politica estera e di difesa
ed è poco probabile che dei soggetti che hanno appena deciso di sciogliersi intendano
comunque restare sottoposti ad un potere decisionale comune, sia pure in settori limitati).

Il requisito dell’indipendenza va inteso cum grano salis (come un granello di


sale) perché se lo si volesse intendere come assoluta possibilità di
determinarsi da sé, si giungerebbe alla conclusione che nessuno stato è
soggetto. Allora, su cosa bisogna basarsi? dove porre allora il limite oltre il
quale non c’è l’indipendenza come requisito per la soggettività e quindi non
c’è soggettività internazionale? a noi sembra che come regola generale non
possa che farsi leva su di un dato formale: è indipendente e sovrano lo stato il
cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza giuridica da una propria
costituzione e non dall’ordinamento giuridico di un altro stato. Il che
permette anche di capire e spiegare perché normalmente si ritiene che non
influisca sulla soggettività la “dimensione” dello stato e si consideri, ad
esempio, come soggetti internazionali la Repubblica di San Marino.
Una sola accezione può forse ammettersi: il dato formale non può più invocarsi, e deve
cedere di fronte ad un dato reale, quando in fatto l’ingerenza da parte di un altro stato
nell’esercizio del potere di governo è totale, e quindi il governo indigeno è un governo
“fantoccio”. I governi fantoccio sono, come tali, privi di soggettività internazionale e si
ebbero, ad esempio, all’epoca della seconda guerra mondiale nei territori occupati dai
Nazisti. Un esempio attuale di governo fantoccio è da molti considerato quello della
Repubblica turco-cipriota, insediata dalle forze militari turche nella parte settentrionale di
Ciprio e controllata dalla Turchia.

Ancora incerto è, invece, lo status del Kosovo nonostante la Dichiarazione di


indipendenza proclamata nel 2008 (dichiarazione, peraltro, contestata da vari
paesi tra cui la Serbia, che ritiene di avere tuttora la sovranità sul territorio).
Ciò ove si consideri che alcune attività di governo sono esercitate nel Kosovo
con il coinvolgimento diretto dell’ONU, della NATO e dell’Unione Europea.
Occorre, d’altra parte rilevare che, negli ultimi anni, tale coinvolgimento si è
sensibilmente ridotto.
Pensiamo al parere della CIG del 2010 nel caso della conformità al diritto internazionale
della dichiarazione unilaterale di indipendenza relativa al Kosovo. La corte premette di
non doversi pronunciare sulla questione se, dopo la dichiarazione, il Kosovo sia da

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considerare come un vero e proprio stato staccatosi per secessione dalla Serbia, e si occupa
soprattutto della conformità o meno della dichiarazione alla risoluzione n.1244 del 99 del
consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tale risoluzione aveva sottoposto il Kosovo ad
una amministrazione provvisoria internazionale facente capo alle nazioni unite e che
ancora partecipa, in una certa misura, alle attività di governo del territorio. Secondo la
corte, sebbene la risoluzione sia piuttosto ambigua, essa non sarebbe stata violata dalla
dichiarazione di indipendenza sia perché gli autori di quest’ultima non avrebbero agito
come membri dell’assemblea legislativa e sia perché la dichiarazione farebbe salve tutte le
competenze residue dell’amministrazione provvisoria internazionale.
In materia si è pronunciato anche il Tribunale dell’unione europea in Spagna c.
Commissione, sentenza del 23.9.2020: il Kosovo non costituisce uno stato ma è, di per sé,
comunque dotato della capacità di stipulare accordi internazionali.

L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente


il proprio potere su di una comunità territoriale diviene soggetto
internazionale in modo automatico (non essendo necessario, infatti, che essa
sia riconosciuta dagli altri stati).
Riconoscimento. Del riconoscimento si sente spesso parlare anche nelle
comuni cronache di fatti internazionali: ad esempio, l’Italia che riconobbe la
Repubblica democratica tedesca (e viceversa) solo nel 1973; gli Stati Uniti e la
Cina che si riconobbero reciprocamente nel 1979.
Ma, nonostante ciò, tutto questo ha comunque una scarsa rilevanza giuridica:
per il diritto internazionale, il riconoscimento è un atto meramente lecito così
come meramente lecito è il non-riconoscimento; infatti, entrambi non
producono conseguenze giuridiche. Diciamo che, in linea di massima, il
riconoscimento attiene alla sfera della politica: esso rileva l’intenzione di
stringere rapporti amichevoli, di scambiare rappresentanza diplomatiche e di
avviare forme di collaborazione mediante la conclusione di accordi.
Quando si nega al riconoscimento valore giuridico si viene a respingere
soprattutto la tesi che esso sia costitutivo della personalità internazionale. Si
viene cioè a respingere la tesi secondo cui, affermandosi con i caratteri
dell’effettività e della indipendenza una nuova organizzazione di governo, gli
stati preesistenti possano esercitare nei suoi confronti, appunto mediante il
riconoscimento, una sorte di potere di ammissione nella comunità
internazionale. Bisogna, però, ammettere che tale tesi ha però il merito di
cogliere una tendenza che è stata sempre presente nella prassi internazionale
anche se poi non è mai riuscita a tradursi in precise norme giuridiche. Gli stati
preesistenti, infatti, tendono a giudicare se lo stato nuovo “meriti” o meno la
soggettività, ancora il loro giudizio ad un certo valore o ad una certa ideologia:
in passato si diceva che non potesse essere riconosciuto uno stato non
cristiano o addirittura non monarchico; in epoca attuale si tende da varie
parti a ritenere che non siano da riconoscere come soggetti i governi

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affermatisi con la forza, gli stati “non democratici”, gli stati “non amanti della
pace”, gli stati che violano i diritti umani, ecc.
Il vero è che tutto ciò non si è mai tradotto in norme internazionali per il
semplice motivo che gli stati, anche quando si trovano d’accordo sul valore da
porre a base del riconoscimento, divergono poi (il più delle volte per ragioni
politiche) sulla sua riscontrabilità in ciascun caso concreto.
La tendenza degli stati preesistenti a decidere circa l’ammissione talvolta si è addirittura
burocratizzata: è il caso delle due dichiarazioni che vennero emesse dai ministri degli esteri
dei paesi della CEE nella riunione di Bruxelles del 91. Nella prima dichiarazione (“direttive
sul riconoscimento dei nuovi stati nell’Europa orientale e nell’Unione sovietica”), i 12 paesi
comunitari si dichiararono disposti a riconoscere gli stati che via via si fossero formati
“attraverso un processo democratico” nella regione, purché avessero presentato
determinati requisiti tra cui, ad esempio, il rispetto della carta delle Nazioni Unite. Nella
seconda dichiarazione, le repubbliche iugoslave, che desiderassero essere riconosciute,
furono inviate a presentare domanda entro il 23.12.91.
In epoca successiva alle due dichiarazioni, l’unione sovietica si estinse e le repubbliche
divenute conseguentemente indipendenti furono via via riconosciute dagli altri paesi; ci
riferiamo a Croazia, Slovenia, Bosnia Erzegovina a la Macedonia. Ma, solo le prime tre
vennero riconosciute nei mesi immediatamente successivi dai paesi comunitari; la
Macedonia non venne subito riconosciuta solo a causa di ferma opposizione della Grecia.
La questione si è protratta fino ai giorni nostri e sembrerebbe essere stata pienamente
risolta nel 2018 con un accordo internazionale tra governo greco e governo macedone col
quale quest’ultimo si è impegnato ad accettare la denominazione “Repubblica della
Macedonia del Nord” (perché la questione era proprio questa: la Grecia aveva timore che
l’uso del nome Macedonia potesse implicare mire sulla omonima regione della Grecia
settentrionale).

Insorti. Dicevamo che i requisiti necessari affinché lo stato acquisti


(automaticamente) la personalità internazionale sono: effettività e
indipendenza. Ma questi sono sufficienti o ne occorrono altri? In pratica: i
requisiti che gli stati preesistenti sono soliti porre a base del loro
riconoscimento sono obiettivamente richiesti, per l’acquisto automatico della
personalità, da consolidati principi di diritto internazionale? Riferiamoci,
però, nello specifico ai requisiti che oggi più frequentemente ricorrono e cioè
che il nuovo stato non costituisca una minaccia per la pace e la sicurezza
internazionale, goda del consenso del popolo (espresso attraverso libere
elezioni) e non violi i diritti umani. Può effettivamente dirsi che non siano da
considerare come soggetti gli stati che tengano comportamenti del genere? La
risposta apparirebbe negativa. In realtà, i requisiti di cui stiamo parlando, se
svincolati dal riconoscimento, non trovano alcun riscontro nella realtà. Stati
che, temporaneamente o permanentemente, minacciano per la pace o sono
autoritari o violano i diritti umani, sicuramente non mancano nella comunità
attuale internazionale. È bensì vero che, secondo sicuri principi generali del

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diritto internazionale contemporaneo, uno stato è obbligato a non minacciare


la pace e a rispettarne i diritti umani ma, è anche vero, che simili obblighi, in
quanto tali, non condizionano ma anzi presuppongono la personalità
giuridica dello stato medesimo.
Insorti e diritto di guerra. Una volta stabilito che un’organizzazione di
governo diviene automaticamente soggetto quando esercita in modo effettivo
ed indipendente il proprio potere su di una comunità territoriale, non si può
negare che, nel caso in cui si verifichi in uno stato un movimento
insurrezionale e il movimento riesca a creare un’organizzazione di governo
che controlli effettivamente una parte del territorio statale, ad esso vada
riconosciuta una soggettività internazionale sia pure a titolo provvisorio e cioè
finché non si chiarisca quale esito abbia avuto l’insurrezione.
C’è chi ritiene che tale soggettività sia limitata al diritto internazionale di
guerra, ossia a quelle norme che prescrivono limitazioni della violenza bellica
a protezione delle popolazioni civili. A parte il riconoscimento, non ci sembra
che la limitazione al diritto di guerra sia avallata dalla prassi. Vero è che la
soggettività è legata alla provvisorietà e quindi le norme che con quest’ultima
sono compatibili devono considerarsi come applicabili. Sarebbero, invece,
privi di effetto, per il diritto internazionale, atti di disposizione di parti del
territorio controllato.
Va anche notato che nella materia un ruolo importate gioca il principio rebus
sic stantibus, principio che comporta l’estinzione di quelle situazioni
giuridiche derivanti da accordi (nella specie gli accordi conclusi dagli insorti)
allorché vengano radicalmente meno le circostanze di fatto in vista delle quali
dette situazioni furono create.
Per il diritto internazionale classico era completamente diverso il caso di
insorti senza base territoriale. Questi venivano considerati come dei sudditi
ribelli nei confronti dei quali il governo attaccato (cd governo legittimo)
poteva comportarsi come meglio credeva.
Vicende della vita dello stato. La vita dello stato può subire vicende come
conseguenza del succedersi di differenti organizzazioni di governo nell’ambito
di un territorio: uno stato può smembrarsi in più stati, può essere incorporato
da un altro stato o fondersi con esso e così via.
Individui. La personalità è riconosciuta, anche se in maniera limitata, anche
agli individui, persone fisiche o giuridiche. Questo perché vi è una tendenza
del diritto internazionale odierno ad occuparsi di materie interne alle singole
comunità statali ed anche a proteggere l’individuo nei confronti del proprio
stato. Essa trae spunto specialmente dal moltiplicarsi di quelle norme

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convenzionali che obbligano gli stati a tutelare i diritti fondamentali


dell’uomo.
A parte i diritti umani, comportamenti e interessi individuali, sono presi in
considerazione diretta da norme internazionali o di origine internazionale in
varie altre materie (pensiamo ai trattati e agli atti dell’unione europea), così
come anche il diritto consuetudinario fornisce ampia materia per sostenere la
personalità internazionale degli individui: pensiamo ad crimina juris
gentium, categoria in cui si fanno rientrare tra l’altro i crimini di guerra e
contro la pace e la sicurezza dell’umanità e, dunque, quei reati per i quali lo
stato può esercitare la propria potestà punitiva oltre i limiti normalmente
assegnatigli.
In ogni caso, la personalità internazionale dell’individuo è stata implicitamente confermata
dalla CIG nelle sentenze del 2001 e del 2004.

Minoranze. Numerose sono anche le norme internazionali che tutelano le


minoranze etniche ma non sembra che con ciò le minoranze assurgano a
soggetti di diritto internazionale, sia pure limitatamente ai diritti loro
riconosciuti. Lo stesso deve dirsi di quella particolare specie di minoranza
costituita dalla popolazione indigena, presente in vari paesi con varie
rivendicazioni.
Popoli. Si parla poi di “diritti dei popoli” (es: diritto dei popoli
all’autodeterminazione). Il termine popolo è usato essenzialmente in modo
enfatico potendo, nello specifico, parlare di diritto dello “stato”. È chiaro
come il popolo potrebbe venire in rilievo, da un punto di vista giuridico, solo
se partissimo dall’idea che lo stato come soggetto di diritto internazionale non
sia lo stato-apparato ma lo stato-comunità, non si identifichi con i governanti
ma con i governati.
Autodeterminazione dei popoli. Il principio di autodeterminazione è oggi una
regola di diritto internazionale positivo, ed è anzi una regola di jus cogens.
Esso, non solo è contenuto in testi convenzionali (e come tali vincolanti solo
gli stati contraenti) ma ha anche acquistato carattere consuetudinario
attraverso una prassi che si è sviluppata ad opera delle Nazioni Unite.
Autodeterminazione esterna. Non è facile individuare il contenuto del
principio di autodeterminazione dei popoli, in quanto principio giuridico. A
nostro avviso, se si guarda alla prassi effettiva degli stati, il principio di
autodeterminazione non ha ancora oggi un effettivo campo di applicazione.
Esso, come ha anche affermato la CIG, si applica solo ai popoli sottoposti ad
un governo straniero (autodeterminazione esterna), in primo luogo ai popoli
soggetti a dominazione coloniale e, in secondo luogo, alle popolazioni di
territori conquistati ed occupati con la forza. Nello specifico:

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l’autodeterminazione comporta il “diritto” dei popoli sottoposti a dominio


straniero di divenire indipendenti, di associarsi o integrarsi con altro stato
indipendente e di scegliere comunque e liberamente il proprio regime
politico.
Irretroattività del principio di autodeterminazione. Affinché, il principio di
autodeterminazione così inteso, sia applicabile occorre, inoltre che, salvo il
caso dei territori coloniali, la dominazione straniera non risalga oltre l’epoca
in cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico, ossia oltre
l’epoca successiva alla fine della seconda guerra mondiale.
Autodeterminazione e presenza di forze armate straniere. L’applicazione del
principio di autodeterminazione presenta poi notevoli difficoltà quando si tratta di territori
in cui il governo straniero, pur essendo presente massicciamente con le proprie forze
armate, si appoggia da un governo locale dal quale ha magari ricevuto una richiesta di
“aiuto”. Si potrebbe dire che, in questo caso, il p. di autodeterminazione si applichi nel
senso di imporre ad entrambi i governi la cessazione dell’occupazione straniera.
Autodeterminazione e decolonizzazione. A proposito dell’autodeterminazione dei
territori coloniali occorre anche tener conto di una regola che si è formata nell’ambito
dell’ONU e che attribuisce all’assemblea generale la competenza a decidere, con effetti
vincolanti per tutti gli stati, circa la sorte dei territori medesimi. L’assemblea, però, deve
conformarsi al principio di autodeterminazioni come sopra inteso altrimenti la sua
decisione è illegittima e senza efficacia. Secondo l’opinione espressa dalla CIG nel parere
sul Sahara occidentale, l’assemblea può decidere, se circostanze “speciali” lo richiedono,
anche senza consultare gli abitanti del territorio.
Il p. di autodeterminazione dei territori coloniali deve poi coordinarsi con il principio
dell’integrità territoriale; in base a questo principio occorre tenere conto dei legami
storico-geografici del territorio da decolonizzare con uno stato contiguo formatosi
anch’esso, magari precedentemente, alla decolonizzazione. Il p. di autodeterminazione
cede il passo al p. dell’integrità territoriale quando la popolazione locale non sia in
maggioranza indigena ma “importata” dalla madre patria.

Autodeterminazione interna. È da escludersi, invece, dal punto di vista


strettamente giuridico che l’autodeterminazione possa essere intesa nel
significato che ad essa comunemente si attribuisce dal punto di vista politico.
Bisogna guardarsi, insomma, dal ritenere che il diritto internazionale richieda
che tutti i governi esistenti sulla terra godano del consenso della maggioranza
dei sudditi e siano da costoro liberamente scelti (autodeterminazione
interna).
Anche dopo la caduta dei regimi comunisti dell’est europeo, i paesi non
democratici (ovvero quelli i cui governi non sono liberamente scelti dalla
maggioranza della popolazione) continuano a rappresentare una significativa
componente della comunità internazionale e la loro esistenza non è
considerata di per sé contraria al diritto internazionale.

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Al di là di tutto questo è chiaro come la maggioranza degli stati tende a


considerare l’autodeterminazione come sinonimo di democrazia: sotto questo
aspetto va ricordata la ferma condanna, della comunità internazionale, degli
aspetti politici dell’apartheid, vale a dire della esclusione, su base etnica o
razziale, di una parte della popolazione dalla partecipazione alla vita pubblica.
Recentemente, però, l’accezione interna del principio di autodeterminazione
si è sviluppata in due direzioni. Per un verso si starebbe affermando
l’illegittimità, sul piano del diritto internazionale, dei regimi affermatisi in
seguito alla destituzione violenta di un governo democraticamente eletto; per
altro verso sarebbe in via di emersione una norma che vieta agli stati di usare
la forza, o quanto meno di non utilizzare mezzi eccessivamente violenti, per
reprimere le aspirazioni pacificamente manifestate dalla popolazione volte ad
ottenere un cambiamento in senso democratico delle proprie istituzioni.
Infine, vale la pena menzionare le attività delle organizzazioni internazionali
(in primis l’ONU) dirette a favorire la diffusione della nozione di democrazia
in paesi ed aree in cui questo non è presente o è presente ad un livello ancora
embrionale. Sotto questo profilo, appare di particolare interesse la tendenza
ad orientare in senso democratico i processi di “ricostruzione dello stato” (cd
state building) nell’ambito dei quali la comunità internazionale si impegna a
ripristinare l’ordinario funzionamento delle istituzioni statali in seguito a
gravi conflitti di carattere interno o internazionale.
Occorre poi guardarsi dall’interpretare il principio di autodeterminazione
come capace di avallare le aspirazioni secessionistiche di regioni o province o
altre circoscrizioni territoriali più o meno autonome, e sia pure di
circoscrizioni etnicamente distinte dal resto del paese. Come è stato
dimostrato non ha giuridicamente fondamento la cd “secessione” come
rimedio da praticare quando una minoranza è sottoposta a discriminazioni
intollerabili o simili.
Autodeterminazione e movimenti di liberazione nazionale. Il diritto
internazionale, quindi, impone dunque allo stato che governa un territorio
non suo di consentirne l’autodeterminazione. Può anche sostenersi che, di
fronte alle violazioni del principio, gli altri stati siano tenuti ad adottare
misure di carattere sanzionatorio come il disconoscimento di ogni effetto
extraterritoriale agli atti di governo emanati nel territorio. Lecito è anche
l’appoggio fornito ai movimenti di liberazione nazionale. Ma, alla luce di
quanto premesso, si può parlare di un vero e proprio diritto soggettivo
internazionale dei popoli, sottoposti a dominazione straniera,
all’autodeterminazione? In realtà, anche in questo caso, i rapporti di diritto
internazionale intercorrono in modo esclusivo tra gli stati ed è nei confronti di
tutti gli stati che l’obbligo per il governo straniero di consentire

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l’autodeterminazione sussiste; è nei confronti della comunità internazionale


che gli stati hanno l’obbligo di negare efficacia extraterritoriale agli atti di
governo compiuti nel territorio dominato; è nei rapporti tra lo stato che
governa il territorio e gli altri stati che l’appoggio ai movimenti di liberazione
non può essere considerato come illecito.
Organizzazioni internazionali. Resta da chiedersi se siano soggetti di diritto
internazionale certi enti i quali operano nell’ambito della comunità
internazionale accanto agli stati, in posizione di indipendenza rispetto a
questi ultimi. Si ritiene che non si possa più negare ormai, come si faceva in
passato, piena personalità alle organizzazioni internazionali, ossia alle
associazioni fra stati (ONU, unione europea ecc) dotate di organi per il
perseguimento degli interessi comuni. La personalità delle organizzazioni,
come personalità distinta da quella degli stati membri, è un dato non più
discutibile della prassi internazionale odierna, particolarmente, ma non
esclusivamente, della prassi relativa agli accordi che le organizzazioni
stipulano nei vari campi connessi alla loro attività: tali accordi vengono
considerati come produttivi di diritti e di obblighi propri delle organizzazioni,
restando senza effetti sulla sfera giuridica degli stati membri. Quando uno
stato non membro non tende concludere un accordo con la sola
organizzazione ma vuole coinvolgere anche gli altri stati membri, è solito
richiedere la diretta partecipazione di questi ultimi all’atto.
La personalità internazionale delle organizzazioni va tenuta distinta dalla
personalità di diritto interno delle organizzazioni medesime. Se
un’organizzazione internazionale acquista immobili e contare obbligazioni in
uno stato, sarà l’ordinamento di questo stato a stabilire entro che limiti essa
ha la capacità di farlo.
ONG. Non bisogna poi confondere le organizzazioni internazionali con le
organizzazioni non governative. Sono organizzazioni che non nascono da
accordi internazionali e a cui non fanno parte gli stati ma persone private.
Sono, quindi, prive di personalità internazionale (pensiamo ad amnesty
international).
Santa Sede. Altro ente indipendente agli stati è la Santa Sede. Ad essa, anche
nel periodo tra il 1870 e il 1929, periodo in cui venne meno ogni suo dominio
territoriale, la personalità internazionale è stata sempre per tradizione
riconosciuta. La personalità della Santa Sede si concreta non solo nel potere
di concludere accordi internazionali (tra i quali vanno collocati anche i
Concordati) ma, data l’esistenza dello stato della città del Vaticano, anche in
tutte le situazioni giuridiche che presuppongono il governo di una comunità
territoriale.

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Ordine di Malta. Una parte della dottrina italiana attribuisce la qualità di


soggetto internazionale anche al Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di
Malta, ordine religioso dipendente dalla Santa Sede. Infatti, l’Ordine ha come
suo unico collegamento con la comunità internazionale il fatto di aver
governato un tempo su Rodi e poi su Malta. Esso, inoltre, intrattiene
numerosi rapporti diplomatici con i paesi del terzo mondo e con i paesi
dell’Europa orientale

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Parte prima.
LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI.
4.Il diritto internazionale generale.
La consuetudine e i suoi elementi costitutivi.
Art 38 dello statuto della CIG. Le fonti individuate dall’art 38 sono,
nell’ordine: a) i trattati; b) la consuetudine internazionale; c) i principi
generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili. L’art 38 menziona altresì
le “decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più autorevoli delle varie
nazioni”. Queste ultime non vengono in rilievo in qualità di fonti di
produzione ma “come mezzi ausiliari per determinare le norme giuridiche”
(quindi, vale a dire, come fonti di cognizione del diritto internazionale).
Alle fonti indicate dallo statuto all’art 38 se ne sono affiancate altre due: i
principi generali propri dell’ordinamento internazionale e gli atti vincolanti
delle organizzazioni internazionali.
Inoltre, l’ordine indicato dall’art 38 non va inteso in senso gerarchico ma in
senso di percorso logico che la corte deve seguire nella identificazione delle
regole attraverso cui definire la controversia di fronte ad essa. Infatti, è del
tutto ragionevole che la corte incominci col verificare se la materia oggetto del
contendere è disciplinata da norme di diritto particolare (i trattati) in vigore
tra gli stati in lite ed applichi il diritto internazionale generale solo in caso di
esito negativo di tale verifica.
Le norme di diritto internazionale generale hanno natura consuetudinaria.
Iniziamo col capire cosa debba intendersi per consuetudine internazionale. La
stessa nozione di consuetudine di diritto internazionale non differisce da
quella elaborata dalla teoria generale del diritto e utilizzata anche nel diritto
interno la consuetudine internazionale è costituita da un comportamento
costante e uniforme tenuto dagli stati, dal ripetersi cioè di un dato
comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della
necessità del comportamento stesso.
Elementi della consuetudine. Due sono gli elementi che caratterizzano questa
fonte: la diuturnitas e l’opinio juris sive necessitatis. Ma, una simile
concezione dualistica in dottrina non è stata molto appoggiata e, infatti, più
autori hanno sostenuto che la consuetudine sarebbe costituita dalla sola
“prassi” in quanto, ammettendosi le necessità dell’opinio juris, si arriverebbe
inevitabilmente a considerarla come errore. Se nel momento in cui la norma
va formandosi, si dice, lo stato crede che un dato comportamento sia
obbligatorio, cioè richiesto dal diritto, mentre in effetti il diritto non esiste

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perché è in formazione, è evidente che lo stato è in errore. L’opinio juris non


sarebbe dunque uno degli elementi ma l’effetto psicologico dell’esistenza della
norma.
Se si esamina la prassi dei tribunali internazionali, si può avere conferma
della tesi secondo la quale, nell’opera delicata di ricostruzione di una
consuetudine internazionale, entrambi gli elementi debbono venire in rilievo.
Questo orientamento è stato ribadito dalla CIG in una sentenza del 69 sulla
questione della delimitazione della piattaforma continentale nel mare del
nord, nonché nelle successive sentenze sulla delimitazione della piattaforma
continentale tra Libia e Malta, sulle attività militari e paramilitari in e contro
il Nicaragua.
Anche la giurisprudenza interna è favorevole alla concezione dualistica ma, a
parte questo rilievo giurisprudenziale, stesso gli stati si sono pronunciati nel
senso che l’opinio juris fosse indispensabile per l’esistenza della
consuetudine. È sintomatico il fatto che molto spesso gli stati, per evitare che
la sola prassi crei il diritto, si affrettano a dichiarare che un certo
comportamento che essi intendono tenere è dettato da mere ragioni di
cortesia, oppure non può essere considerato come capace di “creare un
precedente” ai fini della formazione di una norma consuetudinaria o
dell’abrogazione di una norma preesistente (desuetudine).
Non bisogna, ad ogni modo, sopravvalutare l’obiezione secondo cui,
ammettendosi l’opinio juris, la consuetudine riposerebbe sull’errore: in realtà,
si parla e si è sempre parlato di opinio juris sive necessitatisl’obbligatorietà
si confonde così con la necessità e cioè con la doverosità sociale. Almeno nel
momento iniziale di formazione della consuetudine, il comportamento non è
tanto sentito come giuridicamente quanto come socialmente dovuto.
Consuetudine e norma di cortesia. Se non si facesse leva sull’opinio juris
mancherebbe la possibilità di distinguere tra mero “uso” determinato ad
esempio da motivi di cortesia, cerimoniale ecc, e consuetudine produttiva di
norme giuridiche. La distinzione si fonda su altri elementi però: il mero uso
consisterebbe di contegni poco importanti dal punto di vista sociali e come
tali inidonei a produrre norme giuridiche. Ma, certi usi dettati da motivi di
cortesia, ad esempio l’uso di estendere la sfera delle immunità diplomatiche,
non rivestono affatto detta caratteristica e se non ci concretano in
consuetudini giuridiche, lo si deve proprio e solo alla circostanza che gli stati
non sono convinti della loro obbligatorietà.
Consuetudine e prassi convenzionale. L’esistenza o meno della opinio juris
sive necessitatis è poi il solo criterio utilizzabile per ricavare una norma
consuetudinaria dalla prassi convenzionale. Se si esamina la giurisprudenza

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interna ci si rende conto che i trattati costituiscono uno dei punti di


riferimento più utilizzati nella ricostruzione di una regola consuetudinaria
internazionale. Ma i trattati possono essere interpretati sia come conferma di
norme consuetudinarie già esistenti, sia come creazione di norme nuove e
limitate ai rapporti fra stati contraenti.
Un principio consuetudinario non può essere tratto da una prassi convenzionale, sia pure
costante e ripetuta nel tempo, quando è chiaro che il principio medesimo è il frutto delle
concessioni che una parte degli stati contraenti fanno al solo scopo di ottenere altre
concessioni. È cosi, ad es, che il tribunale Iran-Stati Uniti, si è rifiutato di dedurre un
principio di “indennizzo parziale”, applicabile all’espropriazione e alla nazionalizzazione di
beni stranieri, dalla prassi dei cd lump-sum agreements. Questi sono accordi mediante i
quali lo stato nazionale dei soggetti i cui beni sono stati espropriati o nazionalizzati
all’estero accetta dallo stato espropriante o nazionalizzante una somma globale, di solito
inferiore a quella che dovrebbe essere corrisposta se l’indennizzo coprisse l’intero valore
reale dei beni. Secondo il tribunale Iran-Stati Uniti, i lump-sum sarebbero frutto di
transazioni (bargain) e quindi non indicativi di norme di diritto internazionale generale.

L’elemento dell’opinio juris, infine, serve a distinguere il comportamento


dello stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente, dal
comportamento che costituisce, invece, mero illecito internazionale. Tale
tema è riallacciato ad un vivace dibattito avutosi negli Stati Uniti; tale
dibattito si era originato da alcuni casi giurisprudenziali nei quali si era tra
l’altro posto il problema se le corti statunitensi potessero censurare
l’eventuale violazione di norme di norme di diritto consuetudinario
internazionale da parte del governo. Se l’esecutivo, e in particolare il
presidente degli stati uniti, non sono lasciati liberi di violare il diritto
consuetudinario, ciò non significa escluderli dal processo di trasformazione
del diritto consuetudinario medesimo, dato che tale processo muove proprio
da un comportamento che non può essere illecito alla luce del diritto esistente
e nel momento iniziale di formazione della nuova norma? tale quesito, a
nostro avviso, può risolversi se si tiene presente che, per l’appunto, il
procedimento di formazione del diritto consuetudinario necessita dell’opinio
juris sive necessitatis, anzi dell’opinio necessitatis: è chiaro, cioè, che
l’esecutivo può violare il diritto consuetudinario se dimostra che detta
violazione sia sorretta dal convincimento della sua doverosità sociale.
Tempo di formazione della consuetudine. Per quanto riguarda l’elemento
della diuturnitas va avvertito che il problema del tempo di formazione della
consuetudine non si presta a soluzioni precise ed univoche. Se il trascorrere di
un certo tempo per la formazione della norma è necessario e se è vero che
certe norme consuetudinarie, come quella sulla sovranità territoriale, hanno
carattere plurisecolare, è anche vero che certe regole si sono consolidate nel
volgere di pochi anni.

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Il tempo può essere così breve e così diffuso essendo, infatti, le consuetudini
“istantanee” non solo una contraddizione in termini ma anche un fenomeno
che non può generare norme giuridiche per la mancanza di quel carattere di
stabilità che è insito nel diritto non scritto.
Quali organi dello stato concorrono nel procedimento di formazione della
norma consuetudinaria? la possibilità a partecipare, generalmente, è
riconosciuta a tutti gli organi statali. Quindi, a formare la consuetudine
possono concorrere non solo atti “esterni” degli stati (trattati, note
diplomatiche ecc) ma anche atti “interni” (leggi, sentenze, atti
amministrativi).
Ruolo della giurisprudenza interna nella formazione della consuetudine.
Nella formazione di certe norme consuetudinarie, precisamente di quelle che
più sono destinate a ricevere applicazione all’interno dello stato, è la
giurisprudenza interna a giocare un ruolo decisivo. Si pensi al campo delle
immunità degli stati stranieri dalla giurisdizione civile. L’attuale norma sulla
immunità degli stati dalla giurisdizione civile si è andata formando a partire
dalla prima guerra mondiale, in deroga ad una vecchia consuetudine che
sanciva l’immunità assoluta degli stati stranieri, proprio ad opera della
giurisprudenza di vari paesi e sotto la spinta iniziale della giurisprudenza
italiana e belga. Ora, la stessa giurisprudenza sta elaborando nuove regole in
un particolare settore sempre dell’immunità degli stati ossia quello dei
rapporti di lavoro con stati esteri.
Notiamo come, talvolta, c’è sintonia nell’ambito dello stesso stato tra il
comportamento delle corti e quello che il potere esecutivo tiene sul piano
internazionale; la mancanza di sintonia cresce via via che le corti interne si
liberano dalla dipendenza dei governi dei loro paesi. Come rilevato dalla CDI
nelle Draft Conclusion del 2018, tale incoerenza potrà tuttavia incidere
negativamente sul peso da attribuire alla prassi dello stato in questione ai fini
dell’identificazione del diritto consuetudinario.
Applicabilità della consuetudine ai nuovi stati. Secondo l’insegnamento
comune le norme consuetudinarie si impongono anche agli stati di nuova
formazione. Questo principio è stato discusso a lungo dagli stati sorti dal
processo di decolonizzazione, ossia dagli stati che costituiscono la
maggioranza degli attuali membri della comunità internazionale. Ma questo
problema della contestazione del diritto consuetudinario è ormai superato e
va risolto in modo diverso a seconda che la contestazione provenga da un
singolo stato o da un gruppo di stati.
Applicabilità della consuetudine all’obiettore persistente. Nel primo caso, la
contestazione, anche ripetuta (cd “persistent objector”), si ritiene sia

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irrilevante; a maggior ragione sembra non occorrere la prova dell’accettazione


della norma consuetudinaria da parte dello stato nei cui confronti questa è
invocata. Se tale prova fosse necessaria, la consuetudine dovrebbe
configurarsi come accordo tacito. Ma verrebbe allora a negarsi la stessa idea
di un diritto internazionale generale e comune ai vari soggetti internazionali,
idea che è invece sentita nell’ambito della comunità internazionale.
Nel secondo caso, quando la contestazione proviene da un gruppo di paesi,
essa non può essere ignorata. Si diceva, anche in epoca relativamente recente,
che avesse rilievo la contestazione proveniente o dal gruppo dei paesi
industrializzati dell’occidente, o dai paesi socialisti, oppure dai paesi in via di
sviluppo. La disgregazione del partito socialista semplifica le cose ma, è certo
che, quando una regola è fermamente e ripetutamente contestata dalla più
grande parte degli stati appartenenti ad un gruppo, essa non solo non è
opponibile a quelli che la contestano ma non è neanche da considerarsi
esistente come regola consuetudinaria.
Appare criticabile l’approccio seguito sul punto dalla CDI nelle Draft
Conclusion, sulla identificazione del diritto consuetudinario: la conclusione
15, infatti, afferma la non opponibilità di una norma consuetudinaria allo
stato che ne abbia contestato la formazione, a condizione che tale obiezione
sia manifesta e sia stata sostenuta costantemente dallo stato in questione.
Soft law. Soft law vuol dire “diritto morbido”. Questa categoria comprende
atti normativi caratterizzati da un valore esortativo o dichiarativo e privi di
efficacia obbligatoria. Vi rientrano molti strumenti tra cui le raccomandazioni
delle organizzazioni internazionali e, a livello interstatale, gli accordi di fatto.
Attualmente, a dispetto del loro carattere non vincolante, si sta facendo strada
sia in dottrina che nella prassi, l’idea che gli atti di soft law possano ricorrere
alla ricostruzione del diritto internazionale generale e al suo sviluppo
progressivo. Recentemente la commissione del diritto internazionale (CDI),
nelle sue draft conclusion sull’identificazione del diritto internazionale
consuetudinario, ha evidenziato, nella conclusione 12, che le risoluzioni delle
organizzazioni internazionali e gli atti delle conferenze intergovernative
possano, a certe condizioni, venire in rilievo come prova di prassi statale
(diuturnitas) accettata come diritto (opinio juris). Non si tratta di attribuire
efficacia vincolante a strumenti che geneticamente ne sono privi, ma di
riconoscere come essi possano essere sintomatici dell’atteggiamento positivo
degli stati rispetto ad una determinata materia.
Nello specifico sono tre le forme di interazione che possono venirsi a creare:

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In primo luogo, il soft law può assumere un’efficacia dichiarativa del diritto
internazionale generale, qualora si limiti a riprodurre per iscritto una norma
consuetudinaria (un esempio in tal senso è dato dal contributo che la
dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e la dichiarazione sulla
protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura o ad altre pene o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1957 hanno dato alla
ricostruzione della natura consuetudinaria e cogente del divieto di tortura).
Inoltre, il soft law può produrre efficacia cristallizzante, quando porti
definitivamente a compimento il processo di formazione di un’emergente
norma consuetudinaria, sicché a seguito dell’adozione dell’atto, e della
solenne manifestazione di consenso che l’ha accompagnata, l’esistenza della
norma risulti incontroversa nella comunità internazionale.
Infine, può darsi il caso che un atto di soft law produca un effetto generatore
(o catalizzatore) allorquando, in seguito alla sua adozione, gli stati prendano a
modello il contenuto normativo in esso dichiarato: è il caso del principio di
autodeterminazione che ha avuto origine da una serie di risoluzioni che lo
hanno affermato solennemente a partire dalla dichiarazione sulla concessione
dell’indipendenza a paesi e popoli coloniali.
In ogni caso, affinché uno specifico strumento di soft law possa effettivamente
riflettere norme di diritto internazionale generale, è necessario che vengano
soddisfatte due condizioni: il primo requisito, endogeno e letterale, impone
che l’atto sia stato scritto con linguaggio propriamente normativo, di modo
che possa costituire la base di una regola di condotta; un secondo elemento,
esogeno e contestuale, richiede che l’atto abbia registrato una partecipazione
ampia e rappresentativa, desumibile dal grado di consenso registrato al
momento della sua adozione avvenuta all’unanimità, per consensus o a larga
maggioranza.
Consuetudini particolari. Oltre alle norme consuetudinarie generali vi sono
anche consuetudini particolari che cioè vincolano una stretta cerchia di stati.
La figura della consuetudine particolare è certamente da ammettersi e la sua
applicazione più rilevante è fornita, più che da norme a carattere regionale,
dal diritto non scritto che può formarsi a modifica o abrogazione delle regole
poste da un determinato trattato: in altri termini, è possibile che le parti
contraenti diano vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo
pattuite.
Anche la consuetudine particolare è per definizione un fenomeno di gruppo e
come tale non scomponibile in relazione ai singoli stati. In altri termini, la
consuetudine regionale, o quella che si forma a modifica di un trattato, risulta
pur sempre dai contegni rilevabili in seno ad un gruppo di stati, senza che sia

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necessario indagare o provare che tutti gli stati appartenenti al gruppo


abbiano effettivamente contribuito a formarla.
Sulla possibilità che si formi una consuetudine tra le parti di un trattato anche bilaterale vi
è la sentenza del 2009 della CIG nel caso della controversia relativa ai diritti di navigazione
e a diritti connessi. In effetti, se il trattato è bilaterale, e la consuetudine nasce dal
comportamento di una delle parti senza obiezioni dell’altra parte, si può anche parlare di
acquiescenza.

Applicazione analogica del diritto consuetudinario. Le norme


consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica.
L’analogia, da intendersi come un’interpretazione estensiva, consiste
nell’applicare una norma ad un caso che essa non prevede ma i cui caratteri
essenziali sono analoghi a quelli del caso previsto. Nell’ambito del diritto
consuetudinario il ricorso all’analogia ha senso soprattutto con riguardo a
fattispecie nuove: le norme consuetudinarie possono essere applicate a
rapporti della vita sociale che non esistevano all’epoca della formazione della
norma. Gli esempi più banali in materia sono dati dall’applicazione delle
norme sulla navigazione marittima ai rapporti attinenti alla navigazione aerea
e, recentemente, dall’applicazione delle norme sulla navigazione aerea alla
materia della navigazione cosmica.
Altro ambito è quello relativo a diritti e obblighi degli stati nel cd ciberspazio,
vale a dire lo spazio virtuale nel quale è possibile la creazione, la modifica e lo
scambio di dati attraverso sistemi informatici interconnessi.
5.I principi generali di diritto riconosciuti dalla Nazioni Civili e i
principi generali propri dell’ordinamento internazionale.
Esistono altre norme non scritte?
Abbiamo detto che l’art 38 dello statuto della CIG annovera tra le fonti di
diritto internazionale “i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni
civili”. Secondo l’interpretazione più comune di questo articolo, si tratterebbe
di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o consuetudinarie
applicabili ad un caso concreto. Quindi, il ricorso ai principi generali del
diritto rappresenterebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le
lacune del diritto pattizio o consuetudinario, ed andrebbe effettuato prima di
concludere che obblighi internazionali non sussistano in ordine ad un caso
concreto. Si tratta, nello specifico, di una prassi sempre più seguita nei
rapporti internazionali, specialmente nei tribunali arbitrali
Tra i più recenti casi di applicazione di un p. generale di diritto da parte di una corte
arbitrale vi è quello del 2011 con riferimento all’ICSID a cui fa capo un sistema di arbitrato
per le controversie tra imprese investitrici e stati che ricevono l’investimento. Nella specie

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il principio applicato dal tribunale è che un soggetto non possa invocare lo stato di
necessità per venire meno ai suoi impegni se ha contribuito a crearlo.

Il tema del valore dei principi generali di diritti riconosciuti dalle nazioni civili
nel sistema delle fonti internazionali ha suscitato vaste polemiche e varietà di
opinioni in dottrina; obiettivamente non è facile orientarsi nella materia.
Senza dubbio ogni ordinamento giuridico ammette il ricorso ai principi
generali in mancanza di norme specifiche e non si vede perché lo stesso non
debba ammettersi nell’ambito del diritto internazionale: qui, l’unico
“problema” è che detti principi non sono ricavati per astrazione dalle stesse
norme internazionali ma prelevati dagli ordinamenti degli stati civili.
I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili come norme
consuetudinarie. A nostro avviso due condizioni debbono sussistere perché
principi statali possano essere applicati a titolo di principi generali di diritto
internazionale: a) occorre che essi esistano e siano uniformemente applicati
nella più gran parte degli stati; b) occorre che essi siano sentiti come
obbligatori o necessari anche dal punto vista internazionale.
Così intesi i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili non
costituiscono altro che una categoria sui generis di norme consuetudinarie
internazionali, rispetto alle quali la diuturnitas è data dalla loro uniforme
previsione e applicazione da parte degli stati all’interno dei rispettivi
ordinamenti. Per quanto riguarda l’opinio juris sive necessitatis essa è
certamente presente in tutte quelle regole che sono intese da tutti gli organi
dello stato come aventi un valore universale e quindi come necessariamente
applicabili in qualsiasi ordinamento giuridico e, quindi, anche in quello
internazionale.
Il ricorso ai principi generali di diritto è particolarmente attuato nella materia della
punizione di crimini internazionali ad opera di tribunali internazionali penali, in
particolare dei tribunali per i crimini commessi nella ex Iugoslavia e nel Ruanda.

Nella prospettiva, sin qui delineata, i principi generali di diritto comuni agli
ordinamenti statali finiscono col perdere la loro caratteristica di principi
destinati soltanto a colmare le lacune del diritto internazionale; il loro
rapporto con le vere e proprie norme consuetudinarie viene ad essere il
normale rapporto tra norme di pari grado (norma posteriore abroga
l’anteriore; la norma speciale deroga quella comune).
Principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili e giudici interni .
Abbiamo detto che uno dei requisiti per l’esistenza di un principio generale di
diritto comune agli ordinamenti statali è che esso sia uniformemente seguito
nella più gran parte (e non nella totalità) degli stati. Ne deriva che la
ricostruzione di un principio generale può consentire al giudice di uno stato di

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farne applicazione anche quando, per un motivo qualsiasi, il principio


medesimo non esista nell’ordinamento statale: ciò sempre che l’ordinamento
interno imponga l’osservanza del diritto internazionale.
Ad esempio, i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti statali
fanno parte, al pari di vere e proprie norme internazionali consuetudinarie,
dell’ordinamento italiano in virtù dell’art 10, primo comma, della costituzione
(“l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute”). Dato che, in virtù dell’art 10, la contrarietà di
una legge ordinaria italiana al diritto internazionale generale comporta
l’illegittimità costituzionale della medesima, tale illegittimità potrà dichiararsi
anche in caso di contrarietà ad un principio generale riconosciuto dalle
nazioni civili.
Il tema è stato frettolosamente trattato nella sentenza della cassazione del 71 la n.2134 in
una controversia di lavoro conseguente a licenziamento. Il lavoratore aveva sollevato
un’eccezione di incostituzionalità dell’art 2118 codice civile, in tema di licenziamenti, alla
luce dell’art 10, primo comma, della costituzione, sostenendo la contrarietà dell’art 2118 ad
una norma di diritto inter. generalmente riconosciuta ricavabile dal fatto che
“l’ordinamento interno di molti paesi tutela maggiormente i lavoratori contro i
licenziamenti arbitrari”. La cassazione respinge l’eccezione, osservando che in campo
internazionale, in materia, esistono “semplici raccomandazioni”. Senza dubbio l’eccezione
era infondata, per la mancanza di una communis opinio nel senso della necessità
“internazionale” di un certo grado di tutela del lavoratore contro i licenziamenti.
Altra sentenza notevole in materia è la n.48 del 67 relativa al ne bis in idem internazionale.
La sentenza affronta il problema della incostituzionalità ex art 10 della costituzione dell’art
11 del cp (possibilità di sottoporre a nuovo giudizio in Italia chi sia stato già giudicato
all’estero per reati commessi in Italia). Era stato, infatti, sostenuto che l’art 11, 1 comma,
contrastasse col principio del ne bis in idem e che questo fosse un principio generale di
diritto (processuale) riconosciuto in tutti gli ordinamenti. La corte respinge la tesi
dell’incostituzionalità, fondandosi sulla circostanza che in nessuno ordinamento statale il
principio del ne bis in idem è previsto in rapporto alle sentenze penali straniere.
Soluzione identica è adottata dalla corte nella sentenza del 76 la n. 69 rispetto al quale la
questione è stata poi ripresa anche nel 2019; la corte di cassazione ha rivalutato le sue
posizioni, descrivendo il principio del ne bis in idem come valore tendenziale cui si ispira
l’ordinamento internazionale.

Accanto ai principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, il diritto


internazionale contemporaneo riconosce una seconda categoria di “principi
generali” che, a differenza dei primi, sono principi che informano
l’ordinamento internazionale nel suo complesso e che vengono quindi ricavati
attraverso un processo di induzione e generalizzazione dal tessuto normativo
vigente.
I principi generali del diritto internazionale assolvono una triplice funzione:
a) stimolano la produzione di nuove norme; b) forniscono una nuova

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interpretazione delle norme preesistenti; c) contribuiscono alla integrazione


dell’ordinamento giuridico.
6.Altre presunte norme generali non scritte.
L’equità.
L’equità. Essa è definita come il comune sentimento del giusto e dell’ingiusto
e in particolare ci si chiede se all’equità possa ricorrere il giudice
internazionale o interno che sia chiamato a risolvere una questione di diritto
internazionale. A noi sembra che, a parte l’equità infra o secundum legem
(ossia la possibilità di utilizzare l’equità come ausilio meramente
interpretativo) e a parte il caso in cui un tribunale arbitrale internazionale sia
espressamente autorizzato a giudicare “ex equo et bono”, la risposta debba
essere negativa.
L’equità svolge un ruolo importante nell’ordinamento inglese ma, negli
ordinamenti internazionali, è da escludere non solo l’equità contra legem
(contraria a norme consuetudinarie o pattizie), ma anche l’equità praeter
legem (diretta a colmare lacune del diritto internazionale se il dir. inter. è
lacunoso ciò significa che gli stati non hanno obblighi da osservare o diritti da
pretendere, e l’equità non può essere idonea a crearli.
Equità e ruolo dei giudici internazionali e interni. Ciò premesso, a noi sembra
che l’equità vada propriamente inquadrata nel procedimento di formazione
del diritto consuetudinario. In effetti, se si esamina la giurisprudenza interna
ed internazionale, ci si rende conto che spesso il ricorso all’equità si atteggia
come una sorte di opinio juris sive necessitatis, anzi di opinio necessitatis, in
quanto esso ha luogo nel momento in cui una norma si va formando o
modificando.
Per quanto attiene la giurisprudenza interna, considerazioni di equità sono ad
esempio alla base dei vari mutamenti di indirizzo nel campo delle immunità
degli stati stranieri dalla giurisdizione.
Quando la giurisprudenza interna ricorre a considerazioni di equità nel
quadro del diritto consuetudinario, essa influisce direttamente sulla
formazione della consuetudine: le decisioni dei tribunali interni costituiscono,
infatti, come si vede una delle categorie più importanti di comportamenti
statali, dai quali la consuetudine va dedotta. L’influenza è diretta, ma relativa,
trattandosi di una decisione che, per quanto possa essere autorevole se presa
da una corte suprema, proviene pur sempre da un singolo stato.

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Il discorso è diverso per le decisioni dei tribunali internazionali. Qui, infatti,


l’influenza è indiretta anzi, quando a pronunciarsi è la CIG (quale organo
giudiziario principale delle nazioni unite), l’influenza è massima.
7.Inesistenza di norme generali scritte.
La codificazione del diritto consuetudinario.
Dobbiamo ora capire se esistono norme internazionali generali scritte. Tale
problema si pone, anzitutto, con riguardo alle grandi convenzioni di
codificazione promosse dalle nazioni unite.
Il fenomeno della codificazione del dir. inter generale (consuetudinario), mediante
convenzioni multilaterali, data dalla fine del 19 secolo. Fino alla prima guerra mondiale
furono le norme del cd diritto internazionale bellico ad essere trasfuse in testi scritti:
vennero così concluse le convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre;
convenzioni cui ci si è rifatti anche durante la seconda guerra mondiale.

In linea di massima è con le nazioni unite che l’opera di codificazione ha preso


un effettivo slancio, traducendosi in una serie di trattati multilaterali. NB
non esistendo, nell’ambito internazionale, un’autorità dotata di poteri
legislativi, il trattato è l’unico strumento adoperabile per la trasformazione del
diritto non scritto in diritto scritto.
Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite. L’art 13 della carta
delle Nazioni Unite prevede che l’assemblea generale intraprenda studi e
faccia raccomandazioni per “incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto
internazionale e la sua codificazione…”. Sulla base di questa disposizione
l’assemblea costituì, come proprio organo sussidiario, la commissione di
diritto internazionale delle nazioni unite (CDI). La commissione, composta da
esperti che vi siedono a titolo personale (non rappresentando alcun governo)
ha il compito di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle
norme consuetudinarie relative a determinate materie, procedendo a studi,
inviando questionari agli stati, raccogliendo dati dalla prassi ecc.
La commissione ha finora predisposto varie convenzioni di codificazione,
coprendo quasi tutti i settori del diritto internazionale.
Convenzioni di codificazioni proposte dall’ONU. Le principali convenzioni sono:
Convenzione di Vienna (1961) sulle relazioni ed immunità diplomatiche; Convenzione sulle
missioni speciali (1969); Convenzione di Vienna (1963) sulle relazioni consolari;
Convenzioni di Ginevra (1958) sul diritto del mare; Convenzione di Vienna (1969) sul
diritto dei trattati; Convenzione di Vienna (1986) sul diritto dei trattati conclusi da Stati
con organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali; Convenzione di
Vienna (1978) sulla successione degli Stati nei trattati; Convenzione di Vienna (1983) sulla
successione di Stati in materia di beni, archivi e debiti di Stati; Convenzione di Montego
Bay (1982) sul diritto del mare; Convenzione sul diritto relativo alle utilizzazioni dei corsi

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d’acqua internazionali a fini diversi dalla navigazione (1997); Convenzione sull’immunità


giurisdizionale degli Stati e dei loro beni (2004).

La Commissione non è l’unico organismo in seno al quale si predispongono


progetti di accordi di codificazione: l’Assemblea generale ha spesso convocato
conferenze di Stati in seno alle quali anche il progetto è stato redatto oppure
la redazione del progetto è stata affidata ad organi sussidiari come i Comitati
ad hoc. Rispetto alle convenzioni progettate dalla Commissione la loro
particolarità sta nel fatto che anche il progetto non è frutto del lavoro di
individui indipendenti ma di individui rappresentanti gli Stati.
Convenzioni di codificazioni e stati terzi. Gli accordi di codificazione, in
quanto comuni accordi internazionali, vincolano gli stati contraenti. Ma,
hanno valore anche per quelli non contraenti? Secondo il nostro manuale
bisogna essere molto cauti nel poter affermare una cosa del genere e quindi
nel considerare gli accordi di codificazione come corrispondenti al diritto
consuetudinario generale e quindi nell’estenderli agli stati non contraenti.
Ciò per varie ragioni.
Prima considerazione non è il caso di riporre una fiducia illimitata
nell’opera di codificazione svolta dalla CDI proprio perché in essa, talvolta,
influisce in maniera rilevante la mentalità dell’interprete.
Seconda considerazione gli stati cercheranno, oltremodo, di far prevalere le
proprie convinzioni e di assicurarsi soprattutto la salvaguardia dei propri
interessi.
Terza considerazione rispetto all’13 della carta delle nazioni unite il quale
parla non solo di codificazione ma anche di “sviluppo progressivo” del diritto
internazionale.
Quindi, si può affermare che gli accordi di codificazione vanno considerati
come dei normali accordi internazionali e quindi vincolano solo le parti
contraenti e cioè valgono solo per gli stati che li ratificano.
L’accordo di codificazione costituisce quindi un valido punto di partenza per
l’interprete che deve ricostruire delle norme generali consuetudinarie, ma egli
dovrà tuttavia compiere un’ulteriore verifica restando sempre da dimostrare
che le norme contenute nell’accordo corrispondano alla prassi degli Stati; e
solo se la verifica risultasse positiva egli potrà applicare la norma dell’accordo
di codificazione a titolo di diritto generale.
Ricambio delle norme codificate. Ammesso pure che l’accordo di codificazione
corrisponda perfettamente al diritto internazionale consuetudinario al
momento della sua redazione, è ben possibile che in epoca successiva, il

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diritto consuetudinario subisca dei cambiamenti per effetto della mutata


pratica degli Stati. Nessun dubbio sorge circa l’inapplicabilità agli Stati non
contraenti di una norma codificata ma non più corrispondente al diritto
internazionale generale.
Per quanto riguarda gli Stati contraenti, la mancanza di un’autorità
nell’ambito della comunità internazionale impedisce che si instauri quel
rapporto tra diritto consuetudinario e diritto scritto che è tipico degli
ordinamenti statali e che consiste nel valore puramente ausiliario del primo
nei settori dove esiste il secondo: consuetudini e accordi sono in linea di
principio fra loro derogabili e nulla vieta dunque che il diritto
consuetudinario successivo abroghi quello pattizio anteriore. L’interprete
deve essere estremamente sicuro della prassi da cui intende estrarre la norma
consuetudinaria abrogatrice e deve dimostrare che la consuetudine si è
formata col concorso degli Stati contraenti e che questi la intendano
applicabile anche nei rapporti inter se.
Codificazioni private. Esistono anche delle codificazioni private del diritto
internazionale. A parte l’uso, praticato in passato da alcuni autori, di scrivere i
loro manuali in forma codificatoria, va fatta soprattutto menzione all’Institut
de Droit International (IDI), fondato da 11 studiosi europei. Si tratta di
un’associazione a numero chiuso, composta da studiosi di diritto
internazionale. Dal 1873, l’IDI si riunisce in seduta plenaria ogni due anni con
lo scopo, appunto, di codificare il diritto internazionale.
8.Le dichiarazioni di principi dell’assemblea generale dell’ONU.
Fin dai primi anni di vita, l’assemblea ha seguito la prassi di emanare, in
forma più o meno solenne, delle dichiarazioni contenenti una serie di regole
che talvolta riguardano rapporti fra stati ma più spesso riguardano rapporti
interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri
sudditi o con gli stranieri.
Principali dichiarazioni. Tra le principali dichiarazioni è da ricordare la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) ma anche altre
risoluzioni: sul genocidio, sui diritti del fanciullo, sul divieto dell’uso di armi
nucleari e termonucleari e così via; nel 2006 abbiamo la dichiarazione
sull’AIDS.
Carattere non vincolante delle dichiarazioni. Le dichiarazioni di principi non
costituiscono un’autonoma fonte di norme internazionali generali.
L’assemblea generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi mondiali
(l’atto tipico che essa può emanare in base alla Carta è la raccomandazione) e
il carattere non vincolante delle sue risoluzioni, ivi comprese le dichiarazioni

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di principi, è difeso con forza da una parte non indifferente dei suoi membri,
come i Paesi occidentali. Le dichiarazioni svolgono un ruolo importante ai fini
dello sviluppo del diritto internazionale e del suo adeguamento alle esigenze
di solidarietà e di interdipendenza sempre più sentite al mondo d’oggi.
Dichiarazioni e diritto consuetudinario. Per quanto riguarda il diritto
consuetudinario, le dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua
formazione, in quanto prassi degli stati, in quanto somma degli atteggiamenti
degli stati che le adottano, e non come atti dell’ONU.
Le dichiarazioni come accordi. Circa il diritto pattizio, certe dichiarazioni
hanno valore di veri e propri accordi internazionali: sono quelle dichiarazioni
che equiparano l’inosservanza dei principi espressi alla violazione della Carta.
Ma poiché l’assemblea non ha poteri interpretativi obbligatori per i singoli
Stati, anche tali dichiarazioni restano mere raccomandazioni. È vero però che,
equiparandosi l’inosservanza di un certo principio all’inosservanza della carta,
gli Stati che partecipano col loro voto favorevole all’atto intendono obbligarsi.
Le dichiarazioni inquadrabili come accordi vanno propriamente considerate,
in vista del modo in cui vengono in essere, come accordi in forma
semplificata.
9.I trattati.
Procedimento di formazione e competenza a stipulare.
Parliamo ora dell’accordo, quale importante fonte di norme particolari.
Per indicare gli accordi parliamo anche di trattato, convenzione e patto. Ma,
talvolta, parliamo anche di carta o statuto per i trattati istitutivi di
organizzazioni internazionali o anche di scambio di note per l’accordo
risultante dallo scambio di note diplomatiche ecc.
Pur cambiandone il nome, la natura dell’accordo non cambia e questa è quella
propria degli atti contrattuali l’accordo internazionale può essere definito
come l’unione (o meglio l’”incontro”) delle volontà di due o più stati, dirette a
regolare una determinata sfera di rapporti che riguardano questi ultimi.
Norme pattizie materiali e strumentali. I trattati possono dar vita a regole
materiali, cioè norme che direttamente disciplinano i rapporti fra destinatari
(nella specie, le parti contraenti del trattato) imponendo obblighi o
attribuendo diritti; ma anche a regole strumentali o formali, cioè norme che
si limitano ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme, pensiamo ai
trattati istitutivi di organizzazioni internazionali.
Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. Come i contratti nel
diritto interno, i trattati internazionali sottostanno ad una serie di norme

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consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di formazione nonché i


requisiti di validità ed efficacia. Tale complesso di regole forma il cd diritto
dei trattati, cui è dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 (in vigore dal
1980 e ratificata dall’Italia nel 1974). Vanno menzionate anche la
Convenzione di Vienna del 1978 (in vigore dal 1996), sulla successione degli
stati nei trattati, e la Convenzione di Vienna del 1986 (mai entrata in vigore),
sui trattati stipulati fra Stati e Organizzazioni internazionali o fra
Organizzazioni internazionali.
Sfera di applicazione della Convenzione di Vienna. L’art 4 di questa convenzione
stabilisce: “fatta salva l’applicazione delle regole contenute nella presente convenzione alle
quali i trattati sarebbero sottoposti in virtù del diritto internazionale indipendentemente
dalla convenzione medesima, questa si applica unicamente ai trattati conclusi tra Stati
dopo la sua entrata in vigore per tali Stati”. In questo modo, la seconda parte dell’articolo
prevede la irretroattività della convenzione; la prima parte contiene un principio
abbastanza ovvio e cioè che le regole produttive del diritto consuetudinario, proprio perché
corrispondenti al diritto generale, valgono per tutti gli stati e tutti i trattati.

Libertà di scelta del procedimento di formazione del trattato. Come si arriva


alla conclusione o stipulazione dell’accordo? Quando si verifica l’incontro
della volontà di due o più stati?
Il diritto internazionale lascia la più ampia libertà in materia di forma e
procedura per la stipulazione. L’accordo può così realizzarsi istantaneamente
o anche dopo complicate procedure, può essere scritto o orale, può essere
consegnato in un procedimento ad hoc oppure risultare dal processo verbale
di un organo internazionale e così via. Quando si descrive il “procedimento di
formazione dei trattati”, non solo non ci si può riferire a precise e vincolanti
norme giuridiche ma non possiamo neppure dare alla sua descrizione un
carattere tassativo.
Ciò premesso, oggi, il procedimento normale, o meglio solenne, di formazione
del trattato ricalca quello già seguito, secoli fa, all’epoca delle monarchie
assolute. In quell’epoca la stipulazione del trattato era materia di competenza
esclusiva del sovrano (nella qualità di capo dello stato). Esso era negoziato dai
suoi rappresentanti (cd “plenipotenziari”) in quanto titolari di pieni poteri per
la negoziazione; questi ultimi predisponevano il testo dell’accordo (che
doveva essere approvato all’unanimità) e lo sottoscrivevano. Seguiva poi la
ratifica da parte del sovrano con la quale questi attestava che i plenipotenziari
si erano attenuti al mandato ricevuto. Infine, affinché si formasse il trattato,
occorreva che la volontà ultima del sovrano fosse portata a conoscenza delle
controparti (e questo avveniva attraverso lo scambio delle ratifiche).
Le fasi descritte (negoziazione, firma, ratifica, scambio delle ratifiche) oggi
sono ancora in uso.

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Negoziazione. Anche oggi il procedimento normale di formazione dell’accordo


si apre con i negoziati condotti dai plenipotenziari, i quali di solito sono
organi del potere esecutivo. Tale fase è tanto più complessa quanto più
numerosi sono gli stati che partecipano alla negoziazione medesima e
importante è la materia da regolare.
Negoziazione dei trattati multilaterali. La vecchia regola dell’unanimità va
cedendo il passo al principio della maggioranza; talvolta le due regole si
combinano, come avviene allorché si prevede che la votazione a maggioranza
abbia luogo solo dopo che sia stato compiuto ogni sforzo per giungere ad
un’adozione accordata.
Firma. I negoziati si chiudono con la firma da parte dei plenipotenziari. La
firma è idonea a vincolare lo stato al rispetto del trattato.
Ratifica. La manifestazione di volontà con cui lo stato si impegna si ha con la
ratifica; la competenza a disciplinare è disciplinata da ogni singolo stato con
proprie norme costituzionali. Può dirsi che essa rientra tuttora nelle
attribuzioni del capo dello stato, ma che la competenza di quest’organo è
possibile possa concorrere sia con quella del potere esecutivo (salva,
ovviamente, l’ipotesi in cui il capo dello stato sia anche il capo del governo) e
sia con quella degli organi legislativi.
Disciplina della ratifica nell’ordinamento italiano. Per quanto riguarda il
nostro ordinamento, l’art 87 della costituzione (comma 8) dispone che il
presidente della Rep ratifica i trattati internazionali previa, quando occorra,
l’autorizzazione delle camere; a sua volta l’art 80 specifica che l’autorizzazione
delle camere è necessaria, e va data con legge, quando si tratti di trattati che
hanno natura politica o comportano, ad esempio, variazioni del territorio
nazionali o modificazioni di leggi. Le due norme vanno poi combinate con la
regola di cui all’art 89 secondo cui “nessun atto del presidente della Rep è
valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la
responsabilità”. NB la ratifica rientra tra quegli atti che il presidente della
Rep non possa rifiutarsi di sottoscrivere una volta intervenuta la delibera
governativa ma di cui possa soltanto sollecitare il riesame prima della
sottoscrizione: ciò significa che in Italia il potere di ratifica è, quanto al
contenuto, nelle mani dell’esecutivo.
Circa i rapporti tra presidente della Rep e governo si discute nella dottrina
costituzionalistica sull’esatta natura dell’intervento presidenziale. Alcuni sostengono che il
capo dello stato partecipi, con la sottoscrizione alla formazione dell’atto; altri ritengono
invece che egli resti estraneo al provvedimento.
Rapporti tra parlamento e governo in tema di ratifica dei trattati. Circa i
rapporti tra parlamento e governo vi è concordia nel ritenere che una volta intervenuta la

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legge di autorizzazione ai sensi dell’art 80 cost, il governo possa stabilire discrezionalmente


il tempo in cui procedere alla ratifica. Si discute se la discrezionalità del governo possa
spingersi fino ad un rinvio sine die della ratifica medesima. Sembra questo il caso della
Convenzione di Oviedo del 97 su Diritti umani e biomedicina, entrata in vigore nel 99. Con
la legge del 2001 è stata autorizzata la ratifica della convenzione ma, fino ad oggi, il
governo non ha provveduto a depositare lo strumento di ratifica presso il segretario
generale del consiglio d’Europa e quindi l’Italia non è internazionalmente obbligata ad
osservare la convenzione.
Il tema della discrezionalità del governo nella gestione del trattato, la cui conclusione sia
stata autorizzata dal parlamento, ha applicazioni pratiche notevoli in ordine ad una serie di
questioni e, nel risolvere tali questioni alla luce dei nostri principi costituzionali, occorre
sempre mantenere distinti due profili: il primo è quello della valida formazione e
manifestazione della volontà dello stato nel campo delle relazioni internazionali; il secondo
è quello della responsabilità delle formazioni governative che si succedono in carica di
fronte alle assemblee parlamentari e dei controlli che queste ultime esercitano, con
strumenti ispettivi (interpellanza, mozioni, ecc) sulla politica estera governativa.

Oltre al termine “ratifica” si usa anche quello di “approvazione” o anche


“conclusione”. Alla ratifica equipariamo anche l’adesione che si ha, nel caso di
trattati multilaterali, quando la manifestazione di volontà diretta a concludere
l’accordo promana da uno stato che non ha preso parte ai negoziati. Affinché
una simile volontà abbia efficacia è necessario che la partecipazione
all’accordo di stati diversi da quelli che hanno concordato il testo sia prevista
nel testo medesimo (clausola di adesione) e, quindi, occorre che il trattato sia
aperto.
L’adesione di cui parliamo implica partecipazione diretta al trattato multilaterale (aperto)
da parte dello stato che è rimasto estraneo ai negoziati. Diverso è il caso dell’adesione che
si esprime attraverso un nuovo accordo tra i contraenti di un determinato trattato e uno
stato terzo, accordo che è formalmente del tutto autonomo e che necessita non solo della
ratifica dello stato terzo ma anche di quella dei contraenti del primo trattato (es: accordo
per aderire all’Unione Europea).

Scambio o deposito delle ratifiche. Il procedimento di formazione si conclude


con lo scambio o con il deposito delle ratifiche: nel primo caso l’accordo si
perfeziona istantaneamente, mentre nel secondo, via via che le ratifiche
vengono depositate, l’accordo si forma tra gli Stati depositanti (di solito, però,
si prevede nel testo del trattato che quest’ultimo non entri in vigore, neppure
fra gli Stati depositanti, finché non si raggiunga un certo numero di ratifiche).
Allo scambio e al deposito, l’art. 16 della Convenzione di Vienna aggiunge la
notifica agli Stati contraenti o al depositario.
Registrazione dei trattati. Secondo l’art. 102 della Carta ONU ogni trattato o accordo
internazionale “deve” essere registrato presso il Segretariato delle Nazioni Unite e
pubblicato a cura di quest’ultimo: unica conseguenza dell’omessa registrazione è
l’impossibilità di invocare il trattato innanzi ad un organo delle Nazioni Unite. La
registrazione non è dunque un requisito di validità del trattato. Normalmente, tutti gli

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accordi internazionali sono pubblicati nella raccolta ufficiale dell’ONU, la United Nations
Treaty Series.

Procedimenti particolari di formazione dei trattati. Quello fin qui descritto è


il procedimento formale o solenne; può accadere, però, che gli stati seguano
procedimenti diversi. Le procedure alternative possono distinguersi a seconda
che sfocino comunque nella ratifica oppure si caratterizzano per un differente
modo di manifestazione della volontà da parte degli stati.
Tra le prime inquadriamo le numerose variazioni che nella prassi subiscono le
fasi dei negoziati e della firma; ricordiamo, ad esempio, che per molti trattati
predisposti da organizzazioni internazionali, alla negoziazione diretta si
sostituisce la discussione e l’approvazione da parte di un organo (di solito
l’organo assembleare) dell’organizzazione.
La firma differita, quindi, non ha più solo la funzione di autenticazione del
testo e neppure comporta, dovendo essere seguita dalla ratifica, alcuna
partecipazione dello stato al trattato: essa costituisce una generica
dichiarazione di disponibilità.
Accordi in forma semplificata. Passando alle procedure nelle quali la
manifestazione di volontà dello stato diretta ad incontrarsi con quella degli
altri stati non consiste nella ratifica, occorre richiamare l’attenzione sul
fenomeno dei cd accordi in forma semplificata (accordi informali) accordo
concluso con la sola sottoscrizione del testo da parte del rappresentante dello
stato e che si ha quando, dal testo stesso o comunque dai comportamenti
concludenti delle parti, risulti che le medesime hanno appunto inteso
attribuire alla firma il valore di piena e definitiva manifestazione di volontà.
L’art. 12 della Convenzione di Vienna dice che “Il consenso di uno Stato ad
essere vincolato da un trattato è espresso dalla firma del rappresentante di
questo Stato: a) quando il trattato prevede che la firma avrà tale effetto; b)
quando è in altro modo stabilito che gli Stati partecipanti ai negoziati abbiano
convenuto di attribuire tale effetto alla firma; c) quando l’intenzione dello
Stato di dare tale effetto alla firma risulta dai pieni poteri del suo
rappresentante o è stato espresso nel corso della negoziazione”.
Si evince, quindi, come l’accordo possa essere anche “misto” e cioè concluso in forma
semplificata da alcuni stati e mediante ratifica da parte di altri.

Alla categoria degli accordi in forma semplificata sono da riportare anche gli
scambi di note diplomatiche o di altri strumenti simili, sempre che dagli
strumenti medesimi o aliunde si ricavi l’intenzione delle parti di vincolarsi
immediatamente.

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Accordi in forma semplificata e intese non giuridiche. Chiariamo un punto:


per aversi un accordo in f.s. non è sufficiente che la fase della ratifica sia
saltata ma è anche necessario che dal testo dell’accordo o dalle circostanze,
risulti una sicura volontà di obbligarsi. Questo va detto perché la prassi
internazionale conosce numerosi casi di intese tra governi, cui spesso di dà
anche il nome di accordi e di Memorandum d’intesa, ma che certamente non
hanno natura di veri e propri accordi.
Simili intese, non pretendendo di avere natura giuridica, valgono finché
valgono. Pensiamo all’atto finale della conferenza del 75 sulla sicurezza e la
cooperazione in Europa (“accordi di Helsinki”) e altri: accordi importanti dal
punto di vista politico ma che non possono considerarsi come produttivi di
effetti giuridici.
Applicazione provvisoria dei trattati. In una zona di confine tra intese non giuridiche
e accordi in f.s. si collocano gli accordi sull’applicazione provvisoria dei trattati, che si
hanno quando, nel testo stesso di un trattato o anche con dichiarazioni separate, le parti
prevedono che il trattato si applichi provvisoriamente in attesa della sua entrata in vigore.
Questi accordi secondo alcuni sono intese prive di carattere giuridico; secondo altri sono
accordi in f.s. e come tali vincolanti.
Accordi giuridici non vincolanti: possono essere revocati in ogni momento
unilateralmente. Pensiamo ai trattati segreti (la cui stipulazione è vietata ma già dal diritto
interno).
Competenza a concludere accordi semplificati secondo l’ordinamento
italiano. La competenza a concludere accordi in f.s., al pari della competenza
a ratificare, è regolata da ciascuno stato con proprie norme costituzionali. In
altri termini, il diritto costituzionale di ciascuno stato stabilisce fino a che
punto l’esecutivo possa concludere un accordo senza ricorrere alla procedura
della ratifica.
Per quanto attiene l’ordinamento italiano, appare convincente la tesi secondo
cui la stipulazione in f.s. sarebbe assolutamente da escludere solo quando
l’accordo appartenga ad una delle categorie di cui all’art 80 (trattati che
hanno natura politica, che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, che
importano variazioni del territorio o modificazioni di leggi); in tutti gli altri
casi il potere esecutivo sarebbe libero di decidere, insieme alle altre parti
contraenti, se dare all’accordo forma solenne (facendo quindi intervenire la
ratifica da parte del capo dello stato) oppure stipulare direttamente.
La categoria degli accordi in forma semplificata è riconosciuta dal legislatore: la l. 839/84,
nel riordinare la materia della pubblicazione degli atti normativi della Repubblica italiana
nella Gazzetta Ufficiale, prevede, all’art. 1, che tale pubblicazione avvenga per “…gli accordi
ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali, ivi compresi quelli in forma
semplificata…”. Un limite alla competenza del Governo a stipulare accordi in forma

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semplificata è dato dal divieto, che la prevalente dottrina considera come implicitamente
previsto dalla Costituzione, di concludere accordi segreti.

Diffusioni degli accordi in forma semplificata nella prassi. La prassi degli


accordi in f.s. trova giustificazioni in motivi di speditezza e praticità
corrispondenti alle necessità dei tempi moderni. La prassi degli accordi in
forma semplificata trova origine in quegli executive agreements statunitensi,
stipulati dal Presidente ed esenti da ratifica (generalmente di competenza del
Senato), che hanno per oggetto materie tecnico-amministrative e materie che
rientrano nelle competenze del Presidente quale Comandante delle forze
armate e responsabile della politica estera.
Trattati conclusi in violazione di norme interne sulle competenze a stipulare.
Un problema fondamentale in materia di formazione dell’accordo
internazionale è il seguente: se l’organo che stipula l’accordo, cioè manifesta
(con la ratifica o in un altro modo) la volontà dello stato di aderire al trattato,
non ha competenza o comunque non segue forme o procedure previste dal
diritto interno; quali conseguenze ne derivano sul piano internazionale? si
ritiene che il trattato sia ugualmente valido o meno?
In pratica: se il potere esecutivo si impegna autonomamente e
definitivamente sul piano internazionale relativamente a materie per le quali
la costituzione richiede il concorso del parlamento (e sia pure formalmente,
del capo dello stato), che valore ha siffatto impegno dal punto di vista
internazionale?
Casi si violazione di norme italiane sulla competenza a stipulare. Il problema
ha molta importanza in Italia perché, abbiamo detto, non mancano i casi in
cui il nostro governo ha usato la forma semplificata di stipulazione, per lo più
adducendo motivi connessi alla politica internazionale, anche per gli accordi
che chiaramente rientravano nelle categorie di cui all’art 80 della cost e per i
quali occorreva, quindi, l’intervento del parlamento, sotto la forma della legge
di autorizzazione alla ratifica, e la ratifica da parte del presidente della Rep.
Tra gli esempi più significativi ricordiamo: la domanda di ammissione
dell’Italia alle nazioni unite, avvenuta con un atto del nostro ministero degli
esteri.
La maggior parte degli scrittori che si sono occupati dell’argomento,
concordano nell’escludere soluzioni radicali sia in senso “internazionalistico”
e sia in senso “internistico”. Quindi: si esclude così da un lato che per il diritto
internazionale i trattati stipulati direttamente dall’esecutivo siano in ogni caso
validi e che l’esecutivo abbia, cioè, lo jus rapraesentationis omnimodae; e si
esclude, dall’altro, che qualsiasi vizio, anche solo formale o procedurale dal

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punto di vista del diritto interno, possa inficiare la validità internazionale


dell’accordo.
Soluzione accolta dall’art 46 della Convenzione di Vienna. Ripudiate queste
soluzioni estreme, una soluzione che, pur potendosi definire eclettica, è di per
sé abbastanza vicina a quella internazionalistica è quella dell’art 47 della
convenzione di Vienna, che stabilisce: “1) Il fatto che il consenso di uno Stato ad
essere vincolato da un trattato sia stato espresso in violazione di una regola del suo
diritto interno sulla competenza a stipulare trattati non può essere invocato da tale Stato
come vizio del suo consenso, a meno che la violazione non sia manifesta e non concerna
una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale. 2) Una violazione è
manifesta se obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia
secondo la prassi abituale e in buona fede”. Si ritiene che l’art 46 corrisponde al
diritto internazionale generale quando codifica il principio che la violazione di
norme interne di importanza fondamentale in tema di competenza a stipulare
sia causa di invalidità del trattato; una violazione del genere si ha quando sia
mancato, nelle materie elencate nell’art 80 della costituzione, il concorso del
Parlamento.
Non corrisponde al diritto consuetudinario nella parte in cui enuncia il
principio della buona fede: l’accordo concluso dall’esecutivo senza la relativa
competenza costituzionale resta un’intesa priva di carattere giuridico;
acquista tale valore nel momento in cui l’organo messo da parte manifesti,
implicitamente o esplicitamente, il suo assenso, e purché esso adoperi lo
stesso strumento formale (la legge, per quanto riguarda l’ordinamento
italiano, nelle materie elencate dall’art 80 cost) previsto dalla Costituzione per
il suo intervento.
Figure intermedie fra gli accordi in forma semplificata e gli accordi solenni sono gli accordi
che espressamente subordinano la propria entrata in vigore alla comunicazione, da parte
di ciascun Governo firmatario, che sono state adempiute le procedure previste dal diritto
interno per “rendere applicabile nel territorio dello Stato” l’accordo medesimo. Quando tali
accordi toccano materie rientranti nell’art. 80 devono ricevere anch’essi l’assenso del
Parlamento con una legge di approvazione oppure con una legge contenente l’ordine di
esecuzione.

Accordi conclusi dalle regioni. Le regioni possono concludere accordi


internazionali? Circa la capacità delle Regioni di concludere accordi
internazionali, la Corte costituzionale prese in un primo tempo una posizione
drastica in senso antiregionalista, affermando in linea di principio
l’incompetenza degli organi regionali in tema di “formulazione di accordi con
soggetti propri di altri ordinamenti”. La materia venne poi regolata dal D.P.R.
n. 616/77, che riservava allo Stato le funzioni relative ai rapporti
internazionali nelle materie trasferite e delegate alle Regioni e faceva divieto
alle Regioni di svolgere “attività promozionali all’estero” senza il preventivo

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assenso governativo. Significativa è la sent. n. 179/87 nella quale,


capovolgendosi il primitivo orientamento, si sostiene che le Regioni,
procuratesi il previo assenso del Governo centrale, possano stipulare non solo
intese di rilievo internazionale, ma addirittura “accordi in senso proprio”, tali
“da impegnare la responsabilità dello Stato” e purché si tratti di accordi che
riguardino materie di competenza regionale e non rientranti nelle categorie
previste dall’art 80 cost.
La materia è ora regolata dalla legge cost. n. 3/2001 che prevede la
competenza della Regione, nelle materie di sua competenza, a “concludere
accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e
con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. I casi e le forme sono
disciplinati dalla L. n. 131/2003 che prevede il preventivo conferimento di
pieni poteri alla Regione da parte del Governo, configurando la competenza
della Regione come competenza a stipulare per conto dello Stato, e quindi
impegnando la responsabilità dello Stato.
Le iniziative regionali dirette a collaborare con analoghi enti stranieri sono, in
realtà, dei programmi, privi in sé di carattere giuridico, che costituiscono una
mera occasione per l’adozione di atti legislativi o amministrativi da parte delle
Regioni interessate.
Accordi delle organizzazioni internazionali. Diffuso nella prassi
contemporanea è il fenomeno degli accordi stipulati dalle organizzazioni
internazionali, sia fra loro, sia con stati membri oppure con stati terzi. A
siffatti accordi è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986 che riproduce
pedissequamente la Convenzione di Vienna del 1969. Occorre far capo allo
statuto di ciascuna organizzazione per stabilire quali sono gli organi
competenti a stipulare e quali le materie per cui siffatta competenza è
attribuita. Si può dire che una violazione grave delle norme statutarie sulla
competenza a stipulare comporti l’invalidità dell’accordo. Poiché le norme
contenute nel trattato istitutivo, come tutte le norme pattizie, sono
modificabili per consuetudine, la competenza a stipulare può anche risultare
da regola sviluppatesi nella prassi dell’organizzazione, purché si tratti di
prassi certa e sempre che non vi sia, come avviene per l’Unione Europea, un
organo giudiziario destinato a vegliare sul rispetto del trattato istitutivo, nel
qual caso il fattore determinante ai fini dell’eventuale sviluppo delle
competenze originarie diviene la giurisprudenza. L’art. 2 della Convenzione di
Vienna del 1986 precisa che per “norme dell’organizzazione” devono
intendersi “le norme statutarie, le decisioni e le risoluzioni adottate sulla base
delle norme medesime, e la prassi consolidata dell’organizzazione”.

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Gran parte degli accordi stipulati dalle organizzazioni sono i cd accordi di


collegamento che le organizzazioni stipulano fra loro per coordinare le
rispettive attività. Importanti sono gli accordi, stipulati con gli stati membri o
con stati terzi, che fissano il regime della sede delle organizzazioni o
attribuiscono immunità e privilegi ai loro funzionari.
10.Inefficacia dei trattati nei confronti degli stati terzi.
Incompatibilità tra norme convenzionali.
Pacta tertiis nec nocet nec prosunt. Abbiamo detto che le norme pattizie si
distinguono dalle norme di diritto internazionale generale proprio perché
valgono solo per gli stati che le pongono in essere. Per il trattato
internazionale vale ciò che si dice per il diritto interno: esso fa legge tra le
parti e solo tra le parti.
Diritti e obblighi per stati terzi non potranno derivare da un trattato se non
attraverso una qualche forma di partecipazione dei terzi al trattato medesimo.
Può essere che il trattato sia aperto e che, quindi, contenga una clausola di
adesione o accessione: questa prevede la possibilità che stati diversi dai
contraenti originari partecipino a pieno titolo all’accordo mediante una loro
dichiarazione di volontà; in questo caso, la posizione di questi stati in nulla
differisce giuridicamente da quella dei contraenti originari, l’adesione si
iscrive nel processo di formazione del trattato avendo efficacia pari alla
ratifica da parte dei contraenti originari e l’unica differenza tra stati aderenti e
contraenti originari sta nel fatto che i primi non hanno partecipato alla
elaborazione dell’accordo.
Può darsi, invece, che una clausola di adesione manchi o che comunque non
venga in rilievo la piena e formale partecipazione di uno stato ad una
convenzione già conclusa da altri, ma solo la possibilità che singoli diritti a
suo favore e singoli obblighi a suo carico discendano dalla convenzione
medesima: anche in questo caso dovrà dimostrarsi che diritti e obblighi siano,
in qualche modo, accettati dallo stato terzo e che l’eventualità
dell’accettazione sia, magari in modo implicito, prevista nel testo dell’accordo.
Trattati a favore di stati terzi. Le parti di un trattato possono sempre
impegnarsi a tenere comportamenti che risultino vantaggiosi per i terzi.
Esempi importanti di impegni del genere sono forniti ad es dagli accordi in
tema di navigazione sui fiumi, canali e stretti internazionali. Si tratta di
accordi che, pur intercorrendo tra un numero limitato di paesi, sanciscono di
solito la libertà di navigazione per le navi di tutti gli stati o almeno di tutti gli
stati rivieraschi.

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Altri esempi sono forniti da trattati che garantiscono l’integrità territoriale o


particolari status a determinati paesi, quando il paese interessato non
partecipi all’accordo: classico a riguardo è l’accordo di Parigi del 1856 con cui
Gran Bretagna, Francia e Austria, uniche parti contraenti, si impegnarono a
difendere l’integrità territoriale dell’impero ottomano. Ma questi vantaggi,
finché non si trasformino in diritti attraverso la partecipazione del terzo
all’accordo in uno dei modi che abbiamo già visto, possono essere revocati ad
libitum dalle parti contraenti.
L’obiezione del Kelsen deve essere presa “con le pinze”: secondo lui, infatti, il
fatto che i vantaggi derivanti al terzo possano essere revocati non toglierebbe
ad essi la natura di veri e propri diritti, così come non si può dire che,
nell’ordinamento statale, il legislatore non crei diritti per i cittadini dato che
esso, con leggi successive, può modificarli o abrogarli. L’obiezione è capziosa
perché tra legge interna e trattato a favore di terzi non è possibile istituire
paragoni: le parti contraenti del trattato, se vogliono negare al terzo i vantaggi
pattuiti, non hanno bisogno di stipulare un successivo trattato che
formalmente abroghi o modifichi il primo, ma possono negare detti vantaggi
in ordine a casi concreti, possono negarli in alcuni casi e riconoscerli in altri,
ecc; la legge, invece, non può essere disapplicata in ordine a singoli casi, non
essendovi altra alternativa oltre alla sua applicazione o alla sua abrogazione (o
modificazione).
Al riguardo è citabile la prassi relativa ai trattati sulla navigazione nelle acque
internazionali, prassi da cui si ricava che gli stati contraenti procedono alla revoca dei
vantaggi concessi ai terzi talvolta con successivi accordi formali e talvolta senza. Es del
primo genere protocollo addizionale n.2 all’atto di Mannheim, che ha compresso in
modo sensibile la libertà di navigazione sul Reno per le navi degli stati non contraenti,
modificando formalmente la convenzione di Strasburgo; es del secondo genere prassi
della commissione per il Danubio, commissione che in vari modi limitato la libertà di
navigazione sancita dalla convenzione di Belgrado.
Per quanto attiene i rapporti tra trattati e stati terzi che la CIG, nella sentenza 19.11.2012
relativa alla controversia territoriale e marittima (Nicaragua c. Colombia), in tema di
delimitazione della piattaforma continentale e della ZEE, ha ribadito che “è un principio
fondamentale del diritto internazionale quello per cui un trattato tra due stati non può, per
sé, pregiudicare i diritti di uno stato terzo”.
Disciplina contenuta nella convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
Anche la convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati si conforma in
linea di massima al principio dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi
e alla conseguente regola per cui una qualche forma di accordo è necessaria
perché il terzo benefici di veri e propri diritti o sia colpito da obblighi.
L’art 34 sancisce come regola generale che “un trattato non crea obblighi o
diritti per un terzo stato senza il suo consenso”.

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L’art 35 specifica che un obbligo può derivare da una disposizione di un


trattato a carico di un terzo stato “se le parti contraenti del trattato intendono
creare tale obbligo e se lo stato accetta espressamente per iscritto l’obbligo
medesimo”.
L’art 36 prevede a sua volta che un diritto possa nascere a favore di uno stato
terzo solo se questo vi consenta, ma aggiunge che il consenso si presume
finché non vi siano “indicazioni contrarie” e sempre che il trattato non
disponga altrimenti.
L’art 37 autorizza i contraenti originari a revocare quando vogliono il “diritto”
accettato dal terzo, a meno che non ne abbiamo preventivamente stabilita in
qualche modo la irrevocabilità.
NB non bisogna confondere il problema dell’efficacia nei confronti degli stati terzi con
quello consistente nel chiedersi se la norma vantaggiosa, una volta eseguita all’interno
degli stati contraenti, sia qui e, quindi, come norma interna, invocabile dallo stato terzo e
dai suoi cittadini.

L’art 59 della Convenzione di Vienna chiarisce che deve ritenersi che un


trattato abbia avuto termine, e sia quindi da considerarsi estinto, qualora
tutte le parti del trattato abbiano concluso successivamente un trattato sullo
stesso argomento e, alternativamente: a) risulti dal trattato successivo o è in
altro modo accertato che è intenzione delle parti regolare la materia in
questione con tale trattato; b) le disposizioni del trattato successivo siano, nel
loro insieme, incompatibili con quelle del trattato precedente in modo tale
che non sia possibile applicare i due trattati contemporaneamente.
Situazione più complessa: le medesime parti abbiano stipulato due trattati
che contengono singole clausole incompatibili tra loro. La questione è
disciplinata dal par. 3 dell’art 30 della Conv secondo il quale, in simili
situazioni, il trattato anteriore non si applica che nella misura in cui le sue
disposizioni siano compatibili con quelle del trattato posteriore. Secondo il
dettato convenzionale in queste circostanze, quindi, la risoluzione
dell’antinomia tra singole clausole di trattati successivi tra le stesse parti va
risolta sul piano dell’efficacia: le disposizioni del trattato precedente
incompatibili con quelle del trattato successivo, pur rimanendo in vigore, non
troveranno applicazione.
Cosa succede quando i contraenti di due trattati tra loro incompatibili
coincidono solo in parte? può darsi che uno stato si impegni mediante
accordo a tenere un certo comportamento e poi, con un accordo con stati
diversi, si obblighi a tenere il comportamento contrario; oppure può essere
che alcuni tra gli stati vincolanti da un trattato multilaterale ne modifichino,
con un accordo successivo, tutte o determinate disposizioni e che la modifica,

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o l’abrogazione, tocchi anche i rapporti con le altre parti del trattato


multilaterale.
Questa questione è regolata dai paragrafi 4 e 5 dell’art 30. Il par 4 accoglie
una soluzione molto importante: fra gli stati contraenti di entrambi i trattati,
il trattato successivo prevale; nei confronti degli stati che siano parti di uno
solo dei due trattati, restano invece integri, nonostante la incompatibilità,
tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano. Il par 5, invece, chiarisce
che lo stato contraente di entrambi i trattati si troverà a dover scegliere se
tenere fede agli impegni assunti col primo oppure a quelli assunti col secondo
accordo; operata la scelta, esso non potrà non commettere un illecito e sarà
quindi internazionalmente responsabile, rispettivamente verso gli stati
contraenti del secondo oppure del primo accordo.
Incompatibilità fra norme convenzionali nel diritto interno. La scelta può
avvenire una volta per tutte quando entrambi gli accordi ricevano esecuzione all’interno
dello stato mediante atti legislativi o comunque atti normativi di pari grado. In tal caso
infatti non potrà che valere, all’interno dello stato, il principio della successione degli atti
normativi nel tempo, con la conseguente e automatica prevalenza del secondo trattato. Se
poi uno solo dei due trattati è eseguito all’interno con legge, sarà esso a prevalere per una
consapevole scelta del potere legislativo.
In tema di diritti umani va registrata la tendenza della CEDU considerare la Convenzione
europea dei diritti umani come inderogabile anche da accordi internazionali successivi.
Articolo 103 della carta delle Nazioni Unite. Discorso a parte va fatto per questo
articolo che sancisce la prevalenza degli obblighi derivanti dalla carta sugli obblighi
derivanti da qualsiasi altro trattato internazionale. Anche l’art 30 della Conv di Vienna fa
salvo l’art 103. Da un punto di vista formale non è da escludere che, anche in questo caso,
due o più stati possono convenire che, per alcuni degli obblighi previsti dalla carta, la
prevalenza non valga nei loro confronti. In realtà l’art 103 è considerato da tutta la
comunità internazionale come una norma al di sopra degli accordi e può ritenersi che ad
esso corrisponda ormai una norma consuetudinaria. Anche la giurisprudenza interna è
orientata in tal senso: a voler essere più precisi potremmo dire che l’art 103 è derogabile da
parte di accordi particolari, dato che tra consuetudine e accordi non c’è gerarchia. Ma, per
il Conforti la norma consuetudinaria in questione ha natura di ius cogens.

L’art 30, inoltre, precisa “che il par. 4 si applica senza pregiudizio dell’art 41”.
L’art 41 stabilisce che due o più parti di un trattato possono concludere cd
accordi modificativi “inter se” ossia accordi che contengono modifiche che
riguardano solo i rapporto tra esse intercorrenti, senza pregiudizio ai rapporti
che ciascuna di esse ha con le altre parti del trattato multilaterale. In base a
questa disposizione le parti, tuttavia, “non possono” concludere un simile
emendamento al trattato (sia pure nei loro rapporti reciproci) quando la
modifica è vietata dal trattato multilaterale oppure pregiudica la posizione
delle altre parti contraenti o ancora è incompatibile con la realizzazione
dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme.

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L’espressione “non possono” è ambigua e potrebbe far pensare che l’art 41


accolga la tesi dell’invalidità dell’accordo successivo ogniqualvolta questo non
possa assolutamente essere eseguito senza che siano violati gli obblighi
assunti nei confronti delle altre parti del primo accordo. Ma, una
interpretazione del genere è smentita soprattutto perché la contrarietà
dell’accordo parziale all’accordo multilaterale non figura tra le cause di
invalidità dei trattati nella relativa parte della Convenzione di Vienna. Quindi,
l’art 41 risolve il problema in termini di illiceità e di responsabilità
internazionale degli stati contraenti dell’accordo successivo verso le altre parti
del trattato multilaterale.
Clausole di compatibilità o subordinazione. Sono frequenti le dichiarazioni di
compatibilità o di subordinazione, contenute in un trattato nei confronti di un
altro o nei confronti di una serie di altri trattati. Il par. 2 dell’art 30 precisa
che “quando un trattato precisa che esso è subordinato ad un trattato
anteriore o posteriore o che esso non deve essere considerato come
incompatibile con siffatto trattato, le disposizioni di quest’ultimo prevalgono”.
Clausola di compatibilità del trattato CE. Un esempio importante di clausola
di compatibilità è dato dall’art 307 del TCE: “le disposizioni del presente
Trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni
concluse, anteriormente al 1.1.1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente
alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno
o più Stati terzi dall’altra. Nella misura in cui tali convenzioni sono
incompatibili col presente Trattato, lo Stato o gli Stati membri interessati
ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità constatate. Ove
occorra, gli Stati membri si forniranno reciproca assistenza per
raggiungere tale scopo, assumendo eventualmente una comune linea di
condotta…”.
Trattato CE e GATT. Il problema della compatibilità del TCE con accordi preesistenti si
è posto soprattutto con riguardo all’accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio
(GATT) e altri accordi conclusi in seno alla, o confluiti alla, OMC.

11.Le riserve nei trattati.


Nozione di riserva. La riserva indica la volontà dello stato di non accettare
certe clausole del trattato o di accettarle con talune modifiche, cosicché tra lo
stato autore della riserva e gli altri stati contraenti, l’accordo si forma solo per
la parte non investita dalla riserva, laddove il trattato resta integralmente
applicabile tra gli altri stati.
Nozione di dichiarazione interpretativa. Alla riserva appartiene anche la
dichiarazione interpretativa, la quale mira a specificare o chiarire il senso o lo

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scopo attribuito dal dichiarante al trattato o ad alcune sue disposizioni. La


dichiarazione può essere condizionata o incondizionata.
È condizionata quando lo stato dichiara che intende vincolarsi al trattato solo
se questo, o alcune sue clausole, sono interpretati in un certo modo.
È incondizionata quando tale intento non risulta dalla dichiarazione.
È evidente, quindi, che la dichiarazione condizionata equivale ad una riserva.
La riserva secondo il diritto internazionale classico. Sia le riserve che le
dichiarazioni interpretative hanno senso nei trattati multilaterali, soprattutto
in quelli stipulati da un numero rilevante di stati. Nei trattati bilaterali lo stato
che non vuole assumere certi impegni, o vuole formulare dichiarazioni
interpretative, non ha che da proporre alla controparte di escluderli dal testo.
Secondo il diritto internazionale classico la possibilità di apporre riserve
doveva essere tassativamente concordata nella fase della negoziazione e,
quindi, doveva figurare nel testo del trattato predisposto dai plenipotenziari;
in mancanza, si riteneva che uno stato non avesse altra alternativa che quella
di ratificare o meno il trattato.
Due erano i modi con i quali si apponevano riserve: a) o i singoli stati
dichiaravano al momento della negoziazione di non voler accertare alcune
clausole e quindi nel testo del trattato si faceva menzione di tale riserva; b)
oppure il testo prevedeva genericamente la facoltà di apporre riserve al
momento della ratifica o dell’adesione e, in tale momento, ciascuno stato
decideva se avvalersi o meno di una simile facoltà.
Secondo il diritto internazionale classico, dunque, non era ammissibile la
ratifica di un trattato multilaterale accompagnata da riserve non previste dal
testo del trattato stesso in uno due modi sopraindicati. La formulazione di
riserve non previste nel testo impediva la formazione del consenso e,
pertanto, comportava l’esclusione dello stato autore della riserva dal novero
degli stati contraenti ed equivaleva piuttosto alla proposta di un nuovo
accordo.
Evoluzione della disciplina delle riserve. Tale disciplina si è notevolmente
evoluta e tappa fondamentale di questa evoluzione fu il parere 28.5.1951 della
CIG; si tratta di un parere reso su richiesta dell’assemblea generale delle
Nazioni Unite ed avente per oggetto la convenzione sulla repressione del
genocidio. L’assemblea chiese appunto alla corte se, non prevedendo la
convenzione sul genocidio la facoltà di apporre riserve, gli stati potessero
ugualmente procedere alla formulazione di riserve al momento della ratifica.
Nel rispondere, la corte affermò un principio quasi rivoluzionario che oggi è

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oramai consolidato: una riserva può essere formulata all’atto della ratifica
anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato
purché essa sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. La corte
aggiunse che un altro stato contraente può contestare la riserva e può ritenere
che il trattato non entri in vigore nei suoi rapporti con lo stato autore della
riserva.
Su questa scia, la Conv di Vienna codifica il principio che una riserva può
essere sempre formulata purché non sia espressamente esclusa dal testo del
trattato oppure sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato
medesimo. La Convenzione, inoltre, stabilisce che la riserva, quando non sia
prevista nel testo del trattato, possa essere contestata da un’altra parte
contraente ed aggiunge che, se tale contestazione o obiezione non è
manifestata entro 12 mesi dalla notifica della riserva alle altre parti
contraenti, la riserva si intende accettata.
Importante è poi la norma ricavata dal combinato disposto degli articoli 20 e
21 della convenzione. Secondo tale norma, l’obiezione ad una riserva non
impedisce che questa esplichi i suoi effetti tra lo stato che la formula e lo stato
obiettante se quest’ultimo non abbia espressamente e “nettamente”
manifestato l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti
tra i due stati. In altre parole: lo stato che obietta, se non vuole dare alla sua
obiezione un valore puramente teorico, deve dirlo espressamente.
Dopo la Convenzione di Vienna la disciplina della riserva ha continuato ad
evolversi, soprattutto perché nella convenzione manca una disciplina delle
dichiarazioni interpretative incondizionate. Secondo la prassi, un’altra parte
contraente può fare obiezione all’interpretazione, magari contrapponendole
un’interpretazione alternativa. Non mancano casi in cui lo stato che obbietta
lo fa perché considera la dichiarazione come una vera e propria riserva. È
ovvio che, trattandosi di interpretazioni incondizionate aventi per definizione
il valore di proposte, non valgono per esse particolari condizioni di validità
formale o sostanziale, né l’autore dell’obiezione può pretendere che il trattato
non entri in vigore.
Riserve e giudice internazionale o interno. Altro tema di cui non si occupa la
convenzione è quello dei rapporti tra il criterio oggettivo della invalidità
formale o sostanziale della riserva (in particolare per la sua contrarietà
all’oggetto e allo scopo del trattato) e quello soggettivo dell’obiezione di
un’altra parte contraente. In pratica: se la riserva è stata accettata, deve essa
ritenersi ammissibile anche se oggettivamente non è valida? Viceversa, se ha
incontrato obiezioni, essa è inammissibile nei rapporti con lo stato obiettante
anche se è oggettivamente valida? Innanzitutto, chiariamo sulla questione

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dell’ammissibilità è chiamato a pronunciarsi un giudice (e non un organo di


mero controllo). Il giudice, sia esso internazionale o interno, ha il potere di
decidere autonomamente sulla validità o meno della riserva, ovviamente con
effetti limitati al caso di specie. Unica eccezione è prevista per il giudice
interno che dovrà tener conto delle riserve e delle obiezioni formulate dagli
organi costituzionalmente competenti del proprio stato.
Inammissibilità della riserva e principio utile per inutile non vitiatur.
Facciamo, adesso, riferimento alla tendenza che riguarda le conseguenze della
accertata invalidità della riserva; secondo tale tendenza se lo stato formula
una riserva invalida (o perché esclusa dal testo del trattato o perché contraria
all’oggetto e allo scopo del medesimo), l’invalidità non comporta la estraneità
dello stato stesso rispetto al trattato ma l’invalidità della sola riserva che si
riterrà, quindi, come non apposta.
Quando alla formazione della volontà dello stato diretta a partecipare al
trattato concorrono più organi, può darsi che l’apposizione di una riserva sia
decisa da uno di essi ma non dagli altri. Se a concorrere sono il potere
esecutivo e il potere legislativo, cosa succede se il governo non tiene conto di
una riserva decisa dal parlamento o formula una riserva che il parlamento
non ha voluto?
La reciproca delimitazione dei poteri tra esecutivo e legislativo, per limitarci
al sistema italiano, ha visto una prassi che ha di per sé dato luogo a contrasti
dottrinali. Secondo alcuni il governo può, secondo altri il governo non può
formulare riserve.
I sostenitori della prima tesi si ispirano al fatto che il governo sia, almeno in
linea principale, il gestore dei rapporti internazionali; i sostenitori della
seconda tesi muovono da quella che è la necessità che la collaborazione tra
parlamento e governo, come voluta dall’art 80 della cost, sia effettiva.
Non è chiaro però quale sia il significato da attribuire all’affermazione che il
governo non possa aggiungere riserve. Secondo il nostro manuale il problema
si risolve solo se si tiene presente la distinzione tra formazione e
manifestazione della volontà dello stato, da un lato e responsabilità del
governo di fronte al parlamento, dall’altro. Sotto il primo profilo, non c’è
dubbio che la riserva è valida sia che venga formulata autonomamente dal
Parlamento, sia che venga formulata autonomamente dal Governo. Se uno
degli organi non vuole una parte dell’accordo, la manifestazione di volontà
dello Stato si forma solo per la parte residua. La tesi dell’invalidità dell’intera
manifestazione di volontà dello stato è poco credibile in presenza di una
prassi contraria.

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Circa la responsabilità (politica o addirittura penale) del governo, e dei suoi


membri, di fronte al parlamento: se il governo si discosta in tema di riserve da
quanto deliberato dal parlamento, se la decisione non è presa dopo che il
Parlamento sia stato informato e se non si tratta di riserve dal contenuto del
tutto tecnico o minoris generis, vi è materia perché scattino i meccanismi di
controllo del parlamento sull’operato dell’esecutivo.
Circa i riflessi internazionalistici, la riserva aggiunta dal governo e dichiarata
all’atto di deposito della ratifica è, per il diritto internazionale, valida (essendo
valida per il diritto costituzionale). Nel caso, molto teorico, di riserva
contenuta nella legge di autorizzazione ma di cui il governo non tenga conto,
per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una violazione grave del
diritto interno e dovrà ritenersi che lo stato non resti impegnato per detta
parte se e finché il parlamento non revochi espressamente o implicitamente la
riserva.
12.Interpretazione dei trattati.
Metodo obbiettivistico e metodo subbiettivistico di interpretazione.
L’interpretazione dei trattati è regolata dagli artt 31-33 della convenzione di
Vienna del 1969. Oggi, si può dire senz’altro prevalente la tendenza volta ad
attribuire un ruolo marginale al cd metodo subbiettivistico in base al quale
si renderebbe in tutti i casi e ad ogni costo necessaria una ricerca della
volontà effettiva della parti come contrapposta alla volontà dichiarata. Si
ritiene, infatti, che la regola generale sia rappresentata dal metodo
obbiettivistico attribuire al trattato il significato che è fatto palese dal suo
testo, che risulta dai rapporti di connessione logica intercorrenti tra le varie
parti del testo, che si armonizza con l’oggetto e la funzione dell’atto quali dal
testo sono desumibili.
In questo senso si esprime l’art 31, par.1, della convenzione di Vienna, in virtù
del quale “un trattato deve essere interpretato in buona fede secondo il
significato ordinario da attribuirsi ai termini del trattato nel loro contesto e
alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato medesimo”.
L’interpretazione dei trattati è, quindi, un procedimento complesso:
l’interprete deve sempre prendere le mosse dal significato letterale dei termini
impiegati nel trattato (metodo testuale) tenendo, inoltre, conto del “contesto”
in cui essi si situano e vale a dire le altre disposizioni del trattato, il
preambolo, gli allegati, i protocolli aggiuntivi e così via. Inoltre, tra le varie
interpretazioni possibili, si dovrà prediligere quella che meglio consenta di
realizzare gli obiettivi alla base del trattato, quali possono risultare, oltre che
da un’analisi complessiva del trattato, anche dal preambolo (metodo
teleologico).

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L’art 31, al par. 3, individua alcuni elementi ulteriori da prendere in


considerazione in tema di interpretazione. Per un verso, esso sancisce la
rilevanza degli accordi successivi o delle prassi seguite dalle parti
nell’interpretazione o applicazione del trattato; per altro verso, chiarisce che
occorre tener conto di qualsiasi norma pertinente di diritto internazionale
generale, quelle derivanti dagli altri trattati in vigore tra gli stati e quelle poste
dagli atti vincolanti delle organizzazioni internazionali cui gli stati parte
aderiscono.
L’art 31, al par.4, prevede una clausola di eccezione rispetto alla regola di cui
al par. 1: “a un termine del trattato può attribuirsi un significato particolare se
è certo che tale era l’intenzione delle parti” interpretazione autentica del
trattato.
In questa impostazione, i lavori preparatori (nei quali dovrebbe essere
consegnata la volontà effettiva delle parti) sono, inevitabilmente, destinati a
svolgere una funzione sussidiaria. Infatti, l’art 32 consente il ricorso ai lavori
preparatori (cd interpretazione storica) solo al fine di avallare e rafforzare
interpretazioni già desumibili almeno in una certa misura dal testo del
trattato oppure quando c’è necessità di definire un diverso significato quando
l’applicazione dei criteri di cui all’art 31 dia luogo a risultati ermeneutici
ambigui o chiaramente assurdo.
L’art 33 si occupa del caso dei trattati redatti in più lingue tutte ugualmente
ufficiali: in tal caso, se la comparazione tra i vari testi rivela una differenza di
significato, ineliminabile attraverso gli strumenti interpretativi di cui agli artt
31 e 32, e se non è previsto che un testo prevalga sugli altri, va comunque
adottato il “significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato,
concilia meglio con detti testi”.
Al di là di questo metodo, possiamo eventualmente far riferimento anche ad
altre regole: regola sulla interpretazione restrittiva o estensiva; regola per cui
tra più interpretazioni ugualmente possibili occorre scegliere quella più
favorevole alla parte più onerata (p. del favor debitoris) o al contraente più
debole.
Interpretazione estensiva ed analogia. Appare, oramai, arcaica l’opinione
secondo cui i trattati devono essere interpretati sempre restrittivamente. I
giudici internazionali utilizzano sempre di più un’interpretazione estensiva,
specie per quanto concerne i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali.
Lo stesso vale anche per i giudici interni: se si esamina la giurisprudenza
italiana vi si trova sempre di più la ricerca del senso letterale, della ratio della
norma internazionale ecc ma, quasi mai, il ricorso all’idea di sovranità dello
stato ai fini di un’interpretazione restrittiva.

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Assimilabile alla interpretazione estensiva è quella evolutiva, in virtù della


quale il significato dei termini di un trattato va ricostruito alla luce delle
sensibilità e convenzioni sociali attuali e non di quelle esistenti al momento
della stipulazione.
È questo il caso dei trattati sui diritti umani. Il punto è stato rimarcato dalla corte europea
dei diritti dell’uomo, la quale ha spesso ricordato come la convenzione europea dei diritti
dell’uomo, adottata nel quadro del consiglio d’Europa il 4.11.1950, debba essere
considerata uno strumento “vivente” da interpretarsi alla luce delle “condizioni di vita
attuali”. Oggetto di interpretazione evolutiva è stata, per esempio, la nozione di “vita
familiare” la quale, oggi, è interpretata includendo anche le coppie di fatto e quelle dello
stesso sesso.
Il ricorso ai normali mezzi di interpretazione vale anche per i trattati istitutivi di
organizzazioni internazionali, come la Carta ONU e i trattati dell’Unione Europea. Tuttavia
vi è una comune tendenza a considerare tali accordi non come trattati quanto come
costituzioni. La Corte Internazionale di Giustizia si è posta per questa strada quando ha
fatto uso della cd teoria dei poteri impliciti: ogni organo disporrebbe non solo dei poteri
espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri non
espressi ma necessari per l’esercizio dei poteri espressi. La CIG, applicando tale teoria agli
organi dell’ONU, ne ha ampliato notevolmente la portata. Nell’ambito dell’unione europea,
il vecchio art. 308 del Trattato CE affermava che “Quando un’azione della Comunità risulti
necessaria per raggiungere, nel funzionamento del Mercato Comune, uno degli scopi della
Comunità, senza che il presente Trattato abbia previsto i poteri di azione a tal uopo
richiesti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo
aver consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso”.

La teoria dei poteri impliciti si colloca dunque all’estremo opposto della


vecchia tendenza all’interpretazione restrittiva dei trattati internazionali, in
quanto strumenti limitativi della sovranità degli stati.
Interpretazione unilateralistica. La convenzione di Vienna non avvalla questo
tipo di interpretazioni dei trattati. Sembra da escludere cioè, alla luce della
convenzione, che una norma contenuta in un accordo internazionale, a meno
che non disponga essa stessa in tal senso, possa assumere significati
differenti a seconda dello stato contraente al quale, o all’interno del quale,
debba di volta in volta applicarsi. Quindi, interpretare in chiave
unilateralistica significa farlo in modo conforme al proprio e solo al proprio
diritto.
L’art. 31 non include, tra le “altre norme” utilizzabili per chiarire il significato di una
disposizione pattizia le norme di diritto interno, proprie di ciascuno Stato contraente. Il
giudice interno, quando una convenzione nulla dispone in materia di interpretazione e di
lacune, dovrà evitare comunque di rifarsi esclusivamente al proprio diritto se non vi è
autorizzato dallo stesso accordo e dovrà sforzarsi di stabilire, alla luce delle regole di diritto
consuetudinario, così come codificate nella Convenzione di Vienna, quale sia il significato
unico ed obiettivo della disposizione convenzionale, deducibile dai principi generali cui la
convenzione si ispira o dai principi comuni agli ordinamenti degli Stati contraenti.

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Qual è il problema di questa interpretazione? Problematiche si ravvisano principalmente


nel campo degli accordi di diritto privato uniforme, ossia quegli accordi con cui gli stati si
impegnano a regolare allo stesso modo certi settori di diritto privato e del diritto
internazionale privato; ma, problematiche attengono anche agli accordi bilaterali o
multilaterali di diritto processuale, sulla competenza giurisdizionale e il riconoscimento
reciproco delle sentenze in materia civile.
L’esigenza di evitare interpretazioni unilateralistiche è stata da tempo avvertita in sede di
redazione di alcune convenzioni di diritto privato e processuale. Un esempio interessante a
riguardo è dato dalla convenzione di Bruxelles, completata dal protocollo di Lussemburgo:
il protocollo attribuiva alla CGCE la competenza a pronunciarsi in via pregiudiziale sulle
questioni relative all’interpretazione della convenzione sollevate innanzi ai giudici
nazionali. È chiaro che, affidandosi ad un giudice unico il compito di sciogliere i dubbi
interpretativi con efficacia vincolante all’interno degli stati contraenti, l’unicità nella
interpretazione delle clausole convenzionali è assicurata alla radice. Una soluzione meno
radicale è, invece, fornita dalla convenzione di Vienna che, all’art 7, stabilisce che le
questioni concernenti le materie regolate dalla presente convenzione e che non sono ad
essa espressamente risolte, saranno regolate secondo i principi generali a cui si ispira.

13.La successione degli stati nei trattati.


Successione fra stati e mutamenti di sovranità. Il problema della successione
nei trattati può impostarsi così: quando uno stato si sostituisce ad un altro nel
governo di un territorio (nello specifico, nel governo di una comunità
territoriale), è vincolato dai trattati stipulati dal suo predecessore e in vigore
in quel territorio?
La sostituzione può avvenire per le cause e nei modi più vari. Può darsi che
una parte del territorio di uno stato passi, per effetto di una cessione o di una
conquista, sotto la sovranità di un altro stato già esistente, oppure si
costituisca in stato indipendente; può darsi invece che il cambiamento
riguardi l’intero territorio dello stato e cioè che l’intera comunità territoriale
sia incorporata o si fonda con un altro stato, oppure si smembri e dia luogo a
più stati nuovi, o infine venga a trovarsi, in seguito ad eventi rivoluzionari,
sotto un regime totalmente diverso.
Si tratta di circostanze di fatto in quanto sono costituite dall’affermarsi, dal
ritirarsi e dall’espandersi della sovranità territoriale. Ciò è tale anche quando
la vicenda è conseguenza di un trattato dato che i trattati producono soltanto
effetti obbligatori e che pertanto, se un accordo di cessione o di fusione non
viene rispettato, se alla sua stipulazione non segue il ritirarsi, l’espandersi o
l’affermarsi della sovranità territoriale in conformità alle sue clausole, vi sarà
sì la violazione di un obbligo ma le cose, per quanto riguarda l’assetto del
territorio coinvolto, resteranno come prima.
Successione nei rapporti internazionali. Sul piano giuridico il problema che si
pone è per l’appunto se, una volta verificatosi in fatto un cambiamento di

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sovranità, i diritti e gli obblighi internazionali che facevano capo al


predecessore passino allo stato subentrante; ed è chiaro che i diritti e gli
obblighi internazionali eventualmente oggetto della successione non possono
che essere quelli pattizi essendo che il diritto consuetudinario vincola
comunque tutti gli stati.
Successione nei rapporti interni. Ci si chiede se, ed entro quali limiti, il diritto
internazionale imponga una successione in diritti e obblighi di natura interna
se vi sia, ad esempio, una successione nel debito pubblico.
Convenzione di Vienna del 1978 sulla successione nei trattati. Alla
“successione degli stati rispetto ai trattati” è dedicata la convenzione di
Vienna del 1978, complementare a quella del 1969 ma che non ha avuto molta
fortuna, essendo (ancora oggi) ratificata soltanto da 23 stati, tra cui non
figura l’Italia. La convenzione usa il termine successione come equivalente a
quello di sostituzione e di stato successore come equivalente a quello di stato
che subentra ad un altro nel governo di un territorio. Insomma, il termine
successione è usato in senso atecnico.
Sfera di applicazione della convenzione di Vienna del 78. Secondo l’art 7, par. 1,
della convenzione, questa si applica “alle successioni fra stati che siano entrate in vigore
dopo l’entrata in vigore della convenzione”. Se però uno stato successore aderisce alla
Convenzione, la sua adesione retroagisce fino al momento in cui la successione è avvenuta,
sempre che, in quel momento, la Convenzione fosse già in vigore. La ratio della norma sta
nel fatto che in molti casi lo stato che si sostituisce ad un altro nel governo di un territorio è
uno stato nuovo, e che pertanto la Convenzione non potrebbe applicarsi in molti casi
qualora si pretendesse che lo stato successore fosse già parte contraente al momento della
successione.
Secondo il par. 2 dell’art 7: uno stato successore può addirittura dichiarare di voler
applicare la Convenzione ad una successione intervenuta prima della stessa entrata in
vigore di quest’ultima, ma una tale dichiarazione varrà solo nei confronti di quelle parti
contraenti che abbiano a loro volta dichiarato di accettarla.

Successione nei trattati localizzabili. Un principio oramai pacifico è quello


secondo cui: lo stato che in qualsiasi modo si sostituisce ad un altro nel
governo di una comunità territoriale, è vincolato da trattati, o dalle clausole di
un trattato, di natura reale o territoriale (o come si dice localizzabili) e cioè
dai trattati che riguardano l’uso di determinate parti del territorio, conclusi
dal predecessore.
Rientrano in questa categoria i trattati che istituiscono servitù attive o passive
nei confronti di territori di stati vicini, gli accordi per l’affitto di parti del
territorio, i trattati che prevedono la libertà di navigazione di fiumi e canali, i
trattati che impongono la smilitarizzazione di determinate aree, i trattati che
prevedono la costruzione di opere sui confini ecc.

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Uti possidetis. L’obbligo di rispettare le frontiere stabilite dal predecessore è


generalmente sentito nell’ambito della comunità internazionale. Anche i paesi sorti dalla
decolonizzazione non lo hanno normalmente negato; la prassi africana si riallaccia alla
prassi dell’America latina nell’ambito della quale si era fatto ricorso al principio dell’uti
possidetis juris: gli stati latino-americani avrebbero “ereditato” dalla Spagna le frontiere
delle circoscrizioni amministrative dell’impero coloniale spagnolo esistenti al momento
dell’indipendenza.

Intrasmissibilità dei trattati di natura politica. Un limite alla trasmissione dei


trattati localizzabili riguarda gli accordi che abbiano carattere politico e che
siano cioè strettamente legati al regime vigente prima dal cambiamento di
sovranità. Ad esempio può dirsi che non si verifichi successione negli accordi
che concedono parti del territorio per l’installazione di basi militari straniere.
I trattati sui diritti umani come trattati localizzabili. Secondo il comitato dei diritti
umani delle nazioni unite, alla categoria dei trattai localizzabili andrebbero ricondotti
anche i trattati in materia di diritti umani, sulla base dell’argomento che i diritti in essi
riconosciuti “appartengono” alle persone che vivono sul territorio degli stati parte. Questo
approccio è stato successivamente fatto proprio anche dalla corte europea dei diritti
dell’uomo in una sentenza del 2009.

Ora parliamo dei trattati non localizzabili. Qual è la loro sorte in seguito al
mutamento di sovranità? La regola fondamentale rispetto a questi trattati e la
cd regola della tabula rasa. Lo stato che subentra nel governo di un territorio
non è, in linea di principio, vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore.
NB una variante alla tesi della tabula rasa è costituita dall’opinione secondo cui i trattati
del predecessore resterebbero “sospesi” finché lo stato nuovo e gli altri stati contraenti non
abbiano regolato la materia.

Regola della tabula rasa. È importante una particolarità della convenzione del
1979. Essa distingue la situazione degli stati sorti dalla decolonizzazione
(“stati di nuova indipendenza”), dalla situazione di ogni altro stato che
subentri nel governo di un territorio. Mentre per la prima assume come
regola fondamentale in materia la regola della tabula rasa, per la seconda
assume come regola fondamentale quella, opposta, della continuità dei
trattati.
Distacco di parti di territorio. Il principio della tabula rasa si applica
innanzitutto alle ipotesi del distacco di una parte del territorio di uno stato.
Può darsi che la parte di un territorio distaccatasi si aggiunga, per effetto di
cessione o di conquista, al territorio di un altro stato preesistente. In questo
caso gli accordi vigenti nello stato che subisce il distacco cessano di avere
vigore con riguardo al territorio distaccatosi. A questo si estendono, invece, in
modo automatico gli accordi vigenti nello stato che acquista il territorio. La
dottrina parla di mobilità delle frontiere dei trattati.

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Può accadere che sulla parte distaccatasi si formino uno o più stati nuovi
(secessione). Anche in questo caso gli accordi vigenti nello stato che subisce il
distacco cessano di avere vigore con riguardo al territorio che acquista
l’indipendenza. La prassi si è sempre orientata in tal senso. Gli stati nuovi
hanno in ogni tempo preteso ed il più spesso ottenuto l’applicazione del
principio della tabula rasa, fossero essi ex colonie oppure no. La prassi
relativa agli stati sorti dalla decolonizzazione non ha fatto altro che sugellare
questa tendenza.
Un caso che non si inquadra nella tendenza generale è quello della Siria che, avendo
costituito nel 1958 con l’Egitto la Repubblica Araba Unita, se ne staccò nel 1961. Dopo il
distacco la Siria continuò ad applicare sia i trattati conclusi dalla RAU tra il 1958 e il 1961
sia i trattati che la stessa Siria aveva stipulato prima del 1958.

Quindi, la convenzione del 1978 accoglie il principio della tabula rasa per i
territori di tipo coloniale staccatisi dalle potenze detentrici, mentre enuncia
l’opposto principio della continuità dei trattati per tutte le altre ipotesi di
secessione.
Accordi di devoluzione. Sul problema della successione non influiscono i cd accordi di
devoluzione, di cui si sono avuti vari esempi durante il processo di decolonizzazione specie
nell’ambito delle colonie inglesi. Con tali accordi, che intercorrono tra la ex madrepatria e
lo stato di nuova indipendenza, quest’ultimo consente a subentrare nei trattati già conclusi
dalla prima con stati terzi. L’accordo, però, non potendo avere efficacia rispetto alle altre
parti contraenti dei trattati devoluti, pone solo l’obbligo per la ex colonia di compiere i
passi necessari affinché siffatti trattati vengano rinnovati.

L’applicazione del principio della tabula rasa agli stati nuovi formatisi per
distacco è integrale per quanto riguarda i trattati bilaterali conclusi dal
predecessore e vigenti nel territorio distaccatosi. Simili trattati potranno
continuare ad avere valore solo se rinnovati attraverso un apposito accordo
con la controparte, accordo che potrà anche essere tacito, ossia risultare da
fatti concludenti.
Lo stesso dovrà dirsi dei trattati multilaterali chiusi, ossia dei trattati che non
prevedono la partecipazione, mediante adesione, di stati diversi da quelli
originari: anche in tal caso occorrerà un nuovo accordo con tutte le
controparti.
Notificazione di successione. Circa i trattati multilaterali aperti all’adesione di
stati diversi da quelli originari, il principio della tabula rasa subisce un
temperamento: lo stato di nuova formazione può, anziché aderire
(succedendo ex nunc), procedere alla cd notificazione di successione, con cui
la sua partecipazione retroagisce al momento dell’acquisto dell’indipendenza
(succedendo ex tunc).

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Smembramento di uno stato. Affine alla secessione è lo smembramento; ma,


mentre la secessione non implica l’estinzione dello Stato che la subisce, la
caratteristica dello smembramento sta nel fatto che uno stato si estingue e sul
suo territorio si formano due o più nuovi stati. Il criterio per distinguere le
due ipotesi è quello della continuità o meno dell’organizzazione di governo
preesistente: lo smembramento è da ammettere ogniqualvolta nessuno degli
stati residui abbia la stessa organizzazione di governo dello stato preesistente.
Un esempio tipico di smembramento e non di distacco è quello dell’impero
austro-ungarico dopo la prima guerra mondiale, dato che nessuno degli stati
su di esso formatisi, ivi compresa la repubblica austriaca, conservò la
medesima organizzazione di governo dell’impero.
Altro esempio è quello della formazione della repubblica federale tedesca e
della repubblica democratica tedesca sulle rovine del Reich hitleriano, dopo la
seconda guerra mondiale.
Lo smembramento dell’unione sovietica avvenuto con gli accordi di Minsk del 1991 e di
Alma Ata, e quello della Cecoslovacchia sono stati effettuati concordemente; quello della
Iugoslavia ha, invece, avuto luogo mediante dichiarazioni unilaterali ed è stato
accompagnato dai noti eventi bellici. In questo ultimo caso si è discusso se si trattasse di
smembramento oppure di secessione della Croazia, dalla Slovenia e della Macedonia della
Iugoslavia, stato che sarebbe sopravvissuto identificandosi con la allora Repubblica
Iugoslava. La tesi della secessione, che venne sostenuta ufficialmente da detta Repubblica,
è da escludere non essendovi stata continuità né di regime né di costituzione con il vecchio
stato socialista. Nel senso dello smembramento si pronunciò chiaramente la commissione
costituita in seno alla conferenza per la pace di Iugoslavia, conferenza indetta nel 1991
dalla comunità europea. Anche la prassi delle Nazioni Unite depone contro la tesi della
continuità come è, peraltro, dimostrato dal fatto che la repubblica serbo-montenegrina
venne ammessa all’ONU nel 2000 con una regola procedura di ammissione. La cassazione
francese, rifacendosi a detta prassi, sostenne la tesi dello smembramento e questo accadde
anche nella giurisprudenza italiana.

Ai fini della successione nei trattati lo smembramento è da assimilare al


distacco; agli stati nuovi formatisi sul territorio dello Stato smembrato è
applicabile (ovviamente s’intendono sempre gli accordi non localizzabili) il
principio della tabula rasa, temperato dalla regola che, per i trattati
multilaterali aperti, prevede la facoltà di procedere ad una notificazione di
successione. Anche la Convezione di Vienna del 1978 unifica le due ipotesi
nella parte relativa agli stati nuovi che non siano ex territori coloniali,
sottoponendole però entrambe al principio della continuità dei trattati.
La prassi recente, che rivela una tendenza degli stati nuovi ad accollarsi le
obbligazioni pattizie dello stato smembrato, tra l’altro dividendosi pro quota i
debiti contratti con stati esteri e con organizzazioni internazionali, non è
idonea a porre nel nulla la regola della tabula rasa, perché l’accollo risulta di
solito da accordi degli stati nuovi tra loro e, allorché si tratti di debiti

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pecuniari, l’accollo non si ispira a principi di diritto internazionale, bensì al


fine pratico di evitare di interrompere il flusso dei crediti dall’estero.
Incorporazione e fusione tra stati. Opposte al distacco e allo smembramento
sono la incorporazione e la fusione. Quando uno stato, estinguendosi, passa a
far parte di un altro stato si ha l’incorporazione, mentre quando due o più
stati si estinguono e danno vita ad uno stato nuovo si ha la fusione. Anche qui
il criterio di distinzione fra le due figure si riferisce all’organizzazione di
governo: l’incorporazione va preferita alla fusione ogniqualvolta vi sia
continuità tra l’organizzazione di governo di uno degli stati preesistenti e
l’organizzazione di governo che risulta dall’unificazione. Sulla base di questo
criterio va riguardata come incorporazione (degli altri stati italiani al regno di
Sardegna) la formazione del regno d’Italia nel secolo scorso. Un caso di
fusione è quello tra lo Yemen del sud e lo Yemen del nord che nel 1990
costituirono la repubblica yemenita con organi costituzionali diversi da quelli
dei due precedenti paesi.
All’incorporazione si applica tradizionalmente la stessa regola che abbiamo
visto applicarsi ai trasferimenti di territori da uno stato ad un altro, ossia la
regola della mobilità delle frontiere dei trattati. I trattati dello stato che si
estingue cessano di avere vigore (salvo i casi che essi siano confermati dallo
stato incorporante attraverso nuovi accordi, espressi o taciti, con le altre parti
contraenti) mentre al territorio incorporato si estendono i trattati dello stato
incorporante. Così i trattati del regno di Sardegna si estesero, dopo l’unità, al
resto di Italia, mentre si estinsero quelli degli altri stati italiani.
Lo stesso principio regola anche i casi di fusione. Lo stato sorto dalla fusione,
sempre che sia effettivamente uno stato nuovo, sempre che non presenti
alcuna continuità, per quanto riguarda l’organizzazione di governo, con uno
degli stati preesistenti, nasce libero da impegni pattizi.
Incorporazione e fusione di territori che permangono autonomi. Eccezione al
principio della tabula rasa deve ammettersi quando le comunità statali
incorporate o fuse, pur estinguendosi come soggetti internazionali,
conservino un notevole grado di autonomia nell’ambito dello stato
incorporante o nuovo, quando particolarmente, a seguito dell’incorporazione
o della fusione, si instauri un vincolo di tipo federale. La prassi in tal senso si
è orientata nella direzione della continuità degli accordi, con efficacia peraltro
limitata alla regione incorporata o fusa e sempre che una simile limitazione
con l’oggetto e lo scopo dell’accordo (come avviene, ad esempio, per gli
accordi già stipulati dalla Siria e dall’Egitto, quando nel 1958 si formò la
Repubblica Araba Unita).

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Per quanto riguarda la riunificazione tedesca, che ha comportato la ricostruzione dei


Lander nel territorio della Germania orientale, il trattato 31.8.90 prevede che le parti
“partono dal principio” che i trattati della Repubblica Federale si estendono al territorio
della ex repubblica democratica; per i trattati già conclusi da quest’ultima invece è stabilito
che il nuovo stato li esaminerà con le altre parti contraenti e successivamente fisserà la sua
posizione circa il seguito da dare agli stessi.

Mutamento radicale di governo. Un problema di successione nei trattati si


pone anche nel caso in cui si verifichi un mutamento di governo nell’ambito di
una comunità statale, senza che il territorio dello stato subisca ampliamenti o
diminuzioni. Quando il mutamento avviene per vie extralegali ed un regime
radicalmente diverso si instaura, deve ritenersi che muta la persona di diritto
internazionale. Infatti, lo stato, in quanto soggetto di diritto internazionale, si
identifica con l’apparato di governo. Occorre allora chiedersi cosa avviene ai
trattati stipulati dal vecchio governo. Anche qui opera il principio della tabula
rasa o si ha una successione del nuovo governo nei diritti e negli obblighi
contratti dal predecessore? La prassi si orienta in questo secondo senso, fatta
eccezione per i trattati incompatibili col nuovo regime (anche se, più che
eccezione si tratta di un’applicazione nella materia successoria del p. rebus sic
stantibus, per cui i trattati comunque si estinguono se mutano in modo
radicale le circostanze esistenti al momento della loro conclusione).
Si discute se vi sia una successione, internazionalmente imposta, in situazioni
giuridiche di diritto interno. Sebbene la discussione riguardi varie materie
come l’acquisto della proprietà di beni pubblici già appartenenti al
predecessore, il rispetto delle concessioni da questo rilasciate ecc, l’argomento
più importante è quello della successione nel debito pubblico.
Successione nei debiti contratti mediante accordo internazionale . Se il debito
non è stato contratto dal predecessore nell’ambito del diritto interno ma abbia
formato l’oggetto di un accordo internazionale concluso con un altro stato o
con un’organizzazione internazionale (ad es. il Fondo Monetario
Internazionale o la Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo), il principio
generale è quello della tabula rasa, salvi i debiti localizzabili, ossia i debiti
contratti con esclusivo riguardo al territorio oggetto del cambiamento di
sovranità oppure contratti da autorità pubbliche locali. Deve però riconoscersi
che anche per i debiti non localizzabili la prassi più recente è nel senso di una
equa ripartizione concordata fra gli stati sorti dallo smembramento e tra
questi stati ed i soggetti creditori. La determinazione dei criteri (dimensioni
del territorio, numero degli abitanti, ecc.) adoperabili nella ripartizione è
considerata materia di accordi.
Nel caso delle Repubbliche ex sovietiche un memorandum di intesa del 1991 prevedeva la
responsabilità solidale delle Repubbliche per i debiti esteri: in effetti questi hanno finito
per gravare unicamente sulla Russia, con la sola eccezione dell’Ucraina. Nel caso della ex

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della ex Cecoslovacchia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia si accordavano nel 1992 per


dividersi i debiti in ragione del numero di abitanti di ciascuna, e quindi secondo un
rapporto di due a uno. Nel caso della ex Jugoslavia la maggior parte dei debiti esteri erano
localizzabili.
La Convenzione di Vienna del 1983 sulla successione di stati “in materia di beni, archivi e
debiti di Stato” adotta il principio della tabula rasa soltanto con riguardo agli Stati di nuova
indipendenza, sorti dalla decolonizzazione, spingendolo a tal punto da escludere
addirittura la successione nei debiti localizzabili, salvo accordo fra nuovo stato e
predecessore. Con riguardo alla cessione territoriale, al distacco e allo smembramento, non
solo segue il principio della successione nei debiti localizzabili, ma prevede anche una
successione “secondo una proporzione equa” nei debiti generali del predecessore. Nel caso
di incorporazione e di fusione prevede il passaggio di tutti i debiti dello Stato incorporato o
degli Stati fusi allo Stato incorporante o a quello sorto dalla fusione.

14.Cause di invalidità e di estinzione dei trattati.


Cause di invalidità. Sono cause di invalidità: l’errore essenziale, che l’art 48
della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati definisce come l’errore
circa “un fatto o una situazione che lo stato supponeva esistente al momento
in cui il trattato è stato concluso e che costituiva una base essenziale del
consenso di questo stato”; il dolo, pensiamo alla corruzione dell’organo
stipulante; la violenza, fisica o morale, esercitata sull’organo stipulante.
Cause di estinzione. Esse sono: la denuncia (da trattato bilaterale) o il recesso
(da trattato multilaterale) ossia l’atto formale con cui lo stato dichiara alle
parti contraenti la volontà di sciogliersi dal trattato, sempre che la possibilità
di denunciare o recedere sia espressamente o implicitamente prevista dallo
stesso trattato. Mentre la denuncia da trattato bilaterale produce l’estinzione
del trattato nel suo complesso, il recesso da trattato multilaterale determina il
venir meno della partecipazione al trattato del solo stato recedente, senza
produrre effetti estintivi per le altre parti contraenti.
Altre cause di estinzione: l’avverarsi della condizione risolutiva; la scadenza
del termine finale; l’inadempimento della controparte, in applicazione del p.
generale inadimplenti non est admplendum; la sopravvenuta impossibilità
dell’esecuzione; l’abrogazione, totale o parziale, espressa o per
incompatibilità, mediante accordo successivo tra le stesse parti.
Quest’ultima causa di estinzione trova fondamento nel p. generale sulla successione nel
tempo degli atti giuridici di pari grado, secondo cui l’atto posteriore va ad abrogare quello
anteriore. Nella convenzione di Vienna si fa applicazione di tale principio in varie regole.
Alla estinzione mediante accordo successivo è poi assimilata la mera sospensione.
Qui si ha riguardo al caso in cui l’accordo successivo intercorra tra tutte le parti
dell’accordo anteriore. Altro è il caso in cui vi è conflitto tra accordi conclusi da cerchie di
stati solo parzialmente coincidenti.

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Violenza sullo stato come causa di invalidità. Tra le cause di invalidità


abbiamo indicato, insieme agli altri due classici vizi della volontà (errore e
dolo), la violenza esercitata sull’organo stipulante il trattato. Possiamo
considerare come causa di invalidità anche la violenza esercitata sullo stato
nel suo complesso e quindi quella particolare forma di violenza che si
concreta nella minaccia o nell’uso della forza? La convenzione di Vienna dà
una risposta positiva a questo quesito, stabilendo all’art 52 che “è nullo
qualsiasi trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’uso
della forza in violazione dei p. di diritto internazionale incorporati nella carta
delle nazioni unite” (i quali principi, vedremo, ammettono l’uso della forza
solo per respingere un attacco armato altrui).
Questo articolo 52 corrisponde al diritto internazionale consuetudinario,
come riflesso dell’idea che l’uso della forza della essere messo al bando della
comunità internazionale.
Violenza sullo stato con mezzi diversi dalla minaccia o dall’uso della forza.
Quando si parla di violenza sullo stato come causa di invalidità si fa
riferimento alla minaccia o all’uso della forza armata. Non vi sono elementi
nella prassi che autorizzano a ricomprendere sotto la nozione di violenza
pressioni di altro genere, come le pressioni politiche o economiche illecite.
La dottrina concorda su ciò, salvi alcuni orientamenti dissenzienti secondo cui
a simili pressioni potrebbe applicarsi per analogia la norma sulla violenza
armata, cosa che ci sembra da escludere perché tra pressione delle armi e
pressioni politiche ed economiche non vi è somiglianza ma profonda
diversità.
Uso della forza internazionale e uso della forza interna. Per uso della forza come
causa di invalidità dei trattati deve intendersi l’uso della forza nei rapporti internazionali
ossia la violenza di tipo bellico. Solo questo tipo di violenza è in grado di costituire un male
notevole per lo stato nel suo complesso. Altro è l’uso della forza interna, ossia l’esercizio del
potere di governo, ivi comprese tutte le possibili misure di carattere coercitivo sugli
individui. Se uno stato sottopone a misure detentive i cittadini di un altro stato o pone
sotto sequestro i loro beni, e se le misure adottate costituiscono una violazione delle norme
internazionali sul trattamento dei sudditi o degli organi stranieri, ciò può giustificare
l’adozione di misure di autotutela, di analogo contenuto, da parte dello stato offeso; ma
non si può dire che l’eventuale trattato, concluso per porre fine all’illecito esercizio del
potere di governo, o comunque per regolare i rapporti pendenti tra i due paesi, sia viziato
da violenza ancorché disponga nel senso voluto dallo stato offensore. Es: non si può
considerare come invalido l’accordo concluso ad Algeri il 19.1.81 tra Stati Uniti ed Iran,
accordo che pose fine alla lunga e illecita (soprattutto condannata) detenzione da parte del
governo iraniano dei cittadini statunitensi catturati nell’ambasciata americana a Teheran
nel 1979.

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Trattati ineguali. Il problema dei trattati ineguali, ossia i trattati rispetto ai


quali una parte non abbia disposto di un ampio margine di potere
contrattuale, non si risolve sul piano della validità. L’ineguaglianza può
trovare una correzione solo attraverso una interpretazione restrittiva
relativamente agli obblighi gravanti sulla parte più debole.
Principio rebus sic stantibus. Tale clausola è considerata causa di estinzione
degli accordi internazionali il trattato si estingue in tutto o in parte per il
mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione,
purché ovviamente si tratti di circostanze essenziali, di circostanze senza le
quali i contraenti non si sarebbero indotti al trattato o ad una sua parte.
La dottrina classica riconduceva questa causa di estinzione alla volontà dei
contraenti: essa riteneva che il trattato si estinguesse per effetto del
mutamento delle circostanze di fatto in quanto era da presumere che i
contraenti medesimi subordinassero l’efficacia del trattato al permanere di
quelle circostanze. La clausola rebus sic stantibus veniva, quindi, ridotta ad
una condizione risolutiva tacita. È chiaro, infatti, che se la parti,
espressamente o implicitamente, manifestano una volontà in questo senso, ci
troviamo di fronte ad una condizione risolutiva e quindi non c’è un problema
autonomo di effetto del mutamento delle circostanze. Il problema sorge
proprio quando i contraenti non hanno previsto il mutamento delle
circostanze come causa di estinzione del trattato.
La convenzione di Vienna, all’art 62, conferma siffatta norma ma la esprime
in termini molto più restrittivi, stabilendo che essa possa trovare applicazione
solo se le circostanze mutate costituivano la “base essenziale del consenso
delle parti”, se il mutamento sia tale da avere “radicalmente trasformato la
portata degli obblighi ancora da eseguire” e se il mutamento medesimo non
risulti dal fatto illecito dello stato che lo invoca.
L’art 62 dispone anche che il mutamento delle circostanze non possa essere invocato nel
caso di accordi che fissano frontiere, ma la disposizione sembra fuori luogo, se è vero
quanto si dice a proposito della successione nei trattati e cioè che la efficacia di simili
accordi non dura nel tempo, esaurendosi nel momento in cui la frontiera è tracciata e che il
rispetto delle frontiere non riguarda il diritto dei trattati ma i principi sulla sovranità
territoriale.

Specificazioni del p. rebus sic stantibus. Il p. rebus sic stantibus, anche se


inteso restrittivamente, ha una sfera di applicazione abbastanza ampia in
quanto varie regole del diritto dei trattati ne costituiscono una specificazione:
così la regola secondo cui, in tutti i casi di successione di uno stato ad un altro
nei diritti e negli obblighi pattizi, cadono comunque gli accordi incompatibili
col nuovo regime o quella relativa agli effetti della guerra sui trattati. Anche la
sopravvenuta impossibilità della prestazione è una forma di mutamento

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radicale delle circostanze (si può, anzi, dire, trattandosi di diritto non scritto,
che più di regole specifiche si tratti dello stesso p. rebus sic stan. applicato ad
ipotesi tipiche).
Principio rebus sic stan. e trattati tra loro incompatibili. Importante è il ruolo di
questo principio in tema di incompatibilità tra norme convenzionali. Di fronte ad un
accordo con cui le parti modificano impegni contratti nei confronti di altri stati, è
opportuno chiedersi se quegli impegni non siano venuti meno per il radicale mutamento
delle circostanze. Es: caso degli accordi con cui l’Italia e la Iugoslavia hanno regolato la
questione triestina, procedendo tra l’altro alla spartizione del territorio di Trieste. I due
accordi derogano agli artt 21 e 22 e agli allegati VI-X del trattato di pace del 1947 tra Italia
e le potenze alleate ed associate, i quali prevedevano la costituzione di un territorio libero
di Trieste amministrato dal consiglio di sicurezza delle nazioni unite, e muovono dal
presupposto di un radicale mutamento delle circostanze dovuto alla impossibilità di
funzionamento di tale consiglio di sicurezza.

Effetto della guerra sui trattati. Si discute se la guerra sia causa di estinzione
dei trattati. Di ciò non si occupa la convenzione di Vienna. Della materia si è
occupata la CDI che nel 2011 ha definitivamente approvato un testo di articoli
predisposto dal relatore speciale Lucius Caflisch, sottoponendolo
all’assemblea generale delle nazioni unite per l’eventuale trasformazione in
un testo convenzionale.
È ovvio che, fatti salvi quei trattati che sono stipulati proprio in vista della
guerra e che appartengono, pertanto, al diritto internazionale bellico, gli
accordi conclusi dagli stati belligeranti prima della guerra non trovino di
norma applicazione finché durano le ostilità. Ma qual è la loro sorte una volta
ripristinato lo stato di pace? In pratica: dopo la guerra, i trattati rimangono
sospesi finché le parti non decidano sulla loro sorte, oppure si estinguono?
Il problema si pose in Italia alla fine della seconda guerra mondiale: ad esso
venne data una soluzione parziale con l’art 44 del trattato di pace del 1947, il
quale stabilì che le potenze vincitrici avrebbero notificato all’Italia entro sei
mesi dall’entrata in vigore del trattato, quali accordi bilaterali intendessero
“mantenere in vigore” o “far rivivere”, lasciava impregiudicata la questione se,
per il periodo tra la fine della guerra e l’epoca della notifica, gli accordi
bilaterali dovessero ritenersi vigenti o estinti.
La regola classica era sicuramente nel senso dell’estinzione ma questa si è
andata affievolita nel tempo. Infatti, la prassi si è sempre più orientata in
favore di due eccezioni: si è così negato l’effetto estintivo, ed anche il
perdurare di quello sospensivo, della guerra in ordine ai trattati multilaterali;
ma, più in generale, si è manifestata nella giurisprudenza interna, compresa
la giurisprudenza italiana, la tendenza a considerare estinte solo quelle

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convenzioni che, per loro natura, per la materia di cui si occupano e per gli
interessi che tutelano, siano incompatibili con lo stato di guerra.
Il testo predisposto dalla CDI non è poi tanto dissimile da questa impostazione. Il principio
generale dal quale il testo parte, e che la CDI riprende, è che “l’esistenza di un conflitto
armato non pone termine o sospende ipso facto l’operatività dei trattati”. Secondo l’art 6
del testo, per stabilire se il trattato non resti sospeso o non si estingua in caso di guerra,
occorre badare alla sua natura, in particolare alla materia di cui si occupa, al numero delle
parti e alla durata e alla intensità del conflitto. Notiamo, infine, come nel testo del CDI non
si parla di guerra ma di conflitto armato e ciò perché il conflitto può eventualmente
intercorrere tra uno stato e un gruppo armato organizzato.

Automatica operatività delle cause di invalidità e di estinzione . Circa le


modalità di operative di queste cause è questa una materia assai dibattuta in
dottrina.
Certe cause, ad es. il termine finale o l’abrogazione da parte di un accordo
successivo, operano automaticamente. Ma per la maggior parte delle cause,
sia di invalidità che di estinzione, ad es. per vizi di volontà o per la
sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione, la discussione è aperta fra chi
sostiene l’automaticità e chi, invece, la necessità di un atto di denuncia o di
recesso notificato agli altri stati contraenti, altri ancora ritengono che in caso
di obiezioni di parte di questi ultimi, il trattato continui a restare in vigore
finché la causa di invalidità o di estinzione non sia accertata in modo
imparziale.
A nostro avviso, l’automaticità va in linea di massima riconosciuta, ma in un
senso ben circoscritto. Chiunque debba applicare un trattato, e ci riferiamo in
particolare agli operatori giuridici interni e ai giudici nazionali, non può non
decidere se il trattato sia ancora in vigore o se, viceversa, esso sia affetto da
una causa di invalidità o di estinzione. Il fatto che una simile decisione sia
consentita è testimoniato dalla prassi giurisprudenziale interna, prassi che
rivela la tendenza dei giudici nazionali a risolvere nelle loro sentenze le
questioni di validità e di estinzione dei trattati, sia autonomamente e sia in
conformità all’opinione degli organi preposti agli affari esteri, ma comunque
prescindendo da formali atti di denuncia o recesso sul piano internazionale.
Trattasi però (ed è questo un limite alla automaticità) di una decisione che
vale solo per il caso concreto, che cioè non è vincolante negli altri casi
successivi decisi da altri giudici o magari dallo stesso giudice. È chiaro pure
che la decisione circa l’invalidità o l’estinzione, sebbene limitata per quanto
concerne gli effetti al caso concreto, può avere conseguenze di carattere
internazionale, dando luogo a proteste, a misure di ritorsione o di
rappresaglia ecc da parte di quegli stati contraenti i quali ritengono che il
trattato sia invece perfettamente valido e in vigore.

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Denuncia del trattato. L’atto formale di denuncia (o recesso), notificato alle


altre parti contraenti o dal depositario del trattato, implica la volontà dello
stato di sciogliersi una volta per tutte dal vincolo contrattuale. Una simile
manifestazione di volontà, quando non è esercizio del potere di denuncia o
recesso previsto dallo stesso trattato ed esercitabile ad libitum ma si fonda su
di un’altra causa di invalidità o di estinzione, non è indispensabile; se lo stato
vi ricorre è per far risaltare in modo certo e definitivo che, a suo giudizio, il
trattato non è applicabile o non è più applicabile in quanto invalido o estinto.
È la denuncia (o recesso) sufficiente a produrre la cessazione del vincolo? La
risposta non è assoluta ma relativa; se si ha riguardo agli organi dello stato
denunciante/recedente e a tutti coloro che, all’interno dello stato medesimo,
dovrebbero osservare e far osservare il trattato, non vi è dubbio che la
denuncia e il recesso vincolino alla disapplicazione: unica condizione a tal fine
è che essa promani dagli organi competenti a manifestare la volontà dello
stato in ordine ai rapporti internazionali.
Se si ha riguardo, invece, agli stati contraenti è altrettanto in dubbio che
questi (e quindi i loro organi e i loro operatori giuridici) non siano vincolati
dalla unilaterale manifestazione di volontà dello stato denunciate/recedente;
cosicché, in caso di disaccordo sull’effettiva insorgenza della causa di
invalidità o di estinzione, il trattato entrerà in una fase di incertezza sul piano
internazionale (fase che potrà essere caratterizzata da ritorsioni, rappresaglie
ecc e dalla quale potrà uscirsi solo con un nuovo accordo oppure, ove
possibile, con la sentenza di un giudice internazionale).
Competenza a denunciare. Circa la determinazione degli organi dello stato competenti
a denunciare (o a recedere dal) il trattato, sia nel caso che il potere di denuncia/recesso sia
previsto dallo stesso trattato, sia nel caso che lo stesso invochi un’altra causa di invalidità o
di estinzione, occorre rifarsi (come per la competenza a stipulare) ai principi costituzionali
di ciascuno stato.
In Italia si discute se per la denuncia dei (o recesso dai) trattati che rientrano nelle
categorie previste dall’art 80 della costituzione occorra o meno una legge di autorizzazione
come per la ratifica. La prassi si orienta in senso negativo: competente a formare e a
manifestare la volontà dello stato nella materia in esame è il potere esecutivo. Come, però,
è stato notato questa situazione andrebbe evolvendo verso una sempre maggiore
collaborazione tra parlamento e governo e a favore, quindi, della necessità che vi sia una
qualche forma di assenso del primo in ordine alla decisione del secondo relativamente alla
denuncia (o al recesso). Non si ritiene che si possa arrivare a sostenere, però, almeno in
Italia, che tale assenso condizioni la validità della denuncia. Anzi, anche qui è opportuna la
distinzione tra manifestazione e formazione della volontà dello stato (da un lato) e
responsabilità del governo nei confronti del parlamento (dall’altro). Se, sotto il primo
profilo, la competenza a denunciare/recedere spetta all’esecutivo, i meccanismi di
controllo da parte del parlamento potranno eventualmente essere azionati, tenuto conto
delle circostanze concrete e della importanza del trattato in questione, ogni volta in cui il

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governo non provveda alla denuncia nonostante una sollecitazione, in tal senso, dal
parlamento oppure non informi, tempestivamente, quest’ultimo della volontà di
denunciare.
Procedura prevista dalla convenzione di Vienna per far valere la invalidità o
l’estinzione dei trattati. In sintesi la procedura è la seguente: lo stato il quale
invoca un vizio del consenso o un altro motivo riconosciuto come causa di
estinzione o di invalidità, deve notificare per iscritto la sua pretesa alle altre
parti contraenti del trattato in questione. Se, trascorso un termine non
inferiore a tre mesi, non vengono sollevate obiezioni, lo stato può
definitivamente dichiarare, con un atto comunicato alle altre parti, e che deve
essere sottoscritto dal capo dello stato (o dal capo del governo o dal ministro
degli esteri), che il trattato è da ritenersi invalido o estinto.
Se, invece, vengono sollevate delle obiezioni, lo stato che intende sciogliersi e
la/e parte/i obiettanti devono ricercare una soluzione della controversia con
mezzi specifici (negoziazione, conciliazione, arbitrato). La soluzione deve
intervenire entro 12 mesi. Trascorso inutilmente questo termine, ciascuna
parte può mettere in moto una complicata procedura conciliativa che fa capo
ad una commissione formata nell’ambito delle nazioni unite che, però, non
sfocia in una decisione obbligatoria ma solo in rapporto avente mero valore di
esortazione (una decisione obbligatoria è prevista, in caso eccezionale, solo se
la pretesa di invalidità o di estinzione si fondi su una norma di ius cogens).
Nei rapporti fra paesi aderenti alla convenzione, la procedura di cui agli artt.
65 ss. si sostituisce al tradizionale atto di denuncia, ossia un atto posto in
essere senza l’osservanza di particolari forme, termini e modalità.
15.Le fonti previste da accordi.
Il fenomeno delle organizzazioni internazionali.
Le nazioni unite.
Abbiamo detto che i trattati possono contenere non solo regole materiali ma
anche regole formali e strumentali, cioè regole che istituiscono ulteriori
procedimenti o fonti di produzione di norme. L’oggetto più importante in
materia è oggi fornito dal settore dell’organizzazione internazionale: in tutti i
casi in cui un’organizzazione internazionale è abilitata dal trattato che le da
vita (e che costituisce il suo statuto) ad emanare decisioni vincolanti per gli
stati membri, si è in presenza di una fonte prevista da accordo (anche detta
fonte di terzo grado).
Attualmente, il numero delle organizzazioni internazionali esistenti è
impressionante ma solo alcune di esse dispongono di un vero e proprio potere
decisionale.

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In linea di massima, il loro compito non è quello di emanare norme quanto


quello di facilitare la collaborazione tra gli stati membri. Quindi, ne deriva che
l’attività delle organizzazioni (tra cui quella della massima organizzazione
esistente e cioè l’ONU) si svolge il più spesso in una fase che ha scarso valore
giuridico, consistendo nella mera predisposizione di progetti di convenzioni
che gli stati membri sono poi liberi di tradurre o no in norme giuridiche
attraverso la ratifica delle convenzioni medesime.
Altra attività delle organizzazioni consiste nell’emanare raccomandazioni,
cioè atti che hanno valore di esortazione e che quindi non vincolano gli stati
cui sono indirizzati.
Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono essere prese a
maggioranza, magari qualificata. Poiché, peraltro, la maggioranza degli
organi delle organizzazioni è composta da stati, e poiché gli stati, anche
quando si tratta di raccomandazioni e di decisioni non vincolanti, non amano
sottostare alle altrui deliberazioni, non è rara la ricerca della unanimità.
Pratica del consensu. Questa pratica consiste nell’approvare una risoluzione
senza una votazione formale, di solito con una dichiarazione (non contestata
ma concertata) del presidente dell’organo, la quale attesta l’accordo tra i
membri.
Organizzazione delle Nazioni Unite. Fu fondata dopo la seconda guerra
mondiale dagli stati che avevano combattuto contro le potenze dell’Asse e
prese il posto della disciolta società delle nazioni. La conferenza di San
Francisco nel 1945 ne elaborò la Carta che venne ratificata dagli stati
fondatori. Successivamente, ne sono divenuti membri quasi tutti gli stati del
mondo.
L’art 7 della carta considera come organi principali: l’assemblea generale, il
consiglio di sicurezza, il consiglio economico e sociale, il consiglio di
amministrazione fiduciaria, la corte internazionale di giustizia e il
segretariato.
Consiglio di sicurezza composto da 15 membri, di cui 5 siedono a titolo
permanente (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia) e godono del
cd diritto di veto, cioè del diritto di impedire col loro voto negativo l’adozione
di qualsiasi delibera che non abbia mero carattere procedurale; gli altri 10
sono eletti per un biennio dall’assemblea. Il consiglio di sicurezza si occupa
solo di questioni attinenti al mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale (ha, quindi, una competenza limitata ratione materiae).
Assemblea generale ha una competenza molto vasta ratione materiae e in
essa sono rappresentati tutti gli stati e tutti hanno pari diritto di voto.

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Consiglio economico e sociale composto da membri eletti dall’assemblea;


insieme al consiglio di amministrazione fiduciaria (attualmente senza lavoro
avendo svolto per decenni il controllo sull’amministrazione di territori di tipo
coloniale) è in posizione subordinata rispetto all’assemblea generale, in
quanto sono tenuti a seguirne le direttive.
Il segretariato è l’organo esecutivo dell’organizzazione.
Corte internazionale di giustizia (CIG) composta da 15 giudici e ha sia la
funzione di dirimere le controversie fra stati e sia una funzione consultiva in
quanto può dare pareri su qualsiasi questione (tali pareri non sono però ne
obbligatorio ne vincolanti).
L’art. 7 della Carta prevede che organi sussidiari possano essere istituiti “ove si rivelino
necessari”; esiste tutta una serie di organi permanenti che svolgono funzioni di rilievo
anche se non sono dotati di poteri vincolanti: i più importanti sono l’UNCTAD (Conferenza
delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite
per lo sviluppo), l’UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia), l’UNHCR (Alto
Commissariato per i rifugiati), l’UNITAR (Istituto delle Nazioni Unite per l’insegnamento e
la ricerca), l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente).

Consiglio di sicurezza, assemblea generale, consiglio economico e sociale e


consiglio di amministrazione fiduciaria sono organi composti da stati: gli
individui che con il loro voto concorrono a formare la decisione collegiale
sono organi del proprio stato, manifestano la volontà del proprio stato.
Segretariato generale e Corte Internazionale di Giustizia sono invece organi
composti da individui, nel senso che il Segretario ed i giudici assumono
l’ufficio a titolo puramente individuale, con l’obbligo di non ricevere istruzioni
da alcun governo.
Competenza rationae materiae delle nazioni unite. Gli scopi, e quindi la
competenza ratione materiae, sono ampi e indeterminati. È più facile indicare
le materie di cui essa non può occuparsi che quelle oggetto delle sue
competenze.
L’art. 2 della carta indica che le Nazioni Unite non devono intervenire in
questioni “che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno
Stato”. Dall’elencazione dell’art. 1 possono individuarsi tre grandi settori: il
primo è quello del mantenimento della pace, il secondo è quello dello
sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli stati “fondati sul rispetto del
principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli”, il
terzo è quello della collaborazione in campo economico, sociale, culturale ed
umanitario.
Decisioni vincolanti dell’assemblea generale. Quali sono i rari casi in cui le
decisioni dell’ONU sono vincolanti?

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Per quanto concerne l’assemblea generale, un caso molto importante è


previsto dall’art 17 della carta che attribuisce all’assemblea il potere di
ripartire tra gli stati membri le spese dell’organizzazione, ripartizione che,
approvata a maggioranza dei 2/3 vincola tutti gli stati. Altro caso è quello
relativo alla competenza dell’assemblea di decidere, sempre con efficacia
vincolante per gli stati membri, circa modalità e tempi per la concessione
dell’indipendenza sotto dominio coloniale.
Le decisioni vincolanti del consiglio di sicurezza sono quelle previste da
talune disposizioni del Capitolo VII della carta (“azione rispetto alle minacce
alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione”).
Nucleo centrale sono gli artt. 41 e 42 riguardanti rispettivamente le misure
non implicanti e quelle implicanti l’uso della forza contro uno stato che abbia
anche solo minacciato la pace. A parte l’art. 42, in base al quale il consiglio
“può intraprendere” azioni di tipo bellico contro uno stato e che quindi si
presta poco ad essere inquadrato tra le fonti di norme internazionali, l’art. 41
prevede le c.d. sanzioni: attribuisce al consiglio di sicurezza il potere di
deliberare quali misure non implicanti l’uso della forza armata debbano
essere adottate dagli stati membri contro uno stato che minacci o abbia
violato la pace, ed indica tra siffatte misure, a titolo esemplificativo,
l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle
comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio e altre,
e la rottura delle relazioni diplomatiche; anche un comportamento
meramente interno a uno stato può indurre il consiglio a ricorrere a siffatte
sanzioni.
16.Gli istituti specializzati delle nazioni unite.
Altre organizzazioni internazionale a carattere universale.
Le decisioni tecniche di organismi internazionali.
Accordi di collegamento tra ONU e istituti specializzati. Un gran numero di
organizzazioni universali assumono il nome di Istituti specializzati (o
Istituzioni specializzate) delle Nazione Unite, in quanto sono collegate con
queste ultime e ne subiscono un certo potere di coordinamento e di controllo,
nonostante siano organizzazioni autonome, sorte da trattati del tutto distinti
dalla Carta ONU ed i cui membri solo in linea di massima coincidono con i
membri dell’ONU.
Il collegamento tra ciascun Istituto specializzato e le Nazioni Unite nasce da
un accordo che le due organizzazioni stipulano e che, dal lato ONU, è
negoziato dal consiglio economico e sociale e approvato dall’assemblea
generale. Fino ad oggi il contenuto di ogni accordo di collegamento si è più o

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meno conformato ad uno schema tipico, fissato nel 1946 in occasione delle
convenzioni concluse dall’ONU con ILO, UNESCO e FAO: tale schema
prevede lo scambio di rappresentanti, osservatori, documenti, il ricorso a
consultazioni in caso di necessità, il coordinamento dei rispettivi servizi
tecnici, ecc. Ma l’importanza dell’accordo di collegamento sta soprattutto
nella conseguente applicabilità delle norme della Carta che si occupano degli
Istituti e che li sottopongono al potere di coordinamento e controllo
dell’ONU.
Funzioni normative degli istituti specializzate. Anche gli Istituti specializzati,
come le Nazioni Unite, emanano di solito raccomandazioni oppure
predispongono progetti di convenzione e quindi esauriscono la loro attività in
una fase di scarso rilievo giuridico. In alcuni casi essi emanano, però, a
maggioranza, decisioni vincolanti per gli Stati membri o, meglio, decisioni che
divengono vincolanti se gli stati non manifestano entro un certo periodo di
tempo la volontà di ripudiarle; tali decisioni vanno inquadrate tra le fonti
previste da accordo, cioè dall’accordo istitutivo della relativa organizzazione.
Funzioni operative degli istituti specializzati. Oltre a simili funzioni di tipo
normativo, gli Istituti specializzati svolgono funzioni di tipo operativo (deliberazione ed
esecuzione di programmi di assistenza tecnica, di aiuti, di prestiti, ecc.); intensi al riguardo
sono i collegamenti con gli organi dell’ONU preposti alla cooperazione per lo sviluppo,
collegamenti che avvengono su base paritaria e non si traducono in rapporti di dipendenza.
FAO (Food and Agricultural Organization) creata nel 1945, ha sostituito l’Istituto
Internazionale di Agricoltura (esistente dal 1905); suoi organi sono la Conferenza,
composta di un delegato per Stato membro e che si riunisce ogni due anni, il Consiglio e il
Direttore generale; ha funzioni di ricerca, informazione, promozione ed esecuzione di
programmi di aiuti e assistenza nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione.
ILO (International Labour Organization) è l’Organizzazione Internazionale del Lavoro,
costituita con i Trattati di pace alla fine della prima guerra mondiale; ogni Stato partecipa
alla Conferenza generale con quattro delegati, di cui due rappresentano il Governo e gli
altri due rispettivamente i datori di lavoro e i lavoratori; altri organi sono il Consiglio di
Amministrazione, di cui fanno permanentemente parte dieci Stati fra i più industrializzati
del mondo, e l’Ufficio internazionale del lavoro con a capo un Direttore generale; ha
funzioni relative all’emanazione di raccomandazioni e alla predisposizione di progetti di
convenzione multilaterale in materia di lavoro; i progetti di convenzione vengono
comunicati agli Stati membri che sono liberi di ratificarli o meno, ma che hanno l’obbligo
di sottoporli entro un certo termine agli organi competenti per la ratifica.
UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization) si propone
di diffondere la cultura, lo sviluppo dei mezzi di educazione, l’accesso all’istruzione, di
assicurare la conservazione del patrimonio artistico e scientifico, ecc.; suoi organi sono la
Conferenza generale, il Comitato esecutivo ed il Segretariato; anche i suoi progetti di
convenzione devono essere sottoposti entro un certo periodo di tempo dallo Stato membro
agli organi competenti a ratificare, salva sempre la libertà di procedere o meno a
quest’ultima.

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ICAO (International Civil Aviation Organization) il Consiglio può emanare, sotto forma
di allegati alla Convenzione, tutta una serie di disposizioni (denominate standard
internazionali o pratiche raccomandate) relative al traffico aereo: gli allegati entrano in
vigore per tutti gli Stati membri dopo tre mesi dalla loro adozione se nel frattempo la
maggioranza degli Stati membri non abbia notificato la propria disapprovazione; sono atti
che costituiscono una vera e propria fonte di norme internazionali di carattere tecnico,
vincolanti tutti gli Stati membri, compresi quelli dissenzienti.
WHO (World Health Organization) ha come obiettivo principale il conseguimento da
parte di tutti i popoli del livello più alto possibile di salute; l’Assemblea può emanare
‘regolamenti’ in tema di procedure per prevenire la diffusione di epidemie, di
nomenclatura di malattie epidemiche e mortali, di caratteristiche di prodotti farmaceutici,
ecc.; detti regolamenti entrano in vigore per tutti i Paesi membri eccettuati quei Paesi che,
entro un certo periodo di tempo, comunicano il loro dissenso.
IMO (International Maritime Organization)ha preso vita nel 1958 e si occupa di
problemi relativi alla sicurezza ed efficienza dei traffici marittimi, emanando
raccomandazioni e predisponendo progetti di convenzione.
ITU (International Telecommunication Union), WMO (World Meteorological
Organization), UPU (Universal Postal Union) esistono da circa un secolo e svolgono
un’attività di predisposizione di testi convenzionali e di ‘regolamenti’; i regolamenti degli
ultimi due Istituti non vincolano lo Stato membro indipendentemente dalla sua volontà,
mentre le revisioni periodiche ai regolamenti amministrativi del primo vincolano tutti gli
Stati membri, salvo che questi non manifestino la loro opposizione al momento
dell’adozione o entro un certo termine dall’adozione.
FMI (fondo monetario internazionale), BIRD (banca internazionale per la ricostruzione e
lo sviluppo), IFC (International Finance Corporation), IDA (International Development
Association) il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la
Ricostruzione e lo Sviluppo sono stati creati nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods; gli
organi principali del Fondo sono il Consiglio dei Governatori, organo deliberante composto
da un Governatore e da un supplente nominati da ciascuno Stato membro (e che delibera
secondo maggioranze corrispondenti all’entità delle quote di capitale sottoscritte e quindi
con un peso determinate dei Paesi ricchi, degli Stati Uniti in particolare), il Comitato
esecutivo e il Direttore generale; ha funzioni di promozione della collaborazione monetaria
internazionale, della stabilità dei cambi, dell’equilibrio delle varie bilance dei pagamenti,
ecc. e dispone di un capitale sottoscritto pro quota dagli Stati membri; questi ultimi
possono ricorrere alle riserve del Fondo entro certi limiti rapportati alla quota sottoscritta,
secondo regole precise ed a determinate condizioni stabilite di volta in volta (nel caso dei
c.d. stand-by agreements), allorché abbiano necessità di procurarsi valuta estera al fine di
fronteggiare squilibri nella propria bilancia dei pagamenti; le condizioni di volta in volta
fissate costituiscono oggetto di una lettera di intenti sottoscritta da un rappresentante dello
Stato richiedente; la Banca ha un cospicuo capitale sottoscritto dagli Stati membri e suo
scopo principale è la concessione di mutui agli Stati membri (oppure a privati, ma con
garanzia circa la restituzione prestata da uno Stato membro) per investimenti produttivi e
ad un tasso di interesse variabile a seconda del grado di sviluppo dello Stato membro
interessato; affiliati alla Banca sono gli altri due Istituti specializzati.

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IFAD (International Fund for Agricultural Development) è un ente finanziario


internazionale che contribuisce allo sviluppo dell’agricoltura dei Paesi poveri e con deficit
alimentari notevoli; l’organo deliberante, il Consiglio dei Governatori, è sotto il controllo
dei Paesi in via di sviluppo.
WIPO (World Intellectual Property Organization) dal 1970 si occupa dei problemi della
proprietà intellettuale nel mondo, assicurando la cooperazione amministrativa tra le
Unioni già presenti nel settore, partecipando ad accordi, fornendo assistenza tecnica legale
agli Stati, ecc.
UNIDO (United Nations Industrial Development Organization) già organo sussidiario
dell’Assemblea generale dell’ONU, è stata trasformata in Istituto specializzato nel 1979; è
costituita da un’Assemblea, un Consiglio ed un Segretariato; i suoi compiti principali sono
di tipo operativo.
IAEA (International Atomic Energy Agency) promuove lo sviluppo e la diffusione delle
applicazioni pacifiche dell’energia atomica; non ha la qualifica di Istituto specializzato
perché, per la materia che tratta, ha legami sia con l’Assemblea che col Consiglio di
Sicurezza e non, come gli altri Istituti, con l’Assemblea e il Consiglio economico e sociale.
OMS (organizzazione mondiale della sanità) Ha sede a Ginevra e conta 194 stati
membri. Ai sensi dell’art 1 della costituzione, lo scopo istituzionale dell’OMS consiste nel
portare tutti i popoli al più alto grado possibile di salute.
Nelle materie di propria competenza l’OMS detiene anche una potestà normativa che può
manifestarsi secondo due principali modalità: a) l’assemblea mondiale della sanità
rappresenta un foro in cui gli stati possono concludere accordi in forma semplificata,
ovvero fonti di secondo grado; b) può emanare regolamenti che sono direttamente
vincolanti per gli stati membri a meno che questi, entro un certo termine, dichiarino di non
accettarli o vi appongono riserve. Ad oggi, l’OMS ha adottato due regolamenti: 1)
regolamento sulle nomenclature del 1967 e il regolamento sanitario internazionale.
Quest’ultimo strumento ha assunto rilievo in questo periodo Covid rappresentando il
quadro normativo che regola la cooperazione dell’OMS e degli stati membri nell’azione di
controllo del contagio ed i rispettivi obblighi.
OMC (organizzazione mondiale del commercio) del tutto indipendente dalle Nazioni
Unite, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, creata nel 1994 e di cui fanno parte 164
Stati (fra cui l’Italia), ha come organi principali: la Conferenza ministeriale, in cui tutti i
membri sono rappresentati e che si riunisce ogni due anni; il Consiglio generale, composto
dai rappresentanti di tutti i membri e che si riunisce nell’intervallo delle riunioni della
Conferenza; il Segretariato, con a capo un Direttore generale; l’Organizzazione fornisce un
forum per lo svolgimento dei negoziati relativi alle relazioni commerciali multilaterali e
tendenti alla massima liberalizzazione del commercio mondiale (‘globalizzazione’ dei
mercati): sono complessi negoziati che prima si svolgevano in seno all’Accordo generale
sulle tariffe e sul commercio (GATT), fuori da un quadro istituzionale; l’Organizzazione
veglia sull’esecuzione di tutta una serie di accordi annessi allo statuto come integrazioni di
quest’ultimo; annessi allo statuto sono lo stesso GATT, il GATS (Accordo generale sugli
scambi dei servizi) e il TRIPs (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà
intellettuale); la Conferenza e il Consiglio possono adottare, a maggioranza dei tre quarti
dei membri, decisioni vincolanti con cui fornire un’interpretazione delle norme dello
statuto o dispensare uno Stato membro dall’osservanza degli obblighi derivanti dalle

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norme medesime; altrettanto può fare un altro organo dell’Organizzazione, deputato alla
soluzione delle controversie, il Dispute Settlement Body.

Organismi tecnici internazionali. Nel campo della tutela dell’ambiente e della


conservazione delle risorse sono stati creati vari organismi che prendono
decisioni vincolanti di carattere tecnico. Sono detti ‘organismi’ in quanto i
trattati che li prevedono non danno luogo a vere e proprie organizzazioni
distinte dagli Stati membri, non creano un insieme permanente di organi ma
demandano un certo potere normativo alla assemblea degli Stati contraenti.
Le decisioni vincolanti, di solito emanate sotto forma di annessi o allegati al
trattato istitutivo, derivano la loro forza vincolante dal trattato istitutivo
medesimo e sono fonti di norme internazionali di terzo grado.
17.Unione europea e diritto comunitario.
CECA, CE, EURATOM. Nel 1951 fu creata, col trattato di Parigi, la prima
comunità europea, la CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio). Ad
essa fecero seguito, con i trattati di Roma, la CEE (comunità economica
europea), poi denomina CE (comunità europea), e l’Euratom (comunità
europea dell’energia atomica).
Dopodiché, modifiche di rilievo sono conseguiti all’atto unico europeo, al
trattato di Maastricht sull’unione europea, al trattato di Amsterdam. Si tratta
di trattati che hanno segnato tappe significative nel processo di integrazione
europea.
Unione europea. Il trattato di Lisbona ha decretato l’estinzione della CE e la
costituzione di un solo soggetto, l’Unione Europea. La vita dell’unione
europea viene ad essere regolata da due trattati: TUE e TFUE. Dell’unione
fanno parte 27 stati (il Regno Unito non è più parte dell’unione europea
avendo attivato il meccanismo di recesso previsto dall’art 50 TUE, cd
“Brexit”).
Natura giuridica dell’UE. Circa la natura giuridica dell’UE bisogna chiedersi
se si tratti di una vera e propria organizzazione internazionale (ossia di
un’organizzazione fra stati sovrani che trae dal diritto internazionale,
attraverso i rispettivi trattati istitutivi, i suoi poteri) oppure di un frammento
o embrione di stato federale, caratterizzato dalla erosione, nelle materie di
competenza dell’unione, delle sovranità statali. Sicuramente l’unione presenta
dei caratteri abbastanza unici: pensiamo agli ampi poteri decisionali attribuiti
ai suoi organi, alla sua sostituzione agli stati membri nella disciplina di molti
rapporti puramente interni a questi ultimi, alla esistenza di una corte di
giustizia destinata a controllare la conformità al diritto dell’unione dei
comportamenti degli organi e degli stati membri ecc.

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L’unione nel suo complesso resta, almeno allo stato attuale delle cose,
un’organizzazione internazionale sia pure altamente sofisticata sebbene ci
siano comunque dei principi che si sono affermati molto nella prassi, primo
fra tutti il principio della prevalenza del diritto comunitario su quello interno.
Struttura dell’unione europea. Li ho elencati senza descriverli: consiglio europeo,
commissione europea, consiglio, parlamento europeo, corte dei conti, corte di giustizia,
banca centrale europea.

Legislazione dell’unione europea. L’attività legislativa degli organi dell’unione


ha notevole importanza nella formazione del diritto dell’unione per il fatto
che le norme hanno carattere generico e programmatico, rimettendosi
appunto al “legislatore”. La competenza legislativa è esercitata secondo i due
tipi di procedura, ordinaria e speciale-
L’art 288 TFUE prevede tra gli atti vincolanti (come tali classificabili tra le
fonti di norme internazionali): regolamenti, decisioni e direttive. Atti non
vincolanti sono: raccomandazioni e pareri. Secondo l’art 297 gli atti legislativi
entrano in vigore a seguito della pubblicazione nella gazzetta ufficiale
dell’unione, trascorsa una vacatio legis di venti giorni, oppure entro il limite
di volta in volta da essi stabilito.
Regolamento atto legislativo più importante e completo; è l’atto col quale la
legislazione dell’unione si sostituisce o si sovrappone alla legislazione interna
dei singoli stati membri. Esso contiene norme generali ed astratte le quali
vanno osservate dagli stati e da chiunque operi all’interno degli stati membri.
Decisioni non ha portata generale ed astratta, ma concreta. Essa può
indirizzarsi sia ad uno stato membro che ad un individuo o ad un’impresa
operante nel territorio dell’unione. In ogni caso, si tratta pur sempre di un
atto vincolante quindi il soggetto, cui la decisione è indirizzata, è tenuto ad
osservarla. Come distinguiamo un regolamento da una decisione? occorre
guardare non il nomen (cioè al fatto che gli organi comunitari diano ad un
loro atto il nome di regolamento o di decisione), ma alla sostanza, cioè
appunto alla natura generale e astratta oppure concreta delle norme
contenute nell’atto.
Direttive mentre decisioni e regolamenti sono obbligatori in tutti i loro
elementi, al direttiva “vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto
riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi
nazionali in merito alla forma e ai mezzi”. Quindi: la direttiva dovrebbe
limitarsi ad enunciare principi e criteri generali, di regole finali destinate ad
essere tradotte dal singolo stato in norme di dettaglio. Senonché la prassi
degli organi comunitari si è orientata in senso contrario: la direttiva è cioè
assai spesso dettagliata. In questi casi gli organi comunitari hanno

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decisamente manifestato la tendenza ad indicare con precisione le norme


interne che gli stati sono tenuti ad adottare. Assai spesso, dato il contenuto
estremamente dettagliato della direttiva, la discrezionalità dello stato si
riduce soltanto alla scelta della forma giuridica interna da dare alla norma già
fissata sul piano europeo.
Atti atipici. Ci riferiamo ai regolamenti interni degli organi, le comunicazioni
della commissione (con cui essa fa conoscere il suo punto di vista su
determinate questioni), i programmi generali del consiglio (che fissano per
determinate materie gli obiettivi da raggiungere e che sono destinati ad essere
eseguiti mediante regolamenti, direttive e decisioni). Poi ci sono atti adottati
all’unanimità dal consiglio europeo e dal consiglio, nel campo della politica
estera e della sicurezza, come le decisioni che definiscono le azioni che
l’unione deve intraprendere e le posizioni che l’unione deve assumere.
Accordi internazionali dell’unione. Come tutte le organizzazioni
internazionali, l’unione ha la capacità di concludere accordi internazionali. A
parte gli accordi negoziati e firmati direttamente dai capi di stato e di governo
in seno al consiglio europeo, la conclusione di accordi è prevista da varie
norme del TUE e del TFUE. Uno dei settori in cui gli accordi con i paesi terzi o
altre organizzazioni internazionali rivestono particolare importanza è quello
della PESC.
I negoziati sono condotti dalla commissione su autorizzazione del consiglio, il
quale può impartire direttive ai negoziatori. Lo stesso consiglio autorizza sia
la firma del testo così negoziato sia la sua conclusione, previa nei casi indicati
nel trattare del parlamento europeo, l’approvazione da parte di quest’ultimo.
Si afferma, inoltre, la prassi dei cd accordi amministrativi una sorta di
accordi in f.s. in quanto conclusi esclusivamente dalla commissione.
Il rispetto delle competenze e delle procedure previste dai trattati in ordine alla stipula di
accordi internazionali comporta l’invalidità dell’atto di conclusione dell’accordo. In questo
senso: la sentenza del 94 con la quale la corte di giustizia ha annullato l’atto con cui la
commissione, in violazione delle competenze attribuite al consiglio, aveva stipulato un
accordo con gli Stati Uniti in materia di concorrenza.

Secondo l’art 218, n.11, uno stato membro, il parlamento, il consiglio o la


commissione può chiedere alla corte di giustizia di dare in via preventiva un
parere circa la compatibilità dell’accordo con le disposizioni del trattato. Se il
parere è negativo l’accordo potrà entrare in vigore solo dopo una modifica
formale del trattato.
Il n.2 dell’art 216 stabilisce che gli accordi sono vincolanti per le istituzioni
dell’unione e per gli stati membri. Viene con ciò sancita un’eccezione al p.
generale che vale per organizzazioni internazionali, secondo cui gli accordi

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stipulanti da un’organizzazione restano estranei alla sfera giuridica degli stati


membri.
Per quanto riguarda le istituzioni, gli accordi in questione si situano
nell’ordinamento dell’unione a metà strada fra le norme del TUE e del TFUE e
gli atti delle istituzioni: da un lato, essi non posso derogare ai trattati;
dall’altro, non possono a loro volta essere derogati dalle istituzioni.
Accordi in associazione e accordi commerciali. I primi dovrebbero essere
caratterizzati rispetto ai secondi per il fatto di prevedere non solo diritti e obblighi relativi
agli scambi commerciali tra le parti ma anche “azioni in comune e procedure particolari”.
Tra gli accordi di associazione ricordiamo: accordo di Cotonou concluso nel 2000 per una
durata di 20 anni tra l’unione e i paesi ACP.

Una particolare competenza in tema di stipula di accordi internazionali è


stata prevista dall’art 6 par 2 TUE in virtù del quale “l’unione aderisce alla
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali”. Le condizioni per l’adesione alla CEDU sono fissate dal
protocollo n8 al trattato di Lisbona, il quale chiarisce che l’accordo di
adesione non può mettere in discussione la specificità dell’ordinamento
dell’unione, né le sue competenze né le attribuzioni alle sue istituzioni.
Su queste basi giuridiche, le istituzioni dell’unione hanno avviato nel 2010 un
ciclo di negoziati con il consiglio d’Europa e suoi 47 stati membri, giungendo
nell’aprile del 2013 ad un progetto di accordo di adesione. Ma, tale progetto è
stato “bocciato” dalla corte di giustizia che ne ha rilevato la incompatibilità
con i trattati sotto molteplici profili.
Carattere esclusivo della competenza dell’UE a stipulare accordi. La
competenza dell’unione a concludere accordi internazionali nei casi
contemplati dal trattato (e quando questo non disponga il contrario) ha
carattere esclusivo: quindi, gli stati membri sono obbligati a non concludere,
per loro conto, accordi nelle stesse materie.
Ampliamento della competenza a stipulare dell’UE. Un accordo può essere
comunque concluso se sia necessario per realizzare uno degli obiettivi fissati
dai trattati o ciò sia previsto in un atto vincolante dell’unione.
18.L’ocse e il consiglio d’europa.
OECE. Subito dopo la seconda guerra mondiale furono costituite
l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE), poi
trasformata nel 1960 in Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico (OCSE) ed estesa via via a vari paesi occidentali non europei, ed il
consiglio d’Europa, che attualmente comprende più di 47 Stati membri.

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Consiglio d’Europa. L’art. 1 del Trattato istitutivo di quest’ultimo stabilisce


che “Scopo del Consiglio d’Europa è di conseguire una più stretta unione fra i
suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che
costituiscono il loro comune patrimonio e di favorire il loro progresso
economico e sociale”; l’art. 3 aggiunge che “Ogni membro del Consiglio deve
accettare il principio della preminenza del Diritto e quello in virtù del quale
ogni persona, posta sotto la sua giurisdizione, deve godere dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali”; i suoi organi principali sono: il
Comitato dei Ministri, che è l’organo dotatati dei maggiori poteri e che è
composto dai Ministri degli Esteri di tutti gli Stati membri, l’Assemblea
consultiva (detta Assemblea parlamentare), che esprime voto e
raccomandazione al Comitato dei Ministri e nella quale siedono i
rappresentanti dei Parlamenti nazionali, e il Segretariato, con a capo un
Segretario generale; circa le funzioni, che normalmente non danno luogo ad
atti vincolanti, va sottolineata la predisposizione di convenzioni.
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, della quale
sono attualmente parti contraenti tutti gli Stati membri del Consiglio
d’Europa, fu solennemente firmata a Roma nel 1950; successivamente sono
stati aggiunti diversi protocolli, tra cui il protocollo n. 11 (in vigore dal 1998)
che ha provveduto alla fusione dei due organi che prima esercitavano il
controllo sul rispetto dei diritti tutelati, la commissione e la corte europea dei
diritti dell’uomo, in una corte unica.
Sono da ricordare anche il protocollo n.14 e il protocollo n.16, entrato in
vigore l’1.8.2018 (ma non ratificato dall’Italia) il quale prevede la possibilità
per le altre giurisdizioni degli stati membri di chiedere alla corte EDU “pareri
consultivi su questioni di principio relative alla interpretazione o
all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla convenzione o dai suoi
protocolli”.
19.Le raccomandazioni degli organi internazionali.
La raccomandazione è l’atto tipico che le nazioni unite (e le organizzazioni
internazionali in generale) hanno il potere di emanare. Essa non è vincolante:
non vincola lo stato o gli stati cui si dirige a tenere il contegno raccomandato
ma, nello specifico, ha valore esortativo.
Effetto di liceità delle raccomandazioni. Nelle precedenti edizioni del manuale
si sosteneva una tesi secondo cui la raccomandazione produrrebbe un “effetto
di liceità”: non commette illecito lo stato il quale, in osservanza di una
raccomandazione, venga meno ad obblighi precedentemente assunti nei
confronti di altri stati membri dell’organizzazione raccomandante; ciò purché

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la raccomandazione sia legittima e cioè non fuoriesca dalle competenze


proprie degli organi e da ogni altro limite che il trattato istitutivo ponga
all’azione degli organi medesimi. Una simile tesi poteva essere ricavata dalla
prassi delle nazioni unite quando le raccomandazioni non erano, come oggi,
né numerose né tanto prolisse. Se poi consideriamo che la prassi non ha più
offerto esempi significativi dell’effetto di liceità, ci sembra che questo non sia
più tanto ricavabile dall’obbligo di cooperazione insito in ogni trattato
istitutivo di organizzazione internazionale.
Dobbiamo ormai riconoscere che le raccomandazioni appartengono al soft
law.
Inosservanza reiterata della raccomandazione. Taluni, sempre facendo leva
sull’obbligo di cooperazione insito nei trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali, ritengono che sia illecito il comportamento dello stato che
rifiuti di osservare una serie di raccomandazioni. Ma, questo equivale col dire
che le raccomandazioni, purché reiterate nel tempo, diverrebbero
obbligatorie. La tesi è inaccettabile in quanto il principio di cooperazione tra
gli stati membri non può essere spinto fino al punto di sovvertire la
caratteristica fondamentale dell’atto, che è quella di non vincolare il
destinatario al contegno raccomandato.
20. La gerarchia delle fonti internazionali.
Il diritto internazionale cogente.
L’unitarietà dell’ordinamento internazionale.
Rapporti tra consuetudine e accordo. Al vertice della gerarchia delle fonti si
situano, quindi, le norme consuetudinarie tra le quali sono comprese le
norme consuetudinarie costituite dai principi generali di diritto comuni agli
ordinamenti interni. Quindi, la consuetudine è fonte di primo grado ed è
l’unica fonte di norme generali, come tali vincolanti tutti gli stati.
Al secondo posto della gerarchia vi è il trattato, che trova in una norma
consuetudinaria (la norma pacta sunt servanda) il fondamento della sua
obbligatorietà.
Al terzo posto abbiamo le fonti previste da accordo, particolarmente dagli atti
delle organizzazioni internazionali.
Quali sono i rapporti fra queste fonti? Le norme di grado inferiore possono
derogare a quelle di grado superiore?
Iniziamo dai rapporti tra consuetudine e accordo. Il fatto che le norme
pattizie siano sottordinate a quelle consuetudinarie non significa di per sé
inderogabilità di queste ultime da parte delle prime. Una norma di grado

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inferiore può derogare alla norma di grado superiore se quest’ultima lo


consente. Es: nel diritto interno un regolamento governativo può derogare
alla legge se ciò è dalla legge previsto. Il nostro problema consiste nel
chiederci se le norme consuetudinarie internazionali siano così fortemente
vincolanti da non poter essere derogate mediante trattati.
Flessibilità delle norme consuetudinarie. In linea generale la soluzione da
dare al problema posto è negativa. Le norme consuetudinarie, secondo
l’opinione comune, sono caratterizzate dalla loro flessibilità e quindi dalla
loro derogabilità mediante accordo.
Data la flessibilità della consuetudine, e dato che le norme pattizie hanno carattere
particolare ratione personarum (in quanto vincolano solo gli stati contraenti) mentre la
maggior parte delle norme consuetudinarie ha carattere generale, il diritto pattizio finisce
con l’avere la prevalenza sul diritto consuetudinario; è noto infatti che il diritto particolare
prevale su quello generale anche se anteriore.
Flessibilità dei principi generali di diritti riconosciuti dalle nazioni civili.
Anche per i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti interni vale la regola della
derogabilità mediante accordo. Un esempio chiaro di deroga del genere è dato dall’art 27,
n.3, della carta delle nazioni unite tale norma prevede che lo stato membro del consiglio
di sicurezza debba astenersi dal votare se una questione lo riguardi, ma limita l’obbligo di
astensione a determinati casi di minore importanza: l’obbligo di astensione non è previsto
tra l’altro nel caso si discuta della proposta di espulsione dall’ONU oppure dell’adozione di
misure coercitive a tutela della pace.

Se tutti concordano sul carattere generalmente flessibile delle norme


consuetudinarie è, però, opinione comune che esista un gruppo di norme che
sarebbero cogenti (ius cogens).
Anche la convenzione di Vienna sul diritto dei trattati si pronuncia in tal
senso. L’art 53 della Convenzione stabilisce infatti che “è nullo qualsiasi
trattato che, al momento della sua conclusione, è in contrasto con una norma
imperativa del diritto internazionale generale”, dovendosi intendere per
norma imperativa del diritto internazionale generale “una norma accettata e
riconosciuta dalla comunità internazionale degli stati nel suo insieme come
norma alla quale non può essere apportata alcuna deroga e che può essere
modificata solo da una nuova norma di diritto internazionale generale avente
il medesimo carattere”.
La convenzione di Vienna prevede inoltre che, quando fra gli stati contraenti la
convenzione insorga una controversia circa l’invalidità o l’estinzione di un accordo per
contrarietà allo ius cogens, la controversia medesima può essere decisa dalla CIG su
ricorso unilaterale di una delle parti.

La convenzione di Vienna non indica quali norme di diritto internazionale


siano imperative. La norma cogente è “quella che sia stata accettata e

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riconosciuta dalla comunità internazionale degli stati nel suo insieme in


quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga”. In linea di massima
la ricostruzione dello ius cogens è lasciata all’interprete in quanto la stessa
nozione di diritto cogente ha di per sé carattere storico, potendo mutare da
un’epoca all’altra.
Allo stato attuale delle cose ci sembra che allo ius cogens appartengano il
nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di autodeterminazione dei
popoli, il divieto dell’uso della forza fuori dal caso di legittima difesa e il
diritto allo sviluppo.
Jus cogens e art 103 della carta delle nazioni unite. Secondo il nostro manuale
a questa lista va aggiunta la norma dell’art 103 della carta delle nazioni unite
che sancisce la inderogabilità degli obblighi scaturenti dalla carta e dalle
decisioni vincolanti degli organi dell’ONU. Nel trattare dell’incompatibilità tra
norme convenzionali, detti obblighi sono considerati da tutte la comunità
internazionale come inderogabili. In effetti “il rispetto dei principi della carta”
è stato sempre considerato come una delle regole fondamentali della vita di
relazione internazionale ed in tal senso ha formato oggetto di solenni
dichiarazioni contenute in importanti convenzioni multilaterali
internazionali, non ultima la dichiarazione contenuta nell’art 3 par 5 del
trattato dell’unione europea.
Dottrina e giurisprudenza ricostruiscono norme che in linea di principio
debbano considerarsi come imperative. Ma quali sono le possibili applicazioni
di una norma internazionale imperativa? Chi intraprende un’indagine del
genere arriva a considerazioni concludenti.
Anzitutto, la conseguenza principale dovrebbe essere, come prevede l’art 53
della convenzione di Vienna, la nullità del trattato contrario allo ius congens.
Diciamo “dovrebbe” perché è comunque difficile trovare nella prassi casi di
trattati che per questo motivo siano stati impugnati con successo da uno stato
o dichiarati nulli da un’istanza giudiziaria.
Jus cogens e trattati di garanzia. Come contrario al principio che vieta l’uso della
forza fuori dai casi di legittima difesa è stato considerato l’art IV del trattato di garanzia
che autorizza Grecia, Regno Unito e Turchia, parti contraenti del trattato, ad intraprendere
azioni, sia disgiuntamente che congiuntamente, in caso di modifica della situazione di
Cipro così come regolata dal trattato medesimo. Dato l’uso del termine generico “azione” e
l’assenza di clausole di intervento militare, non sembra che ci si trovi di fronte ad un caso
di contrarietà al divieto dell’uso della forza: occorre piuttosto interpretare tale arti IV nel
senso di escludere che esso autorizzi l’uso della forza da parte degli stati garantiti fuori dai
casus di reazione ad attacchi armati altrui nell’isola. A parte, ovviamente, le ipotesi di
azioni di polizia, cioè di uso della forza “interna” e non internazionale.

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Jus cogens e trattati che prevedono interventi umanitari. Importante è l’opinione


di Ronzitti. Il divieto all’uso della forza ha in linea generale carattere cogente ma tale
carattere non riguarda i cd interventi umanitari, ossia le azioni violente dirette a salvare
vite umane dei propri o anche degli altri cittadini. Siffatte azioni violerebbero il divieto
dell’uso della forza ma non in quanto norma di jus cogens, costituendo quindi degli illeciti
minoris generis; con la conseguenza, tra l’altro, che i trattati che li prevedono sarebbero
perfettamente applicabili.
Ius cogens e trattati contrari all’autodeterminazione dei popoli. Un problema di
compatibilità col principio di autodeterminazione si è posto, in tempi più recenti, in merito
agli accordi di cooperazione economica stipulati dall’unione europea con Israele e
Marocco. È stato sostenuto che tali accordi finirebbero con l’avallare, sia pure
implicitamente, l’esercizio del potere di governo da parte di questi paesi sui territori
illegittimamente occupati, rispettivamente, in Palestina e Sahara occidentale. Investita del
problema della loro legittimità, la corte di giustizia dell’unione ha “aggirato” la questione
confermando la validità degli accordi impugnati in quanto la loro applicazione non si
estenderebbe alla Palestina e al Sahara occidentale.

Un’applicazione meno radicale della nullità è quella che può esprimersi in


termini di mera superiorità o prevalenza della norma di jus cogens rispetto
alle norme consuetudinarie normali. Da questo punto di vista la norma
internazionale contraria ad una norma imperativa resta pienamente valida
ma è inapplicabile ( rapporto tra le due, quindi, di inderogabilità e non di
nullità). Anche in forma così limitata le applicazioni stentano a verificarsi
nella prassi. Si prendano ad esempio le norme consuetudinarie sull’immunità
degli organi statali e degli organi stranieri, da un lato e le norme che vietano
le violazioni gravi di diritti umani. Sia la giurisprudenza internazionale che
quella interna non si sono mostrate molto sensibili al tema della jus cogens. A
ben vedere, a trovare maggiormente applicazione è stato proprio l’art 103.
Lo jus congens ha anche un effetto “deterrenza”. Così la sentenza dell’ICTY
secondo la quale le norme imperative, nella specie sulla tortura,
indicherebbero agli stati e agli individui che la proibizione che esse prevedono
si ispira a valori assoluti dai quali nessuno può deviare
Obblighi erga omnes. Le norme di ius cogens non hanno solo la funzione di
prevalere sui trattati ma dalle stesse derivano anche obblighi erga omnes:
sono in pratica norme alla cui applicazione hanno interesse tutti gli stati.
Inderogabilità delle norme sulle cause di invalidità e di estinzione dei trattati.
Le norme che regolano le cause di invalidità e di estinzione dei trattati sono o
non sono derogabili? Sicuramente siamo di fronte a norme inderogabili: il
fatto che queste norme generali regolano la struttura dell’accordo, e non il
contenuto, le pone per forza su di un piano superiore anche nel senso della
forza formale, al trattato.

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Rapporti tra atti delle organizzazioni internazionali e statuti delle medesime .


In ogni trattato istitutivo di un’organizzazione possono trovarsi norme sia
derogabili che cogenti e, tra queste ultime, vanno comunque classificate le
norme le quali prescrivono le maggioranze necessarie per l’adozione degli atti.
Quindi, il problema dei limiti entro cui gli atti delle organizzazioni
internazionali possono derogare alle norme sui trattati va regolato caso per
caso.
Oggi è comune l’opinione secondo cui il diritto internazionale si
presenterebbe come frammentato in sistemi di norme autosufficienti (self-
contained regimes) create con un trattato o un gruppo di trattati, istitutivi o
no di organizzazioni internazionali. Rientrerebbero, così, in tale categoria le
norme sulla tutela dei diritti umani, sul diritto del mare, sul diritto
dell’ambiente ecc: norme tutte caratterizzate da mezzi di accertamento e da
garanzie autonome.
Altra caratteristica di questi blocchi di norme è che, nei casi in cui il loro
accertamento è affidato a delle corti settoriali, come ad esempio la CEDU, è
contestabile la tendenza di queste ultime a sostenere la completezza del
blocco.
A nostro avviso la tesi della frammentazione trova scarso riscontro nella
prassi. In un’epoca come la nostra mettere in discussione l’unitarietà
dell’ordinamento giuridico internazionale non ha senso laddove, infatti,
questi sistemi “autonomi” di norme costituiscono nient’altro che diritto
particolare che, come tale, prevale sul diritto internazionale generale.

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Parte seconda.
IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI.
21.Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti
all’uso della forza internazionale ed interna agli stati.
Iniziamo col distinguere la forza internazionale dalla forza interna.
Forza internazionale. Per essa intendiamo la violenza di tipo bellico o
comunque qualsiasi atto che implichi operazioni militari, come
l’attraversamento della frontiera da parte di truppe regolari o di bande armate
assoldate dallo stato, il bombardamento di parti del territorio ecc, l’atto
contro navi o aerei militari ecc.
Forza interna. Più complesso è definire la forza interna, intesa come potere di
governo (o potere di imperio, o sovranità o potestà di governo) esplicato dallo
stato sugli individui e i loro beni. Cosa deve intendersi per potere di governo
delimitato dal diritto internazionale (oppure: potere di governo il cui esercizio
può costituire violazione del diritto internazionale)? Qual è la nozione di
potere di governo secondo il diritto internazionale?
Iniziamo col dire che non si può identificare sic et sempliciter detto potere
con l’esercizio della coercizione in quanto forza materiale e sostenere quindi
che rilevanti per il diritto internazionale siano solo le azioni di polizia,
l’esecuzione forzata sui beni, l’esecuzione delle condanne penali ecc; in altre
parole l’esercizio di ciò che la dottrina anglosassone definisce “jurisdictio to
enforce”. Una parte della dottrina sostiene questa tesi (che veniva sostenuta
anche nelle precedenti edizioni di questo manuale) ma, dopo una più matura
riflessione, non sembra che si possa sostenere che una violazione del diritto
internazionale derivi sempre e solo dall’effettivo esercizio della coercizione:
anche la sentenza dichiarativa di un giudice (es la sentenza che sottoponga
uno stato straniero alla giurisdizione del foro) o una legge che contenga un
provvedimento concreto (es legge che nazionalizzi i beni di una compagnia
straniera) possono costituire, entro certi limiti, un comportamento illecito.
Escluso che il potere di governo si identifichi con la coercizione materiale
bisogna anche guardarsi dal riportargli ogni manifestazione della sovranità
dello stato, e quindi anche la mera attività normativa astratta, sia essa
esplicata attraverso le leggi oppure atti amministrativi. Finché al comando
astratto non segue la sua applicazione ad un caso concreto, non può
propriamente parlarsi di una violazione del diritto internazionale. Il
contenzioso relativo alle violazioni del diritto internazionale, come dimostra
la prassi, è un contenzioso su questioni concrete.

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L’attività normativa astratta non interessa il diritto internazionale neppure


quando essa forma (apparentemente) l’oggetto specifico di una convenzione
internazionale. Consideriamo il caso delle convenzioni di diritto uniforme o di
qualsiasi altra convenzione che preveda che lo stato disciplini una certa
materia con legge (es: art 10 par 3 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti
economici, sociali e culturali: “gli stati…riconoscono che…i fanciulli devono
essere protetti…Il fatto di impiegarli in lavori tali da compromettere la loro
moralità o la loro salute…deve essere punito dalla legge”).
Si sostiene che la violazione di una convenzione del genere si verifichi
semplicemente con la non adozione della legge. E’ stato addirittura sostenuto
che, avendo la convenzione per oggetto soltanto la legge, se anche all’adozione
di quest’ultima…non consegua poi la sua applicazione da parte dei giudici o
degli organi amministrativi, se anche, per intenderci, all’adozione della legge
che punisce il lavoro abusivo dei fanciulli non consegua la concreta punizione
di coloro che non la applicano, la convenzione dovrebbe ciononostante
considerarsi come rispettata (tesi paradossale che dimostra quanto sia
discutibile l’idea che per il diritto internazionale possa avere rilievo anche la
mera attività normativa dello stato).
Lascia perplessi un passo della sentenza emessa in prima istanza dal Tribunale penale
internazionale per la ex Iugoslavia nella sentenza del 10.12.1998. il tribunale riconosce che
normalmente lo stato che non provvede ad adottare le “misure legislative e
amministrative” necessarie per eseguire i propri obblighi internazionali non incorre in
responsabilità internazionale finché non si verifichino fatti concreti contrari a detti
obblighi. Esso, però, ritiene che le cose stiano diversamente quando si tratti del divieto
internazionale della tortura. In tal caso, data l’importanza che riveste la libertà della
tortura, già la sola mancanza di misure legislative atte a prevenire il verificarsi di siffatti
efferato crimine, o ancor di più l’esistenza di norme legislative contrarie al divieto della
tortura, costituirebbe violazione del divieto. Sebbene sia assurdo che vi siano stati che
apertamente adottino una legislazione pro tortura, anche la prima osservazione non
appare appoggiata dalla prassi. È solo quando qualcuno è torturato che il diritto
internazionale si mette in moto (quindi, in mancanza di misure preventive interne,
legislative o amministrative). Si dice anche che lo stato è obbligato a prevenire e reprimere
gli atti di tortura e le altre violazioni dei diritti umani, ma ciò non toglie che la sua
responsabilità resti legata al verificarsi di un fatto concreto.

Il potere di governo che interessa il diritto internazionale si situa dunque a


metà strada tra l’astratta attività normativa e l’esercizio della coercizione
materiale. Ma dove? A nostro avviso non basta neppure la semplice
emanazione di comandi concreti, legislativi, giurisdizionali o amministrativi,
come la legge che nazionalizzi determinati beni o ne ordini il blocco, o l’ordine
del giudice di esibire determinati documenti ecc. Questa ci sembra la tesi di
quella parte della dottrina anglosassone la quale sostiene che il diritto
internazionale ponga già limiti alla cd jurisdictio to prescribe.

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Ad ogni modo, noi riteniamo che l’attività di mero comando anche se


indirizzata a persone determinate e vertente su questioni concrete, non ha di
per sé rilievo per il diritto internazionale se non è accompagnata dall’attuale e
concreta possibilità di agire coercitivamente per farla rispettare. Tale
possibilità può sussistere nei luoghi dove la coercizione dello stato si esercita,
delle prone o dei beni coinvolti dal comando concreto.
Quanto diciamo può essere illustrato da un esempio tratto dalla prassi: questione della
chiusura della Missione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina presso le
nazioni unite. Con la legge del 1987, l’anti terrorism act, il congresso americano vietò di
“stabilire e di mantenere” gli uffici dell’OLP negli Stati Uniti. La legge provocò subito un
conflitto con le nazioni unite, in quanto venne considerata come contraria alla convenzione
che regola i rapporti tra ONU e gli stati uniti relativamente alla sede dell’organizzazione.
Orbene, le vicende di siffatto conflitto sono importanti ai nostri fini: 1) il conflitto sorse in
quanto la legge colpiva una missione dell’OLP che già esisteva presso le nazioni unite; 2) il
conflitto durò finché fu reale la possibilità che la legge fosse coercitivamente attuata
attraverso un atto dell’autorità giudiziaria; 3) il conflitto ebbe termine, e la questione
dell’illiceità del comportamento degli stati uniti in base all’accordo di sede con l’ONU fu
lasciata cadere, allorquando, per vicende di carattere procedurale e per l’intervento di una
sentenza della corte distrettuale di New York che dichiarò inapplicabile la legge, venne
meno ogni prospettiva che quest’ultima fosse affettivamente attuata.

Concludiamo dicendo che il potere di governo così come limitato dal diritto
internazionale (jurisdiction dello stato) sia costituito da qualsiasi misura
concreta di organi statali, sia avente essa stessa natura coercitiva sia in
quanto, e solo in quanto, suscettibile di essere coercitivamente attuata. In
questo senso può dirsi che il diritto internazionale pone limiti alla forza
interna degli stati.
Poteri di governo e attività incoercibili. Si tratti della forza internazionale o
della forza interna, ciò che è delimitato dal diritto internazionale è sempre
l’azione esercitata dallo stato su persone o cose. Si dice che certi fenomeni,
essendo incoercibili, svolgendosi in spazi e con modalità che non possono
essere colpite o intercettate, sfuggono al potere di governo dello stato: lo si è
detto per le comunicazioni via radio, poi per le attività spaziali. Oggi, lo si dice
per le comunicazioni in rete, con prese di posizione da parte degli utenti che
suonano addirittura come una sfida agli stati a non tentare di penetrare nel
ciberspazio. A noi sembra che, anche in questi casi, punto di riferimento della
disciplina internazionalistica restano le persone e le cose; i diritti e gli
obblighi internazionali di cui lo stato è titolare presuppongono sempre la sua
possibilità di governare, magari solo nei luoghi di partenza o di arrivo, le
attività umane.
Tenuto conto del fatto che un principio fondamentale di diritto internazionale
vieta in linea generale l’uso della violenza di tipo bellico, la materia dei limiti

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all’uso della forza “internazionale” viene in rilievo soprattutto sotto l’aspetto


dell’eccezione a siffatto divieto, ossia la legittima difesa (lo vedremo poi).
Ora esaminiamo i limiti alla forza “interna” avendo riguardo soprattutto al
diritto consuetudinario, diritto che, essendo composto da un numero non
grande di norme, meglio si presta ad una trattazione sintetica chiariamo che
quando si dice che il diritto internazionale limita il potere di governo non sia ha riguardo
agli scopi che le norme internazionali perseguono ma al modo in cui queste norme
operano. Se si attribuisce alle norme di diritto internazionale consuetudinario lo scopo di
delimitare le sfere di potere statale, si finisce col restare attaccati ad una visione “classica”
del diritto consuetudinario ossia ad una visione secondo cui tale diritto assicurerebbe la
mera “coesistenza” tra gli stati. Ciò mentre è certo che oggi “valori di cooperazione e
solidarietà” tra gli stati, perseguiti attraverso convenzioni internazionali, sono penetrati
nello stesso diritto consuetudinario.

22. La sovranità territoriale.


Origini della norma sulla sovranità territoriale. Prima e fondamentale norma
consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo. Essa si
affermò all’epoca in cui venne meno il Sacro Romano Impero e a cui fece
seguito ogni forma di dipendenza anche formale delle singole entità statali
dall’Imperatore e dal Papa. Allora, la sovranità territoriale venne concepita
come una sorta di diritto di proprietà dello stato (o meglio del sovrano,
essendo in una monarchia assoluta) avente per oggetto il territorio; anche il
potere esercitato sugli individui veniva ricollegato alla disponibilità del
territorio (secondo il Quadri, infatti, gli individui erano pertinenze dello
stato): quindi, il potere dello stato sulle persone e sulle cose non era che una
manifestazione, una derivazione del potere sul territorio. Era così connaturata
all’idea di potestà di governo quella di territorio che, per giustificare
l’esercizio del potere di governo oltre il territorio, si diceva che si trattava pur
sempre di territorio (ad esempio si parlava delle navi come territorio dello
stato).
Contenuto della sovranità territoriale. Si discute circa la natura giuridica
internazionale del territorio: c’è chi ancora ritiene che si tratti dell’oggetto di
un diritto reale dello stato, simile alla proprietà e chi ritiene, viceversa, che il
territorio non venga in rilievo come un bene in senso patrimonialistico ma
segni solo l’ambito entro il quale si esplica la potestà di governo dello stato
(potestà di governo che costituirebbe essa il vero oggetto del diritto di
sovranità territoriale); e infine c’è chi mescola le due tesi.
Adottando l’una o l’altra tesi la sostanza delle cose non cambia in quanto non
muta il contenuto della norma internazionale sulla sovranità territoriale e
quindi non muta sostanzialmente ciò che gli stati possono fare nel proprio
territorio e non possono fare invece nel territorio altrui. Come può descriversi

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tale contenuto? Può dirsi che la norma attribuisce ad ogni stato il diritto di
esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla sua comunità
territoriale, cioè sugli individui (e sui loro beni) che si trovano nell’ambito del
territorio. Correlativamente ogni stato ha l’obbligo di non esercitare in
territorio altrui (e senza il consenso del sovrano locale) il proprio potere di
governo, ossia di non svolgervi con propri organi azioni di natura coercitiva o
comunque suscettibili di essere coercitivamente attuate. In ogni caso la
violazione della sovranità territoriale si ha solo se vi è presenza fisica e non
autorizzata dall’organo straniero nel territorio.
Cattura di criminali in territorio straniero. Fu ad esempio illecita, anche se
moralmente giustificabile, la cattura da parte di agenti del governo israeliano del criminale
nazista Eichman, avvenuta in territorio argentino nel 1960 (fu poi processato e giustiziato
in Israele). La illiceità della cattura fu poi affermata anche dal consiglio di sicurezza delle
nazioni uniti: con risoluzione 23.6.1960, n.138 il consiglio, pur sottolineando la necessità
di perseguire i nazisti macchiatisi di crimini contro gli ebrei e avvertendo di non volere con
la risoluzione medesima in alcun modo “giustificare i crimini odiosi di cui Eichman è
accusato”, chiese al governo israeliano di assicurare al governo argentino “una riparazione
adeguata conformemente alla carta delle nazioni unite e alle norme del diritto
consuetudinario”.
La illiceità della cattura di criminali all’estero si esaurisce peraltro nei rapporti tra stati.
Essa, invece, non comporta dal punto di vista del diritto internazionale, l’assenza della
potestà di punire, potestà sempre esercitabile anche sugli stranieri sempre che vi sia un
collegamento del reato con lo stato che punisce e sempre che non sussista un problema di
immunità internazionale dell’autore.
Regime delle capitolazioni. La presenza e l’esercizio di pubbliche funzioni da parte di
organi stranieri è autorizzata in una serie di ipotesi tipiche, prime fra tutte quelle relative
all’attività di agenti diplomatici e di consoli stranieri. Una forma intensa di attività
giurisdizionale svolta all’estero era quella esercitata nel quadro del cd. regime delle
capitolazioni regime in base al quale alcuni stati che venivano ritenuti poco affidabili
sotto l’aspetto dell’amministrazione della giustizia consentivano agli europei di essere
giudicati dai consoli dei loro paesi. Tale regime cessò dopo la seconda guerra mondiale.

In linea di principio il potere di governo dello stato territoriale non solo è


esclusivo rispetto a quello degli altri stati ma è anche libero nelle forme e nei
modi del suo esercizio e nei suoi contenuti. In linea di principio, cioè, lo stato
è libero nel suo territorio di fare ciò che vuole, di disporre come crede delle
proprie risorse naturali ecc.
In linea di principio perché in effetti la libertà dello stato, nata come libertà
assoluta, è andata restringendosi via via che il diritto internazionale si
evolveva. Tutte le norme che si sono formate fino ad oggi, comportano una
serie di limiti sempre più fitti al potere di governo esplicato nell’ambito del
territorio; cosicché è vero che se il principio è ancora che lo stato può

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comportarsi nel suo territorio come meglio crede e se è vero che, nel dubbio, è
sempre questo principio a doversi applicare, le eccezioni non si contano più.
Le eccezioni che per prime si sono andate affermando sono costituite da
norme che impongono un certo trattamento degli stranieri, persone fisiche o
giuridiche, e degli stessi stati membri. I limiti che da queste norme derivano
al potere dello stato non sono oggi i più importanti; anzi, per quanto riguarda
la condizione degli stranieri, la loro specificità si è andata molto attenuando,
essendo essi confluiti per una certa parte nelle norme che tutelano tutti gli
essere umani.
Sovranità territoriale, paesi in sviluppo e sovranità sulle risorse naturali. La
libertà dello stato nell’ambito del suo territorio è ribadita da alcuni principio del nuovo
“ordine economico internazionale” molto cari ai paesi in sviluppo. Ci riferiamo, in primis,
al principio della sovranità permanente dello stato sulle risorse naturali; poi al principio
per cui ogni stato ha il diritto di scegliere il proprio sistema economico, oltre che i suoi
sistemi politici, sociali e culturali, conformemente alla volontà del suo popolo nonché di
scegliere i suoi obiettivi e i suoi mezzi di sviluppo, di mobilitare e di utilizzare
integralmente le sue risorse, di operare delle riforme economiche e sociali progressive e di
assicurare la piena partecipazione del suo popolo al processo e ai vantaggi dello sviluppo.
Sovranità territoriale e divieto della minaccia o dell’uso della forza. La
sovranità territoriale è oggi indirettamente tutelata anche da un altro principio
fondamentale del diritto internazionale, vale a dire dal principio che vieta la minaccia o
l’uso della forza nei rapporti internazionali. Tale divieto riguarda principalmente le azioni
di tipo bellico rivolte contro il territorio dello stato e, non a caso, l’art 2 par 4 della carta
delle nazioni unite pone in primo piano proprio la necessità di proteggere “l’integrità
territoriale” degli stati.

Acquisto della sovranità territoriale. Per quanto riguarda il diritto ad


esercitare in modo esclusivo ed indisturbato il potere di governo, vale il
criterio della effettività: l’esercizio effettivo del potere di governo fa sorgere il
diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo medesimo. La parziale
tautologia contenuta in questa affermazione è caratterizzata proprio dal
criterio di effettività ed è insita in ogni applicazione del principio ex facto
oritur jus, principio che appunto presiede alla nascita del diritto di sovranità
territoriale.
Molti aspetti della problematica dell’acquisto della sovranità territoriale assai
cari alla dottrina classica hanno ormai perso quasi del tutto attualità: essi
erano infatti legati all’esistenza di territori di nessuno, o magari non ancora
scoperti, oppure oggetto di espansione coloniale. Territori del genere non
esistono oggi, né la sovranità territoriale può acquistarsi… negli spazi cosmici
scoperti o da scoprire.
Acquisito della sovranità in violazione di norme fondamentali internazionali.
Attuale è invece il problema degli acquisiti di territori effettuati in violazione

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di norme internazionali di fondamentale importanza: pensiamo ai territori


acquistati in violazione dell’art 2 par 4 della carta ONU che vieta la minaccia e
l’uso della forza o in violazione del principio di autodeterminazione dei
popoli.
Nonostante i tentativi fatti per cercare di limitare la portata del principio di
effettività e disconoscere l’espansione territoriale che sia frutto di violenza o
di gravi violazioni di norme internazionali, la prassi sembra ancora oggi
orientata nel senso che l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo
su di un territorio comunque conquistato comporti l’acquisto della sovranità
territoriale. Non si può negare, ad esempio, che il territorio della Repubblica
turco-cipriota sia coperto dalla norma sulla sovranità territoriale, sia poi che
la sovranità si consideri come esercitata dal governo della Repubblica
direttamente o direttamente dalla Turchia che lo sostiene con le sue forze
militari. Vero è che, se ad un atto di aggressione non si reagisce subito
nell’esercizio dell’autotutela individuale o collettiva, la situazione si consolida.
Tutto ciò che allora può sostenersi è che oltre all’obbligo di restituzione,
gravante sullo stato che abbia commesso l’aggressione o detenga il territorio
in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli, su tutti gli altri
stati grava l’obbligo di negare effetti extraterritoriali agli atti di governo
emanati in quel territorio e sempre che l’acquisto sia contestato dalla più gran
parte dei membri della comunità internazionale: gli stati, ad esempio,
saranno tenuti a negare il riconoscimento alle sentenze pronunciate in quel
territorio, a non applicare, in virtù delle proprie norme di diritto
internazionale privato, le leggi emanate nel territorio medesimo; insomma, ad
“isolare” giuridicamente quest’ultimo.
Occorre riconoscere che, nel caso della sovranità su zone di confine o isole il
cui possesso sia oggetto di controversia tra gli stati confinanti, la CIG ha più
volte sostenuto che l’effettività deve cedere il passo ad un titolo giuridico
certo, come un precedente accordo tra gli stati interessati o tra gli stati che li
hanno preceduti e salvo che una delle parti non abbia prestato acquiescenza
alle pretese dell’altra, basate sull’effettività.
Acquisto della sovranità territoriale e vicende dello stato. Acquisto e perdita della
sovranità territoriale si hanno anche in relazione alle vicende relative alla vita dello stato:
quando si verifica un distacco di una parte del territorio con conseguente formazione, di un
nuovo stato, o una cessione di territori, o un’incorporazione ecc vi è sempre la perdita della
sovranità territoriale da parte di uno stato e l’acquisto della medesima da parte di un altro
stato. Anche in questi casi il principio dell’effettività è decisivo in quanto gli accordi che
siano alla base delle predette vicende (es: accordo di cessione) producono solo effetti
obbligatori e non sono idonei da sé a far sorgere il diritto di sovranità territoriale.

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L’espandersi della sovranità territoriale sul territorio di un altro stato comporta il


passaggio, allo stato subentrante, delle proprietà pubbliche e private dello stato
predecessore.

23. I limiti della sovranità territoriale.


L’erosione del cd dominio riservato e il rispetto dei diritti umani.
Abbiamo detto come i limiti più importanti alla libertà dello stato di
comportarsi come crede nell’ambito del suo territorio sono oggi costituiti
dalle norme internazionali, soprattutto dalle norme convenzionali che
perseguono valori di giustizia, di cooperazione e di solidarietà tra i popoli.
Dominio riservato (domestic jurisdiction). Con l’affermarsi di questi limiti si
è andato erodendo il cd dominio riservato (o competenza interna) dello stato,
espressione con cui si intende indicare le materie delle quali il diritto
internazionale sia consuetudinario che pattizio si disinteressa e rispetto alle
quali lo stato è conseguentemente libero da obblighi. Tradizionalmente
venivano fatti rientrare nella competenza interna i rapporti tra lo stato e i
propri sudditi, l’organizzazione delle funzioni di governo, la politica
economica e sociale dello stato ecc. La nozione di domesti jurisdiction può
essere ancora utilizzata con riguardo al diritto consuetudinario, mentre ha
perso il suo significato per quanto concerne il diritto convenzionale.
Dominio riservato e cittadinanza. La stessa libertà dello stato di imporre o concedere
la propria cittadinanza ad un individuo, libertà che tradizionalmente è fatta rientrare nel
dominio riservato, non è più senza limiti. Deve infatti ritenersi ormai come consolidato il
principio che la CIG enunciò in una famosa sentenza del 1955 e cioè che una cittadinanza
attribuita in mancanza di un legame affettivo (genuine link) tra individuo e stato che la
concede non può essere opposta ad un altro stato, particolarmente ai fini dell’esercizio
della protezione diplomatica. Il problema dell’esistenza o meno del genuine link si è posto
nella giurisprudenza dei tribunali arbitrali dell’ICSID in materia di investimenti all’estero,
con riguardo alla norma secondo cui l’impresa non può agire innanzi a detti tribunali
contro lo stato in cui ha investito, se ha la nazionalità di tale stato.

Movimento convenzionale a favore dei diritti umani. Le iniziative


internazionali dirette a promuovere la tutela della dignità umana ovunque
l’individuo si trovi e quindi anche (e soprattutto) nei confronti del proprio
stato, sono tutte a noi note. L’azione dei governi in questo settore, si è
tradotta nella conclusione di numerose convenzioni.
Tra quelle di carattere generale ricordiamo: a) la convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; b) la
convenzione americana sui diritti umani e la carta africana dei diritti
dell’uomo e dei popoli; c) i due patti delle nazioni unite sui diritti civili e
politici e sui diritti economici, sociali e culturali. Tutte queste convenzioni

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contengono un catalogo dei diritti umani che gli stati contraenti sono tenuti a
rispettare.
Molto importante è la convenzione del 10.12.1984 contro la tortura e le altre
pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti, ratificata a tutt’oggi da 171
stati, tra cui l’Italia. La convenzione definisce, all’art 1, la tortura come
“qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una
persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di
ottenere informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa ha
commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei”. Essa prevede l’obbligo
degli stati contraenti di adottare tutte le misure atte a prevenire e punire
simili crimini commessi nei territori sottoposti alla loro giurisdizione. Va
anche sottolineato l’art 3 il quale prevede l’obbligo di non espellere individui
verso paesi nei quali essi rischiano di essere sottoposti a tortura o a
trattamenti disumani o degradanti.
Rispetto dei diritti umani secondo il diritto consuetudinario . La materia dei
diritti umani è anche una materia nella quale si sono venute formando delle
norme consuetudinarie, precisamente dei principi generali di diritto
riconosciuti dalle nazioni civili. A differenza delle convenzioni, le quali
contengono cataloghi ben dettagliati, il diritto consuetudinario si limita
peraltro alla protezione di un nucleo fondamentale e irrinunciabile di diritti
umani. Si tratta del divieto delle cd gross violations, ossia delle violazioni
gravi di tali diritti, categoria cui si è soliti riportare quelle pratiche di governo
particolarmente irrispettose della dignità umana, come la tortura e i
trattamenti disumani e degradanti, il lavoro forzato ecc.
A maggior ragione rientrano nelle gross violations i crimini internazionali
(genocidio, crimini di guerra ecc) in quanto commessi dagli stati o da questi
non impediti. Sull’appartenenza di questi divieti al diritto internazionale
generali, anzi allo juc cogens internazionale, concordano tutti gli stati.
Non si può dire, invece, che sia prevista dal diritto consuetudinario
l’abolizione della pena di morte, nonostante le pressioni esercitate in questo
senso da forti correnti dell’opinione pubblica mondiale. Ricordiamo, a tal
proposito, l’adozione da parte dell’assemblea generale, di una serie di
risoluzioni con le quali si chiede una moratoria universale delle esecuzioni
capitali in vista della loro definitiva abolizione.
Tortura e trattamenti disumani e degradanti. Nonostante le tante dichiarazioni e
norme che le condannano, le gross violations continuano purtroppo ad essere praticate.
Quelle più ricorrenti sono la tortura e i trattamenti disumani e degradanti. La prima si
distingue dai secondi per la maggiore intensità delle sofferenze fisiche o psichiche inflitte,
dovendo infatti far riferimento ad una soglia minima di gravità. Anche se, sempre a
fondamento di una maggiore tutela dei diritti dell’uomo sembra non esserci distinzione tra

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i trattamenti disumani e la tortura. La corte EDU, infatti, in una sentenza abbastanza


recente non fa questa distinzione parlando generalmente di “violazione dell’art 3 della
convenzione europea della salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
Questa distinzione è stata poi rintrodotta ed applicata in una sentenza del 2015 e in una del
2017 nelle quali la corte ha qualificato come tortura le violenze compiute dalle forze
dell’ordine italiane in occasione del G/ di Genova nel 2001.

Obblighi negativi e positivi nella tutela dei diritti umani. L’obbligo degli stati
di rispettare i diritti umani nasce come obbligo negativo, o di astensione gli
organi statali sono, anzitutto, tenuti ad astenersi dal ledere siffatti diritti e dal
compiere atti qualificabili come gross violations.
Ma, il rispetto dei diritti umani costituisce anche l’oggetto di un diritto
positivo o di protezione lo stato deve vegliare affinché le violazioni dei
diritti umani non siano commesse da individui che comunque si trovino sul
suo territorio.
Le norme sui diritti umani vengono anche in rilievo con riguardo alla
protezione delle minoranze nonché delle popolazioni indigene.
Diritti delle minoranze per quanto riguarda le minoranze (ossia “un gruppo
numericamente più esiguo del resto della popolazione dello stato al quale esso
appartiene ed avente caratteristiche culturali, fisiche o storiche, una religione,
una lingua diversi da quelli del resto del paese”) la loro protezione è
esclusivamente affidata al diritto convenzionale e norme in materia si trovano
in quasi tutte le convenzioni sui diritti umani.
Diritti delle popolazioni indigene il tema della tutela delle popolazioni
indigene è molto attuale e in vari stati dell’Africa e dell’America, dove
popolazioni del genere esistono, si vanno moltiplicando le rivendicazioni, da
quelle relative al diritto al godimento delle terre e delle relative risorse, che gli
indigeni tradizionalmente possedevano, a quelle relative al diritto alla
conservazione e protezione dell’ambiente, al diritto al mantenimento della
propria identità culturale, delle proprie tradizioni e dei propri costumi ecc,
insomma tutto ciò che per secoli i colonizzatori hanno negato o compromesso.
In realtà, le norme internazionali vincolanti che si occupano specificatamente
della materia sono poche, se si eccettuano due convenzioni dell’OIL del 1957
n.107 e del 1989 n.169.
È significativa la sentenza della Corte Suprema del Belize del 2007 che considera anzitutto
come contraria alla costituzione la violazione dei diritti dei Maya sulla loro terra, diritti
protetti dal diritto consuetudinario di quella popolazione. La corte ritiene poi che la
protezione di detti diritti discenda anche dalle norme sulla proprietà contenute nel patto
delle nazioni unite sui diritti civili e politici e dalla convenzione delle nazioni unite
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale.

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Regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Questa regola si applica alla
materia dei diritti umani: la violazione delle norme consuetudinarie sui diritti
umani non può dirsi consumata, o comunque non può farsi valere sul piano
internazionale, finché esistono nell’ordinamento dello stato offensore rimedi
adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire all’individuo
offeso una congrua riparazione. Inoltre, tutte le convenzioni sui diritti umani
le quali prevedono organi di controllo sul rispetto di tali diritti contengono la
regola del previo esaurimento.
24.Le punizioni dei crimini internazionali commessi da individui.
Responsabilità internazionale degli individui autori di crimini . La
caratteristica delle norme che disciplinano siffatti crimini è che esse danno
luogo ad una responsabilità propria delle persone fisiche che li commettono.
Trattasi, quindi, di regole che direttamente si indirizzano agli individui,
concorrendo alla formazione della soggettività internazionale di questi ultimi.
Questo non è esclude la contemporanea responsabilità degli stati qualora,
come spesso avviene, gli individui siano anche loro organi.
La comunità internazionale si va organizzando oggi per attuare la punizione
dei crimini internazionali individuali attraverso l’istituzione di tribunali
internazionali. Una notevole prassi giurisprudenziale ha caratterizzato i due
Tribunali per i crimini commessi nella ex Iugoslavia e nel Ruanda; più
limitata è, invece, l’attività della corte penale internazionale, dotata di una
competenza generale. La punizione, quindi, è in larga parte affidata ai
tribunali interni, nell’esercizio della sovranità territoriale.
Un crimine internazionale era considerata la pirateria, nel senso che qualsiasi stato potesse
catturare la nave pirata e punire i membri dell’equipaggio. Altro esempio era quello dei
crimini di guerra, crimini che attualmente costituiscono una importante componente dei
crimini internazionali; ma prima le cose stavano diversamente essendo, infatti, la
punizione dei criminali limitata agli stati belligeranti e si riteneva che essa dovesse
comunque cessare con la cessazione delle ostilità (cd clausola di amnistia). Le cose stanno
diversamente oggi.

I crimini internazionali possono essere distinti in: a) crimini contro la pace; b)


crimini contro l’umanità; c) crimini di guerra. Nello specifico, negli artt 4 e 5
dello statuto della corte penale internazionale sono previsti quattro tipi di
crimini: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini di
aggressione (considerato come crimine contro la pace).
Genocidio distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico,
razziale o religioso.

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Crimini contro l’umanità ai crimini contro l’umanità vengono riportati i


seguenti atti, purché perpetrati come parte di un esteso o sistematico attacco
diretto contro la popolazione civile: omicidio, riduzione in schiavitù, tortura,
violenza carnale, deportazione o trasferimento forzato di popolazioni,
prostituzione forzata, persecuzioni di motivi politici, razziali, religiosi ecc.
Alla “prevenzione e repressione dei crimini contro l’umanità” è dedicato un progetto di
articoli adottato nel 2019 dalla CDI. Tale progetto consta di 15 articoli che contengono
disposizioni piuttosto dettagliate sull’obbligo di reprimere tali crimini a livello nazionale.

Crimini di guerra i crimini sono considerati di guerra se commessi durante


un conflitto armato sia internazionale che interno, sia da appartenenti da un
esercito sia da civili, sia contro militari che da appartenenti alla popolazione
civile. Ci riferiamo a tutte una serie di atti specifici del tempo di guerra, come
la violazione grave delle convenzioni di Ginevra del 1949 sul diritto
umanitario di guerra, l’arruolamento forzato dei prigionieri di guerra, la presa
di ostaggi, gli attacchi intenzionalmente diretti contro popolazioni ed obiettivi
civili ecc. La competenza della corte si estende a tutti questi atti, quando in
particolare essi facciano parte “di un piano o di un disegno politico o di una
serie di crimini analoghi commessi su larga scala”.
Crimini contro la pace (aggressione) l’aggressione è qualificabile come
crimine internazionale individuale solo quando è scatenata su larga scala o
produce conseguenze assai grave.
Responsabilità dello stato e responsabilità dell’individuo organo . Abbiamo
detto già che normalmente l’individuo che commette un crimine
internazionale è un organo del proprio stato o di un’entità di tipo statale,
come il governo insurrezionale a base territoriale. Infatti, solo gli stati o
queste altre entità, sono in grado di produrre attacchi estesi o sistematici
contro una popolazione civile. Questo comporta che quando è commesso un
genocidio o un altro crimine contro l’umanità o crimine di guerra, ne
consegue una duplice responsabilità internazionale, dello stato e
dell’individuo organo. Alla responsabilità individuale consegue la punizione
del colpevole; quella dello stato è molto più labile.
Giurisdizione universale. In che cosa la punizione dell’individuo, che ha
commesso un crimine internazionale, differisce dalla punizione di un
criminale comune quando a punirlo è una corte interna? Ci si chiede, a tal
proposito, se il diritto internazionale consuetudinario contenga un principio
di giurisdizione universale, nel senso che ogni stato abbia la facoltà di
procedere alla punizione ovunque e da chiunque il crimine sia stato
commesso. Per il diritto internazionale generale, mentre lo stato è sempre
libero di esercitare la giurisdizione sui suoi cittadini, può sottoporre lo

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straniero a giudizio penale solo se sussiste, e nei limiti in cui sussiste, un


collegamento con lo stato del giudice. Tale collegamento è dato dal principio
di territorialità (commissione del reato nel territorio dello stato) principio
che viene temperato, a seconda degli ordinamenti statali, dalla possibilità di
punire certi reati più gravi quando essi sono commessi dal cittadino, ed
eccezionalmente anche dallo straniero, all’estero.
Nel caso della giurisdizione universale, invece, ci si chiede se la necessità del
collegamento venga meno anche nei confronti dello straniero: ovviamente la
ratio di questo tipo di giurisdizione è che lo stato che punisce il crimine
persegue un interesse che è proprio della comunità internazionale nel suo
complesso.
In base alla prassi che è venuta formandosi si può ritenere che la giurisdizione
universale sia da ammettere, per il diritto internazionale consuetudinario, ma
a condizione che il presunto criminale straniero si trovi nel territorio dello
stato al momento in cui deve essere sottoposto a giudizio e sempre che esso
non sia richiesto dallo stato nazionale oppure da uno stato che abbia con il
crimine uno più stretto collegamento e sia seriamente intenzionato a punirlo.
La norma sulla giurisdizione universale va coordinata con le norme le quali
prevedono l’immunità dei capi di stato e di governo, finché sono nell’esercizio
delle loro funzioni.
La giurisdizione universale può esercitarsi anche quando il colpevole sia stato
catturato all’estero illegittimamente, cioè violandosi la sovranità territoriale
dello stato in cui si trovava. Ed è libero altresì lo stato di escludere che i
crimini internazionali, che esso prevede di punire, siano colpiti da
prescrizione.
La punizione come oggetto della facoltà dello stato. Lo stato, chiariamo, può
ma non deve punire (può ma non deve considerare il crimine come
imprescrittibile); quindi parliamo di una punizione come oggetto di una
facoltà dello stato.
Universalità della giurisdizione civile. Se prima si era affermata l’esistenza,
accanto alla norma consuetudinaria relativa all’universalità della
giurisdizione penale, di un’omologa norma in materia di giurisdizione civile (a
sostegno di questa tesi veniva richiamata una cospicua giurisprudenza
statunitense), oggi la corte suprema ha sconfessato tale orientamento,
negando la giurisdizione delle corti statunitensi sulle azioni risarcitorie
riguardanti crimini internazionali commessi al di fuori del territorio
nazionale.

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In modo ancora più esplicito, le sezioni unite della nostra corte di cassazione
hanno escluso la vigenza di un “principio di giurisdizione civile universale per
le azioni risarcitorie” da crimini internazionali, una conclusione
successivamente confermata dalla Grande camera della corte europea dei
diritti dell’uomo in relazione al crimine di tortura.
Terrorismo. Si discute se sia crimine internazionale il terrorismo che,
secondo una norma consuetudinaria ormai consolidata, consiste
essenzialmente nella commissione di un atto criminale con l’intento di
spargere terrore nella popolazione di uno stato o in una parte di essa e sempre
che l’atto trascenda i confini di un singolo stato.
Quindi, nella norma non rientrano gli atti terroristici commessi dai cittadini
nel territorio del loro stato.
Non rientrando nella categoria dei crimini contro l’umanità, il terrorismo
sfugge al principio di giurisdizione universale. In Italia è previsto all’art
270bis cp: “compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine
democratico”.
Un caso di terrorismo che eccezionalmente sembra possa riportarsi nella
categoria dei crimini contro l’umanità è quello degli atti commessi negli
ultimi anni, prima e dopo il disumano attacco alle torri gemelle, dal gruppo di
Al Qaeda.
NB anche ai terroristi (e ancor più agli individui sospettati di terrorismo)
vanno riconosciuti i diritti umani fondamentali. Pensiamo alla sentenza del
2008 che condanna l’Italia per aver espulso uno straniero condannato per
terrorismo nel suo paese, straniero che rischiava di essere sottoposto a tortura
e trattamenti disumani.
Principio “aut dedere aut judicare” lo stato che non vuole o non può
procedere alla punizione del presunto criminale ha l’obbligo di consegnarlo
ad un altro stato che ne faccia richiesta e che sia competente a giudicarlo.
Secondo una sentenza della CIG del 2012, lo stato che non intende procedere
alla consegna ha l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per
instaurare il giudizio contro il presunto criminale.
I limiti relativi ai rapporti economici e sociali.
La protezione dell’ambiente.
Diritto internazionale economico. Sono molti i limiti che la sovranità
territoriale dello stato incontra in quella parte del diritto internazionale che
va sotto il nome di diritto internazionale economico. Il diritto internazionale
economico è il settore in cui più che in ogni altro la formazione di norme

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consuetudinarie è da escludersi (è un settore dominato maggiormente da


norme convenzionale e da soft law).
C’è da dire che non tutte le relazioni economiche che trascendono i confini dei singoli stati
sono oggetto di norme internazionali; non lo sono le transazioni finanziarie lasciate al
gioco del libero mercato, transazioni che invece avrebbero bisogno di una stringente
regolamentazione sul piano internazionale onde evitare il prodursi di gravi crisi mondiali.
G7, G8, G20. Né sono giuridicamente rilevanti i vari G7, G8, G20 ai quali partecipano,
anche a livello dei capi di stato e di governo, i rappresentanti degli stati più industrializzati
del mondo per discutere dei problemi di politica internazionale, specie di problemi di
natura economica. Si tratta di riunioni che si concludono con intese di carattere
esclusivamente politico, la cui messa in atto dipende in tutto e per tutto dalla volontà dei
singoli stati o da organizzazioni internazionali economiche.

Accordi sulla liberalizzazione del commercio internazionale. La libertà degli


stati in materia economica è limitata da numerosi accordi tendenti alla
liberalizzazione del commercio internazionale, in particolare all’abbattimento
degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali. I più
importanti tra tali accordi sono quelli conclusi a partire dal 1947 e confluiti
nel GATT 1994, ed altri.
Clausole di uso comune negli accordi commerciali. Varie clausole, contenute
negli accordi commerciali, concorrono ad assicurare la liberalizzazione o a
disciplinarne talune eccezioni. Tra le più importanti, ricordiamo:
a) Clausola della nazione più favorita, con la quale si prevede che
l’eventuale trattamento più favorevole concesso, in qualsiasi modo, da
uno stato contraente ad uno stato terzo (se il trattato è bilaterale) o ad
un’altra parte contraente (se è multilaterale) si estenda all’altra o alle
altre parti contraenti.
b) Clausola del trattamento nazionale, in base alla quale gli stati contraenti
si impegnano ad accordare ai prodotti importati dagli altri stati
contraenti un regime giuridico e fiscale, in particolare per quanto
riguarda la vendita e la distribuzione delle merci, non inferiore a quello
previsto per i prodotti nazionali.
c) Clausole che prevedono l’abolizione progressiva dei dazi doganali e delle
restrizioni quantitative (quali misure che mirano a contingentare le
importazioni).
d) Clausole di salvaguardia secondo cui la liberalizzazione del commercio
incontra alcuni limiti attinenti alla vita della comunità statale, tra cui
quelli relativi alla sicurezza nazionale, alla difesa della moralità, della
salute e della vita delle persone, animali e della preservazione delle
piante.

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Cooperazione allo sviluppo. Per essa intendiamo i rapporti tra paesi


sviluppati e paesi in sviluppo. Il quadro è fornito nella materia da una serie di
principi enunciati a varie riprese dall’assemblea generale delle nazioni unite,
dall’UNCTAD e da altri organi dell’ONU o di altre organizzazioni
internazionali a carattere universale. Sebbene non si possa dire che gli atti di
questi organi abbiano dato vita a norme consuetudinarie, essi hanno senza
dubbio influito sugli scambi commerciali con i paesi in sviluppo, provocando
ad essi regimi di particolare favore.
Accordi di cooperazione di vecchia generazione. A voler descrivere
sommariamente questi regimi si può distinguere tra regimi convenzioni di
vecchia e nuova generazione. Quadro di riferimento dei primi sono i principi
enunciati da varie dichiarazioni di principi dell’assemblea generale e, tra le
altre, da due storiche risoluzioni del 1974 (la dichiarazione sul nuovo ordine
economico internazionale e la carta dei diritti e doveri economici degli stati).
Le convenzioni concluse nel quadro del “nuovo ordine economico” si ispirano
al principio del trattamento preferenziale, secondo cui le concessioni fatte dai
paesi sviluppati sono a senso unico e senza effetti per i terzi (quindi, esse si
sottraggono alla reciprocità e al gioco della clausola della nazione più
favorita).
Sistema delle preferenze. Un “sistema generalizzato delle preferenze” è quello previsto
dagli articoli del GATT. Un esempio importante di sistema generalizzato è quello degli Stati
Uniti che, peraltro, viene sospeso su decisione del presidente soprattutto nei confronti di
stati considerati “canaglia”.
Accordi sui prodotti base. Va citata l’esperienza degli accordi sui prodotti base (accordi
sul caffè, zucchero ecc) che, per periodi di tempo più o meno lunghi e mediante vari
meccanismi, tendono a stabilizzare il prezzo del prodotto e a renderlo remunerativo per i
paesi produttori, normalmente paesi in sviluppo. Nel 1989 è entrato in vigore il Fondo
Comune per i prodotti base, ratificato da 101 paesi tra cui l’Italia e 9 organizzazioni
internazionali (tra cui l’UE), che ha dato vita ad un Governing Council, è fornito di un
capitale versato dalle parti contraenti e ha come scopo quello di consolidare lo sviluppo
socio-economico dei paesi produttori attraverso il finanziamento di progetti intesi a
migliorare la produzione dei prodotti e la loro commercializzazione.

Accordi di cooperazione di nuova generazione. Con i nuovi regimi


convenzionali (“di nuova generazione” le cose sono in parte diverse (“in parte”
perché è ovvio che un trattamento di favore, diretto ad eliminare il persistete
squilibrio tra il nord e una gran parte del sud del mondo, è ancora
indispensabile). La caratteristica di questi nuovi regimi è un certo numero di
condizioni che i paesi sviluppati pongono alle concessioni che essi fanno e che
consistono nell’assunzione, da parte dello stato beneficiario, di una serie di
impegni aventi ad oggetto lo sviluppo al loro interno di istituzioni
democratiche, la protezione di diritti umani, il buon governo, la protezione

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dell’ambiente secondo il principio dello sviluppo sostenibile ecc. Il tutto


confluisce nei cd accordi di partenariato i quali danno vita a forme di
collaborazione fondate sulla convergenza di interessi e il raggiungimento di
comuni obbiettivi. L’istituto del partenariato è descritto nei dettagli da una
importante dichiarazione di principi dell’assemblea generale (la ris. 16.9.2002
n. 52 sul nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa). In essa viene
incoraggiata la cooperazione economica non solo tra nord e Africa ma anche
tra i paesi africani tra loro, gli impegni indicati sono considerati come un
fattore importante per la crescita economica, e comunque non viene per ovvi
motivi abbandonata l’idea che i paesi sviluppati debbano anche intervenire
con forme di aiuto, prima fra tutte l’eliminazione o almeno la ristrutturazione
del debito estero dei paesi poveri.
Accordo di Cotonou. Un esempio di regime convenzionale di nuova generazione è
fornito dall’accordo di Cotonou, concluso nel 2000 per una durata di venti anni tra l’UE e
79 paesi in sviluppo dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico paesi (ACP) già aventi rapporti
particolari con gli stati membri dell’unione. L’accordo è entrato in vigore nel 2003. Si
tratta di una convenzione-quadro, che fissa soltanto i principi della cooperazione da
sviluppare tra UE e i paesi ACP, demandano regole specifiche ad accordi di partenariato
economico riguardanti singole aree regionali. I principi in esso contenuti sono quelli degli
accordi di partenariato con la conseguente eliminazione, a partire del 2007, del regime
delle preferenze. Una novità dell’accordo è il coinvolgimento nel partenariato dei
parlamenti nazionali e di autorità locali, nonché di rappresentanti della società civile.
Debito estero dei paesi poveri. Per quanto riguarda il debito estero dei paesi poveri,
una sede nella quale si svolgono i negoziati per la ristrutturazione è costituita dal Club di
Parigi del quale fanno parte i paesi maggiormente creditori. Anche in questo caso le intese
raggiunte in ordine al debito di un determinato paese in sviluppo non sono vincolanti ma
devono trovare attuazione da parte dei paesi creditori.

Legislazione antitrust e legislazione sul commercio internazionale. Dicevamo


che il potere di governo dello stato non incontra limiti di diritto
consuetudinario nella materia economica. È questa un’opinione valida ma
con la riserva che limiti del genere esistono nella materia specifica del
trattamento degli interessi economici degli stranieri.
Sono però da notare alcuni tentativi che sono stati fatti in dottrina per
individuare limiti di diritto generale, svincolati dalle norme sul trattamento
degli stranieri. I tentativi più interessanti sono quelli relativi alla irrogazione
di sanzioni in base alla legislazione antitrust o alla legislazione riguardante il
commercio internazionale o ancora a condizionare l’amministrazione di
società estere e così via.
Si è così affermato che lo stato non debba comunque interferire negli interessi
economici essenziali di stati stranieri, oppure che tali interessi debbano essere
oggetto di una “ponderazione” ed avere il sopravvento se meritevoli di

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maggior tutela rispetto agli interessi nazionali, o infine che ciascuno stato
debba esercitare il proprio potere nella materia in esame entro limiti
ragionevoli.
Tutto ciò è stato detto per reagire alla cd dottrina degli effetti, vale a dire al
principio secondo cui la giurisdizione dello stato si radicherebbe
ogniqualvolta un atto produca effetti all’interno del territorio nazionale,
indipendentemente da dove e da chi l’atto sia stato compiuto. È proprio grazie
all’uso di tale dottrina, infatti, che gli stati uniti hanno giustificato
l’applicazione della propria legislazione antitrust ad imprese operanti
all’estero.
Libertà di sfruttamento delle risorse del territorio e suoi limiti. In tema di
protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento
delle risorse naturali del territorio, onde ridurre i danni causati dalle attività
inquinanti o capaci di produrre irrimediabili distruzioni di risorse.
Iniziamo col chiederci se la libertà di sfruttamento incontri dei limiti di
carattere consuetudinario. Da più parti si sostiene che lo stato abbia l’obbligo
di evitare che il suo territorio venga utilizzato in modo tale da recare danno al
territorio (o alle navi e agli aerei che navigano o sorvolano in alto mare) di
altri stati. Normalmente il problema viene posto sotto il profilo della
responsabilità dello stato territoriale: ci si chiede se una responsabilità per
danni oltre frontiera sussista, se essa vada considerata come responsabilità da
atto illecito oppure sorga anche qualora si ritenga che l’attività nociva sia
lecita, ed infine se la responsabilità stessa abbia carattere assoluto o
presupponga la colpa dello stato territoriale.
Dobbiamo capire se il diritto internazionale consuetudinario imponga
l’obbligo di non compiere atti nocivi. Nel caso in cui l’indagine dia un risultato
positivo, la responsabilità derivante dalla violazione di tale obbligo dovrà
configurarsi come responsabilità (assoluta o almeno per colpa) da illecito; nel
caso di risultato negativo, resterà da stabilire se si possa configurare una
responsabilità da atti leciti.
Rapporti di vicinato. Il problema che stiamo considerando si è posto
dapprima nel quadro dei rapporti di vicinato, soprattutto con riguardo alle
utilizzazioni dei fiumi internazionali modificanti l’afflusso delle acque al
territorio di uno stato contiguo, e alle immissioni di fiumi e sostanze tossiche
dovute ad attività industriali poste in prossimità dei confini.
Inquinamento oltre frontiera. Esso si pone oggi in maniera molto accurata in
relazione all’inquinamento atmosferico derivante da attività ultrapericolose e
capaci di produrre danni anche a notevole distanza, come l’attività delle

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centrali atomiche (Chernobyl), gli esperimenti nucleari, le industrie chimiche


ecc. A simili attività ha riguardo il principio n.21 della dichiarazione adottata
a Stoccolma nel 1972 dalla conferenza di stati sull’ambiente umano, indetta
dalle nazioni unite, secondo il quale “gli stati hanno il diritto sovrano di
sfruttare le loro risorse naturali conformemente alla loro politica
sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i
limiti della loro sovranità o sotto il loro controllo non causino danni
all’ambiente in altri stati”.
Le dichiarazioni di Stoccolma e Rio non hanno di per sé forza vincolante. Può
dirsi che l’obbligo che essa sanciscono corrisponda al diritto internazionale
consuetudinario? In tale senso si pronuncia quasi unanimemente la dottrina e
possono citarsi alcune decisioni di corti internazionali.
La decisione più antica è la sentenza arbitrale emessa tra Stai Uniti e Canada
nel 1941 nell’affare della Fonderia di Trail, quale fonderia canadese che
operava in prossimità del confine e che aveva gravemente danneggiato, con
immissioni di fumo, coltivazioni di contadini americani. Si passa poi alla CIG
secondo cui l’obbligo di non inquinare discenderebbe da un “corpo di regole
del diritto internazionale dell’ambiente” ma non si capisce se la corte voglia
riferirsi al diritto consuetudinario oppure alle convenzioni in materia
ambientale. La formula da essa adoperata è interpretata nella sentenza
arbitrale del 2005 fra il Belgio e i Paesi Bassi, nel caso del Reno di Ferro
sentenza che, pur dichiarando non voler entrare nella questione se detto
obbligo esista in quanto obbligo giuridico per il diritto consuetudinario,
ritiene che comunque si sia di fronte ad un “principio emergente”.
In linea di massima però diciamo che gli stati sono stati sempre restii ad
ammettere la propria responsabilità per danni, e se qualche volta hanno
provveduto ad indennizzare le vittime hanno, nel contempo, avuto cura di
sottolineare il carattere “grazioso” dell’indennizzo medesimo.
Diversa è la situazione per quanto riguarda il caso specifico delle acque
(fiumi, laghi) comuni, di cui può considerarsi come vietato un qualsiasi
utilizzo (deviazione, sottrazione ecc) capace di nuocere agli altri utilizzatori:
esiste infatti in materia una prassi diffusa e significativa, come la
dichiarazione del procuratore generale Harmon, del 1895, sul pieno diritto
degli Stati Uniti di deviare le acque del fiume Rio Grande a danno del
Messico, o la sentenza del consiglio di stato francese del 1986 relativa
all’inquinamento del fiume Reno.
Obblighi di cooperazione sono previsti per gli usi nocivi del territorio in
generale, come l’obbligo dello stato, sul cui territorio si verificano gravi
fenomeni di inquinamento, di informare gli altri stati dall’imminente pericolo

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di incidenti e l’obbligo per tutti gli stati interessati di prendere di comune


accordo misure preventive, o successive al verificarsi, del danno all’ambiente.
Convenzione ONU sui corsi d’acqua internazionali. La materia dell’inquinamento
dei fiumi è stata oggetto di codificazione ad opera della CDI, sfociata nella convenzione del
1997 sul diritto alle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali per finalità diverse dalla
navigazione, non ancora in vigore. La convenzione vuole essere un accordo quadro al quale
dovrebbero ispirarsi accordi particolari tra stati rivieraschi; sue norme principali sono l’art
5, il quale prevede un’utilizzazione “equa e ragionevole” del corso d’acqua da parte degli
stati rivieraschi, e l’art 7 secondo il quale uno stato rivierasco deve prendere le misure
necessarie per evitare di causare “danni significativi” agli altri stati rivieraschi, e nel caso in
cui il danno si sia ciononostante verificato, discutere la questione dell’indennizzo.
Valutazione di impatto ambientale. In alcune pronunce recenti, la corte
internazionale di giustizia ha affermato l’esistenza di un obbligo derivante dal diritto
internazionale generale, di condurre una valutazione di impatto ambientale in relazione
alla realizzazione di attività suscettibili di produrre effetti nocivi in un contesto
transfrontaliero.

Principio del “chi inquina paga”. Non bisogna confondere gli obblighi dello
stato sul piano internazionale con quelli degli individui, persone fisiche o
giuridiche, o al limite dello stato stesso, sul piano interno: se un’industria,
pubblica o privata, provoca danni nel territorio di un altro stato, può essere
chiamata a rispondere a rispondere innanzi ai giudici di questo stato, nel
quadro del normale esercizio della sovranità territoriale (oppure innanzi ai
giudici dello stato dal cui territorio proviene l’inquinamento).
Secondo il principio del “chi inquina paga” è stabilito che, in caso di
inquinamento causato da attività economiche, i costi di bonifica ambientale
devono essere sostenuti da chi ne trae profitto.
Un esempio significativo della distinzione tra responsabilità internazionale e
responsabilità interna è il caso deciso dalla corte distrettuale di Rotterdam e poi dalla corte
di appello dell’Aja. La prima aveva ritenuto che la responsabilità di una ditta francese per
l’inquinamento del Reno sussistesse sia in base al diritto olandese che in base al diritto
internazionale; la seconda ha invece considerato come non pertinente il richiamo del
diritto internazionale, affermando la responsabilità unicamente sulla base del diritto
olandese.
Sviluppo sostenibile, responsabilità intergenerazionale e approccio
precauzionale. Una linea di tendenza in formazione, anche se non ancora
identificabile come diritto generale, riguarda l’esistenza dell’obbligo a gestire
razionalmente le risorse del proprio territorio secondo criteri di “sviluppo
sostenibile” (ovvero contemperare le esigenze di sviluppo economico con
quelle della tutela ambientale), della “responsabilità intergenerazionale”
(ossia salvaguardando le generazioni presenti e future) e di “approccio
precauzionale” (cioè evitare attività rischiose per l’ambiente in mancanza di

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piene certezze scientifiche allo scopo di rinviare l’adozione di misure diretta a


prevenire gravi danni all’ambiente).
Passando dal piano del diritto consuetudinario a quello del diritto pattizio il
discorso si fa anche qui completamente diverso. Per quanto riguarda gli usi
nocivi del territorio, gli accordi sia bilaterali che multilaterali si sono andati
moltiplicando negli ultimi anni. In generale le convenzioni si limitano invece
a stabilire obblighi di cooperazione, di informazione e di consultazione tra le
parti contraenti, ispirandosi ai criteri di sviluppo sostenibile, di responsabilità
intergenerazionale e di approccio precauzionale.
26.Il trattamento degli stranieri.
“Attacco” dello straniero con la comunità territoriale. Due sono i principi di
diritto internazionale generale che si sono andati formando per consuetudine
in materia di trattamento degli stranieri.
Il primo prevede che allo straniero non possono imporsi prestazioni, e più in
generale non possono richiedersi comportamenti che non si giustificano con
un sufficiente “attacco” dello straniero stesso (o dei suoi beni) con la
comunità territoriale. Questa regola può anche esprimersi dicendosi che
l’intensità del potere di governo sullo straniero e sui suoi beni deve essere
proporzionata all’intensità del predetto attacco sociale. Pertanto allo straniero
non potranno essere richieste prestazioni e comportamenti di natura per così
dire politica, come l’obbligo del servizio militare (i quali si giustificano solo in
presenza di quel massimo “attacco sociale” costituito dal vincolo di
cittadinanza); non potranno essere richieste prestazioni di carattere fiscale se
non nei limiti in cui lo straniero eserciti attività o possegga beni che
giustifichino siffatta imposizione: non potranno essere imposti vincoli
relativamente ad attività commerciali, industriali, ecc; non potranno
applicarsi sanzioni penali se non di fronte a reati che, dovunque siano stati
commessi, presentino un qualche collegamento con lo stato territoriale e i
suoi sudditi, salvo ovviamente l’esercizio della giurisdizione penale universale
per i crimini internazionali.
Protezione dello straniero. L’altro principio di carattere consuetudinario in
tema di trattamento degli stranieri sancisce il cd obbligo di protezione da
parte dello stato territoriale. Secondo tale principio, lo stato deve predisporre
misure idonee a prevenire e a reprimere le offese contro la persona o i beni
dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a quanto di solito si fa per
tutti gli individui in uno stato civile, cioè in uno stato “il quale provveda
normalmente ai bisogni di ordine e sicurezza della società sottoposta al suo
controllo”.

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Per quanto concerne le misure preventive è ovvio che esse debbano essere
adeguate alle circostanze relative ad ogni singolo caso concreto.
Diniego di giustizia. Per quanto concerne le misure repressive, occorre che lo
stato disponga di un normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo
straniero possa far valere le proprie pretese ed ottenere giustizia. Si chiama,
appunto, diniego di giustizia l’eventuale illecito dello stato in questa specifica
materia. Questo illecito si ha quando la giustizia è negata appunto per difetto
di organizzazione giudiziaria.
Protezione degli investimenti stranieri. Sul tradizionale obbligo di protezione
dei beni degli stranieri si sono innestate, per quanto riguarda la materia degli
investimenti stranieri, le rivendicazioni dei paesi in sviluppo, aventi per
oggetto la sovranità permanente sulle risorse naturali. In una loro
formulazione estrema simili rivendicazioni tendevano addirittura a sostenere,
all’epoca della decolonizzazione, l’assoluta libertà dello stato territoriale di
espropriare beni di proprietà degli stranieri, con il conseguente venir meno
dell’obbligo di protezione e della connessa obbligazione di pagare un
indennizzo al soggetto espropriato.
Oggi, la situazione è abbastanza mutata. Perché? perché gli stati che ricevono
gli investimenti, di cui i paesi in sviluppo hanno particolarmente bisogno,
hanno interesse a creare le condizioni necessarie affinché i capitali stranieri
non cessino dall’affluire (affinché soggetti stranieri decidano di investire in un
certo paese, è infatti necessario che quest’ultimo offra adeguate garanzie di
protezione). Ciò ha portato, da un lato ad un parziale ridimensionamento
delle rivendicazioni statali in tema di sovranità sule risorse naturali e,
dall’altro, all’assunzione di impegni pattizi volti a creare un quadro giuridico
rassicurante per gli investitori stranieri.
Tali impegni sono assunti nell’ambito di trattati in materia di investimenti
(bilaterali o multilaterali) nei quali ciascuno stato si impegna a garantire
alcune tutele di carattere sia sostanziale (esempio: gli stati si impegnano a
non espropriare gli investimenti stranieri se non in presenza di giustificati
motivi e previo pagamento di un indennizzo “pronto, adeguato ed effettivo”
cd formula di Hull) sia procedurale (gli stati si impegnano a consentire la
sottoposizione delle controversie relative alla violazione degli standard
sostanziali di tutela a tribunali arbitrali internazionali ad hoc, la cui
costituzione può essere attivata, con decisione unilaterale, dall’investitore
straniero. Tali tribunali agiscono all’interno di un quadro istituzionale e
rispettano regole procedurali predefinite; pensiamo all’ICSID, “centro
internazionale per il regolamento delle controversie tra stati e investitori
stranieri”) agli investitori provenienti dalle altre parti contraenti.

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Espropriazione e nazionalizzazione di beni stranieri. Attualmente la prassi


delle nazionalizzazioni è molto significativa: nessuno dubita, oggi,
dell’assoluta libertà dello stato di espropriare e nazionalizzare beni stranieri.
Così come non è controversa la questione secondo cui il passaggio alla mano
pubblica debba essere sorretto da motivi di pubblica utilità, questione che
acquista esclusivamente rilievo in caso di espropriazione di un singolo bene
dato che nelle nazionalizzazioni (che normalmente riguardano intere
categorie di imprese) il pubblico interesse è in re ipsa trattandosi di scelte
fondamentali dello stato territoriale in materia di politica economica.
Obbligo di indennizzo. In linea di massima, l’unica importante questione è
quella che riguarda l’indennizzo conseguente alle espropriazioni e
nazionalizzazioni, questione che ha dato luogo in passato ad acuti conflitti fra
gli stati e ad accanite discussioni dottrinali: contrasti e discussioni vertenti
principalmente molto più sul quantum che sull’an.
Una regola che può considerarsi come corrispondente al diritto
consuetudinario è quella indicata dal tribunale Iran-Stati Uniti: secondo il
tribunale occorre distinguere tra le espropriazioni, per le quali l’indennizzo va
commisurato al valore del bene, e le nazionalizzazioni operate su vasta scala,
per le quali circostanze speciali possono giustificare temperamenti e
aggiustamenti.
Accordi di compensazione globale. Va anche tenuto conto della prassi del cd
accordi di compensazione globale (lump-sum agreements) mediante i quali lo
stato nazionalizzante corrisponde una somma forfettaria allo stato di
appartenenza degli stranieri espropriati e questo resta l’unico competente a
decidere circa la distribuzione della somma tra i soggetti colpiti.
Rispetto dei debiti pubblici. Si riallaccia al tema della protezione degli
interessi patrimoniali degli stranieri il problema del rispetto dei debiti
pubblici con questi contratti dallo stato predecessore nell’ambito del proprio
diritto interno, nei casi di mutamento di sovranità su di un territorio.
La dottrina tradizionale era in linea di massima favorevole alla successione
nel debito pubblico, ritenendo che il rispetto dei diritti acquisiti rientrasse nel
dovere di protezione degli stranieri. Tale opinione ha incontrato la decisa
opposizione dei paesi in sviluppo: nella prassi più recente, in particolare in
quella relativa allo smembramento dell’unione sovietica e della
Cecoslovacchia, può invece notarsi la tendenza all’accollo da parte degli stati
subentranti. Pertanto, tutto ciò che si può dire è che la disciplina della materia
tende a seguire i principi valevoli per la successione nei trattati: essa tende ad
ammettere la successione nei debiti localizzabili (ossia contratti nell’esclusivo
interesse del territorio oggetto del mutamento di sovranità) e non nei debiti

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generali dello stato predecessore (salvo, in questo caso, un accollo


convenzionalmente stabilito).
Ammissione ed espulsione degli stranieri. Il diritto internazionale
consuetudinario non prevede limiti per quanto concerne l’ammissione degli
stranieri: in questa materia rivive la norma sulla sovranità territoriale la quale
comporta la libertà dello stato di stabilire la propria politica nel campo
dell’immigrazione, permanente o temporanea che sia. Il problema è diverso
quando, impendendo agli stranieri di entrare nel territorio, lo stato commette
una violazione dei diritti umani fondamentali tutelati anche dal diritto
consuetudinario, primo fra tutti il diritto alla vita. La precisazione è
importante in tema di immigrazione clandestina, specie con riguardo ai casi
in cui uno stato impedisca ad imbarcazioni con immigranti a bordo di entrare
nelle proprie acque territoriali nonostante il rischio di pericolo di vita dei
passeggeri.
Per il diritto consuetudinario lo stato è anche libero di espellere gli stranieri.
L’espulsione deve, però, avere luogo con modalità che non risultino
“oltraggiose” nei confronti dell’espellendo e che, al contempo, allo stesso
debba concedersi un lasso di tempo ragionevole qualora egli debba regolare i
propri interessi: ma, tutto ciò non è altro che l’applicazione del dovere di
protezione, in particolare dell’obbligo di predisporre misure preventive delle
offese alla persona dello straniero e ai suoi beni.
Espulsione verso paesi a rischio. Limiti particolari in tema di espulsione di
stranieri derivano da varie convenzioni internazionali, prime fra tutte le
convenzioni sui diritti umani: ad esempio l’art 3 della convenzione delle
nazioni unite (contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o
degradanti) obbliga agli stati a non estradare o espellere una persona verso
paesi in cui questa rischia di essere sottoposta a tortura lo stesso obbligo è
stato anche ricavato implicitamente dall’art 2 (diritto alla vita) e dall’art 3
(divieto di praticare tortura o trattamenti disumani o degradanti) dalla
convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Espulsione contraria al rispetto della vita privata e familiare . La corte ha
anche ricavato l’obbligo di non espellere dall’art 8 della convenzione, che
prevede il rispetto della vita privata e familiare, quando l’espulsione
comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata rottura dell’unità
familiare.
Rifugiati. Grande importanza oggi assumono, sempre a causa dei flussi
migratori sempre più intensi, la convenzione di Ginevra del 1951 e il
protocollo del 1967 sui rifugiati, entrambi ratificati da 145 stati tra cui l’Italia.
Secondo l’art 1 della convenzione, lo status di rifugiato spetta a chi “teme a

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ragione” che nel proprio paese possa essere perseguitato per “motivi di razza,
religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo social o per le
sue opinioni politiche”. Il rifugiato deve ovviamente rispettare tutte le leggi
dello stato di rifugio e, inoltre, ha vari diritti tra cui quelli di non essere
discriminato con riguardo alla razza, di praticare la propria religione, di
accedere ai tribunali e all’assistenza e di ottenere il “documento di viaggio”,
ossia una sorta di passaporto che gli permette di circolare nei territori degli
stati contraenti.
Non-refoulement. Ma, la norma più importante è sicuramente quella dell’art
33 che prevede il principio del non-refoulement, secondo cui il rifugiato non
può essere espulso verso territori verso la sua vita e libertà sarebbero
minacciate per i motivi sopra indicati e ciò sempre che motivi attinenti alla
sicurezza pubblica non lo richiedano. Secondo un’interpretazione evolutiva di
questo principio, esso si applica ormai in ogni caso in cui il rifugiato potrebbe
essere sottoposto nel suo paese, o nel paese nel quale rischia di essere inviato,
a trattamenti che violino i principi fondamentali e inalienabili della persona
umana.
Diritto di asilo. La figura del rifugiato ha assorbito quella del richiedente asilo
politico. Ciò anche sul piano meramente terminologico, in quanto si dice che
chi chiede il riconoscimento dello status di rifugiato è ritenuto “cercare asilo”.
È implicito nel principio del non-refoulement che al richiedente lo status di
rifugiato vada accordato un lasso di tempo per dimostrare i motivi della sua
richiesta. È pertanto da condannare la prassi, seguita per un certo tempo dal
governo italiano, consistente nel respingere in alto mare stranieri che fuggono
dal loro stato e di respingerli addirittura verso la Libia di Gheddafi, stato non
vincolato dalla convenzione.
NB il respingimento in alto mare verso la Libia da parte del governo italiano è stato
condannato anche dalla sentenza CEDU del 23.2.2012, nel caso Hirsi c. Italia per
violazione indiretta dell’art 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo; la
particolarità della sentenza sta peraltro nel fatto che la corte abbia ritenuto di avere
giurisdizione anche per violazioni perpetrate dallo stato fuori del proprio territorio e
precisamente fuori del proprio mare territoriale.

Convenzioni di stabilimento. Si tratta di accordi internazionali che prevedono


l’obbligo di ciascuna parte contraente di riservare alle persone fisiche e
giuridiche, appartenenti all’altra o alle altre parti, condizioni di particolare
favore, sia in tema di ammissione sia per quanto concerne l’esercizio di
attività imprenditoriali, professionali ecc.
Importanti sono le norme sul diritto di stabilimento, contenute negli artt 46
ss del TFUE, le quali mirano ad una quasi totale parificazione tra cittadini e

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stranieri nell’ambito del territorio dell’UE e con riguardo, ovviamente, ai


cittadini degli stati membri.
Cittadinanza europea. Fini di parificazione persegue anche la cittadinanza
europea; essa, infatti, comporta il diritto di circolare liberamente nell’ambito
dell’unione europea, di partecipare alle elezioni locali nello stato membro in
cui risiede e di votare nello stesso stato per i rappresentanti al parlamento
europeo.
Protezione diplomatica. Secondo il diritto internazionale generale, quando lo
stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito
internazionale nei confronti dello stato al quale lo straniero appartiene.
A tal proposito, quindi, è importante parlare della cd “protezione
diplomatica”. Di questo istituto si è occupata la CDI a partire dal 2000. Nel
2006 essa ha conclusi i propri lavori approvando un progetto di articoli nel
2006.
Lo stato dello straniero “maltrattato” potrà appunto esercitare la protezione
diplomatica, ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano
internazionale: esso potrà agire con proteste, minacce di (o ricorso a)
contromisure contro lo stato territoriale, proposte di arbitrato o, quando è
possibile, ricorso ad istanze giurisdizionali internazionali, al fine di ottenere la
cessazione della violazione e il risarcimento del danno causato al proprio
suddito.
Prima, però, che lo stato agisca in protezione diplomatica occorre abbia
esaurito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello stato territoriale, purché
adeguati ed effettivi, secondo la regola del previo esperimento dei ricorsi
interni: finché questi rimedi esistono (e, quindi, lo stato territoriale ha la
possibilità di eliminare l’azione illecita o di fornire allo straniero offeso
un’adeguata riparazione, le norme sul trattamento degli stranieri non possono
dirsi nemmeno violate).
L’istituto della protezione diplomatica ha, oggi, carattere residuale anche nel
senso che, una volta esauriti i ricorsi interni ed avvenuta la violazione, è anche
necessario che non vi siano rimedi internazionali efficaci azionabili dagli
stessi stranieri lesi (es: pensiamo alle corti internazionali che controllano il
rispetto dei diritti umani).
Lo stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui è
titolare (quindi lo stato e non il suo suddito): lo stato non agisce come
rappresentante o mandatario dell’individuo e, quindi, è da escludere che la
materia sia inquadrabile come manifestazione della personalità

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internazionale dell’individuo, personalità che va ricollegata ai casi in cui


l’individuo agisce, o risponde, direttamente sul piano internazionale.
Lo stato in ogni momento può rinunciare ad agire, sacrificare l’interesse del
suddito leso ad altri interessi, transigere ecc. ciò anche se comincia ad
affermarsi l’idea, in dottrina e non nella prassi, di un vero e proprio obbligo
dello stato di esercitare la protezione nel caso di violazioni gravi dei diritti
umani.
A riguardo è importante il progetto di articoli sulla protezione diplomatica della CDI. Il
progetto si conclude con una serie di raccomandazioni; ai sensi dell’art 19 del progetto, lo
stato “dovrebbe”:
a. Prendere in debita considerazione la possibilità di esercitare la protezione
diplomatica, soprattutto a fronte di un danno significativo subito dalla persona.
b. Prendere in considerazione, ove possibile, la posizione della persona lesa rispetto al
ricorso alla protezione diplomatica e alla riparazione da richiedere.
c. Trasferire alla persona lesa l’eventuale risarcimento ottenuto dallo stato
responsabile.
NB si tratta di mere esortazioni che non sono diretta a codificare il diritto esistente ma
che esprimono l’auspicio da parte della commissione di uno sviluppo progressivo del
diritto internazionale.
D’altro canto, che la prassi smentisca l’esistenza di un obbligo per lo stato di agire in
protezione diplomatica nell’interesse del proprio cittadino, anche quando quest’ultimo sia
stato vittima di una grave violazione dei diritti umani, appare recentemente confermato
dalla reazione, tutt’altro che ferma, del governo italiano in relazione al caso di Giulio
Regeni, un ricercatore italiano torturato ed ucciso nel 2016 con la probabile connivenza dei
servizi segreti egiziani.
Altro è il problema se, dal punto di vista del diritto interno, il governo non sia obbligato,
nei confronti dei suoi cittadini, ad esercitare la protezione diplomatica. La giurisprudenza
interna, nel silenzio di norme legislative, è orientata in senso negativo, anche se non manca
qualche voce discorde.

Proprio in virtù della considerazione che lo stato che la esercita agisce


nell’interesse suo proprio, può transigere come meglio crede, può sacrificare
l’interesse del cittadino leso ad esigenze di politica estera e così via.
Se le cose stanno cosi, ci sembra che acquisiti grande importanza in tema di
trattamento degli stranieri il ruolo del giudice interno. In altre parole: lo
straniero può essere maggiormente garantito contro le violazioni del diritto
internazionale perpetrate nei suoi confronti attraverso l’opera dei giudici
dello stato territoriale piuttosto che attraverso l’azione in protezione
diplomatica da parte del proprio stato nazionale. I giudici dello stato
territoriale, se amministrano rettamente e in piena indipendenza la giustizia e
se operano in uno stato che circonda di garanzie l’osservanza del diritto
internazionale, possono evitare che lo straniero ricorra alla protezione del

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proprio stato ed essere in grado di tutelare lo straniero più del suo stato
nazionale. La protezione diplomatica spetta infatti agli organi del cd potere
estero, di solito organi del potere esecutivo.
Protezione diplomatica delle società commerciali. La protezione diplomatica
può essere esercitata dallo stato nazionale sia a difesa di una persona fisica
che a difesa di una persona giuridica, in particolare di una società
commerciale.
Per quanto concerne le società commerciali ci si chiede se, ai fini dell’esercizio
della protezione diplomatica, si debba aver riguardo a criteri formali o legali,
come il luogo di costituzione e quello della sede principale, oppure a criteri
sostanziali e quindi ritenere ad esempio che la protezione sia esercitabile dallo
stato a cui appartengono la maggioranza dei soci o comunque coloro che
controllano la società.
A favore della prima tesi, si è pronunciata la CIG in una sentenza del 1970
(relativamente all’affare Barcelona Traction, Light and Power): si tratta di
una tesi che finisce con l’avere una sua logica proprio in relazione alla pratica
oggi assai diffusa tra i privati e consistente nell’ancorare l’esistenza legale di
una società a stati particolarmente “compiacenti” dal punto di vista fiscale, da
quello dei controlli sulla gestione ecc.
Caso della Barcelona Traction. Rispetto a questo caso la CIG ha anche affermato la
necessità che oltre al luogo di costituzione e della sede sociale debba concorrere a
determinare la nazionalità della società qualche altra “permanente e stretta connessione”
con lo stato individuato dai detti criteri. Ma, non è chiaro cosa succede se i vari criteri
conducano a stati diversi.
Nella dottrina e nella prassi successive alla Barcelona Traction si è cercato di precisare che
cosa debba intendersi per “permanente e stretta connessione” di una società con lo stato
agente in protezione diplomatica. Soprattutto si discute al riguardo sulla rilevanza della
nazionalità di coloro che hanno il controllo della società e se il criterio del controllo sua
aggiuntivo o alternativo ai criteri del luogo di incorporazione e della sede sociale. Non c’è
dubbio che nella giurisprudenza della corte il criterio non è considerato come alternativo,
nella misura in cui la corte dichiara infatti che, anche se una società di mantenga, e finché
si mantenga in vita con un solo azionista, la nazionalità di quest’ultimo non avrebbe
rilevanza ai fini della protezione diplomatica per violazioni concernenti i beni e le attività
sociali.

Protezione dei singoli soci. Si afferma, anzitutto, che lo stato nazionale del
singolo socio possa agire quando questi sia stato leso “direttamente” in un suo
diritto (direct rights) ma non è facile individuare i casi in cui ciò avviene. Si
deve trattare di una lesione del diritto del socio nei confronti della società
(pensiamo il diritto ai dividendi, il diritto di partecipare alle assemblee con
diritto di voto ecc).

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A parte il tema dei direct rights, una più importante e discussa questione in
materia di protezione diplomatica del socio da parte del suo stato nazionale
riguarda la cd protezione “in sostituzione” o “sussidiaria”. Ci si chiede anche
se detto stato possa intervenire quando la società abbia legalmente cessato di
esistere, oppure abbia essa la nazionalità dello stato presunto violatore, o
ancora il suo stato nazionale non possa o non voglia intervenire.
Non c’è dubbio che qualora la società abbia cessato di esistere, i soci possano
essere protetti dai loro stati nazionali per quanto riguarda i residui beni
societari a loro attribuibili. Si discute, invece, se la protezione sussista
nell’ipotesi in cui la società abbia la nazionalità dello stato presunto violatore;
la discussione nasce dal fatto che, nonostante quanto detto nell’obiter dictum
della Barcelon Traction, la stessa CIG nella successiva sentenza Diallo si è
rifiutata di ritenere che detta forma di intervento “in sostituzione” sia prevista
dal diritto consuetudinario: la corte ha negato, in particolare, che una norma
consuetudinaria potesse ricavarsi dalla vasta rete di trattati in materia di
investimenti che adottano una soluzione contraria.
Protezione della comunità navale. Alla regola secondo cui sono le società e
non i singoli azionisti a godere della protezione diplomatica può accostarsi il
caso della protezione della comunità navale da parte dello stato nazionale o
dello stato della bandiera, protezione che assorbirebbe quella dei singoli
membri dell’equipaggio. In tal senso è citabile la sentenza del tribunale
internazionale del diritto del mare: nella specie si trattava della cattura e del
sequestro di una nave in alto mare e conseguente arresto dell’equipaggio, e la
controversia non riguardava le regole sul trattamento dello straniero ma
quelle di diritto internazionale del mare.
27.Il trattamento degli agenti diplomatici e di altri organi di stati
stranieri.
Particolari limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono
previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici.
Essi si concretano nel rispetto delle cd. Immunità diplomatiche. La materia è
anche regolata da una Convenzione di codificazione promossa dalle Nazioni
Unite: la Convenzione di Vienna del 1961 promossa dall’ONU.
Le immunità riguardano gli agenti diplomatici accreditati presso lo stato
territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel
territorio di tale stato per esercitarvi le sue funzioni fino al momento in cui ne
esce. La presenza dell’agente è, come quella di qualsiasi straniero,
subordinata alla volontà dello Stato territoriale; volontà che si esplica, per
quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento (che precede
l’accreditamento) e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la cd.

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consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare il paese entro un certo


tempo.
Le immunità diplomatiche sono le seguenti:
protezione della persona dell’agente diplomatico

A) Inviolabilità personale: l’agente diplomatico deve essere protetto


contro le offese alla sua persona mediante particolari misure preventive
e repressive.

cd extraterritorialità della sede diplomatica

B) Inviolabilità domiciliare: protezione della sede diplomatica e della


abitazione privata dell’agente, si intende per domicilio sia la sede della
missione diplomatica sia l’abitazione privata dell’agente diplomatico.
immunità funzionale

C) Immunità della giurisdizione penale e civile: bisogna distinguere tra


atti compiuti dal diplomatico in quanto organo dello stato ed atti da lui
compiuto come privato. I primi sono coperti da immunità funzionale
chiamata anche immunità materiale o ratione materiae: l’agente non
può essere citato in giudizio per rispondere penalmente o civilmente per
gli atti compiuti nell’ esercizio delle sue funzioni. L’immunità funzionale
è prevista per garantire all’agente diplomatico l’indisturbato esercizio
della sua attività. Questa circostanza fa sì che l’agente diplomatico non
possa essere citato in giudizio per rispondere penalmente e civilmente
neanche una volta che siano cessate le sue funzioni (se, ad esempio, un
agente diplomatico presenta una nota verbale con insulti verso lo stato
territoriale o suoi organi, il giudice dello stato territoriale non potrà mai
sottoporre l’agente a procedimento penale, perché la nota resta un atto
proprio dello stato; così come non potrà mai essere citato in giudizio,
personalmente, un agente che abbia acquistato suppellettili per
l’ambasciata e non le abbia pagate o comunque abbia tenuto
comportamenti dai quali sia scaturita una controversia di carattere
civilistico.
Immunità per gli atti privati. Anche gli atti che l’agente compie come privato
sono immuni dalla giurisdizione civile e penale e sono coperti dall’immunità
personale o ratione personae; salvo, per quanto riguarda la giurisdizione
civile e entro certi limiti, le azioni reali concernenti immobili situati nel
territorio dello stato accreditatario, le azioni successorie e quelle riguardanti
attività professionali o commerciali dell’agente e le domande riconvenzionali.
La ratio di questa immunità sta esclusivamente nell’esigenza di assicurare

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all’agente il libero ed indisturbato esercizio delle sue funzioni, esigenza che è


espressa nel brocardo “ne impediatur legatio”.
Ne consegue il carattere esclusivamente processuale dell’immunità: l’agente
però non è dispensato dall’osservare la legge, ma è semplicemente immune
dalla giurisdizione, finché si trova sul territorio dello stato che lo riceve e
finché esplica le sue funzioni. Una volta che la sua qualità di agente
diplomatico sia venuta meno egli potrà essere sottoposto a giudizio anche per
gli atti o i reati compiuti quando rivestiva tale qualità; mentre finché dura la
funzione non potrà essere sottoposto a processo neppure per gli atti o per i
reati compiuti prima del periodo della funzione.
L’art 39 della Convenzione di Vienna del 1961 prevede che, quando la missione è finita, i
privilegi e le immunità continuano a sussistere fino a quando il diplomatico non lasci il
paese o comunque dopo un ragionevole lasso di tempo necessario a tal fine.

D) esenzione fiscale: essa sussiste esclusivamente per le imposte dirette


personali ma, per motivi di cortesia, lo stato di accreditamento può
estenderla ad altri tributi.
Persone cui spettano le immunità diplomatiche. Le immunità diplomatiche,
oltre ad ambasciatori, ministri plenipotenziari, incaricati d’affari, spettano a
tutto il personale diplomatico delle missioni e alle famiglie. La Convenzione di
Vienna le estende anche al personale tecnico e amministrativo, con esclusione
degli impiegati residenti nello stato territoriale.
Immunità di organi diversi dagli agenti diplomatici. Tali immunità, sia
funzionali che personali, spettano anche ai Capi di Stato, Capi di Governo e
Ministri degli esteri quando si trovano all’estero in forma ufficiale.
Sulle immunità dei ministri degli esteri è importante la sentenza del 2002 della CIG nel
caso del mandato di cattura. La corte, dopo aver affermato che ai ministri degli esteri
spettano le immunità diplomatiche quando sono all’estero, considera contraria al diritto
internazionale generale l’emissione, da parte del Belgio, di un mandato di cattura
internazionale, per i crimini internazionali, fatto circolare in tutti i paesi, contro il ministro
degli esteri congolese. Secondo la corte il mandato internazionale costituirebbe un chiaro
impedimento per il ministro a svolgere le sue funzioni, dato che queste non possono non
comportare frequenti viaggi all’estero.

Immunità e crimini internazionali. Per quanto riguarda i crimini


internazionali, l’immunità personale copre questi reati. L’immunità
funzionale, invece, ormai soccombe di fronte all’esigenza di punizione di
questi crimini: trattasi di jus cogens. Poiché i crimini internazionali sono
commessi proprio dagli organi supremi dello stato, sarebbe assurdo negare
che possa essere punito l’agente diplomatico o altro individui al quale
spettano le immunità diplomatiche, una volta cessata la funzione. la prassi è
orientata in tal senso: è citabile la sentenza del tribunale federale svizzero,

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caso Nezzar, ex ministro della difesa algerino ritenuto responsabile di


sparizioni forzate ed atti di tortura.
Consoli e altri organi statali. Per i consoli non è prevista alcuna immunità,
salva l’inviolabilità dell’archivio consolare. L’immunità funzionale (ma
secondo alcuni anche quella personale) va riconosciuta altresì, secondo una
vecchia norma consuetudinaria, ai corpi di truppa all’estero.
Vi sono, poi, dei particolari agenti statali ai quali l’immunità sicuramente non
è riconosciuta: trattasi degli agenti segreti.
Per quanto riguarda gli altri organi la prassi depone nel senso che, oltre a
quello degli agenti segreti, esistono casi, come ad esempio quelli delle
intrusioni non autorizzate di agenti di polizia in territorio straniero, di
sconfinamenti di aerei o di cattura di criminali all’estero, di omicidi commessi
da organi dello stato, nei quali l’immunità di solito è esclusa.
A nostro avviso la prassi può essere così interpretata: anzitutto, l’immunità
funzionale sussiste per quanto riguarda la giurisdizione civile, ivi comprese le
azioni di risarcimento per crimini commessi dall’organo (in effetti, in questi
casi è lo stato in nome del quale l’organo ha agito che può essere sottoposto
alla giurisdizione straniera; se poi tale stato è anch’esso immune, come nel
caso del risarcimento per azioni qualificabili come atti jurii imperii, sarà
sempre possibile chiamarlo a rispondere sul piano internazionale.
L’immunità è da escludere, invece, per l’esercizio della giurisdizione penale:
questo trova la sua ratio nel fatto che lo stato, in quanto persona giuridica,
difficilmente può essere considerato come penalmente responsabile.
Membri di missioni speciali. Agli organi e agli individui inseriti in missioni speciali
inviate da uno stato presso un altro stato per la trattazione di questioni determinate, la
convenzione del 1969 sulle missioni speciali, promossa dalle nazioni unite, estende le
immunità diplomatiche d’uso. Nel caso Tabatabai, leader politico iraniano inviato in
missione speciale in Germania ed accusato di aver introdotto una certa quantità di oppio
nel territorio della Repubblica Federale tedesca, la corte suprema di questo paese
concludeva che, a prescindere dalla conformità o meno della convenzione del 1969 al
diritto internazionale generale, l’immunità degli inviati speciali potesse risultare da un
accordo, anche tacito, tra lo stato inviante e quello ricevente.

28.Il trattamento degli stati stranieri.


Non ingerenza negli affari di altri stati. Sempre a proposito dei limiti che
incontro l0 stato territoriale nell’esercizio del suo potere di imperio dobbiamo
ora parlare degli obblighi dello stato per quanto riguarda il trattamento degli
stati stranieri stessi.

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Parliamo, per prima cosa, del principio del non intervento negli affari interni
ed internazionali di un altro stato. Il principio della non ingerenza negli affari
altrui però, in concreto, ha perso sempre di più la sua autonoma sfera di
applicazione con l’affermarsi di altre regole generali, le quali ne hanno
assorbito la fattispecie.
Non ingerenza e divieto della minaccia o dell’uso della forza. La più
importante di queste regole è costituita dal divieto della minaccia o dell’uso
della forza: interventi negli affari interni ed internazionali di un altro paese,
attuati attraverso la minaccia o l’impiego della forza di tipo bellico.
È sintomatico quanto afferma la CIG nella sentenza del 1986 nel caso delle attività militari
e paramilitari in e contro il Nicaragua, a proposito di una delle fattispecie di solito riportate
al principio di non ingerenza e cioè dell’assistenza prestata da uno stato, sottoforma di
fornitura di armi, di assistenza logistica e altro, a forze ribelli che agiscono nel territorio di
un altro stato. Anche se la corte non ritiene che detta fattispecie sia assorbita dal principio
che vieta la minaccia o l’uso della forza, essa però considera salomonicamente l’assistenza
alle forze ribelli come contraria sia all’uno che all’altro principio.

Non ingerenza e misure di pressione economica. Per quanto riguarda altre


possibili applicazioni del principio della non ingerenza (ossia applicazioni che
si risolvono in limiti al potere di governo che lo stato esercita nell’ambito del
proprio territorio) vengono in rilievo gli interventi dello stato diretti a
condizionare le scelte di politica interna ed internazionale di un altro stato: si
pensi, in particolare, alle misure di carattere economico, anche se è difficile
capire quando ciò si verifica.
Secondo la CIG non è sufficiente a concretare un’ipotesi di illecito intervento
negli affari altrui l’interruzione di un programma di aiuto allo sviluppo o la
riduzione o il divieto delle importazioni dal paese che si vuole colpire. A
nostro avviso, però, qualora queste misure siano contemporaneamente e
sistematicamente prese, e abbiano come unico scopo quello di influire sulle
scelte dello stato straniero, esse devono considerarsi come vietate.
Una recente manifestazione di tale tendenza è costituita dalle azioni volte ad influenzare i
processi elettorali di altri stati attraverso la Rete, in particolare fornendo notizie false (fake
news): questo è quanto sarebbe accaduto in occasione delle elezioni statunitensi del 2016
in relazioni alle quali sembrerebbe esserci stata una illecita ciber-interferenza da parte
della Russia.

Bisogna, infine, chiedersi se dal principio della non ingerenza derivi l’obbligo
di impedire che nel proprio territorio si tengano comportamenti che possono
indirettamente turbare l’ordine pubblico e più in generale l’indisturbato
svolgersi della vita nell’ambito di stati stranieri. Nessuno dubita che sia lecite
manifestazioni di condanna o di critica del sistema politico o del regime
economico, sociale ecc di uno stato stranieri (manifestazioni che riguardano

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soprattutto stati anti-democratici) ma i pareri sono discorsi quando si tratta


di comportamenti più incisivi come la propaganda sovversiva, l’invio di
messaggi radio e televisivi, la preparazione di atti di terrorismo ecc.
Preparazione di atti terroristici diretti contro altri stati. Probabilmente,
l’unica regola consuetudinaria di cui si possa affermare con certezza
l’esistenza è quella che impone di vietare la preparazione di atti di terrorismo
diretti contro altri stati.
Giurisdizione sugli stati stranieri. Ci si chiede se gli stati stranieri siano
assoggettabili alla giurisdizione civile dello stato territoriale. Può uno stato
essere convenuto in giudizio davanti alla corte di un altro stato, ad es per
inadempienza contrattuale o perché ha licenziato un impiegato assunto in
servizio presso la propria rappresentanza diplomatica, o a proposito di una
qualsiasi altra controversia tra lo stato e un privato?
Sul tema ha lavorato per molti anni la CDI e, tra il 2000 e il 2004, un
comitato ad hoc dell’assemblea generale delle nazioni unite.
Immunità assoluta e immunità relativa degli stati stranieri dalla giurisdizione
civile. Alla fine dell’800, la teoria universalmente accolta in merito al
problema del trattamento degli stati stranieri (a cui si ispirava il principio par
in parem non habet iudiucim) era quella favorevole all’immunità assoluta
degli stati stranieri dalla giurisdizione civile. Sono state la giurisprudenza
italiana e quella belga a dare inizio ad un’inversione di tendenza che ha
portato poi alla revisione della regola tradizionale, elaborando la teoria
dell’immunità ristretta o relativa.
Atti dello stato jure imperii ed atti jure gestionis. Secondo la teoria
dell’immunità ristretta, l’esenzione degli stati stranieri dalla giurisdizione
civile è limitata agli atti jure imperii (a quegli atti cioè attraverso i quali si
esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si estende, invece,
agli atti jure gestionis o jure privatorum (ossia agli atti aventi carattere
privatistico, come l’acquisto di un immobile a titolo di investimento).
Ma, la distinzione tra atti jure imperii e atti jure gestionis non è facile da
applicare ai casi concreti: anche qui il diritto consuetudinario lascia un ampio
margine all’interprete, nella specie al giudice interno e, probabilmente, deve
sostenersi che, in caso dubbio, debba concludersi a favore dell’immunità
anziché a favore della sottoposizione dello stato straniero alla giurisdizione (la
seconda è eccezione alla prima).
La tendenza a considerare la immunità la regola e l’esercizio della
giurisdizione l’eccezione, è anche alla base della convenzione delle nazioni
unite, la quale non formula espressamente la distinzione tra atti jure imperii e

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atti jure gestionis ma, una volta affermato il principio della immunità, elenca
in via di eccezione i casi in cui lo stato straniero può essere convenuto in
giudizio. L’elencazione comprende le controversie relative alle transazioni
commerciali, ai contratti di lavoro, ai danni causati a persone o a cose, alla
proprietà ecc.
Immunità degli stati stranieri in materia di rapporti di lavoro . Uno dei campi
in cui la distinzione tra i due atti è difficile è quello relativo alle controversie
in tema di lavoro: trattasi, per lo più, di giudizi instaurati da lavoratori aventi
la nazionalità dello stato territoriale, per lavoro prestato presso ambasciate,
istituti di cultura ed altri uffici istituiti da stati stranieri.
In realtà la distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis, anche se ancora
utilizzata da varie corti interne in materia di rapporti di lavoro, non fu
escogitata in relazione a detti rapporti. Nulla da obiettare se il lavoratore ha la
nazionalità dello stato straniero e quindi è naturalmente sottoposto alle leggi
e ai giudici del suo stato. Il problema si pone per i lavoratori che vengono
reclutati nello stato del giudice ed abbiano la nazionalità o siano cittadini di
uno stato terzo, ma abbiano la residenza abituale nello stato del giudice.
Impedire a costoro di rivolgersi al loro giudice naturale è ingiusto almeno
quando si tratta di rivendicazioni di carattere patrimoniale.
Va apprezzata una tendenza progressista diretta a tutelare il lavoratore, che si
va ad affermare nella prassi più recente. Ci riferiamo, anzitutto, alla
“convenzione europea sull’immunità degli stati” la quale adotta per i rapporti
di lavoro il criterio della nazionalità del lavoratore cumulato con quello del
luogo delle prestazioni: se il lavoratore ha la nazionalità dello stato straniero
che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la
nazionalità dello stato territoriale, o quivi risieda abitualmente pur essendo
cittadino di un terzo stato, e il lavoro deve essere prestato nel territorio,
l’immunità è esclusa.
Immunità e violazioni gravi dei diritti umani. Può ritenersi che l’immunità
non sia invocabile dallo stato citato in giudizio per le conseguenze civilistiche
(risarcimento del danno) di violazioni gravi dei diritti umani? la
giurisprudenza interna e quella internazionale non è orientata in tal senso, se
si esclude una serie di sentenze emesse contro la Germania dalla nostra
cassazione, nonché la sentenza della corte costituzionale del 22.10.2014
n.238, tutte relative ai crimini di guerra commessi dalle truppe tedesche
durante la seconda guerra mondiale.
Anche in Grecia la corte suprema si è pronunciata contro l’immunità della
Germania, e per gli stessi crimini (ma tale orientamento è stato
successivamente sconfessato dalla corte suprema speciale greca).

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Per quanto riguarda la giurisprudenza internazionale, ha cominciato la CEDU


a pronunciarsi a favore dell’immunità in caso di tortura con la sentenza del
2001, nel caso Al-Adsani v. UK per poi finire con la sentenza del 2014, nel
caso Jones and Others v. UK.
Nel frattempo è intervenuta la sentenza della CIG del 3.2.2012 nel caso
Jurisdictional Immunities of the States (Germany v. Italy; Greece
Intervening): si tratta di una sentenza provocata dalle citate decisioni italiane
sul risarcimento del danno prodotto dai crimini tedeschi e anch’essa
pienamente favorevole all’immunità. La CIG si è fondata principalmente sulla
giurisprudenza interna che, abbiamo detto, riconosce in maggioranza
l’immunità e ha respinto tutti gli argomenti proposti dalla difesa italiana (in
primis essa ha ritenuto improponibile l’argomento secondo cui le norme
consuetudinarie internazionali che vietano le violazioni gravi dei diritti
umani, appartenendo allo jus cogens, dovrebbero prevalere sulle norme che
prevedono l’immunità degli stati per gli atti jure imperii).
Last resort argument. Si tratta di un altro argomento respinto dalla corte:
secondo la difesa italiana, le vittime della barbarie tedesca (o i loro eredi) non
avendo potuto ottenere alcun risarcimento in Germania, sarebbero state
private di un loro fondamentale diritto quale è il diritto a far valere davanti a
un giudice le proprie ragioni. Sul punto la corte si è limitata a sostenere che
un negoziato tra Italia e Germania è sempre possibile.
Infine, la corte ha respinto l’argomento fondato sugli art. 11 della citata
convenzione europea del 1972 e 12 della convenzione delle nazioni unite, che
escludono l’immunità dello stato straniero per le azioni di risarcimento del
danno prodotto alle persone o cose purché si tratti di azioni che abbiano
avuto luogo nel territorio dello stato del foro (cd tort-exception).
Secondo la corte la tort-exception non corrisponderebbe al diritto
consuetudinario e, in quanto concepita per i comuni illeciti civili, non si
estenderebbe alle azioni per danni derivanti da operazioni di guerra.
Immunità delle persone giuridiche pubbliche diverse dallo stato. L’immunità
della giurisdizione civile, nei limiti in cui essa è prevista per gli stati, viene
anche riconosciuta agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche
pubbliche (questa è un’ulteriore prova del fatto che, a formare la persona
dello stato dal punto di vista del diritto internazionale, concorrono tutti
coloro che esercitano il potere di governo nell’ambito della comunità statale e
non solo gli organi del potere centrale).
Immunità degli stati stranieri dall’esecuzione forzata. La teoria dell’immunità
ristretta va applicata sia al procedimento di cognizione che ai procedimenti di

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esecuzione cautelari su beni detenuti da uno stato estero: l’esecuzione forzata


deve pertanto ritenersi ammissibile solo se essa è esperita su beni, o
nell’ambito di beni, non destinati ad una pubblica funzione, ad esempio su
immobili acquistati dallo stato estero a titolo privato, per investimento, ecc e
ciò anche se l’esecuzione riguarda sentenze che, nel procedimento di
cognizione, hanno negato l’immunità.
L’immunità può essere sempre oggetto di rinuncia da parte dello stato straniero; né essa
può essere eccepita, qualora lo stato straniero si faccia attore in giudizio, in ordine alle
domande riconvenzionali.
Assurda è una tesi sostenuta in tre sentenze identiche della cassazione francese secondo
cui una rinuncia di carattere generale all’immunità da misure esecutive, contenuta in un
contratto di emissione di titoli obbligazionari, non potrebbe valere “qualora il contratto
non indichi, in maniera espressa e speciale, i beni o la categoria di beni per i quali la
rinuncia è consentita”. Nella specie la corte ha ritenuto che, non prevedendo il contratto
specificatamente la rinuncia ai beni o alla categoria di beni pubblici per i quali era stato
richiesto un sequestro conservativo, l’immunità persistesse.

Dottrina dell’act of state. Dottrina secondo cui una corte interna non potrebbe
rifiutarsi di applicare una legge o un altro atto di sovranità straniero, ad
esempio una legge richiamata dalle norme di diritto internazionale privato, in
quanto contraria al diritto internazionale e neppure in quanto
illegittimamente adottata alla stregua dei principi del suo ordinamento di
origine. In pratica: le corti di uno stato, anche nei giudizi tra parti private, non
potrebbero controllare la legittimità internazionale o interna delle leggi,
sentenze ed atti amministrativi stranieri che in un modo o nell’altro vengano
in rilievo nei giudizi medesimi.
Dottrina dell’atto politico (political question). La dottrina dell’act o state è
eseguita soprattutto nei paesi di common law. Nello specifico più che una
dottrina imposta dal diritto internazionale essa è considerata come una sorta
di principio (di diritto interno) di autolimitazione da parte delle corti:
autolimitazione giustificata dalla necessità di non creare imbarazzo al proprio
governo nei rapporti con i governi stranieri.
La dottrina dell’act of case viene spesso applicata anche ai giudizi che riguardano lo stato
del giudice: nei paesi anglosassoni essa assume la denominazione di “political question); in
Italia viene in rilievo come “teoria dell’atto politico”: essa è stata applicata dalla corte di
cassazione in una sentenza del 2002 la corte ha ritenuto di non poter esercitare la
propria giurisdizione in relazione al risarcimento dei danni provocati a privati dalla guerra
aerea della NATO contro la Iugoslavia nel 1999, guerra a cui l’Italia partecipò fornendo le
basi agli aerei utilizzati per i bombardamenti del territorio iugoslavo.

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29.Il trattamento delle organizzazioni internazionali.


Altro limite alla sovranità territoriale deriva dalle norme sul trattamento delle
organizzazioni internazionali, trattamento che riguarda soprattutto lo stato in
cui l’organizzazione ha sede.
Immunità dei funzionari internazionali. Per quanto riguarda il trattamento
dei funzionari delle organizzazioni internazionali non esistono norme
consuetudinarie che impongono agli Stati di concedere loro particolare
immunità: sicché solo mediante convenzione lo Stato può essere obbligato in
tal senso.
Disposizioni convenzionali in tema di immunità dei funzionari non mancano
per nessuna organizzazione; esse sono contenute sia nella stessa convenzione
che istituisce l’organizzazione, sia in accordi conclusi dall’organizzazione con
stati membri o non membri, particolarmente con lo stato della sede, e infine
in accordi conclusi dagli Stati membri tra loro.
Immunità dei funzionari dell’ONU. Per i funzionari delle Nazioni Unite la carta si
limita a sancire all’articolo 105, par.2 un principio generale in tema di immunità (“i
funzionari dell’organizzazione godono dei privilegi e dell’immunità necessari per l’esercizio
indipendente delle loro funzioni”), demandando all’assemblea generale il compito di
proporre agli stati membri la conclusione di accordi per la disciplina dettagliata della
materia.
Immunità dei funzionari dell’UE. Per quanto riguarda i funzionari dell’UE, norme
sull’immunità più o meno simili a quelle previsti per i funzionari dell’ONU, sono contenute
nel protocollo sulle immunità e i privilegi dell’unione.
Immunità dei rappresentanti degli stati in seno alle organizzazioni. Tale
materia ha formato oggetto di una convenzione di codificazione, ossia la convenzione del
1975 sulla rappresentanza degli stati nelle loro relazioni con le organizzazioni
internazionali di carattere universale. Tale convenzione, inoltre, riconosce le immunità
diplomatiche ai membri delle missioni permanenti presso le organizzazioni.

Protezione dei funzionari internazionali. Lo stato nel cui territorio opera


ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua nazionalità è
tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle
norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri. Tale obbligo sussiste
nei confronti dello stato nazionale e la sua violazione da luogo all’esercizio
della cd protezione diplomatica da parte dello stato nazionale medesimo.
Sussiste un obbligo di protezione anche nei confronti dell’organizzazione cui il
funzionario appartiene? Può, conseguentemente, l’organizzazione esercitare
la protezione diplomatica in caso di mancata adozione da parte dello stato
territoriale delle misure atte a prevenire e a reprimere le offese arrecata al
funzionario?

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Risarcimento dei danni arrecati alla funzione. Un obbligo di protezione del


funzionario sussiste nei confronti dell’organizzazione; questa può agire sul
piano internazionale nei confronti dello stato territoriale solo per il
risarcimento dei danni ad essa arrecati (cd protezione funzionale) e non di
quelli arrecati all’individuo in quanto tale ed i suoi beni. Ciò perché per questi
ultimi danni, generalmente, è lo stato nazionale che agisce in protezione
diplomatica. In realtà non può dirsi che, sempre con riguardo al secondo tipo
di danni, una norma consuetudinaria si sia consolidata, anche se la prassi più
recente rivela una tendenza in tal senso.
Caso Bernadotte la CIG si occupò del problema in esame in un famoso parere del 1949
a proposito del caso Bernadotte. Il comandante Bernadotte, mediatore per l’ONU tra arabi
e israeliani, era stato ucciso nel 1948 a Gerusalemme, insieme ad un suo collaboratore, da
estremisti ebraici, e il Segretariato generale aveva accusato apertamente il governo
israeliano di non aver adottato le misure atte a prevenire i due attentati. L’assemblea
generale voleva appunto sapere se l’ONU potesse agire sul piano internazionale per il
risarcimento dei danni in caso di mancata protezione dei suoi funzionari. La corte rispose
affermativamente sostenendo che l’organizzazione avesse titolo per chiedere, oltre al
risarcimento dei danni arrecati alla funzione, anche quelli subiti dell’individuo in quanto
tale. Tale tesi è stata ampiamente criticata.

Immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione civile. Nei limiti in cui gli
stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello stato territoriale, lo
sono pure le organizzazioni internazionali.
Rispetto a questa materia, anche per le organizzazioni internazionali un
problema importante è quello dell’immunità in tema di controversie di lavoro.
Anche in questo caso si assiste ad un’evoluzione necessaria per assicurare al
lavoratore maggiore tutela rispetto al passato. L’evoluzione è nel senso che
l’immunità è esclusa se l’organizzazione non ha nel suo ordinamento interno
un organo di natura giudiziaria, che offra tutte le garanzie di indipendenza e
imparzialità al quale il lavoratore possa rivolgersi.
30.Il diritto internazionale marittimo.
Libertà dei mari e controllo degli stati costieri sui mari adiacenti.
Codificazione del diritto internazionale marittimo. La materia del diritto
internazionale ha formato oggetto di due successive importanti Conferenze di
codificazione: a) la Conferenza di Ginevra del 1958; b) la Terza Conferenza
delle Nazioni Unite sul diritto del mare, tenutasi tra il 1974 ed il 1982; (tra le
due si inserì una seconda conferenza che fu indetta nel 1960, al solo scopo di
fissare il limite esterno del mare territoriale, ma che non ebbe alcun seguito).
La Conferenza di Ginevra produsse quattro convenzioni, ratificate ciascuna da
non più di una cinquantina di stati: a) La Convenzione sul mare territoriale e

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la zona contigua; b) La Convenzione sull’alto mare; c) La Convenzione sulla


pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare; d) La
Convenzione sulla piattaforma continentale. Dalla seconda (convenzione
sull’alto mare) è sorta una nuova ed unica Convenzione, composta di ben 320
articoli e vari ammessi firmata a Montego Bay il 10.12.1982, entrata in vigore
nel novembre del 1994, integrata da un “accordo applicativo” che modifica la
sua parte XI relativa al regime delle risorse sottomarine al di là dei limiti della
giurisdizione nazionale. Con l’adozione dell’accordo applicativo la
convenzione è entrata in vigore ed è stata ratificata da 160 paesi, Italia
compresa.
Secondo l’art 311, par.1 della convenzione, questa sostituisce, tra gli stati
contraenti, le quattro convenzioni di Ginevra del 1958. Quindi, assumiamo
questa nuova convenzione come punto di riferimento ai fini della descrizione
del diritto internazionale marittimo.
Libertà dei mari e suo significato. Cosa vuol dire libertà dei mari? non si parla
più del cd “dominio dei mari”; esso significa che il singolo stato non può
impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da
parte di altri stati, o meglio da parte delle navi che battono bandiera di altri
stati e più in generale delle comunità che da altri stati dipendano.
L’utilizzazione degli spazi marini, che così viene a tutti garantita, incontra il
limite che è proprio di ogni regime di libertà e che consiste nel rispetto della
pari libertà altrui; essa non può essere spinta dal singolo stato fino al punto di
sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri paesi.
Controllo dei mari adiacenti. In contrapposizione alla libertà dei mari si è
sempre manifestata la pretesa degli stati ad assicurarsi un certo controllo
delle acque adiacenti alle proprie coste. Ma, tale pretesa, fino alla fine del 19
secolo e, per molti aspetti, fino a tutta la prima metà del 20 secolo non era
riuscita quasi mai vittoriosa nel confronto col principio di libertà. La prassi
internazionale era sostanzialmente orientata nel senso che il principio di
libertà si estendesse anche ai mari adiacenti, salva la possibilità per lo stato
costiero di esercitare eccezionalissimi poteri sulle navi altrui per
regolamentare la pesca e per reprimere il contrabbando.
Mare territoriale. Altra figura importante è quella del mare territoriale, inteso
come una fascia di mare costiero addirittura equiparata al territorio dello
stato e dunque sottoposta in linea di principio, così come il territorio di
terraferma, all’esclusivo potere di governo dello stato rivierasco.
Piattaforma continentale. Parte del fondo e sottosuolo marino, talvolta estesa
per centinaia di miglia marine che costituisce il prolungamento della terra

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emersa e che pertanto si mantiene a profondità costante prima di precipitare


negli abissi.
Zona economica esclusiva. Dagli inizi degli anni 80, la prassi si è orientata a
favore di un nuovo istituto e cioè a favore della cd. zona economica esclusiva
estesa fino a 200 miglia marine dalla costa: tutte o quasi le risorse della zona,
non solo quelle del fondo o del sottosuolo, ma anche quelle delle acque
sovrastanti, sono considerate di pertinenza dello Stato costiero.
Mare presenziale. Alcuni stati costieri come ad es. il Cile, L’Argentina ed il
Canada, hanno cominciato negli ultimi anni a dichiarare di voler tutelare i
loro interessi in materia di conservazione della specie ittica in alto mare. Si è
coniato in tal proposito un nuovo termine, parlandosi di mare “presenziale”
per indicare per l’appunto la necessità della presenza dello stato costiero ai
fini della lotta contro la depredazione della fauna marina. Sebbene simili
pretese abbiano per ora incontrato l’opposizione degli altri stati, non è detto
che esse non abbiano successo in futuro.
31.Il mare territoriale e la zona contigua.
Sovranità dello stato costiero sul mare territoriale. Il mare territoriale è,
secondo il diritto internazionale consuetudinario, sottoposto alla sovranità
dello Stato costiero così come il territorio di terraferma. L’acquisto della
sovranità è automatico: la sovranità esercitata sulla costa implica la sovranità
sul mare territoriale. L’art.2 della Convenzione di Montego Bay, al riguardo,
stabilisce: “la sovranità dello stato si estende al di là del suo territorio e delle
sue acque interne…ad una zona di mare adiacente alle coste, denominata
mare territoriale”.
NB prima si faceva difficoltà ad equiparare il mare territoriale al territorio facendo leva
soprattutto sulla mancanza di un’intesa fra gli stati circa il confine esterno del mare
territoriale, confine che certi stati volevano ristretto a 3 miglia dalla costa, altri esteso a 6 o
a 12 ecc. Si diceva, quindi, che nei mari adiacenti alle proprie coste lo stato avesse poteri
non delimitati spazialmente ma funzionalmente e quindi esercitabili ogniqualvolta ed
ovunque fosse indispensabile garantire lo svolgimento indisturbato della vita delle
comunità costiere.

Il mare territoriale può estendersi fino ad un massimo di 12 miglia marine


dalla costa.
Zona contigua. Secondo una dottrina formatasi tra le due guerre mondiali, lo
stato costiero avrebbe il diritto di esercitare poteri di vigilanza doganale in
una “zona contigua” al mare territoriale. Tale dottrina venne recepita ed
estesa alla vigilanza sanitaria e di immigrazione, dall’art 24 della convenzione
di Ginevra del 1958 sul mare territoriale ed è stata trasfusa nell’art 33 della
convenzione di Montego Bay, il quale stabilisce: “in una zona contigua al suo

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mare territoriale lo stato costiero può esercitare il controllo necessario in vista


a) di prevenire la violazione delle proprie leggi doganali, fiscali, sanitarie o di
immigrazione; b) di reprimere le violazioni alle medesime leggi qualora siano
state commesse sul suo territorio o nel suo mare territoriale.
A sua volta l’art 303 stabilisce che nella zona contigua lo stato costiero possa
controllare l’attività di rimozione di reperti archeologici, e lo stesso prevede
l’art 8 della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale
sottomarino.
La larghezza massima della zona contigua è fissata a 24 miglia marine dall’art
33.
Vigilanza doganale. Da sempre si sostiene che limitatamente alla vigilanza
doganale, il potere dello stato costiero incontri, per il diritto internazionale
consuetudinario, un limite funzionale e non spaziale: lo stato può far tutto ciò
che è necessario per prevenire e reprimere il contrabbando nelle acque
adiacenti alle sue coste. La distanza dalla costa del luogo in cui la repressione
avviene ha scarso significato: essa può anche essere superiore a 12 o 24
miglia, purché non si tratti di una distanza tale far perdere ogni idea di
adiacenza. Ciò che è necessario è che sussista un qualche contatto tra la nave
e la costa, costituito dal trasbordo delle merci di contrabbando dalla nave su
imbarcazioni locali, dal fatto che il carico sia destinato ad essere sbarcato nel
territorio dello stato costiero o sia ad esso diretto o ancora dalla particolare
“pericolosità sociale” della merce ecc.
NB misure preventive (visita e perquisizione); misure repressive (cattura della nave,
punizione dei membri dell’equipaggio)

Presenza costruttiva. Tesi secondo cui la nave che sia in acque internazionali
ma abbia contatti con la costa, particolarmente nel caso di trasbordo di merci
su imbarcazioni dirette verso la costa, è come se si trovasse negli spazi
sottoposti al potere di governo dello stato costiero.
Ciò che diciamo, chiariamo, vale solo ed esclusivamente per la repressione del
contrabbando e non anche per le altre fattispecie previste dall’art 33 della
convenzione di Montego Bay.
Per questi motivi è da approvare la sentenza della cassazione 1° sezione penale del 2010,
per la parte in cui ritiene insussistente la giurisdizione italiana nei confronti dei membri
dell’equipaggio di un’imbarcazione straniera per violazione delle leggi sull’immigrazione,
cattura avvenuta oltre i limiti delle nostre acque territoriali. Nella stessa sentenza si
sostiene l’inapplicabilità nella specie dell’istituto della zona contigua, non avendo la
Turchia (stato nazionale dell’imbarcazione) ratificato la convenzione di Montego Bay.
Secondo gli autori del nostro manuale, l’opinione è esatta se riferita alla violazione delle
leggi sanitarie, fiscali e di immigrazione; per quanto riguarda, invece, la repressione del
contrabbando, repressione autorizzata dal diritto consuetudinario, essa non lo è.

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Nel caso della repressione del contrabbando di droga non è citabile, in senso contrario alla
tesi funzionale da noi sostenuta, l’art 17 della convenzione di Vienna del 1988, sulla
repressione del traffico illecito di droghe e di sostanze psicotrope. È vero che l’art 17
subordina al previo consenso dello stato della bandiera la visita e la cattura di navi che
esercitano siffatto traffico, ma esso fa salvi diritti e obblighi degli stati costieri e perciò deve
ritenersi applicabile solo ai mari non adiacenti.
Limite esterno del mare territoriale italiano. In base a quanto detto finora, deve
ritenersi conforme al diritto consuetudinario la legge italiana 24.8.1974 n.359 la quale ha
modificato l’art 2 del codice della navigazione estendendo il nostro mare territoriale a 12
miglia (non più 6 miglia).

Limite interno del mare territoriale. Da quali punti della costa si misura la
distanza di 12 miglia? è questo il problema del limite esterno (o linea di base)
del mare territoriale. Tale problema in passato ha dato luogo a molte
controversie (famosa quella tra Norvegia e Gran Bretagna a proposito delle
pescherie norvegesi) e forma oggetto di varie norme della convenzione di
Montego Bay.
L’art 5 di questa convenzione fissa il principio secondo cui la linea di base per
la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea; l’art 7,
invece, riconosce la possibilità di derogare a questo principio ricorrendo al
sistema delle linee rette in base a tale sistema, la linea di base del mare
territoriale non è segnata seguendo, come nel caso della bassa marea, le
sinuosità della costa ma congiungendo i punti sporgenti di questa o, nel caso
vi siano corone di isole o scogli in prossimità della costa, congiungendo le
estremità delle isole e degli scogli medesimi, o ancora in presenza di un delta
o di altra caratteristica naturale che renda la costa “suscettibile di cambiare
rapidamente”, unendo comunque i punti più avanzati.
Qual è la sporgenza massima utilizzabile per tracciare ciascuna linea retta
(quindi, qual è la massima lunghezza di una linea retta)? L’art 7 non fornisce
una risposta precisa, ma si limita a prescrivere un criterio elastico stabilendo
che la linea di base non deve “discostarsi in misura apprezzabile dalla
direzione generale della costa”, che le acque situate all’interno della linea
devono essere “sufficientemente legate al dominio terrestre per essere
sottoposte al regime delle acque interne” e che si può tener conto, per la
determinazione di certe linee di base, “degli interessi economici delle regioni
costiere, attestati da un lungo uso”.
Baie. L’art 10 della convenzione riguarda le baie. In base ai par. 4 e 5 dell’art
10 se la distanza fra i punti naturali d’entrata della baia non supera le 24
miglia, il mare territoriale viene misurato a partire dalla linea che congiunge
detti punti e tutte le acque della baia sono considerate come acque interne; se
la distanza, invece, eccede le 24 miglia, può tracciarsi all’interno della baia

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una linea retta, sempre di 24 miglia, in modo tale da lasciare come acque
interne la maggior superficie di mare possibile.
L’art 10 considera come baie solo le insenature che penetrano in profondità
nella costa (precisamente solo le insenature la cui superficie sia eguale o
superiore a quella di semicerchio avente per diametro la linea di entrata).
Baie storiche. L’art 10 al par. 6 fa salvo, oltre al sistema delle linee rette, anche il regime
delle baie storiche, cioè le baie per le quali lo stato costiero possa vantare diritti esclusivi
consolidati nel tempo grazie all’acquiescenza degli altri stati.

Limite interno del mare territoriale italiano. L’Italia ha adottato il sistema


delle linee rette lungo tutte le coste peninsulari e delle isole maggiori con il
DPR 26.4.1977.
In linea di massima sono comunque rispettate le prescrizioni degli artt 7 e 10
della convenzione.
Poteri dello stato costiero nel mare territoriale. Passando ai poteri che
spettano allo stato costiero nel mare territoriale, questi sono in linea di
principio gli stessi poteri esercitati nell’ambito del territorio, ovviamente con
le limitazioni che si accompagnano alla sovranità territoriale.
Due sono i limiti alla potestà di governo dello stato costiero:
Il primo esso è costituito dal cd diritto di passaggio inoffensivo o innocente
da parte delle navi straniere. Di tale limite se n’è occupata la convenzione di
Montego Bay agli articoli 17 e ss. Ogni nave straniera ha diritto al passaggio
inoffensivo nel mare territoriale, sia per attraversarlo, sia per entrare nelle
acque interne, sia per prendere il largo provenendo da queste e purché il
passaggio sia “continuo e rapido”. L’art 19 dice che il passaggio è inoffensivo
“finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello
stato costiero”; lo stesso articolo 19 indica una serie di casi (uso della forza,
esercizi o manovre con armi ecc) in cui il passaggio non può considerarsi
inoffensivo. Se il passaggio non è inoffensivo lo stato costiero può prendere
tutte le misure atte ad impedirlo.
NB le norme sul passaggio inoffensivo vanno applicate a tutti i tipi di navi,
anche quelle da guerra, salvo l’obbligo per i sottomarini di navigare in
superficie.
Regime degli stretti. Il diritto di passaggio è maggiormente tutelato negli
stretti che, non superando l’ampiezza di 24 miglia, sono costituiti interamente
dai mari territoriali degli stati costieri. La convenzione di Montego Bay, agli
articoli 37 e ss, prevede che quando stretti del genere uniscono una parte di
mare internazionale o di zona economica esclusiva (quando, quindi, gli stretti

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uniscono zone di mare in cui la libertà di navigazione è assicurata), le navi


hanno un diritto di “passaggio in transito” ossia un passaggio che non può
essere intralciato o sospeso.
Il secondo un altro limite, che può considerarsi come tutt’ora osservato
nella prassi, riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere.
La giurisdizione penale non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni
alla nave straniera, cioè a fatti che non abbiano alcuna ripercussione
nell’ambiente esterno (che non siano, quindi, idonei a turbare il normale
svolgimento della vita della comunità territoriale). Sul punto la convenzione
di Montego Bay si limita a prescrivere che lo stato costiero “non dovrebbe”
esercitare la giurisdizione sui fatti interni (e sembra che lascia arbitrio allo
stato di decidere se esercitare o meno la propria potestà punitiva).
Giurisdizione sulle navi straniere dei porti. La distinzione tra fatti interni ed esterni
viene applicata anche alle navi nei porti, anche se in questo caso è più difficile pensare a
reati che non abbiano ripercussioni esterne (ma pensiamo ad esempio alle infrazioni
disciplinari dei membri dell’equipaggio).

32.La piattaforma continentale.


La zona economica esclusiva (ZEE).
Possibilità di sfruttamento delle risorse marine. Gli anni successivi alla
seconda guerra mondiale hanno visto la corsa all’accaparramento delle risorse
marine. Questo accaparramento delle risorse ha determinato la tendenza
degli stati costieri ad estendere il proprio controllo oltre il mare territoriale e
comunque oltre le acque strettamente adiacenti alle coste.
Questa tendenza si è risolta nella generale accettazione della dottrina della
piattaforma continentale e, successivamente, dell’istituto della ZEE.
NB l’Italia non ha introdotto la ZEE, con il risultato che zone di altri stati, ad esempio
della Tunisia, arrivano a lambire il nostro mare territoriale. Con una legge del 2006 è stata
data facoltà al governo di istituire “zone di protezione ecologica” entro i limiti geografici
consentiti per la ZEE.

Piattaforma continentale. Le regole in tema di piattaforma continentale


contenute negli artt. 76 ss. della convenzione di Montego Bay, possono così
sintetizzarsi. Ferma restando la libertà di tutti gli stati di utilizzare le acque e
lo spazio atmosferico sovrastanti, lo Stato costiero ha, al di là del mare
territoriale, il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma,
intesa come quella parte del suolo e sottosuolo marino contiguo alle coste che
costituisce il naturale prolungamento della terra emersa e che pertanto si
mantiene ad una profondità costante (circa 200 metri) per poi precipitare o
degradare negli abissi. Il diritto esclusivo di sfruttamento, o meglio il diritto

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di esercitare in modo esclusivo il proprio potere di governo sulle attività di


sfruttamento, viene acquistato dallo stato costiero in modo automatico, cioè a
prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma.
Natura funzionale del diritto sulla piattaforma continentale . Il diritto sulla
piattaforma continentale, a differenza del diritto di sovranità sul territorio e
sul mare territoriale, ha natura funzionale. Lo Stato costiero può esercitare il
proprio potere di governo non genericamente, non, come nel caso del
territorio e del mare territoriale, per disciplinare qualsiasi aspetto della vita
sociale, ma solo nella misura strettamente necessaria per controllare e
sfruttare le risorse della piattaforma.
Limite esterno della piattaforma continentale. La dottrina della piattaforma
continentale risulta abbastanza iniqua. Basti pensare in proposito che
all’estesa piattaforma propria di taluni stati fa riscontro la mancanza della
medesima al largo delle coste di altri (come il Perù, il Cile ecc) e che talvolta
fosse profonde (come la fossa norvegese) separano la piattaforma dalla costa.
Delimitazione della piattaforma continentale tra gli stati frontisti e congiunti .
Un problema molto importante, data la vastità delle aree marine, è quello
della delimitazione della piattaforma tra stati che si fronteggiano (si pensi al
mare adriatico, il cui fondo è interamente costituito da piattaforma
continentale) o tra stati congiunti.
Criterio della equidistanza. L’art.6 della Convenzione di Ginevra stabiliva che,
sia nel caso di delimitazione frontale che nel caso di delimitazione laterale,
salva diversa volontà delle parti, dovesse ricorrersi al criterio
dell’equidistanza. Tale criterio consiste nel tracciare una linea i cui punti
siano equidistanti dai punti delle rispettive linee di base del mare territoriale;
esso consiste, in altri termini, nell’attribuire a ciascuno stato tutte le zone
della piattaforma che siano vicine a qualsiasi punto della linea di base del suo
mare territoriale più di quanto siano vicine a qualsiasi punto delle linee di
base del mare territoriale di ogni altro stato.
Criterio della delimitazione equa. Secondo la sentenza della CIG del
20.2.1969 nel caso della delimitazione della piattaforma continentale del
mare del nord, il criterio dell’equidistanza non è imposto dal diritto
internazionale consuetudinario, con la conseguenza che la delimitazione può
essere effettuata soltanto mediante un accordo tra gli stati interessanti.
L’accordo, però, sempre secondo la corte, deve ispirarsi a principi di equità.
L’opinione della corte è stata recepita dalla convenzione di Montego Bay, il
cui art 83 espressamente si rimette anch’esso all’accordo tra gli stati
interessati e all’equità.

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Inconvenienti del criterio dell’equidistanza nella delimitazione tra gli stati


congiunti e nella delimitazione tra stati frontisti. La sentenza del 1969 venne
pronunciata in ordine ad una controversia tra Repubblica Federale Tedesca, da un lato e
Olanda e Danimarca, dall’altro. La controversia era sorta dal rifiuto opposto dalla prima di
delimitare la propria piattaforma rispetto ai due stati contigui secondo il criterio
dell’equidistanza. Va notato che proprio con riferimento a stati contigui la linea di
equidistanza può dare luogo ai risultati più paradossali: uno stato le cui coste siano
disposte secondo una forma convessa può vedere accresciuta la sua porzione di
piattaforma continentale in quanto la linea di confine tende ad aprirsi verso il largo;
viceversa se lo stato ha coste concave, la linea di equidistanza tenderà a ripiegare verso
l’interno, riducendo la porzione di piattaforma. Le coste della Germania sul mare del nord,
essendo rientranti, formano appunto una concavità; quelle della Danimarca e dell’Olanda
hanno in linea di massima forma convessa. Quindi, è chiaro che, se si fosse delimitato la
piattaforma continentale tedesca rispetto a quelle dei due paesi vicini secondo il criterio
dell’equidistanza, l’operazione si sarebbe risolta a svantaggio per la Rep. Federale.
Anche nell’ipotesi di delimitazione frontale, l’equidistanza può dar luogo ad effetti distorti,
ad esempio se uno degli stati frontisti ha altresì la sovranità su un’isola o un piccolo gruppo
di isole situate in prossimità delle coste dell’altro. Un caso di questo genere è quello deciso
dalla corte arbitrale franco-inglese incaricata, tra l’altro, di tracciare la linea di
delimitazione della piattaforma tra i due paesi nel tratto del Canale della Manica,
caratterizzato dalla presenza di isole britanniche al largo delle coste francese.

Rilevanza dell’accordo degli stati interessati alla delimitazione. Sia la CIG che
altri tribunali internazionali hanno confermato la tesi che la delimitazione
debba avvenire mediante accordo e che l’accordo debba ispirarsi a principi di
equità.
Ma che senso ha subordinare l’accordo ad equità? Praticamente nessuno
perché, se e quando un accordo di delimitazione è concluso, esso resta valido,
equi o iniqui che siano i criteri applicati; a meno di non ritenere che l’equità
assurda a jus cogens.
Quello che possiamo dire è che la giurisprudenza internazionale, rifacendosi
all’equità e tenendo conto delle particolarità geografiche che possono incidere
in varia misura sulla delimitazione, ha finito con l’indicare una serie di criteri
pratici: proporzionalità fra l’estensione delle zone di piattaforma attribuiti a
ciascuno stato e la lunghezza delle coste rispettive, l’eliminazione degli effetti
distorti provocati dalle isole dell’uno o dell’altro stato, la divisione in parti
uguali delle zone di piattaforma che si accavallano ecc. Chiariamo, però, che
questi criteri hanno carattere correttivo rispetto a quello di equidistanza che è
da considerare comunque come criterio base.
Zona economica esclusiva. Ai poteri dello stato costiero sulla piattaforma
continentale si sono venuti sovrapponendo quelli esercitabili in ambito della
ZEE, istituto da considerare ormai di diritto consuetudinario.

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Limite esterno della zona. La convenzione di Montego Bay se ne occupa agli


articoli 55 e ss. La zona economica può estendersi fino a 200 miglia marine;
quindi, data una così grande estensione, anche per la ZEE assume grande
importanza la delimitazione tra stati frontisti e contigui, delimitazione che
può avere ad oggetto sia la piattaforma continentale e che la zona. In caso di
delimitazione contemporanea della piattaforma e della ZEE la linea deve
essere unica.
Poteri dello stato costiero nella zona. Quali sono i poteri dello stato costiero
nella ZEE? l’orientamento prevalente è praticamente nel senso
dell’attribuzione allo stato costiero del controllo esclusivo su tutte le risorse
economiche della zona, sia biologiche che minerali, sia del suolo e del
sottosuolo che delle acque sovrastanti.
Poteri degli stati diversi dallo stato costiero nella zona. Che cosa resta,
nell’ambito della ZEE, agli stati diversi da quello costiero? tutti gli stati si
dice, continueranno a godere della libertà di navigazione, di sorvolo, di posa
di condotte e di cavi sottomarini, quindi lo stato costiero non deve
pregiudicare la partecipazione degli altri stati alle altre possibili utilizzazioni
della zona.
C’è, però, un notevole contrasto in ordine a quella che potrebbe chiamarsi la
gerarchia delle regole applicabile nella zona. Da un lato c’è chi sostiene che il
vecchio principio della libertà dei mari debba continuare ad essere la regola
fondamentale; dall’altro c’è chi, invece, sostiene che i poteri dello stato
costiero siano la regola e le “libertà” degli stati l’eccezione.
Secondo gli autori del nostro manuale è difficile inquadrare la situazione degli
altri stati nella ZEE in termini di libertà dei mari. Occorre riconoscere che
l’introduzione della zona rompe una volta per tutte con la disciplina dei
rapporti tra lo stato costiero e gli altri utenti del mare. Oggi, diciamo che la
situazione è relativamente chiara: nella ZEE non vi è prevalenza di regole su
altre; da un lato c’è il diritto dello stato costiero di sfruttare totalmente,
esclusivamente e razionalmente le risorse marine, dall’altro permane la
possibilità per gli stati di navigare, di sorvolare, di posare cavi sottomarini e
quindi di usare la zona economica per le esigenze collegate alle comunicazioni
e ai traffici marittimi e aerei.
Rapporti tra ZEE e piattaforma continentale. I poteri dello stato costiero
nell’ambito della ZEE, essendo estesi alle risorse del suolo e del sottosuolo
marino, si confondono con quelli esercitabili in base alla piattaforma
continentale. Solo oltre le 200 miglia e sempre che la piattaforma si estenda
geologicamente oltre tale limite, si pone il problema se lo stato costiero possa
mantenervi la propria giurisdizione. La convenzione di Montego Bay

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stabilisce di sì stabilendo, inoltre, che una parte di quanto lo stato costiero


ricavi dallo sfruttamento delle zone situate tra le 200 miglia e il limite
estremo della piattaforma (cd margine continentale) debba essere versata
all’autorità internazionale dei fondi marini.
Stati geograficamente svantaggiati. L’istituzione della ZEE poco si concilia con gli
interessi di quei paesi che non hanno accesso al mare o che sono geograficamente
svantaggiati. Alcuni articoli della convenzione di MB prevedono sì che tali stati “hanno il
diritto di partecipare, su basi equitative, allo sfruttamento di una parte appropriata delle
risorse biologiche eccedentarie delle zone economiche esclusive degli stati costieri della
stessa regione o sotto-regione”, ma demandano la determinazione delle “condizioni e
modalità” di siffatta partecipazione ad accordi tra gli stati interessati.

33.Il mare internazionale e l’area internazionale dei fondi marini.


Libertà del mare internazionale. Il mare internazionale è l’unica zona in cui
trova applicazione il vecchio principio della libertà dei mari: ciò significa che
tutti gli stati hanno eguale diritto a trarre dal mare internazionale tutte le
utilità che questo possa offrire dalla navigazione, alla pesca, alla posa dei cavi,
allo sfruttamento di risorse biologiche e minerarie etc.
Il principio di libertà ha, però, anche il suo risvolto negativo: esso comporta
che uno stato non possa utilizzare gli spazi marini fino al punto di sopprimere
ogni possibilità di utilizzazione da parte di altri paesi, ad esempio esaurendo o
compromettendo la specie ittica o accaparrandosi tutte le risorse di una
determinata area.
Risorse minerarie del mare internazionale. Per quanto riguarda le risorse
minerarie del fondo e sottosuolo del mare internazionale (risorse che, allo
stato attuale delle conoscenze scientifiche comprendono i noduli
polimetallici, le croste di ferro e manganese e solfati polimetallici), una
famosa risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU, la ris. 17.12.1970 n.
2749-XXV, le ha dichiarate “patrimonio comune dell’umanità”.
Il principio del patrimonio comune propugnato dai paesi in sviluppo, ed
ormai accettato da tutti gli stati, fa parte del diritto internazionale
consuetudinario. Esso segna un’evoluzione nella disciplina dello sfruttamento
delle risorse minerarie del mare internazionale in quanto comporta che lo
sfruttamento debba avvenire nell’interesse dell’intera umanità. E in che
modo? attraverso la costituzione di un’organizzazione internazionale capace
di assicurare il perseguimento di tale interesse; è stata così creata l’autorità
internazionale dei fondi marini, di cui si occupa la parte XI della convenzione
di Montego Bay, nonché l’Accordo “applicativo” adottato dall’Assemblea
Generale dell’ONU nel 1994 ed aperto immediatamente alla firma e alla
ratifica degli stati,

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Gli organi principali dell’assemblea internazionale dei fondi marini sono:


l’assemblea, il consiglio, il segretariato e l’impresa. Quest’ultima è un organo
operativo attraverso il quale l’autorità partecipa direttamente allo
sfruttamento.
Tutte le attività di sfruttamento dovranno avvenire secondo un sistema
parallelo, secondo il quale ogni sito da sfruttare è diviso in due parti: una
attribuita allo stato (o meglio alle sue imprese) che abbia individuato l’area;
l’altra attribuita all’impresa che provvederà allo sfruttamento.
Sfruttamento unilaterale del fondo marino internazionale. Ci si chiedeva se in
mancanza di un’organizzazione internazionale che presiedesse allo sfruttamento,
quest’ultimo potesse avvenire ad opera dei singoli stati. I paesi industrializzati erano per la
soluzione positiva ed emanarono una serie di leggi per la disciplina delle attività di
esplorazione e sfruttamento da parte delle imprese nazionali; i paesi in sviluppo erano di
parere contrario, ritenendo che nessuno potesse sfruttare (cd moratoria). Oggi, con la
costituzione dell’autorità, il problema è superato.

34.La navigazione marittima.


Nazionalità della nave e poteri dello stato della bandiera. Principio generale in
materia è che ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello stato di
cui ha la nazionalità (stato della bandiera). Tale principio si esprimeva un
tempo dicendosi che la nave è territorio dello stato. Lo Stato della Bandiera o
Stato Nazionale ha diritto, in linea di principio, all’esercizio esclusivo del
potere di governo sulla comunità navale. Esso esercita siffatto potere
attraverso il comandante o attraverso le proprie navi da guerra. Il
comandante di una nave, anche di una nave privata, è da considerare, dal
punto di vista del diritto internazionale come organo dello stato e ha pertanto
poteri coercitivi limitatamente agli eventi che si verificano nel corso della
navigazione, salvo il rispetto degli obblighi relativi al trattamento degli
stranieri che si trovano a bordo.
L’art 94 della convenzione prevede, inoltre, anche una serie di obblighi a carico dello stato
della bandiera: tenuta del registro marittimo (nel quale siano inseriti i dati relativi alle
navi); adozione di tutte le misure in materia di costruzione delle navi, di condizioni di
lavoro dell’equipaggio, di segnali a bordo ecc.

Giurisdizione penale per i crimini commessi su nave straniera. Sia chiaro che
la sottoposizione della nave al potere dello stato della bandiera riguarda solo
l’attività di imperio esercitata a bordo della nave (come l’arresto di persone).
Nulla esclude, invece, che uno stato diverso da quello della bandiera, così
come può esercitare nel suo territorio la giurisdizione su reati commessi in un
territorio straniero, così pure possa farlo su reati commessi su una nave
straniera.

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L’art. 92 della convenzione Di Montego Bay stabilisce che “le navi navigano
sotto una bandiera di un solo stato e sono sottoposte, salvi i casi eccezionali
espressamente previsti dai trattati internazionali o dalla presente
convenzione, alla sua giurisdizione esclusiva in alto mare”. Questa norma va
interpretata nel senso di riservare allo stato della bandiera soltanto l’attività
di imperio esercitata a bordo della nave. Solo nel caso di collisioni o di altri
incidenti della navigazione, la convenzione prevede, all’art 97, che stati diversi
da quello della bandiera o dello stato nazionale dell’autore o degli autori
dell’incidente non possano esercitare neppure nel proprio territorio la
giurisdizione penale sugli autori medesimi.
Eccezioni al potere esclusivo dello stato nazionale. Il principio della
sottoposizione della nave al potere d’imperio esclusivo dello stato della
bandiera subisce varie eccezioni a seconda dello spazio in cui la nave si trovi,
eccezioni le quali aumentano via via che la nave entra nelle coste di un altro
paese.
Cominciando dall’ipotesi della nave in acque internazionali, un’eccezione
fermamente stabilita dal diritto consuetudinario è quella che concerne la
pirateria: la nave pirata, cioè la nave che commette atti di violenza contro
altre navi ai fini di preda o altri fini non politici può essere catturata da
qualsiasi stato e sottoposta a misure repressive quali la punizione dei membri
dell’equipaggio e di coloro che hanno partecipato all’atto di pirateria, la
confisca della nave o del carico etc. C’è chi ritiene che questa sia una facoltà
dello stato, altri ritengono invece che si tratti di un obbligo dello stato di
reprime.
Pirateria nelle acque somale. La pirateria è esplosa soprattutto nelle acque al largo
delle coste somale e per fronteggiarla sono state istituite forme di cooperazione
internazionale: ad esempio, l’Italia partecipa all’azione comune Atlanta, decretata dal
consiglio europeo per la dissuasione, la prevenzione e la repressione, con forze militari,
degli atti di pirateria e di rapina a mano armata al largo della Somalia; a ragione di ciò con
una legge del 2001 è stata, inoltre, prevista la possibilità, nel quadro della lotta contro la
pirateria, di avere a bordo uomini armati, sia militari che guardie armate private.

Diritto di visita. Importante è l’art.110, che ammette un limitato diritto di


visita delle navi altrui in alto mare da parte di navi di guerra. Stabilisce detto
articolo che, salvi i casi previsti da trattati, una nave da guerra che incontri in
alto mare una nave mercantile non può fermarla a meno che non abbia seri
motivi per sospettare: a) che la nave pratichi la pirateria; b) che la nave
pratichi la tratta degli schiavi; c) che dalla nave partono trasmissioni radio o
televisive rivolte al grande pubblico e non autorizzate; d) che la nave non
abbia la nazionalità di alcuno Stato; e) che la nave, pur battendo bandiera
straniera o rifiutandosi di issare la bandiera, abbia in realtà la stessa

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nazionalità della nave di guerra. Se i sospetti si rilevano infondati, la nave


medesima deve essere indennizzata per qualsiasi perdita o danno.
Situazione della nave straniera nella zona economica esclusiva. Quando la
nave entra nella zona economica esclusiva di un altro stato, lo stato può
esercitare sulle navi altrui tutti i poteri connessi alla regolamentazione dello
sfruttamento di risorse: esso può ad esempio visitare e catturare navi e
relativo carico, o comminare sanzioni penali a carico dei membri
dell’equipaggio, per infrazioni alle proprie leggi sulla pesca e sulla
conservazione delle risorse ecologiche.
Situazione della nave straniera nel mare territoriale. Per quanto riguarda il
mare territoriale lo stato costiero esercita il proprio potere di governo
imponendo il limite di passaggio inoffensivo. Inoltre, la giurisdizione dello
stato della bandiera è valida solo per quei fatti puramente interni alla
comunità navale, per gli altri interviene la giurisdizione penale dello stato
costiero.
Diritto di inseguimento. Costituisce un’eccezione al principio della
sottoposizione della nave all’esclusivo potere dello stato della bandiera anche
la regola relativa al cd diritto di inseguimento (art.111 Convenzione di
Montego Bay): le navi da guerra o adibite a servizi pubblici (vigilanza
doganale, sanitaria, ecc), appartenenti allo stato costiero possono inseguire
una nave straniera che abbia violato le leggi di tale stato purché
l’inseguimento abbia avuto inizio nelle acque interne o nel mare territoriale o
nella zona contigua. L’inseguimento deve essere continuo e sulla nave così
catturata potranno essere esercitati soltanto quei poteri esercitabili nella zona
in cui l’inseguimento ha avuto inizio. L’inseguimento deve cessare se la nave
entri nel mare territoriale di un altro Stato.
Presenza costruttiva. Teoria secondo cui, la nave straniera che, pur
mantenendosi in acque internazionali, partecipi a traffici illeciti (trasbordo di
merci da contrabbando) che altre navi o imbarcazioni svolgono in spazi
marini sottoposti al potere di governo dello stato costiero, può essere
catturata da quest’ultimo. La teoria della presenza costruttiva, ammessa
anche dall’art 111 della convenzione di Montego Bay, è applicata in materia di
repressione del contrabbando e copre soprattutto i casi in cui dalla nave
straniera le merci di contrabbando vengano trasbordate su imbarcazioni
dirette alla costa.
Bandiere ombra. Uno stato è libero di concedere la propria nazionalità, la
propria bandiera, a qualsivoglia nave? l’art.91 della Convenzione di Montego
Bay, riprendendo il testo dell’art.5 della Convenzione di Ginevra del 1958
sull’alto mare, stabilisce in proposito che ogni stato fissa le condizioni per

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l’immatricolazione delle navi nei propri registri navali ma aggiunge che “deve
esistere un legame sostanziale (genuine link) tra lo Stato e la nave”.
La convenzione delle Nazioni Unite sulle condizioni di immatricolazione delle
navi del 1986 (artt.7-9) afferma che alla proprietà della nave partecipi un
numero di cittadini dello stato d’immatricolazione sufficiente ad assicurare
un controllo effettivo sulla nave e che l’equipaggio sia formato per una quota
soddisfacente da cittadini o residenti abituali nello Stato d’immatricolazione.
Cosa avviene se lo stato di immatricolazione non rispetta la norma sul
“genuine link”? gli altri stati sono autorizzati a disconoscere il carattere
“internazionale” della nave ed esercitare su di essa il loro potere di governo.
35.La protezione dell’ambiente marino e del patrimonio culturale
sottomarino.
La lotta all’inquinamento marino non può non fondarsi su una stretta
cooperazione a livello internazionale; ecco perché la convenzione di MB
dedica all’inquinamento (inteso come una situazione di degrado dei mari e
degli oceani) più di 40 articoli, tra i quali spiccano proprio quelli che
impegnano gli stati a collaborare tra loro.
Sono numerosi gli accordi, sia universali che regionali, stipulati a tutela dell’ambiente
marino; pensiamo alla convenzione per la preservazione delle acque del mare
dall’inquinamento da idrocarburi; la convenzione sulla prevenzione dell’inquinamento
marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre materie; la convenzione sulla prevenzione
dell’inquinamento causato da navi, ecc.

Accordi universali e regionali a tutela dell’ambiente marino. A parte gli


obblighi di cooperazione, un primo problema da risolvere è se, ed in quali
termini, il diritto internazionale imponga obblighi di non inquinare le acque
dei mari e degli oceani.
Inesistenza di un obbligo di non inquinare secondo il diritto consuetudinario .
Non ci sono elementi della prassi che inducano ad affermare l’esistenza di
obblighi del genere neppure con riguardo agli spazi marini.
L’art 192 della convenzione di MB dichiara che “gli stati hanno il dovere di
proteggere e preservare l’ambiente marino”; si ritiene che si tratti di un
principio non codificatorio ma tendente allo sviluppo progressivo del diritto
internazionale.
L’art 235, in tema di responsabilità da inquinamento, si preoccupa
soprattutto che gli stati predispongano al loro interno sistemi adeguati di
ricorsi per un congruo risarcimento dei danni.

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Passando al diritto convenzionale, e precisamente agli accordi, sia universali


che regionali, che abbiamo avuto modo di citare, essi contengono tutta una
serie di divieti (rispetto a comportamenti capaci di inquinare le acque marine)
che riguardano prevalentemente le navi, ma sono anche indirizzati agli
individui, persone fisiche o giuridiche, nel caso di inquinamento di origine
terrestre.
Poteri dello stato della bandiera e dello stato costiero in materia di
inquinamento. Unico problema rilevante, per il diritto consuetudinario,
consiste nello stabilire quale stato possa esercitare il proprio potere di
governo sulle navi per impedire fenomeni di inquinamento. Sicuramente, ad
imporre divieti e a comminare sanzioni, saranno lo stato della bandiera e,
nelle zone sottoposte a giurisdizione nazionale, lo stato costiero (quest’ultimo
potrà esercitare il proprio potere sulle navi altrui solo per prevenire e
reprimere attività inquinanti delle proprie acque interne o territoriali).
Eccezionali misure anti-inquinamento su navi altrui nel mare internazionale.
Altro argomento cui dobbiamo far cenno è quello relativo alla possibilità per
uno stato di intervenire eccezionalmente su di una nave altrui nel mare
internazionale per prendere misure strettamente idonee ad impedire o ad
attenuare i danni al proprio litorale, derivanti da un incidente già avvenuto.
L’art 221 della convenzione di MB ammette detta possibilità; anzi, la prassi
sviluppata all’epoca del famoso incidente Torrey Canyon, al largo delle coste
britanniche, conferma questo punto di vista.
36.Gli spazi aerei e cosmici.
Navigazione aerea. Le norme sulla navigazione aerea si sono modellate a
quella sulla navigazione marittima (dapprima dedotte per analogia dal diritto
del mare e poi si sono consolidate per consuetudine).
Due sono i principi da sempre affermati in materia: a) il primo prevede che la
sovranità dello stato si estenda allo spazio atmosferico sovrastante il territorio
ed il mare territoriale; b) lo spazio che non sovrasta il territorio e il mare
territoriale dello stato, e dunque lo spazio aereo sovrastante l’alto mare e i
territori inappropriati, come è oggi l’Antartide, deve restare libero alla
utilizzazione di tutti i paesi.
Sovranità dello stato sullo spazio atmosferico sovrastante il suo territorio. In
quest’ottica facciamo riferimento alla possibilità per lo stato territoriale di
regolare il sorvolo, quindi di stabilire quali sono le zone da non sorvolare, di
indicare le rotte che devono seguire gli aerei, o anche eventualmente di
impedire il sorvolo del proprio territorio da parte di aerei aventi nazionalità
straniera.

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Per il resto vige lo stesso principio che è applicabile alle navi nel mare
territoriale: quando l’aereo straniero sorvola il territorio dello stato, quando vi
entra, quando sorvola le acque adiacenti alle coste di uno stato, tutto ciò che
riguarda la vita della comunità aerea (insomma, la vita di bordo) sfugge a
qualsiasi diritto di controllo da parte dello stato territoriale.
Zone di identificazione aerea. Si tratta di zone che si estendono anche per
centinaia di miglia nello spazio sovrastante l’alto mare intorno alle coste. Gli
stati costieri impongono, agli aerei stranieri che entrano in dette zone e che
sono diretti verso le coste, l’obbligo di sottoporsi alla identificazione, alla
localizzazione, e ad altre misure di controllo esercitate da terra. Gli aerei che
si sottraggono all’osservanza di simili obblighi si espongono a diverse
sanzioni, come l’essere intercettati in volo ed essere costretti ad atterrare.
Dalla prassi in materia di zone di identificazione aerea può dedursi un limite
al principio della libertà dello spazio atmosferico extraterritoriale, nel senso
che un certo esercizio del potere di governo sugli aerei altrui è quivi
consentito per quanto strettamente richiesto da esigenze di difesa.
Libertà di navigazione negli spazi aerei. Passando alla navigazione cosmica ad
essa è applicabile, per analogia, il principio sulla libertà di sorvolo degli spazi
nullius. Come vi è libertà di navigazione degli spazi sovrastanti l’alto mare e i
territori nullius, così vi è libertà di navigazione degli spazi cosmici. Lo stato
che lancia il satellite o la nave spaziale ha diritto al governo esclusivo di questi
ultimi e nessun altro stato può interferirvi.
Convenzioni sul regime degli spazi cosmici. Il regime degli spazi cosmici ha
formato oggetto di alcune convenzioni multilaterali, promosse ed elaborate
dall’ONU. Fondamentale è il trattato del 27.1.1967 (“trattato sui principi
relativi alle attività degli stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello
spazio extra-atmosferico, inclusi la Luna e altri corpi celesti”) il quale, oltre a
confermare che lo spazio extra-atmosferico non può essere sottoposto alla
sovranità di alcuno stato, ne sancisce la denuclearizzazione, definisce gli
astronauti come “inviati dall’umanità”, impegnando gli stati a dar loro ogni
possibile assistenza in caso di incidenti.
Risorse dello spazio. Anche per gli spazi aerei e cosmici possiamo parlare di
risorse naturali: ci riferiamo alla utilizzabilità degli spazi a fini di radio e
telecomunicazioni e, in particolare, alle frequenze d’onda e alle orbite
utilizzate dai satelliti a detti fini.
La libertà di utilizzazione dello spazio a fini di radio e telecomunicazioni
costituisce un aspetto importante che, però, incontra il consueto limite del
rispetto delle pari libertà altrui: come abbiamo visto, l’utilizzazione delle

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risorse da parte di uno stato non può essere spinta, in regime di libertà, fino al
punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte di altri stati. Le
radio e le telecomunicazioni si ritiene che siano limitate sia lo spettro delle
onde radio, sia la cd orbita geostazionaria, cioè l’orbita circolare intorno
all’equatore, nella quale i satelliti ruotano con lo stesso periodo di rotazione
della terra, restando praticamente fissi rispetto a questa.
37.Le regioni polari.
Teoria dei settori. Per quanto riguarda il continente antartico, può parlarsi di
territorio internazionalizzato, nel senso che in esso non vige solo un regime di
libertà, ma anche un complesso di norme che ne disciplina l’utilizzazione.
Non sono mancate le pretese alla sovranità sulle regioni polari, fondate
principalmente sulla teoria dei “settori” teoria dapprima formulata con
riguardo alla regione artica, da alcuni degli stati i cui territori si estendo al di
là del circolo polare: in base ad essa, detti stati dovrebbero considerarsi come
sovrani di tutti gli spazi, sia terrestri che marittimi, inclusi in un triangolo
avente il vertice nel polo nord e la sua base in una linea che congiunge i punti
estremi delle coste proprie di ciascuno stati.
Nella sua applicazione al continente antartico la teoria dei settori ha subito
qualche modifica dovuta al fatto che le pretese alla sovranità sono state
avanzate da sette paesi, alcuni dei quali non aventi contiguità geografica con il
continente medesimo (Argentina, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Francia,
Gran Bretagna, Norvegia). Poiché il continente si estende a partire dal 60°
parallelo sud fino al polo, i sette paesi menzionati hanno provveduto ciascuno
a rivendicare un triangolo avente la base sul 60° parallelo ed il vertice nel
polo.
Tali pretese alla sovranità sui territori polari, però, sono state sempre respinte
dalla maggioranza degli stati.
Comunità umane nei territori polari e delimitazione dei poteri degli stati . La
mancanza della sovranità territoriale comporta che ciascuno stato eserciti il
proprio potere sulle comunità che ad esso fanno capo. Per quanto riguarda le
comunità navali, si tratta del normale potere della bandiera. Nel caso di
spedizioni scientifiche o di basi su terraferma, si ritiene che lo stato che le
organizza eserciti il proprio potere su tutte le persone, cittadini o stranieri,
che le compongono. Un’eccezione è prevista dall’art 8 del trattato di
Washington sull’Antartide che prevede che il personale scientifico scambiato
fra le basi, nonché gli osservatori destinati a controllare il rispetto del trattato
medesimo, siano sottoposti ai rispettivi stati nazionali.

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Internazionalizzazione dell’Antartide. L’Antartide è stato internazionalizzato


con il trattato di Washington del 1959. Di questo trattato sono parti
contraenti circa una quarantina di stati (compresa l’Italia) che hanno maggior
interesse alle attività nel Continente. Norma chiave del trattato è quella
contenuta nell’art 4 che congela sia le pretese alla sovranità, sia le opposizioni
alle medesime, consentendo in tal modo al regime internazionale di
funzionare.
Status di parte consultiva. Le caratteristiche dell’internazionalizzazione sono:
interdizione di ogni attività di carattere militare e di ogni esperimento
nucleare; libertà della ricerca scientifica; cooperazione nell’attività della
ricerca scientifica.
Il trattato antartico distingue due categorie di state contraenti: a) le parti
consultive e b) quelle non consultive. Le prime hanno diritto di decidere su
tutte le questioni rientranti nell’oggetto del trattato e, inoltre, hanno
l’esclusivo diritto di condurre ispezioni.
Internazionalizzazione dell’Antartide e stati terzi. Il regime internazionale
dell’Antartide, essendo previsto da un trattato, vincola solo le parti contraenti.
Per quanto riguarda gli stati terzi, il regime che vige è soltanto quello di
libertà; perciò, trattandosi di un regime di libertà, lo sfruttamento delle
risorse può anche essere operato unilateralmente da uno stato o da un gruppo
di stati purché si rispetti la pari libertà altrui. In alcune risoluzioni prese a
maggioranza, l’assemblea generale dell’ONU ha dichiarato le risorse del
continente “patrimonio comune dell’umanità” con corrispondente obbligo,
quindi, di sfruttare nell’interesse dell’umanità tali risorse.

Parte terza.

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L’APPLICAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI


ALL’INTERNO DELLO STATO.
38.Adattamento del diritto statale al diritto internazionale.
Occupiamoci adesso dell’applicazione delle norme internazionali.
L’osservanza del diritto internazionale da parte di uno stato in primo luogo
deve ritenersi affidata agli operatori giuridici ed in particolare agli organi
statali di quello stesso stato: le norme statali, si dice, provvedono ad
“adattare” il diritto internazionale al diritto interno.
Una prima osservazione va riferita al modo in cui il diritto internazionale
viene nazionalizzato (introdotto nell’ordinamento). Tale osservazione fa
riferita alla distinzione tra procedimenti ordinari e procedimenti speciali.
Procedimento ordinario di adattamento. L’adattamento avviene mediante
norme (costituzionali, legislative, amministrative) che formalmente a nulla si
distinguono da quelle statali se non per il motivo (occasio legis) per cui
vengono emanate e che è appunto quello di creare delle regole corrispondenti
a determinate norme internazionali. In altri termini: le norme internazionali
vengono riformulate all’interno dello stato.
Procedimento speciale di adattamento. In questo caso, detto anche
procedimento “mediante rinvio”, la norma internazionale non viene
riformulata all’interno dello stato, perché di fronte ad una certa norma
internazionale (o un gruppo di norme internazionali), gli organi preposti alle
funzioni normative si limitano ad ordinare l’osservanza della o delle norme
internazionali medesime. Il costituente o il legislatore o l’organo
amministrativo opera semplicemente un rinvio alle norme internazionali,
dando ad esse pieno vigore all’interno dello stato. Esempi: art 10, 1 comma,
della costituzione: “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme
del diritto internazionale generalmente riconosciute”; quindi, tale articolo,
adotta un procedimento speciale di adattamento a tutte le norme di diritto
internazionale generale e quindi alle norme consuetudinarie.
Vantaggi del procedimento speciale. Il procedimento speciale è sicuramente
quello preferibile. Nel caso del procedimento ordinario, infatti, l’interprete si
trova di fronte ad una norma che in nulla differisce dalle altre statali se non
per il motivo che l’ha ispirata: esso non può che applicare la norma interna e
potrà tener conto della norma internazionale che ha fornito l’occasione per
l’emanazione della norma interna solo se vi siano dei dubbi circa l’esatta
interpretazione della medesima.
Se chi ha emanato la norma interna (legislatore o anche l’organo
amministrativo) non ha esattamente interpretato la norma internazionale da

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introdurre nell’ordinamento statale; se esso ha fatto riferimento a norma


internazionali giuridicamente inesistenti; se la norma internazionale si è
estinta ecc: ecco, si tratta di casi che non comportano nulla di diverso per
l’interprete in quanto egli si trova sempre e soltanto di fronte ad una norma
interna completamente formulata e quindi non ha altra scelta se non quella di
applicarla.
In caso di procedimento speciale, la situazione è diversa: la norma interna,
infatti, opera un mero rinvio alle norme internazionali. Qui, il costituente o il
legislatore o l’organo amministrativo non formula norme complete ma si
limita ad ordinare l’osservanza di certe norme internazionali (ad esempio
quelle consuetudinarie) così come esse vigono e finché esse vigono
nell’ordinamento internazionale.
Il centro di applicazione della norma internazionale si sposta dal legislatore (o
costituente o organo amministrativo) all’interprete è quest’ultimo, infatti,
che deve ricostruire integralmente il contenuto della norma internazionale, se
una norma internazionale effettivamente vige, se essa non è estinta e se non
sia stata illegittimamente emanata ecc.
Il procedimento ordinario, però, talvolta (sebbene sia meno preferito) è
necessario soprattutto quando la norma internazionale non è direttamente
applicabile (non è self-executing) norme che, per essere applicate,
richiedono un’attività normativa integratrice da parte degli organi statali. È il
caso della norma all’art 5 della convenzione di MB che dà facoltà allo stato di
adottare il sistema delle linee rette per la misurazione della linea di base del
mare territoriale sempre che la configurazione geografica delle coste presenti
determinate caratteristiche.
Talvolta procedimento speciale e procedimento ordinario possono coesistere
integrandosi a vicenda: ciò si verifica ad esempio quando si dà l’ordine di
esecuzione di un trattato e successivamente si provvede agli atti di
integrazione delle norme non self-executing o non interamente self-executing
contenute nel trattato medesimo.
Può darsi, poi, che il legislatore interno regoli la materia oggetto di un trattato
con norme che, senza violare gli obblighi derivanti dal trattato medesimo ma
anzi rafforzandoli, ne estendano la portata. È questo il caso della modifica
all’art 111 della costituzione, introdotta con la legge cost. 23.11.1999 n.2 che ha
ampliato, con procedimento ordinario, la portata del principio del “giusto
processo”. In senso analogo si può considerare la legge 11.1.2018 n.4 che
introduce speciali misure risarcitorie in favore degli orfani di vittime di
femminicidio.

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Più controversa, invece, è l’estensione della portata applicativa del reato di tortura operata
dall’art 613bis cp, introdotto con la l.2017 n.110 al fine di dare attuazione all’obbligo di
criminalizzazione sancito dall’art 4 della convenzione delle nazioni unite contro la tortura
ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. A differenza di quanto sancito
dalla convenzione, che espressamente definisce all’art 1 la “tortura” come condotta propria
del pubblico ufficiale (o di chi agisce sotto la sua istigazione), l’art 613bis punisce la tortura
come reato comune, prevedendo al 1 comma che tale condotta delittuosa possa essere
commessa da chiunque. La sua eventuale perpetrazione ad opera del pubblico ufficiale,
infatti, determina solamente un aggravamento della pena.
Idoneità delle forme internazionali a produrre diritti ed obblighi interni in
seguito all’adattamento. Una volta prodotte nell’ordinamento interno, le
norme internazionali sono fonti di diritti e di obblighi per gli organi statali e
per tutti i soggetti pubblici e privati che operano all’interno dello stato, al pari
di una qualsiasi norma internazionale. Ovviamente questo succede con netta
evidenza quando l’adattamento avviene mediante procedimento ordinario
dato che in questo caso la norma internazionale addirittura scompare.
Norme self-executing e non self-executing. La nozione di norma non sel-
executing (o non direttamente applicabile) va circoscritta a tre casi precisi: a)
caso in cui una norma attribuisca semplici facoltà agli stati, il cui esercizio è
rimesso alla discrezionalità degli organi del potere legislativo; b) caso in cui
una norma, pur imponendo obblighi, non possa ricevere esecuzione in quanto
non esistono organi o procedure indispensabili alla sua applicazione; c)
quando la sua applicazione comporti particolari adempimenti di carattere
costituzionale.
Esempio di norma non self-executing: norma relativa al sistema delle linee rette in tema di
misurazione del mare territoriale; pensiamo anche all’art 6 par 1 della convenzione
europea del 1967 sull’adozione, resa esecutiva in Italia con la l. 357/1974 secondo cui “la
legislazione nazionale non può permettere l’adozione di un minore se non da parte di due
persone unite in matrimonio o da parte di un singolo adottante”. Secondo la cassazione e la
corte costituzionale, tale articolo, che avrebbe solo lo scopo di vietare l’adozione fuori delle
due ipotesi previste, lascerebbe comunque lo stato libero di ammettere o meno entrambe le
ipotesi e in particolare quella dell’adozione da parte del singolo (quindi, l’art 6 della
convenzione, paragrafo 1, non sarebbe direttamente applicabile in Italia, dove la
legislazione vigente non conosce siffatta forma di adozione).

Chiariamo che il diritto internazionale, una volta acquistata validità formale


all’interno dello stato, è diritto al pari del diritto interno.
Uso distorto della nozione di norme non self-executing . Talvolta, la
distinzione tra norme internazionali self-executing e non self-executing viene
utilizzata per scopi in senso lato “politici” per non applicare, quindi, norme
“indesiderate” perché contrarie a sopravvenuti interessi nazionali.

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Ciò che diciamo vale soprattutto per quella parte della giurisprudenza di vari
paesi che esclude la diretta applicabilità di una convenzione a causa del suo
contenuto “vago” o “indeterminato”, di un accordo in particolare che
contenga principi generali anziché norme di dettaglio. Il criterio
dell’indeterminatezza è stato usato in vari paesi, ad esempio in Germania, per
escludere la diretta applicabilità dei principi del GATT relativi alla
liberalizzazione del commercio internazionale.
Allo stesso modo è da respingere l’opinione secondo cui un trattato non è self-
executing se prevede che, in caso di sospensione o di mancata applicazione, o
di difficoltà nell’applicazione, delle sue norme, debba farsi ricorso a procedure
di conciliazione o altri mezzi internazionali di soluzione delle controversie che
tengano, tra l’altro, conto delle esigenze dello stato che ha sospeso o non
applicato il trattato: dal che dovrebbe dedursi la “flessibilità” delle sue
disposizioni.
In realtà tutto ciò che può dirsi, in casi del genere, è che lo stato contraente ha
facoltà di adottare delle misure non conformi al trattato: può adottarle, in casi
come quelli previsti dal GATT di fronte a certe difficoltà di ordine economico,
e salva poi la procedura di conciliazione sul piano internazionale; può
adottarle, nel caso delle reciprocità, quando l’altra parte contraente abbia
violato il trattato. E’ evidente che, dopo che lo stato abbia preso misure
(legislative o regolamentari) del genere, l’operatore giuridico interno è tenuto
ad applicarle; ma è anche vero che, fin quando le misure non siano prese, il
trattato deve ricevere applicazione all’interno dello stato.
Valore delle clausole di esecuzione. Non si può neppure ritenere che
costituisca un impedimento alla diretta applicabilità di un trattato il fatto che
questo contenga una “clausola di esecuzione”, ossia preveda che gli stati
contraenti “adotteranno” tutte le misure di ordine legislativo o altro, e magari
progressivamente, per dare effetto alle sue disposizioni.
Clausole del genere si rinvengono specialmente nelle convenzioni sui diritti
dell’uomo: basti richiamare in proposito l’art 2 par 2 del patto delle nazioni
unite sui diritti civili e politici e l’art 2 par 1 del patto sui diritti economici,
sociali e culturali. Ma, in linea di principio, si tratta di clausole dalle quali ci
sembra assurdo ricavare niente altro che la volontà e l’aspettativa del trattato
di essere applicato e, soprattutto, esse si giustificano solo se e quando il
trattato medesimo contenga delle norme effettivamente non self-executing ed
impegnano lo stato a prendere, in ordine a siffatte norme, i provvedimenti
legislativi ed amministrativi appropriati.
Criticabili sono, inoltre, quelle sentenze che escludono la diretta applicabilità
delle norme internazionali in virtù del fatto che queste ultime si limiterebbero

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a regolare rapporti inter-statali e sarebbero pertanto insuscettibili di creare


diritti e obblighi azionabili sul piano interno. A ben vedere, infatti, questa
giurisprudenza finisce col negare la ragion d’essere dei meccanismi di
adattamento, il cui fine ultimo è agevolare il rispetto del diritto internazionale
rendendo le sue norme parte integrante dell’ordinamento di cui gli operatori
giuridici nazionali sono chiamati a garantire l’osservanza.
Sfera di applicazione della norma internazionale introdotta nell’ordinamento
interno. È ovvio che le norme internazionali, come tutte le altre norme
giuridiche, sono utilizzabili all’interno dello stato entro i limiti in cui si
verifica in concreto la fattispecie astratta da esse prevista.
Nel caso del procedimento di adattamento mediante rinvio, la determinazione
della fattispecie astratta ad opera dell’interprete e la conseguente applicazione
della norma ai rapporti interni possono rivelarsi complicate a causa della
formulazione della norma che è e resta una formulazione internazionalistica.
Complicata può essere l’indagine che tende a stabilire a quali soggetti la
norma debba applicarsi e in particolare se essa debba applicarsi solo a
rapporti in cui siano coinvolti enti stranieri oppure sia utilizzabile anche nei
rapporti fra enti, pubblici e privati, nazionali. Si dice che l’adattamento
mediante rinvio comporta una trasformazione del contenuto della norma
internazionale per renderla applicabile ai rapporti interni; in realtà è giusto
parlare non tanto di trasformazione ma di esatta determinazione dei limiti
entro cui la norma vuole comunque essere applicata.
Esempio: norma consuetudinaria che vieta allo stato di esercitare poteri di
vigilanza doganale al di là dei mari adiacenti alle proprie coste. Introdotta
nell’ordinamento italiano tale norme può essere invocata, innanzi ai nostri
giudici, da equipaggi di navi straniere che siano state catturate dalla nostra
autorità di polizia doganale a notevole distanza dalla costa. Essa non può,
invece, essere invocata da equipaggi di navi italiane e ciò perché la norma
sulla vigilanza doganale va interpretata in combinazione con la regola per cui
lo stato non incontra limiti all’esercizio del potere di governo sulle proprie
navi in acque internazionali.
Accordi internazionali introdotti nell’ordinamento interno e stati terzi. Un
accordo internazionale, di cui si sia dato in Italia l’ordine di esecuzione, può
contenere disposizioni vantaggiose per uno stato estraneo all’accordo o per i
suoi cittadini (ad esempio l’art 77 del Trattato di pace tra Italia e potenze
alleate ed associate prevede la rinuncia dell’Italia “a suo nome e a nome dei
cittadini italiani, a qualsiasi domanda contro la Germania e i cittadini
germanici precedente alla data dell’8.5.1945). Disposizioni del genere possono

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essere invocate in Italia dallo stato interessato e dai suoi cittadini, nonostante
l’impegno sia stato assunto nei confronti di altri paesi.
Non si tratta, in questi casi, di attribuire all’accordo internazionale
un’efficacia nei confronti dei terzi, efficacia che è da escludere in base ai
principi consuetudinari sul diritto dei trattati: si tratta appunto di applicare la
norma internazionale, una volta divenuta norma interna ed in quanto
invocabile innanzi agli organi italiani e tra soggetti che operano nell’ambito
dell’ordinamento italiano, alle fattispecie cui essa vuole essere applicata.
Rango delle norme internazionali introdotte nell’ordinamento interno. La
distinzione tra procedimenti ordinari e speciali di adattamento attiene al
mezzo attraverso cui l’ordinamento interno si adatta al diritto internazionale
e, quindi, attiene al “come” penetra il diritto internazionale nell’ordinamento
statale.
Occorre, poi, stabilire quale rango, nella gerarchia delle fonti interne,
assumono le norme internazionali una volta introdotte. Il problema del rango
del diritto internazionale una volta nazionalizzato è molto complesso: se a
procedere all’adattamento è il costituente, allora le norme internazionali così
introdotte tenderanno ad avere rango costituzionale; se a procedere
all’adattamento è il legislatore ordinario (come avviene per i trattati), le
norme internazionali così introdotte tenderanno ad avere rango di legge
ordinaria.
Apertura dell’ordinamento italiano al diritto internazionale. I problemi
relativi al rango delle norme internazionali nell’ordinamento italiano vanno
affrontati nella prospettiva della Legge costituzionale 18.10.2001 n.3 che ha
modificato il titolo V della Costituzione. In particolare è stato novellato l’art
117 stabilendo che il potere legislativo statale deve esercitarsi “nel rispetto dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali”. Viene, così, sancita a livello costituzionale la prevalenza degli
obblighi internazionali e comunitari sulle norme interne incompatibili,
indipendentemente dalla fonte interna che ha provveduto all’adattamento.
Tale prevalenza è frutto di due scelte importanti per l’Italia: la cooperazione
pacifica tra stati attraverso il rispetto del diritto internazionale e la protezione
dei diritti inviolabili della persona umana, come diritti universali che spettano
ad ogni individuo in quanto tale.
Per questo motivo l’obbligo di assicurare detta prevalenza incombe non solo
sul potere legislativo ma anche su coloro che sono in seguito chiamati ad
applicare il diritto internazionale e a risolvere i conflitti tra diritto
internazionale e diritto interno (e, quindi, i giudici). Ma non solo:
quest’obbligo vale anche per la corte costituzionale che negli ultimi anni ha

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costantemente rivendicato la propria competenza esclusiva a verificare la


compatibilità con la Costituzione di norme e sentenze internazionali. Un
eventuale annullamento, da parte della corte, delle norme di adattamento ad
una norma pattizia internazionale, come pure il rifiuto di consentire l’ingresso
di determinate norme consuetudinarie nel nostro ordinamento o di eseguire
sentenze internazionali, sono altrettante soluzioni estreme che dovrebbero
essere adottate solo in circostanze eccezionali. Si tratta, in primo luogo, del
caso in cui l’obbligo di rispettare il diritto internazionale dia luogo ad un grave
contrasto con l’altro principio che regola, sul piano costituzionale, la materia
dei rapporti internazionali dell’Italia e cioè la protezione dei diritti inviolabili
della persona umana; in secondo luogo, l’intervento della corte potrebbe
rendersi necessario se il giudice comune ravvisi un conflitto normativo che
sembra inevitabilmente risolversi nella prevalenza del diritto interno su
quello internazionale.
In ogni caso, il coordinamento delle norme interne e internazionali con quelle
costituzionali è molto complicato. Perché? perché questo coordinamento nella
prassi risulta essere molto influenzato dalla cd teoria del controlimiti essa
prevede che il giudice interno possa rifiutarsi di applicare norme
internazionali ritenute in contrasto con i principi della costituzione.
Questa teoria dei controlimiti si pone in diretto contrasto con un consolidato
principio del diritto consuetudinario, per il quale uno stato non può invocare
il proprio diritto interno e cioè in contenuti delle sue norme e la sua
particolare organizzazione di governo, per sottrarsi all’adempimento di un
obbligo internazionale. Chiamare in causa i controlimiti per non applicare
una norma internazionale equivale chiaramente a mettersi in opposizione con
questo principio e le finalità che esso intende realizzare.
Parliamo di controlimiti per la prima volta in una celebre sentenza della corte
costituzionale tedesca del 1974 (decisione Solange), non come una causa
generale di esclusione dell’illecito a fronte della violazione di qualsiasi obbligo
internazionale, ma come strumento interpretativo per conseguire un obiettivo
materiale ben preciso. Si tratta, cioè, di armonizzare il diritto comunitario con
i principi fondamentali sulla protezione dei diritti umani che, all’epoca, non
figuravano ancora esplicitamente tra i parametri di legittimità dell’attività
normativa comunitaria. Quindi, in pratica, per la corte il contrasto con le
norme costituzionali sui diritti umani impediva la prevalenza del diritto
comunitario su quello tedesco.
Se da un lato la sentenza Solange aveva agito sul terreno della realizzazione di
interessi comuni sia allo stato tedesco che all’UE (vale a dire la difesa di
principio superiori sulla tutela dei diritti umani che caratterizzavano sia

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l’ordinamento internazionale che gli ordinamenti interni); dall’altro essa


aveva anche il compito di stimolare gli organi comunitari ad aggiornare il
quadro normativo di un’organizzazione internazionale che da semplice
unione doganale si avviava a diventare progetto di tipo federalistico.
E, infatti, di li a poco cominciò il graduale processo di adeguamento
dell’ordinamento comunitario ai diritti umani culminato nella redazione della
Carta di Nizza dei diritti fondamentali e nella previsione della sua
obbligatorietà nell’art 6 del trattato di Lisbona.
Anche la nostra corte costituzionale ha seguito questa strada affermando in
numerose sentenze che “i principi fondamentali dell’ordinamento
costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite
all’ingresso delle norme internazionali…rappresentando gli elementi
identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale”.
Al di là di tutto si va diffondendo sempre di più nella giurisprudenza delle
corti interne (non ancora in Italia per fortuna) il ricorso alla teoria del
controlimiti per impedire l’applicazione del diritto dell’UE e del diritto
internazionale, di qualsiasi norma internazionale e comunitaria. Così intesa,
quindi, questa teoria diventerebbe nient’altro che l’ennesimo espediente per
non applicare norme o sentenze internazionali definite “indesiderate” o,
peggio ancora, politicamente non gradite. Quindi, ciò che dovrebbe essere
garantito è il mantenimento dei caratteri originali di questi controlimiti come
strumento di garanzia dei diritti umani. In che modo? In primis, consentendo
ai giudici interni di applicare le norme interne che, nella materia dei diritti
umani, offrano una protezione più ampia rispetto a quella prevista dalle
norme internazionali; in secondo luogo, assicurando che il coordinamento tra
norme costituzionali e internazionali avvenga sempre nel rispetto del
superiore interesse dei diritti umani, anche quando si propende per la
prevalenza del diritto interno.
Infatti, come vedremo, la maggior parte dei conflitti sono stati risolti proprio
dando la prevalenza alle norme maggiormente rispettose dei diritti umani
degli individui coinvolti.
Può capitare che il giudice propenda per la prevalenza della norma italiana su
quella internazionale anche per motivi che esulano, in tutto o in parte, da
esigenze di tutela dei diritti umani. In ogni caso, la mancata applicazione di
una norma internazionale deve essere compensata da una particolare
motivazione in cui il giudice dimostri le cause che l’hanno portato a
discostarsi dalla soluzione internazionale: nel risolvere il contrasto a favore
della norma nazionale, il giudice interno deve assicurarsi di rispettare
cumulativamente tre criteri interpretativi. Essi sono: a) attribuire, comunque,

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prevalenza alla norma che meglio tutela i diritti umani; b) dimostrare


l’eccezionalità della deroga alla norma internazionale per le particolari
esigenze del caso; c) redigere una motivazione particolarmente densa e
argomentata per giustificare la necessità di tale deroga.
39.L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario.
Natura speciale del procedimento di adattamento al diritto consuetudinario .
L’adattamento al diritto internazionale generale avviene in Italia a livello
costituzionale. Ad esso, infatti, provvede l’art 10 comma 1 della costituzione
secondo cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del
diritto internazionale generalmente riconosciute”.
L’art 10 prevede un procedimento di adattamento speciale o mediante rinvio.
Il costituente ha voluto con esso rimettere in tutto e per tutto all’interprete
interno la rilevazione e l’interpretazione delle norme internazionali generali,
limitandosi soltanto ad affermare la propria volontà che l’adattamento sia
automatico, cioè completo e continuo: le norme internazionali generali
valgono all’interno dello stato se e finché vigono in ambito internazionale.
È quindi l’interprete (nella specie il giudice) che deve risolvere tutti i problemi
relativi all’esistenza e al contenuto delle norme generali internazionali. deve
stabilire, in primo luogo, quali siano le norme internazionali generali.
Rango del diritto consuetudinario nel diritto interno. Essendo l’adattamento
delle norme internazionali previsto dalla costituzione, si può ritenere che tali
norme si situino ad un livello superiore alla legge ordinaria. Una legge
ordinaria contraria al diritto internazionale consuetudinario, pertanto, sarà
costituzionalmente illegittima in quanto violerà indirettamente l’art 10 della
costituzione e potrà essere quindi annullata dalla corte costituzionale.
Rapporti con le norme costituzionali. Posto che le norme internazionali
generali, nazionalizzate per il tramite dell’art 10, si situino ad un livello
superiore alla legge, può ritenersi addirittura che queste abbiano pieno rango
costituzionale e, quindi, si comportino in tutto e per tutto come norme
costituzionali? O restano comunque di per sé sottoposte alla costituzione non
potendo in alcun modo derogare alle norme di quest’ultima? In questo caso
quale sarà la sorte riservata alle norme consuetudinarie “costituzionalmente
illegittime”?
Riteniamo che l’art 10 della costituzione, in quanto prescrive l’adattamento
dell’ordinamento giuridico italiano e quindi del diritto italiano nella sua
totalità, al diritto internazionale generale, intenda escludere in linea di
massima che il diritto consuetudinario sia subordinato al diritto

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costituzionale: la conseguenza è che il primo prevarrà normalmente sul


secondo a titolo di diritto speciale.
Ma, ci sembra che l’art 10, interpretato sistematicamente, contenga anche una
clausola implicita di salvaguardia dei diritti fondamentali consegnati nella
nostra costituzione ci sembra, quindi, che l’art 10 non possa né voglia
un’esecuzione del diritto consuetudinario all’interno dello stato spinta fino al
limite di rottura con quei principi: una norma internazionale generale che
superi siffatti limiti non può ritenersi richiamata dall’art 10 e resterò
inoperante all’interno dello stato.
La nostra posizione è che chiunque fosse chiamato ad applicare tale norma, e
quindi in primo luogo i giudici, potesse rifiutarsi di farlo senza che sul punto
fosse necessaria una pronuncia della corte costituzionale. Occorre, però,
prendere atto che la corte costituzionale, nella sentenza 22.10.2014 n.238 ha
espresso un contrario avviso: da un lato, essa ha confermato che una norma
consuetudinaria contraria ai principi fondamentali della nostra costituzione
non possa entrare nel nostro ordinamento; ma, dall’altro ha poi affermato
che, essendo il controllo di costituzionalità in Italia un controllo accentrato,
spetti ad essa e solo ad essa stabilire se una norma internazionale
consuetudinaria sia contrari ai principi fondamentali della nostra costituzione
e quindi non possa essere applicata in Italia. La sentenza ha fatto seguito alla
vicenda iniziata con le decisioni delle corti italiane relative alle azioni per il
risarcimento dei danni provocati dalle violazioni gravi dei diritti umani
commesse dalle truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale. Il
rifiuto da parte di dette corti di riconoscere l’immunità della Germania dava
luogo alla pronuncia della CIG 3.2.2012 che si dichiarava, invece, favorevole
all’immunità. A questo punto è intervenuta la nostra corte costituzionale,
investita della questione del tribunale di Firenze, dichiarando
l’incompatibilità della norma internazionale sull’immunità degli stati, in tema
di risarcimento dei danni derivanti dai crimini tedeschi, con l’art 24 (diritto al
giudice) in combinazione con l’art 2 (tutela dei diritti fondamentali) della
costituzione.
Conseguenze della sentenza 238 nell’ordinamento italiano. Quali sono state le
conseguenze della sentenza 238 nel nostro ordinamento?
In primo luogo la corte si è pronunciata anche per la incostituzionalità
dell’art 3 della L. 14 gennaio 2013 n. 5 che, in coerenza con questa
conclusione, prevedeva alcune misure per tutti i casi in cui la CIG si fosse
comunque pronunciata a favore dell’immunità; altra norma di legge dichiara
incostituzionale dalla corte è l’art 1 della L. 17 agosto 1957 n. 848 che dà piena
ed intera esecuzione alla carta delle nazioni unite ma ciò con riguardo

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esclusivo all’art 94 che obbliga gli stati membri ad adeguarsi alle pronunce
della CIG.
In secondo luogo mentre la corte annulla le due disposizioni di legge ora
menzionate, per quanto riguarda la consuetudine internazionale, così come
rilevata dalla CIG, adotta una sentenza interpretativa di rigetto. Il ricorso a
tale tecnica interpretativa si spiega col fatto che, una volta esclusa
l’operatività interna della “parte della norma sull’immunità dalla giurisdizione
degli stati che confligge con gli articoli 2 e 24”, il giudizio di costituzionalità
rimane, sotto questo profilo, privo di oggetto. Infatti, se “la norma
internazionale alla quale il nostro ordinamento si è conformato in virtù
dell’art 10, primo comma, non comprende l’immunità degli stati dalla
giurisdizione civile in relazione ad azioni di danni derivanti da crimini di
guerra e contro l’umanità”, allora “i diritti inviolabili della persona” non
risulteranno “privi della necessaria tutela giurisdizionale effettiva”;
In terzo luogo è chiaro come il legislatore abbia voluto comunque impedire,
o rendere assai difficile, l’eventuale esecuzione delle condanne di stati
stranieri e, nel caso specifico della Germania, adottando la L. 10.11.2014
n.162. Questa legge prevede che siano esenti tutti i conti correnti bancari e
postali che i Capi delle missioni diplomatiche e consolari abbiano dichiarato,
con comunicazione inviata al ministero degli affari esteri, trattasi di denaro
destinato a fini pubblicistici;
In quarto luogo chiariamo come, nello specifico, la Germania non ha mai
negato la sua responsabilità non solo morale, ma anche giuridica, per i
crimini commessi durante il regime hitleriano. Tuttavia, l’esistenza di una
sentenza della CIG ad essa favorevole e l’impossibilità, come abbiamo detto,
di aggredire i beni dello stato tedesco rendono estremamente improbabile
l’idoneità delle misure indicate dalla corte costituzionale a conseguire, in via
giudiziaria, il risultato pratico del risarcimento delle vittime. Infatti, la
Germania non si è presentata davanti al tribunale di Firenze e, per ottenere il
risarcimento richiesto dai suoi cittadini, l’Italia dovrà comunque negoziare
una soluzione col governo di Berlino.
Altra norma di adattamento al diritto internazionale consuetudinario può
essere quella prevista dall’art 11 della costituzione: “l’Italia ripudia la guerra
come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione di controversie internazionali”.
Infatti, il diritto internazionale prevede il divieto (a partire dalla seconda
guerra mondiale) dell’uso della forza; ma, si vedrà che il divieto, quando si è
in presenza di una vera e propria guerra e non di isolati episodi di uso della
forza, finisce per restare lettera morta, sempre che il consiglio di sicurezza

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delle nazioni unire non decida di intervenire con un’azione efficace a tutela
della pace.
La formulazione della prima parte dell’art 11 risente dell’orrore suscitato dalla
seconda guerra mondiale e perciò prende espressamente in considerazione
l’aggressione. È ovvio che, con una simile formulazione, la norma fa salva la
guerra di difesa ed è proprio in ciò che si conforma al diritto internazionale
generale e alla carta delle nazioni unite, che entrambi ammettono per
l’appunto la legittima difesa individuale.
La prima parte dell’art 11 va poi coordinata con la seconda parte secondo cui
“l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri stati alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo”.
Questa norma è stata utilizzata dalla nostra corte costituzionale per assicurare
un primato al diritto dell’unione europea sul diritto italiano ma non anche alle
altre organizzazioni internazionali e neppure al diritto delle nazioni unite.
Deve ritenersi però che anche se non si ammette tale primato, la seconda
parte dell’art 11 permette comunque l’uso della forza nei casi previsti dalla
carta delle nazioni unite e cioè nel senso della partecipazione dell’Italia alla cd
legittima difesa collettiva o alle operazioni cd di peacekeeping organizzate o
autorizzate dal consiglio di sicurezza.
La prassi italiana è senz’altro orientata nel senso di non partecipare ad interventi armati
che non siano organizzati o previsti dalle nazioni unite: un’eccezione si ebbe quando l’Italia
partecipò alla guerra aerea della NATO contro la repubblica federale di Iugoslavia nel
1999.

40.L’adattamento ai trattati e alle fonti derivate dai trattati.


Ordine di esecuzione del trattato. L’adattamento delle norme pattizie
consuetudinarie avviene normalmente in Italia con un atto ad hoc relativo ad
ogni singolo trattato. Tale atto è l’ordine di esecuzione il quale è un
procedimento speciale o di rinvio: esso si limita, quindi, ad esprimere la
volontà che il trattato sia eseguito ed applicato all’interno dello stato senza
riformulare le norme ma rimettendo all’interprete interno la ricostruzione e
l’interpretazione delle medesime. L’ordine di esecuzione di solito si esprime
con la formula “piena ed intera esecuzione è data al trattato X…” ed è
accompagnato dalla riproduzione del testo dell’accordo.
L’ordine di esecuzione è di solito dato con legge ordinaria, ma può essere dato
anche con decreto del potere esecutivo quando l’accordo riguarda materie
regolabili discrezionalmente dalla pubblica amministrazione. Normalmente è
la stessa legge che, ai sensi dell’art. 80 costituzione, autorizza la ratifica del
trattato da parte del capo dello stato, contiene l’ordine di esecuzione.

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In questo modo l’ordine di esecuzione può precedere l’entrata in vigore


dell’accordo; entrata in vigore che, a seconda della natura del medesimo, si
verifica al momento dello scambio delle ratifiche o del deposito di un certo
numero di ratifiche. Ciò non ha importanza essendo l’ordine di esecuzione un
procedimento di adattamento mediante rinvio, e dunque un procedimento
che subordina l’applicazione della norma internazionale all’effettiva esistenza
di questa in quanto norma internazionale, esistenza che dovrà essere
accertata dall’interprete.
Inoltre, non dimentichiamoci che, a proposito dei procedimenti di
adattamento mediante rinvio, accertare l’esistenza della norma significa
tenere conto di tutte le sue vicende; nel caso dei trattati: stabilire se e quando
il trattato è entrato in vigore, quali sono gli stati che ne fanno parte nel
momento in cui occorre applicarlo, quali stati hanno avanzato riserve e quali
vi sono opposti ecc.
Fonti ufficiali di informazione sui trattati. Tutto ciò rende assai acuto il problema,
da più parti sollevato, della necessità di appropriate fonti ufficiali di informazione
all’interno dello stato. Si tratta di un problema che non si risolve facilmente nei vari paesi;
in Italia la materia è regolata dalla legge 839/1984 che, oltre a prevedere la pubblicazione
nella gazzetta ufficiale di tutte le convenzioni, prevede che annualmente sia allegato alla
gazzetta un apposito volume riguardante “la situazione delle convenzioni internazionali
vigenti per l’Italia, con l’indicazione degli stati per i quali queste convenzioni sono efficaci e
delle riserve ad esse relative”.
Valore del trattato non ancora entrato in vigore. Quale valore ha il trattato per
l’ordinamento italiano qualora non vi sia stato l’ordine di esecuzione? La giurisprudenza è
unanime nel ritenere che, in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non abbia valore
per l’ordinamento interno, ma può essergli assegnata una funzione ausiliaria sul piano
interpretativo: può essere invocato per dare alle norme interne un’interpretazione il più
possibile ad esso conforme (ma, ovviamente, dovrà cedere di fronte a norme interne).
Valore del trattato in mancanza dell’ordine di esecuzione. A fini interpretativi
può essere anche utilizzato un trattato internazionale, la cui ratifica sia stata autorizzata
dal parlamento, ma che non sia entrato in vigore o non sia entrato in vigore per l’Italia. In
una sentenza del 2007 (caso Englaro) la cassazione sembra addirittura applicare la
convenzione di Oviedo sui diritti umani e biomedicina, entrata in vigore nel 1999. Si dà il
caso che, con la legge del 2001 n.145, sia stata autorizzata la ratifica e ordinata l’esecuzione
in Italia della convenzione, ma che il governo non abbia mai depositato lo strumento di
ratifica presso il segretariato generale del consiglio d’Europa. Pertanto, in base alle regole
sulla formazione dei trattati, l’Italia non può considerarsi parte contraente della
convenzione (quindi, questa può appunto utilizzarsi solo a fini interpretativi, essendo per il
momento inapplicabile in Italia).

Rango dei trattati nel diritto interno. Passiamo al problema del rango delle
norme convenzionali introdotte nell’ordinamento italiano mediante l’ordine
di esecuzione.

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Trattati e legislazione ordinaria. Circa questi rapporti, fino all’entrata in


vigore della legge cost 18.10.2001, che ha modificato il titolo V della parte II
della costituzione, doveva ritenersi che essi fossero in tutto e per tutto
rapporti di norme di pari rango, regolati dal principio per cui la legge
posteriore abroga l’anteriore e la legge speciale prevale su quella comune.
Come abbiamo già detto l’art 3 n.1 secondo comma di questa legge ha
innovato la materia modificando l’art 117 il quale, infatti, ora stabilisce che la
legislazione statale deve esercitarsi “nel rispetto dei vincoli internazionali”.
Viene così sancita una preminenza degli obblighi internazionali e, quindi,
anche degli obblighi derivanti dai trattati, sulla legislazione ordinaria.
Data, dunque, questa prevalenza degli obblighi internazionali deve ritenersi
viziata da illegittimità costituzionale, per violazione indiretta della
costituzione, e possa come tale essere annullata dalla corte costituzionale, la
legge ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato.
In due sentenze del 2007 (la 348 e 349) la corte costituzionale ha affermato
tale prevalenza.
Va precisato, in verità, che la giurisprudenza della corte è quasi tutta
incentrata sulla CEDU ed è difficile dire, allo stato attuale, se le soluzioni
elaborate a tal riguardo saranno poi mantenute anche in relazione ad altri
trattati internazionali o comunque al di fuori dei diritti umani. La sentenza
349 del 2007 ha, in effetti, riconosciuto che le norme della CEDU hanno
particolare rilevanza per il nostro ordinamento perché sono dirette a
rafforzare ed integrare la garanzia di interessi che già godono della protezione
costituzionale.
Ma come viene attuata in concreto siffatta preminenza? la corte costituzionale
ha ribadito che in caso di contrasto tra norma nazionale e norma posta da un
trattato internazionale, il giudice comune non potrà direttamente disapplicare
la norma interna per dare spazio alla norma di un trattato, né inversamente
applicare la norma interna in luogo della norma convenzionale. Egli, in
primis, dovrà cercare di verificare, mediante l’ermeneutica, la possibilità di
conciliare i due testi fornendo un’interpretazione convenzionalmente
orientata della norma nazionale, che rispetti cioè, in ogni caso, la sostanza
della norma pattizia internazionale.
Però, se il conflitto non è risolvibile in via ermeneutica, il giudice comune non
ha altra scelta se non quella di sollevare una questione di legittimità
costituzionale per violazione indiretta dell’art 117, primo comma.
Occupiamoci, però, del ruolo del giudice comune intento a risolvere
autonomamente la incompatibilità tra trattato e legge ordinaria.

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Prevalenza del trattato in quanto lex posterior. Anzitutto, se la legge di


esecuzione della convenzione è posteriore, non si vede perché l’interprete non
debba applicarla in luogo di una legge interna, in virtù del principio che la
legge successiva abroga l’anteriore.
Criticabile, a tal proposito, è la sentenza della corte costituzionale del 2008 che sostiene la
necessità di ricorrere alla corte anche nel caso di una legge di esecuzione posteriore. Caso
di specie: si trattava di norme interne in materia di incapacità connesse allo status di
fallito, norme risalenti al 1942 e in contrasto con l’art 8 della convenzione europea dei
diritti dell’uomo, introdotta in Italia con la legge di esecuzione posteriore. La cosa grave
era che il giudice a quo, il TAR dell’Emilia Romagna, aveva adito la corte affermando
l’assurda tesi secondo cui il giudice comune non potrebbe applicare le norme di un trattato
e pertanto considerarle abrogative di norme puramente interne. La cosa più grave fu che la
corte provvide ad annullare per incostituzionalità la norma interna difforma, rifiutandosi
di confutarla.

La giurisprudenza sia italiana che straniera ha poi spesso fatto ricordo alla
presunzione di conformità delle norme interne al diritto internazionale: se la
legge posteriore è ambigua, essa va comunque interpretata in modo da
consentire allo stato il rispetto degli obblighi internazionali assunti in
precedenza.
La prevalenza del trattato è stata anche assicurata, sempre sul piano
interpretativo, considerando il trattato come diritto speciale ratione materiae
o personarum. Criterio applicato maggiormente dalla giurisprudenza italiana
nei rapporti tra codice della navigazione e codice di procedura civile e le
convenzioni rispettivamente di diritto marittimo uniforme e di assistenza
giudiziaria, concluse dall’Italia in epoca anteriore.
Specialità sui generis dei trattati. Vi è infine il criterio, seguito dalla Corti americane e
svizzere, secondo cui la legge posteriore prevale solo se vi è una chiara indicazione della
volontà del legislatore di contravvenire al trattato, solo se, in altri termini, il legislatore
contravviene con piena coscienza di causa: occorre che la norma posteriore intenda
ripudiare gli impegni internazionali già contratti. Il trattato internazionale, una volta
introdotto nell’ordinamento interno, prevale dunque finché non si dimostri la volontà del
legislatore di venir meno agli impegni internazionali; questo principio di carattere
interpretativo è un principio di specialità sui generis, di una specialità che non va confusa
con quella ratione materiae o ratione personarum: la specialità consiste nel fatto che la
norma internazionale è sorretta non solo dalla volontà che certi rapporti siano regolati in
un certo modo, quanto dalla volontà che tali obblighi siano rispettati.

circa i rapporti fra trattato e costituzione diciamo che le norme pattizie


immesse possono essere sottoposte a controllo di costituzionalità ed annullate
se violano le norme della nostra costituzionale. La giurisprudenza della corte
costituzionale conferma ciò, avendo la corte dichiarato di poter esercitare il
proprio controllo sulle leggi di esecuzione. Le norme pattizie introdotto
nell’ordinamento interno, pur essendo superiori alla legge in virtù del

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novellato art 117 (nel senso che una norma di legge ad esse contraria è
incostituzionale) restano comunque a loro volta soggette al controllo di
costituzionalità e potranno pertanto essere “espunte” dall’ordinamento
italiano (leggi: annullate) se in contrasto con norme costituzionali. Quindi: le
norme pattizie assumo la forza propria delle norme “interposte” (tra legge
ordinaria e costituzione) essendo: a) parametro di costituzionalità delle leggi
e b) oggetto di tale giudizio, in quanto norme di rango inferiore alla
costituzione.
Ci troviamo, chiaramente, di fronte ad una ulteriore applicazione della teoria
dei controlimiti da valutare, in quest’ottica, alla luce dei tre criteri 1) della
prevalenza della norma che meglio tutela i diritti umani; 2) dell’eccezionalità
della deroga alla norma internazionale per le esigenze particolari del caso
concreto; 3) necessità di una motivazione densa e argomentata per
giustificare tale deroga sul piano interpretativo.
Una volta ricevuto il ricorso la corte costituzionale non procede
automaticamente alla declaratoria di incostituzionalità ex 117 della legge
contraria al trattato; essa, infatti, condurrà preliminarmente ulteriori e
approfonditi controlli interpretativi circa i rapporti tra norma pattizia e legge
ordinaria e norma pattizia e interno complesso di valori espressi nella nostra
costituzione bisogna, quindi, operare un bilanciamento tra esigenza di
garantire il rispetto degli obblighi internazionali e quello di impedire che tale
rispetto possa comportare una violazione della stessa costituzione.
Dopo questa valutazione, la corta dovrà operare una scelta tra queste tre
soluzioni: a) procedere all’annullamento della norma italiana incompatibile;
b) tentare di risolvere il conflitto attraverso un’interpretazione
costituzionalmente orientata della norma internazionale, arrivando alla
conclusione che il lamentato contrasto non sussiste; c) fa prevalere la norma
nazionale qualora ravvisi un conflitto insanabile tra norma del trattato e
principi della nostra costituzione.
Adattamento agli atti delle organizzazioni internazionali. Circa il problema se
l’ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di un’organizzazione
internazionale implichi l’adattamento alle decisioni delle organizzazioni
vincolanti per il nostro stato, può darsi anzitutto che il trattato preveda
espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli organi all’interno
degli Stati membri (tale caso si verifica solo con riguardo ai regolamenti
dell’unione europea).
Quando il trattato istitutivo dell’organizzazione nulla dispone in materia, il
problema va risolto alla luce del diritto interno: la prassi italiana è orientata
nel senso dell’adozione di singoli atti di esecuzione per ciascuna decisione

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vincolante di un organo internazionale; tali atti consistono talvolta in una


legge, ma il più spesso in decreti legislativi o in regolamenti amministrativi.
Tale prassi non è comunque decisiva per concludere che, prima
dell’emanazione degli specifici atti di adattamento, le decisioni degli organi
internazionali non abbiano valore per l’ordinamento italiano: l’ordine di
esecuzione del trattato istitutivo di una determinata organizzazione, in quanto
copre anche la parte del trattato che prevede la competenza di quella
organizzazione ad emanare decisioni vincolanti, già attribuisce a queste
ultime piena forza giuridica interna.
L’emanazione di singoli atti di adattamento serve ad integrare il contenuto
non sempre autosufficiente (non sempre self-executing) della decisione
internazionale, ma per quanto riguarda la forza formale delle decisioni, detta
emanazione è superflua.
41.L’adattamento al diritto dell’Unione Europea.
Ai trattati che si sono succeduti all’epoca delle comunità e poi dell’unione
europea fino al trattato di Lisbona, l’ordinamento italiano si è conformato,
come per qualsiasi altro trattato, con un normale ordine di esecuzione dato
con legge ordinaria.
Ma, a causa della presenza nei trattati medesimi di elementi che normalmente
non si riscontrano nel diritto delle comuni organizzazioni internazionali in
quanto attinenti piuttosto a vincoli di tipo federalistico e soprattutto se
teniamo conto della diffidenza che per molto tempo le corti degli stati membri
hanno avuto rispetto alla giurisprudenza della corte di giustizia dell’UE,
l’adattamento degli ordinamenti degli stati membri al diritto comunitario ha
finito col seguire strade diverse da quelle dell’adattamento dei trattati.
Nel nostro paese si è fatto leva sull’art 11 della costituzione il quale, dopo aver
previsto il ripudio della guerra, stabilisce: “l’Italia consente in condizioni di
parità con gli altri stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Capiamo, innanzitutto, come ha luogo l’adattamento ai trattati dell’UE e ai
vari atti (regolamenti, direttive e decisioni) della legislazione comunitaria.
Diretta applicabilità dei regolamenti comunitari. Come abbiamo detto, a tutti
i trattati succedutisi nel tempo si è dato sempre esecuzione con legge
ordinaria; per effetto dell’ordine di esecuzione non solo hanno acquistato
forza giuridica da noi le norme dei trattati, ma automaticamente acquistano la
stessa forza le norme dei regolamenti.

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Questa automatica applicabilità dei regolamenti, sebbene si traduca


sostanzialmente nell’introduzione in Italia di una fonte di tipo legislativo non
prevista dalla costituzione, non comporta una violazione di quest’ultima.
Regolamenti incompleti. Chiariamo: la diretta e automatica applicabilità dei
regolamenti riguarda la forza formale dei regolamenti medesimi e ciò
significa che tutti i regolamenti acquistano tale forza e possono creare diritti e
obblighi all’interno del nostro stato, indipendentemente dai provvedimenti di
adattamento ad hoc. Ciò non significa che tutti i regolamenti siano
direttamente (o meglio immediatamente) applicabili anche per quanto
riguarda il loro contenuto; anzi, a contrario, vi sono regolamenti che nascono
incompleti e hanno bisogno, per poter produrre i loro effetti, di atti statali di
esecuzione ed integrazione.
Adattamento alle direttive e alle decisioni comunitarie. Ora bisogna capire
cosa accade per direttive e decisioni. Per molto tempo l’opinione più diffusa al
riguardo è stata che, prescrivendo (l’art 249 del trattato CE, oggi 288 TFUE)
la diretta applicabilità dei soli regolamenti, le direttive e le decisioni non siano
automaticamente applicabili in virtù della legge di esecuzione dei trattati, ma
necessitino in ogni caso di atti di adattamento ad hoc. La tecnica che essi
seguono di solito è quella del procedimento ordinario di adattamento, in
quanto, nella prassi, simili atti assumono ora la veste della legge, ora quella
del decreto legislativo o del decreto legge, ora quella dell’atto amministrativo.
Limitata applicabilità diretta delle direttive e delle decisioni. Coerentemente
con quanto affermato in relazione agli atti vincolanti delle organizzazioni
internazionali, è da escludere che le direttive e le decisioni siano del tutto
inapplicabili prima e indipendentemente dai provvedimenti interni che le
eseguono.
Categorie di effetti diretti delle direttive. Tale tesi è, ormai, da più parti
abbandonata: infatti, l’applicabilità diretta delle direttive è ammessa, oltre
che dalla dottrina, anche dalla corte di giustizia dell’UE, entro certi limiti che
diventano via via sempre più ampi. Gli effetti diretti delle direttive sono da
riportare alle seguenti ipotesi: a) quando i giudici interni sono chiamati ad
interpretare norme nazionali disciplinanti materie oggetto di una direttiva,
tale interpretazione deve avvenire alla luce della lettera e dello scopo della
direttiva medesima;
Effetti verticali e orizzontali delle direttive. b) se la direttiva chiarisce la
portata di un obbligo già previsto dal trattato, la sua interpretazione può
considerarsi vincolante; c) allorché la direttiva impone allo stato un obbligo,
sia pure di risultato, ma non implicante necessariamente l’emanazione di atti
di esecuzione ad hoc, gli individui possono invocarla innanzi a giudici

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nazionali per far valere gli effetti che essa si propone. Secondo la corte, però,
imponendo la direttiva ex art 288 TFUE, obblighi allo stato, essa può essere
invocata solo contro lo Stato o altri organismi incaricati di pubbliche funzioni
(effetti verticali) e non anche nelle controversie degli individui fra loro (effetti
orizzontali); d) nel caso in cui le direttive fissano un termine per la loro
esecuzione nel diritto interno, lo Stato, che non ha vincoli fino alla scadenza
del termine, ha però l’obbligo di non adottare disposizioni che possano
compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva; e) la diretta
applicabilità caratterizza anche le direttive che impongono allo stato obblighi
procedurali o quelle direttive che toccano una materia lasciata, dal diritto
interno, alla discrezionalità della pubblica amministrazione.
Risarcimento del danno provocato ai singoli dalla non attuazione delle
direttive. Va, infine, accennato un effetto che la corte di giustizia riconosce
alle direttive non direttamente applicabili che restino inattuate e quindi
comportino una violazione del diritto comunitario (oggi diritto dell’unione).
Tale effetto non è limitato alle direttive ma riguarda tutti i casi di violazione:
tale effetto consiste nel diritto dei singoli colpiti dalla violazione di chiedere il
risarcimento del danno subito, purché si tratti di violazioni di norme che
attribuiscano loro dei diritti e vi sia un nesso di causalità tra l’inattuazione e il
danno.
Efficacia diretta delle decisioni; adattamento agli accordi conclusi dall’UE.
L’efficacia diretta è stata riconosciuta dalla corte di giustizia anche per le
decisioni indirizzate agli stati e agli accordi conclusi dell’unione con stati terzi
sempre che si tratti di accordi che contengano norme complete, ossia norme
che non sono destinate ad essere completate da atti degli organi dell’UE.
Rango delle norme comunitarie nel diritto interno. Occupiamoci, ora, del
rango delle norme dell’UE e cominciamo dai loro rapporti con la legislazione
ordinaria.
Rapporti con le leggi ordinarie. Sul punto la nostra corte costituzionale ha
cambiato più volte opinione e, l’ultimo definitivo cambiamento, risale alla
sentenza 170/84: la corte non solo ritiene oggi che il diritto comunitario
direttamente applicabile prevalga sulle leggi interne, sia anteriori che
posteriori, ma è anche dell’opinione che qualsiasi giudice o organo
amministrativo debba disapplicare le leggi dello stato in caso di conflitto con
una norma comunitaria direttamente applicabile. Tutto ciò discenderebbe dal
già incontrato art 11 della cost: secondo tale articolo il diritto interno e il
diritto comunitario (oggi diritto dell’unione) si coordinino secondo il
principio del primato del secondo sul primo quindi, le regole comunitarie
prevalgono e vigono su quelle interne incompatibili e a disapplicare il diritto

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interno e ad applicare il diritto comunitario sia direttamente qualsiasi giudice


o organo amministrativo.
La tesi della corte di giustizia sull’indiscusso primato del diritto comunitario
si trova esposta in una vecchia ma famosa sentenza (caso Simmenthal) in cui
la corte addirittura sostiene che gli atti legislativi interni contrari al diritto
comunitario dovrebbero considerarsi come “non validamente formati”.
Nella sentenza 170/84 la corte costituzionale respinge espressamente la tesi
dell’invalidità degli atti interni difformi, sostenuta dalla corte di giustizia, tesi
che a suo giudizio supporrebbe un rapporto di tipo federalistico tra diritto
interno e diritto comunitario.
Rapporti con le norme costituzionali. L’ultima questione da esaminare è
quella dei rapporti tra diritto dell’unione europea e norme costituzionali e, in
particolare, se le norme dei trattati e della legislazione dell’unione possano
essere sottoposte a controllo di costituzionalità. Partiamo dal principio: la
partecipazione dello stato alle comunità europee non comportava di certo la
rinuncia a priori ad ogni difesa dei principi costituzionali che presiedono alla
vita della comunità nazionale, e ciò perché comunque le garanzie a tutela del
cittadino restavano affidate al diritto di ciascuno stato membro e non al
diritto comunitario; così come abbiamo già detto che il diritto comunitario
non dovesse sfuggire pertanto al controllo della nostra corte costituzionale.
Tutela dei diritti fondamentali nel diritto comunitario. Ma, col tempo le cose
sono cambiate. In una serie di sentenze assai note la corte di giustizia
cominciò ad affermare che la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo non
fosse estranea al diritto comunitario nella misura in cui essa fosse rilevabile
per sintesi tenendo conto delle “tradizioni costituzionali comuni agli stati
membri” nonché delle convenzioni sui diritti umani vincolanti tali stati.
Carta dei diritti fondamentali dell’UE. La prassi della corte ha trovato poi
esplicito riconoscimento nell’art 6 del trattato di Maastricht e, attualmente, la
corte dispone anche della carta dei diritti fondamentali dell’unione europea
(carta di Nizza). Si tratta di uno strumento ricco di diritti che tende a tutelare
ma esso ha un’efficacia limitata alle materie oggetto del diritto dell’unione.
La corte costituzionale italiana con la sentenza del 1973 ha stabilito che
l’ordine comunitario e l’ordine interno costituiscono due sistemi distinti e
separati anche se coordinati tra loro; che le norme comunitarie “debbono
avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati
membri”; che l’ordinamento comunitario risulta caratterizzato da un proprio
complesso di garanzie statutarie e da un proprio sistema di tutela giuridica;
che, appartenendo i regolamenti all’autonomo ordinamento della Comunità,

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essi si sottraggono al controllo di costituzionalità, controllo limitato dall’art.


134 Cost alle leggi e agli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni.
Un’evoluzione simile ha subito la giurisprudenza della corte tedesca: questa
dopo aver dichiarato più volte di non voler rinunciare alla sua funzione di
garante del rispetto dei diritti fondamentali in Germania neppure in ordine
agli atti comunitari, ha cambiato idea con la cd decisione Solange con la quale
ha promesso che non controllerà più la legislazione comunitaria “fintantoché”
la corte di giustizia delle comunità europee assicurerà in linea generale una
protezione effettiva dei diritti fondamentali.
Sia la corte costituzionale italiana che quella tedesca hanno poi ripreso una
certa distanza dalla corte comunitaria. La prima, in una sua sentenza, si è
riservata la possibilità di verificare se una qualsiasi norma del trattato (TUE o
TFUE), così come essa è interpretata e applicata dalle istituzioni e dagli
organi dell’unione, non venga in contrasto con i principi fondamentali del
nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della
persona umana. La seconda, in un’ordinanza, si è riservata di intervenire nei
casi in cui non sia assicurato lo standard di protezione dei diritti umani
considerato come irrinunciabile dalla legge fondamentale.
42.L’adattamento al diritto internazionale e le competenze delle
regioni.
Il rispetto degli obblighi internazionali come limite alle competenze regionali.
Un principio, tuttora valido, è quello del rispetto da parte delle regioni, degli
obblighi internazionali. Tale principio è espressamente sancito in taluni
statuti regionali ed è considerato come implicito, anche negli statuti che non
ne fanno menzione, dalla corte costituzionale. Oggi esso è sancito dall’art 117
costituzione che obbliga il legislatore regionale al rispetto dei “vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Competenza delle regioni ad eseguire le norme internazionali nelle materie di
loro spettanza. A parte il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari
sancito dall’art 117, esistono altri limiti alla potestà legislativa ed
amministrativa delle regioni?
Agli inizi degli anni 70, la corte costituzionale aveva addirittura ritenuto che,
rientrando i rapporti internazionali e comunitari, nella materia degli affari
esteri, solo lo stato potesse procedere alla loro attuazione in Italia; l’unica
possibilità affidata alle regioni era quella di poter agire per delega da parte
degli organi statali centrali (con conseguente esercizio da parte di questi
ultimi di un potere di controllo e di un potere di sostituzione in caso di
inerzia).

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Via via poi e fino alla modifica dell’art 117 si è avuta una “apertura” sempre
maggiore delle competenze delle regioni da parte della corte costituzionale.
La corte ha finito col riconoscere alle regioni una competenza autonoma ed
originaria a partecipare, nelle materie rientranti nelle loro attribuzioni,
all’attuazione del diritto internazionale nonché del diritto comunitario
direttamente applicabile. D’altro canto, però, essa ha dilatato il potere
sostitutivo dello stato, non limitandolo al solo caso di inerzia delle regioni, ma
estendendolo in modo tale da lasciare del tutto incerti i suoi confini e da
giustificare una molteplicità di interventi degli organi centrali, ad esempio in
caso di “urgenza”, o per “esigenze di uniformità sorrette dall’interesse
nazionale” o ancora per “finalità attuative”.
La materia è dal 2001 regolata dall’art 117, 5 comma, della costituzione
secondo il quale “le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle
materie di loro competenza provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli
accordi internazionali e degli atti dell’unione europea, nel rispetto delle
norme di procedura stabilite da legge dello stato, che disciplina le modalità di
esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.

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Parte quarta.
LA VIOLAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI E LE SUE
CONSEGUENZE.
43.Il fatto illecito e i suoi elementi costitutivi: l’elemento
soggettivo.
Lavori di codificazione sulla responsabilità internazionale degli stati. Ci si
chiede, quindi, quando effettivamente si ha un fatto illecito internazionale,
quali sono i suoi elementi costitutivi e quali conseguenze scaturiscono dal
medesimo e di quali mezzi si dispone, nell’ambito della comunità
internazionale, per reagire contro di esso.
Al tema della responsabilità degli stati la dottrina ha dedicato approfondite
indagini.
Dal 1953 la CDI ha intrapreso lo studio dell’argomento ma un progetto
definitivo di codificazione ha visto la luce solo nel 2001; nel 1996 la
commissione approvò un progetto provvisorio di articoli (vecchio progetto); il
progetto definitivo (“progetto di articoli sulla responsabilità degli stati per
atti illeciti internazionali”) ha visto la luce nell’agosto del 2001: esso si
occupa, in 59 articoli, sia degli elementi dell’illecito sia delle sue conseguenze.
In ogni caso, la commissione raccomanda all’assemblea generale dell’ONU di
prenderne per ora soltanto atto e di considerarne sono in futuro l’eventuale
trasfusione in una convenzione di codificazione.
Il Progetto considera i principi sulla responsabilità come valevoli in linea di
massima per la violazione di qualsiasi norma internazionale: tutti i precedenti
tentativi di codificazione si erano limitati ad esaminare la responsabilità nel
quadro delle norme sul trattamento degli stranieri; infatti, solo in tema di
responsabilità dello stato per danni arrecati agli stranieri nel suo territorio
esisteva, infatti, ed esiste una prassi omogenea.
Responsabilità delle organizzazioni internazionali. Quanto si dirà sulla
responsabilità degli stati vale anche per gli altri soggetti internazionali, ad
esclusione degli individui la cui responsabilità è regolata da norma del diritto
penale internazionale (la loro responsabilità si sostanzia nella loro punizione
nel caso di crimini internazionali).
Sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali la CDI, nel 2011, ha
approvato definitivamente un progetto di articoli redatto per larga parte dal
relatore speciale Gaja; tra gli articoli segnaliamo anzitutto l’art 17 il quale
prevede la responsabilità dell’organizzazione qualora questa, per sfuggire ad
un suo obbligo internazionale, induca, con decisione vincolante, uno o più

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membri a compiere un atto illecito e ciò anche se il comportamento così


imposto non sia illecito per il membro.
Va poi menzionato l’art 40: i membri, qualora lo statuto dell’organizzazione lo
preveda, devono prendere tutte le misure necessarie per dotare
l’organizzazione dei mezzi finanziari per far fronte alle conseguenze
dell’illecito da essa commesso. Essendo l’intervento dei membri previsto dallo
statuto dell’organizzazione, la norma è pleonastica. Nel commento si dice che
un obbligo di intervento possa considerarsi anche solo come implicito
nell’obbligo di cooperazione che grava sui membri di un’organizzazione
internazionale.
Infine, vi è poi l’art 62: il membro è responsabile per un atto illecito
dell’organizzazione, presumibilmente a titolo sussidiario, quando abbia
accettato tale responsabilità oppure abbia indotto la vittima dell’illecito a farvi
affidamento.
NBla responsabilità internazionale dell’organizzazione non va confusa con la
responsabilità di diritto interno, qualora l’organizzazione sia ammessa a compiere atti
giuridici, ed in particolare contratti, in uno stato membro o non membro. Anche qui ci si
pone il problema tra organizzazione e suoi membri e consiste nel chiedersi se e quando i
secondi rispondano solidamente delle obbligazioni contratte dalla prima.

Elemento soggettivo dell’illecito: comportamento di uno o più organi statali .


Data la coincidenza tra lo stato come soggetto di diritto internazionale e lo
stato-organizzazione, è ovvio che il fatto illecito consista anzitutto in un
comportamento di uno o più organi statali, fra cui coloro che partecipano
dell’esercizio del potere di governo.
Nozione di organo statale. Il Progetto, dopo aver indicato all’art. 2 come
elementi del fatto illecito un comportamento (azione od omissione) (a)
attribuibile allo Stato e (b) consistente in una violazione di un obbligo
internazionale dello stato, specifica all’art. 4 che il primo elemento (elemento
soggettivo) consiste nel comportamento di un qualsiasi organo dello stato
(legislativo, esecutivo o giudiziario), del governo centrale o di un ente
territoriale.
Il fatto che l’autore dell’illecito sia necessariamente un organo dello stato
assume importanza quando si tratta di illeciti commissivi, consistenti in
azioni; è chiaro che, per gli illeciti omissivi (esempio mancato adattamento
del diritto interno alle direttive dell’UE) l’identificazione dell’organo che
avrebbe dovuto attivarsi a non lo ha fatto, la sua competenza ecc, non hanno
rilievo per il diritto internazionale.
Nel commento al progetto si sottolinea la difficoltà che può incontrarsi nello
stabilire se persone che non sono organi dello stato sono sottoposti a un

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controllo da parte di quest’ultimo, tale da comportarne la responsabilità per le


loro azioni.
Il caso più importante in materia è quello di gruppi armati irregolari che
agiscono con il sostegno di uno stato contro un altro stato. Di esso si è
occupata la CIG nelle sentenze del 1986 (attività militari e paramilitari in e
contro il Nicaragua) e del 2007 (applicazione della convenzione per la
prevenzione e la repressione del crimine di genocidio): in entrambe le
sentenze la corte ha dato una interpretazione restrittiva di tale requisito,
ritenendo necessario, ai fini dell’attribuzione, che lo stato abbia esercitato un
“controllo effettivo” sulle singole operazioni dei gruppi armati nell’ambito
delle quali sarebbero state commesse violazioni del diritto internazionale.
Per quanto riguarda la prima sentenza, essa ha ritenuto che non esistessero gli estremi per
considerare come responsabili gli stati uniti per le operazioni dei contras contro il governo
nel Nicaragua; per quanto riguarda la seconda, essa ha specificato che non sono imputabili
ad uno stato singole azioni armate che non sia dimostrato essere sotto il controllo effettivo
e che non si siano svolte in base alle sue istruzioni.

La camera di appello del tribunale per la ex Iugoslavia ha invece utilizzato il


diverso criterio del “controllo generale”, in virtù del quale sarebbe sufficiente,
ai fini dell’attribuzione, che lo stato eserciti un’attività di direzione e
coordinamento del gruppo paramilitare, non essendo invece necessario
dimostrare il controllo sulle singole operazioni poste in essere dal gruppo.
Illeciti derivanti da atti legislativi. Sebbene sia vero, stando all’art 4, che
qualsiasi organo possa, con le sue azioni, impegnare la responsabilità dello
stato, tale possibilità in concreto è limitata a causa del contenuto che di solito
le norme internazionali hanno. Abbiamo visto che il diritto internazionale
non prende in considerazione l’astratta possibilità degli stati di indirizzare
comandi agli individui se essa non si accompagna all’attuale e concreta
possibilità che tali comandi siano attuati. Se è così, è chiaro che la violazione
di norme internazionale attraverso la semplice emanazione di leggi o di altre
norme a portata astratta è scarsamente ipotizzabile.
Può darsi che una legge contenga un provvedimento concreto e concretamente attuabile,
nel qual caso è evidente la possibilità che la sua emanazione costituisca un fatto illecito
internazionale. Illecita, ad esempio, fu considerata la revoca e il trasferimento ad una
società nazionale, da parte del Salvador, di una concessione già accordata ad una società
americana. Revoca e trasferimento erano avvenuti con legge (caso Salvador Commercial
Company).

Illeciti commessi dall’organo fuori dei limiti della sua competenza. Una
questione discussa è se le responsabilità dello stato sorga quando l’organo
abbia commesso un’azione internazionalmente illecita avvalendosi di tale sua
qualità, agendo dunque nell’esercizio delle sue funzioni, ma al di fuori dei

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limiti della sua competenza. La questione attiene ai soli illeciti commissivi e


riguarda essenzialmente azioni illecite condotte da organi di polizia in
violazione del proprio diritto interno e contrari agli ordini ricevuti.
Secondo l’art. 7 del progetto, tali azioni sarebbero comunque attribuibili allo
stato per il fatto che l’organo ha esorbitato dai limiti di sua competenza; per
molti autori, l’azione in quanto tale resterebbe invece propria dell’individuo o
degli individui che l’hanno compiuta e l’illecito dello stato consisterebbe nel
non aver preso misure idonee ad impedirla. Più aderente alla prassi è la prima
ipotesi.
Responsabilità dello stato per atti privati. Resta esclusa la responsabilità dello
stato per atti di privati che arrechino danni ad individui, organi o stati
stranieri. A configurare una responsabilità dello stato in questi termini
perveniva la vecchia teoria germanica della solidarietà del gruppo, in base alla
quale il gruppo doveva ritenersi come responsabile per le azioni dannose dei
suoi membri. La teoria fu già abbandonata da Grozio a favore della dottrina
della “patientia” e del “receptus” limitante la responsabilità dello stato ai soli
casi di tolleranza delle azioni compiute da privati nel proprio territorio. Oggi
dottrina e prassi sono concordi nel ritenere che lo stato risponda solo quando
non abbia posto in essere le misure atte a prevenire l’azione o a punirne
l’autore e quindi solo per il fatto dei suoi organi.
Complicità tra stati e privati. Come si vede, il comportamento di cui è
responsabile uno stato consiste in un’omissione. Si va, inoltre, aprendo la
strada all’opinione secondo cui, di fronte alla violazione di norme
internazionali da parte di privati, lo stato risponderebbe direttamente per una
sorta di “complicità” col violatore e pertanto per un illecito commissivo e non
omissivo. Lo stato dovrebbe rispondere quando ripetutamente tollerasse la
violazione o incoraggiasse o addirittura cooperasse col violatore (esempi
riguardano soprattutto il terrorismo).
Caso tellini come rigurgito del ricorso al principio della solidarietà di gruppo viene di
solito citato l’atteggiamento dell’Italia nel caso dell’assassinio del generale Tellini,
avvenuto in Grecia nel 1923. Tellini era membro di una commissione incaricata di
delimitare la frontiera tra Grecia e Albania, e l’Italia fascista, sostenendo l’automatica
responsabilità dello stato greco, non esitò, per reagire contro l’assassinio, ad effettuare una
rappresaglia armata contro l’isola di Corfù. Dopo qualche tempo, il consiglio della società
delle nazioni, innanzi al quale il caso fu portato, finì con l’approvare con l’adesione dello
stesso governo italiano la tesi che la responsabilità dello stato per crimini politici commessi
sul suo territorio sorga solo quando lo stato “ha mancato di prendere tutte le misure
appropriate in vista della ricerca, dell’arresto e del giudizio del criminale”.
Caso degli studenti islamici come esempio di azione dannosa dei privati nei
confronti di stranieri può ricordarsi il caso dell’illecita detenzione dei diplomatici stranieri
nell’ambasciata americana a Teheran nel 1979, ad opera degli studenti islamici: in un

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primo momento (prima che il governo italiano facesse propria l’azione degli studenti)
l’illecito commesso da tale governo consisté precisamente nel non avere adottato le misure
atte a prevenire l’azione dannosa.

44.L’elemento oggettivo.
Antigiuridicità del comportamento dell’organo statale. Si tratta del secondo
elemento del fatto illecito e cioè la illiceità (antigiuridicità) del
comportamento dell’organo statale.
L’art. 12 del Progetto definisce lapalissianamente l’elemento oggettivo
dell’illecito, dichiarando che “si ha violazione di un obbligo internazionale da
parte di uno stato quando un fatto di tale stato non è conforme a ciò che gli è
imposto dal predetto obbligo”.
L’art. 13 contiene la regola tempus regit actum, ossia prevede che
l’obbligazione debba esistere al momento in cui il comportamento dello stato
ha luogo. È poi importante la determinazione del tempus commissi
delicti (negli illeciti istantanei, in quelli continui e in quelli composti)
soprattutto in relazione all’interpretazione dei trattati di arbitrato e di
regolamento giudiziario, trattati che di solito dichiarano di non volersi
applicare alle controversie relative a fatti avvenuti prima della loro entrata in
vigore o comunque prima di une certa data (c.d. data critica).
Cause escludenti l’illiceità. All’elemento obbiettivo dell’illecito internazionale
attengono alcune cause escludenti l’illiceità.
1. consenso dello Stato leso l’art. 20 del progetto afferma che “il
consenso validamente dato da uno stato alla commissione da parte di
un altro stato di un fatto determinato esclude l’illiceità di tale fatto nei
confronti del primo stato, sempre che il fatto medesimo resti nei limiti
del consenso”; tale consenso non configura un accordo (tra stato
autorizzante e stato autorizzato), ma è sostanzialmente un atto
unilaterale, che non può violare una norma imperativa, essendo
assoluta l’inderogabilità dello jus cogens.
2. Autotutelaè costituita da quelle azioni rivolte a reprimere l’illecito
altrui e che, per tale funzione, non possono essere considerate
antigiuridiche anche quando consistono in violazioni di norme
internazionali; il progetto prevede la legittima difesa e le contromisure
(rappresaglie).
3. Forza maggiore è il verificarsi di una forza irresistibile o di un evento
imprevisto, al di là del controllo dello stato, che rende materialmente
impossibile adempiere l’obbligo.
4. Stato di necessitàossia l’aver commesso il fatto per evitare un pericolo
grave, imminente e non volontariamente causato; è controverso se

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possa essere invocato come circostanza che escluda l’illiceità; la


necessità può essere sicuramente invocata quando il pericolo riguardi la
vita dell’individuo-organo che abbia commesso l’illecito o degli
individui a lui affidati (cd distress); ad esempio la nave che si rifugia
nel porto straniero senza autorizzazione dello stato costiero per sfuggire
alla tempesta; è incerto invece se la necessità possa essere invocata
riguardo allo stato nel suo complesso; l’art. 25 del progetto si pronuncia
in senso favorevole: “1. lo stato non può invocare lo stato di necessità
come causa di esclusione dell’illiceità di un atto non conforme ad un
obbligo internazionale se non quando l’atto: (a) costituisca l’unico
mezzo per proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave
ed imminente; e (b) non leda gravemente l’interesse essenziale dello
stato o degli stati nei confronti dei quali l’obbligo sussiste, oppure della
comunità internazionale nel suo complesso. 2. in ogni caso la necessità
non può essere invocata se: (a) l’obbligo internazionale in questione
esclude la possibilità di invocare la necessità; o (b) lo stato ha
contribuito al verificarsi della situazione di necessità”; la prassi è incerta
e non ha mai chiarito in che cosa esattamente consista la natura vitale o
essenziale di un interesse dello stato; va detto che, una volta bandito dal
diritto internazionale cogente l’uso della forza in tutte le sue
manifestazioni, inclusi i cd interventi umanitari o a protezione dei
propri cittadini all’estero, gli spazi per l’utilizzazione della necessità si
riducono a nulla.
5. Raccomandazioni le raccomandazioni degli organi internazionali
producono il cd effetto di liceità.
6. Rispetto dei principi costituzionali dello Stato può sostenersi che
l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una norma internazionale,
sempre che non si tratti di una norma di jus cogens, urti contro i
principi fondamentali della costituzione dello stato; ad esempio la corte
costituzionale italiana ha talvolta annullato le norme interne di
esecuzione di norme internazionali pattizie (in tema di estradizione per
reati punibili all’estero con la pena di morte, in tema di limitazione della
responsabilità del vettore) contrarie a principi costituzionali, mettendo
quindi gli organi dello stato nell’impossibilità di osservare le norme
medesime; l’art. 32 del Progetto esclude invece che il diritto interno
possa avere influenze sull’esclusione dell’illecito internazionale.
45.Gli elementi controversi: la colpa e il danno.
A parte i due elementi considerati, quello oggettivo e quello soggettivo, ci si
chiede se siano richiesti ulteriori elementi. Una questione a lungo dibattuta

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riguarda la necessità o meno che sussista la colpa dell’organo statale autore


della violazione.
Iniziamo dicendo che esistono tre tipi di responsabilità.
Responsabilità per colpa si richiede che l’autore dell’illecito abbia
commesso quest’ultimo intenzionalmente (dolo) o almeno con negligenza,
ossia trascurando di adottare misure necessarie per impedire l’evento
dannoso (colpa).
Responsabilità oggettiva relativa quando la responsabilità sorge per effetto
del solo compimento dell’illecito, ma l’autore di quest’ultimo può invocare,
per sottrarsi alla responsabilità, una causa di giustificazione consistente in un
evento esterno che gli ha reso impossibile il rispetto della norma (esempio:
forza maggiore). Si tratta di una responsabilità aggravata, perché la forza
maggiore è l’unica causa di giustificazione di solito ammessa, ma vi è uno
spostamento dell’onere della prova dalla vittima all’autore dell’illecito: non è
il primo a dover provare la colpa ma il secondo a dover provare l’esistenza
della causa di giustificazione.
Responsabilità oggettiva assoluta che non ammette alcuna causa di
giustificazione.
Venendo al diritto internazionale, la responsabilità dello stato, per molto
tempo e sulle orme di Grozio, era configurata come responsabilità per colpa
ritenendosi indispensabile ai fini del sorgere della responsabilità che il
comportamento dello stato fosse intenzionale o frutto di negligenza. Solo agli
inizi del secolo scorso si iniziò a sostenere la natura obbiettiva della
responsabilità internazionale.
Da allora la dottrina si è divisa e sono state sostenute varie posizioni. Qual è
allora la situazione?
Casi di responsabilità internazionale per colpa. Il regime di responsabilità
può anzitutto risultare specificatamente previsto in relazione alla violazione
di una determinata norma o di un determinato gruppo di norme. Così, ad
esempio, è la violazione del dovere di protezione degli stranieri o degli organi
stranieri che dia chiaramente luogo ad una responsabilità per colpa
consistendo tale violazione proprio nella circostanza che lo stato, rectius gli
organi statali, non abbiano usato la dovuta diligenza nella protezione.
Casi di responsabilità internazionale assoluta. In questo caso pensiamo alla
convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti
spaziali del 1972, ratificata da più di 80 paesi (tra cui l’Italia). L’art II della
convenzione stabilisce infatti: “lo stato di lancio ha la responsabilità assoluta

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per la riparazione dei danni causati dal suo oggetto spaziale alla superficie
della terra o agli aeromobili in volo”. La stessa convenzione, invece, prevede
all’art III che per i danni causati ad altri oggetti spaziali, il regime di
responsabilità sia quello per colpa.
Regola residuale: responsabilità oggettiva relativa. A parte i regimi specifici,
sia consuetudinari che convenzionali, il regime residuale, valido cioè in tutti
gli altri casi, è quello di responsabilità oggettiva relativa: lo stato risponde di
qualsiasi violazione del diritto internazionale da parte dei suoi organi, purché
non dimostri l’impossibilità assoluta, ossia da lui non provocata,
dell’osservanza dell’obbligo.
Il progetto non dedica alla colpa alcun articolo; ma dalla circostanza che la
colpa non è menzionata, all’art. 2, come elemento dell’illecito internazionale e
dalla circostanza che l’art. 23 considera la forza maggiore come causa di
esclusione dell’illiceità, può dedursi che il regime della responsabilità
obbiettiva relativa sia considerato dalla commissione come il regime generale
applicabile.
Danno. Il danno, sia materiale che morale, e dunque la lesione di un interesse
diretto e concreto dello stato nei confronti del quale l’illecito è perpetrato, non
è, per la commissione, elemento dell’illecito. L’inosservanza di determinate
norme, ad es. di quelle che obbligano lo stato a tutelare i diritti umani dei
propri cittadini o della norma sul divieto dell’uso della forza, da parte di uno
dei loro destinatari è sentita come un illecito nei confronti di tutti gli altri
anche quando un interesse diretto e concerto di questi ultimi non sia leso.
46.Le conseguenze del fatto illecito internazionale.
L’autotutela individuale e collettiva.
Le eccezioni all’uso della forza in autotutela.
Inquadramento delle conseguenze dell’illecito. Commessa una violazione del
diritto internazionale, lo stato deve risponderne. Ma quali sono le
conseguenze del fatto illecito?
Oggi, l’opinione più diffusa è che le conseguenze dell’illecito consistono in una
nuova relazione giuridica tra stato offeso e stato offensore, discendente da
una norma apposita, la cd norma secondaria contrapposta alla norma
primaria ossia alla norma violata. Non vi è accordo sul contenuto da dare a
questa relazione giuridica.
Secondo l’Anzilotti unicamente nel diritto dello stato offeso di pretendere e
nell’obbligo dello stato offensore di fornire un’adeguata riparazione (diritto e
obbligo= norma secondaria).

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La riparazione comprenderebbe sia il ripristino della situazione quo ante sia il


risarcimento del danno oppure, nel caso di danno immateriale, la
“soddisfazione” (come l’omaggio alla bandiera dello stato offeso).
Lo schema di Anzilotti è stato a lungo seguito; col tempo si è avuto una
tendenza a riportare sotto la norma secondaria e, quindi tra le conseguenze
giuridiche autonome dell’illecito, anche i mezzi di autotutela ed in particolare
le rappresaglie (“contromisure”): dal fatto illecito discenderebbe per lo stato
offeso sia il diritto di chiedere la riparazione sia il diritto (anzi facoltà) di
ricorrere a contromisure coercitive aventi autonomo scopo di infliggere una
vera e propria punizione allo stato offensore.
A questa impostazione si contrappone Kelsen. Egli rileva la inutilità del rifarsi
al binomio di diritto e obbligo alla riparazione; perché? perché una
costruzione del genere condurrebbe ad un regressus ad infinitum dato che la
violazione dell’obbligo di riparare, costituendo a sua volta un fatto illecito,
produrrebbe un altro obbligo di riparare e così di seguito.
Per Kelsen, invece, l’illecito avrebbe come unica e immediata conseguenza il
ricorso alle misure di autotutela (rappresaglia e guerra) mentre la riparazione
sarebbe soltanto eventuale e dipenderebbe dalla volontà dello stato offeso e
dello stato offensore di evitare l’uso della coercizione, regolando in modo
pacifico, mediante un accordo diretto o attraverso il ricorso all’arbitrato, la
questione. Le misure di autotutela non costituirebbero oggetto di un rapporto
giuridico tra stato offeso e stato offensore, non sarebbero inquadrabili come
diritto del primo ad esercitarlo e obbligo del secondo a subirlo: esse avrebbero
natura di azione coercitiva (la stessa natura che avrebbero la pena e
l’esecuzione nel diritto interno).
In linea di massima l’idea di Kelsen viene appoggiata; per gli autori del
manuale la fase patologica del diritto internazionale è, infatti, una fase poco
normativa e a caratterizzarla sono per l’appunto le reazioni contro l’illecito.
Nello specifico però, chiariamo, queste reazioni (le misure di autotutela) non
hanno come scopo caratteristico quello di punire: esse sono
fondamentalmente dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato ossia a far
cessare l’illecito e a cancellarne, ove possibile, gli effetti.
Autotutela. La norma reazione contro l’illecito è, quindi, l’autotutela cioè il
farsi giustizia da sé.
Autotutela e divieto della minaccia o dell’uso della forza. A partire dalla fine
della seconda guerra mondiale si è fatta strada l’opinione, espressa anche
dalla CIG, secondo cui l’autotutela non possa consistere nella minaccia o

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nell’uso della forza, minaccia ed uso essendo vietati dall’art 2 par 4 della carta
delle nazioni unite.
Liceità della legittima difesa come risposta all’aggressione armata . Il
principio che vieta il ricorso alla forza ha carattere cogente ma trova un limite
generale nella legittima difesa, intesa come risposta ad un attacco armato già
sferrato. L’art 51 della carta, infatti, riconosce “il diritto naturale di legittima
difesa individuale e collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato
contro un membro delle nazioni unite”.
Nozione di aggressione. L’attacco o aggressione si ha non solo quando ad attaccare
sono forze regolari ma anche quando lo stato agisce con bande irregolari o di mercenari da
esso assoldati. La corte ha affermato che non costituisce aggressione armata la sola
assistenza data a forze ribelli che agiscono sul territorio di uno stato, sotto forma di
fornitura di armi, assistenza logistica e simili (tale assistenza concreterebbe solo un’ipotesi
di violazione del divieto di ingerirsi negli affari altrui).
In due importanti sentenze la corte ha ribadito che la legittima difesa è circoscritta al caso
di risposta ad un attacco armato e non “a forme meno gravi di uso della forza”.
Legittima difesa e armi nucleari. La legittima difesa ex art. 51 può essere esercitata
anche con armi nucleari, purché nel rispetto del principio di proporzionalità della risposta
rispetto all’attacco e del diritto umanitario di guerra.

Uso della forza per scopi umanitari. Ci si chiede se il divieto dell’uso della
forza abbia altre eccezioni oltre quella prevista dall’art 51 della carta delle
nazioni unite. Abbiamo due filoni.
Primo filone è quello umanitario: c’è chi sostiene che interventi armati
siano ammissibili per proteggere la vita dei propri cittadini all’estero, o anche
per ridurre alla ragione stati che compiano violazioni gravi di diritti umani nei
confronti dei loro stessi cittadini (intervento degli stati della NATO contro la
Repubblica Iugoslava per i massacri compiuti nel Kosovo). A riguardo
parliamo di un cd “responsabilità di proteggere” qualora lo stato venga
meno a tale responsabilità anche nei confronti dei propri cittadini, gli altri
stati possono intervenire.
Legittima difesa non prevista dalla carta delle nazioni unite. Secondo filone
è quello dell’estensione della categoria della legittima difesa individuale e
collettiva ad ipotesi chiaramente non previste dall’art 51 della carta delle
nazioni unite: l’estensione è stata praticata per legittimare l’uso della forza in
via preventiva o per giustificare le reazioni contro stati sul cui territorio
gruppi terroristici stabiliscono le loro basi e preparano attacchi contro altri
stati.
La dottrina della legittima difesa preventiva è contenuta nel documento
“strategia per la sicurezza nazionale degli stati uniti” (cd dottrina Bush):

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secondo tale documento, la legittima difesa preventiva potrebbe essere


esercitata dagli Stati Uniti ogni qualvolta ciò si rendesse necessario per
prevenire una immanente minaccia o un immanente attacco con armi di
distruzione di massa o atti di terrorismo.
La legalità dell’uso della forza nei casi ora citati ha sempre suscitato
opposizione da parte di molti stati, specie i più deboli. Per quanto riguarda il
filone umanitario si è insistito sul fatto che l’uso della forza, a parte la
legittima difesa, non possa essere autorizzato dal consiglio di sicurezza
dell’ONU nel quadro del sistema di sicurezza collettiva. A sua volta
l’estensione dei casi di legittima difesa, specie per ricomprendervi le reazioni
al terrorismo, è apparsa niente più che un espediente per giustificare un
illegittimo uso della forza dato che l’attacco armato, di cui parla l’art 51,
comporta l’utilizzo di forze militari da parte di uno stato e dato che la
“risposta” all’attacco non può che essere immediata e diretta a respingere
un’aggressione.
In effetti la tesi della legittima difesa lascia perplessi trattandosi, comunque, di crimini
internazionali individuali che come tali andrebbero puniti, senza produrre altre vittime
innocenti. In due importanti risoluzioni del consiglio di sicurezza da un lato si insiste sulla
necessità che gli stati collaborino per assicurare alla giustizia gli autori dell’attacco e i loro
sostenitori e finanziatori; dall’altro, si decide che gli stati prendano una serie di misure non
implicanti l’uso della forza, tra cui la prevenzione e la soppressione di ogni finanziamento
del terrorismo, il divieto di fornitura di armi ai terroristi, l’adozione di severe norme penali
contro i terroristi ecc.

Non c’è dubbio che il divieto della minaccia o dell’uso della forza abbia come
pendant il sopra accennato sistema di sicurezza collettiva delle nazioni unite,
e deve quindi fare i conti con la nota inefficienza del consiglio di sicurezza. Da
ciò consegue che, quando la forza è usata su larga scala, quando si è in
presenza di una vera e propria guerra internazionale, e non di un episodio
isolato di uso della forza, e d’altro canto il sistema di sicurezza collettiva
dell’ONU non riesce a controllarla e a funzionare, forse c’è da prendere atto
che il diritto internazionale, sia quello consuetudinario che quello delle
nazioni unite, ha esaurito la sua funzione. La guerra non può allora essere
valutata giuridicamente ma solo politicamente e moralmente: politicamente e
moralmente essa può essere giustificata o condannata a seconda dei valori che
persegue e del suo eventuale presentarsi come male minore, ma dal punto di
vista giuridico essa non è né lecita né illecita, è indifferente.
Jus in bello e jus ad bellum. Tutto ciò fin qui detto riguarda il cd jus ad bellum
(diritto di fare la guerra). Diverso è il jus in bello (ossia esteso corpo di
regole, sia consuetudinarie che pattizie, che entrano in vigore tra i belligeranti
una volta che la guerra sia scatenata). Esso è costituito da norme che tendono
a mitigare le asprezze della lotta tra i belligeranti, a proteggere le popolazioni

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civili, a tutelare i paesi estranei al conflitto e ad imporre la punizione dei


crimini di guerra.
Natura internazionale della forza vietata. Bisogna capire qual è il tipo di forza
vietata. Iniziamo col tenere a mente la distinzione tra la forza internazionale
dalla forza interna: ad essere vietata è la forza internazionale e cioè le
operazioni militari di uno stato contro un altro stato. Ciò che, invece, non è
vietato è l’uso della forza interna, quale forza che rientra nel normale esercizio
della potestà di governo dello stato.
Ma, essendo un’azione della forza interna corrispondente ad un’azione di polizia, che può
anche avere carattere violento, talvolta la distinzione tra forza internazionale e interna
diviene difficile. La distinzione diviene difficile in certi casi limite e l’unico criterio
utilizzabile è quello del luogo ove l’azione dello stato è stata commessa: l’azione dello stato
nei limiti del suo territorio è sempre un’azione di polizia interna (sempre che non abbia
come oggetto mezzi bellici che si trovino sul suo territorio con la sua autorizzazione);
mentre l’impiego della forza da parte dello stato contro comunità o mezzi di altri stati fuori
dal suo territorio è un’ipotesi dell’uso della forza internazionale.

Contromisure. La specie più importante di autotutela è la rappresaglia (o


contromisura): comportamento dello stato leso, che in sé sarebbe illecito, ma
che diviene lecito in quanto costituisce reazione ad un illecito altrui (in
pratica: lo stato leso può, per reagire contro lo stato offensore, violare a sua
volta, ovviamente nei confronti di quest’ultimo, gli obblighi che gli derivano
da norme consuetudinarie).
Limite della proporzionalità. Le contromisure incontrano vari limiti. Un
limite importante, fra quelli di carattere generale, è costituito dalla
proporzionalità tra la violazione subita e la violazione commessa per
contromisura: si richiede non tanto una vera e propria corrispondenza, ma
che non vi sia eccessiva sproporzione fra le due violazioni; se sproporzione c’è,
la contromisura diviene illecita per la parte eccedente.
Limite del rispetto del diritto cogente. Altro limite è quello relativo
all’impossibilità di ricorrere a violazioni del diritto internazionale cogente,
anche nel caso in cui si tratti di reagire a violazioni dello stesso tipo (con
l’eccezione consistente nella possibilità di usare la forza per respingere un
attacco armato).
Limite del rispetto dei principi umanitari. Assorbito dal rispetto del diritto
cogente è il limite del rispetto dei principi umanitari, limite che la dottrina ha
sempre ricollegato alle rappresaglie, soprattutto alle rappresaglie consistenti
nell’inosservanza degli obblighi verso gli stranieri. A nostro avviso il diritto
cogente segna esattamente l’ambito entro il quale la contromisura diviene
illegittima: se gli stati possono derogare ad una norma mediante accordo non
si vede perché non possano derogarvi a titolo di contromisura. A parte,

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quindi, il rispetto per la dignità umana e a parte il divieto delle grosse


violazioni dei diritti umani, non convince la tesi di chi estende il divieto di
contromisure a tutte le norme internazionali, sia internazionali che pattizie,
sui diritti umani o a quelle relative alle immunità degli agenti diplomatici.
Limite del previo esaurimento dei mezzi di soluzione delle controversie. Si
ritiene poi che alla contromisura non possa farsi ricorso se non si sia prima
tentato di giungere ad una soluzione concordata della controversia, anche se
la prassi è molto incerta. Inoltre, nulla può impedire ad uno stato che si trovi
a dover fronteggiare una situazione di emergenza di prendere le necessarie
contromisure.
abbiamo detto che, quindi, il termine contromisura è da considerare
principalmente come termine rappresaglia, proprio per indicare qualsiasi
violazione del diritto internazionale che lo stato leso ponga in essere nei
confronti dello stato offensore per reintegrare l’ordine giuridico violato.
La legittima difesa come forma di contromisura. Tra le contromisure così
intese va annoverata anche l’inosservanza del divieto dell’uso della forza nel
caso in cui occorra respingere un attacco armato (legittima difesa, art 51 carta
ONU). Tutti gli elementi caratterizzanti le contromisure sono presenti in
questa reazione contro il più grande illecito che uno stato possa subire: in
particolare è presente il limite della proporzionalità tra attacco subito e
contrattacco. Ad esempio, è stata sproporzionata nel 2014 la reazione di Israele al lancio
di missili sul suo territorio da parte di militanti di Hamas, missili partiti dalla striscia di
Gaza. La reazione è consistita in bombardamenti indiscriminati, con oltre 2000 morti tra
la popolazione civile e molti feriti, (reazione che possiamo addirittura considerare non solo
sproporzionata ma come un vero e proprio crimine di guerra).
Distinzione legittima difesa e rappresaglia: in realtà è lo stesso termine legittima difesa ad
essere adoperato in modo improprio. La legittima difesa ha essenzialmente carattere
preventivo e, dunque il qualificare come tali le azioni armate aveva senso quando si voleva
sottolineare che fosse legittimo non solo e non tanto respingere gli attacchi in itinere
quanto prevenire l’aggressione altrui.

Contromisure non violente. Si tratta di misure dal carattere legislativo o


amministrativo che lo stato adotta nella sua comunità e che si risolvono nella
violazione di norme internazionali come reazione alle violazioni altrui.
Ritorsione. Come specie del genere dell’autotutela va considerata anche la
ritorsione, che si distingue dalla rappresaglia in quanto non consiste nella
violazione di norme internazionali ma soltanto in un comportamento
inamichevole, come l’attenuazione o la rottura dei rapporti diplomatici (non
vi è alcun obbligo internazionale di intrattenere tali rapporti), oppure
l’attenuazione o la rottura della collaborazione economica e commerciale
(quando non vi siano trattati che la impongano). Si dice che la ritorsione non

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sia una forma di autotutela, dato che lo stato può sempre tenere un
comportamento inamichevole verso un altro stato anche senza aver subito un
illecito.
Ma, l’opinione non è convincente perché, in un ordinamento come quello
internazionale in cui manca un sistema accentrato di garanzie per l’attuazione
del diritto, non è il caso di sottolineare sui mezzi di pressione che gli stati
possono porre in essere per sopperire a tale mancanza, purché si tratti di
mezzi leciti.
Altro argomento che ci porta a ricondurre la ritorsione alla categoria
dell’autotutela è fornito dalla prassi in materia di sanzioni economiche
(interruzione parziale o totale dei rapporti commerciali, interruzione di un
programma di aiuto allo sviluppo), sanzioni alle quali sempre di più si ricorre
per far cessare violazioni di norme internazionali ed anche di norme che non
riguardano rapporti economici.
Ritorsione e misure decise dalle Nazioni Unite. La ritorsione va inoltre tenuta
distinta dalle misure che il consiglio di sicurezza dell’ONU può deliberare in base all’art. 41
della Carta, in caso di minaccia o violazione della pace o di atto di aggressione. Tali misure
comprendono “l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle
comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali ecc e la rottura delle relazioni
diplomatiche”: si tratta di misure che, inquadrandosi nel sistema di difesa collettiva della
Nazioni Unite, gli stati possono essere obbligati ad attuare .

Autotutela collettiva. Circa il problema se le reazioni possano provenire da


stati che non abbiano subito alcuna lesione. Tale problema viene posto in
primis per certe convenzioni multilaterali che tutelano interessi che fanno
capo alla collettività degli stati contraenti o addirittura valori particolarmente
sentiti nella comunità internazionale, come le convenzioni sui diritti umani
(cd obblighi erga omnes partes): in secondo luogo, tale problema viene poi
posto nell’ambito del diritto consuetudinario, per le norme che prevedono
obblighi erga omnes, ossia verso la comunità internazionale nel suo
complesso.
Obblighi erga omnes partes. Di tali obblighi (come obblighi interessanti
giuridicamente tutti gli stati) parlò per prima la CIG in un celebre passo della sentenza del
1970, caso Barcellona Traction Light and Power, portando come esempi il divieto di
aggressione, l’obbligo di rispettare l’autodeterminazione dei popoli, il genocidio, il divieto
di schiavitù, l’apartheid, il divieto di inquinare in modo massicci l’atmosfera ecc. La corte
ha poi fatto riferimento a tale categoria anche in successive sentenze; anche la CDI ha
dedicato molta attenzione agli obblighi erga omnes partes che ha finito per identificarli con
quelli derivanti dalle norme di jus cogens.

Regimi speciali di autotutela collettiva. Ciò premesso, qual è per il diritto


internazionale positivo la disciplina degli obblighi erga omnes e degli obblighi

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erga omnes partes? Che reazione possono mettere in atto gli “omnes” in caso
di inosservanza di simili obblighi?
Legittima difesa collettiva contro attacchi armati. Diciamo che, però, non si
può dire che trattandosi di obblighi esistenti erga omnes o erga omnes partes,
ogni stato abbiano senz’altro il diritto a reagire con contromisure in caso di
violazione ed in nome dell’interesse comune. Nulla esclude, invece, che si
tratti di obblighi sprovvisti di sanzioni: nulla esclude che, pur sussistendo
l’illecito internazionale, non ne conseguenza una responsabilità, o ne
conseguenza una forma attenuta di responsabilità dello stato autore.
Ciò premesso è innegabile che la possibilità per stati terzi di intervenire sia
prevista da singole norme consuetudinarie internazionali. Il caso più
importante è quello della legittima difesa collettiva in caso di attacchi armati,
riconosciuta dall’art 51 della carta nazionale delle nazioni unite ed ammessa
dallo stesso diritto internazionale generale: come la corte ha stabilito le
misure, anche militari, che lo stato terzo può prendere devono rispondere ai
criteri della necessità e della proporzionalità e comunque presuppongono
una precisa richiesta dello stato aggredito.
Altra norma consuetudinaria che possiamo ricordare è quella che vincola tutti
gli stati a negare effetti extraterritoriali agli atti di governo (leggi, sentenze,
atti amministrativi) emanati in un territorio acquistato con la forza o detenuto
in dispregio del principio di autodeterminazione dei popoli. Egualmente può
ricordarsi la norma che autorizza tutti gli stati a prestare supporto ai
movimenti che lottano per la liberazione del loro territorio dal dominio
straniero e quindi contro la violazione, nel territorio medesimo, del principio
di autodeterminazione dei popoli.
Inesistenza di un regime generale di autotutela collettiva. Quindi, è chiaro che
quando ci si chiede se stati non direttamente lesi possano reagire in caso di
illeciti internazionali, la questione ha valore residuale rispetto ai casi ora
indicati. Trattasi di stabilire se, escluso il sistema delle nazioni unite, escluso
quanto possano prescrivere singole norme consuetudinarie o pattizie,
esistano principi generali che consentano ad uno stato di intervenire a tutela
di un interesse fondamentale della comunità internazionale o di un interesse
collettivo.
Nonostante questa tesi sia sostenuta in larga parte dalla dottrina, gli autori
del manuale hanno sempre dato una risposta negativa per quanto riguarda la
possibilità di adottare vere e proprie contromisure, ossia la possibilità di
sospendere l’esecuzione di obblighi che gravino sullo stato non direttamente
leso nei confronti dello stato offensore. A nostro avviso la prassi non offre
elementi significativi e decisivi in senso contrario. È sintomatico che coloro

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che si pronunciano a favore di una generalizzata autotutela collettiva si


riferiscono per la maggior parte a casi di violazione del divieto dell’uso della
forza: trattasi di reazioni collettive che, anche quando sono state
caratterizzate non solo da interventi militari ma anche da contromisure non
implicanti l’uso della forza (in particolare da contromisure economiche)
rientrano chiaramente nella legittima difesa collettiva, ammessa per suo
conto dall’art 51 della carta delle nazioni unite e dal diritto consuetudinario; è
impossibile, dunque, utilizzarle per ricavarne conclusioni generalizzate.
Autotutela collettiva e ritorsione. Esclusa la possibilità per gli stati non
direttamente interessati di prendere contromisure, il discorso è diverso per
quanto riguarda il ricorso a comportamenti soltanto inamichevoli, ossia
ritorsioni, trattandosi (da un lato) di comportamenti leciti e quindi sempre
adattabili; (dall’altro) di mezzi di pressione che possono rivelarsi efficaci (si
pensi alle ritorsioni economiche) per far cessare l’illecito e che come tali sono
inquadrabili nell’autotutela collettiva.
Le norme del progetto della CDI non presentano divergenze di grande rilievo
rispetto a quanto qui sostenuto. Dopo aver delimitato la materia con
riferimento alle “violazioni gravi o sistematiche” delle norme cogenti
internazionali, il Progetto, all’art 41 individua come “particolari conseguenze”
derivanti da simili violazioni l’obbligo di tutti gli stati di non cooperare con lo
stato autore dell’illecito e di non riconoscere come valida una situazione che
dall’illecito deriva, ossia tenere comportamenti che per l’appunto sono
qualificabili come ritorsioni. L’art 48 del progetto aggiunge che, nel caso di obblighi
erga omnes, gli stati non direttamente lesi possono “invocare” la responsabilità dello stato
autore dell’illecito, nel senso di pretendere la cessazione dell’illecito e la sua riparazione
nell’interesse dello stato leso o dei beneficiari dell’obbligo violato. Non è ben chiaro cosa si
intenda per “pretendere”, ciò che è certo è che la pretesa non è considerata come assortita
da contromisure, dato che per queste l’art 54 lascia soltanto “impregiudicato” la questione
se esista un diritto dello stato non direttamente leso di prenderle.
Disciplina dell’autotutela negli statuti delle organizzazioni internazionali.
abbiamo detto che l’autotutela è istituto del diritto consuetudinario.
Naturalmente lo stato può obbligarsi, mediante trattato, a non ricorrere a
misure di autotutela o a ricorrervi a certe condizioni. Obblighi del genere sono
ricavabili soprattutto dai trattati istitutivi delle organizzazioni internazionali.
In primis, è da ritenere implicito, nel vincolo di solidarietà e di collaborazione
tra gli stati membri di qualsiasi organizzazione, l’obbligo di non ricorrere
all’autotutela ed in particolare di non reagire con la propria inadempienza a
quella altrui, se non come extrema ratio e solo dopo aver esperito tutte le
strade eventualmente offerte dalla stessa organizzazione per ottenere
giustizia.

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Può darsi, poi, che norme limitative dell’autotutela siano espressamente


previste, sia nel senso di non potervi neppure ricorrere sia nel senso di potervi
ricorrere solo a certe condizioni.
Esempio del primo tipo: art 260 par 2 del TFUE che demanda esclusivamente
alla corte di giustizia dell’unione europea il compito di imporre il pagamento
di una somma forfettaria o di una penalità allo stato membro il quale abbia
compiuto una violazione del trattato, previamente constatata dalla corte
stessa, e non abbia preso i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti.
Esempio del secondo tipo: articolo 51 della carta secondo il quale la legittima
difesa contro un attacco armato può essere esercitata “fintantoché il consiglio
di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la
sicurezza internazionale”. Trattandosi di respingere un attacco armato, le
misure “necessarie” previste dall’art 51 non possono che essere quelle previste
dagli articoli 42 ss (ossia le misure militari direttamente intraprese dal
consiglio o almeno quelle non implicanti l’uso della forza di cui all’art 41 della
stessa carta). Ad ogni modo il consiglio può decidere che, in un caso
determinato, il limite posto dall’art 51 non si applichi.
Autotutela e diritto interno. Il tema dell’autotutela ha i suoi riflessi anche nel
diritto statale: l’operatore interno, prima di concludere che una determinata
legge o un certo atto amministrativo siano contrari a norme materiali di
diritto internazionale, dovrà chiedersi se la legge o l’atto amministrativo non
si giustifichino in base allo stesso diritto internazionale in quanto
contromisure. Ad esempio: il giudice costituzionale, chiamato a pronunciare
l’illegittimità di una legge contraria al diritto internazionale consuetudinario,
ai sensi dell’art 10 cost, oppure di una legge contraria ad un trattato, ai sensi
dell’art 117 cost, dovrà chiedersi tra l’altro se una tale legge non si giustifichi
come misura di autotutela; così il giudice ordinario, che sia chiamato a far
prevalere, in base al principio di specialità, le norme di un trattato rispetto
alle norme di una legge ordinaria, potrà negare tale prevalenza se la legge è
inquadrabile come attuazione di autotutela.
Condizione di reciprocità. L’ordinamento interno può anche predisporre dei
meccanismi di carattere generale che rendano automaticamente praticabile la
violazione di norme internazionali, a titolo di contromisura, da parte di organi
statali. Un meccanismo del genere è appunto la condizione di reciprocità un
determinato trattamento viene accordato agli stati, agli organi e ai cittadini
stranieri a condizioni che il medesimo trattamento sia accordato allo stato
nazionale, ai suoi organi e ai suoi cittadini.
La reciprocità deve essere sempre accertata dal giudice e non dagli organi del
potere esecutivo (la corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità

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costituzionale della norma della L. n. 1263/26, secondo cui era il potere


esecutivo ad accertare la reciprocità e dopo averla accertata doveva
autorizzare l’esecuzione forzata sui beni di uno stato estero).
La reciprocità non è utilizzata esclusivamente come base per l’adozione di
eventuali contromisure, ma spesso costituisce soltanto il presupposto di
concessioni dettate da puri motivi di cortesia, come avviene, ad esempio, se
uno stato accorda l’esenzione fiscale agli agenti diplomatici stranieri, per
imposte diverse da quelle dirette personali, a condizione di reciprocità. In
questo caso la reciprocità attiene alla materia delle ritorsioni.
47.La riparazione.
Restitutio in integrum. Nella riparazione si fa rientrare anzitutto l’obbligo
della restituzione in forma specifica (restitutio in integrum) ossia del
ristabilimento della situazione di fatto e di diritto esistente prima del
compimento dell’illecito, sempre che il ristabilimento sia possibile. Pensiamo
alle restituzioni di persone, di cose, di navi, di documenti ecc, illegittimamente detenuti,
nonché l’esecuzione in forma specifica di obblighi convenzionali.
NB tale dovere di far cessare l’illecito e di cancellarne ove possibile gli effetti appare
come aspetto dello stesso obbligo violato e, quindi, non lo si configura come oggetto di un
obbligo nuovo prodotto dalla violazione.

Soddisfazione. Anche la “soddisfazione” è considerata una forma di


riparazione; una forma di riparazione di danni morali, dovuta per il solo fatto
che l’illecito sia stato compiuto e a prescindere dalla richiesta di risarcimento
degli eventuali danni di carattere patrimoniale; pensiamo, sempre da parte
dello stato offensore nei confronti dello stato leso, alla presentazione ufficiale
di scuse, l’omaggio alla bandiera o ad altri simboli dello stato leso, il
versamento di una somma simbolica ecc.
La CIG, nella sentenza del 1949 nell’affare dello Stretto di Corfù, ha affermato
che la “soddisfazione” può anche essere costituita dalla semplice
constatazione dell’avvenuta violazione ad opera di un tribunale
internazionale: con il che non si capisce come si possa continuare a parlare di
un obbligo di fornire soddisfazione, ove si consideri che nessuno sostiene che
l’autore dell’illecito sia tenuto a sottoporsi al giudizio di un tribunale.
Con riguardo alla prassi contemporanea, tutto ciò che può dirsi dal punto di
vista giuridico è che la presentazione ufficiale di scuse o una prestazione di
carattere simbolico, o il ricorso ad un tribunale internazionale, se accettati
dallo stato leso, facciano normalmente venire meno la ulteriore conseguenza
del fatto illecito e in particolare il ricorso a misure di autotutela.

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La soddisfazione, lungi dal costituire l’oggetto di un obbligo dello stato


offensore, va a formare allora il contenuto di una sorta di accordo, espresso o
tacito, che, direttamente o attraverso una decisione di un tribunale
internazionale, elimina ogni questione tra stato offeso e stato offensore.
Risarcimento del danno. In definitiva, l’unica vera forma di riparazione è
costituita dal risarcimento del danno prodotto dall’illecito internazionale.
bisogna chiedersi se l’obbligo di risarcire scaturisca da ogni e qualsiasi
violazione di norme internazionali.
Danni agli stranieri. Senza dubbio, come si ricava da un’abbondante prassi, lo
stato “al qual lo straniero maltrattato appartiene fa valere, agendo in
protezione diplomatica per il risarcimento del danno, un diritto suo proprio
che nasce dalla lesione prodotta alla persona o ai beni del suo suddito.
Danni agli stati. Ma, a parte ciò la prassi non è molto certa. Si ritiene,
pertanto, che il risarcimento sia senz’altro dovuto quando la violazione del
diritto internazionale consista in, o si accompagni ad, un’azione violenta,
contro beni, mezzi ed organi dello stato, come il danneggiamento di sedi
diplomatiche e consolari, il danneggiamento o la distruzione di navi o aerei
ecc. Fuori da questi casi, è difficile ritenere che il diritto internazionale
consuetudinario imponga che il danno venga risarcito e ciò ove si consideri
che c’è tutta una serie di settori in cui danni patrimoniali certamente vengono
prodotti da altri stati (esempio la violazione di norme sulla navigazione
marittima e la violazione di accordi commerciali e finanziari) ma che
normalmente non costituiscono oggetto di pretese di risarcimento.
Danni allo straniero-organo. Per quanto riguarda i danni prodotti dalle
lesioni arrecate a stranieri che ricoprono la qualifica di organo, dobbiamo
distinguere tra a) danni subito dall’individuo (che vanno inquadrati
nell’esercizio della protezione diplomatica) e b) danni subiti
dall’organizzazione statale (cd danni alla funzione): in ogni caso i danni
risarcibili sono quelli materiali dato che la prassi esclude la possibilità di
tradurre in termini monetari le violazione del diritto internazionale che non
producano danni siffatti.
Risarcimento del danno agli stati e risarcimento del danno agli individui .
Tutto ciò riguarda l’obbligo di risarcimento del danno relativo ai rapporti fra
stati. Diverso è il caso dei trattati che prevedono che lo stato contraente abbia
l’obbligo di risarcire direttamente gli individui, stranieri o cittadini,
danneggiati dalla violazione del trattato medesimo: ad esempio la
Convenzione europea sui diritti umani stabilisce che qualora, accertata dalla
corte europea dei diritti umani una violazione della convenzione, il diritto
interno non permetta di eliminare le conseguenze della violazione, la corte

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possa concedere un risarcimento alla parte lesa. Circa il diritto internazionale


generale, può ritenersi che dall’obbligo che incombe sullo stato di non
compiere gravi violazioni dei diritti umani, possa ricavarsi un diritto al
risarcimento da far valere innanzi ai giudici dello stesso stato.
48.La cd responsabilità da fatti leciti.
Responsabilità da attività pericolose ed inquinanti. Si discute se in alcuni casi
la responsabilità internazionale possa derivare da fatti leciti. In tal senso il
settore che è preso in considerazione è quello delle attività altamente
pericolose e inquinanti, come quelle delle centrali nucleari, delle industrie
chimiche ecc; ci si chiede, quindi, se lo stato, pur essendo libero di svolgere o
far svolgere, nel suo territorio qualsiasi attività, anche la più pericolosa, non
debba poi rispondere dei danni causati al territorio (o navi o aerei) di altri
stati.
In ogni caso è difficile distinguere la responsabilità senza illecito dalla
responsabilità senza colpa e quindi dalla responsabilità oggettiva, sia relativa
che assoluta. Quello che possiamo dire è che una responsabilità oggettiva può
essere qualificata come responsabilità senza illecito quando lo stato è
chiamato a rispondere non soltanto delle attività svolte dai suoi organi ma
anche delle attività svolte da individui posti sotto il suo controllo (quando,
quindi, l’attività che dà luogo alla responsabilità non è ad esso imputabile).
Ma, non ci sembra che il diritto internazionale conosca una responsabilità
così sofisticata e cosi improntata al solidarismo, come la responsabilità da
fatto lecito.
Responsabilità internazionale e responsabilità interna. Numerose
convenzioni si occupano del risarcimento dei danni prodotti da attività
pericolose; queste, però, a parte la convenzione in tema di responsabilità di
lanci spaziali, non si riferiscono alla prassi internazionale ma a quella di
diritto interno. Trattasi di convenzioni che si limitano ad imporre agli stati
contraenti l’obbligo di predisporre al loro interno sistema appropriati di
responsabilità civile o addirittura penale.
Sull’argomento della responsabilità da atto lecito la CDI si è esercitata e,
infatti, nel 2001 e nel 2006 ha adottato due progetti di articoli: il primo sulla
“prevenzione dei danni oltre frontiera derivanti da attività pericolose”, il
secondo “sulla riparazione di tali danni una volta prodotti”.
Il primo progetto prevede una serie di obblighi autonomi, di carattere
materiale o procedurale, imposti allo stato sotto il cui controllo le attività
pericolose sono effettuate. Il secondo prevede l’obbligo degli stati dal cui
territorio il danno è derivato, di avere al proprio interno adeguate leggi e

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ricorsi per far valere la responsabilità di coloro che hanno svolto la relativa
attività pericolosa.
In questo quadro della responsabilità da atto lecito dovremmo inserire anche la norma di
cui all’art 110 della convenzione di MB che autorizza eccezionalmente la visita di navi
mercantili straniere in alto mare quando vi sia il sospetto che esse pratichino la pirateria,
la tratta degli schiavi ecc; ma aggiunge che se il sospetto si dimostra infondato la nave
stessa deve essere indennizzata.

49.Il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla carta delle


Nazioni Unite.
Azioni del consiglio di sicurezza a tutela della pace. La carta delle nazioni
unite da un lato sancisce il divieto dell’uso della forza nei rapporti
internazionali (art 2 par 4) e dall’altro accentra in un organo delle nazioni
unite, il consiglio di sicurezza, la competenza a compiere le azioni necessarie
per il mantenimento della pace e dell’ordine tra gli stati, ed in particolare ad
usare la forza a fini di polizia internazionale.
Il sistema di sicurezza accentrato ha poco e male funzionato fino alla caduta
del muro di Berlino a causa del diritto di veto riconosciuto alle grandi
potenze, della divisione del mondo in blocchi contrapposti e della guerra. A
partire dalla Guerra del Golfo (1991) esso ha invece avuto una seconda vita,
divenendo l’attività principale delle Nazioni Unite.
Nel quadro del sistema di sicurezza collettiva è degna di nota l’istituzione della
commissione per la costruzione della pace (Peacebuilding Commission) ad opera di due
risoluzioni identiche dell’assemblea generale e del consiglio di sicurezza nel 2005 e definita
come un “Corpo consultivo intergovernativo”. La commissione è destinata ad occuparsi
delle situazioni post-conflittuali, del ristabilimento di condizioni normali e di sviluppo nei
paesi dove dette situazioni si verificano, e del coordinamento di tutte le attività in materia,
dando pareri al consiglio di sicurezza e al segretariato generale nonché, ma a certe
condizioni, all’assemblea generale, al consiglio economico e sociale e (talvolta) anche agli
stati membri: infatti, la sua competenza non si limita al settore del mantenimento della
pace.

Discrezionalità del consiglio di sicurezza. Ai sensi del cap. VII, il consiglio di


sicurezza accerta innanzitutto l’esistenza di una minaccia alla pace, di una
violazione della pace o di un atto di aggressione (art. 39), e stabilisce poi sia
quali misure sanzionatorie ma non implicanti l’uso della forza, come
l’interruzione totale o parziale delle comunicazioni e delle relazioni
economiche da parte degli altri Stati (art. 41), sia implicanti l’uso della forza
(art. 42 ss.) debbano essere prese nei confronti di uno stato. Prima di
ricorrere alle une o alle altre, esso può invitare le parti interessate a prendere
quelle “misure provvisorie” che consideri necessarie al fine di non aggravare
la situazione (art. 40). Spesso il Consiglio, dichiarando di agire in base al cap.
VII, ricorre a misure che invece non vi trovano fondamento in una delle

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norme di quest’ultimo: se tali misure sono avallate dalla prassi, debbono


considerarsi come previste da consuetudini sovrappostesi alle norme scritte.
Nell’accertare se esista una minaccia o violazione della pace o un atto di
aggressione, il consiglio gode di un larghissimo potere discrezionale,
soprattutto con riferimento all’ipotesi della “minaccia alla pace” si presta ad
inquadrare i più vari comportamenti di uno stato.
La discrezionalità del consiglio, così come stabilita dall’art 39, è rimasta
integra anche dopo l’adozione, da parte dell’assembla generale, di una
dichiarazione sulla definizione dell’aggressione e ciò anche a prescindere dalla
natura non vincolante delle dichiarazioni di principi dell’assemblea. Nella
dichiarazione vengono elencate una serie di ipotesi di aggressione, che vanno
dall’invasione o occupazione militare, anche se temporanea, al
bombardamento da parte di forze aeree, terrestri, navali, al blocco di porti e
delle coste ecc. Si tratta di un’elencazione che non incide sull’art 39 e sulle
competenze del consiglio di sicurezza, ove si consideri che la stessa
dichiarazione riconosce: che il consiglio possa stabilire, tenuto conto delle
circostanze del singolo caso concreto, che la commissione di uno degli atti
elencati non giustifichi il suo intervento; che il consiglio medesimo possa
considerare come aggressione anche atti non elencati; e che la definizione di
aggressione, più in generale, contenuta nella risoluzione non pregiudichi le
funzioni degli organi dell’ONU così come previste dalla carta.
La grande discrezionalità di cui gode il consiglio di sicurezza fa si che lo stesso
possa considerare, come minaccia alla pace, anche un comportamento che
non leda in alcun modo un interesse fondamentale della comunità
internazionale nel suo complesso. Perché? perché il sistema di sicurezza
dell’ONU si ispira ad una logica diversa da quella che potrebbe essere la logica
di un organo a difesa dell’ordine giuridico violato: esso consiste non tanto in
principi materiali, bensì in regole procedurali ossia in norme sulla
competenza dell’organizzazione; è il rispetto di queste regole e di queste
procedure a garantire la “giuridicità” degli interventi sanzionatori del
consiglio.
A)Misure provvisorie “Al fine di evitare l’aggravarsi della situazione il
consiglio di sicurezza…può invitare le parti interessate ad ottemperare a
quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili. Tali
misure provvisorie non devono pregiudicare i diritti, le pretese o la
posizione delle parti interessate. Il consiglio di sicurezza prende in debito
conto il mancato ottemperamento a tali misure provvisorie”; (art 40).
Una misura provvisoria tipica in caso di guerra sia internazionale che civile è
il cessate-il-fuoco (o tregua: temporanea interruzione di un conflitto). In ogni

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caso, le misure provvisorie formano soltanto oggetto di un invito e quindi di


una raccomandazione del consiglio e, per questo, hanno natura non
vincolante.
B)Misure implicanti l’uso della forza Ai sensi dell’art. 41, il consiglio può
vincolare gli stati membri dell’ONU a prendere tutta una serie di misure
(dalla semplice interruzione dei rapporti diplomatici al blocco economico
totale) contro uno stato che, sempre a giudizio insindacabile dell’organo,
minacci o abbia violato la pace, oppure, nelle crisi interne, contro gruppi
armati, o ancora, nel quadro della lotta al terrorismo internazionale, contro
gruppi terroristici.
Nella prassi più recente il consiglio ha rivolto la propria attività sanzionatoria
contro le persone fisiche e giuridiche, come reazione a certe condotte
suscettibili di creare una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali.
tale sanzioni (limitazioni alla libertà di movimento, congelamento dei conti
correnti bancari, restrizioni all’acquisito di armi) sono, di norma, adottate da
un apposito comitato sanzioni, istituto con risoluzione del consiglio di
sicurezza.
C)Misure non implicanti l’uso della forza Gli artt. 42 ss. si occupano
dell’ipotesi in cui il consiglio decida di impiegare la forza contro uno stato,
colpevole di minaccia o violazione della pace o di aggressione; oppure
all’interno di uno stato, intervenendo in una guerra civile.
Il ricorso a misure violente, da parte del consiglio, è concepito come
un’azione di polizia internazionale: “Il consiglio…può intraprendere con
forza aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o
ristabilire la pace…”. Tutto ciò attraverso risoluzioni operative, con cui
l’organizzazione non ordina o raccomanda qualcosa agli stati, ma
direttamente agisce. L’azione diretta consiste nell’utilizzazione di contingenti
armati nazionali, ma sotto un comando internazionale facente capo allo stesso
consiglio di sicurezza.
Circa le modalità con le quali il consiglio di sicurezza può agire, gli articoli 43,
44 e 45 prevedono l’obbligo per gli stati membri di stipulare con il consiglio
degli accordi intesi a stabilire il numero, il grado di preparazione, la
dislocazione, ecc. delle forze armate utilizzabili poi dall’organo, totalmente o
parzialmente, via via che se ne presenti la necessità; l’utilizzazione in concreto
dei vari contingenti nazionali deve far capo ad un comitato di stato maggiore,
composto dai capi di stato maggiore dei cinque membri permanenti e posto
sotto l’autorità del consiglio.

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Gli artt. 43 ss. non hanno mai, dal 1945 ad oggi, ricevuto applicazione; gli
accordi, che ex art. 43 dovevano essere conclusi “al più presto”, non hanno
mai visto la luce; né mai ha funzionato il comitato di stato maggiore del
consiglio. Ciò premesso, fino ad oggi, il consiglio di sicurezza è intervenuto in
crisi internazionali o interne con misure di carattere militare in due modi
diversi, talvolta cumulandoli: esso o ha creato delle Forze delle Nazioni Unite
(i famosi caschi blu) incaricate, ma con compiti per lo più assai limitati, di
operare per il mantenimento della pace (peacekeeping operations) o ha
autorizzato l’uso della forza da parte degli Stati membri, sia singolarmente
che nell’ambito di organizzazioni regionali.
Le prime forze aventi compiti di peace-keeping furono organizzate all’epoca
della guerra fredda: la più importante fu l’ONUC che operò nel Congo negli
anni 60 per aiutare questo paese ad uscire dallo stato di guerra civile e di vera
e propria anarchia in cui versava. La caratteristica fondamentale delle peace-
keeping operations è costituita dalla delega del consiglio al segretario
generale in ordine al reperimento, attraverso accordi con gli stati membri, e al
comando delle forze internazionali. Normalmente (ma esistono delle varianti)
dette operazioni sono autorizzate dal governo locale, hanno funzione di forze
cuscinetto per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine nel territorio in
cui operano e possono usare le armi solo per legittima difesa.
A parte gli insuccessi che hanno spesso caratterizzato l’azione delle forze
dell’ONU, non sempre l’azione di queste ultime è stata commendevole:
pensiamo al brutale attacco dei caschi blu operanti in Somalia contro il
quartier generale di uno dei cd “signori della guerra somali”, quale
rappresaglia per l’uccisione di un gruppo di caschi blu pakistani (tale attaccò,
attuato con dispregio di qualsiasi norma del diritto umanitario, provocò la
morte di vittime innocenti, suscitando la deplorazione del mondo civile).
L’impiego delle forze dell’ONU ha finito col rivelarsi abbastanza impraticabile
per una serie di ragioni e, di conseguenza, il consiglio di sicurezza è andato
sempre più orientandosi verso l’impiego diretto di contingenti militari da
parte degli stati membri, sia individualmente e sia per il tramite di
organizzazioni ragionali. Un paio di volte durante la guerra fredda (e diverse
volte dagli inizi degli anni 90) il consiglio ha autorizzato o raccomandato agli
stati singolarmente considerati di usare la forza contro uno stato o all’interno
dello stato, rimettendo nelle loro mani, e sia pure sotto la sua autorità, il
comando e il controllo delle operazioni militari. In due casi si è trattato
dell’autorizzazione a condurre vere e proprie guerra internazionali, per
respingere aggressioni esterne: il primo è il caso della guerra in Corea, del
1950, quando gli stati membri furono “invitati” ad aiutare la Corea del sud a
difendersi dall’attacco della Corea del Nord; il secondo è il caso della guerra

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del Golfo, condotta da una coalizione di stati membri “autorizzati” dal


consiglio ad aiutare il governo kuwaitiano a riconquistare il territorio del
Kuwait occupato dall’Iraq.
è legittima l’autorizzazione dell’uso della forza agli stati da parte del
consiglio? non ci sembra che una simile autorizzazione, la quale in larga
misura comporta che il consiglio, lungi dall’assumersi le responsabilità
connesse ad una azione a tutela della pace, se ne spoglia, sia inquadrabile
sotto gli articoli 42 ss. Col passare del tempo, con la constatata inefficienza del
sistema di sicurezza collettiva, si è fatta strada la prassi della delega agli stati e
ne consegue che tale delega può considerarsi prevista da una norma
consuetudinaria ad hoc.
Talvolta il consiglio di sicurezza, dichiarando di agire in base al cap. VII ed
invocando la necessità di mantenere la pace e la sicurezza, ha organizzato il
governo di territori; si tratta di territori oggetto di rivendicazioni di sovranità
o nei quali si è verificata una guerra civile; in questo quadro sono stati decisi
anche singoli atti di governo. È questo il caso del Territorio Libero di Trieste,
istituito dal Trattato di pace tra Italia e Potenze Alleate (1947), concepito
come una sorta di piccolo stato governato da un Governatore la cui nomina
era affidata al consiglio di sicurezza; il Territorio non fu mai costituito e
quello che avrebbe dovuto essere il suo territorio venne diviso fra Italia e
Jugoslavia.
Recentemente sono da menzionare la UNMIK (Amministrazione provvisoria
delle Nazioni Unite nel Kosovo), tuttora in carica, e la UNTAET
(Amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite in Timor Est), durata dal
1999 al 2002. Inoltre, sono stati istituiti dei tribunali internazionali per la
punizione di crimini commessi da individui. Gli esempi più noti sono quelli
del Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex-
Jugoslavia (ICTY) e del Tribunale penale internazionale per i crimini
commessi nel Ruanda (ICTR).
Le misure consistenti nel governo, o in atti di governo, di territori non
trovano fondamento espresso nella Carta ONU; vari tentativi sono stati fatti
in dottrina e nella prassi per riportarle alla categoria delle “misure coercitive”
previste dagli artt. 41 e 42. Particolarmente l’istituzione di Tribunali
internazionali ha costituito oggetto di dibattito; a chi sostiene che l’ipotesi
possa riportarsi all’art. 41, si può rispondere che la giurisdizione dei tribunali
penali, e lo stesso si può dire per il governo di territori, si esercita su
individui, mentre le misure coercitive previste dall’art. 41 sono chiaramente
misure dirette contro uno stato o al massimo contro gruppi armati all’interno

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di uno stato; inoltre, le misure ex art. 41 sono destinate a cessare quando la


pace e la sicurezza non sono più in pericolo.
L’art. 24 della Carta, circa gli “specifici poteri” per il mantenimento della pace
e della sicurezza internazionali attribuiti al consiglio di sicurezza con
riferimento ai capp. VI, VII, VIII e XII della Carta, li elenca in modo tassativo:
dunque, le misure che non rientrano in questo o in quell’articolo della carta
non possono fondarsi su una sorta di potere residuale generale del consiglio,
presumibilmente desumibile dallo stesso art. 24. Dunque, è evidente che il
consiglio abbia largamente deviato dallo spirito e dalla lettera delle norme del
cap. VII, ma la mancanza di una qualsiasi opposizione alla partecipazione del
consiglio ad atti di governo di territori in situazioni post-conflittuali indica
che detta prassi ha dato vita ad una norma consuetudinaria ad hoc.
Del sistema di sicurezza collettiva facente capo al consiglio di Sicurezza fanno
parte, in base al cap. VIII Carta ONU, anche le organizzazioni regionali, create
per sviluppare la collaborazione fra stati membri e per promuovere la difesa
comune verso l’esterno. L’art. 53 stabilisce che il consiglio di sicurezza utilizza
“gli accordi e le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua
direzione” ed aggiunge che “nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa
in base ad accordi regionali…senza l’autorizzazione del consiglio di sicurezza”.
Le organizzazioni regionali appaiono quasi come organi decentrati delle
Nazioni Unite. L’art. 51 ammette la legittima difesa sia individuale che
collettiva: ne consegue che le organizzazioni regionali possono agire
coercitivamente contro uno stato con l’autorizzazione del consiglio di
sicurezza in ogni caso (art. 53) e senza l’autorizzazione del Consiglio solo nel
caso di risposta ad un attacco armato già sferrato (art. 51).
Tra le organizzazioni regionali ricordiamo: la lega degli stati arabi,
l’organizzazione degli stati americani, l’organizzazione del trattato del nord
atlantico (NATO), ecc. Specie con riferimento allo statuto della NATO,
organizzazione costituita in vista dell’autodifesa collettiva tra i membri (art 5
del patto atlantico obbligo di assistere la parte contraente che sia stata
oggetto di un attacco armato e ciò nell’esercizio del diritto di legittima difesa
individuale e collettiva), ci si chiede se lo stesso statuto impedisca di
inquadrare l’organizzazione stessa sotto l’art 53: tenuto conto dei fini
dell’organizzazione individuati non solo nella difesa collettiva dei membri ma
anche nel mantenimento della pace e della sicurezza e, soprattutto, della
prassi in cui mai si sono manifestate reazioni al comportamento
dell’organizzazione, non ci sembra che la risposta debba essere negativa.

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Parte quinta.
L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI
NELL’AMBITO DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE.
50.La corte internazionale di Giustizia.
Natura arbitrale della funzione giurisdizionale internazionale. La funzione
giurisdizionale internazionale (inteso il termine giurisdizione nel senso di
accertamento vincolante del diritto) ha ancor oggi sostanzialmente natura
arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice internazionale non
può giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata
da tutti gli stati parti di una controversia.
Nozione di controversia internazionale. Ai fini dell’esercizio della funzione
giurisdizionale internazionale, infatti, la nozione di controversia
internazionale è stata definita da una sentenza del 1924 della Corte
Permanente di Giustizia: la controversia è un disaccordo su di un punto di
diritto o di fatto, un contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi
tra due soggetti.
Controversie giuridiche e controversie politiche. Non esistono controversie
“giustiziabili” e controversie “non giustiziabili”, dato che su qualsiasi rapporto
tra stati il diritto internazionale è capace di pronunciarsi se non altro a favore
della libertà dello stato da cui la controparte pretende qualcosa; esistono solo
controversie per le quali le parti assumono l’impegno di sottoporsi al
tribunale internazionale comunque costituito e controversie per le quali tale
impegno non viene assunto, restando la loro eventuale soluzione affidata, alle
“vie diplomatiche”. La stessa distinzione tra controversie giuridiche e
controversie politiche è molto importante e consiste nel fatto che, nelle
seconde, a differenza delle prime, entrambe le parti (o almeno una, a seconda
delle varie tesi) non invocassero il diritto internazionale ma pretendessero di
mutarlo a loro favore. Ma, col tempo, questa distinzione ha perso di
significato: è vero che accordi tuttora vigenti limitano espressamente l’obbligo
di regolamento giudiziario da essi previsto alle controversie “giuridiche”, ma è
anche vero che ciò ha assai di rado indotto i tribunali internazionali a negare
la propria giurisdizione.
Il processo internazionale ha dunque carattere sostanzialmente arbitrale,
riposando sulla volontà e quindi sull’accordo di tutti gli stati parti di una

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controversia. Se tale volontà, se tale accordo manca, non è possibile


costringere uno stato a sottoporsi a giudizio. L’istituto dell’arbitrato
internazionale si è notevolmente evoluto a partire dalla seconda metà del
secolo XIX;
Arbitrato isolato. Punto di partenza dell’evoluzione dell’istituto è l’arbitrato
isolato. L’arbitrato, nel secolo XIX, si svolgeva di solito nel seguente modo:
sorta una controversia tra due o più stati, si stipulava un accordo, il cd.
compromesso arbitrale, col quale si nominava un arbitro (ad es. un capo di
stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola
procedurale, e ci si obbligava a rispettare la sentenza così emessa. Rispetto
all’arbitrato isolato, l’istituto si è andato da allora sviluppando per facilitare
l’accordo tra gli stati in controversia e per una sempre maggiore
istituzionalizzazione del collegio arbitrale giudicante.
Grosso modo possono distinguersi due fasi di sviluppo:
PRIMA FASE  già alla fine del secolo XIX (nel continente Americano) e
agli inizi del XX secolo (nel continente Europeo), si è cominciato a ricorrere a
dei meccanismi per facilitare l’accordo degli stati necessario per
l’instaurazione del processo internazionale: sono comparsi così quel tipo di
clausola compromissoria e di trattato generale di arbitrato che chiameremo
“non completi” per distinguerli dalla clausola compromissoria e dal trattato
generale di arbitrato “completi”. La clausola compromissoria (non completa)
accede ad una qualsiasi convenzione e crea l’obbligo per gli stati di ricorrere
all’arbitrato per tutte le controversie che sorgono in futuro in ordine
all’applicazione ed interpretazione della convenzione medesima; analoga è la
funzione del trattato generale d’arbitrato (non completo) che ugualmente crea
un obbligo generico di ricorrere ad arbitrato addirittura per tutte le
controversie che possono sorgere in futuro tra le parti contraenti eccettuate
alcune controversie (cd. clausola eccettuativa dei trattati d’arbitrato), come
quelle toccanti l’onore e l’indipendenza delle parti o aventi natura politica, e
oggi come quelle relative a questioni di dominio riservato.
Come si vede, clausola compromissoria e trattato d’arbitrato non completi
creano soltanto un obbligo de contrahendo, cioè l’obbligo di stipulare il
compromesso arbitrale; se questo non interviene, non può comunque
pervenirsi all’emanazione di una sentenza.
Nello stesso periodo si assiste poi all’avvio della tendenza ad istituzionalizzare
i tribunali internazionali, cioè a creare organi arbitrali permanenti e a
predisporre regole di procedura (contraddittorio, regime delle prove,
necessità della motivazione della sentenza etc) applicabili in ogni
procedimento così instaurato. L’avvio all’istituzionalizzazione, si ha con la

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Corte Permanente di Arbitrato, tuttora esistente, creata dalle Convenzioni


dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre. Le regole di procedura,
fissate nella Convenzione dell’Aja e alle quali gli arbitri devono attenersi, non
sono molte e comunque cedono di fronte a quelle eventualmente stabilite
dalle parti.
Una forma analoga di organo giurisdizionale è quella prevista dalla
convenzione sulla conciliazione e l’arbitrato del 15.12.1995, promossa dalla
CSCE, oggi OCSE: per quanto riguarda l’arbitrato, il tribunale viene costituito,
per ogni singola controversia, con membri indicati una volta per tutte dalle
parti e con membri nominati volta a volta da un organo permanente, il
Bureau (di cui fanno parte 5 persone)
SECONDA FASE nella seconda fase, che grosso modo ha inizio con la
fine della prima guerra mondiale, si è avuto anzitutto un maggior processo di
istituzionalizzazione con la creazione prima della Corte Permanente di
Giustizia Internazionale all’epoca della Società delle Nazioni, e poi, nel 1945,
con la Corte Internazionale di Giustizia. Quest’ultima, organo delle Nazioni
Unite, ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia Internazionale; essa ha
sede all’Aja e funziona in base allo statuto annesso alla Carta ONU e
ricalcante, con qualche variazione di poco rilievo, lo Statuto della vecchia
Corte.
La Corte Internazionale di Giustizia presenta un forte grado di
istituzionalizzazione: trattasi di un corpo permanente di giudici, eletti
dall’assemblea generali e dal consiglio di sicurezza, che giudica in base a
precise e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti. Trattasi però
pur sempre di un tribunale arbitrale che giudica solo sul presupposto di un
accordo tra tutte le Parti di una controversia.
Oltre alla giurisdizione in materia contenziosa, la corte svolge anche una
funzione consultiva: essa da pareri su qualsiasi questione giuridica su
richiesta dell’assemblea generale o del consiglio di sicurezza oppure di altri
organi ma con l’autorizzazione dell’assemblea. Sebbene i pareri non siano
vincolanti essi possono divenire tali se, con una convenzione o altro atto vincolante, ci si
impegni a rispettarli. Ci troviamo di fronte a veri e propri impegni arbitrali.
La Corte Internazionale di Giustizia può decidere non solo secondo diritto ma anche
secondo equità (ex aequo et bono) se le parti così le chiedono.

Nella seconda fase è marcata da una decisa evoluzione anche per quanto
riguarda l’accordo necessario per l’instaurazione del processo internazionale.
Compare, infatti, la figura della clausola compromissoria “completa” e del
trattato generale di arbitrato anch’esso “completo”. Si tratta di misure che
prevedono direttamente l’obbligo di sottoporre le proprie controversie al

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giudizio di un tribunale internazionale. Clausola compromissoria e trattato


generale di arbitrato esplicano direttamente la funzione svolta dal
compromesso, e permettono ad uno stato contraente di citare
unilateralmente un altro stato contraente di fronte al tribunale internazionale
così investito dalla controversia. Si capisce, quindi, che il fondamento del
giudizio resta pur sempre volontario, dipendendo dall’esistenza di una
clausola compromissoria o di un trattato generale, sia pure completo.
Dichiarazione di accettazione della giurisdizione della CIG. Analogo al
trattato generale di arbitrato “completo” è il procedimento previsto dall’art.36
par.2 dello statuto della Corte Internazionale di Giustizia, articolo secondo cui
“gli stati aderenti al presente statuto possono in ogni momento dichiarare di
riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei
rapporti con qualsiasi altro stato che accetti la medesima obbligazione, la
giurisdizione della corte…”.
L’Italia ha depositato la propria dichiarazione ex art 36 par 2 il 25.11.2014 accettando,
pertanto, la giurisdizione obbligatoria della CIG limitatamente alle controversie sorte
successivamente a tale deposito e comunque ad esclusione di quelle per cui: a) le parti
della controversia abbiano convenuto di ricorrere in via esclusiva ad altro mezzo di
risoluzione delle controversie; 2) una o più parti della controversia abbiano accettato la
giurisdizione della corte solo in vista della instaurazione di un procedimento contenzioso
relativo ad essa; 3) una o più parti della controversia abbiano accettato la giurisdizione
della corte meno di 12 mesi prima dell’instaurazione del procedimento contenzioso.
L’art 36 prevede che gli stati che, con una dichiarazione ad hoc, accettino come
obbligatoria la giurisdizione della corte, possono essere citati avanti alla corte medesima da
un qualsiasi altro stato che abbia emesso la stessa dichiarazione, e stabilisce che la
dichiarazione di accettazione può riguardare “ogni controversia di natura giuridica avente
ad oggetto: a) l’interpretazione di un trattato; b) qualsiasi questione di diritto
internazionale; c) l’esistenza di un qualsiasi fatto che, se accertato, costituirebbe la
violazione di un obbligo internazionale; d) la natura o la misura della riparazione dovuta
per la violazione di un obbligo internazionale”

Esecuzione delle sentenze arbitrali. Anche per le sentenze arbitrali ci si chiede


quali mezzi ne assicurino l’esecuzione in via coattiva. Come per le norme
internazionali, anche per le sentenze internazionali, la loro osservanza deve
ritenersi effettuata nel diritto interno dalle stesse norme che provvedono
all’adattamento alle regole internazionali di cui la sentenza abbia accertato il
contenuto: ad esempio la legge italiana di esecuzione di un trattato comporta
l’obbligo di osservare non solo il trattato ma anche l’eventuale sentenza
internazionale emessa, in ordine al trattato medesimo, nei confronti dell’Italia
o di persone che operano all’interno dello stato italiano.
51.I tribunali internazionali settoriali e regionali.

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Moltiplicazione dei tribunali internazionali. Gli organi internazionali che


hanno competenze settoriali e che il più delle volte hanno caratteristiche
diverse dall’arbitrato si vanno sempre più moltiplicando, sia perché già per
disposizione dei loro trattati istitutivi possono essere aditi unilateralmente,
sia perché alcuni di essi sono aperti anche agli individui o addirittura sono
creati per giudicare individui.
Vi sono diversi organi settoriali che possono definirsi quasi giurisdizionali nel
senso che essi provvedono ad un accertamento di norme internazionali in
tutto e per tutto simile a quello svolto da un tribunale ma non hanno il potere
di emanare sentenze o decisioni vincolanti, limitandosi ad adottare
raccomandazioni o atti equivalenti.
Alcuni tribunali internazionali settoriali hanno carattere regionale, altri
hanno carattere universale. I tribunali regionali riguardano di solito il settore
dei diritti umani e della cooperazione o integrazione economica.
Moltiplicazione dei tribunali e “frammentazione” del diritto internazionale .
La moltiplicazione dei giudici internazionali sarebbe, secondo una parte della
dottrina ampiamente criticata, una delle cause della “frammentazione” del
diritto internazionale: ciò perché più giudici possono pronunciarsi in modo
diverso sull’esistenza o interpretazione della stessa norma.
Corte di giustizia dell’UE. Una figura sui generis è la Corte di Giustizia
dell’unione europea, con sede a Lussemburgo. Su di essa si riflettono quelle
incertezze circa l’esatta qualificazione dell’UE, ente a metà strada tra le
organizzazioni internazionali e lo stato federale parziale. Con gli altri tribunali
internazionali la corte ha in comune soltanto l’origine pattizia, essendo sorta e
disciplinata dai trattati che via via hanno dato vita alle comunità europee
prima, e poi all’Unione, e potendo esercitare la sua funzione nei confronti
degli stati membri, in quanto questi partecipano all’unione.
Oltre ad una funzione di tipo arbitrale, le principali competenze della corte di
giustizia dell’UE sono le seguenti: a) competenza in tema di ricorsi per
violazione dei trattati da parte di uno stato membro; b) competenza relativa
al contro di legittimità sugli atti degli organi dell’unione; c) quella
concernente le “questioni pregiudiziali”.
Tribunale di primo grado dell’UE. Alla corte è affiancato, dal 1988, il
Tribunale di primo grado dell’unione europea, la cui principale competenza
ha per oggetto i ricorsi promossi dalle persone fisiche e giuridiche in tema di
controllo sulla legittimità degli atti. Le sentenze emesse dal tribunale sono
impugnabili davanti alla corte per motivi di diritto.

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Tribunale internazionale del diritto del mare. Nel campo del diritto
internazionale marittimo opera oggi il tribunale internazionale del diritto del
mare, il cui statuto è contenuto nella Convenzione di Montego Bay. Il
Tribunale con sede ad Amburgo, è composto da 21 giudici indipendenti, eletti
tra persone che, oltre ad avere la più alta reputazione di imparzialità ed
integrità abbiano una competenza notoria nel campo del diritto del mare. Il
Tribunale, da quando è stato istituito, cioè dal 1996, ha prodotto una decina
di sentenze, rappresenta solo una delle istanze giurisdizionali che, nel quadro
di detto sistema, sono a disposizione delle parti. Per le controversie tra stati
esso non si discosta molto dai tribunali arbitrali istituzionalizzati: la sua
giurisdizione riposa sulla volontà delle parti.
Organo della WTO per la soluzione delle controversie. Per la soluzione delle
controversie tra stati nel settore del commercio internazionale, “l’accordo
istitutivo dell’organizzazione mondiale per il commercio” prevede un apposito
organo del WTO nel quale sono rappresentati tutti gli stati membri.
L'organizzazione mondiale del commercio (OMC), conosciuta anche con il
nome inglese di World Trade Organization (WTO), è un'organizzazione
internazionale creata allo scopo di supervisionare numerosi accordi
commerciali tra gli stati membri. Vi aderivano, a luglio del 2008, 153 Paesi a
cui si aggiungono 30 Paesi osservatori, che rappresentano circa il 97% del
commercio mondiale di beni e servizi.
Tale organo si articola in due gradi di giudizio: il primo costituito da panels di
esperti volta a volta nominati dall’organo e il secondo consistente, invece, in
un corpo permanente di appello in cui siedono sette giudici.
Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale corte ha sede a Strasburgo ed è
l’organo che controlla il rispetto della Convenzione europea sulla salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali da parte degli stati
contraenti. La Corte nata dalla fusione, avvenuta nel 1988, con la
commissione europea dei diritti dell’uomo è formata da un numero di giudici
pari a quello degli stati contraenti (oggi 47) e scelti tra “giureconsulti di
notoria esperienza”.
Il ricorso alla corte può essere proposto da un altro stato contraente
nell’interesse obbiettivo (cd ricorso interstatale) sia da qualsiasi persona fisica
o giuridica o organizzazione o gruppo di individui (cd ricorso individuale), ma
in questo caso occorre che il ricorrente si pretenda vittima di una violazione di
una convenzione.
Proprio il ricorso individuale (quale vera e propria rivoluzione nel campo
della giurisdizione internazionale) ha marcato il grande successo del sistema

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di Strasburgo, provocando una giurisprudenza estremamente ricca da parte


della commissione e dalla corte.
Commissione e corte interamericana dei diritti dell’uomo. Il sistema
regionale più importante dopo quello europeo è stato posto in essere dalla
Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo firmata a San Josè in Costa
Rica nel 1969 e ne sono stati contraenti la maggior parte degli stati del
continente americano.
Corti africane dei diritti dell’uomo. Dal 2009 ha iniziato a funzionare,
nell’ambito dell’unione africana, la corte dei diritti dell’uomo che applica la
carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli.
Comitato per i diritti dell’uomo del patto delle nazioni unite sui diritti civili e
politici. Passando dal piano regionale a quello universale vengono in rilievo i
due Patti internazionali promossi dalle Nazioni Unite: l’uno sui diritti
economici, sociali e culturali; l’altro sui diritti civili e politici.
Il Patto sui diritti civili e politici prevede il funzionamento di un Comitato
delle nazioni unite sui diritti civili e politici, composto da 18 membri (eletti, a
titolo individuale, dagli stati contraenti per un periodo di quattro anni). Il
comitato può prendere in esame reclami presentati contro uno stato
contraente da altri stati o individui, se lo stato accusato ha, per i reclami
statali, dichiarato di accettare la competenza del comitato in materia; oppure,
per i reclami individuali, ratificato un protocollo opzionale ad hoc.
Comitato per i diritti previsti dal patto delle nazioni unite sui diritti
economici, sociali e culturali. Per quanto riguarda il patto sui diritti
economici, sociali e culturali, esso prevede che gli stati contraenti
sottopongano rapporti periodici al consiglio economico e sociale delle nazioni
unite, perché formuli raccomandazioni “di ordine generale”.
Corti penali internazionali. Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di
guerra e contro l’umanità si accompagna la tendenza ad attribuire la corrispondente
giurisdizione penale a tribunali internazionali. La prima esperienza in materia fu quella del
Tribunale di Norimberga, creato dall’Accordo di Londra (1945), concluso tra le Potenze che
occupavano la Germania debellata, per la punizione dei criminali nazisti. Così il Tribunale
di Tokyo che giudicò i criminali di guerra giapponesi e che fu addirittura costituito con una
decisione della sola Potenza occupante, gli Stati Uniti. Recentemente, il Consiglio di
Sicurezza dell’ONU ha costituito il Tribunale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia ed
il Tribunale per i crimini commessi in Ruanda.

Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e nel Ruanda. Il primo,


composto da due camere di prima istanza e da una camera di appello formate da giudici
che vi siedono a titolo personale, funziona in base ad uno statuto allegato alla risoluzione
del consiglio di sicurezza e ad un Regolamento che esso stesso si è dato; lo statuto prevede
la primacy (priorità) del Tribunale rispetto alle corti nazionali, nel senso che esse devono
spogliarsi della loro competenza e gli stati che detengono il presunto criminale devono

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consegnarlo al Tribunale, che ha sede all’Aja; il Regolamento disciplina la procedura ma


contiene anche norme sostanziali. Disciplina simile ha il Tribunale per il Ruanda.

Corte penale internazionale. Nel 1998 è stata poi istituita la corte penale
internazionale, prima autorità giurisdizionale a carattere permanente competente a
giudicare gli individui responsabili dei “crimini internazionali più gravi, motivo di allarme
per l’intera comunità internazionale”. Rispetto ai tribunali istituiti ad hoc per la
repressione dei crimini commessi nella ex Iugoslavia e in Ruanda, è stata creata con un
accordo internazionale (lo statuto di Roma) adottato da un’apposita conferenza di stati ed
aperto alle firme a ratifica di tutti gli stati. La corte è operativa dal 2002 e ha sede all’Aia. È
composta da: presidenza, tre sezioni giudiziarie, ufficio del procuratore e cancelleria.
I crimini (individuali) di cui la corte è competente a conoscere sono: il genocidio, i crimini
contro l’umanità e i crimini di guerra. Inoltre, recentemente, è stata attivata anche la
giurisdizione della corte sul crimine di aggressione.

52.I mezzi diplomatici di soluzione delle controversie


internazionali.

Negoziati. Tali mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionali di soluzione


delle controversie in quanto tendono esclusivamente a facilitare l’accordo
delle parti: quindi, non hanno carattere vincolante per le parti.

Buoni uffici e mediazione. L’accordo tra le parti può essere anzitutto facilitato
da negoziati diretti tra le parti medesime; sicché i negoziati sono considerati
come il mezzo più semplice di soluzione diplomatica delle controversie.
Si parla, poi, di buoni uffici e mediazione quando si verifica l’intervento di
uno stato terzo, o anche di un organo supremo di uno stato o del segretariato
di un’organizzazione internazionale a titolo personale, intervento che è meno
intenso nel caso dei buoni uffici e più penetrante nel caso della mediazione.

Conciliazione. Forma diplomatica più evoluta di soluzione delle controversie.


Le commissioni di conciliazione, istituite talvolta su base permanente e
talvolta in modo occasionale, sono di solito composte da individui e non da
stati e hanno il compito sia di esaminare i fatti che hanno dato luogo alla
controversia medesima e sia di formulare una proposta di soluzione (proposta
che le parti sono sempre libere di accettare o meno).
Alle commissioni di conciliazione vanno accostate le commissioni di inchiesta
il cui compito è limitato all’accertamento (non vincolante) dei fatti.

Talvolta, il ricorso alla conciliazione è obbligatorio, con la conseguente


possibilità, per uno degli stati contraenti, di dare unilateralmente l’avvio alla
procedura conciliativa (esempio: norme contenute negli articoli 65-68 della
convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, le quali in riferimento alle
controversie in tema di invalidità ed estinzione dei trattati, disciplinano una

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complessa procedura di conciliazione, cui le parti sono obbligate a sottostare


se non scelgono un altro mezzo di soluzione della controversia).
Forme atipiche di mezzi di soluzione delle controversie. Talvolta si verifica
confusione tra mezzi diplomatici e non vincolanti e l’arbitrato. È il caso della soluzione
della controversia tra Francia e Nuova Zelanda nella prima fase del caso del Rainbow
Warrior. Qui le parti si erano impegnate ad accettare e a trasfondere in un accordo la
decisione del segretario generale delle nazioni unite: si è parlato, in proposito, sia di
mediazione o conciliazione, sia di arbitrato (a causa del carattere vincolante della
decisione).

Funzione conciliativa delle organizzazioni internazionali. Ai mezzi


diplomatici vanno riportate anche quelle procedure di soluzione delle
controversie a carattere non vincolante che si svolgono in seno ad
organizzazioni internazionali. Si tratta della cd funzione conciliativa delle
organizzazioni internazionali. Tale funzione delle organizzazioni
internazionali comprende le stesse procedure esaminate fin qui (buoni uffici,
inchiesta, mediazione ecc) ma si caratterizza perché si svolge in un quadro
istituzionale. Ciò comporta che le procedure di cui essa consiste devono
conformarsi alle regole statutarie proprie di ogni singola organizzazione.

Funzione conciliativa delle nazioni unite. I mezzi diplomatici esauriscono i


mezzi pacifici di soluzione delle controversie. La carta delle nazioni unite
stabilisce, all’art 2 par 3, che gli stati membri hanno l’obbligo di risolvere le
loro controversie con mezzi pacifici. L’art 33 ribadisce l’obbligo delle parti di
una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, di perseguirne una
soluzione mediante negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione, arbitrato,
regolamento giudiziale ecc.

Potere di inchiesta del consiglio di sicurezza. L’art 33, par 1, è spesso


richiamato nella prassi e ha un valore politico e morale assai alto. Ma qual è il
suo valore giuridico? A causa della sua genericità, che impedisce di trarne
obblighi precisi in ordine ai singoli mezzi di soluzione delle controversie
elencati, riteniamo che esso si limiti a ribadire, con altre parole, il divieto
dell’uso della forza già previsto dall’art 2 par 4 della carta e dal diritto
internazionale generale.

Alla “soluzione pacifica delle controversie” è dedicato il cap VI della carta


delle nazioni unite. Importante è l’art 34 il consiglio dispone anzitutto di un
potere di inchiesta che può esercitare sia direttamente e sia creando un
organo ad hoc, ad esempio una commissione di inchiesta composta da alcuni
membri del consiglio, da funzionari dell’ONU ecc.

Indicazione da parte del consiglio di “mezzi di regolamento”. L’art 33 e l’art


36 danno facoltà al consiglio di sollecitare le parti di una controversia a far

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ricorso ai mezzi, procedimenti o metodi elencanti nel paragrafo 1 dell’art 33.


La differenza tra l’art 33, par 2, e l’art 36 sta nel fatto che il primo si riferisce
ad un invito generico da parte del consiglio, mentre il secondo prevede che
l’organo indichi quale specifico procedimento, tra quelli elencati ex art 33
par.1, sia appropriato in ordine al caso di specie.

Infine, nella funzione conciliativa del consiglio rientra il potere di


raccomandare “termini di regolamento” ossia di suggerire alle parti come
risolvere, nel merito, la loro controversia (art 37).

Funzione conciliativa dell’assemblea generale ONU. Nell’ambito delle nazioni


unite una funzione conciliativa è svolta anche dall’assemblea generale. La
prevede l’art 14 della carta secondo cui “l’assemblea può raccomandare
misure per il regolamento pacifico di qualsiasi situazione che essa ritenga
suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra
le nazioni”.

Anche il segretariato generale dell’ONU ha prestato la sua opera per la


risoluzione di controversie, offrendo la propria attività mediatrice agli stati
coinvolti in crisi internazionali.

alla funzione conciliativa degli organi dell’ONU si affianca quella delle


organizzazioni regionali. Art 52 della carta delle nazioni unite prevede che in
seno a tali organizzazioni si compia “ogni sforzo per giungere ad una
soluzione pacifica delle controversie di carattere locale prima di deferirle al
consiglio di sicurezza”.

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