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Riassunto Diritto Internazionale

Diritto Internazionale (Università degli Studi di Salerno)

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RIASSUNTO DIRITTO INTERNAZIONALE - CASSESE

PARTE PRIMA
L’ORDINAMENTO GIURIDICO INTERNAZIONALE

CAPITOLO 1. I CARATTERI PRINCIPALI DELL’ORDINAMENTO GIU-RIDICO


INTERNAZIONALE

Per cominciare, è indispensabile tener presente che l’ordinamento giuridico internazionale presenta
caratteristiche diverse da quelle dei sistemi giuridici statali.

I. I SOGGETTI
Nei singoli stati, gli individui costituiscono i soggetti giuridici primari, mentre gli enti pubblici e privati
dotati di personalità giuridica sono i soggetti secondari. Nella società internazionale invece gli individui
svolgono un ruolo secondario, mentre gli Stati sono i soggetti primari, che tuttavia agiscono solo tramite
individui che operano per conto dello Stato stesso.

Facendo l’esempio di un trattato, esso è negoziato da agenti diplomatici di due Stati, firmato dai rispettivi
ministri degli Affari esteri, ratificato dai capi di Stato talvolta a seguito dell’autorizzazione alla ratifica da
parte delle assemblee parlamentari. Una volta in vigore, il trattato sarà applicato dai tribunali dei due paesi.
Siamo davanti al fenomeno della “persona fittizia ” (Hobbes), ossia il fenomeno per il quale l’individuo
agisce per esprimere volizioni o compiere azioni per conto di collettività umane.

Dopo la formazione dei primi Stati moderni (Inghilterra, Francia e Spagna), i vari agglomerati umani si sono
consolidati in comunità statali.

Sebbene gli Stati siano i protagonisti principali della vita di relazione internazionale, ad essi si a ffiancano
altri soggetti che però, a differenza degli Stati, hanno una limitata capacità giuridica. In particolare essi
hanno una limitata capacità di divenire centri di imputazione di diritti e obblighi internazionali, e una ridotta
capacità di agire. Organizzazioni internazionali, movimenti di liberazione nazionale e gli individui hanno
acquisito uno status internazionale solo nel corso del XX secolo.

A partire dalla fine del XIX secolo è stata attribuita soggettività internazionale alle organizzazioni
internazionali perché gli Stati hanno preferito rinunciare alla gestione individuale di alcune problematiche, di
carattere sempre più internazionale, in favore di enti cui attribuire il compito di gestire tali questioni per
conto degli Stati membri. Dietro ciò giace l’idea che per prevenire un terzo conflitto mondiale fosse
opportuno istituire una rete di organizzazioni internazionali, così da imporre vincoli alla sfera di libertà degli
Stati.

Ciò che diede impulso all’attribuzione di uno status internazionale ai movimenti di liberazione nazionale fu
l’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli (nella versione anticolonialista di Lenin del
1917 e in quella più moderata di Wilson del 1918).

Nel caso degli individui è l’ideologia liberaldemocratica di matrice occidentale alla base dell’attribuzione
alle persone fisiche di situazioni giuridiche soggettive internazionali. La dottrina dei diritti umani ha come
suo corollario il fatto di aver condotto gli Stati a conferire agli individui il diritto di presentare reclami ad
organi internazionali per lamentare violazioni dei diritti.

Nel diritto internazionale consuetudinario si sono conseguentemente a ffermate norme che impongono
determinati obblighi giuridici direttamente. Questi obblighi impongono a tutti gli individui il rispetto di
alcuni valori fondamentali, pena la loro responsabilità a livello internazionale.

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II. L’ATTIVITA’ DI PRODUZIONE, ACCERTAMENTO ED ATTUAZIONE


COERCITIVA DEL DIRITTO
Negli ordinamenti giuridici interni si affiancano norme sostanziali e norme di organizza-zione, che
disciplinano la struttura degli ordinamenti. Nel predisporre un apparato istitu-zionale che cristallizzasse i
rapporti tra il gruppo al potere e tutti gli altri membri della comunità, negli Stati moderni si sviluppò un
modello comune, basato sul divieto dell’uso della forza fra i membri della comunità (ad eccezione di
situazioni di legittima difesa) e sul monopolio dell’uso legittimo della forza da parte del governo. Inoltre, le
tre attività tipiche di ogni ordinamento giuridico furono a ffidate ad organi centrali che agivano per conto
della comunità: il sovrano (e poi l’assemblea parlamentare) assunse il compito di produzione e
modificazione delle leggi, ai tribunali fu a ffidato l’accertamento delle vio-lazioni del diritto e l’attuazione
coercitiva del diritto fu affidata a corpi speciali di fun-zionari (es. polizia). Si trattava di funzioni e non di
poteri, in quanto essi dovevano essere svolti nell’interesse della comunità.

Nella società internazionale nessuno Stato o gruppo di Stati è riuscito ad imporsi sugli altri. Il potere è
frammentato e disperso e per tal motivo, le relazioni internazionali si svolgono quasi interamente a livello
orizzontale. Le attività di produzione, accertamento ed attuazione del diritto sono decentrate. Per quanto
riguarda l’attività di produzione di norme giuridiche, gli Stati stipulano trattati, le cui norme vincolano solo
le parti contraenti oppure vi è la formazione spontanea di norme consuetudinarie che vincolano tutti i
membri della società internazionale. E’ opportuno sapere che fino alla metà del secolo scorso non esisteva
nessuna norma generale di carattere imperativo. Si è poi consolidata la no-zione di jus cogens, che postula
l’esistenza di un nucleo di norme consuetudinarie cui non è possibile derogare con accordi internazionali,
pena la nullità del trattato.

Il decentramento si manifesta anche nel campo delle attività di accertamento e attuazione coercitiva del
diritto. Non esiste infatti un organo internazionale munito di giurisdizione generale, cui gli Stati
sottopongano le loro controversie.

Quanto all’attuazione coercitiva del diritto, spetta ad ogni Stato adoperarsi per ottene-re cessazioni di
eventuali illeciti o riparazioni.

A fronte dell’accentuata decentralizzazione della società internazionale, alla fine della Seconda guerra
mondiale, si è voluto accentrare l’uso legittimo della forza armata. La Carta delle Nazioni Unite ha imposto
agli Stati il divieto della minaccia e dell’uso della forza nelle loro relazioni internazionali, salvo il caso di
legittima difesa, ed ha attribuito al Consiglio di Sicurezza (CdS) il monopolio dell’uso legittimo della
violenza armata. Il difetto di integrazione giuridica della società internazionale ha però reso problematico il
corretto funzionamento di questo sistema. Inoltre, il relativo stato di anarchia che caratterizza l’allocazione
del potere a livello mondiale non consente un e fficiente gestione dei problemi derivanti dalla
globalizzazione.

III. LA RESPONSABILITA’ PER FATTO ILLECITO


Negli ordinamenti giuridici interni prevale la nozione di responsabilità personale che contempla poche
eccezioni, come ad esempio le forme di responsabilità indiretta (es. quella dei genitori per danni causati da
minori o la responsabilità civile dei soci per danni arrecati a terzi).

Nella società internazionale è predominante il concetto di responsabilità collettiva, concetto che implica che
l’intera comunità cui appartiene l’organo di uno Stato che commette un illecito internazionale sarà chiamata
a rispondere dell’illecito, subendone le conseguenze sfavorevoli.

Un giurista austriaco, Hans Kelsen, ha rilevato che questa forma di responsabilità è tipica degli ordinamenti
giuridici primitivi o rudimentali ma, a differenza di queste, che sono altamente integrate, con i vantaggi che
ne derivano, la società internazionale è basata sulla non integrazione sotto il profilo dei rapporti sociali dei
suoi soggetti (Hoffmann 1971).

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Il diritto internazionale ha subito alcuni cambiamenti. Accanto al regime di responsabilità derivante da illeciti
ordinari, si è affermata la nozione di responsabilità aggravata in relazione ad illeciti consistenti nella
violazione di norme internazionali poste a tutela di valori fondamentali. Inoltre, la nozione di responsabilità
penale individuale si è ampliata in particolar modo in relazione ai cosiddetti crimini di guerra, categoria che
si è estesa fino a comprendere crimini con-tro la pace, contro l’umanità e il genocidio. Malgrado ciò, il
regime prevalente è ancora legato alla nozione di responsabilità collettiva.

IV. I RAPPORTI CON GLI ORIENTAMENTI GIURIDICI INTERNI


Per essere applicate dagli Stati, le norme internazionali devono essere recepite dagli or-dinamenti interni e
trasformate in norme nazionali. Un esempio è l’art. 34 della Conven-zione di Vienna del 1961 sulle relazioni
diplomatiche che richiede che le autorità legisla-tive e fiscali dello Stato adottino le misure necessarie per
esentare i diplomatici stranieri da tutte le imposte e le tasse cui essi non devono essere sottoposti. E’ chiaro
quindi che il diritto internazionale non può funzionare senza la cooperazione degli ordinamenti giuridici
nazionali.

V. L’IMPORTANZA DEL PRINCIPIO DI EFFETTIVITA’


Il diritto internazionale è un ordinamento giuridico realistico e pragmatico, che tiene conto dei rapporti di
potere esistenti e si sforza di tradurli in norme giuridiche. Esso è basato sul principio di e ffettività, secondo il
quale soltanto le pretese e le situazioni solidamente costituite nella realtà hanno rilevanza giuridica. Nel
diritto tradizionale il principio di effettività escludeva la possibilità di finzioni giuridiche: le nuove situazioni
erano prive di legittimità internazionale se non diventavano e ffettive. La forza era la principale fonte di
legittimazione. La ragione di questo risiede nel fatto che vi è un’accentuata dispersione del potere. Il sistema
giuridico internazionale deve pertanto fare affidamento su situazioni e ffettive quale principale parametro per
valutare e dunque legittimare nuovi fatti.

Dalla Prima guerra mondiale in poi, molti Stati hanno cercato di far prevalere il prin-cipio di legalità sulla
forza o l’autorità di fatto.

Questo nuovo orientamento ha avuto inizio con l’enunciazione, nel 1932, della dot-trina Stimson (Segretario
di Stato statunitense che la prospettò in relazione all’aggressione del Giappone contro la Cina), la quale
stabiliva il principio del non riconoscimento dei mutamenti territoriali imposti con la forza.

Antecedente alla dottrina Stimson, vi era la dottrina Tobar (ministro degli A ffari esteri dell’Ecuador) secondo
la quale, in caso di mutamenti rivoluzionari, il nuovo governo poteva essere riconosciuto solo se confermato
da elezioni democratiche. Nel 1907 e 1923 le cinque repubbliche centroamericane conclusero dei trattati in
virtù dei quali si impegnavano a non riconoscere governi rivoluzionari finché i rappresentanti del popolo
liberamente eletti non avessero costituzionalmente riorganizzato il paese. A seguito di denunce, la dottrina
cadde però in desuetudine. Seppurridimensionato,ilprincipio dieffettivitàcontinua a svolgere
nell’ordinamento internazionale un ruolo di grande rilievo.

VI. RECIPROCITA’ E NORME A TUTELA DI INTERESSI SOLIDALI


La struttura paritaria e orizzontale della società internazionale ha prodotto una situazione in cui ciascuno
Stato agisce sulla base di interessi individuali. Questo risulta nel fatto che anche quando le norme
internazionali siano indirizzate ad una pluralità di soggetti, in concreto operano a livello bilaterale (si
applicano ad una coppia di Stati contraenti) ed hanno quindi natura sinallagmatica (reciproca). In virtù di ciò,
ogni Stato può pretendere da ciascun altro membro della società internazionale il rispetto della propria
integrità ter-ritoriale ed indipendenza politica. In caso di violazione della norma, spetterò allo Stato leso far
valere le conseguenze dell’illecito nei confronti del soggetto che ha posto in es-sere la violazione. Al fatto
che le norme consuetudinarie si indirizzano a tutti i membri della società internazionale non corrisponde una
generale legittimazione attiva a far valere il rapporto di responsabilità in caso di loro violazione. Lo stesso
vale per le norme poste da trattati multilaterali.

Un’eccezione era costituita dalla norma consuetudinaria sulla pirateria, in virtù della quale ogni Stato era
autorizzato a catturare in alto mare le navi pirata. Nell’esercizio di questo diritto, gli Stati agivano per la

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tutela di un interesse comune. Si ricorda a tal pro-posito il caso Le Louis Forest (1817) secondo cui una corte
britannica dichiarava “nemici della razza umana” i pirati, dichiarando altresì che il diritto di catturare le navi
pirata costituiva una misura di autodifesa.

Un’altra eccezione riguardava i diritti degli Stati rivieraschi. Ove uno di questi avesse impedito ad un altro
l’esercizio della libera navigazione, questo comportamento avrebbe costituito un illecito nei confronti di tutti
gli Stati rivieraschi, considerati eguali di fronte alla legge.

Accanto alle norme basate sulla reciprocità, esistono anche norme internazionali che hanno natura solidale.
Questa categoria di norme si è venuta a formare a seguito dell’emergere di nuovi valori, che la società
internazionale nel suo insieme ritiene degni di particolare prote-zione. Le norme in questione pongono
obblighi erga omnes (nel caso in cui discendano da un trattato, sono denominati erga omnes partes), ossia
obblighi che 1) proteggono valori fondamentali per la società internazionale nel suo insieme (pace, diritti
umani, autodetermi-nazione dei popoli, protezione dell’ambiente); 2) sono di natura solidale, nel senso che
in-combono su ogni membro della società internazionale nei confronti di tutti gli altri membri (o, nel caso
dei trattati, delle parti contraenti); 3) ad essi corrisponde un diritto sostanziale che appartiene ad ogni
membro della società internazionale (o parte del trattato); 4) l’azione a tutela di tale diritto è esercitata per
conto dell’intera società internazionale per salvaguardare gli interessi fondamentali di quella comunità. I
diritti corrispondenti agli obblighi in questione sono detti “diritti solidali”.

Le norme internazionali erga omnes tutelano ciò che il giurista neogiusnaturalista Francisco de Victoria
denominava bonum commune totius orbis (il bene comune dell’intera umanità), davanti ai quali devono
cedere gli interessi e le pretese di ciascuno Stato.

Quanto alle forme e ai modi in cui tali diritti solidali possano essere tutelati, il diritto consuetudinario non
predispone alcuno specifico meccanismo. Si può far quindi ri-corso ai mezzi tradizionali di attuazione del
diritto (iniziative e pressioni diplomatiche, ritorsioni, contromisure ecc.).

L’Institut de droit international in una risoluzione del 1989 ha precisato che, in pre-senza di violazioni grave
e sistematiche dei diritti umani, ogni Stato è legittimato ad adottare misure diplomatiche, economiche o altre
misure pacifiche nei confronti dello Stato autore della violazione.

Per il diritto convenzionale, alcuni trattati non prevedono i mezzi attraverso i quali i diritti possano essere
garantiti e si può quindi ricorrere ai mezzi tradizionali. Altri trattati predispongono invece delle procedure
speciali.

Il recente emergere di obblighi di natura solidale non deve però essere sopravvalutato. Le norme
convenzionali e consuetudinarie che contemplano i suddetti obblighi sono esigue numericamente. E’ raro
infatti che gli Stati ricorrano a meccanismi di tutela di norme di natura solidale, ammesso che non vi siano in
gioco i propri interessi economici, militari o politici.

Occorre precisare che esistono trattati istitutivi di meccanismi azionabili anche a se-guito di reclamo da parte
di individui che lamentino una lesione di diritti, oppure ex o fficio, o per iniziativa stessa dell’organo di
controllo istituito dal trattato. L’attività di tali organi compensa la scarsa attenzione degli Stati per la tutela
effettiva di beni e valori comuni.

VII. IL DIRITTO INTERNAZIONALE CONTEMPORANEO


Dalla Seconda guerra mondiale, il diritto internazionale ha subito importanti trasfor-mazioni. Nuovi soggetti
hanno affiancato gli Stati, il numero di Stati è aumentato in seguito alla decolonizzazione e la sfera di libertà
degli Stati ha subito limitazioni, grazie alla rete di trattati che vincolano i membri della società
internazionale. E’ vero che questa rete di obblighi è imposta da trattati liberamente stipulati e quindi che gli
Stati possono sempre liberarsene, ma nei fatti questo è di fficilmente praticabile per ostacoli di natura
politica, economica, diplomatica, militare e psicologica.

Gli Stati non sono più liberi di usare la forza armata come strumento di politica estera, secondo quanto
stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite ex art. 2 par. 4.

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Da quando sono emersi e radicati valori internazionali, come quello di cui sopra, la tra-dizionale natura
sinallagmatica delle norme internazionali si è incrinata, per lasciar spazio a norme con carattere erga omnes,
allo jus cogens che ha limitato la libertà degli Stati di stabilire il contenuto degli accordi internazionali da
essi stipulati, si è consolidata la responsabilità penale internazionale degli individui per crimini internazionali
e si è deli-neata una forma aggravata di responsabilità degli Stati per violazioni gravi di norme di jus cogens.

Nella società internazionale non si è tuttavia ancora realizzata la sostituzione tra il nuovo e il vecchio
modello giuridico e così istituti giuridici tradizionali coesistono con quelli di nuova formazione. Il modello
tradizionale “groziano” si fonda su una visione statalista delle relazioni internazionali, ed è caratterizzato da
regole che mirano ad assicurare la coesistenza e la cooperazione tra Stati sovrani. L’altro modello, quello
“kantiano”, si basa invece su una visione cosmopolitica delle relazioni internazionali e pone l’accento sulla
solidarietà transnazionale. Si parla quindi di jus cosmopoliticum. I nuovi istituti non hanno soppiantato la
vecchia intelaiatura, sovrapponendosi invece a quelli del modello tradizionale.

Per riprendere la distinzione elaborata da Tönnies, a livello internazionale non si è ancora formata una
comunità (Gemeinschaft), dovendosi invece piuttosto parlare di una mera società (Gesellschaft), in cui ogni
membro è più propenso a perseguire i propri interessi piuttosto che quelli del gruppo e in cui le relazioni tra
gli Stati sono caratterizzate da calcoli utilitaristici.

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CAPITOLO 2. L’EVOLUZIONE STORICA DELLA SOCIETA’ INTERNAZIONALE


L’evoluzione storica della società internazionale può essere suddivisa in fasi. Questa periodizzazione è
arbitraria ma può aiutare a comprendere meglio alcuni momenti di svolta.

I. LA NASCITA DELLA SOCIETA’ INTERNAZIONALE


L’origine della società internazionale si fa risalire al XVI secolo, intorno alla pace di West-falia (1648), che
pose fine alla feroce guerra dei Trent’anni. Al tempo già si intrattenevano relazioni diplomatiche e consolari
e venivano stipulati trattati di guerra, pace ed alleanza. Si era inoltre già a ffermata la regolamentazione
giuridica dell’istituto della rappresaglia e si era sviluppato un corpo di norme sulla condotta delle ostilità
belliche. Tuttavia questi rapporti erano ben diversi dalle attuali relazioni internazionali, in particolar modo
per due motivi. Il primo era che nonesistevano vere e proprie entità statali ed era assente un modello di
struttura organiz-zativa centralizzato. Il secondo, relativo al periodo antecedente alla pace di Westfalia, era la
presenza di due grandi centri d’autorità: il papa e l’imperatore a capo del Sacro Romano Impero.

L’affermazione del moderno Stato nazionale fu la premessa per lo sviluppo dell’odierna società
internazionale. Questo fenomeno fu favorito dalla scoperta dell’America (1492) e dal di ffondersi del
protestantesimo, che portarono alla forma-zione di Stati che lottavano per la propria indipendenza da autorità
superiori. Il con-tributo di grandi giuristi fornì una legittimazione giuridica compiuta alle pretese dei nuovi
Stati emergenti: Francisco de Victoria, Francisco Suarez, Alberico Gentili, Ugo Grozio.

In un’indagine storica sull’origine dello Stato moderno, J.R. Strayer ha citato gli ele-menti caratterizzanti lo
Stato moderno:

• emergere di unità politiche stabili nel tempo e nello spazio


• sviluppo di istituzioni permanenti impersonali
• accordo sulle necessità di un’autorità che pronunci verdetti definitivi
• accettazione dell’idea che tale autorità debba ottenere la lealtà sostanziale dei sudditi
• dislocazione di lealtà dalla famiglia, dalla comunità locale o dall’organizzazione religiosa allo
Stato, e l’acquisizione da parte di esso, di un’autorità morale volta a sostenere la sua struttura
istituzionale e la sua supremazia giuridica generale
• svilupparsi di apparati burocratici centralizzati (poi ministeri), di cui si segna la na-scita nel
1791, con l’istituzione in Francia dei vari ministeri, secondo il principio della divisione del
lavoro nella pubblica amministrazione.

La guerra dei Trent’anni era cominciata nel 1618 a causa del contrasto tra paesi protestanti e cattolici, ma ben
presto si era trasformata in una guerra in cui era in gioco l’egemonia militare e politica in Europa. I trattati di
pace, firmati nelle città westfaliane di Münster e Osnabrück, rappresentano uno spartiacque nell’evoluzione
della moderna società internazionale. Essi riconobbero il protestantesimo a livello internazionale,
legittimando pertanto l’esistenza di Stati che si fondavano sul credo calvinista o luterano. Essi concessero ai
membri del Sacro Romano Impero (ca. 300 staterelli) lo jus foederationis, ossia il diritto di stringere alleanze
con potenze straniere e di muovere guerra purché non contro l’Impero, contro la pace generale o contro il
Trattato. Questi Stati furono così promossi al rango di membri della società internazionale, titolari di diritti
“quasi sovrani”. Infine essi consacrarono una distribuzione del potere che sarebbe durata per più di un
secolo. Francia, Svizzera e Paesi Bassi furono riconosciuti come potenze emergenti, Svizzera (e poi Paesi
Bassi) ottennero lo status di neutralizzati, la Germania fu divisa in più Stati. Cominciarono il declino della
Chiesa e ladisintegrazione dell’Impero. Fu addirittura previsto un sistema di sicurezza collettiva (vedi gli
artt. 123 e 124 del Trattato di Münster), che ruotava intorno a tre elementi: 1) ampio divieto di ricorso alla
forza; 2) divieto di legittima difesa individuale per un certo periodo; 3) dovere, di tutti gli altri Stati
contraenti, al termine del periodo in questione, di reagire in legittima difesa collettiva. Tale sistema, che
assomiglia a quello successivamente stabilito nel 1919 col Patto della Società delle Nazioni, non trovò mai

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attuazione poiché al tempo prevaleva l’orientamento che vedeva il diritto illimitato di ricorso alla guerra e
l’assenza di obblighi nel fornire assistenza militare alle vittime in caso di attacco.

II. DALLA PACE DI WESTFALIA ALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE LE
PRINCIPALI POTENZE
Per secoli i membri più attivi e importanti della società internazionale furono gli Stati europei, cui si
affiancarono, nel 1783, gli Stati Uniti e, tra il 1811 e il 1821, i paesi latinoamericani. L’Europa era il “teatro
della storia del mondo” (Hegel). Nonostante i conflitti politici, economici e militari, gli Stati europei avevano
una comune matrice religiosa e il comune bagaglio ideologico contribuiva ad una migliore comprensione
reciproca. Altro fattore di coesione era rappresentato dalla struttura capitalistica e, a livello politico,
l’apparato di potere assolutistico (poi sostituito dalla democrazia parlamentare). Fu la rivoluzione industriale
alla fine del XVIII secolo a creare un divario tra gli Stati europei ed extraeuropei, che finirono per essere
conquistati gradualmente dai paesi europei nel XIX e XX secolo.

 Il Sistema Delle Capitolazioni E Il Colonialismo

L’Occidente sviluppò due distinte tipologie di rapporti con il mondo esterno, a seconda che si trattasse di veri
e propri Stati o di comunità prive di un’autorità centrale organizzata. Nel primo caso, Europa e US basarono
le loro relazioni sul sistema delle capitolazioni, mentre le altre comunità furono considerate come oggetti di
conquista e appropriazione ed assoggettate quindi al regime coloniale.

Le capitolazioni (chiamate così perché suddivise in capitula, capitoli) erano accordi conclusi (sin dal XII
secolo e poi consolidatisi nel XVII e XVIII secolo) da paesi europei e governanti musulmani, Stati arabi,
Persia, Siam, Cina e Giappone, al fine di disciplinare le condizioni di residenza degli occidentali sul territorio
di nazioni non europee. Questi non potevano essere espulsi dallo Stato senza il consenso del loro console,
beneficiavano di libertà di scambio e commercio ed erano esenti da certi dazi, non potevano essere oggetto di
rappresaglie ed in caso di controversie con altri cittadini europei erano sottoposti alla giurisdizione del
console.

Occorre mettere in evidenza tre aspetti del regime delle capitolazioni: 1) esso faceva sì che gli occidentali
costituissero una comunità giuridicamente separata da quella locale; 2) tale regime non era ispirato al
principio di reciprocità, esso consisteva infatti in una serie di privilegi concessi agli occidentali, ponendo in
essere una disuguaglianza sintomatica del tipo di relazioni esistenti fra Stati occidentali e mondo esterno; 3)
solo alla fine del XIX secolo il regime delle capitolazioni cominciò ad essere percepito come un’indebita
ingerenza nei propri diritti sovrani e fu quindi progressivamente eliminato.

Quanto al colonialismo, conformemente alle norme internazionali vigenti, gli Stati erano autorizzati
all’acquisizione di sovranità su determinati territori degradati al rango di terrae nullius, i cui governanti erano
ritenuti privi di status giuridico internazionale. L’e ffettività dell’occupazione e il controllo de facto sul
territorio (accompagnati dall’animus possidendi) erano su fficienti per l’acquisizione di diritti esclusivi di
sovranità. In caso di opposizione alla conquista coloniale, il diritto internazionale consentiva alle potenze
europee di ricorrere alla guerra o di stipulare trattati privi di reciprocità. In caso di controversie tra Stati
desiderosi di appropriarsi degli stessi ter-ritori era consentito utilizzare questi stessi mezzi giuridici.

 La Distribuzione Del Potere

Durante questo periodo, il potere era esercitato in modo di ffuso, ossia nessuno era divenuto così forte da
imporre il proprio volere agli altri membri della società internazionale. A livello giuridico, gli Stati erano su
un piano di uguaglianza ma di fatto alcuni Stati dominavano la scena internazionale (Francia, Gran Bretagna,
Spagna, Portogallo, US, Russia, Austria, Prussia, Svezia, Paesi Bassi). E’ da ricordare il tentativo, nel 1815,
dopo la sconfitta di Napoleone, di istituire un sistema per limitare il ricorso alla violenza bellica. I vincitori
sentivano il bisogno di proteggere gli interessi delle monarchie contro i germi della rivoluzione e si allearono
per ideare un meccanismo capace di imbrigliare le nuove forze che spingevano per l’abolizione dei privilegi
e delle ineguaglianze. Per la precisione, il Protocollo Troppau stabiliva che lo Stato nel quale scoppiava una

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rivoluzione avrebbe cessato di essere parte del Concerto europeo. Gli Stati interessati o la Santa Alleanza
sarebbero intervenuti per porre fine alla rivoluzione. Il sistema fu usato in particolare in due occasioni: nel
1821 per reprimere i moti liberali a Napoli e Torino e, nel 1823, in Spagna. Questo sistema, appunto noto
come il Concerto d’Europa, fu predisposto in una serie di trattati del 1815. Esso si basava su tre elementi
principali: 1) una dichiarazione di principi (che non vincolava Gran Bretagna, papato e Impero ottomano)
che stabiliva che le parti contraenti avrebberoadottato i precetti della religione cristiana come parametri di
comportamento; 2) un’alleanza militare, la Santa Alleanza (istituita dal Trattato di Parigi del 26 settembre
1815 tra Austria, Prussia e Russia e Francia nel 1818), in cui le grandi potenze si impegnavano a proteggere
l’ordine costituito; 3) una nuova procedura di soluzione delle controversie consistente in incontri in cui si
poteva discutere i grandi interessi comuni e il mantenimento della pace. Si trattava di un nuovo metodo
diplomatico multilaterale basato su incontri periodici al vertice (gli odierni summit).

Appena le monarchie europee furono attaccate dai movimenti nazionalisti e costrette a trasformarsi in
democrazie parlamentari, il sistema del 1915 fu sostituto dalla politica dell’equilibrio di potere. Le grandi
potenze ripresero a perseguire l’obiettivo dell’egemonia. Ben presto però l’emergere degli Stati Uniti pose un
limite al potere degli Stati europei nel continente americano. Il nuovo indirizzo fu proclamato dal presidente
Monroe in una “dottrina” (la dottrina Monroe) enunciata in un messaggio al Congresso del 2 Dicembre 1823,
in cui si affermava che il continente americano non avrebbe potuto più essere considerato oggetto di
colonizzazione da parte delle potenze europee. Inoltre, gli Stati Uniti si sarebbero astenuti dall’intervenire
negli affari europei e non avrebbero tollerato ingerenze da parte degli Stati europei.

Nello stesso periodo si andò diffondendo l’istituto dell’intervento coercitivo, da parte delle grandi potenze,
negli affari interi o esterni di altri Stati, principalmente per due mo-tivi: primo, la tendenza a stringere
alleanze e svolgere azioni di polizia internazionale, come ad esempio dopo la sconfitta di Napoleone nella
forma di un forte sentimento di solidarietà che unì le monarchie reazionarie; secondo, perché le devastazioni
delle guerre napoleoniche spinsero gli Stati ad intervenire così, piuttosto che in vere e proprie guerre.

 Lo Sviluppo Normativo

L’espressione “diritto internazionale” fu usata per la prima volta da Bentham nella sua Introduzione ai
principi della morale e della legislazione (1780). Le norme che si vennero a formare in questo periodo
presentano due caratteristiche fondamentali: 1) esse furono il prodotto della civiltà occidentale, con la
conseguente impronta dell’eurocentrismo, dell’ideologia cristiana e della visione liberistica; 2) si tratta di
norme venutesi a formare ad opera di grandi e medie potenze coloniali e che dunque consentivano a questi di
meglio tutelare i propri interessi.

Un notevole contributo allo sviluppo delle norme consuetudinarie fu fornito da un gruppo di eminenti giuristi
europei ed americani, i quali promossero l’istituzione aGent (Belgio), nel 1873, di un’associazione di insigni
accademici: l’Institut de droit inter-national. L’istituto si poneva l’obiettivo di promuovere lo sviluppo del
diritto internazionale. In epoca attuale, il contributo dell’Institut de droit international ha perso importanza,
es-senzialmente per l’istituzione da parte dell’Assemblea Generale (AG) dell’ONU, della Commissione di
diritto internazionale (CDI).

Occorre precisare che, nonostante le norme poste in essere da queste convenzioni fossero conformi agli
interessi di alcuni Stati, la loro valenza intrinseca per l’intera società internazionale le ha trasformate in
principi duraturi.

 La Clausola Calvo E La Dottrina Drago

Nel periodo in esame furono effettuati timidi tentativi di limitare il predominio delle grandi potenze. Il primo
è rappresentato dalla clausola Calvo (giurista argentino) che, da metà XIX secolo, molti Stati latinoamericani
iniziarono ad inserire nei contratti di concessione stipulati con stranieri e concernenti principalmente lo
sfruttamento delle risorse nazionali e secondo cui lo straniero avrebbe accettato di sottoporsi, in caso di
controversie, alla giurisdizione dello Stato territoriale. Questa clausola aveva lo scopo di limitare gli
interventi politici e giuridici in protezione diplomatica e ffettuati dai paesi occidentali. Il tentativo però non
produsse alcun effetto, confermando così l’impossibilità di scardinare la situazione esistente.

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Un altro importante tentativo di porre limiti all’egemonia delle grandi potenze fu e ffettuato, agli inizi del XX
secolo, dal ministro degli Esteri argentino Luis Maria Drago, per il quale le grandi potenze non dovevano
ricorrere alla forza militare al fine di recuperare i crediti vantati dai loro cittadini nei confronti degli Stati più
poveri. Tre paesi europei (Gran Bretagna, Germania e Italia) si avvalsero di tale facoltà nei confronti del
Venezuela nel 1902. La commissione che doveva valutare le pretese dei tre Stati di ottenere risarcimenti per
danni causati durante la guerra civile (1898 - 1900) respinse in parte le richieste. Le potenze euro-pee, dopo
l’ultimatum, affondarono tre vascelli venezuelani, bombardarono Puerto Cabello e istituirono un blocco
navale a largo delle coste del Venezuela. Pochi giorni dopo che il Ve-nezuela cedette, Drago inviò una nota
diplomatica al Dipartimento di Stato degli US in cui sosteneva che l’intervento armato era contrario alla
dottrina Monroe e che problemi finanziari non potevano giustificare un intervento militare straniero. Questa
nota suscitò una tiepida risposta da parte degli US. Il Segretario di Stato, P. Hay, respinse la tesi di Drago,
citando un messaggio al Congresso di Roosevelt del 1902, in cui si dichiarava che “spetta a ciascuno
mantenere l’ordine all’interno dei propri confini e adempiere gli obblighi nei confronti degli stranieri”. Un
tentativo di far valere la dottrina Drago fu fatto nel 1907, quando fupredisposto un testo di una convenzione
(Convenzione Drago - Porter, nome del de-legato degli US) che condizionasse il ricorso alla forza alla
mancata accettazione, da parte dello Stato debitore, di un arbitrato internazionale o alla mancata esecuzione
del lodo arbitrale. La Convenzione non venne ratificata da alcuno Stato europeo.

III. DALLA PRIMA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE


Due avvenimenti importanti segnano l’inizio di una nuova epoca: 1) la Prima guerra mondiale; 2) la
rivoluzione sovietica e la nascita del primo Stato che si oppose fer-mamente ai principi economici ed
ideologici che all’epoca ispiravano gli altri Stati e anche le relazioni internazionali.

 La Prima Guerra Mondiale E Le Sue Conseguenze

La guerra dimostrò che vi sono avvenimenti decisivi per l’intera società internazionale rispetto ai quali
nessuno Stato può restare in disparte. Essa segnò inoltre la fine dell’era europea. La retrocessione
dell’Europa ad “una” delle aree di potere ebbe varie concause: il ruolo di potenza mondiale progressivamente
assunto dagli Stati Uniti, la nascita, nel 1917, dell’URSS e la fine del processo di conquista coloniale (il
crollo degli imperi coloniali si ebbe poi negli anni ’60). Si assistette ad un declino dell’Europa sotto il profilo
economico, militare, politico ma anche culturale ed ideo-logico.

 La Nascita Dell’URSS

In passato, alcuni membri della società internazionale, sebbene avessero sistemi economici, principi religiosi
e ideologie diversi da quelli degli Stati europei, si erano de facto sottomessi alla maggioranza cristiano -
capitalista. Nel 1917, per la prima volta, uno Stato proclamò un’ideologia e una filosofia politica
radicalmente in contrasto con quelle degli altri Stati. I nuovi principi a ffermati dall’URSS erano: 1)
autodeterminazione dei popoli; 2) uguaglianza sostanziale degli Stati (contrapposta all’uguaglianza formale);
3) internazionalismo socialista (l’URSS si impegnava ad aiutare le classi lavoratrici e i partiti politici
socialisti di qualsiasi Stato). L’URSS propugnava anche il parziale rifiuto del diritto internazionale in quanto
prodotto dell’ideologia capitalista borghese, arrivando a denunciare molti trattati bilaterali e multilaterali
stipulati da governi precedenti anche se, tacitamente o esplicitamente, finì con l’accettare molte norme
internazionali per non diventare emarginata dal resto della società internazionale.

 La Societa’ Delle Nazioni

Alla fine della Prima guerra mondiale i vincitori decisero di creare un’organizzazione inter-nazionale, al fine
di prevenire il verificarsi di conflitti armati mondiali. Fu così creata, nel 1919, la Società delle Nazioni
(SdN), cui aderirono soltanto 42 Stati, cosa che indebolì la nuova organizzazione sin dall’inizio. Il sistema
del 1919 era simile a quello predisposto con la pace di Westfalia. Non si proibiva l’uso della forza armata
tout court, ma si ponevano dei limiti al ricorso della guerra. Gli artt. 12, 13 e 15 del Patto prevedevano un
periodo di cooling off di tre mesi durante i quali si deferivano le controversie al Consiglio della Società.

Non erano tuttavia vietate misure coercitive diverse dalla guerra e conseguentemente gli Stati sostenevano
sempre più di essere impegnati in misure di questo tipo, negando la violazione delle norme del Patto. Non

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esisteva poi un sistema collettivo di attuazione coercitiva del diritto nei confronti dello Stato che avesse
violato le disposizioni procedurali del Patto. L’Assemblea o il Consiglio della Società non avevano il potere
di inviare truppe contro l’aggressore, ma potevano solo raccomandare agli Stati membri le sanzioni da
adottare contro lo stato aggressore.

Infine, le disposizioni del Patto vincolavano gli Stati membri e non anche gli Stati terzi (quali ad esempio
Stati Uniti, Germania, URSS, Giappone). La possibilità per questi Stati di fare ricorso alla guerra era intatta.

Le divergenze fra Stati membri, il difetto di cooperazione, il fatto che la SdN divenne gradualmente uno
strumento politico di Gran Bretagna e Francia, nonché le carenze istituzionali sono le ragioni principali del
fallimento del sistema istituito nel 1919.

US e Francia cercarono di ovviare ai difetti più evidenti della SdN mediante il Patto di Parigi di rinuncia alla
guerra in termini assoluti del 27 agosto 1928 (c.d. Patto Briand - Kellogg). Nel diritto internazionale
consuetudinario il ricorso alla guerra continuava però a non essere vietato. Ed inoltre il divieto di ricorso alla
guerra avrebbe comunque lasciato inalterato il diritto di legittima difesa (interpretato allora in maniera assai
più ampia di oggi).

In conclusione, né la SdN, né il Patto riuscirono ad apportare modifiche al diritto in-ternazionale


consuetudinario.

 Gli Sviluppi Normativi

In questo periodo non furono raggiunti risultati di particolare importanza sotto il profilo della produzione
normativa. L’URSS era troppo isolata per poter influenzare la formazione di nuove regole e istituti giuridici.
Si registrò qualche progresso nella soluzione arbitrale e giudiziale delle controversie. Nel 1921, furono
istituiti la CPGI e numerosi tribunali arbitrali, le cui sentenze però spesso rimasero inattuate. Tuttavia
vennero così chiariti i contenuti di copiose norme e istituti, contribuendo ad una maggior certezza del diritto.

La spinta verso la riduzione delle disuguaglianze fra Stati spinse verso la progressiva aboli-zione delle
capitolazioni. Quanto agli individui, gli Stati cominciarono a proibire la tratta degli schiavi e l’istituto della
schiavitù e gruppi di individui (es. minoranze religiose, etniche e linguistiche) si videro riconoscere il diritto
di presentare ricorsi davanti ad organi in-ternazionali. Gruppi di lavoratori ebbero il diritto di presentare
reclami al Consiglio di am-ministrazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Nel 1927 un
internazionalista greco, Politis, scrisse che un giorno le gabbie di ferro degli Stati sovrani sarebbero cadute in
pezzi e che quel giorno gli uomini avrebbero potuto comunicare oltre le frontiere delle loro rispettive nazioni
liberamente e senza alcun ostacolo.

IV. DALLA CARTA DELLE NAZIONI UNITE ALLA FINE DELLA GUERRA FREDDA
 Le Conseguenze Principali Della Seconda Guerra Mondiale

Nel 1945, a distanza di pochi mesi, ebbero luogo tre importanti eventi: 1) il 26 giugno fu adottata la Carta
delle Nazioni Unite 2) il 6 e 10 agosto furono sganciate due bombe su Hi-roshima e Nagasaki da due aerei
statunitensi; 3) l’8 agosto fu istituito il Tribunale militare internazionale di Norimberga (IMT) per la
punizione dei grandi criminali di guerra. Questi tre avvenimenti accentuarono la tensione, da sempre
esistente, tra forza e diritto. Nonostante non fossero legati tra loro, essi erano in parte sottesi da un disegno
unitario: porre fine alla guerra, punire i responsabili e porre le basi per un nuovo assetto della società
internazionale.

La fine della guerra funse da acceleratore del processo di disgregazione degli imperi colo-niali, soprattutto a
causa del fatto che la crescente potenza degli Stati Uniti, essendo favore-vole al libero mercato e alla libera
concorrenza, non poteva non opporsi alle implicazioni economiche del colonialismo. Dopo la Prima guerra
mondiale, alcuni Stati europei occiden-tali avevano conosciuto una progressiva apertura alla democrazia ed
una spinta verso il welfare state, motivata da una maggior sensibilità per le persone più bisognose. I costi dei
domini coloniali erano in aumento e l’opinione pubblica premette perché i governi abbandonassero i territori
coloniali. La ragione è semplice: i vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle colonie andavano a pochi,
mentre i costi generali aumentavano per tutti.
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 La Creazione Dell’onu

Come reazione alla guerra, gli Alleati decisero di istituire un’organizzazione internazionale capace di limitare
significativamente l’uso della forza armata e di contribuire alla soluzione pacifica delle controversie
internazionali. Fu creata, nel 1945, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) cui gli Stati attribuirono il
compito di mantenere la pace e la sicurezza internazionale. La premessa politica era il riavvicinamento tra
USA e URSS che condusse a qualche forma di cooperazione fra i due Stati. Non c’è alcun dubbio sul fatto
che con l’ONU si sia istituito un meccanismo di sicurezza collettiva più avanzato di quelli realizzati nel
passato (1648, 1815, 1919). Basti menzionare che la Carta delle Nazioni Unite non si limita a vietare il
ricorso alla guerra, ma estende la proibizione alla minaccia e all’uso della forza armata. Per il resto, il
sistema di sicurezza collettiva creato nel 1945 presenta caratteri simili a quelli del Concerto d’Europa. Le
potenze costituirono un direttorio, il Consiglio di Sicurezza, composto di 11 membri (oggi 15), ma cui
partecipano a titolo permanente le due superpotenze, Stati Uniti e URSS (poi Russia) e Regno Unito, Francia
e Cina. Per la prima volta si legittimava sotto il profilo giuridico la superiorità di alcuni Stati sugli altri. L’art.
27 par. 3, della Carta delle Nazioni Unite dispone che il Consiglio di Sicurezza non può adottare decisioni su
questioni sostanziali senza l’accordo dei cinque membri permanenti. Questo è il c.d. diritto di veto dei
“cinque grandi”: se i cinque concordano nel ritenere che una data situazione costituisca, ai sensi dell’art. 39,
una minaccia alla pace, una violazione della pace o un atto di aggressione, il CdS può adottare le misure non
implicanti (art. 41) o implicanti, l’uso della forza (art. 42) che esso ritenga necessarie.

Due avvenimenti indebolirono l’ONU sin dall’inizio: 1) il fatto che a due mesi di distanza dall’adozione
della Carta gli US avessero lanciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki; 2) lo scoppio della guerra
fredda nel 1946, che ruppe l’alleanza tra USA e URSS e divise il mondo in due campi contrapposti.

 La Composizione Della Societa’ Internazionale

Dopo la Seconda guerra mondiale cambiò radicalmente la fisionomia della società interna-zionale. In alcuni
Stati dell’Europa orientale si instaurarono regimi socialisti (Repubblica democratica tedesca, Polonia,
Bulgaria, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia). Inoltre a seguito del progressivo smantellamento
degli imperi coloniali, un certo numero di paesi raggiunse l’indipendenza politica. Dopo il 1960 la società
internazionale era in gran parte composta da paesi del Terzo mondo che, insieme agli Stati socialisti,
raggiungevano la maggioranza dei due terzi richiesta per l’adozione delle delibere più importanti nelle confe-
renze internazionali. Ciò non deve tuttavia trarre in inganno, in quanto ancora oggi l’attuale maggioranza
occidentale detiene un enorme potere economico e militare e la maggio-ranza degli Stati ha un’autorità di
tipo prevalentemente politico e retorico.

Accanto agli Stati di nuova indipendenza, si affacciarono sulla scena internazionale anche le organizzazioni
internazionali. Queste ultime svolgevano numerose attività politiche, economiche, sociali, tecniche, ecc.. La
partecipazione di tutti gli Stati alle organizzazioni internazionali ha impedito agli Stati meno potenti di
rimanere in disparte. Essi sono oggi co-stretti ad esprimere il loro parere e si è sviluppato così un senso di
appartenenza alla mede-sima comunità.

 La Lotta Per Un Nuovo Diritto

Gli Stati del Terzo mondo, insieme a quelli socialisti, a ffermarono la loro superiorità numerica ed esaltarono
le potenzialità dell’ONU in tutti i suoi campi di attività, ad ecce-zione di quello della sicurezza collettiva.
Essi lottarono per l’affermazione su piano giu-ridico di due principi: l’autodeterminazione dei popoli e
l’uguaglianza razziale. Nel 1965 venne adottata la Convenzione (delle Nazioni Unite) sull’eliminazione di
ogni forma di discriminazione razziale e nel 1966 vennero adottati i due Patti delle Nazioni Unite sui diritti
umani, il cui art. 1 proclama il principio di autodeterminazione dei popoli. I due gruppi di Stati proposero che
tutti i principi del diritto internazionale fossero riformulati in modo da prendere in considerazione le loro
esigenze e si giunse così all’adozione da parte dell’AG della Dichiarazione sulle relazioni amichevoli fra
Stati.

Nel 1977, il “Gruppo dei 77” riuscì a far adottare all’AG una dichiarazione ed un piano d’azione sul Nuovo
ordine economico internazionale (NOEI). Si utilizzò lo strumento della raccomandazione (ossia un atto

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giuridico non vincolante), poiché sa-rebbe stato irrealistico cercare di imporre nuovi principi giuridici
economici ai paesi industrializzati.

V. DALLA FINE DELLA GUERRA FREDDA AD OGGI


Il crollo dell’URSS nel 1989 ha provocato la dissoluzione del gruppo dei paesi socialisti e non esistono più i
tre raggruppamenti. Attualmente esiste una superpotenza, gli USA, che guida politicamente ed
ideologicamente gli Stati occidentali e che cerca di risolvere le controversie politiche o di promuovere la loro
soluzione e contribuire al mantenimento della pace e all’attuazione coercitiva del diritto internazionale.
Questo ruolo è però svolto in modo selettivo, ossia solo nella misura in cui si rivela conforme agli interessi
geopolitici e stra-tegici statunitensi, e favorisce tali interessi. Nei casi in cui erano in gioco questi interessi,
gli USA hannoagito usando la forza, anche se nell’ambito dell’ONU (Iraq, 1991; Somalia, 1992; Bosnia -
Erzegovina, 1992 - 1995). In altri casi, quando il sostegno dell’ONU è mancato, gli USA hanno agito tramite
la NATO (Kosovo, 1999; Iraq, 2003; Libia 2011). In altre cir-costanze gli USA hanno evitato di
intraprendere azioni militari proprie perché i loro inte-ressi non erano coinvolti (Ruanda, 1994; Sierra Leone,
2000; ecc.). Infine, gli USA eser-citano un rilevante ruolo politico di mediatore mondiale in zone di conflitto
(Medio Oriente, Irlanda del Nord, ecc.).

Gli ex paesi socialisti tendono ad appoggiarsi agli Stati occidentali. I paesi in via di svi-luppo non sembrano
più schierati ideologicamente, ma sono uniti dalla loro richiesta di maggiore assistenza economica e
finanziaria internazionale e di un più ampio accesso ai mercati mondiali. Nelle Nazioni Unite questi paesi
formano sia il “Gruppo dei 77”, quando discutono di questioni economiche, sia il Movimento dei non
allineati (NAM), quando discutono di questioni politiche.

La fase attuale delle relazioni internazionali sembra caratterizzata dal declino dell’ONU per il mantenimento
della pace, dalla tendenza degli Stati a ra fforzare le alleanze militari (come la NATO), e dalla crescente
tendenza verso la regionalizzazione (come sta succedendo in EU). Si può dire che le relazioni internazionali
odierne siano contraddistinte dal “disordine multipolare”, ossia una situazione in cui, non riuscendo gli USA
ad esercitare una supremazia assoluta, autorità e potere siano frantumati. Il multipolarismo ha quindi
succeduto il bipolarismo della guerra fredda.

Tre fenomeni emergono dalla società internazionale attuale: 1) ascesa di alcuni Stati del Terzo mondo (Cina,
India, Brasile); 2) declino di Francia e Regno Unito; 3) ruolo accresciuto di enti non statali (tra cui le
organizzazioni terroristiche); 4) l’utilizzazione degli sviluppi della tecnologia moderna da parte di
organizzazioni eversive.

Attualmente, i paesi industrializzati considerano come principali problemi internazionali la liberalizzazione


del commercio, il disarmo nucleare, la lotta al terrorismo, la protezione dell’ambiente e la necessità di
impedire il diffondersi dei conflitti etnici, razziali e religiosi all’infuori dei confini nazionali.

I paesi in via di sviluppo, ritengono invece che i problemi internazionali maggiori siano costituiti dalla loro
povertà ed arretratezza, dalla mancanza di un accesso equo dei loro prodotti sui mercati mondiali e dal
divario crescente con i paesi industrializzati. Essi, dopo il fallimento del NOEI hanno compreso che è più
utile raggiungere accordi o compromessi coi paesi industrializzati, cercando di essere più realistici e con
meno pretese.

Un aspetto caratteristico del moderno sviluppo del diritto internazionale è la permeabilità e reciproca
influenza dei vari settori del diritto internazionale: essa dimostra che, per lo meno a livello normativo, la
società internazionale è sempre più integrata e che valori quali i diritti umani e la necessità di promuovere lo
sviluppo economico dei paesi svantaggiati stanno influenzando in misura sempremaggiore vari settori del
diritto internazionale.

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PARTE SECONDA
LO STATO
CAPITOLO 3. LO STATO E LA SUCCESSIONE TRA STATI

Malgrado le differenze che intercorrono tra gli Stati che, si ricorda, sono i sog-getti primari dell’ordinamento
giuridico internazionale, è possibile identificare le caratteristiche essenziali che un ente deve presentare per
poter essere consi-derato uno Stato ai sensi del diritto internazionale. Tali caratteristiche consento-no anche
di individuare in quali casi i mutamenti nel governo di un territorio danno vita ad un nuovo Stato, alla sua
estinzione o ad altre ipotesi, e quali effetti essi producono nei diritti ed obblighi giuridici dello Stato sul cui
territorio è avvenuto il mutamento.

I.LO STATO COME SOGGETTO DI DIRITTO INTERNAZIONALE

Le persone fisiche diventano titolari di personalità giuridica al momento della nascita (sebbene esse possano
esercitare pienamente tale personalità solo al compimento della maggiore età) e gli enti (società, fondazioni,
enti pubblici) diventano titolari di soggettività giuridica al raggiungimento di determinati requisiti.
L’ordinamento in-ternazionale difetta di norme giuridiche per quanto riguarda la nascita di nuovi Stati.
Tuttavia, se si esaminano le norme consuetudinarie che stabiliscono diritti e obblighi giuridici fondamentali
degli Stati, appare chiaro che gli enti cui esse si indirizzano debbano possedere almeno due caratteristiche: 1)
devono disporre di un apparato centralizzato che eserciti a titolo originario un controllo e ffettivo su una
determinata comunità territoriale, ossia un apparato di governo autonomo da qualsiasi altro Stato (anche se in
passato sono stati considerati Stati anche i protettorati); 2) è necessario poi che l’ente possegga un territorio
che non appartenga ad un altro Stato sovrano, e su cui viva una comunità i cui membri non debbano
obbedienza ad alcuna autorità esterna. In sostanza uno Stato è soggetto dell’ordinamento giuridico se esso
possiede un popolo, un territorio e un apparato di governo, e se tale apparato esercita e ffetti-vamente la
propria potestà d’imperio su una data comunità territoriale. Si può richia-mare la Convenzione di
Montevideo sui diritti e doveri degli Stati, del 1933, il cui art. 1 precisa che, come soggetto di diritto
internazionale, lo Stato debba possedere: a) una popolazione permanente; b) un territorio definito; c) un
governo; d) la capacità di entrare in relazione con gli altri Stati. Più recente è l’opinione della Commissione
ar-bitrale della Conferenza europea sulla Jugoslavia che ha precisato che lo Stato è un’entitàcomposta di un
territorio ed una popolazione sottoposta a un’autorità politica organizzata, ed è caratterizzata dalla sovranità.
Secondo la concezione che in-vece sostiene che la nozione di Stato corrisponda alla nozione di Stato -
governo, il territorio e la comunità costituirebbero unicamente dei presupposti materiali per l’acquisto della
personalità da parte di uno Stato, che si identificherebbe invece con l’apparato di governo. Accogliendo tale
nozione, i mutamenti ter-ritoriali dello Stato non avrebbero incidenza alcuna sulla soggettività, mentre un
mutamento rivoluzionario o extracostituzionale di governo porterebbero all’estinzione dello Stato e alla
formazione di uno nuovo.

Il territorio è un elemento essenziale a ffinchè uno Stato possa essere considerato soggetto di diritto
internazionale. E’ tuttavia necessario che sul territorio sia e ffettuato un controllo e ffettivo. Nel caso dei c.d.
governi in esilio, formatisi nel corso della Seconda guerra mondiale, si stabilirono in Gran Bretagna in
rappresentanza dei paesi occupati dalla Germania nel corso del conflitto. In questi casi, la soggettività
internazionale riposa su una fictio juris, giustificata dalla possibilità che questi governi riacquistino il
dominio sul territorio oggetto di occupazione.

I failed States sono invece Stati che hanno perso il controllo del territorio e il mo-nopolio dell’uso della
forza, e che non sono più in grado di svolgere funzioni es-senziali di governo a causa dell’estrema povertà o

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di lotte tra bande armate di stampo criminale (es. Somalia, Liberia, Colombia). Nelle ipotesi estreme, si ha la
totale assenza di un apparato di governo sul territorio, e si parla di collapsed States (es. Libano e Sierra
Leone). Qui lo Stato si è estinto per il venir meno di un suo attributo fondamentale. Di fronte a tali fenomeni,
la società internazionale tende ad intervenire (es. peace - building) per evitare il collasso dello Stato o per
contribuire a sanarlo, consentendogli di continuare ad esistere come soggetto di diritto internazionale. Failed
e collapsed States costituiscono una minaccia per l’equilibrio mondiale giacché si tratta di paesi che, in balia
di gruppi criminali e della povertà, esportano violenza, droga e terrorismo.

II. IL RICONOSCIMENTO DI STATI

Alcuni autori hanno sostenuto che uno Stato, anche se e ffettivamente esistente (e dunque anche se esercita,
attraverso un apparato di governo, la potestà d’imperio su una determinata comunità territoriale), sarebbe
dotato di personalità giuridica unica-mente se riconosciuto dagli Stati preesistenti. E’ bene precisare che
l’atto di ricono-scimento non è costitutivo della personalità giuridica di uno Stato. Questa tesi non è però
convincente per treragioni: 1) contrasta con il principio di e ffettività, in virtù del quale le situazioni e ffettive
sono considerate pienamente legittime dal punto di vista del diritto in-ternazionale; 2) contrasta con il
principio di uguaglianza sovrana degli Stati poiché a ffida a quelli preesistenti una sorta di potere di
ammissione dei nuovi; 3) la tesi del riconoscimento costitutivo implicherebbe che un certo ente possa essere
dotato di personalità giuridica solo nei confronti degli Stati che lo hanno riconosciuto. La teoria del
riconoscimento costitutivo rappresenta una sorta di relitto anacronistico del XIX secolo, quando già allora il
diritto di decidere dell’ammissione era piuttosto discutibile.

Più correttamente si può affermare che il riconoscimento di Stati, sotto il profilo poli-tico, testimonia la
volontà degli Stati preesistenti di intrattenere relazioni internazionali con lo Stato riconosciuto. Sotto il
profilo giuridico, si attesterebbe quindi che gli Stati che procedono al riconoscimento ritengano esistenti le
condizioni di diritto per la formazione di un nuovo Stato. In una società che difetta di un’autorità
centralizzata che possa formalmente legittimare le situazioni di fatto, l’atteggiamento dei singoli Stati può
avere, in effetti, un’importanza considerevole come prova a favore o contro l’esistenza di un nuovo soggetto
di diritto. A tal proposito si cita la decisione arbitrale dell’arbitro unico W. H. Taft nel caso Tinoco
Concessions (Gran Bretagna vs. Costa Rica) sulla questione del riconoscimento di un governo
rivoluzionario.

Il riconoscimento di Stati produce un effetto preclusivo (c.d. estoppel), nel senso che, una volta e ffettuato,
preclude allo Stato che ha preceduto al riconoscimento la possi-bilità di contestare la situazione di fatto o di
diritto riconosciuta, o di affermare che lo Stato riconosciuto difetta di personalità giuridica. L’istituto
giuridico dell’estoppel, diffuso negli orientamenti di common law, è accolto anche nel diritto internazionale.
Esso preclude ad una parte che abbia fatto dichiarazioni, a ffermazioni, dinieghi o te-nuto condotte relative ad
una certa situazione di fatto, di disconoscere successiva-mente tale situazione di fatto o avanzare pretese o
fare dichiarazioni a svantaggio di un’altra parte, che abbia titolo a fare a ffidamento sulle precedenti
dichiarazioni, affermazioni, dinieghi o condotte.

Il riconoscimento prematuro, ossia quello effettuato prima che le necessarie condizioni di fatto per l’acquisto
della personalità giuridica si siano realizzate, può equivalere ad un’illegittima ingerenza negli a ffari interni
dello Stato inte-ressato (es. caso della Croazia che secondo Austria e Svizzera era prematuro perché all’epoca
essa controllava solo un terzo del proprio territorio).

Dall’esame della prassi emerge che sia necessaria la presenza di altri requisiti. Dagli anni ’30, oltre
all’effettiva potestà d’imperio, alcuni Stati cominciarono a richiedere che il nuovo Stato non avesse violato
alcune regole fondamentali della società inter-nazionale. In tal caso, il riconoscimento era negato. Più
recentemente, taluni Stati oc-cidentali hanno cominciato a porre il rispetto dei diritti umani e delle minoranze
come ulteriore condizione per il riconoscimento. E’ quanto accaduto ai nuovi Stati sorti con la dissoluzione
dell’URSS e della Jugoslavia. Nel 1991 i ministri degli Affari esteri degli Stati membri della CE adottarono
una Dichiarazione in materia di Linee direttrici sul riconoscimento dei nuovi Stati nell’Europa orientale e
nell’Unione Sovietica. Con questa, essi indicarono che per il riconoscimento, i nuovi Stati avreb-bero
dovuto: 1) rispettare la Carta dell’ONU, l’Atto finale di Helsinki e la Carta di Parigi; 2) garantire i diritti dei
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gruppi e delle minoranze; 3) rispettare l’inviolabilità delle frontiere; 4) accettare tutti gli obblighi in materia
di disarmo, non proliferazione nucleare, sicurezza e stabilità regionale; 5) obbligarsi a risolvere attraverso
accordi (incluso l’arbitrato) tutte le controversie. La Dichiarazione prevedeva che non sareb-bero stati
riconosciuti enti che si fossero formati a seguito di atti di aggressione.

Nello stesso giorno fu adottata una Dichiarazione sulla Jugoslavia con le mede-sime Linee direttrici (vedi).

I nuovi Stati, soprattutto se non formatisi a seguito di un procedimento pacifico, di fficilmente riescono ad
ottenere in breve tempo il riconoscimento da parte di tutti gli Stati. In tale ipotesi, il nuovo Stato non potrà
intrattenere rapporti internazionali con gli Stati che non lo abbiano riconosciuto. Tuttavia, ciò non significa
che il nuovo Stato sia privo di personalità giuridica nei confronti degli Stati che non abbiano proceduto al
riconoscimento: alcune norme del diritto internazionale comunitario sono comunque applicabili.

Caso emblematico è quello del Kosovo, che ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dalla
Serbia nel 2008, a seguito del rifiuto da parte della Serbia di adottare il c.d. Piano Ahtisaari (dal premio
Nobel per la pace nel 2008) che propendeva per l’indipendenza del Kosovo sotto controllo internazionale
(vedi p. 66). Oltre 90 Stati hanno ad oggi proceduto al riconoscimento del Kosovo, il quale è membro del
FMI e della Banca mondiale, ma non dell’ONU, causa il veto alla sua ammissione da parte di Cina e Russia
in seno al CdS. In assenza dell’ammissione all’ONU, l’incertezza circa la personalità giuridica internazionale
del Kosovo è destinata a perdurare (si veda Conformità al diritto internazionale della dichiarazione
unilaterale di indipendenza del Kosovo).

Possono poi esservi casi in cui un certo Stato, pur dotato di personalità giuridica in-ternazionale perché in
possesso dei requisiti, non sia riconosciuto dalla maggior parte dei membri della società internazionale. Tali
situazioni hanno origine dal contrasto tra principio di e ffettività e il nuovo principio che disconosce la
legittimità di fatti e situazioni che siano incompatibili con certi valori fondamentali della società interna-
zionale odierna. E’ quanto accaduto alla Rhodesia del Sud dal 1965 al 1980. Con le risoluzioni 216 e 217 del
1965, il CdS dell’ONU invitò tutti gli Stati a non riconoscerla come Stato a causa della sua politica razzista.
Altro esempio è costituito da Formosa (Taiwan) che, pur presentando tutti i requisiti di uno Stato ai sensi del
diritto internazionale, non può nei fatti intrattenere relazioni internazionali con gli altri Stati a causa della
pretesa della Cina popolare di considerare il suo territorio sottoposto alla propria sovranità territoriale.

Ci sono anche stati casi in cui non era certo che un nuovo Stato si fosse e ffettivamente formato, o casi in cui
un nuovo ente si era venuto a formare in violazione di norme internazionali poste a tutela di valori
fondamentali della società internazionale, o che non appariva e ffettivamente indipendente dallo Stato che
aveva contribuito alla sua istituzione e consolidamento. Un esempio è quello della Repubblica turca di Cipro
- Nord, proclamata nel 1983 e riconosciuta solo dalla Turchia. In tal caso, è stato richiesto il ritiro e sono stati
invitati tutti gli Stati a non riconoscere alcuno Stato cipriota diverso dalla Repubblica di Cipro.

III. LA SOVRANITA’ DEGLI STATI

La sovranità può essere definita come il diritto di esercitare in via esclusiva ed ori-ginaria, entro una data
porzione di globo, le funzioni dello Stato. Nelle relazioni internazionali, sovranità è sinonimo di
indipendenza, concetto con cui si vuole esprimere la capacità di uno Stato di provvedere al proprio benessere
e sviluppo senza alcuna interferenza da parte degli altri Stati, e nei limiti del rispetto dei loro diritti e che
implica che lo Stato non sia sottoposto ad alcuna autorità superiore (ente superiore non recognoscens).
Naturalmente l’indipendenza non viene meno per il solo fatto che uno Stato sia economicamente o
politicamente dipendente da un altro, sempre che lo Stato in questione non sia formalmente costretto a
soggiacere alle volizioni dell’altro.

Non possono essere considerati Stati ai sensi del diritto internazionale gli Stati membri di Stati federali,
giacché questi ultimi difettano del requisito di indipendenza nelle loro relazioni ester ne . L’esistenza o meno
dell’indipendenza esterna consente di distinguere gli Stati federali dalle confederazioni di Stati. Queste
ultime si distinguono dagli Stati per il fatto di non controllare integralmente le relazioni internazionali degli
Stati confederati, ciascuno dei quali è dunque considerato un soggetto a sé stante ai sensi del diritto
internazionale. Così non è per gli Stati membri di Stati federali, che sono invece espressione della libertà di
organizzazione interna di uno Stato: soggetto di diritto internazionale è quindi solo lo Stato centrale. E’

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questo il caso degli USA, Stato federale sin dal 1787, e della Confederazione svizzera, che malgrado l’uso
del termine “confederazione” è uno Stato federale dal 1848 (era confederazione dal 1815 al 1848).

La sovranità comprende il potere di imperio sugli individui ed i beni situati sul territorio dello Stato, il cui
esercizio si esprime facendo ricorso alla nozione di giurisdizione. Questa può consistere nella jurisdiction to
prescribe regole vin-colanti; e nella jurisdiction to enforce, ossia di garantire l’esecuzione coercitiva del
diritto. Se, nel diritto internazionale tradizionale, i limiti a questo potere erano costituiti dagli obblighi in
materia di trattamento dei cittadini e organi di Stati esteri, nessun limite esisteva invece in materia di
trattamento dei sudditi. Ad oggi numerosi Stati hanno aderito a trattati in materia di tutela dei diritti umani.

L’obiettivo centrale dell’esercizio della sovranità su un dato territorio è la sicu-rezza nazionale. Un limite a
questo potere discende dall’obbligo, incombente su ogni Stato, di non consentire consapevolmente l’utilizzo
del proprio territorio per il compimento di atti che violino i diritti di altri Stati. Attualmente questo ha una sua
specificazione in materia di tutela dell’ambiente. Gli Stati devono ga-rantire che le attività svolte sotto la
propria giurisdizione e controllo rispettino l’ambiente di altri Stati e degli spazi non sottoposti alla
giurisdizione di alcuno Stato.

Inoltre, sovranità implica che gli Stati hanno il diritto di darsi l’organizzazione interna e la forma di governo
che preferiscono. Questa regola è temperata dall’operare del principio di autodeterminazione dei popoli. Non
si è però affermato l’obbligo per gli Stati di dotarsi di un’organizzazione di governo democratica.
Quest’obbligo, che costituisce anche un diritto, si realizzerebbe in presenza di un apparato di governo
rappresentativo, basato su elezioni regolari, libere e imparziali, ma non comprenderebbe anche l’esistenza di
un sistema politico multipartitico.

IV. LA TUTELA INTERNAZIONALE DEGLI STATI

Fra le norme del diritto internazionale consuetudinario vi è, anzitutto, la norma che obbliga gli Stati ad
astenersi dallo svolgere funzioni pubbliche nel territorio altrui senza il consenso dello Stato territoriale, e che
attribuisce a questo il corrispondente diritto di escludere gli altri Stati dall’esercizio di sovranità nel proprio
territorio (c.d. jus excludendi alios). Si possono citare a riguardo, i casi in cui Stati esteri hanno esercitato sul
territorio di un altro Stato attività pubbliche non autorizzate, e compiute segretamente da organi statali che
pretendevano di aver agito come privati, ma anche i casi di attività svolte da organi di Stati esteri che agivano
in qualità ufficiale. Si citano i casi Salomon Jacob, Eichmann, Argoud (vedi p. 71).

Tra i casi di attività pubblica non autorizzata compiuta in territorio di Stati esteri da organi statali che
agivano in qualità ufficiale si possono menzionare i casi Dominguez e Alvarez - Machain.

Un’altra norma generale ben radicata attribuisce ad ogni Stato il diritto di esigere dagli altri l’immunità della
giurisdizione civile per gli atti compiuti quale ente sovrano, ossia gli atti jure imperii (immunità dalla
giurisdizione di cognizione), nonché l’immunità dalla giurisdizione esecutiva nei confronti di beni e
proprietà destinati all’esercizio di pubbliche funzioni.

Altra norma è quella che attribuisce agli Stati il diritto di pretendere, per i propri organi che abbiano agito in
qualità ufficiale, l’immunità dalla giurisdizione civile e penale degli Stati esteri (c.d. immunità funzionale o
organica). Ciò in quanto le attività poste in essere dagli organi dello Stato devono essere imputate allo Stato
stesso, e non agli individui che hanno agito per suo conto. In sostanza, gli organi (de iure o de facto) di uno
Stato beneficiano dell’immunità assoluta dalla giurisdizione straniera per le attività compiute a titolo
ufficiale e possono essere processati per queste attività solo dai tribunali dello Stato di cui sono organi.
L’unica eccezione è costituita dai c.d. crimini internazionali.

Il diritto internazionale impedisce agli Stati di ingerirsi negli a ffari interni o esterni di un altro Stato. Sempre
in ossequi al principio di non ingerenza, gli Stati devono astenersi dall ’incitare, organizzare o appoggiare
l’organizzazione di attività sovversive sul proprio territorio di attività pregiudizievoli a Stati este-ri.

Quando scoppia un’insurrezione all’interno di uno Stato, gli altri Stati debbono astenersi dall’aiutare i ribelli,
purché questi ultimi non abbiano lo status di movimenti di liberazione nazionale. La Dichiarazione sulle
relazioni amichevoli dell’AG stabilisce che “gli Stati devono astenersi dall’organizzare, appoggiare,
fomentare, finanziare, incoraggiare o tollerare attività armate, sovversive o terroristiche volte a rovesciare
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con la violenza il governo di un altro Stato, come pure dall’interferire nelle lotte interne di un altro Stato.” A
tal proposito vedi il caso Nica-ragua, in cui la CIG ha precisato che il divieto di non intervento comprende
anche l’adozione di misure non armate (es. finanziamenti) volte a sostenere le forze di op-posizione interne
ad uno Stato costituisce una violazione di tale divieto. Qualora que-ste misure prevedano l’uso della forza,
esce violano anche il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. Se tali misure raggiungono un
livello elevato di intensità e durata, esse danno luogo ad una violazione grave del divieto dell’uso della forza
nelle relazioni internazionali.

Il divieto di intervento nelle guerre civili a sostegno degli insorti è stato frequentemente violato nella prassi
internazionale, ma esso resta comunque un illecito. La situazione è diversa nel caso in cui l’aiuto agli insorti
sia autorizzata dal CdS, adottata in virtù del cap. VII della Carta dell’ONU.

Si richiama alle risoluzioni del CdS nn. 1970 e 1973 del 2011, per far fronte alla crisi libica. Durante la
rivolta del 2011 le forze fedeli a Muammar Gheddafi hanno e ffettuato bombardamenti aerei a Tripoli contro i
manifestanti civili. Sotto la pressione dei diplomatici libici l'ONU è stato spinto ad agire. La prima
risoluzione ha condannato l'uso della forza da parte del regime di Gheddafi contro i manifestanti che
partecipano alla rivolta libica e ha imposto una serie di sanzioni internazionali allo stesso governo libico. È
stato inoltre istituito un embargo sulle armi; gli Stati confinanti con la Libia sono stati incoraggiati a
ispezionare carichi sospetti e a sequestrare eventuali armi trovate, oltre a evitare di fornire mercenari. La
successiva risoluzione, adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, chiedeva
l'istituzione immediata di una tregua e la fine completa delle violenze e degli attacchi ai danni dei civili;
imponeva una zona di divieto di sorvolo sopra i cieli libici; autorizzava tutti i mezzi necessari a proteggere i
civili e le aree popolate da civili, ad esclusione di qualsiasi azione che comportasse la presenza di una "forza
occupante”; rafforzava l'embargo sulle armi e in particolare l'azione contro i mercenari, consentendo
ispezioni forzate in "porti e aeroporti, in alto mare, su navi e aerei”; imponeva la proibizione di tutti i voli
commerciali libici per fermare l’afflusso di denaro nelle casse del dittatore o l’arrivo di nuovi mercenari;
imponeva il congelamento dei beni e delle proprietà delle autorità libiche e ribadiva che le attività di queste
ultime dovrebbero essere indirizzate a beneficio del popolo libico; estendeva alcuni punti della risoluzione
1970 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ad un certo nu-mero di altri individui ed entità libiche;
istituiva una commissione di esperti per monitorare e promuovere l'applicazione delle sanzioni. In dottrina, si
è osservato che il dettato di queste due risoluzioni di fatto autorizzava la fornitura di armi ai ribelli.

Il diffondersi di organizzazioni internazionali o ffre comunque numerose oppor-tunità di intromettersi negli


interessi degli Stati. L’affermarsi della dottrina dei diritti umani consente di esercitare pressioni sulle autorità
statali responsabili di violazioni dei diritti umani, a ffinché si conformino agli standard in materia. E’
controversa la questione della legalità dei c.d. interventi di umanità, ossia dell’assistenza militare posta in
essere di fronte a violazioni gravi e massicce dei diritti umani, senza che vi sia un’espressa autorizzazione
del CdS dell’ONU.

Emblematico è il caso del Kosovo, che nel 1999 indusse la NATO ad intervenire con-tro la Serbia per porre
fine ai massacri della popolazione albanese - kosovara. L’intervento, non autorizzato dal CdS a causa del
veto russo - cinese, fu dichiarato necessario da un certo numero di Stati per porre fine alla catastrofe
umanitaria. Alcuni paesi condannarono l’azione della NATO, sostenendo che fosse in contrasto con la Carta
dell’ONU, giacché non era stata autorizzata dal CdS. La questione dell’assistenza finanziaria e militare ai
ribelli si è riproposta in relazione alla guerra civile in Siria.

Occorre mettere in luce che il diritto internazionale postula il principio dell’uguaglianza giuridica degli Stati,
affermato nella Carta delle Nazioni Unite e ribadito nella Dichiarazione dell’AG del 1970 sulle relazioni
amichevoli. Esso è una sorta di concetto quadro per l’interpretazione di varie norme in materia di sovranità
degli Stati. In linea generale, si può osservare che tale principio implica che nessun membro della società
internazionale può essere posto in posizione di svantaggio: tutti devono essere trattati su un piano di parità.
Le disuguaglianze giuridiche possono ri-sultare soltanto da circostanze di fatto (es. Stati privi di litorale
marittimo o di risorse naturali o minerali) oppure essere accettate, in piena libertà, dallo Stato interessato (es.
lo status di Stato neutralizzato, che implica una serie di limiti alla libertà d’azione nelle relazioni
internazionali, o la condizione degli Stati dell’ONU che siedono a titolo permanente nel CdS, i cinque
grandi).

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V. LA SUCCESSIONE TRA STATI

I mutamenti di sovranità su una data comunità territoriale, ossia la sostituzione di uno Stato ad un altro
nell’esercizio della potestà d’imperio su una comunità territoriale (c.d. successione in fatto tra Stati), possono
portare all’estinzione dello Stato che precedentemente esercitava la sovranità (c.d. successione in fatto
totale), oppure alla formazione di un nuovo Stato, senza che vi sia l’estinzione dello Stato preesistente (c.d.
successione in fatto parziale).

La successione in fatto totale comporta l’estinzione dello Stato sul cui territorio avviene il cambiamento di
sovranità e, in taluni casi, la formazione di uno o più Stati. Nel caso dell’incorporazione, accade che uno
Stato si sostituisca ad un altro nell’esercizio di sovranità su tutto il territorio di uno Stato preesistente, che
dunque si estingue. Nel caso di fusione, invece, due o più Stati si estinguono e sui loro territori si viene a
formare un nuovo Stato. Infine, nell’ipotesi di smembramento, sul territorio di uno Stato preesistente, che si
estingue, vengono a fermarsi due o più nuovi Stati.

Le ipotesi di successione in fatto parziale concernono mutamenti di sovranità su parti del territorio di uno
Stato preesistente senza che essi comportino l’estinzione di tale Stato. Costituiscono ipotesi di successione in
fatto parziale la scissione, ossia la perdita di sovranità su parti del territorio di uno Stato preesi-stente a
vantaggio di uno altro Stato preesistente, che quindi ingloberà i territori distaccatisi, oppure la secessione,
con conseguente formazione su tali parti di territorio di uno o più nuovi Stati, e la cessione territoriale, ossia
il trasferi-mento di parti del territorio di uno Stato, detto cedente, ad un altro Stato, detto cessionario, in
conformità ad un accordo stipulato tra i due Stati.

Non sembra sollevare difficoltà l’individuazione delle ipotesi di cessione territoriale, ma è di fficile invece
determinare quando un mutamento di sovranità debba essere considerato fusione o incorporazione, oppure
distacco o smembramento. Ad esempio, l’unificazione tedesca del 1991 ha costituito un’ipotesi di
incorporazione della Repubblica democratica da parte della Repubblica federale, o si è trattato di fusione? E
la dissoluzione dell’URSS e della Jugoslavia costituiscono secessione o smembramento?

Occorre, per rispondere, tener presente che i mutamenti di sovranità territoriale non comportano l’estinzione
degli Stati interessati, che avviene quando si ha un mutamento rilevante di tutti e tre i suoi elementi
costitutivi: territorio, popolazione, governo. Ciò premesso, è necessario quindi far riferimento ai requisiti
tradizionali suddetti, alle prese di posizione degli Stati interessati, e all’atteggiamento di Stati terzi e delle
organizzazioni internazionali.

Si può sostenere che si ha incorporazione invece di fusione se, a seguito del cambia-mento di sovranità nel
governo di un territorio, vi è uno Stato che presenta la mede-sima organizzazione di governo di uno degli
Stati preesistenti, che dovrà essere quindi considerato lo Stato incorporante. La continuità o meno
dell’organizzazione di governo costituisce un utile criterio anche per distinguere il caso della secessione da
quello dello smembramento. Se a seguito della perdita di sovranità su parti rilevanti di territorio è possibile
individuare uno Stato residuo che mantenga inalterata l’organizzazione di governo dello Stato preesistente
(es. secessione del Bangladesh dal Pakistan nel 1970 - 71) si parla di secessione. Se tra gli Stati residui non
ve n’è alcuno che continui l’organizzazione di governo dello Stato preesistente, si parla di smembramento. In
quest’ottica, la riunificazione delle due Germanie costituiva un caso di incorporazione. Un caso di fusione
sembra essere quello dello Yemen. La dis-soluzione della Jugoslavia è un caso di smembramento, mentre nel
caso dell’URSS si parla di secessione.

VI. LA SUCCESSIONE DEGLI STATI NEI TRATTATI

A seguito di un cambiamento di sovranità su un certo territorio, si pone il pro-blema di stabilire se vi è una


successione giuridica, ossia se i diritti e gli obbli-ghi dello Stato predecessore si trasmettono allo Stato che,
di fatto, si è sostituito al primo nel governo di tale territorio (c.d. principio di continuità) o se invece il nuovo
Stato nasca libero dai diritti e dagli obblighi dello Stato predecessore (c.d. principio della tabula rasa).

La materia è regolata dal diritto consuetudinario, codificato nella Convenzione di Vienna del 1978 sulla
successione degli Stati nei trattati internazionali (entrata in vigore nel 1996, a seguito della ratifica di un

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numero esiguo di Stati). Per stabilire se vi sia o meno successione giuridica, è utile distinguere tra varie ca-
tegorie di trattati.

I trattati di natura territoriale (detti anche localizzabili), che comprendono i trattati di delimitazione
delle frontiere e i trattati che istituiscono regimi territoriali. Per entrambi vige il principio della
continuità, secondo la regola codificata agli artt. 11 e 12 della Convenzione. Questa è giustificata
dalla necessità di garantire la stabilità delle relazioni internazionali (vedi però p. 79). Un’eccezione
rilevante a tale regola è quella dei trattati che istituiscono basi militari (vedi art. 12 par. 3, della
Convenzione).

2. E’ imposta anche la continuità dei trattati in materia di diritti umani. La ratio andrebbe
individuata nella circostanza che i trattati in questione intendono tutelare gli individui nei confronti
delle autorità centrali. Tutto ciò che conta è che gli individui continuino ad essere protetti anche in
seguito ad un mutamento di sovranità sul territorio (vedi Commento Generale n. 26 del 1997, del
Comitato sui diritti umani dell’ONU).

3. Per i trattati di natura politica (es. quelli che stabiliscono alleanze militari o trat-tati di
neutralità) il principio vigente è quello della discontinuità (tabula rasa), se-condo cui lo Stato
successore non subentra nei diritti e negli obblighi dei trattati di natura politica conclusi dal
predecessore.

4. I trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. Quando l’acquisto della qualità di membro


di una determinata organizzazione internazionale è subordinato ad un procedimento formale di
ammissione (come per l’ONU), deve considerarsi esclusa la successione automatica da parte di uno
Stato che subentri ad un altro nel governo di un territorio. Il nuovo Stato dovrà quindi presentare
domanda di am-missione, secondo l’art. 4 della Convenzione.

Nel caso di smembramento, ciascun ente deve presentare domanda di ammissione all’ONU (es. Jugoslavia: 5
su 6 repubbliche furono subito riammesse, mentre la Jugoslavia presentò la domanda di ammissione solo nel
2000, e si dissolse poi nel 2003). Nel caso di scissione o secessione, lo Stato continuatore di quello prece-
dente non deve presentare domanda di ammissione (es. URSS: tutte le nuove re-pubbliche formatesi hanno
dovuto presentare domanda di ammissione, tranne la Russia).

5. Per quanto riguarda tutti gli altri trattati, occorre distinguere due situazioni. Nel caso di
incorporazione o per cessione territoriale o scissione, si applica il principio di mobilità delle frontiere
dei trattati. In virtù di questo, gli ac-cordi stipulati dallo Stato predecessore cessano di produrre
effetti giuridici in relazione alla parte del territorio che subisce il mutamento di sovranità, ove invece
si applicano i trattati conclusi dallo Stato successore. Invece, nei casi di mutamenti che portano alla
formazione di uno o più Stati, si applica il principio della tabula rasa, ai sensi del quale il nuovo
Stato non è vincolato dai trattati conclusi dal predecessore.

Il principio della mobilità delle frontiere dei trattati è codificato dalla Conven-zione, ma solo con riferimento
all’ipotesi in cui un nuovo Stato subentri ad un altro nel governo di parte del territorio di quest’altro Stato
(per cessione o scissione), e non già anche nel caso di incorporazione (art. 18). Il principio della tabula rasa è
accolto dalla Convenzione solo per l’ipotesi di nuovi Stati sorti dal processo di decolonizzazione (c.d. Stati
di nuova indipendenza); in rela-zione a tutti gli altri casi, la Convenzione a fferma, invece, il principio della
continuità dei trattati (artt. 34 - 35). La ragione è soprattutto ideologica. La Convenzione pone un’eccezione
al principio di continuità per gli Stati ex coloniali per ria ffermare il loro totale a ffrancamento dalla
madrepatria e quindi dai vincoli giuridici precedentemente assunti. Sul piano pratico, questa di fferenziazione
ha scarsa incidenza dato che al momento dell’adozione del testo il processo di decolonizzazione era già
completato e la Convenzione non ha efficacia retroattiva (art. 7).

Nella Convenzione, l’applicazione del principio della tabula rasa è temperata dal diritto, riconosciuto a questi
Stati, di subentrare a taluni trattati conclusi dalla ex madrepatria. La Convenzione prevede che lo Stato di
nuova indipendenza possa, attraverso una notificazione di successione, divenire parte ai trattati multilaterali
aperti (ossia quei trattati in cui possano diventare parti contraenti anche coloro che non hanno partecipato
alla negoziazione). Per effetto della notificazione, lo Stato di nuova indipendenza diviene parte del trattato a
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partire dalla data della successione in fatto. In caso di adesione, lo Stato diventerà parte al trattato al
momento dell’adesione (ex nunc), mentre la notificazione di successione, anche se e ffettuata in un momento
successivo al realizzarsi della successione di fatto, agisce in maniera retroattiva. L’art. 20 della Convenzione
consente allo Stato che effettua la notificazione di ripudiare le riserve eventualmente opposte dal
predecessore e di apporre le proprie al trattato cui si riferisce la notificazione.

I lavori di codificazione della materia della successione degli Stati nei trattati presero avvio nel 1962, quando
il processo di decolonizzazione era quasi ultimato. Essi dovettero quindi tener conto del contesto storico, che
aveva fatto emergere due esigenze contrapposte: l’interesse degli Stati che avevano stipulato trattati con gli
ex Stati coloniali (che volevano il principio di continuità) e la necessità che gli Stati di nuova indipendenza
potessero affermare appieno il principio dell’autodeterminazione dei popoli. E’ questa la ragione per cui la
Convenzione distingue tra Stati di nuova indipendenza, stabilendo che essi non debbano essere vincolati dai
trattati del predecessore, e altri Stati, cui si applica la regola della successione.

VII. LA SUCCESSIONE DEGLI STATI RISPETTO A BENI, ARCHIVI E DEBITO


PUBBLICO

Lo stato del diritto internazionale consuetudinario a riguardo è ancora incerto, e la materia è disciplinata
dalla Convenzione di Vienna del 1983 (non ancora in vigore?).

Per quanto riguarda i beni pubblici e gli archivi, l’art. 8 della Convenzione a fferma che, determinata la
natura pubblica di un certo bene, si può ritenere che lo Stato che esercita il proprio governo sul territorio ove
il bene è situato succeda nella proprietà di quel bene (o archivio).

La questione della successione giuridica nei debiti pubblici è complessa poiché la prassi è contraddittoria. Ai
sensi dell’art. 40, quando uno Stato si estingue e si vengono a formare nuovi enti, se non è altrimenti
stabilito, i debiti pubblici del predecessore si trasmettono ai nuovi Stati in proporzione equa (equitable pro-
portion).

VIII. MUTAMENTI EXTRACOSTITUZIONALI DI GOVERNI E RICONOSCIMENTO

Nel diritto internazionale, gli avvicendamenti di governi all’interno di uno Stato e ffettuati nel rispetto della
carta costituzionale non assumono rilevanza. Così non è, invece, nel caso in cui il cambiamento sia avvenuto
per via extracostitu-zionale. Sebbene le relazioni internazionali avvengano soprattutto a livello go-vernativo,
la persona dello Stato come soggetto di diritto internazionale non va confusa col suo governo. I cambiamenti
extracostituzionali di governo non hanno dunque incidenza sulla personalità giuridica dello Stato. Tuttavia,
alcuni autori sostengono che la persona giuridica dello Stato coincida con lo Stato - governo e che quindi
questo tipo di mutamenti incidano sulla personalità giuridica internazionale dello Stato, dando luogo ad un
nuovo Stato.

In queste situazioni è necessario però verificare se le attività poste in essere dal go-verno preesistente
vincolano il nuovo governo che è risultato vittorioso in seguito ad una guerra civile. Nel caso Tinoco
Concessions (Gran Bretagna vs. Costa Rica) del 1923, l’arbitro Taft ha chiarito la questione. Nel 1917
Tinoco aveva rovesciato il go-verno costaricano e proclamato una nuova Costituzione. Due anni dopo il
governo era crollato e nel 1922 il precedente governo che era stato restaurato aveva invalidato tutti i diritti
concessi per contratto da Tinoco ad un certo numero di compagnie britanniche. Taft decise che, poiché
Tinoco aveva amministrato il paese pacificamente, senza ricevere contestazioni, i contratti in questione
vincolavano il paese. Se ne deduce che lo Stato che subisce cambiamenti rivoluzionari o extracostituzionali
di governo è vincolato dagli atti internazionali posti in essere dal governo pre-cedente.

Il riconoscimento di governo (diverso dal riconoscimento dello Stato come soggetto di diritto internazionale)
da parte di terzi implica che lo Stato che lo effettua considera che quel governo esercita il controllo e ffettivo
sulla comunità territoriale ed è il rap-presentante dello Stato in cui è avvenuto o è in atto il mutamento
extracostituzionale nelle relazioni internazionali.

Un caso è quello del riconoscimento del Consiglio nazionale di transizione come governo dello Stato libico
nel periodo della rivoluzione contro il regime di Gheddafi. Frattini, allora ministro degli A ffari esteri,
dichiarò che il Consiglio fosse l’unico legittimo interlocutore nelle relazioni bilaterali con l’Italia (vedi 4
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aprile 2011). Solo il riconoscimento de jure (e non quello de facto) comporta che, per il paese che lo e ffettua,
il governo riconosciuto è il solo ed unico interlocutore e rappresentante dello Stato interessato nelle relazioni
internazionali.

CAPITOLO 4. L’AMBITO SPAZIALE DELLA SOVRANITA’


Il territorio è l’elemento essenziale dell’esistenza stessa di uno Stato. Esso co-stituisce la dimensione fisica
entro la quale lo Stato esercita la sovranità. At-tualmente non vi è alcun territorio, fatta eccezione per la
regione antartica, che non sia soggetto all’autorità sovrana di uno Stato.

I.LA DELIMITAZIONE DEL TERRITORIO

Il limite spaziale esterno di uno Stato è costituito dai confini, o frontiere. Questi pos-sono coincidere con
tracciati naturali (es. fiumi) o possono basarsi su elementi artifi-ciali (es. muri o canali) o su elementi
intangibili (es. quelli tracciati in base a latitudine o longitudine). Per evitare attriti tra Stati limitrofi, i confini
sono determinati in modo preciso attraverso i c.d. trattati di delimitazione delle frontiere. Tali trattati, che
creano diritti ed obblighi solo per le parti contraenti, costituiscono una speciale categoria di trattati che
produce effetti erga omnes, nel senso che istituiscono un re-gime giuridico che deve essere rispettato dai
terzi Stati. Qualora non riuscissero a trovare un accordo, gli Stati possono demandare ad un’istanza arbitrale
di statuire in materia applicando il diritto esistente, o ricorrendo a principi di equità o opportunità (la
sentenza avrà qui natura dispositiva, e si parlerà di territori aggiudicati).

Tra i vari principi cui si può ricorrere vi è il c.d. principio dell’uti possidetis juris, principio applicato agli
inizi dell’800 nell’America Latina secondo il qua-le le frontiere dei paesi che ottenevano l’indipendenza
venivano stabilite sulla base delle frontiere esistenti nel periodo coloniale. Non è chiaro se la prassi in
questione avesse dato luogo ad una norma di diritto internazionale consuetudi-nario a carattere regionale, o
se si cristallizzò in un principio generale di diritto, fatto sta che, salvo che per pochi casi in cui i confini
furono delimitati attraverso trattati stipulati sotto l’egida dell’ONU, questa prassi fu mantenuta anche durante
il processo di decolonizzazione dell’Africa. Nel caso Frontier Dispute del 1986, una Camera della CIG ha
sostenuto che tale principio ha lo scopo di pre-venire guerre fratricide provocate dalla contestazione delle
frontiere a seguito del ritiro della potenza amministratrice.

In quanto principio di portata universale (e non regionale), l’uti possidetis juris è stato applicato anche dalla
Commissione arbitrale istituita dalla Conferenza sulla Jugoslavia (opinione n. 2/1992 su Croazia e Bosnia -
Erzegovina). La Commissione affermò che il diritto all’autodeterminazione non può essere esercitato con
l’effetto di provocare modifiche alle frontiere esistenti al momento dell’indipendenza, salvo che gli Stati
interessati non decidano altrimenti di comune accordo.

II. L’ESTENSIONE DELLA SOVRANITA’ OLTRE IL TERRITORIO ORIGINARIO DELLO


STATO

Il diritto internazionale disciplina le modalità di acquisto del territorio da parte di uno Stato al di là del
proprio territorio originario (ossia l’estensione della so-vranità di uno Stato su altri territori). Sono
identificate quattro modalità di ac-quisto del territorio:

1. L’occupazione di una porzione di terra non appartenente ad alcun altro Stato (c.d. terra
nullius) è una modalità strettamente legata alla scoperta. L’occupazione deve essere e ffettuata da uno
Stato (non da privati) e deve es-sere accompagnata dal c.d. animus possidendi, necessità che si è
delineata dal Congresso di Berlino del 1885, affiancando il principio prior in tempore, potior in jure.

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Tale modalità di acquisto ha da molto tempo perduto impor-tanza. Vedi a tal proposito i casi Mabo e
Sahara occidentale (pag. 88).

2. La cessione di un territorio da uno Stato all’altro, seguita dal trasferimento pacifico ed


effettivo del territorio e dell’esercizio di sovranità su quest’ultimo, è un modo di acquisto della
sovranità a titolo derivato. La cessione di territori è solitamente prevista nei trattati di pace ma anche
dietro pagamento di un corrispettivo (es. Alaska da Russia a Stati Uniti nel 1867).

3. L’annessione di Stati debellati o estinti, a seguito dell’uso della violenza bellica (c.d.
conquista o debellatio). L’annessione costituisce un valido titolo di acquisto del territorio solo se
avviene a conclusione delle ostilità, altrimenti si parla di annessione prematura. Si discute oggi se
l’annessione di territori conquistati con la forza possa ancora costituire un valido titolo di acquisto di
sovranità su un territorio. A tal proposito di sono pronunciate l’AG dell’ONU con le risoluzioni 2625
del 1970 e 3314 del 1974. Nel parere relativo alla Palestina, la CIG ha ricordato che, giacché il
divieto della minaccia e dell’uso della forza nelle relazioni internazionali ha natura consuetudinaria,
parimenti deve averla uno dei suoi corollari, tra cui quello dell’illiceità dell’acquisto dei territori per
mezzo della minaccia o uso della forza. L’eventuale annessione del territorio da parte di quest’ultimo
dovrà dunque essere considerata invalida e priva di e ffetti giuridici. Ciò significa che anche se de
facto lo Stato esercita poteri di governo esclusivi sul territorio, giuridicamente esso non può essere
considerato titolare di sovranità. Qui il principio di e ffettività cede il passo all’a ffermazione di valori
fondamentali della società internazionale. Vedi dottrina Stimson (pag. 89).

La conquista non costituisce un titolo di acquisto alla sovranità neppure nel caso in cui l’uso della forza sia
consentito dal diritto internazionale (es. legit-tima difesa) poiché gli Stati tendono a giustificare spesso così il
ricorso alla forza.

L’annessione è comunque diversa dall’ occupazione militare , regolamentata invece dal diritto internazionale
dei conflitti bellici (detto anche diritto in-ternazionale umanitario o jus in bello). Essa dà luogo a diritti e
obblighi della potenza occupante, ma non dà luogo a trasferimenti di sovranità.

4. L’accessione, ossia il processo fisico attraverso il quale si viene a formare una nuova
porzione di terraferma (es. alluvione o deviazione del corso di un fiume). Se avviene all’interno di
uno Stato, la nuova porzione di terraferma diventa parte del territorio di quest’ultimo. Se il
cambiamento avviene lungo il confine esistono due ipotesi: se il cambiamento è repentino (c.d.
avulsione), il confine non è modificato. La modifica avviene se il cambiamento è lento e graduale.

All’ipotesi di perdita di sovranità da parte di uno Stato, che avviene quando uno Stato subentra ad un altro
nel governo di un territorio de facto e de jure, sulla base di uno di acquisto della sovranità sopra menzionati
(ad eccezione del 1.), si aggiunge il caso in cui uno Stato che vanta un titolo di sovranità su un certo territorio
manchi di reagire alla condotta di un altro Stato a titolo di sovrano, realizzandosi una situazione simile
all’usucapione. E’ quanto accaduto nel caso di passaggio di sovranità dalla Malesia a Singapore sull’isolotto
di Pedra Branca. Vi è poi estinzione di so-vranità anche in caso di rinuncia, che produce tale e ffetto a
prescindere dal fatto che uno Stato eserciti a pieno titolo la sovranità su un territorio oggetto di rinuncia.

III. GLI SPAZI MARINI

Recentemente il mare è stato diviso in porzioni, ciascuna delle quali è sottoposta al regime giuridico
specifico dello Stato costiero che vi eserciti il proprio potere so-vrano. La materia è regolata dalla
Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982 (in vigore dal 1994) che ha sostituito le
Convenzioni di codificazione di Ginevra del 1958.

1. Il mare territoriale comprende quella parte di mare adiacente le coste di uno Stato ed include
baie, golfi e stretti. L’ampiezza consiste approssimativamente in 3 miglia marine (la gittata di un
cannone). L’art. 3 della Convenzione prevede per gli Stati la facoltà di stabilire l’ampiezza del
proprio mare territoriale fino ad un limite non eccedente le 12 miglia marine.

L’art. 5 della Convenzione stabilisce che la linea di base normale è la linea di bassa marea lungo la costa,
come indicata dalle carte nautiche a grande scala rico-nosciute dallo Stato costiero. Si deroga a tale regola
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nei casi in cui la costa sia molto frastagliata o vi siano isole lungo la costa. In questi casi l’art. 7 stabilisce
che la linea di base può essere tracciata col metodo delle linee rette secondo cui il tracciato non deve
discostarsi dalla direzione generale della costa, gli spazi marini all’interno delle linee devono essere
sufficientemente collegati al dominio terrestre per essere assoggettati al regime delle acque interne, occorre
tener conto degli in-teressi economici della regione considerata. Inoltre il metodo non può essere im-piegato
in modo da separare il mare territoriale di un altro Stato dall’alto mare o da una zona economica esclusiva.

Sul mare territoriale lo Stato costiero esercita la propria sovranità in modo esclusivo.

Un limite specifico è il diritto di passaggio ino ffensivo delle navi mercantili o navi da guerra straniera (i
sottomarini devono navigare in superficie e mostrare la bandiera), che possono attraversare acque territoriali
sempre che il passaggio non arrechi pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero
secondo l’art. 19 par. 1. Il par. 2 specifica che il passaggio debba considerarsi ino ffensivo quando la nave
straniera minaccia o impiega la forza, compie atti di spionaggio, viola regole doganali, fiscali, sanitarie o
regole in materia di immigrazione, inter-ferisce nelle comunicazioni costiere od inquina. Non è tuttavia
chiaro se la valutazione circa la natura o ffensiva del passaggio spetti unicamente allo Stato costiero. Nel caso
Canale di Corfù la CIG ha precisato che tale valuta-zione deve essere oggettiva.

Altro limite è quello all’esercizio della giurisdizione penale per fatti commessi a bordo della nave (seppur
entro il mare territoriale), ad eccezione delle ipotesi all’art. 27 par. 1: quando le conseguenze del reato si
estendono allo Stato costiero, il reato rechi pregiudizio a pace o ordine, quando sia richiesto l’intervento
delle autorità locali, quando vi sia necessità di in-tervento per la repressione del tra ffico illecito di
stupefacenti o sostanze psi-cotrope.

2. Le baie sono le insenature ben marcate la cui penetrazione nella terraferma, in rapporto con
la lunghezza della sua entrata, è tale che le acque dell’insenatura siano racchiuse dalla costa e che
essa rappresenti più che una semplice inflessione della costa stessa (ex. art 10 par. 2)

Da qui in poi vedi sul manuale.

3. La zona contigua

4. La piattaforma continentale

5. La zona economica esclusiva

6. L’alto mare

7. Il fondo marino internazionale

IV. GLI SPAZI AEREI

La Convenzione di Parigi del 1919 per la regolamentazione della navigazione aerea riconobbe espressamente
all’art. 1 par. 1 che “ogni Stato ha giurisdizione piena ed esclusiva sullo spazio aereo sovrastante il proprio
territorio”, specifi-cando che, “il territorio dello Stato comprende il territorio nazionale, sia della madre
patria sia delle colonie, e il mare territoriale ad esso adiacente.” Vedi il caso Benin vs. Nigeria.

Lo sviluppo dell’esplorazione e dell’utilizzazione dello spazio extra atmosferico (l’URSS lanciò il primo
satellite nel 1957) ha posto il problema della determinazione dell’ampiezza dello spazio aereo. La regola
della sovranità usque ad sideram (o ad coelum), che attribuiva la sovranità illimitata agli Stati negli spazi
aerei sovrastanti il proprio territorio non era praticabile poiché avrebbe comportato la necessità di consensi di
ogni Stato al passaggio di satelliti od oggetti in orbita. Si tende quindi a ritenere che l’ampiezza dello spazio
aereo si estenda al punto in cui esso incontra lo spazio extra atmosferico (criterio vago). Nel 1999 un
ministro britannico ha più prag-maticamente definito il limite estremo del proprio spazio aereo come quello
co-stituito almeno dall’altezza massima a cui un aereo può volare.

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Gli aeromobili di uno Stato non possono attraversare lo spazio aereo di un altro Stato senza il consenso di
quest’ultimo. Non vi è nello spazio aereo un diritto di passaggio ino ffensivo come per le navi straniere nelle
acque territoriali. L’attraversamento dello spazio aereo è di solito regolato da accordi bi - o multi-laterali.

La Convenzione di Chicago sull’aviazione civile del 1944, all’art. 5 par 1, pre-vede che gli aeromobili degli
Stati contraenti, che non siano impiegati in servizi aerei internazionali registrati, hanno il diritto di svolgere
una serie di attività senza la necessità di permesso preventivo, fermo restando il diritto dello Stato sorvolato
di richiederne l’atterraggio.

V. LO SPAZIO EXTRA ATMOSFERICO

Lo spazio extra atmosferico (o spazio cosmico) è quella parte intorno al pianeta al di sopra di un’altezza che
non è ancora stata definita. Finché alcuni Stati non hanno cominciato ad utilizzarlo, si riteneva che ogni Stati
vantasse diritti sovrani sulla propria porzione di spazio extra atmosferico. Nel ’57, quando USA e URSS
cominciarono a lanciare missili e porre satelliti in orbita, si di ffuse l’idea che non fosse necessaria
un’autorizzazione da parte degli Stati sorvolati. Gli altri Stati accettarono la superiorità tecnologica delle due
superpotenze, rinunciando ai diritti sovrani sullo spazio cosmico di cui erano titolari. Lo spazio cosmico fu
considerato una res communis omnium, e perciò suscettibile di esplorazione da parte di tutti gli Stati.

Dopo anni di dibattito, l’AG dell’ONU approvò la risoluzione 1721 del 1961 e la Dichiarazione adottata con
la risoluzione 1962 del 1963, e adottò il testo del Trattato sui principi che regolano le attività degli Stati
sull’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio cosmico del 1967. Queste norme stabiliscono una disciplina
universalmente accettata e corrispondente al diritto consuetudinario.

I principi del regime giuridico dello spazio cosmico sono i seguenti:

a. tale spazio non può costituire oggetto di appropriazione

b. l’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio cosmico devono essere attuate nell’interesse e


vantaggio di tutti gli Stati

c. non deve essere utilizzato per mettere in orbita oggetti che portino armi nu-cleari o di
distruzione di massa le attività di esplorazione devono avvenire in modo da danneggiare l’ambiente.

Ad eccezione degli obblighi di cui ai punti c. e d., lo spazio extra atmosferico è sottoposto ad un regime
simile a quello dell’alto mare.

Occorre specificare che gli Stati che conducono esplorazioni non hanno alcun obbligo di farlo nell’interesse
dell’umanità intera, tant’è che le maggiori potenze lo utilizzano spesso a proprio vantaggio.

Per quanto riguarda il regime giuridico di luna ed altri corpi celesti, il Trattato del 1979 stabilisce una
disciplina corrispondente al diritto consuetudinario. Essa prevede che tutte le sostanze derivanti da luna o
altri corpi celesti devono essere considerate come risorse appartenenti al patrimonio comune dell’umanità. Il
Trattato è però assai vago per quanto riguarda le modalità di ripartizione dei profitti derivanti dallo
sfruttamento delle risorse.

VI. LE REGIONI POLARI

Le regioni polari, Artide e Antartide, non sono attualmente sottoposte alla so-vranità di alcuno Stato. Per
quanto riguarda l’Artide, i cui tre quinti sono formati da acque ghiacciate (c.d. banchisa), si è discusso se
dovesse essere considerata al pari di un oceano o della terraferma. I progressi tecnologici e la scoperta di
risorse sul fondale dell’oceano artico hanno reso la determinazione dello statuto giuridico di progressiva
attualità. Malgrado le pretese di sovranità avanzate da taluni Stati sulla base della c.d. teoria dei settori,
l’Artide è considerata come un oceano e sottoposta al regime giuridico dell’alto mare.

Secondo la teoria dei settori, propugnata da Stati i cui territori si estendono oltre il circolo polare artico
(Canada ed ex URSS), l’Artide andrebbe divisa in settori, co-stituiti dalla superficie dei triangoli che hanno
come vertice il Polo Nord e come base la linea che congiunge i due estremi orientali e occidentali della costa

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di ciascuno Stato. Questa teoria è stata però contestata dagli altri Stati (es. Norvegia, Finlandia, Danimarca,
USA).

Gli Stati artici che intendono vantare diritti di sfruttamento delle risorse giacenti nel suolo e sottosuolo
dell’oceano artico oltre il limite delle 200 miglia marine della propria zona economica esclusiva (e
comunque non eccedenti le 350 miglia dalle proprie coste) devono dimostrare che l’area su cui rivendicano
diritti di sfruttamento è il na-turale prolungamento della propria piattaforma continentale. Entro dieci anni
dalla ratifica della Convenzione, essi devono presentare domanda alla Commissione. Dei cinque Stati artici,
la Russia è stato il primo a presentarla, nel 2001, sulla pretesa che due dorsali costituissero il naturale
prolungamento geologico del territorio russo (vedi missione scientifica Arktika del 2007). Anche la Norvegia
ha presentato domanda, mentre per Canada e Danimarca il tempo è scaduto nel 2013 e 2014. Gli USA, in
quanto non ancora parte alla Convenzione, non possono presentare richieste.

Il rinnovato interesse per l’Artide è dovuto anche al riscaldamento globale, che lo ha reso più accessibile.
Inoltre nel 2050 esso potrebbe essere soggetto ad estati prive di ghiaccio, aprendo così il Northwest passage
tra Europa ed Asia. Lo scioglimento dei ghiacciai porterebbe poi ad una crescita del turismo e della pesca e
alla facilitazione dell’estrazione di gas, petrolio e carbone, riserve oggi sommerse dal ghiaccio.

Il regime giuridico sull’Antartide posto in essere dal Trattato di Washington nel 1959 e dalle
raccomandazioni ed accordi stipulati successivamente nel quadro del Trattato ha internazionalizzato la
regione, disponendo il congelamento delle pretese di sovranità da parte di sette Stati ed interdicendo
l’avanzamento di nuove pretese.

Fanno parte del Trattato attualmente 45 paesi (tra cui l’Italia), di cui 27 (tra cui l’Italia) hanno lo statuto di
Parti consultive (status ottenuto da Stati che vi svol-gano concrete attività di ricerca), con diritto di voto, e i
18 rimanenti hanno lo statuto di Parti contraenti, senza diritto di voto. Il Trattato è un accordo - quadro, che
stabilisce che l’Antartide debba essere utilizzata solo a scopi pacifici e proibisce dunque l’installazione di
basi militari, lo svolgimento di manovre mi-litari e i test di qualunque tipo di arma. Non è proibito invece
l’impiego di per-sonale o equipaggiamento militare a scopi scientifici o altri scopi pacifici. Il Trattato
sancisce il principio di libertà della ricerca scientifica a scopo pacifico e si propone di facilitare la
cooperazione internazionale fra le Parti.

Il Trattato sull’Antartide ha costituito la base per ulteriori accordi multilaterali, che formano il c.d. sistema
del trattato antartico, costituito anche da:

- Protocollo sulla sicurezza ambientale (Madrid, 1991 ed in vigore dal 1998);

- Convenzione sulla protezione delle foche antartiche (Londra, 1972 ed in vigore dal 1978);

- Convenzione per la protezione delle risorse marine viventi in Antartide (Can-berra, 1980 ed in vigore
dal 1982);

- Convenzione sullo sfruttamento delle risorse minerarie (Wellington, 1988 e non ancora in vigore).

VII. IL CYBERSPAZIO

Il termine fu coniato dallo scrittore W. Gibson nel racconto La notte che bru-ciammo Chrome ed è oggi usato
per indicare la realtà immaginaria creata dagli utilizzatori di computer che comunicano attraverso la rete, ed
è in parte conside-rato sinonimo di internet.

Oggi, la tesi giuridica del movimento (detto cyber - libertarians) secondo cui il cy-berspazio costituiva un
vero e proprio spazio immaginario (vs. spazio fisico) che do-veva essere sottratto al potere di governo degli
Stati tradizionalmente esercitato nell’ambito di confini territoriali ben definiti, esposta nella Dichiarazione di
indipen-denza del cyberspazio di John Barlow e sviluppata da David Post e David Johnson in un articolo
sulla Stanford Law Review nel 1996, può dirsi superata poiché il cyber-spazio non è uno spazio
immaginario, ma un mezzo di comunicazione, cui si possono applicare norme e principi che regolamentano
l’uso degli altri mezzi di comunicazione.

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VIII. LA DISCIPLINA GIURIDICA DEGLI SPAZI

In materia di disciplina giuridica del territorio e altri ambiti spaziali, le nuove scoperte e i progressi
tecnologici hanno messo in luce la contrapposizione tra l’impostazione tradizionale, ispirata alla protezione
della sovranità statale, e la visione moderna, volta alla tutela di interessi solidali. La prima consisteva nel
consentire a ciascuno Stato di appropriarsi delle risorse che fossero alla sua portata, l’altra era quella di
stabilire regole ispirate a valori solidaristici, prevedendo che le risorse presenti di là dal mare territoriale
fossero sfruttate congiuntamente e distribuite tra i membri della comunità. Gli Stati hanno scelto la prima
soluzione ed è lungo questa direttrice che si è sviluppato il diritto del mare in materia di controllo
economico, scientifico o militare.

Un’unica area in relazione alla quale si è cercato di a ffermare nuovi concetti è quella del fondo marino
internazionale e rispetto alla quale è stata elaborata la nozione di “patrimonio comune dell’umanità”, con la
quale si proponeva che le risorse minerarie di tale area fossero sfruttate in modo tale da tenere in consi-
derazione i bisogni dei paesi svantaggiati. L’elemento centrale del concetto, os-sia l’equa ripartizione dei
profitti, è stato prospettato infatti a vantaggio dei paesi in via di sviluppo i quali, sorprendentemente hanno
preteso che gli altri Stati tecnologicamente più avanzati procedessero all’esplorazione e allo sfruttamento
nell’interesse comune, essendo privi della tecnologia adatta.

L’unico settore in cui si è fatto qualche progresso in direzione di principi solidaristici è lo spazio extra
atmosferico. Rimane il fatto che il concetto di patrimonio comune dell’umanità è stato accolto nel Trattato
del 1979 sulla luna e gli altri corpi celesti e vi è dunque la possibilità che questo concetto si traduca in una
serie di norme e istituti giuridici atti a soddisfare i bisogni di tutti i paesi, in particolare quelli meno
sviluppati.

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CAPITOLO 5. I LIMITI CLASSICI ALL’ESERCIZIO DELLA SOVRANITA’


TERRITORIALE
L’esercizio di sovranità di uno Stato sugli spazi sottoposti alla propria sovranità territoriale e nei confronti
degli individui presenti sul proprio territorio incontra vari limiti imposti dal diritto internazionale. Vi sono:

- limiti derivanti dal diritto convenzionale che variano da Stato a Stato a secon-da dei trattati
liberamente stipulati

- limiti previsti dal diritto consuetudinario e che quindi riguardano tutti gli Stati.

I limiti tradizionali posti all’esercizio della sovranità di uno Stato sul proprio territorio sono predicati sulla
necessità che essa non vada a detrimento del ri-spetto dei diritti e delle libertà di un altro Stato.

A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto grazie all’ONU, lo sviluppo della dottrina dei
diritti umani ha contribuito a limitare ulteriormente il potere di governo degli Stati sul proprio territorio.
Questo poiché vi sono dei valori che trascendono gli interessi reciproci degli Stati e costituiscono
l’espressione di interessi solidali di tutti i membri della società internazionale.

I.I LIMITI ALL’UTILIZZAZIONE DEL TERRITORIO

Il potere di imperio esclusivo di uno Stato sul proprio territorio non comporta che es-so sia libero di
utilizzare senza incontrare limiti. Oltre ai limiti ed obblighi cui lo Stato abbia espressamente consentito
(attraverso la stipulazione di trattati), vi sono quelli imposti dal diritto internazionale consuetudinario che
sono primariamente predicati sul principio secondo cui la libertà di cui uno Stato gode non debba essere
utilizzata a detrimento della libertà di cui parimenti beneficiano gli altri Stati. Questo si traduce nel divieto
per gli Stati di utilizzare gli spazi sottoposti alla propria potestà d’imperio in modo pregiudizievole ad altri
Stati o in modo da causare danni alle aree non sotto-poste alla giurisdizione di alcuno Stato. Questo divieto è
un corollario del più generale obbligo secondo cui gli Stati non devono consentire consapevolmente
all’utilizzazione del proprio territorio per il compimento di atti che violino il diritto di altri Stati. Questa
regola è stata proclamata dalla giurisprudenza internazionale ad esempio nel parere della CIG Liceità della
mi-naccia e dell’uso delle armi nucleari.

Altra norma che si applica solo ai rapporti tra Stati rivieraschi di un fiume in-ternazionale è quella che
enuncia che coloro che utilizzano un fiume internazio-nale e che si trovino a monte del fiume sono vincolati
a prendere in ragionevole considerazione gli interessi di altri possibili utilizzatori che si situano a valle. E’
possibile che sostenere che questa norma abbia portata più generale, vietando l’utilizzazione nociva per gli
altri utilizzatori di acque comuni (fiumi e laghi).

II.IL TRATTAMENTO DEI CITTADINI STRANIERI E DEI LORO BENI

I cittadini stranieri che si trovano sul territorio di un determinato Stato, sebbene siano sottoposti alla potestà
d’imperio di quest’ultimo e dunque alle sue leggi, devono beneficiare di un particolare trattamento in virtù di
alcune norme inter-nazionali. La ratio sta nel fatto che il cittadino straniero appartiene allo Stato di cui ha la

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nazionalità, e dunque la sua persona e i suoi beni sono oggetto di un interesse internazionalmente
riconosciuto di quest’ultimo Stato.

 Obblighi Di Non Facere Dello Stato Territoriale.

Generalmente si tratta dell’obbligo di astenersi da comportamenti che possono compromettere il vincolo di


cittadinanza che lega lo straniero al proprio Stato di nazionalità e che egli esprime attraverso i c.d. doveri di
fedeltà (allegiance) del cittadino. Lo Stato territoriale non può dunque imporre allo straniero obblighi di
natura politica e militare, e nemmeno può impedirgli di rientrare nel proprio paese se richiamato dal proprio
Stato (c.d. jus avocandi) o comunque di allon-tanarsi.

E’ invece consentita l’imposizione di obblighi, di natura patrimoniale o civica, che però siano giustificati
dall’esistenza di un particolare collegamento dello straniero con la comunità territoriale (es. residenza o
domicilio). E’ altresì am-messo l’esercizio della potestà punitiva rispetto ai reati che lo straniero abbia
commesso sul territorio dello Stato.

Non è chiaro però se il diritto internazionale consenta che il potere punitivo si esplichi anche nel rispetto dei
reati commessi dallo straniero all’estero, nel caso in cui lo straniero risieda abitualmente nel territorio dello
Stato. In alcuni ordinamenti penali (dei paesi scandinavi, dell’Australia, di Israele e del Vietnam) il residente
straniero è equiparato al cittadino dello Stato, imponendo al primo, come al secondo, il rispetto delle leggi
penali dello Stato anche al di fuori del territorio. Le pretese punitive fondate sul criterio di residenza, se
possono sollevare perplessità per i reati ordinari, sono giustificate quantomeno per la repressione dei c.d.
crimini internazionali, ossia per violazioni gravi dei diritti umani (crimini contro l’umanità, tortura,
genocidio) e per i crimini di guerra, come d’altronde prevede la legislazione penale di alcuni Stati.

 Protezione Dello Straniero E Dei Suoi Beni.

Lo Stato territoriale ha anche l’obbligo di proteggere la persona dello straniero e i suoi beni apprestando le
opportune misure preventive e repressive. I paesi meno avanzati hanno sostenuto che lo standard di
protezione da accordare allo straniero dovesse essere quello nazionale, ossia che gli stranieri dovessero
essere trattati alla stregua dei cittadini dello stato territoriale. I paesi più avanzati hanno invece sempre
insistito sulla necessità di garantire uno standard minimo di trattamento, anche nel caso in cui i cittadini dello
Stato territoriale fossero sottoposti ad un livello inferiore di trattamento. Certo è che gli stranieri non possono
essere oggetto di trattamenti discriminatori sfavorevoli. Essi hanno diritto al rispetto della loro vita e dei loro
beni. Non possono essere oggetto di espulsione collettiva, né possono essere espulsi per ragioni nazionali,
etniche, razziali o religiose. Infine, essi hanno il diritto di ricorrere in via giudiziale, davanti ai tribunali dello
Stato territoriale, per far valere le violazioni subite. Lo Stato che si rifiuti di apprestare tutela giurisdizionale,
o che sottoponga lo straniero a procedure abusive o vessatorie può incorrere nel c.d. diniego di giustizia. In
questo caso, lo Stato di nazionalità dello straniero può ricorrere alla c.d. protezione diplomatica, ossia agire a
livello internazionale attraverso le vie diplomatiche o l’istituzione di procedure giudiziali internazionali, al
fine di ottenere la cessazione dell’illecito ed il risarcimento del danno a beneficio del proprio cittadino.

N.B. L’esercizio della protezione diplomatica è un diritto dello Stato, e non del citta-dino. Può sussistere però
il caso in cui l’ordinamento interno preveda che i propri cit-tadini abbiano un legal entitlement alla
protezione diplomatica da parte del proprio Stato di appartenenza, se vittime all’estero di una violazione di
un diritto fondamentale. E’ il caso dei cittadini britannici, ad esempio. La Corte d’appello britannica precisa
però che la decisione circa i modi di far valere la violazione rientra nei poteri discrezionali del ministro degli
Esteri, il quale deve valutare gli aspetti politici del caso. Ciò non significa che la questione si sottrae al
controllo giudiziario in quanto la legittima aspettativa di un cittadino è che la sua richiesta sia presa in
considerazione.

L’istituto della protezione diplomatica, che si è sviluppato in materia di tratta-mento degli stranieri, si è
adesso esteso rationae materiae alla protezione dei di-ritti di cui godono gli individui nel diritto
internazionale, tra cui i diritti umani.

Le condizioni per il legittimo esercizio della protezione diplomatica sono due:

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1. l’individuo a favore del quale si agisce deve avere la cittadinanza e ffettiva e continua (ossia
deve sussistere sia nel momento della violazione, sia quando lo Stato agisce in protezione
diplomatica) dello Stato che esercita la prote-zione diplomatica;

2. l’individuo vittima della violazione delle norme sul trattamento degli stranieri deve avere
esperito tutte le procedure di ricorso effettive (ossia quelle che o ffrano una ragionevole possibilità di
esito favorevole) che l’ordinamento dello Stato in cui è avvenuta la violazione mette a disposizione.
Se tali procedure non esistono o sono inutili lo Stato cui lo straniero appartiene può agire a livello
internazionale.

Ratio: non vi è motivo di agire a livello internazionale se la questione si può ri-solvere a livello interno. Le
controversie internazionali sono infatti più costose, complesse e lunghe.

 La Protezione Funzionale.

Nel caso di danni subiti da funzionari di organizzazioni internazionali, lo Stato di nazionalità del funzionario
è legittimato ad agire in protezione diplomatica per i danni che l’individuo abbia subito in quanto tale.

Tuttavia, l’azione a tutela dell’individuo in quanto funzionario può essere eser-citata dall’organizzazione
internazionale per conto della quale egli agiva. L’organizzazione non può però anche reclamare i danni subiti
dal suo funzionario in quanto persona fisica.

Risulta chiaro che l’appartenenza ad uno Stato determinata dall’istituto della cittadinanza, è elemento
essenziale per determinare l’ampiezza e la natura dei poteri / doveri e dei diritti / facoltà di uno Stato nei
confronti degli individui che si trovino sul proprio territorio. Lo Stato ha obblighi specifici verso i propri cit-
tadini, mentre incontra limiti particolari quanto al trattamento degli stranieri presenti sul proprio territorio.

Ogni Stato è libero di conferire la cittadinanza secondo parametri e procedure deter-minati dal proprio
ordinamento. Tuttavia, quando si tratta di agire a livello interna-zionale per la tutela del proprio cittadino,
occorre che la cittadinanza rifletta l’esistenza di un rapporto e ffettivo tra individuo e Stato.

Questa regola si applica, oltre che alle persone fisiche, alle persone giuridiche. Come per gli individui, ogni
Stato è libero di stabilire, in base al proprio diritto interno, i criteri per l’attribuzione della nazionalità alle
società e agli enti dotati di personalità giuridica. Solitamente, lo Stato di nazionalità sarà quello della se-de
dell’ente o lo Stato in virtù della cui legislazione esso si è costituito. Come per gli individui, per far valere le
pretese giuridiche fondate sulla nazionalità, è necessario il legame e ffettivo con lo Stato di nazionalità.

Nel caso delle persone giuridiche, occorre tener presente che queste sono con-cretamente costituite da
individui di diversa nazionalità. Si pone quindi il pro-blema di stabilire quale sia lo Stato legittimato ad agire
sul piano internazionale. Secondo la Commissione di diritto internazionale, lo Stato legittimato ad agire in
protezione diplomatica è in linea di principio lo Stato di nazionalità della so-cietà. Se però la società è
controllata dai cittadini di un altro Stato e non svolge alcuna attività economica sostanziale nel territorio
dello Stato, e la gestione ed il controllo finanziario della società avvengono in un altro Stato, è quest’ultimo a
dover essere considerato lo Stato di nazionalità.

L’affermazione di norme consuetudinarie in materia di protezione dei diritti umani, che riguardano gli
individui in quanto tali, sembra aver conferito carattere residuale alle norme in materia di trattamento degli
stranieri. Tuttavia le norme consuetudinarie sui diritti umani sono scarse e gli obblighi di trattamento degli
stranieri acquistano piena rilevanza quando lo Stato non è vincolato da trattati internazionali sui diritti umani
o quando è vincolato da trattati che non prevedono la protezione di interessi garantiti invece da norme sul
trattamento degli stranieri.

Sotto il profilo della concreta osservanza delle situazioni giuridiche garantite gli Stati si rivelano poco attenti
al rispetto dei diritti umani negli altri paesi, mentre sono più sensibili riguardo al modo in cui i propri
cittadini sono trattati all’estero. Gli Stati sono quindi più propensi a pretendere il rispetto degli obbli-ghi di
trattamento degli stranieri, quando questi ultimi siano violati a danno di propri cittadini, piuttosto che quelli
in materia di diritti umani.

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 Osservazione:

Se i danni ingiusti arrecati agli stranieri erano, e sono tuttora considerati danni arrecati ai rispettivi Stati di
appartenenza secondo un’idea che appartiene al “vecchio” diritto internazionale, le norme sui diritti umani
sono invece espressione del “nuovo” diritto internazionale e mirano a tutelare l’individuo in quanto tale dagli
abusi degli Stati.

La ratio delle norme sui diritti umani è diversa quindi da quella sul trattamento degli stranieri: queste norme
prescindono dalla reciprocità, e si impongono ad ogni Stato quale che sia il rapporto di cittadinanza. Gli
individui sono quindi tu-telati dal diritto internazionale in una duplice maniera: in quanto sudditi di uno
Stato, quando si recano all’estero; in quanto esseri umani, quale che sia la loro nazionalità. La diversità della
tutela si realizza anche sotto il profilo procedura-le: solo lo Stato di nazionalità dell’individuo può agire
intenzionalmente a se-guito di una violazione degli obblighi di trattamento degli stranieri. Ogni Stato può
invece agire a tutela delle violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani.

III.LE IMMUNITA’ DALLA GIURISDIZIONE DEGLI STATI ESTERI E DEI LORO ORGANI

 L’immunità Dalla Giurisdizione Civile

L’esenzione dalla giurisdizione degli Stati esteri concerne anzitutto i procedi-menti civili intentati contro uno
Stato estero, senza il consenso di quest’ultimo. A tale obbligo corrisponde il diritto di tutti gli Stati esteri, in
relazione alle con-troversie in cui siano coinvolti, di invocare il difetto di giurisdizione degli orga-ni
giudiziari di un altro Stato. La questione dell’immunità sorge solo nelle ipotesi in cui lo Stato estero sia
convenuto in giudizio, e non nei casi in cui esso si fa attore del procedimento.

Lo Stato estero può rinunciare all’immunità attraverso:

- trattato internazionale

- contratto scritto

- dichiarazione verbale dinnanzi al tribunale

- dichiarazione scritta contenuta in un apposito atto.

La rinuncia si considera implicita quando lo Stato estero sia intervenuto in un procedimento già instaurato o
abbia compiuto qualsiasi atto riguardo al merito di una causa.

Duplice ratio: rispetto del principio dell’indipendenza reciproca tra Stati (“par in parem non habet iudicium”)
e rispetto del principio della separazione dei poteri, in virtù delle quali le autorità giudiziarie di uno Stato non
possono interferire nella condotta della politica estera del proprio Stato, ai cui organi politici centrali spetta
pren-dere posizione riguardo alle attività poste in essere da Stati stranieri, attraverso gli strumenti tradizionali
di condotta delle relazioni internazionali.

 Immunità Assoluta E Immunità Relativa.

Riguardo ai problemi circa l’ampiezza dell’immunità che deve essere riconosciuta agli Stati stranieri, si sono
fronteggiate nella prassi due diverse tendenze. Secondo la prima, l’immunità si configurava come assoluta, e
dunque relativa a qualsiasi controversia. Secondo la seconda, l’immunità dalla giurisdizione aveva natura re-
lativa, concernendo solo controversie attinenti a rapporti coinvolgenti attività compiute dallo Stato come ente
sovrano (c.d. atti jure imperii), e non quelle coinvolgenti attività condotte a titolo privato (c.d. atti jure
gestionis o jure priva-torum).

Il secondo indirizzo si è consolidato alla fine della Prima guerra mondiale, a se-guito del numero crescente di
attività commerciali effettuate dalle autorità so-vietiche e da altri Stati non socialisti.

Nella giurisprudenza italiana, la teoria dell’immunità ristretta è stata a ffermata dalla Corte di cassazione nel
caso Provincia di Trento et al.. vs. Stati Uniti, a seguito dell’incidente del Cermis. L'incidente della funivia
del Cermis avvenne nel 1998 nei pressi di Cavalese, località sciistica delle Dolomiti. Venti persone rimasero
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uccise quando un aereo militare statunitense, volando a una quota inferiore a quanto conces-so e in
violazione dei regolamenti, tagliò il cavo della funivia del Cermis, facendo precipitare la cabina e
provocando la morte dei venti occupanti. Secondo la Corte di cassazione, nel caso di specie sussisteva il
difetto di giurisdizione del giudice italiano, giacché l’attività oggetto del giudizio realizza un fine pubblico
essenziale ed indefet-tibile dello Stato: la difesa della propria sovranità e della propria integrità territoriale
anche con la forza. La Corte affermava inoltre che si trattava di un’attività sovrana potenzialmente
pericolosa per l’incolumità e la salute, che introduce il distinto e di-verso problema dei limiti e delle modalità
del suo concreto esercizio, ma che non consente a ffatto di escludere che si tratti di un’attività sovrana. In
forza della Conven-zione di Londra del 19 giugno 1951 sullo status dei militari NATO, la giurisdizione sul
caso doveva riconoscersi alla giustizia militare statunitense.

La teoria dell’immunità ristretta è attualmente accolta dalle convenzioni internazionali e dalla giurisprudenza
e legislazione di molti paesi. Solo la Cina ed alcuni paesi dell’America Latina seguono ancora la tradizione
dell’immunità assoluta. Si può concludere che in base al diritto internazionale vigente gli Stati sono obbligati
a riconoscere l’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri soltanto in relazione a controversie relative
ad attività governative con cui si esplicano poteri sovrani, mentre solo liberi di negare o riconoscere
l’immunità per le controversie attinenti ad attività di natura più commerciale che pubblicistica.

Natura dell’attività statale. Nel determinare quando una controversia attiene ad un’attività statale di natura
privatistica o pubblicistica, si fa riferimento a diversi parametri, i quali possono condurre a conclusioni
diverse circa la sussistenza o meno dell’immunità:

1. oggettivo, fondato sulla natura dell’atto

2. soggettivo, fondato sulla funzione cui è preordinato l’atto statale.

Es. caso in cui lo Stato estero acquisti beni per le proprie forze armate. Usando il criterio 1. non vi è
immunità, usando il criterio 2. sussiste l’immunità dello Stato estero.

Per questa ragione si preferisce enunciare la regola dell’immunità, per poi elen-care le specifiche
controversie in cui essa non trova applicazione, piuttosto che usare termini astratti. Questa impostazione è
stata accolta nella Convenzione europea sull’immunità degli Stati del 1972, che in principio riconosce
l’immunità degli Stati dalla giurisdizione, ma prevede eccezioni in relazione a determinati casi.

La questione dell’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione non va confusa con la teoria dell’Act of
State secondo la quale i tribunali di uno Stato non possono pronunciarsi sulla validità degli atti di governo
emanati da uno Stato all’interno del proprio territorio, sia che essi vengano in rilievo in un processo intentato
all’estero contro lo Stato, sia in procedimenti cui lo Stato in questione non sia invece parte.

 L’immunità Dalle Controversie Di Lavoro

La distinzione tra atti jure imperii e atti jure gestionis è stata utilizzata anche per ac-certare l’immunità dalla
giurisdizione dello Stato estero in relazione alle controversie in materia di rapporti di lavoro. La
giurisprudenza italiana riconosce le immunità solo quando le mansioni del prestatore di lavoro implicano una
partecipazione del lavora-tore all’esercizio di funzioni sovrane o attività pubblicistiche dello Stato estero.
Tale criterio risulta però problematico in quanto è quasi sempre possibile sostenere che le mansioni svolte dal
lavora-tore straniero attengono all’esplicazione di una funzione pubblicistica, e dunque riconoscere
l’immunità dalla giurisdizione allo Stato in questione, pregiudicando così taluni diritti fondamentali del
lavoratore, lasciandolo senza tutela giuri-sdizionale.

A causa dell’inadeguatezza di tale criterio e per contemperare la tutela della so-vranità dello Stato estero con
la salvaguardia dei diritti fondamentali dei lavora-tori, sono stati individuati dei criteri stabili di giurisdizione
dello Stato del foro.

La Convenzione europea sull’immunità degli Stati si ispira ad esempio al criterio del luogo di prestazione
dell’attività lavorativa, combinato con quello della cittadinanza e residenza del lavoratore. L’art. 5, par. 1,
stabilisce che lo Stato non può invocare l’immunità quando l’attività lavorativa deve essere eseguita sul

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territorio dello Stato del foro. L’art. 5, par. 2, precisa che anche quando l’attività lavorativa è svolta nello
Stato del foro, l’immunità può essere invocata quando:

- il lavoratore ha la cittadinanza dello Stato datore di lavoro al momento della presentazione


della domanda giudiziale;

- il lavoratore, alimento della conclusione del contratto di lavoro, non possede-va la


cittadinanza dello Stato del foro, né risiedeva abitualmente sul territorio di tale Stato;

- le parti hanno diversamente convenuto per iscritto salvo che, secondo la legge dello Stato del
foro, i tribunali di tale Stato abbiano competenza esclusiva in ragione della materia.

 L’immunità dalla giurisdizione cautelare ed esecutiva

Vedi sul Manuale.

 Immunità e violazioni di norme di jus cogens

Data l’affermazione nel diritto internazionale generale di norme di carattere indero-gabile, ossia norme che
non possono essere derogate per mezzo di consuetudini o di trattato giacché esse tutelano valori
fondamentali della comunità internazionale nel suo insieme (c.d. norme di jus cogens), si è sostenuto che,
data la superiorità gerarchica di queste norme rispetto a tutte le altre, esse dovrebbero necessariamente
prevalere anche su quelle in materia di immunità dello Stato estero in caso di pretese giuridiche fondate sulla
loro presunta violazione da parte di quest’ultimo, con la conseguenza che, l’immunità degli Stati esteri dalla
giurisdizione civile dello Stato territoriale an-drebbe negata in caso di pretese giuridiche fondate su presunte
violazioni gravi dei diritti umani e di altre norme a carattere cogente (vedi pp. 126 - 127 per ca-si).

Osservazione: occorre considerare che le norme sull’immunità dalla giurisdi-zione degli Stati esteri si sono
affermate in un’epoca in cui il diritto internazio-nale si limitava a regolamentare la condotta tra Stati sovrani,
non interferendo sul trattamento che uno Stato riservava ai suoi sudditi. L’a ffermarsi di norme di diritto
internazionale a tutela dei diritti umani hanno posto limiti sostanziali alla sovranità degli Stati, che non sono
più quindi legibus soluti (sciolti dalle leggi).

A tal proposito la Corte di cassazione italiana nel caso Milde ha a ffermato che non avrebbe senso proclamare
il primato dei diritti fondamentali della persona e, con-traddittoriamente, escludere la possibilità di accesso al
giudice in caso di azione criminosa di uno Stato (vedi meglio).

 L’immunità funzionale degli organi di Stati esteri

Ogni Stato ha il diritto di esigere da un altro Stato che i comportamenti posti in essere dai propri organi in
tale qualità siano considerati fatti dello Stato e non dell’individuo, e quindi coinvolgenti la sola
responsabilità dello Stato secondo il diritto internazionale (cd. immunità funzionale o organica o ratione
mate-riae). Questa regola costituisce anche il corollario del principio di diritto inter-nazionale che protegge
l’organizzazione interna di ogni Stato sovrano, il quale lascia ad ogni Stato la libertà di stabilire la propria
organizzazione interna e di individuare le persone fisiche autorizzate ad agire per suo conto.

La regola sull’immunità funzionale, che sottrae alla cognizione del giudice di uno Stato estero gli atti
compiuto dagli organi di un altro Stato in qualità ufficiale, costituisce il corollario della norma sull’immunità
degli Stati. Essa è invocabile in relazione agli atti di natura u fficiale compiuti da qualsiasi organo dello Stato,
anche a seguito della cessazione della funzione, ed è opponibile davanti ai tribunali di qualsiasi Stato
(diverso da quello di appartenenza dell’organo). Lo Stato per conto del quale l’organo ha agito può
rinunciarvi anche se, esso non può sottrarsi alle conseguenze previste dal diritto internazionale in materia di
responsabilità se l’attività dell’organo ha dato luogo ad un illecito internazionale.

Circa la possibilità di invocare l’immunità funzionale a seguito della cessione della funzione statale, si è
precisato che tale immunità non è invocabile se lo Stato, per conto del quale l’organo ha agito, si è estinto.

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Questo orientamento è stato seguito dalla Corte suprema federale tedesca, nel caso Incriminazione delle
guardie di confine, guardie della frontiera della Repubblica democratica tedesca, accusate di omicidio per
aver ucciso le persone che tentavano la fuga ad Ovest. La ratio di questa soluzione va ricercata nel fatto che
il diritto di pretendere l’immunità funzionale degli organi è un diritto dello Stato, che potrà esercitarlo nella
misura in cui continua ad esistere sul piano internazionale.

 La regola incontra alcune eccezioni:

- nel caso in cui l’attività ufficiale sia stata e ffettuata nel territorio di uno Stato straniero senza il
consenso di quest’ultimo ed abbia comportato, oltre che una violazione nel diritto internazionale, anche
la commissione di un grave reato nello Stato territoriale. In tale ipotesi, l’individuo che ha tenuto il
comporta-mento proibito può essere convenuto in giudizio ed essere sottoposto a misure punitive;

- lo Stato d’appartenenza non potrà invocare l’immunità dell’organo, né quest’ultimo potrà avvalersi
della circostanza di aver agito in qualità u fficiale per sottrarsi alla responsabilità penale in relazione ai
crimini internazionali.

 Le immunità personali

Il diritto internazionale consuetudinario riconosce che, nello Stato presso cui sono accreditati (Stato
accreditatario), gli agenti diplomatici (nonché la fami-glia del capo missione, il personale diplomatico della
missione e le relative fa-miglie) siano beneficiari di una serie di immunità e privilegi, codificati in larga
misura nella Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche.

Si tratta di immunità che, per quanto concerne gli atti compiuti dal diplomatico in qualità u fficiale, si
sovrappongono alle immunità funzionali. Esse concernono:

- la persona dell’agente diplomatico, in relazione alle attività di qualunque na-tura da questo


compiute nello Stato accreditatario in occasione dello svolgi-mento della sua funzione (c.d.
immunità personali o ratione personae);

- i locali e i beni utilizzati dall’agente diplomatico per l’esercizio della sua fun-zione.

Ratio: necessità di proteggere l’agente diplomatico da interferenze da parte dello Stato accreditatario, di
modo che la sua missione possa svolgersi liberamente (“ne impediatur legatio”)

Le immunità e i privilegi degli agenti diplomatici comprendono:

- inviolabilità della sede diplomatica

- inviolabilità della residenza privata

Le autorità locali non possono penetrare nei locali della missione senza il con-senso del capo missione, né
possono sottoporre tali locali (o mezzi di trasporto) a misure coercitive. Grozio osservava che i locali della
missione diplomatica sono quasi extra territorium. Inoltre, lo Stato territoriale ha l’obbligo di adot-tare tutte
le misure necessarie per impedire che i locali della missione siano in-vasi o danneggiati, o che la pace della
missione sia turbata, o la sua dignità offesa (art. 22 della Convenzione di Vienna del 1961). La dimora
privata del di-plomatico è sottoposta allo stesso trattamento dei locali della missione (art. 30).

Lo Stato accreditato ha l’obbligo di non utilizzare i locali della missione in mo-do incompatibile con le
funzioni della missione stessa. In caso di abuso, lo Stato accreditatario può indicare come personae non
gratae i responsabili e, se del ca-so, dichiarare la rottura delle relazioni diplomatiche con lo Stato accreditato.

In secondo luogo sono inviolabili:

- archivi

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- documenti

- corrispondenza ufficiale della missione nonché

- documenti

- corrispondenza dell’agente diplomatico, e non possono essere oggetto di mi-sure coercitive da parte
dello Stato accreditatario.

In terzo luogo anche la persona dell’agente diplomatico e (con alcune eccezioni) i suoi beni godono
dell’inviolabilità.L’agente diplomatico non può essere sottoposto a fermo, arresto o misure detentive, ed i
suoi beni non possono essere oggetto di misure coercitive, quali il sequestro, la confisca, ecc.

Inoltre l’agente diplomatico è sottratto all’esercizio della giurisdizione da parte dello Stato accreditatario per
tutta la durata della missione, e finché non lascia il territorio dello Stato. L’esenzione dalla giurisdizione
protegge l’agente finché perdura l’incarico a ffidatogli. L’agente non potrà quindi essere convenuto in
giudizio davanti ai tribunali dello Stato accreditatario, quali che siano la natura dell’attività svolta (pubblica
o privata) ed il momento in cui essa è stata posta in essere (nello svolgimento delle funzioni diplomatiche e
prima).

In altri termini l’immunità dalla giurisdizione ha carattere assoluto, proteg-gendo il diplomatico


dall’esercizio della giurisdizione per qualsiasi attività po-sta in essere, anche se antecedente l’assunzione
dell’incarico. Essa ha però ca-rattere temporaneo, giacché viene meno col cessare della funzione diplomati-
ca.

Le eccezioni all’immunità diplomatica operano con riguardo all’immunità dalla giurisdizione

- civile

- amministrativa.

Tale immunità non è invocabile per le azioni reali e possessorie relative ad im-mobili situati sul territorio
dello Stato accreditatario, per le azioni successorie, e per le azioni concernenti attività professionali o
commerciali svolte dall’agente diplomatico, nel territorio dello Stato accreditatario, al di fuori delle sue
funzio-ni ufficiali (art. 31 a. b. c. della Convenzione di Vienna 1961).

Infatti, in queste ipotesi, l’agente svolge deliberatamente attività e transazioni di tipo privatistico, non
collegate all’esercizio della sua funzione.

Non vi è però alcuna eccezione alla regola sull’immunità dalla giurisdizione penale nemmeno nel caso in cui
l’agente diplomatico sia accusato di aver commesso un crimine internazionale. Se il diplomatico è accusato
di atti di genocidio, tortura o crimini di guerra, lo Stato accreditatario è tenuto a rispettare la sua inviolabilità
ed immunità. Naturalmente gli Stati possono stabilire, in via convenzionale, una deroga alle immunità in
questione per consentire una più efficace repressione e punizione dei crimini internazionali.

Nel caso in cui l’agente diplomatico abbia la nazionalità dello Stato accreditata-rio, o risieda
permanentemente nel suo territorio, le regole sull’immunità dalla giurisdizione (penale, civile,
amministrativa) operano soltanto con riguardo agli atti u fficiali che egli abbia compiuto nell’esercizio delle
sue funzioni. In queste ipotesi, il diplomatico gode solo dell’immunità funzionale.

Lo Stato di invio dell’agente diplomatico può sempre rinunciare all’immunità giuri-sdizionale dell’agente
stesso con rinuncia espressa. Inoltre, nel momento in cui un diplomatico avvia un procedimento giudiziario,
egli implici-tamente rinuncia all’immunità.

L’agente diplomatico è esente dalle imposte e tasse nazionali, regionali o co-munali riguardanti i locali della
missione, purché non si tratti di imposte o tasse percepite come remunerazione di particolari servizi resi. E’
esente altresì da qualsiasi imposta e tassa, personale o reale, nazionale, regionale o comunale, ma con talune
eccezioni.

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In caso di abuso delle immunità diplomatiche, lo Stato accreditatario può “in ogni momento e senza motivare
la sua decisione, informare lo Stato accreditante che il capo missione o qualsiasi altro membro del personale
diplomatico della missione è persona non grata o che qualsiasi altro membro della missione non è
accettabile” (ex art. 9 della Convenzione di Vienna). In tale ipotesi, lo Stato accreditate ha l’obbligo di
richiamare la persona in questione e porre fine alle sue funzioni presso la missione. Se lo Stato accreditate
non adempie entro limiti ragionevoli, lo Stato accreditatario può rifiutare di riconoscere alla persona la
qualità di membro della missione e può in ogni momento decidere di interrompere le relazioni diplomatiche
con lo Stato d’invio. A tal proposito la CIG si è pronunciata nel caso del Personale diplomatico e consolare
statunitense a Teheran.

Le immunità diplomatiche operano a partire dal momento in cui lo Stato territo-riale ha espresso il
preventivo gradimento nei confronti dell’individuo chia-mato a svolgere la missione diplomatica. L’obbligo
di rispettare tali immunità ha inizio nel momento in cui l’individuo entra nel territorio dello Stato, anche
qualora non abbia ancora presentato le lettere credenziali all’organo territoriale competente.

Una volta cessata la funzione, l’obbligo di rispettare le immunità opera durante tutto il tempo necessario
all’individuo per lasciare il territorio, in modo tale che essi possano completare i preparativi per lasciare il
paese.

Al rientro nel paese d’invio, lo Stato che lo aveva originariamente accreditato non ha più alcun obbligo di
riconoscergli le immunità in relazione agli atti di natura privata. Ratio: la regola sull’immunità diplomatica è
stabilita nell’interesse dei governi, non dei diplomatici; essa non può ricevere applicazione una volta cessata
la missione altrimenti si creerebbe a favore degli agenti diplomatici una sorta di prescrizione e di impunità
permanente.

Le immunità continuano invece a sussistere anche dopo la cessazione della fun-zione per quanto riguarda gli
atti compiuti nell’esercizio delle funzioni quale membro della missione. Ratio: questa norma costituisce una
specificazione della regola sull’immunità funzionale spettante a tutti coloro i quali abbiano agito per conto
dello Stato. L’ex agente diplomatico non potrà invocare però l’immunità funzionale per l’eventuale
commissione di crimini internazionali.

L’obbligo di rispettare le suddette immunità e privilegi è da osservarsi solo da parte dello Stato accreditatario
e non da parte di terzi Stati ove il diplomatico vada in visita privata e nei quali compia un eventuale reato.

Tuttavia vi sono due ipotesi in cui anche gli Stati terzi devono rispettare le im-munità diplomatiche:

- in caso di c.d. jus transitus inoxii: gli Stati terzi (purché non in guerra con lo Stato di invio o di
destinazione) devono garantire ai diplomatici l’inviolabilità e le immunità necessarie al transito sul proprio
territorio (transito necessario per il raggiungimento del territorio dello Stato di destinazione o per il rientro
nel territorio dello Stato d’invio);

- gli Stati terzi devono rispettare l’inviolabilità e l’immunità dalla giurisdizione degli agenti
diplomatici in relazione agli atti compiuti a titolo u fficiale nell’esercizio della funzione diplomatica. In
questo caso opera la regola in materia di immunità funzionale.

Beneficiano di immunità personale limitatamente al periodo in cui sono in carica anche:

- capi di Stato

- capi di governo

- ministri degli Affari esteri.

Non è chiaro se tali organi, quando si recano all’estero in visita privata o in in-cognito, beneficino delle
immunità personali nel territorio dello Stato ospite.

Le immunità personali spettanti ai ministri degli Affari esteri producono un par-ticolare e ffetto erga omnes.
La CIG ha osservato che l’immunità dalla giurisdi-zione penale e l’inviolabilità proteggono l’organo dagli

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atti autoritativi (es. mandato d’arresto) di uno Stato estero suscettibili di ostacolare l’adempimento dei suoi
doveri ufficiali. La Corte ha reso operanti tali immunità anche nell’ipotesi in cui l’organo si trovi nel
territorio del proprio Stato.

Occorre mettere in luce che gli agenti consolari non sono inviati diplomatici. Essi svolgono attività volte a
tutelare e promuovere interessi commerciali o di altra natura dello Stato che li nomina, ed in particolare,
prestano assistenza ai cittadini di questo Stato. Essi svolgono anche importanti funzioni notarili (es.
autenticano firme, con-cludono e registrano matrimoni, registrano morti e nascite, etc.). Essi non beneficiano
quindi delle immunità spettanti agli agenti diplomatici e sono immuni dalla giurisdizione dello Stato ospite
solo per gli atti ufficiali compiuti nell’esercizio della funzione consolare. I funzionari consolari beneficiano
dell’inviolabilità personale purché non si tratti di reato grave a seguito di una decisione dell’autorità
giudiziaria competente. I funzionari consolari non possono essere incarcerati o sottoposti a forme di
limitazione della propria libertà personale, se non in esecuzione di una decisione giudiziaria definitiva.
Infine, essi essi beneficiano di un’ampia esenzione fiscale, di forme di esenzione dai diritti di dogana e dalla
visita doganale. Archivi, documenti e locali consolari sono inviolabili.

PARTE TERZA
GLI ALTRI SOGGETTI DELL’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE
CAPITOLO 6. LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI E LE NAZIONI UNITE IN
PARTICOLARE
In epoca moderna, gli Stati hanno avvertito l’esigenza di istituire meccanismi per la gestione di interessi
comuni, per il perseguimento di determinati scopi e lo svolgimento di specifiche attività nei più svariati
ambiti di competenza. La creazione di tali enti è avvenuta su base volontaria attraverso la stipulazione dei
c.d. trattati istitutivi. Le organizzazioni internazionali sono dotate di un apparato organico stabile cui gli Stati
membri affidano il compito di perseguire le finalità indicate nel trattato istitutivo attraverso l’esercizio dei
poteri e delle funzioni ivi previste. Tale apparato è solitamente costituito da:

- segretariato permanente

- un organo assembleare cui partecipano tutti gli Stati membri

- un organo esecutivo composto da un numero limitato di Stati membri e con poteri di gestione.

Questi organismi non vanno confusi con le ONG, che sono invece enti istituiti da privati e le cui attività non
sono disciplinate dal diritto internazionale, bensì dal diritto interno dello Stato di sede.

I. LA SOGGET TIVITA’ INTERNAZIONALE DELLE ORGANIZZAZIONI


INTERNAZIONALI

La questione della soggettività si è posta con la creazione della SdN, ente a vo-cazione universale con
competenze generali. Fino ad allora gli organismi istituiti dagli Stati, più che enti autonomi dotati di
personalità giuridica distinta dai loro membri, erano organismi collettivi, la cui condotta e le cui attività
dovevano ritenersi comuni e simultaneamente imputabili a ciascuno Stato membro.

Le prime rudimentali organizzazioni internazionali furono istituite tra XIX e XX secolo e si occupavano di
materie tecniche. Con la fine della WWI si assiste al tentativo di creazione di organismi con competenze di
più ampia portata, quali la SdN con Trattato di Versailles del 1919. Lo scopo che fu attribuito alla SdN era
quello di pro-muovere la cooperazione internazionale, la pace e la sicurezza attraverso il disarmo, la
soluzione pacifica delle controversie, la tutela della sovranità ed indipendenza dei membri, e le sanzioni.

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Dopo la WWII, il processo di creazione di organizzazioni internazionale si è in-tensificato investendo diversi


settori. Si va dal campo politico: ONU, OSA (Or-ganizzazione degli Stati Americani), Consiglio d’Europa,
OUA (Organizzazione degli Stati Africani), Lega degli stati arabi; al campo militare: NATO, alla
cooperazione economica: FMI, Banca Mondiale, OMC, UE; al campo sociale: FAO, UNESCO.

Dopo la WWII il problema della soggettività internazionale si è quindi posto con maggiore evidenza. La CIG
ha osservato che gli strumenti istitutivi di organizzazioni internazionali intendono “creare nuovi soggetti di
diritto dotati di una certa autonomia, ai quali gli Stati membri attribuiscono il compito di perseguire obiettivi
comuni”. Pare quindi corretto sostenere che le organizzazioni internazionali, nella misura in cui posseggano
personalità giuridica internazionale, costituiscano soggetti “secondari” e “derivati” della comunità
internazionale. Esse sono infatti un prodotto degli Stati che le hanno istituite e cessano di esistere nel
momento in cui gli Stati lo decidono.

Le organizzazioni internazionali possono però svolgere solo quei compiti che sono stati ad esse a ffidati.
Nello stesso parere la CIG ha affermato che esse sono soggetti di diritto internazionale che, a di fferenza
degli Stati, non posseggono competenza gene-rale ma s’informano al principio di specialità.

Non a tutte le organizzazioni internazionali può essere riconosciuta la soggetti-vità internazionale, giacchè
quest’ultima dipende dall’idoneità dell’ente di agire sul piano internazionale in maniera autonoma ed
indipendente, di manifestare una volontà propria che non sia la mera somma della volontà degli Stati che lo
compongono. Si fa quindi ricorso a due criteri per stabilire la soggettività (se-condo la CIG):

1. si deve accertare se gli stati intendevano dar vita ad un ente autonomo, in grado di svolgere un ruolo
per certi aspetti svincolato da quello degli Stati membri. L’intenzione può desumersi, fra le altre cose, dal
fatto che gli organi dell’ente adottino delibere vincolanti a maggioranza (e non solo all’unanimità) oppure
può essere dichiarata nel trattato istitutivo;

2. è necessario dimostrare che l’organizzazione eserciti e svolga funzioni e pos-segga diritti che
possono giustificarsi solo in quanto essa sia dotata di sog-gettività giuridica internazionale e sia capace di
agire sulla scena internazio-nale.

Le organizzazione che non soddisfino questi criteri devono essere considerate “organi comuni” degli Stati
membri, le cui attività saranno imputabili agli Stati membri, che risponderanno anche degli atti illeciti
eventualmente commessi dall’organizzazione stessa.

II. LE NORME INTERNAZIONALI APPLICABILI

Le organizzazioni internazionali dotate di soggettività internazionale sono destinatarie di alcune norme


consuetudinarie.

1. Esse hanno il potere di stipulare trattati internazionali nelle loro materie di competenza. Es. accordi
di sede, convenzioni sui privilegi e sulle immunità dei funzionari dell’organizzazione, trattati sulle attività
dell’organizzazione, accordi con altre organizzazioni per il coordinamento delle rispettive attività.

2. Hanno il diritto di pretendere l’immunità dalla giurisdizione statale per le attività poste in essere
dall’organizzazione. In particolare in relazione alle controversie che possono sorgere in materia di rapporto
d’impiego con l’organizzazione. In generale le organizzazioni sono immuni dalla giurisdizione di cognizione
e da quella esecutiva e cautelare in relazione a tutte le attività rientranti nel proprio ambito di competenza
(ratio: altrimenti gli Stati potrebbero interferire nell’attività dell’organizzazione).

3. Hanno il diritto alla protezione dei propri funzionari da parte degli Stati in cui i funzionari svolgano
le proprie mansioni. Le organizzazioni possono poi avanzare pretese al fine di ottenere la riparazione per
danni causati dagli Stati membri o terzi ai beni dell’organizzazione o ai suoi agenti (c.d. protezione
funzionale). Ne consegue che esse possono pretendere riparazioni per danni subiti dai propri agenti anche
quando lo Stato offensore è lo Stato di naziona-lità della vittima. Le organizzazioni internazionali non
possono però agire in protezione diplomatica del proprio funzionario per danni subiti da quest’ultimo come
individuo. Questa posizione privilegia il legame organico a scapito di quello di nazionalità ed è stata criticata
perchè indebolisce l’autorità degli Stati sui propri cittadini.
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Le organizzazioni internazionali non sempre hanno i mezzi necessari per assi-curare il rispetto dei diritti e
dei poteri finora accennati. In caso di inadempi-mento da parte degli Stati dei propri obblighi internazionali,
le organizzazioni internazionali non possono assicurare l’attuazione coercitiva. Esse possono solo privare lo
Stato di partecipare ai lavori dell’organizzazione o del diritto di voto, o espellerlo dall’organizzazione. Per
quanto riguarda gli Stati terzi, esse possono invocare l’applicazione delle norme generali in materia di
responsabilità degli Stati.

L’ONU è ad oggi l’unica organizzazione internazionale a vocazione universale cui è a ffidata un’ampia
competenza ratione materiae. L’ONU ha concretamente esercitato quest’ampia competenza. Essa costituisce
senza dubbio l’unico attore globale non statale.

III. LE NAZIONI UNITE

 La Creazione

I principi fondamentali della futura Carta delle Nazioni Unite furono delineati in vari momenti:

 1941 - adozione della Carta Atlantica, elaborata da USA e UK


 Inizio di una serie di incontri al vertice fra le 3 potenze vincitrici (USA, UK, URSS), cui partecipò
anche la Cina:
 Ottobre 1943 - Mosca

 21 Agosto / 7 Ottobre 1944 - Dumbarton Oaks (Washington DC) 4 / 11 Febbraio 1945 - Yalta (qui
non c’era la Cina)
 25 Aprile / 26 Giugno 1945 - San Francisco, in cui la Conferenza diplomatica elaborò e adottò il
testo della Carta delle Nazioni Unite e che svolse i suoi la-vori sulla base della Carta Atlantica. Il
progetto iniziale era modificabile a mag-gioranza dei 2/3 ma gli emendamenti erano possibili solo su
questioni minori.

I 50 Stati riuniti a San Francisco rappresentavano la maggior parte degli Stati del mondo:

- potenze invitanti: USA, UK, URSS, Cina e Francia

- 42 Stati che avevano dichiarato guerra alla Germania o al Giappone

- Argentina, Danimarca, Bielorussia, Ucraina (le ultime due, e l’India, non erano ancora Stati
indipendenti).

Questi stati non poterono fare altrimenti che accettare le norme fondamentali contenute nel progetto di
Statuto della futura Organizzazione, fra cui vi era quella che prevedeva l’istituzione di un organo composto
da pochi paesi, in cui avessero un ruolo predominante i 5 membri permanenti muniti di potere di veto.

Punto controverso: la norma sul dominio riservato (domestic jurisdiction) che accoglie il principio di non
ingerenza dell’Organizzazione negli affari interni degli Stati, a cui tenevano particolarmente i paesi
dell’America Latina ed i piccoli paesi. La proposta fu accolta dalla Conferenza a maggioranza dei 2/3 ma il
rispetto del principio suddetto, invece di essere incluso nella norma che vieta la minaccia e l’uso della forza,
fu inserito in una norma apposita che protegge il dominio riservato degli Stati membri da indebite
interferenze da parte dell’Organizzazione.

Il ruolo dell’URSS fu relativamente marginale, se non per alcune importanti questioni politiche:

- diritto di veto in seno al CdS

- richiesta di partecipazione all’Organizzazione delle 16 repubbliche sovietiche come Stati membri


originari, accettata però solo per Bielorussia ed Ucraina

- a sostegno del principio di autodeterminazione dei popoli.


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I paesi minori contribuirono alla stesura di alcune norme della Carta:

- diritto di legittima difesa individuale e collettiva

- ampliamento delle competenze dell’AG (in cui ogni Stato ha un seggio e un voto)

- attribuzione all’ECOSOC (Consiglio economico e sociale) del rango di organo principale della
nuova Organizzazione

- adozione di norme su questioni coloniali

- inserimento di una disposizione che stabilisce la prevalenza degli obblighi contenuti nello Statuto
dell’ONU su eventuali obblighi incompatibili derivanti da altri trattati.

E’ importante rilevare che l’ONU fu concepita come dominata dalle grandi potenze. Pur assumendosi il
compito di salvaguardare la pace e la sicurezza per conto e nell’interesse di tutte le nazioni del mondo, le
grandi potenze non volevano fare con-cessioni importanti agli Stati minori su questioni cruciali. A Yalta,
Stalin fece notare che non avrebbe mai acconsentito a sottoporre al giudizio delle potenze minori qual-siasi
azione intrapresa dalle grandi potenze. Roosevelt e Churchill furono d’accorso. Inoltre l’ONU non doveva
essere frenata da impacci giuridici o limiti, ed è così che la proposta volta a sottoporre le controversie
sull’interpretazione ed applicazione dello Statuto alla CIG fu respinta (a maggioranza semplice).

 Gli Organi Principali

Gli organi principali dell’ONU sono:

- AG: si compone di tutti gli Stati membri, ciascuno con diritto di voto. Vasta com-petenza ratione
materiae (su qualsiasi questione rientrante negli scopi dell’ONU). Sulle questioni riguardanti il
mantenimento della pace e sicurezza rispetto ai quali il CdS stia esercitando le sue funzioni incontra però dei
limiti procedurali ex art. 12, par. 1, secondo cui l’AG non può fare raccomandazioni al CdS, a meno che non
siano richieste. Le delibere (risoluzioni, raccomandazioni, dichiarazioni) sono prese a maggioranza dei 2/3
dei presenti e non sono vincolanti per gli Stati membri, fatta eccezione per quelle concernenti la vita interna
dell’ONU.

- CdS: composto da 15 membri, alcuni permanenti (i big five : Cina, Francia, UK, URSS, USA), altri
eletti ogni 2 anni dall’AG. La sua competenza è limitata al man-tenimento della pace e della sicurezza. Le
delibere sono adottate a maggioranza di 9 membri. Se di natura sostanziale però devono essere prese col voto
favorevole dei big five. Il voto contrario costituisce il diritto di veto. Per delibere sull’elezione dei giudici
della CIG la maggioranza richiesta è di 8 voti favorevoli. Gli atti del CdS possono essere: raccomandazioni o
decisioni. Secondo la Carta un Comitato di Sta-to maggiore composto dai capi di Stato maggiore dei membri
permanenti del CdS o dai loro rappresentanti, avrebbe dovuto coadiuvare il CdS, ed avrebbe dovuto esse-re
responsabile della direzione strategica delle forze armate. Inoltre i contingenti militari messi a disposizione
dagli Stati avrebbero dovuto operare sempre sotto il controllo del Consiglio. Ma queste norme non hanno
mai trovato applicazione.

- Segretariato: rende concreto l’operato di AG e CdS. E’ guidato dal Segreta-rio Generale (SG, ora
Ban Ki Moon), nominato dall’AG su proposta del CdS.

- ECOSOC: composto di 54 Stati eletti dall’AG per 3 anni. Il suo compito è quello di discutere,
proporre, raccomandare, promuovere studi, coordinare l’azione di or-ganizzazioni collegate all’ONU in virtù
di uno speciale accordo, istituire organi sussidiari nei settori di propria competenza.

- Consiglio di amministrazione fiduciaria : le questioni concernenti paesi non in-dipendenti dovevano


essere disciplinate in base al sistema di amministrazione fidu-ciaria in virtù di convenzioni speciali e
dovevano essere sottoposte a questo Consi-glio che, composto variamente, operava sotto il controllo dell’AG
oppure, quando gli accordi di amministrazione fiduciaria si riferivano ad aree strategiche, sotto il controllo
del CdS. Poichè tutti i territori sottoposti ad amministrazione fiduciaria hanno acquistato l’indipendenza il
Consiglio ha cessato di esistere.

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- CIG: organo giudiziario principale dell’ONU. Dirime controversie internazionali tra Stati per mezzo
di sentenze vincolanti, oppure emana pareri consultivi su richiesta dell’AG o del CdS o di altri organi
autorizzati dall’AG. La Corte è composta da 15 giudici eletti dall’AG e dal CdS. Nella procedura di elezione
dei giudici i big five non possono esercitare il diritto di veto. Per essere eletto un candidato deve ottenere la
maggioranza assoluta dei voti, ossia 8, a prescindere che fra questi vi siano quelli dei big five.

 I fini e le attività principali

I fini sono enunciati ex art. 1:

1. “mantenimento della pace e della sicurezza” (è il fine principale dell’ONU). Il sistema di sicurezza
collettivo ONU si basa su due pilastri: il primo è il divieto della minaccia e dell’uso della forza armata
da parte degli Stati membri (ex art. 2) per iniziativa unilaterale degli Stati, assoluto e onnicomprensivo ad
eccezione dell’ipotesi di legittima difesa individuale e collettiva (ex art. 51), che consente agli Stati di
ricorrere alla forza per respingere un attacco armato, finchè il sistema di sicurezza collettivo del CdS non
abbia preso le misure necessarie a ristabi-lire la pace. Lo Stato che agisca in legittima difesa deve informare
il CdS delle misure prese. Il diritto di legittima difesa è una misura preliminare attraverso la quale lo Stato
possa salvaguardare i propri diritti per un tempo limitato. Il divieto in questione concerne unicamente la
forza militare. Inoltre sono vietati solo la minaccia e l’uso della forza nelle relazioni internazionali, ma è
consentito agli Stati membri di ricorrere alla forza per reprimere moti insurrezionali interni. E’ però
necessario che gli Stati rispettino le norme di diritto internazionale umanitario e le norme in materia di tutela
dei diritti umani, ove applicabili.

Fino a tutto il XIX secolo, gli Stati erano liberi di usare la forza armata nelle loro relazioni internazionali ed
erano liberi di ricorrere alla guerra. Il diritto internazionale si limitava ad obbligare lo Stato a fare una
dichiarazione o emanare un ultimatum (una dichiarazione con cui si fa dipendere l’inizio delle ostilità dal
mancato adempimento di certe condizioni da parte dello Stato destinatario di tale dichiarazione). Tale
obbligo poteva essere violato senza che ciò impedisse l’insorgere di una guerra. E’ solo con il Patto della
SdN ed il Patto Briand - Kellogg che si apportarono ampie restrizioni al ricorso della guerra. Tra il 1919 e il
1938 si affermò il divieto consuetudinario di ricorso alla guerra come mezzo di protezione dei propri
interessi, si stabilirono le circostanze che consentivano il ricorso alla forza armata (rappresaglie, legittima
difesa, protezione dei cittadini all’estero), si distinse tra rappresagli e ritorsioni, si affermò il divieto di
intervento coercitivo.

Dalla WWII, il divieto di ricorrere alla guerra e di fare ricorso tout court alla violenza armata e alla minaccia
della stessa ha acquisito natura consuetudinaria, diventando vincolante per Stati membri dell’ONU e non.

Il secondo pilastro del sistema di sicurezza collettiva è costituito dall’attribuzione al CdS del monopolio della
violenza armata legittima, accertata l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un
atto di aggressione, in alterna-tiva alle sanzioni, qualora esse si siano dimostrate inadeguate. Forze aeree,
navali o terrestri saranno impiegate per intraprendere ogni azione necessaria per mantenere la pace e la
sicurezza internazionale. A tal fine l’art. 43 prevede la costituzione di un esercito ONU e di un Comitato di
Stato maggiore. Nessuna azione coercitiva potrà essere intrapresa, in base ad accordi regionali o da parte di
organizzazioni regionali, senza l’autorizzazione del CdS. Le delibere in materia di sicurezza collettiva
devono essere adottate dal CdS a maggioranza aggravata, con possibilità dell’esercizio del diritto di veto da
parte di un membro permanente.

Difetti strutturali del sistema: il diritto di veto ha il potere di sabotare il funzionamento del sistema di
sicurezza collettiva. A causa della guerra fredda, non solo l’esercito ONU non fu mai costituito, ma si avviò
in seno al CdS la prassi dei c.d. veti incrociati, che ha paralizzato l’attività del CdS. La conseguenza è stata la
pretesa per gli Stati di pretendere di esercitare il diritto di legittima difesa individuale, al punto che essa è
stata invocata spesso come causa di giustificazione. Inoltre l’incapacità del CdS di imporre coercitivamente
la pace ha portato all’affermazione di una duplice prassi: da un lato il CdS ha autorizzato gli Stati a ricorrere
a tutti i mezzi necessari per ristabilire la pace, delegando così ad essi la funzione di imporre coattivamente la
pace (c.d. peace - enforcement), dall’altro, ha istituto in più occasioni le forze di peace - keeping (c.d. caschi
blu), in sostituzione al vecchio meccanismo di sicurezza collettiva.

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2. “attraverso mezzi pacifici, promuovere la soluzione delle controversie internazionali e risolvere le


situazioni che potrebbero portare ad una rottura della pace”. La Carta ONU impone l’obbligo di soluzione
pacifica di tutte le controversie inter-nazionali, soprattutto a quelle che potessero degenerare e mettere in
pericolo la pace. Lo scopo dell’intervento da parte degli organi dell’ONU in questa categoria di con-troversie
è prevenire lo scoppio di conflitti armati. Il meccanismo previsto nella Carta si applica sia alle controversie
giuridiche che a quelle politiche (che prevedono una specifica procedura di composizione). Nel quadro
dell’impostazione generale della Carta in materia è apparso ovvio prevedere la possi-bilità di un intervento
ONU che dovrebbe cercare di rimuovere le cause della tensione. Il campo di azione dell’ONU è molto
ampio, giacché qualunque tipo di disaccordo potrebbe degenerare. Che le parti in causa lo vogliano o no, la
controversia che li coinvolge sarà discussa in seno al CdS o all’AG, qualora tale organo ritenga che ciò sia
nell’interesse della pace. Le parti devono tollerare il suo intervento. La Carta sta-bilisce che le parti hanno
l’obbligo di ricercare una soluzione attraverso negoziati, in-chieste, mediazione, conciliazione, arbitrato,
regolamenti giudiziari, interventi di or-ganizzazioni o accordi regionali, o altri mezzi pacifici di loro scelta.
Ogni Stato può portare all’attenzione una situazione suscettibile di mettere in pericolo la pace. Qualora lo
Stato non sia un membro deve accettare gli obblighi di soluzione pacifica imposti dalla Carta e sottoporsi alla
vincolatività delle decisioni. Quando una controversia non sia portata all’attenzione del CdS su iniziativa di
uno Stato, il CdS ha il potere di invitare le parti in causa a risolvere la controversia con mezzi pacifici, può
procedere ad un’inchiesta e raccomandare procedure appropriate di soluzione della controversia. Anche l’AG
può raccomandare misure per raggiungere una soluzione pacifica di qualunque situazione che possa
pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli fra Stati.

Infine, diversi SG in via di prassi sono stati chiamati, o si sono o fferti, per svol-gere mediazioni in virtù della
propria autorità morale e politica derivante dalla loro posizione.

3. “sviluppare relazioni amichevoli tra le nazioni sulla base del rispetto del principio di uguaglianza e di
autodeterminazione dei popoli (quindi promuovere il graduale smantellamento dei sistemi coloniali”.
Nonostante il tentativo URSS di includere, fra i fini ONU, quello di promuovere l’indipendenza degli Stati
sottoposti a regime coloniale, si riuscì solo a prevedere che i popoli delle colonie avrebbero dovuto
gradualmente ottenere l’autogoverno. Il rife-rimento all’autodeterminazione (ex artt. 1, par. 1 e 55) deve
dunque intendersi nella sua accezione limitata:

- per i territori coloniali che le rispettive potenze coloniali non intendevano sot-toporre a regime di
amministrazione fiduciaria, la Carta richiedeva soltanto che le potenze avessero l’obbligo di riferire al SG su
argomenti di minore im-portanza. Era previsto che gli Stati membri che amministravano territori non
pienamente autonomi dovessero aiutare le popolazioni di quei territori a con-seguire l’autogoverno e a
realizzare libere istituzioni politiche;

- per ciò che riguardava invece i territori sottoposti ad amministrazione fiducia-ria, era previsto
l’autogoverno dei popoli coloniali ed il loro progressivo av-viamento all’indipendenza.

La Carta ONU aveva tenuto in vita il sistema coloniale, ma aveva diviso le popolazioni sottomesse al
dominio coloniale in due categorie: territori non autonomi e territori sottoposti ad amministrazione fiduciaria
. Essa prevedeva il controllo internazionale nei confronti delle potenze coloniali circa i progressi compiuti
verso la realizzazione dell’autogoverno (o dell’indipendenza) che le stesse potenze avrebbero dovuto
perseguire.

Gli Stati presenti a San Francisco ritenevano che l’obiettivo del disarmo sarebbe stato raggiunto in un
decennio, ma che per la decolonizzazione ci sarebbe voluto un secolo. Invece in pochi anni si avviò lo
smantellamento degli imperi coloniali. Da un sistema basato sulla nozione di autogoverno, l’ONU si è mossa
per promuovere l’indipendenza dei territori coloniali. Questa evoluzione è stata favorita da:

- forte pressione da parte dell’URSS ed Europa dell’est

- riaffermarsi della tradizione anticoloniale statunitense

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- affermazione delle popolazioni sottoposte a dominio coloniale nell’a ffermazione del proprio diritto
all’indipendenza (e quindi presa di co-scienza)

- aumento dei costi di mantenimento dei territori per le potenze coloniali

- ascesa al potere nei paesi coloniali europei di partiti socialdemocratici.

Nel giro di 3 decenni (1947 - 1975) gli imperi coloniali sono stati demoliti. Ultime colonie ad ottenere
l’indipendenza sono state Angola e Mozambico (1975) dal Portogallo e Namibia (1990) dal Sudafrica.
Tuttavia alcune situazioni (es. Bermuda, Cayman, Falkland…) rimangono tutt’oggi un problema irrisolto. In
alcuni casi stesso le popolazioni non desiderano l’indipendenza e la Carta non obbliga a compiere questa
scelta. Da notare che l’ONU, al di fuori delle popolazioni coloniali, ha promosso l’autodeterminazione
interna del Sudafrica (1994) ed esterna dell’Eritrea (1996) e di Timor Est (1999). A causa dell’atteggiamento
degli Stati riguardo al principio di integrità territoriale e sovranità nazionale, l’ONU ha potuto incoraggiare e
promuovere l’autodeterminazione interna solo per far cadere governi che praticavano l’apartheid.

4. “promuovere la cooperazione economica e sociale”. Nel settore della cooperazione economica e


sociale, la Carta stabilisce che l’AG può solo avviare studi e fare raccomandazioni attraverso l’ECOSOC. Ex
art. 55 l’ONU deve promuovere la realizzazione delle condizioni necessarie al progresso sociale ed econo-
mico. Le condizioni di stabilità e benessere sono essenziali per lo sviluppo e il manteni-mento di relazioni
pacifiche fra nazioni (e viceversa). Le decisioni sulla linea politica da seguire sono lasciate alla mag-gioranza
degli Stati che compongono l’AG e l’ECOSOC.

Negli anni AG ed ECOSOC hanno incoraggiato la cooperazione fra Stati in campo sociale (es. diritti umani),
ma nel settore della cooperazione economica numerosi ostacoli si frappongono all’eliminazione del divario
fra paesi sviluppati ed in via di sviluppo e non si è raggiunto lo stesso risultato. Negli anni ’70 si esortava i
paesi industrializzati ad aiutare i paesi più arretrati, più recentemente invece si è vista la necessità per ogni
nazione di essere l’artefice del proprio sviluppo. Ciononostante l’ONU ha promosso la cooperazione
economica attraverso FAO, OMS, Banca Mondiale, FMI, UNCTAD, UNDP…

Con riguardo alla tutela dell’ambiente, l’ONU ha adottato tre importanti di-chiarazioni ed ha istituito il
Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente por-tando all’attenzione temi come il danno causato
dall’ozono, il surriscaldamento dell’atmosfera, l’inquinamento nel Mediterraneo, la depauperazione della
fauna ittica a causa della pesca non regolata e la deforestazione.

Nel campo della tutela dell’infanzia, attraverso l’UNICEF, l’ONU ha cercato di far aumentare il livello
generale di salute e benessere dei bambini in molti paesi in via di sviluppo ed ha portato all’adozione della
Convenzione dei diritti del fanciullo (1990), il trattato multilaterale con il più alto numero di ratifiche.

Dal momento che gli Stati conservano intatto il proprio potere decisionale e sono pro-fondamente divisi da
interessi economici, politici ed ideologici contrastanti, l’ONU ha svolto soltanto un ruolo di coordinamento
ed impulso.

5. “promuovere il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali a van-taggio di tutti gli
individui”. Ex art. 55 l’ONU promuoverà il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani. L’art. 13 si
limita a prevedere che l’AG intraprende studi e fa raccomandazioni allo scopo di promuovere il rispetto dei
diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, sesso, lingua, o di religione.
Infine l’ECOSOC, oltre a fare raccomandazioni, può preparare progetti di convenzione da sottoporre all’AG.
Nel 1945 ancora non esisteva un catalogo universale dei diritti umani, ed era inconcepibile quindi che un
organismo internazionale potesse limitare la sovranità degli Stati in questo senso. E’ per questo che fu
inserita la disposizione sul divieto per l’ONU di interferire nelle questioni rientranti nel dominio riservato di
uno Stato, che costituiva un ostacolo allo svolgimento di azioni incisive dell’ONU nel campo dei di-ritti
umani. Ex art. 2, par. 7, l’ONU poteva solo formulare raccomandazioni o predi-sporre studi di carattere
generale indirizzate a tutti gli Stati. Le questioni relative ai diritti umani appartenevano ancora
essenzialmente al dominio riservato degli Stati. Le disposizioni contenute nella Carta in relazione al rispetto
dei diritti umani hanno natura programmatica, limitandosi a stabilire un piano di azione di natura generale.
Non si stabiliva la disciplina in dettaglio, nè i meccanismi di attuazione. La Carta intendeva semplicemente

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proclamare che il rispetto dei diritti umani era uno degli scopi che l’azione degli Stati e l’ONU doveva
perseguire.

Nel 1948, l’AG ha adottato la Dichiarazione Universale dei diritti umani, tra-sformando le poche e vaghe
disposizioni della Carta in un decalogo dei diritti e delle libertà fondamentali.

Nel 1966 sono poi stati adottati i due Covenants sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e
culturali che hanno trasformato le disposizioni della Dichiarazione in norme giuridiche vincolanti per gli
Stati che hanno ratificato i due Patti. E’ seguita a questi l’adozione di diversi altri trattati più specifici e la
creazione di meccanismi di controllo ad hoc. L’azione dell’ONU in questi campi è stata notevole, ma
purtroppo molti trattati conclusi sotto i suoi auspici non sono ancora universalmente vincolanti ed i
meccanismi di controllo non sono sempre efficaci ed incisivi. Tuttavia, l’ONU ha attuato una rivoluzione
copernicana: mentre prima l’intero sistema aveva come cardine la sovranità dello Stato, oggi sono gli
individui a costituire il perno di questa comunità. Ad oggi gli Stati sono visti come apparati organizzati
principalmente in funzione della tutela degli interessi e dei bisogni degli individui.

Gli altri scopi dell’organizzazione erano:

6. “promuovere il disarmo e la disciplina degli armamenti”. La questione del disarmo, cruciale per il
mantenimento della pace e della sicurezza, ha nella Carta un ruolo marginale. La ragione è forse insita nel
fallimento della disciplina del disarmo contenuta nel Patto della SdN, fallimento che può aver indotto i
redattori della Carta alla cautela ed a perseguire obiettivi limitati. I fondatori dell’ONU ritenevano che il
disarmo potesse realizzarsi per mezzo di negoziati tra Stati chiave. Ciononostante la prima Commissione
AG, responsabile per le questioni politiche e di sicurezza, di è specializzata in materia di disarmo e sin
dall’inizio ha discusso questioni rientranti in questo ambito. Essa ha anche creato la Conferenza per il
disarmo, e l’UNIDIR (un istituto di ricerca sul disarmo).

Oltre al Trattato del 1968 sulla non proliferazione delle armi nucleari, soggetto alle procedure di verifica
dell’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica), altri trattati sul disarmo sono stati conclusi al di
fuori dell’ONU. Ratio: le maggiori potenze nucleari (es. USA e URSS) hanno ritenuto di dover rag-giungere
da sole un accordo sulle questioni militari di importanza cruciale, al di fuori di un forum multilaterale, ove
esse avrebbero potuto essere sottoposte a pressioni di natura politica e ideologica. E’ tuttavia vero che
l’ONU, attraverso l’AIEA ha contri-buito a minimizzare la minaccia di una guerra nucleare ispezionando i
reattori nucleari in almeno 90 paesi, per verificare che i materiali nucleari non fossero utilizzati per fini
militari.

7. “promuovere il rispetto per il diritto internazionale ed incoraggiare lo svi-luppo progressivo del


diritto internazionale e la sua codificazione”. L’AG è incaricata di intraprendere studi e fare raccomandazioni
allo scopo di promuovere lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codi-ficazione. L’azione
dell’ONU in questo campo ha superato ogni aspettativa.

Vari organi dell’ONU sono riusciti ad adottare convenzioni su questioni molto importanti come il genocidio,
i diritti umani, la protezione delle donne, i diritti del bambino, ecc.. Queste convenzioni sono state poi
ratificate da un gran numero di Stati.

Inoltre la CDI (Commissione di diritto internazionale), un organo composto di esperti di diritto


internazionale e diplomatici, ha elaborato importanti progetti di convenzione codificando e contribuendo allo
sviluppo progressivo di alcuni set-tori cruciali del diritto internazionale, il testo dei quali, dopo
l’approvazione dell’AG, è stato sottoposto ad apposite conferenze diplomatiche e successiva-mente ratificato
da molti Stati. Quasi tutte le convenzioni predisposte dalla CDI hanno avuto un’influenza considerevole
anche sugli Stati che non le hanno rati-ficate.

Nelle aree dove il conflitto tra interessi dei vari gruppi di Stati è più acuto e per le quali è risultato
impossibile predisporre convenzioni, l’AG ha promosso l’elaborazione di risoluzioni di portata generale e
dichiarazioni di principi (es. Dichiarazione dei diritti umani del 1948). Questi testi, anche se privi di e fficacia
giuridica vincolante, hanno diversi meriti:

- enunciano obiettivi e le politiche conseguenti che gli Stati devono perseguire in quelle aree
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- danno impulso graduale alla possibile cristallizzazione di regole generali vin-colanti…

Altri organi ONU hanno contribuito in maniera rilevante al diritto internazionale. Certamente i meriti
principali vanno riconosciuti alla CIG. Ma anche CdS e AG si sono pronunciati, nelle risoluzioni, su
questioni giuridiche.

 Fallimenti E Successi Dell’ONU

E’ noto che l’accordo tra le grandi potenze non durò e il peggioramento tra le relazioni USA e URSS fece
svanire la possibilità di rendere operante il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta. Durante la
guerra fredda il mondo si divise in due blocchi. L’idea di Roosevelt secondo cui il CdS doveva diventare il
Consiglio di amministrazione del mondo responsabile di attuare coercitivamente la pace contro ogni
potenziale trasgressore divenne irrealistica. Ciascuna superpotenza cercò di mantenere ordine e stabilità nel
proprio blocco, nel rispetto reciproco dell’altrui sfera di influenza. Le rivalità e i contrasti sorsero infatti
principalmente a proposito del controllo sui paesi in via di sviluppo ed in aree strategiche.

Dopo il crollo dell’URSS e la fine del bipolarismo, gli USA hanno progressi-vamente esteso la propria sfera
d’influenza sull’intero pianeta. Questi mutamenti non hanno però comportato la piena attuazione del sistema
di sicurezza collet-tiva. I progetti rimasti incompiuti, fra cui la la prevenzione dei conflitti armati
internazionali ed interni, sono ancora numerosi.

L’ONU ha realizzato molto di più in quei settori che erano considerati di impor-tanza marginale.

In sostanza, l’ONU ha spesso fallito in tre settori:

- mantenimento della pace e della sicurezza

- disarmo

- riduzione del divario tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Tuttavia, la responsabilità
non è attribuibile all’ONU in sè. Certamente l’Organizzazione presenta dei difetti: eccessiva
burocratizzazione, cattiva amministrazione, esagerazione nel discutere ad infinitum le materie controverse, lo
scarso peso sulle relazioni politiche internazionali delle centinaia di risoluzioni (l’AG ne adotta una media di
300 l’anno, il CdS una media di 57). Ma il Consiglio non ha un proprio esercito, nè può disporre di una forza
di pronto intervento. Inoltre le sanzioni economiche sono spesso ine fficaci. Con tutti i suoi difetti e la
mancanza di una visione d’insieme, propria di alcuni dei suoi SG, i fallimenti dell’ONU devono essere
attribuiti agli Stati che la compongono, e principalmente alle grandi potenze.

Occorre considerare che l’ONU è basata su un paradigma, il modello kantiano, che trova il suo cardine nella
cooperazione e promozione di valori comuni, meta - nazio-nali, profondamente diverso da quello prevalente
nella società internazionale mondiale, il paradigma groziano, tipico di una società anarchica incentrata su
Stati sovrani che perseguono ognuno i propri interessi e scarsamente preoccupati dei valori della comunità
nel suo insieme. A causa della discrasia tra modelli, l’ONU è costretta ad uno sforzo notevole per ricondurre
gli Stati ad incanalare la loro azione verso la promozione di quei fini e valori comuni. Inoltre, l’ONU manca
di un reale potere economico, politico e militare. Essa deve fare a ffidamento sul sostegno degli Stati membri,
in particolare delle grandi potenze. Tuttavia queste sono disposte ad o ffrire questo sostegno solo quando
ritengono che i loro interessi ed obiettivi coincidano con quelli dell’Organizzazione.

L’appartenenza all’ONU è diventata una prova di legittimazione per qualunque nazione. Nessun nuovo Stato
può dichiarare di essere legittimo e di far parte a pieno titolo della società internazionale se non ha ottenuto
l’ammissione all’ONU. Inoltre l’ONU rappresenta una sede diplomatica mondiale.

Ciò che l’ONU hanno ottenuto nel campo della decolonizzazione, diritti umani, pro-tezione dell’ambiente,
sviluppo del diritto internazionale e affermazione di valori so-lidali (es. jus cogens) costituisce un grande
contributo. Altra conquista dell’ONU è stata quella di coinvolgere gradualmente attori non statali,
principalmente ONG, ma anche movimenti di liberazione nazionale, nelle attività diplomatiche
internazionali, ascoltando le loro voci e prendendo in considerazione le loro richieste ed esigenze. Ai

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movimenti di liberazione nazionale è stato concesso lo status di osservatori in alcuni organi dell’ONU,
rendendoli capaci di ascoltare le loro richieste.

Non bisogna poi sottovalutare la crescente tendenza dell’ONU a collegarsi ad organizzazioni regionali (OSA,
Unione africana, Lega araba, UE, Consiglio d’Europa, ecc.) ed ad organizzazioni non regionali (NATO,
OSCE, OCSE…). Attualmente l’ONU sta cercando di lavorare in stretta collaborazione con queste.

CAPITOLO 7. INSORTI, MOVIMENTI DI


LIBERAZIONE NAZIONALE E ALTRI ENTI
I. I MOVIMENTI INSURREZIONALI

In che misura i gruppi insurrezionali possono acquisire uno status internazionale?

Gli Stati sono tradizionalmente ostili agli insorti, dato che essi cercano di rovesciare il governo legittimo e
spesso di modificare l’intera struttura statale. Gli Stati preferi-scono dunque trattare le insurrezioni come
affari interni e, di conseguenza, tendono a negare ai ribelli qualsiasi soggettività internazionale.

L’ostilità è manifestata in varie forme. Anzitutto, il divieto per gli Stati terzi di appoggiare militarmente gli
insorti (a differenza di quanto accade nel caso dei movimenti di liberazione nazionale). Gli Stati terzi
possono però prestare al go-verno legittimo ogni tipo di assistenza, incluso l’invio di contingenti armati.

 La Soggettività Dei Movimenti Insurrezionali

Le condizioni necessarie affinché un gruppo insurrezionale possa essere consi-derato soggetto di diritto
internazionale sono:

- controllo effettivo di una parte di territorio statale;

- guerra civile intensa e di lunga durata;

- apparato organizzativo responsabile delle attività dei membri del gruppo. Spetta agli Stati, fra cui
quello in cui si svolge la guerra civile, verificare la sus-sistenza di questi requisiti, procedendo poi al
riconoscimento degli insorti (re-cognition of insurgency).

Questo non va confuso con il riconoscimento di belligeranza che può essere e ffettuato quando l’insurrezione
ha carattere diffuso e si protrae nel tempo, ed il movimento abbia acquisito un controllo stabile di parte del
territorio. Per effetto del riconoscimento di bel-ligeranza, al conflitto si applicheranno le norme dei diritto dei
conflitti armati interna-zionali (codificate dalle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907, dalle Convenzioni
di Ginevra del 1949 e dal I Protocollo addizionale di queste ultime Convenzioni) e gli insorti saranno trattati

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come soggetti del diritto internazionale destinatari di diritti ed obblighi discendenti dallo jus in bello dei
diritti internazionali.

I due essenziali requisiti per la concessione del riconoscimento di belligeranza sono:

- il rispetto da parte delle forze ribelli delle regole del diritto di guerra;

- l’essere dotate di una organizzazione politica de facto che possa, se vittoriosa, costituire uno Stato.

Gli Stati sono poco inclini a concedere il riconoscimento di belligeranza. Ciò è accaduto in pochi casi (1861 -
Lincoln nei confronti degli Stati confederati nella guerra civile americana; 1918 -Cecoslovacchia vs. Impero
tedesco ed austroun-garico) ed alcuni autori sostengono che la regola secondo cui l’applicazione del-lo jus in
bello dipenda dal riconoscimento di belligeranza sia caduta in desuetu-dine.

Sul piano pratico, dal momento che la società internazionale è divisa sotto il profilo ideologico e politico,
ogni partito insurrezionale può contare sull’appoggio di uno o più Stati per ragioni non solo politiche,
ideologiche o re-ligiose, ma anche strategico - militari. Inoltre, altri Stati potranno ritenere con-veniente
procedere al riconoscimento, soprattutto quando sul territorio control-lato dagli insorti vivano cittadini
stranieri. Questi Stati saranno indotti a ricono-scere una qualche soggettività insurrezionale ai ribelli, anche
solo per poter pre-tendere il rispetto delle norme sulla protezione dei cittadini stranieri e dei loro beni.

Il gruppo insurrezionale ha comunque natura provvisoria: se vittorioso, esso andrà al potere, sostituendo il
governo preesistente, oppure costituirà un nuovo Stato su parte del territorio dello Stato preesistente (ipotesi
di secessione), op-pure deciderà di fondersi con un altro Stato.

Se la lotta avrà esito negativo, il gruppo si estinguerà e perderà qualsiasi forma di soggettività internazionale
eventualmente acquisita.

Gli insorti presentano caratteristiche simili a quelle degli Stati, essi hanno però natura transitoria e dunque
una capacità internazionale limitata sotto due profili:

- essi sono destinatari solo di un certo numero di norme internazionali;

- essi sono associati ad un determinato numero di Stati preesistenti (quelli che li riconoscono e
stabiliscono con essi relazioni internazionali).

 Le Norme Internazionali Applicabili Agli Insorti

Le norme consuetudinarie applicabili agli insorti sono scarse.

Norme in materia di stipulazione dei trattati. I ribelli possono concludere accordi con Stati che intendano
stabilire rapporti con essi. Il treaty making power degli insorti è riconosciuto dall’art. 3 comune alle
Convenzioni di Ginevra del 1949 (che è l’unica norma che si applica anche ai conflitti interni).

Norme in materia di trattamento degli stranieri. Gli insorti devono garantire agli stranieri che risiedono sul
territorio da essi controllato il trattamento previsto dal diritto internazionale.

Vi sono tre esempi nella prassi in cui terzi Stati hanno richiesto agli insorti di provvedere al risarcimento dei
danni causati dal gruppo insurrezionale ai propri cittadini:

- 1861, guerra civile americana

- 1914, insurrezione scoppiata in Messico

- 1936 - 1939, guerra civile spagnola.

A tal proposito si può dire che se un cittadino di un territorio sottoposto al con-trollo e ffettivo degli insorti
risiede nel territorio di uno Stato che non ha ricono-sciuto il gruppo insurrezionale, l’obbligo per tale Stato di
proteggere l’individuo in questione opera con riguardo al governo legittimo dello Stato in cui è in corso il
conflitto.
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Norme in materia di immunità degli organi di Stati esteri. I ribelli devono ga-rantire a tali organi il
trattamento previsto dal diritto internazionale, in partico-lare esercitare il dovere di protezione degli organi di
Stati esteri e riconoscere a beneficio di tali organi le immunità funzionali e quelle diplomatiche. Le persone
che agiscono per conto degli insorti, invece, possono pretendere il rispetto delle norme internazionali
pertinenti solo nei confronti degli Stati che abbiano e ffettuato il riconoscimento; gli altri Stati sono
legittimati a considerare i rap-presentanti degli insorti come semplici cittadini dello Stato in cui è in atto la
guerra civile.

Infine, vi sono le norme in materia di condotta delle ostilità contro il governo legittimo. Fra queste, alcune si
applicano alle forze governative ed al gruppo in-surrezionale:

- norme sulla protezione dei civili e delle altre persone che non prendono parte alle ostilità;

- norme contenute nell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949;

- regole in materia di mezzi e metodi di combattimento;

- regole sulla responsabilità penale per le violazioni gravi del diritto umanitario. Queste violazioni
possono concretare dei crimini di guerra, e dunque comportare la responsabilità individuale dei loro autori;

- i ribelli sono obbligati anche a rispettare norme convenzionali sui conflitti armati interni
(Convenzione dell’Aia del 1945, II Protocollo addizionale sulle Convenzioni di Ginevra, Protocollo
emendato sull’uso delle mine, delle trap-pole esplosive e di altri dispositivi).

Il fondamento giuridico in virtù del quale i ribelli, formalmente non parti a tali trattati, e dunque non
vincolati dalle loro disposizioni, possono essere destinatari dei diritti e degli obblighi ivi contenuti ha dato
luogo ad un acceso confronto nella dottrina. Si desume comunque dalla logica dei trattati stessi, che
l’intenzione dei loro redattori era di porre norme suscettibili di indirizzarsi ai ribelli. Non avrebbe senso per
gli Stati acquisire obblighi vincolanti in questa materia nei confronti di ogni altra parte contraente, lasciando
però i gruppi ribelli liberi da vincoli internazionali.

II. I MOVIMENTI DI LIBERAZIONE NAZIONALE

L’emergere di gruppi organizzati in lotta, in nome di un intero popolo, per realizzare il principio di
autodeterminazione dei popoli, e in particolare per liberare quel popolo dal giogo coloniale, è una
caratteristica peculiare del secondo dopoguerra. Questi gruppi, denominati movimenti di liberazione
nazionale, sono venuti organizzandosi in Africa, in America Latina ed in misura minore in Europa. Essi
hanno conosciuto in epoca recente un ampliamento dei propri scopi, dirigendo la loro lotta contro:

- regimi coloniali
- regimi razzisti

- regimi stranieri.

Attualmente, essi sembrano conoscere una fase di declino (vedi pp. 176-177 per esempi).

La differenza dalla lotta dei movimenti di liberazione nazionale, rispetto a quella dei partiti insurrezionali, è
che questa è legittimata dal diritto internazionale giacché essa mira alla realizzazione del principio di
autodeterminazione dei popoli.

 Il Principio Di Autodeterminazione Dei Popoli

Il principio di autodeterminazione dei popoli, inizialmente proposto dalla rivo-luzione francese e poi
fortemente sostenuto, seppur con diverse accezioni, da Lenin e Wilson, intendeva soppiantare l’ottica
tradizionale secondo cui la socie-tà internazionale consisteva di Stati sovrani volti al perseguimento degli
interessi delle classi politiche dominanti. I rapporti tra soggetti internazionali si svol-gevano tra gruppi di
governanti, che prendevano in considerazione gli interessi dei cittadini solo quando questi erano minacciati
dalle potenze straniere.

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L’autodeterminazione significava che popoli e nazioni dovessero avere voce in capitolo nelle relazioni
internazionali e che le potenze sovrane non avrebbero potuto più disporne liberamente (es. cessioni senza
referendum o plebisciti). L’autodeterminazione fu proclamata come principio democratico: i popoli
avrebbero dovuto avere il diritto di scegliere i propri governanti liberamente ed avrebbero dovuto essere
liberi da ogni oppressione esterna, in particolare dai domini coloniali.

Questo insieme di postulati minava principi tradizionali come la legittimazione dinastica del potere, il
dispotismo, gli accordi stipulati tra governanti senza tener conto delle esigenze della popolazione.

Il principio dell’autodeterminazione introdusse improvvisamente un nuovo parametro per valutare legittimità


del potere, ossia il rispetto dei desideri e delle aspirazioni dei popoli e delle nazioni, sferrando un duro colpo
alle situazioni esistenti. L’autodeterminazione erodeva anche uno dei principi fondamentali della società in-
ternazionale tradizionale: la sovranità territoriale. Secondo questo principio, gli Stati dovevano rispettare
ogni altro Stato che esercitasse la potestà d’imperio su una de-terminata comunità territoriale, a prescindere
sia dal titolo di acquisizione della so-vranità (conquista, successione ereditaria, “baratto” con un altro
governante), sia in particolare dalle aspirazioni della popolazione interessata. Promuovendo la formazione di
entità internazionali basate sulle libere aspirazioni delle popolazioni, l’autodeterminazione infliggeva un
colpo letale agli imperi multinazionali, e segnava l’inizio della fine per gli imperi coloniali.

In sostanza, la redistribuzione di potere all’interno della società internazionale introduceva un fattore assai
dinamico di cambiamento, suscettibile di minare profondamente lo status quo.

Il principio di autodeterminazione, malgrado la sua valenza politica più ampia e generale, è oggi fermamente
radicato nel sistema normativo internazionale sol-tanto in tre aree:

1. come postulato anticoloniale

2. come divieto all’instaurazione e mantenimento di regimi di occupazione straniera

3. come condizione per il pieno accesso al governo di tutti i gruppi razziali.

Sotto il profilo esterno, esso comporta per i popoli sottoposti a dominio coloniale il diritto di secessione dalla
madrepatria per accedere all’indipendenza, associarsi o integrarsi liberamente ad uno Stato indipendente. Lo
stesso diritto spetta ai popoli sottoposti a regime militare straniero, se essi facevano parte prima di uno Stato
indipendente. Quanto ai gruppi razziali cui sia negato il pieno accesso al governo in uno Stato sovrano, il
principio di autodeterminazione non ha solo una valenza esterna (diritto all’indipendenza etc…), ma anche
una valenza interna, conferendo ad essi il diritto di conseguire il proprio sviluppo politico, economico,
sociale e culturale all’interno di uno Stato esistente.

Nel diritto internazionale vige il principio generale dell’autodeterminazione, ed un insieme di norme di


natura consuetudinaria concernenti questioni specifiche. Queste norme precisano in relazione a specifiche
aree il contenuto del principio generale. Il ruolo del principio è quello di servire come parametro di
riferimento per l’interpretazione del diritto consuetudinario e di quello convenzionale. Esso trascende le
regole consuetudinarie, conferendo loro unitarietà. Il principio stabilisce il metodo attraverso il quale gli Stai
devono assumere decisioni concernenti i popoli: prestando attenzione al loro consenso liberamente espresso.

Gli Stati che opprimono popoli che appartengono ad una delle tre categorie:

- popoli soggetti a dominio coloniale


- popoli soggetti a occupazione militare straniera
- popoli soggetti a governo razzista

sono obbligati a consentire l’esercizio del diritto di autodeterminazione, in par-ticolare a non impedire
l’esercizio di questo diritto con mezzi coercitivi. I popoli cui spetta l’autodeterminazione possono pretendere
che Stati terzi si astengano dall’inviare truppe che assistano lo Stato oppressore. Gli Stati terzi sono invece
giuridicamente legittimati a sostenere i popoli cui spetta l’autodeterminazione, fornendo loro ogni forma di
assistenza diversa dall’invio di truppe armate, e si devono astenere dall’aiutare o assistere lo Stato
oppressore.
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Se l’esercizio di questo diritto è negato con la forza, i terzi Stati possono sotto-porre la questione agli organi
dell’ONU competenti, ed anche a ricorrere a con-tromisure pacifiche.

 Autodeterminazione Ed Uso Della Forza.

Nel settore dell’uso della forza, l’affermazione del principio ha avuto una duplice conseguenza. Da un lato
ha proibito agli Stati di ricor-rere alla minaccia o all’uso della forza contro i popoli che invocano il diritto
all’autodeterminazione. Dall’altro, i movimenti di liberazione nazionale in lotta per l’autodeterminazione
hanno diritto di ricorrere alla forza per reagire contro lo Stato (co-loniale, occupante o razzista) che
impedisce con la forza l’esercizio del diritto di autode-terminazione. Questa legittimazione è una deroga al
divieto consuetudinario della minaccia o dell’uso della forza.

 Autodeterminazione E Titoli Di Sovranità.

L’autodeterminazione ha messo in di-scussione la legittimità di titoli giuridici tradizionali, quali la conquista


coloniale e l’acquisizione attraverso la cessione di sovranità sui territori d’oltremare. Inoltre, non è possibile
acquisire un valido titolo di sovranità su t e r r i t o r i a n n e s s i i n v i o l a z i o n e d e l p r i n c i p i o i n
q u e s t i o n e . L’autodeterminazione impedisce agli Stati di considerare terrae nullius quei ter-ritori abitati
da aggregati organizzati, ma in cui manchino i caratteri dell’autorità sovrana.

 Autodeterminazione E Trattati.

L’operare del principio rende nulli i trattati che, occu-pandosi di trasferimento di territori, non includono una
disposizione che preveda una previa consultazione della popolazione interessata.

Il principio di autodeterminazione è stato accolto in maniera selettiva. La disciplina non trova applicazione
nel caso dei gruppi etnici e delle minoranze nazionali, religiose e culturali. Il diritto internazionale nega loro
il diritto all’autodeterminazione interna ed esterna, e non mira neanche a fornire rimedi di carattere generale
alla condizione in cui molti di essi si trovano. Questo poiché stabilità politica e integrità territoriale sono
valori molto importanti per cui gli Stati desiderano non sentirsi minacciati. Il diritto all’autodeterminazione
in questi casi condurrebbe alla frammentazione degli Stati in una miriade di entità incapaci di sopravvivere.

Eleanor Roosevelt, nel 1952, disse: “Come il concetto di libertà umana indivi-duale, portato alle sue estreme
conseguenze logiche, significherebbe anarchia, così l’applicazione illimitata del principio di
autodeterminazione potrebbe ri-solversi nel caos.”

L’art. 1 comune ai due Patti dell’ONU sui diritti umani del 1966 conferisce il diritto all’autodeterminazione
interna ai popoli di tutte le parti contraenti.

 La Soggettività Internazionale Dei Movimenti Di Liberazione Nazionale

A differenza di quanto accade per gli insorti, per i movimenti di liberazione na-zionale il controllo e ffettivo
di parte del territorio non è una condizione essen-ziale per l’acquisizione della soggettività internazionale,
anche se storicamente ciò è accaduto (es. FLN in Algeria). Nella maggior parte dei casi i movimenti di
liberazione nazionale sono stati ospitati da paesi amici. In ragione degli scopi politici da essi perseguiti, essi
hanno uno status giuridico internazionalmente rilevante. In forza di questa legittimazione internazionale, gli
Stati terzi hanno l’obbligo di non fornire assistenza al governo che nega il diritto di autodetermi-nazione ed,
in deroga al principio di non intervento negli affari interni, possono fornire assistenza umanitaria, economica
e in certa misura militare ai movimenti in lotta per l’autodeterminazione.

L’elemento territoriale non è comunque del tutto privo di rilevanza. Esso assume importanza in prospettiva,
dal momento che i movimenti di liberazione nazionale mirano a conseguire il controllo e ffettivo su un certo
territorio.

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I movimenti di liberazione nazionale, per essere considerati soggetti di diritto inter-nazionale, devono
disporre di un apparato istituzionale che possa gestire le loro relazioni internazionali (vedi art. 96, par. 3, del
I Protocollo addizionale (1977) alle Convenzioni di Ginevra del 1949 sul diritto umanitario applicabile ai
conflitti armati di natura internazionale, cui sono equiparate le guerre di liberazione nazionale). Le
dichiarazioni di voler rispettare il protocollo possono essere e ffettuate dall’autorità che rappresenta il popolo
impegnato in un conflitto armato contro una potenza coloniale, razzista o straniera. Non è invece necessario,
ai fini della soggetti-vità, il riconoscimento da parte di altri soggetti nella società internazionale.

 Le Norme Consuetudinarie Applicabili Ai Movimenti Di Liberazione Nazionale

In quanto soggetti di diritto internazionale, i movimenti di liberazione nazionale sono destinatari di alcune
norme giuridiche internazionali:

- diritto all’autodeterminazione, che vantano nei confronti dello Stato contro cui lottano, ma anche di
tutti gli altri Stati. Esso tutela un valore fondamentale, ed ha dunque natura solidale;

- norme sulla condotta delle ostilità belliche;

- norme sulla stipulazione dei trattati (es. su stazionamento delle proprie forze armate nel territorio
altrui, il riconoscimento dell’indipendenza, le questioni di confine, etc.);

- norme sulla protezione e immunità degli individui che agiscono in nome e per conto loro, nonostante
la giurisprudenza di alcuni paesi (es. Corte di cassa-zione italiana) ha assunto un diverso orientamento,
affermando che tali norme possono trovare applicazione solo nei confronti di enti dotati di piena perso-nalità
internazionale.

I movimenti di liberazione nazionale non hanno invece il diritto di disporre del territorio oggetto di contesa e
delle sue risorse. Finché perdura la guerra, tale diritto non spetta nemmeno alla potenza coloniale, razzista o
straniera.

III. SOGGETTI SUI GENERIS

Nella società internazionale vi sono alcuni soggetti che hanno acquisito la soggettività internazionale in
ragione di specifiche circostanze storiche.

 La Santa Sede

Le sue caratteristiche:

- è l’organizzazione centrale della Chiesa cattolica

- dopo l’unificazione italiana, lo Stato pontificio che si estendeva nell’Italia centrale, venne
incorporato nel Regno d’Italia (1870)

- l’11 Settembre 1929 vennero stipulati i Patti Lateranensi con l’Italia, in virtù dei quali alcuni edifici
di Roma (che coprono una superficie di 0,44 kmq) fu-rono consegnati alla Santa Sede per dare vita allo Stato
della Città del Vatica-no, che è quindi cosa diversa dalla Santa Sede

- lo Stato Vaticano è privo di sovranità, essendo sottoposto alla supremazia del-la Santa Sede

- la Santa Sede può stipulare concordati che stabiliscono il trattamento che l’altra parte contraente
deve garantire ai cattolici e alle loro istituzioni

- la Santa Sede partecipa anche a trattati multilaterali di carattere umanitario

- la Santa Sede è membro di alcune organizzazioni internazionali

- ha lo status di osservatore presso l’ONU

- prende parte alle relazioni diplomatiche, inviando e ricevendo personale di-plomatico


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- in quanto soggetto di diritto internazionale, la Santa Sede beneficia dell’immunità della giurisdizione
degli Stati (inclusa l’Italia), e tale immunità protegge anche i suoi organi. Questo è causa di controversie.
Vedi caso Mar-cinkus et al.

 Il Sovrano Ordine di Malta (SOM)

Le sue caratteristiche:

- istituito intorno al 1050 (epoca delle Crociate)

- ha posseduto, in ordine, i seguenti territori: Gerusalemme, Cipro e Rodi, ed infine Malta, fino al
1798, quando Napoleone lo spossessò dall’isola, e Malta fu ceduta alla Gran Bretagna col Trattato di Parigi
(1814); dal 1834 l’Ordine si è stabilito a Roma, dove possiede il Palazzo di Malta e una villa sull’Aventino

- l’Ordine svolge assistenza ospedaliera ed attività caritativa in vari paesi

- la sua presenza nella società internazionale è legata a ragioni storiche che at-tengono al suo ruolo
umanitario

- la sua soggettività internazionale è comunque estremamente limitata e viene messa continuamente in


discussione per la crescente dipendenza dalla Santa Sede

- l’Ordine intrattiene relazioni diplomatiche con Stati, tutti di tradizione cattoli-ca, ma questo sembra
per alcuni più un’espressione di cortesia che di rapporti regolati dal diritto internazionale

- in varie occasioni i tribunali italiani ne hanno riconosciuto la personalità interna-zionale; la Corte di


cassazione italiana ha dichiarato che si tratta di personalità fun-zionale, in quanto opera in modo da
consentire all’ordine di conseguire i suoi fini istituzionali in materia di assistenza sanitaria ed
ospedaliera e pertanto è titolare del diritto all’immunità dalla giurisdizione statale e all’esenzione fiscale.

 Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR)

Le sue caratteristiche:

- è un’istituzione relativamente moderna, che riflette la tendenza a farsi sempre più carico di tematiche
umanitarie

- nasce nel 1863 in Svizzera come ente privato dedito allo svolgimento di atti-vità umanitaria nel corso
dei conflitti armati

- il Codice civile svizzero attribuisce al CICR la personalità giuridica di diritto interno

- il CICR non possiede un territorio, ha sede a Ginevra

- i locali della sede del CICR sono tuttavia inviolabili e nessun agente dell’autorità pubblica svizzera
può entrarvi senza il consenso espresso del Comitato

- il CICR può stipulare trattati internazionali e promuove la stipulazione di trat-tati multilaterali in


materia di diritto internazionale dei conflitti armati e prende contatti con gli Stati per indurli ad osservare tali
trattati

- ai sensi delle Convenzioni di Ginevra del 1949, esso può svolgere il ruolo di ente protettore
(controllo che le norme del diritto bellico siano rispettate); nel-lo svolgimento di questa funzione, il CICR
agisce nell’interesse dei bellige-ranti e delle vittime di guerra

- di solito gli accordi dispongono che lo status del CICR corrisponda a quello di un’organizzazione
intergovernativa, con immunità e privilegi che ne con-seguono.

IV. ALTRI ATTORI NON STATALI

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 Le multinazionali

- sotto il profilo economico, possono essere configurate come soggetti unitari

- sotto il profilo giuridico, le multinazionali sono invece articolate in varie so-cietà, di diversa
nazionalità, che hanno una propria personalità giuridica di di-ritto interno

- definizione di impresa multinazionale di tipo fattuale secondo la Sottocommissione per la


promozione e la tutela dei diritti umani dell’ONU: “un ente economico che opera in più di un paese, o un
raggruppamento di enti economici che operano in due o più paesi, quale che sia la loro forma giuridica nello
Stato della sede, o nello Stato in cui si svolge l’attività, e sia che esse siano prese in considerazione
singolarmente o collettivamente”

- l’enorme potere economico di queste imprese ha inevitabili ripercussioni a li-vello politico,


soprattutto nei paesi in via di sviluppo che, desiderosi di attrar-re capitale straniero, subiscono indebite
ingerenze da parte di tali imprese

- le imprese multinazionali stipulano accordi con altri soggetti privati, con Stati e con organizzazioni
internazionali, e spesso le loro controversie sono sotto-poste ad arbitrato internazionale

- tuttavia, alcuni Stati ritengono che esse siano prive di soggettività internazio-nale; nella
giurisprudenza statunitense non è invece esitato a riconoscerne una forma limitata di personalità giuridica
internazionale, riconoscimento che consentirebbe di pretendere, a livello internazionale, il rispetto di talune
norme internazionali (in particolare quelle sulla tutela dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori)

- questi enti dislocano infatti spesso nei paesi più poveri la propria attività economica, per approfittare
di basso costo del lavoro e di scarsa tutela dei lavoratori; è noto il caso delle c.d. Exporting Processing
Zones, zone di produzione in cui lo Stato locale, spesso in via di sviluppo, consente deroghe alla legislazione
nazionale in materia di tutela di lavro, consentendo che si realizzino pratiche equiparabili al lavoro forzato

- vi sono poi casi di complicità delle multinazionali nelle gravi violazioni di di-ritti umani da parte di
governi senza scrupoli

- le Norme sulla responsabilità delle imprese multinazionali adottate nel 2003 dalla Sottocommissione
per i diritti umani dell’ONU prevedono che le multinazionali debbano promuovere, rispettare e far rispettare,
nonché proteggere, i diritti umani, che non devono partecipare a violazioni di diritti umani da parte di terzi,
né benefi-ciare di abusi di cui sono a conoscenza

- in dottrina taluni pensano che si dovrebbe, per controllare il peso delle multi-nazionali, percorrere la
strada della regolamentazione nazionale con effetti ex-traterritoriali; ciò significa che gli Stati debbono farsi
garanti del rispetto dei diritti umani, anche da parte delle società multinazionali, ovunque esse operi-no.

 Le organizzazioni non governative (ONG)

- si tratta di associazioni internazionali, composte da persone fisiche o giuridi-che private, che


svolgono un’attività internazionale di interesse generale, senza fini di lucro, ma allo scopo di influenzare o
modificare l’operato degli Stati o di altri soggetti di diritto internazionale

- il numero delle ONG è notevolmente aumentato negli ultimi decenni; il pano-rama delle ONG è
molto variegato e caratterizzato da una notevole eteroge-neità

- sotto il profilo delle attività svolte, si distinguono in: umanitarie, di sviluppo, economiche,
scientifiche, ambientaliste, e così via

- se si guarda al luogo d’origine, possono essere ripartite in ONG del Nord (co-stituitesi nei paesi
industrializzati) e ONG del Sud (nascono nei paesi in via di sviluppo)

- distinguendole in base all’ideologia, vi sono ONG laiche e religiose

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- in base alla grandezza, ONG che operano a livello mondiale, regionale o na-zionale

- l’eterogeneità si manifesta anche a livello di organizzazione, ma di solito esse prevedono tre organi
principali: assemblea dei soci, consiglio direttivo e col-legio di revisori dei conti

- sono portatrici di interessi generali e cercano di indirizzare e correggere l’azione degli Stati,
cooperando o contrapponendovisi; le ONG cercano altresì di orientare l’opinione pubblica e dunque di
influenzare l’azione dei governi (rapporto di amore - odio con gli Stati)

- nel quadro dell’ONU, la risoluzione n. 1996/31 dell’ECOSOC indica i criteri che le ONG devono
possedere per ottenere lo status consultivo presso l’ECOSOC, status che è diviso in tre categorie, ciascuna
delle quali attribuisce all’ONG determinati privilegi e prerogative

- altre modalità di cooperazione tra ONU e ONG: 1. all’interno del Dept. of Public Information vi è
una sezione delle ONG che garantisce lo scambio di informazioni tra le ONG e gli organi dell’ONU; 2. è
stato poi creato un servizio di rafforzamento del dialogo tra ONU e ONG (United Nations Non -
Governmental Liaison Office); 3. è stata istituita poi la Conferenza delle ONG, che fornisce assistenza alle
ONG con stato consultivo, affinché beneficino di tutte le opportunità derivanti dal proprio status

- si può dire che le ONG surroghino gli Stati, sostituendosi ad essi e svolgendo quei compiti che
motivazioni politiche, ideologiche, economiche o anche stra-tegiche impediscono agli Stati di adempiere

- le ONG non sono soggetti di diritto internazionale, ma sono attori importanti della vita di relazione
internazionale; per quanto riguarda la questione della soggettività, le ONG ritengono quasi conveniente
l’incertezza circa il loro sta-tus, che se troppo rigorosamente definito imbriglierebbe la loro libertà d’azione.

La nozione di società civile internazionale è tuttavia più ampia di quella di ONG; essa comprende
infatti anche i c.d. movimenti, organizzati nel perseguimento di uno specifico interesse generale, la cui
importanza si è accre-sciuta dopo le vicende di Seattle (1999). I movimenti hanno una struttura più fluida
rispetto alle ONG, il cui essenziale veicolo di comunicazione è costituito da internet e dai social networks.

La società civile internazionale è caratterizzata comunque dall’insieme di gruppi che hanno natura non
governativa, perseguono finalità non lucrative, sono organizzati attorno al perseguimento di valori generali,
ed hanno natura autentica.

Ciò consente di escludere:

- le c.d. ONG governative (di fatto finanziate e controllate dai governi o da gruppi di interesse
governativi)

- i partiti politici

- tutti quegli enti che perseguono interessi specifici e settoriali di un determinato gruppo di persone.

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CAPITOLO 8. GLI INDIVIDUI


Per tutta la prima fase di sviluppo della società internazionale (dal ‘600 agli inizi del ‘900), gli individui
erano sottoposti al dominio esclusivo degli Stati, ed erano “oggetto” di norme internazionali. La situazione è
cambiata grazie al diffondersi e al consolidarsi della dottrina dei diritti umani.

I. VERSO L’AFFERMAZIONE DELLA DOTTRINA DEI DIRITTI UMANI

Il diritto internazionale classico non interveniva nei rapporti tra Stato ed individui sottoposti alla sua
sovranità e riteneva che la questione rientrasse nella sfera degli a ffari interni di uno Stato. Le norme esistenti
in materia tutelavano interessi ben precisi degli Stati e non i diritti della persona umana in quanto tale (es.
norme a tutela dello straniero e dei suoi beni, che trovano la ratio nel rispetto dovuto allo Stato di nazionalità
dello straniero). Tant’è che nessun trattamento minimo era garantito ai propri cittadini.

La stessa logica interstatale portò allo sviluppo di un altro insieme di norme, lo jus in bello (diritto dei
conflitti armati, oggi chiamato diritto internazionale umanitario). Tali norme avevano lo scopo di garantire un
minimo di fair play tra i belligeranti, soprattutto nei confronti di coloro i quali non prendevano parte alle
ostilità. Esse si occupavano però solo di conflitti armati internazionali, la-sciando gli Stati del tutto liberi di
reprimere le insurrezioni (e quindi durante le guerre civili) ricorrendo ai mezzi e ai metodi da essi ritenuti più
adeguati.

Anche i trattati sull’abolizione della schiavitù e i trattati stipulati in seno all’Organizzazione internazionale
del lavoro (OIL) per la tutela dei lavoratori ri-spondevano a logiche diverse da quelle della necessità di
garantire i diritti della persona umana in quanto tale. Essi erano infatti dettati dalla necessità di tutelare
specifici interessi economici. Traduzione: la schiavitù e bassi standard di tutela del lavoro garantivano agli
Stati un basso costo del lavoro e dunque un ingiusto vantaggio comparato in materia di produzione dei beni,
e conseguente competitività.

Discorso a sé è quello sulle convenzioni sul trattamento delle minoranze na-zionali (fine Prima guerra
mondiale). Queste miravano almeno apparentemente a tutelare i diritti delle minoranze in quanto tali. In
realtà si tutelavano gruppi di stranieri che, pur avendo la cittadinanza di un certo Stato, di fatto erano
collegati ad un altro Stato.

Un momento di svolta fu, nel 1945, la costituzione del Tribunale militare interna-zionale di Norimberga, per
la punizione dei maggiori criminali di guerra della Se-conda guerra mondiale. Gli Alleati si resero conto che

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i nazisti avevano commesso crimini contro civili e combattenti di Stati nemici, ma anche nei confronti della
propria popolazione o di quella degli Stati alleati della Germania. Gli Alleati decisero allora che, invece di
procedere all’esecuzione sommaria dei principali criminali di guerra tedeschi (come suggerito da Churchill),
sarebbe stato più opportuno processarli. L’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, che istituiva l’IMT,
conteneva una dispo-sizione in virtù della quale il Tribunale era autorizzato a perseguire e punire le persone
accusate di aver commesso crimini contro l’umanità.

Questi erano definiti nel modo seguente: “l’uccisione, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione
e ogni altro atto disumano commesso contro qualsiasi popolazione civile, prima o durante la guerra, oppure
persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, sempre che tali atti o persecuzioni siano stati perpetrati in
esecuzione di uno dei crimini rientranti nella competenza del Tribunale (ossia crimini di guerra e crimini
contro la pace), o in collegamento con uno dei si ffatti crimini, e a prescindere dalla circostanza che essi
abbiano costituito o meno una violazione dei diritto interno del paese in cui sono stati commessi.”

Da notare: la norma consentiva all’IMT di giudicare solo i crimini commessi in relazione alla guerra e per
tanto questi sarebbero stati punibili solo se si fosse dimostrato il loro collegamento con la guerra iniziata il 1°
settembre 1939.

L’affermazione della nozione di crimini contro l’umanità costituì un progresso innegabile poiché:

- ampliava la categoria di azioni di rilievo meta-nazionale

- veniva dimostrato che esistevano limiti all’onnipotenza dello Stato.

II.GLI SVILUPPI NORMATIVI

L’AG dell’ONU si adoperò quindi per dare certezza normativa a questo nuovo modo di concepire l’individuo
nelle relazioni internazionali, ed adottò due strumenti di portata storica:

• la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (9 dicembre 1948) che
contiene una definizione di genocidio, ed impone agli Stati di prevenire e punire la commissione di tali atti,
anche se essi siano posti in essere da alti rappresentanti dello Stato;

• la Dichiarazione universale dei diritti umani (10 dicembre 1948) che, a di fferenza della Convenzione
sul genocidio, non ha valore vincolante (appar-tiene alla c.d. soft law), contiene invece il primo catalogo
internazionale dei diritti umani che deve orientare i comportamenti statali nei rapporti coi propri cittadini.

Grazie all’attività dell’ONU, il diritto internazionale ha conosciuto un’evoluzione senza precedenti. Sono
stati stipulati numerosi trattati che attribuiscono agli individui un diritto di ricorso davanti ad un comitato di
esperti (che non rappresentano alcun governo) per lamentare la violazione dei diritti convenzionalmente
garantiti. Esempi di questi trattati sono:

- Convenzione sulla discriminazione razziale (1965)

- Patto sui diritti civili e politici e Patto sui diritti economici, sociali e culturali (1966)

- Convenzione sulla discriminazione contro la donna (1979)

- Convenzione sui diritti del fanciullo (1989).

A livello regionale:

- Convenzione europea sui diritti umani (1950)

- Convenzione interamericana sui diritti umani (1969)

- Carta africana dei diritti umani e dei popoli (1981).

Sono stati poi istituiti Tribunali penali internazionali ad hoc da parte del CdS per:

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- Ex Jugoslavia

- Ruanda

per stabilire la responsabilità penale individuale in caso di violazioni gravi dei diritti umani, in particolare
quelle concretanti i c.d. crimini internazionali.

Le tipologie di crimini internazionali che sono solitamente poste in essere da organi dello Stato o con la loro
partecipazione, oppure che richiedono l’esistenza di un contesto di violenza di ffusa e generalizzata sono:

• crimini di guerra, vietati allo scopo di garantire il rispetto della vita e della di-gnità umana anche in
situazioni belliche;

• crimini contro l’umanità, in tempo di pace e di guerra;

• atti di genocidio, per proteggere determinati gruppi da atti di distruzione o sterminio.

• atti di aggressione

• tortura.

E’ per questi crimini che la società internazionale ha mostrato un interesse ad esercitare direttamente (con
propri organi di giustizia) o indirettamente (attra-verso tribunali misti es. Corte speciale per la Sierra Leone),
l’attività repressiva.

Il riconoscimento del diritto di ricorso individuale in caso di violazione dei di-ritti umani e la punizione da
parte di tribunali penali internazionali di condotte gravemente lesive della persona umana e della sua dignità
vanno annoverati tra le maggiori innovazioni del diritto internazionale degli ultimi decenni.

III. IL DIRITTO DI RICORSO INDIVIDUALE

Il primo strumento internazionale che ha previsto il diritto di ricorso individuale è il Trattato concluso tra
cinque Stati dell’America centrale (Costa Rica, El Sal-vador, Guatemala, Honduras e Nicaragua), con il
quale si istituiva la Corte di giustizia sudamericana (1908 - 1918) davanti alla quale gli individui potevano
presentare reclami contro uno degli Stati contraenti (purché non il proprio), la-mentando una violazione del
diritto internazionale. Nessun reclamo è stato però veramente accolto.

Dopo la Prima guerra mondiale, i membri dell’OIL decisero di conferire alle associa-zioni di lavoratori e
datori di lavoro il diritto di pretendere il rispetto delle Convenzioni dell’OIL da parte degli Stati contraenti
(ex art. 24 della sua Costituzione). Al contempo si stabilì che i rappresentanti delle minoranze (razziali,
religiose, linguistiche) potessero presentare petizioni alla SdN in relazione alle presunte violazioni da parte
degli Stati contraenti degli obblighi assunti in materia. Siccome i trattati sopra citati erano stipulati per la
protezione di particolari categorie di individui, era logico concedere ai loro be-neficiari il diritto di protestare
in caso di presunte violazioni.

Nella pratica, il progresso fu molto limitato. Le associazioni di datori di lavoro e di lavoratori presentarono
pochissimi ricorsi all’OIL, e lo stesso accadde per le minoranze. Il diritto di ricorso individuale è oggi
previsto da quasi tutti i trattati di garanzia dei diritti umani e da talune risoluzioni di organizzazioni inter-
nazionali ed è contemplato solo in relazione a rapporti di lavoro e diritti umani.

Nel campo dei diritti umani, occorre menzionare:

- il Protocollo opzionale al Patto dell’ONU sui diritti civili e politici del 1966 che prevede il diritto di
ricorso individuale di fronte al Comitato dei diritti umani;

- la Convenzione sulla discriminazione razziale del 1965 che prevede il diritto di ricorso individuale di
fronte al Comitato sull’eliminazione della discrimi-nazione razziale;

- le due procedure istituite dall’ECOSOC nel 1967 e 1970.

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A livello regionale, il trattato più importante è la Convenzione europea sui diritti umani del 1950.

Gli individui hanno la titolarità di questo diritto a prescindere dal suo concreto riconoscimento
nell’ordinamento giuridico interno degli Stati parte al trattato. Tale diritto è infatti direttamente conferito agli
individui dalle norme interna-zionali rilevanti. Si tratta di un diritto di natura propriamente internazionale.

Il diritto di ricorso individuale incontra però dei limiti. Anzitutto è un diritto di tipo procedurale, consistente
nel diritto di avviare un procedimento davanti ad un organo internazionale allo scopo di accertare se lo Stato
accusato abbia violato le norme di natura sostanziale contenute nel trattato e delle quali quegli individui sono
beneficiari. Il diritto però è limitato alla presentazione del ricorso ed il ricorrente non ha titolo per partecipare
al procedimento internazionale (unica eccezione: secondo la Convenzione europea sui diritti umani del 1950,
come modificata dal Protocollo 11 del 1998).

Una volta che l’organo internazionale si è pronunciato, il ricorrente è lasciato nelle mani dello Stato
accusato, dalla cui volontà dipendono la cessazione del comporta-mento illecito e la riparazione dei danni
(nel sistema di garanzia istituito dalla Convenzione, lo Stato ha l’obbligo di adempiere alle sentenze della
Corte ed il Con-siglio dei Ministri del Consiglio d’Europa ha il compito di controllare l’adempimento delle
sentenze della Corte).

Altro limite del diritto in questione è il fatto che gli Stati parte ai trattati che lo prevedono possono rifiutarsi
di rispondere del proprio operato su istanza di in-dividui.

Un ulteriore motivo di debolezza è rappresentato dal fatto che le procedure in-ternazionali di garanzia,
seppure tendano ad applicare regole di procedura di ti-po giudiziale, non hanno carattere giudiziario. Sono
infatti piuttosto rudimentali, specialmente per l’assunzione di prove. Oltretutto esse si concludono con
l’emanazione di raccomandazioni o altri atti similmente non vincolanti sul piano giuridico.

Appare chiaro che il ruolo del diritto di ricorso individuale è assai precario, poiché il suo esercizio è a ffidato
alla volontà degli Stati. Lo Stato può decidere in qualsiasi momento di revocare l’accettazione del diritto di
ricorso individuale previsto dalle clausole di un trattato, pur rimanendone parte contraente.

Il diritto di ricorso spetta alle persone fisiche in quanto esseri umani. Nei casi in cui gli Stati hanno accettato
che organi internazionali esaminassero ricorsi in-ternazionali, essi hanno poi rispettato le conclusioni
raggiunte da quegli organi.

IV. I TRIBUNALI PENALI INTERNAZIONALI

 I Tribunali penali internazionali “ad hoc”

La creazione, nel 1993 e 1994, dei Tribunali penali internazionali ad hoc per l’ex Ju-goslavia (ICTY) e il
Ruanda (ICTR) cominciò a porre con prepotenza all’attenzione della società internazionale la questione della
repressione dei crimini internazionali. Questi tribunali, ormai in via di chiusura definitiva, sono stati organi
di giustizia penale internazionale molto incisivi.

 Completion strategy

I Tribunali son stati creati dal CdS, ai sensi del cap. VII della Carta dell’ONU. Essi sono stati istituiti per due
motivi:

- la crescente importanza della dottrina dei diritti umani sulla scena internazio-nale e la necessità di
punire tutti coloro che la calpestano in modo grave e di ffuso;

- la fine del bipolarismo Est - Ovest, che ha affievolito la di ffidenza reciproca che aveva frenato lo
sviluppo di relazioni amichevoli e cooperative.

La giurisdizione dell’ICTY comprende crimini definiti dallo Statuto e commessi nel territorio dell’ex
Jugoslavia a partire dal 1° Gennaio 1991 (art. 1). Questi sono:

- crimini contro l’umanità commessi in occasione di un conflitto armato (art. 5)


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- genocidio (art. 4)

- infrazioni gravi delle Convenzioni di Ginevra del 1949 (art. 2)

- altre violazioni degli usi e consuetudini di guerra (art. 3).

Tali violazioni comprendono anche quelle commesse nel corso di un conflitto armato interno.

L’ICTR ha invece un ambito giurisdizionale temporale ben limitato, estendendosi sui crimini commessi dal
1° gennaio al 31 dicembre 1994 (art. 1). La competenza è in relazione a crimini commessi sia nel territorio
ruandese che nei paesi confinanti con il Ruanda, purché si tratti di crimini commessi da cittadini del Ruanda.
I crimini sono:

- genocidio (art. 2)

- crimini contro l’umanità (art. 3)

- violazioni gravi dell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e del II Protocollo
addizionale alle Convenzioni di Ginevra sui conflitti armati in-terni (art. 4).

Per volontà del CdS, la giurisdizione dei due Tribunali prevale su quella delle giurisdizioni nazionali. E’ la
c.d. primacy. Questo significa che i Tribunali hanno il diritto di avocare i casi e richiedere la consegna della
persona contro cui è stato avviato il procedimento nazionale.

Con l’istituzione di questi organismi, l’ordinamento internazionale ha cominciato a farsi direttamente carico
della punizione di alcune categorie di crimini, fino ad allora lasciata alla buona volontà dei tribunali interni, i
c.d. core crimes:

- genocidio

- crimini contro l’umanità

- crimini di guerra.

Questi Tribunali hanno sviluppato una copiosa giurisprudenza in materia ed hanno di ffuso nella comunità
internazionale il convincimento che certe condotte criminose non possano rimanere impunite.

 La Corte penale internazionale

La Commissione di diritto internazionale dell’ONU adottò, nel 1994, un progetto di Statuto di una corte
penale internazionale. Il progetto ha costituito la base di ulteriori lavori, finché si è giunti alla Conferenza
diplomatica di Roma, cui presero parte 120 Stati, e all’adozione dello Statuto della Corte penale interna-
zionale, lo Statuto di Roma, il 17 luglio 1998. Esso è entrato in vigore il 1° lu-glio 2002, dopo il deposito del
sessantesimo strumento di ratifica. Con la Corte, i contraenti hanno dato vita al primo tribunale penale
internazionale a carattere permanente nella storia dell’umanità.

La Corte è un’organizzazione internazionale indipendente, con personalità giu-ridica internazionale e con


sede all’Aia. Lo Statuto predispone un’istituzione giuridica complessa, costituita da:

- la Corte stricto sensu

- la Procura

- la Cancelleria

- l’Assemblea degli Stati parte.

I 18 giudici della Corte, eletti per 9 anni dall’Assemblea degli Stati parte (e non rieleggibili), siedono
nell’ufficio di presidenza e nelle diverse sezioni giudizia-rie. La Procura, che è indipendente dalla Corte, è
diretta da un procuratore, eletto dall’Assemblea a maggioranza assoluta dei suoi membri, che dura in carica 9
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anni (non rieleggibile) e che è affiancato da procuratori aggiunti (eletti anche lo-ro nello stesso modo). I
membri della Procura sono nominati dal procuratore. La Cancelleria, diretta da un cancelliere e un
cancelliere aggiunto, eletti per 5 anni dai giudici a maggioranza assoluta e scrutinio segreto, si occupa di
aspetti non giudiziari dell’amministrazione della Corte. Ciascuno Stato parte è rappresentato nell’Assemblea
degli Stati parte.

La giurisdizione della Corte può essere attivata da uno Stato parte o dal CdS, che possono deferire al
procuratore una situazione. Egli non è obbligato ad avviare inda-gini sulle situazioni che gli siano state
deferite anche se dovrà motivarne le ragioni allo Stato parte o al CdS, ma può avviare indagini proprio motu
(come è successo per i crimini in Kenya e Costa d’Avorio).

Sono state avviate indagini sui crimini commessi nel contesto di tre situazioni deferite da tre Stati parte, tutte
concernenti i propri territori (c.d. auto - deferi-mento):

- Uganda

- Repubblica democratica del Congo

- Repubblica centroafricana.

Il procuratore ha aperto indagini anche in relazioni a situazioni deferite dal CdS:

- Darfur

- Sudan

- Libia.

La giurisdizione della Corte è limitata alle persone fisiche accusate di core cri-mes, purché commessi sul
territorio di uno Stato parte o da un cittadino di uno Stato parte. Questo criterio non opera se la giurisdizione
è attivata dal CdS.

A differenza dei Tribunali ad hoc, la Corte ha natura complementare rispetto alle giurisdizioni nazionali.
Nell’istituire la Corte, gli Stati contraenti si sono ri-servati la priorità della propria potestà punitiva rispetto
all’istanza internaziona-le.

La Corte non appartiene alla famiglia dell’ONU, ma è collegata a questa in virtù di un accordo stipulato nel
2004. Importanti sono però i poteri che lo Statuto conferisce al CdS: oltre al potere di attivare la
giurisdizione della Corte, vi è quello di richiedere che le investigazioni o l’azione penale non siano esercitate
o siano interrotte per un periodo di 12 mesi rinnovabile (ex art. 16). Tale potere trova bilanciamento nel fatto
che nulla vieta alla Corte di esercitare sulla delibe-ra del CdS almeno un controllo di legalità formale (vedi
meglio).

V. LA QUESTIONE DELLA SOGGETTIVITA’ INTERNAZIONALE DEGLI INDIVIDUI

Nel diritto internazionale tradizionale non vi erano norme che attribuissero diritto o imponessero obblighi
agli individui. L’unico settore in cui sorgeva il problema del possibile status giuridico internazionale degli
individui concerneva la pirateria. Vedi sul manuale.

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PARTE QUARTA
CREAZIONE ED ATTUAZIONE INTERNA DELLE NORME
INTERNAZIONALI
CAPITOLO 9. FONTI DI PRODUZIONE GIURIDICA E “IUS COGENS”
Il diritto internazionale si compone principalmente di norme poste direttamente in essere dagli Stati,
attraverso la stipulazione di trattati che vincolano for-malmente solo le parti contraenti (il c.d. diritto
convenzionale o par ticolare) o attraverso un processo di formazione di norme consuetudinarie,
principalmente ad opera della prassi e della opinio iuris degli Stati.

A queste due fonti di produzione giuridica se ne affiancano altre.

Con l’unica eccezione dello ius cogens internazionale, costituito da norme che tutelano valori indisponibili
dell’ordinamento internazionale, le fonti di produ-zione danno vita a norme internazionali di rango
corrispondente alla norma sulla fonte che le ha poste in essere e, se di pari rango, esse sono quindi derogabili
tra loro.

I.FONTI DI PRODUZIONE GIURIDICA E RAPPORTI TRA NORME

Consuetudine e trattati sono le più importanti fonti di produzione giuridica dell’ordinamento internazionale.
Esse sono contemplate da due norme fondamentali dell’ordinamento, enunciate con le seguenti espressioni
latine:

- “consuetudo est servanda" (i soggetti internazionali devono rispettare gli obblighi imposti dal diritto
consuetudinario);

- “pacta sunt servanda" (le parti ad un trattato hanno l’obbligo di ottemperare alle norme in esso
contenute).

L’art. 38 dello Statuto della CIG codifica queste due norme, e ne menziona altre due:

- i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;

- le decisioni giudiziarie adottate alla luce di principi di equità (ex aequo et bo-no).

Le altre fonti di produzione normativa, non indicate dall’art. 38 ma previste dal diritto internazionale
generale, sono:
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- atti unilaterali degli Stati aventi natura normativa;

- fonti previste da accordi.

L’art 38 dello Statuto della CIG recita testualmente:

“1. La Corte, cui è affidata la missione di regolare conformemente al diritto internazionale le divergenze che
le sono sottoposte, applica:

a. le convenzioni internazionali, generali o speciali, che istituiscono delle regole espressamente


riconosciute dagli Stati in lite;

b. la consuetudine internazionale che attesta una pratica generale accettata come diritto;

c. i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;

d. con riserva della disposizione dell'articolo 59, le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più
autorevoli delle varie nazioni, come mezzi ausiliari per determinare le norme giuridiche.

2. La presente disposizione non pregiudica la facoltà della Corte di statuire ex aequo et bono se le parti vi
consentono.”

Fonti primarie, ossia fonti direttamente contemplate da norme fondamentali o di base dell’ordinamento
internazionale sono:

- consuetudine

- trattati

- atti unilaterali degli Stati con natura normativa.

Fonti secondarie, ossia quelle previste da norme prodotte da una fonte primaria, sono:

- fonti previste da accordo

- decisioni giudiziarie emanate ex aequo et bono

- principi generali di diritto (perchè la norma sulla fonte che li contempla ha natura consuetudinaria).
A questi principi si ricorre comunque solo in via sussidiaria, ossia quando non sia applicabile alcuna norma
posta da una fonte primaria o secondaria.

Come nel diritto interno, anche nel diritto internazionale il rapporto tra le norme prodotte da fonti dello
stesso grado è normalmente regolato da due principi:

- p. della successione delle norme nel tempo, per cui la norma successiva abroga la precedente,

- p. di specialità, per cui la norma speciale prevale su quella a carattere genera-le e la norma
successiva generale non abroga la norma speciale precedente.

Nel diritto internazionale tradizionale, norme consuetudinarie e convenzionali erano poste sullo stesso piano
e tra loro derogabili. In caso di contrasto tra una norma con-suetudinaria e una convenzionale, si dovevano
quindi applicare i principi generali che regolano i rapporti tra norme di pari grado. La piena derogabilità tra
norme internazionali operava soltanto nei rapporti tra norme primarie, appunto tra norme di origine
consuetudinaria e convenzionale, e non nel caso di norme con diversa forza giuridica (es. un atto vincolante
di un’organizzazione internazionale non può derogare ad una norma contenuta nel trattato istitutivo, salvo
che questo non lo consenta).

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La piena derogabilità tra norme discendenti da fonti primarie si è progressiva-mente incrinata dalla Seconda
guerra mondiale, giacchè si è affermata l’idea che esistano valori “intrasgressibili” che l’ordinamento
protegge attraverso norme internazionali di natura imperativa. Oggi gli Stati riconoscono l’esistenza di un
insieme di norme che incorporano valori supremi dell’ordinamento giuridico internazionale, che non sono
quindi negoziabili. Le norme poste a tutela di questi valori fondamentali costituiscono il c.d. ius cogens
internazionale, la cui prima consacrazione si è avuta con l’adozione della Convenzione di Vienna sul diritto
dei trattati del 1969.

II. LO “IUS COGENS” INTERNAZIONALE

 La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969

Alla fine degli anni ’60, sotto la pressione dei paesi socialisti e in via di svilup-po, si è a ffermata l’idea che
alcune norme fondamentali, formatesi in via con-suetudinaria, dovessero avere una posizione
gerarchicamente superiore rispetto alle altre norme internazionali, e rendere nulli i trattati con esse
contrastanti.

Tra queste norme, i paesi in questione, annoveravano quelle su:

- autodeterminazione dei popoli

- divieto di aggressione

- proibizione del genocidio

- proibizione della schiavitù

- proibizione della discriminazione e segregazione razziale (o apartheid). Le motivazioni degli Stati


erano diverse.

Per i paesi in via di sviluppo, la proclamazione dello ius cogens era un modo per continuare la lotta contro
imperialismo, schiavitù, lavoro forzato e tutte le altre violazioni del principio dell’uguaglianza di tutti gli
esseri umani e dell’uguaglianza formale di tutti gli Stati.

Per i paesi socialisti, lo ius cogens costituiva il nucleo essenziale di principi che, pro-clamando la coesistenza
pacifica degli Stati, permettevano lo svolgimento delle rela-zioni fra Stati con diversi sistemi economici e
strutture sociali. In breve, lo ius cogens era lo strumento per cristallizzare le regole del gioco relative alla
coesistenza pacifica tra Est e Ovest.

Gli Stati occidentali aderirono ai nuovi concetti a causa della loro tradizione giuridica ed umanitaria, nonchè
per l’influenza di taluni giuristi contemporanei (vedi appunti), ed accolsero quindi le richieste dei paesi
socialisti e del Terzo mondo, a patto che fosse creato un meccanismo di accertamento giudiziario delle norme
appartenenti allo ius cogens ad opera di un organo giurisdizionale in-dipendente e imparziale. Questo
meccanismo fu individuato nella previsione della giurisdizione obbligatoria della CIG in relazione alle
controversie relative alla nullità dei trattati per contrasto con norme di ius cogens (art. 66 della Con-venzione
di Vienna sul diritto dei trattati).

Il riconoscimento dell’esistenza di norme imperative di diritto internazionale non era un’idea nuova. Alcuni
autorevoli studiosi avevano diviso l’ordinamento giuridico in tre sfere:

1. diritto interno

2. diritto internazionale (ius volontarium)

3. diritto naturale, ossia il diritto dell’intera umanità (ius necessarium che do-veva prevalere sullo ius
volontarium).

Il riconoscimento fu dunque infine accolto nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, che
codifica il diritto consuetudinario in materia di formazione, estinzione e nullità dei trattati. Ciò fu possibile
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ad un compromesso: che lo Stato che intendesse invocare il carattere imperativo di una norma internazionale
(e dunque la conseguente nullità di un trattato) fosse pronto ad accettare la giurisdizione obbligatoria della
CIG in materia.

Le disposizioni della Convenzione sullo ius cogens sono gli artt. 53, 64 e 66. Art. 53: “E' nullo qualsiasi
trattato che, al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma imperativa del diritto
internazionale generale. Ai fini della presente Convenzione, una norma imperativa del diritto internazionale
generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso
come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un'altra norma
del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere.”

L’art. 53 è integrato dall’art. 64: “In caso di sopravvenienza di una nuova nor-ma imperativa di diritto
internazionale generale, qualsiasi trattato esistente che sia in conflitto con tale norma è nullo e si estingue.”

Il giurista Jimenez de Arechaga ha precisato che nessuna deroga è consentita perchè tali regole hanno natura
cogente.

Quanto alla giurisdizione obbligatoria della CIG, l’art. 66 lett. a prevede la possibilità di ricorso unilaterale
alla CIG con riferimento a controversie relative alla determina-zione del contenuto dello ius cogens. Se le
parti non raggiungono una soluzione at-traverso la conciliazione entro 12 mesi dalla data in cui è stata
sollevata l’obiezione circa l’applicabilità dello ius cogens, “ogni parte di una controversia riguardante
l'applicazione o l'interpretazione degli articoli da 53 a 64, può, con una sua richie-sta, sottoporre la
controversia alla decisione della Corte internazionale di giustizia, a meno che le parti non decidano di
comune accordo di sottoporre la controversia ad arbitrato.”

Chiaramente, una norma ha carattere imperativo solo se gli Stati più importanti e rap-presentativi delle varie
aree del mondo dimostrano un’opinio iuris in tal senso. E’ su fficiente una larga maggioranza. Però, sebbene
il r i c o n o s c i m e n t o d e l l a n a t u r a c o g e n t e d i u n a n o r m a d i p e n d a dall’orientamento
della maggio-ranza dei membri della comunità internazionale, è di fficile per uno Stato opporsi alla
formazione di una regola di ius cogens, sia esso o no una grande potenza (vedi p. 219).

 Nullità dei trattati contrari allo “ius cogens” e diritto consuetudinario

Chi può invocare le disposizioni della Convenzione di Vienna sullo ius cogens?

Solo gli Stati che siano al contempo parte alla Convenzione di Vienna e parte al trattato bilaterale o
multilaterale di cui si sostiene la contrarietà ad una norma imperativa.

Chi NON può invocare le disposizioni della Convenzione di Vienna sullo ius cogens?

Stati terzi alla Convenzione oppure Stati che non facciano parte del trattato bila-terale o multilaterale di cui si
sostiene la contrarietà ad una norma imperativa.

Contraddizione: esistono principi inderogabili che costituiscono il c.d. ordine pubblico internazionale, ma si
può invocarne il rispetto solo in circostanze eccezionali. I principi in questione hanno così rilevanza solo
potenziale.

Questi limiti sono comunque oggi attenuati grazie all’operare di due fattori:

- a differenza di quanto dispone la Convenzione di Vienna, il diritto consuetu-dinario consente anche


agli Stati non parti ad un trattato di invocare la sua nullità per contrasto con una norma imperativa;

- si è formata una nuova norma consuetudinaria sullo ius cogens, corrispondente all’art. 53 della
Convenzione di Vienna, la quale produce effetti nei confronti degli Stati che non hanno ratificato la
Convenzione, ma che sono parti contraenti ad un trattato di cui si sostenga la contrarietà ad una norma
imperativa. Questa norma riconosce l’esistenza di precetti internazionali dotati di un’e fficacia giuridica
superiore a tutte le altre norme internazionali e dunque invalidanti tutte le norme internazionali con essi in
contrasto. Non sembra che la norma in questione contenga un riferimento alla giurisdizione obbligatoria

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della CIG, ma il collegamento tra la nozione di ius cogens e l’accertamento obbligatorio da parte di un
organo giudiziario della fondatezza della pretesa di nullità di un trattato per contrasto con una norma
imperativa costituisce parte integrante della nozione stessa di ius cogens.

Le possibilità concrete di attuazione di questa normativa sono limitate, perchè lo Stato o gli Stati parte al
trattato in questione possono contestare la pretesa di nullità e rifiutarsi di avviare negoziati o altre procedure
di soluzione della con-troversia.

E’ possibile sostenere che il contenuto della norma consuetudinaria sullo ius cogens sia più ampio di quello
contenuto nell’art. 53 della Convenzione.

Ad esempio, l’art. 44, par. 5, della Convenzione nega agli Stati parte della Con-venzione la possibilità di
invocare la nullità di singole disposizioni del trattato per contrasto con norme imperative. Il diritto
consuetudinario riconosce tale possibilità con riferimento agli Stati non parte alla Convenzione.

Poi le norme imperative provocano la nullità ab initio di ogni altra norma inter-nazionale sprovvista del
medesimo carattere cogente. Come nel caso delle norme convenzionali, si può sostenere che la nullità operi
soltanto rispetto alla di-sposizione contrastante con la norma cogente.

Infine, le norme di ius cogens producono anche un e ffetto metagiuridico, svol-gendo una funzione
dissuasoria e deterrente, giacchè indicano a tutti gli Stati ed individui che i divieti da esse imposti tutelano
valori fondamentali, cui non è consentita deviazione.

III. L’IDENTIFICAZIONE DELLE NORME DI “IUS COGENS”

La definizione di ius cogens all’art. 53 non contiene elenchi esemplificativi atti ad orientare l’interprete. Ciò
che si può dedurre è che la natura cogente di una norma di-pende dall’atteggiamento degli Stati a tal
riguardo, ossia dall’orientamento comples-sivo della comunità internazionale. Attualmente, vi è assenza di
prassi per nullità di un trattato in contrasto con lo ius cogens e nessuno Stato ha mai invocato la natura
imperativa di una regola in relazione a controversie internazionali in cui era coinvolto, nè la CIG o altro
tribunale internazionale sono stati chiamati a pronunciarsi sulla natura cogente o meno di una norma
internazionale.

E’ comunque possibile discernere in altro modo quali norme abbiano indiscuti-bilmente natura cogente
nell’opinio iuris degli Stati.

Un utile punto di riferimento è costituito dal testo dell’originario art. 19 del Progetto di articoli sulla
responsabilità internazionale degli Stati (oggi espunto per altre ragioni), in cui si faceva riferimento ad
alcune norme che ponevano obblighi così essenziali per la tutela degli interessi fondamentali della comunità
internazionale che la loro violazione era riconosciuta come un crimine dalla comunità internazionale nel suo
complesso. A titolo esemplificativo, l’art. 19 menzionava: norme che pongono il divieto di aggressione,
quelle che vietano instaurazione e mantenimento con la forza di regimi coloniali, schiavitù, geno-cidio,
apartheid, inquinamento massiccio di atmosfera e mari.

A questo elenco si aggiunge:

- la norma sul divieto della minaccia e dell’uso della forza

- la norma consuetudinaria che vieta la discriminazione

- la norma che proibisce la tortura

- le norme in materia di autodeterminazione dei popoli. Inoltre:

- (per alcuni) i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario. Deve poi riconoscersi
natura cogente alle norme che proibiscono i crimini internazionali che comportano la responsabilità penale
individuale. In specie:

- crimini contro l’umanità


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- crimini di guerra

- aggressione

- genocidio.

Natura cogente è stata anche riconosciuta a taluni diritti:

- alla vita

- al diritto di accesso alla giustizia, e così via. (vedi pp. 223 e 224)

E’ importante sottolineare che, per accertare la natura cogente di una norma, non sia necessario riferirsi
all’usus (elemento che deve invece essere presente per accertare la formazione o l’esistenza di una norma per
via consuetudinaria). E’ invece richiesto che la maggioranza dei membri della società internazionale mostri
di accettare la natura cogente di una regola, e ciò attraverso tutti gli elementi cui di solito si ricorre per
l’opinio iuris.

IV. LA PRASSI IN MATERIA DI “IUS COGENS”

 La mancata applicazione dello ius cogens come causa di nullità dei trattati
 Il ricorso alla nozione di ius cogens in materie diverse dalla nullità dei trattati

CAPITOLO 10. CONSUETUDINE INTERNAZIONALE E CODIFICAZIONE


I rapporti tra soggetti di diritto internazionale sono regolati anzitutto da norme non scritte, che si indirizzano
anche ad enti di nuova formazione. Talvolta accade che, ai fini di una maggior certezza del diritto, esse
possano essere trascritte.

I.DEFINIZIONE E NATURA DELLA CONSUETUDINE INTERNAZIONALE

L’art. 38, par. 1, lett.b, dello Statuto della CIG elenca, tra le fonti del diritto cui la Corte può attingere per
dirimere una controversia, “la consuetudine interna-zionale, come prova di una pratica generale accettata
come diritto.” Questa autorevole definizione riflette l’opinione secondo cui la consuetudine consta di due
elementi:

- usus o diuturnitas, una prassi generalizzata

- la convinzione che questa prassi corrisponda al diritto vigente, opinio iuris, o sia dettata da impellenti
esigenze sociali, economiche o politiche, opinio ne-cessitatis.

Se per le norme di natura pattizia, il processo di formazione è formalizzato, esso non lo è per la formazione
di norme consuetudinarie. Gli Stati che vi partecipano, non agiscono con l’intento predeterminato di stabilire
tali regole. Il loro obiettivo è salva-guardare determinati interessi economici, sociali o politici. La formazione
della norma è l’effetto secondario. Kelsen (1952) ha definito la consuetudine come un’attività di creazione
del diritto “inconsapevole e non intenzionale”, altri come “processo spontaneo”. Anzilotti aveva scritto che le
consuetudini sono “manifestazioni sponta-nee, quasi incoscienti, di certe esigenze della vita comune”.
Questa concezione è oggi predominante in dottrina e trova conferme in pronunce della CIG. In passato si
rite-neva che anche le consuetudini fossero il prodotto della volontà degli Stati che si im-pegnavano
tacitamente a vincolarsi ad una certa disciplina giuridica. La consuetudine era vista come tacitum pactum.
Questa visione consensuale o volontaristica è stata elaborata da Triepel e Anzilotti, secondo cui non vi è
norma giuridica che non di-scenda dall’atto di volontà di uno o più soggetti. Arangio - Ruiz ha invece
sostenuto che la consuetudine non ha sempre la medesima natura. Vi sono norme consuetudinarie per le quali
è corretto parlare di processo di formazione spontaneo (es. norme sul diritto dei trattati), altre il cui processo
di formazione non è del tutto spontaneo, ossia quelle norme che si sono formate grazie agli interventi
volontari da parte di alcuni membri della società internazionale.

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Vi sono poi varie teorie circa il fondamento giuridico dell’obbligatorietà delle norme che originano dalla
consuetudine. Secondo una prima impostazione, consuetudo est servanda, ossia c’è una norma base
dell’ordinamento giuridico internazionale che conferirebbe vincolatività alle norme di natura
consuetudinaria. Secondo un’altra im-postazione la consuetudine sarebbe un fatto normativo originario,
idoneo per se stesso a dar vita a norme giuridiche. I sostenitori della teoria volontaristica della consuetudine
invece sostengono che il fondamento giuridico dell’obbligatorietà delle consuetudini è lo stesso che per i
trattati: pacta sunt servanda.

II.GLI ELEMENTI DELLA CONSUETUDINE

La teoria oggi prevalente è quella secondo la quale il processo di formazione delle consuetudini richiede la
presenza di due elementi:

1. l’elemento oggettivo o materiale, ossia la presenza di una prassi generale e di ffusa

2. l’elemento soggettivo o psicologico, ossia la convinzione da parte degli Stati che quella prassi
corrisponda a diritto o sia dettata da necessità.

Questa opinione è stata criticata da Kelsen e Quadri per i quali se si ammettesse che l’opinio iuris sia
elemento costitutivo, si dovrebbe ritenere che le consuetudini origi-nino da un’errata percezione del diritto da
parte degli Stati, per il fatto che essi credo-no all’inizio che un certo comportamento sia obbligatorio quando
ancora non lo è. Secondo Quadri l’elemento costitutivo è unicamente quello oggettivo. A questa tesi si è
obiettato che le consuetudini si formano perchè fra i membri della società interna-zionale vi è convincimento
della doverosità sociale di quel comportamento, inoltre l’opinio iuris consente di discernere quando una
prassi sia dettata da ragioni di corte-sia internazionale o quando essa è giuridicamente obbligatoria.

La CIG ha precisato che la prassi internazionale, per dar luogo alla formazione di regole consuetudinarie,
deve comprendere quella degli Stati che siano interessati, e che debba essere su fficientemente di ffusa e
uniforme. L’uniformità non è essenziale. La Corte ha poi evidenziato nel caso Nicaragua che ipotesi di
devianza dalla prassi percepite come violazioni del diritto internazionale confermano l’esistenza della norma.
O qualora uno Stato giusti-fichi una propria condotta.

L’elemento psicologico consisterà principalmente nel convincimento degli Stati che una prassi sia
socialmente doverosa piuttosto che giuridicamente imposta. In assenza di opposizioni ad un dato
comportamento, gradualmente la prassi si consolida, la convinzione che essa riflette il diritto esistente si
consolida, e di-venta vincolante.

Quando esistono divergenze d’interessi, l’usus può avere una grande importanza nella formazione di una
norma consuetudinaria. In altri casi invece è l’opinio iuris ac necessitatis ad averla, in particolare laddove la
formazione trae origine da motivazioni logiche o razionali.

Nel Preambolo della II Convenzione dell'Aia del 1899, il giurista russo Martens inserì la seguente clausola:
"Fino a che non sarà adottato un più completo codice delle regole applicabili ai conflitti armati, le
popolazioni ed i belligeranti restano sotto la salvaguardia e sotto l'imperio dei principi del diritto delle genti,
quali risultano dagli usi stabiliti fra le nazioni civili, dalle leggi d'umanità e dalle esigenze della coscienza
pubblica". In questo modo ha modificato la struttura delle norme consuetudinarie per i casi di conflitti armati
riuscendo a coniugare le esigenze dei paesi ricchi e di quelli poveri. Con questa clausola l'usus non è più
elemento fondamentale per l'accettazione di una consuetudine. Viene invece maggiormente valorizzato
l'elemento psicologico, cioè l'accettazione da parte degli Stati. Questo è giustificato dal fatto che in questi
casi è preferibile un approccio verso le esigenze umanitarie.

III. IL FATTORE TEMPO

Nella formazione di norme consuetudinarie, è chiaro che il fattore tempo abbia una rilevanza. Esso potrà
essere tanto più breve quanto più è diffuso un deter-minato comportamento tra i membri.

Il tempo è del tutto irrilevante per i sostenitori della concezione volontaristica della consuetudine, potendosi
addirittura parlare di consuetudini istantanee (c.d. instant customs).
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IV. LA RILEVAZIONE DELLE NORME CONSUETUDINARIE

L’opera di rilevazione della consuetudine è delicata e vari elementi devono essere presi in considerazione:
documenti diplomatici, posizioni espresse dagli Stati nelle conferenze multilaterali, giurisprudenza
internazionale, legisla-zione e giurisprudenza nazionale.

Spesso gli Stati assumono determinati comportamenti al fine di influire sul pro-cesso di formazione ed
evoluzione di norme consuetudinarie (c.d. interventi vo-lontari). Secondo alcuni questo è solo un
arricchimento della manifestazione della prassi degli Stati. Secondo altri essi comportano un mutamento
qualitativo del processo, che assume una natura vicina a quella proposta dai sostenitori del-la concezione
volontaristica del fenomeno consuetudinario.

Nell’individuare la presenza dei due elementi costitutivi è inevitabile una certa circolarità: la prassi statale
costituisce prova dell’esistenza dell’opinio iuris; l’opinio iuris a sua volta indica quali sono gli elementi della
prassi che possono essere presi in considerazione per dimostrare l’esistenza di una norma consue-tudinaria.
Nella giurisprudenza della CIG la presenza / assenza dell’opinio iuris è dedotta dall’intensità della prassi in
una certa materia (v. pag. 237).

V. LA DOTTRINA DELL’OBIETTORE PERSISTENTE

Secondo la concezione della consuetudine come accordo tacito, l’emergere di nuove norme consuetudinarie
richiederebbe uno specifico atto di volontà, sia pur inespresso, da parte degli Stati. Secondo questa
concezione le norme con-suetudinarie avrebbero portata universale e sarebbero vincolanti per tutti, se solo
fosse possibile dimostrare che ogni Stato abbia tacitamente accettato quelle regole. Inoltre, secondo la stessa
teoria, uno Stato potrebbe sottrarvisi se esso si fosse persistentemente e inequivocabilmente opposto alla sua
formazione (c.d. teoria dell’obiettore persistente o persistent objector).

Oggi la visione volontaristica della consuetudine, insieme alle sue implicazioni logiche, sembra essere
superata. Prevale l’idea che la consuetudine non necessiti del sostegno di tutti i membri della società
internazionale. Si richiede solo che un comportamento sia di ffuso tra la maggioranza dei soggetti,
unitamente alla convinzione che tale comportamento sia giuridicamente obbligatorio. Le norme
consuetudinarie vincolano quindi tutti i soggetti, ivi inclusi coloro che non hanno direttamente partecipato
alla loro formazione.

Circa la dottrina del persistent objector si può sostenere che essa corrispondeva alle relazioni internazionali
pre - WWII, quando la società era formata da pochi Stati, il cui consenso poteva influenzare o impedire la
formazione di una norma consuetudinaria. Oggi le relazioni internazionali si ispirano a valori solidali e si
ambisce a tutelare gli interessi dell’intera comunità. E’ di fficile per uno Stato sottrarsi all’applicabilità di una
certa norma, quando la maggioranza degli altri membri vi si conforma. Inoltre, la validità della dottrina
dell’obiettore persistente non trova conferma nella prassi statale e nella giurisprudenza internazionale. Si può
dunque sostenere che uno Stato non possa invocare l’inapplicabilità nei suoi confronti di una norma
consuetudinaria sostenendo che esso si è opposto alla sua formazione, anche se certamente l’opposizione di
una grande potenza può rallentare o impedirne la nascita. Parimenti, gli Stati di nuova formazione sono
giuridicamente vincolati a conformarsi alle norme consuetudinarie preesistenti e non possono invocarne
l’inapplicabilità sul presupposto che essi non hanno partecipato alla creazione di tali norme.

VI. LE COSIDDETTE CONSUETUDINI LOCALI O PARTICOLARI

L'esistenza di norme consuetudinarie si può applicare anche a casi particolari regionali e deriva dall'accordo
tacito di due o più Stati che abbiano accettato tale prassi in quella regione, come è stato riconosciuto dalla
CIG in varie sentenze. Secondo la Corte, oltre che caratteri oggettivi e soggettivi, come tutte le norme
consuetudinarie, le consuetudini particolari devono anche essere accettate da tutte le parti interessate e la loro
esistenza deve essere provata dallo Stato che le invoca. Se tale Stato non riuscisse a provarne l'esistenza la
richiesta di norma consuetudinaria verrebbe respinta. Ciò non accade nel caso delle consuetudini generali, la
cui esistenza deve essere accertata dal giudice internazionale per il principio “jura novit curia” (la Corte
conosce le leggi), secondo cui mentre i fatti devono essere provati dalle parti della controversia, spetta
all’organo di giustizia accertare qual è il diritto applicabile.

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La CIG ha inoltre affermato che una consuetudine locale o regionale può vinco-lare anche soltanto due Stati.
In questi casi si parla più correttamente di accordi taciti.

VII. IL RUOLO DELLA CONSUETUDINE NELLA SOCIETA’ INTERNAZIONALE ODIERNA

Dopo la Seconda guerra mondiale, il ruolo della consuetudine è diminuito drastica-mente sia per la nuova
prassi contrastante con la vecchia, sia per le esigenze dei nuovi Stati entrati nell'organismo internazionale
(quelli del Terzo Mondo e i Paesi socialisti). L'elevato numero di componenti dell'organismo in-ternazionale
impedisce sempre più la possibilità che si a ffermi una prassi, anche se l'esistenza di numerosi enti
internazionali (l’ONU, in primis) continua ad in-fluire sulla creazione di tali norme.

Anche in altri settori le norme consuetudinarie sono molto rilevanti. È il caso dei diritto del mare o di aree in
cui si delineano nuovi interessi economici. La rapida a ffermazione di nuove esigenze economiche spesso non
può essere opportunamente disciplinata per mezzo di convenzioni internazionali, a causa dei contrasti tra
diversi raggruppamenti di Stati e della complessità delle interconnessioni esistenti con altre aree di diritto.

Invece, nei settori in cui vi sono marcati conflitti politici e istituzionali e in cui nuovi bisogni della comunità
internazionale possono condurre a profondi disac-cordi tra gli Stati, può essere molto di fficile stabilire una
disciplina per via con-venzionale. Un esempio di norma consuetudinaria a ffermatasi in quest’area è la
modifica per via consuetudinaria dell’art. della Carta che richiede il voto favo-revole di 9 membri del CdS
compresi quelli permanenti per l’adozione di deli-bere su questioni sostanziali, norma che conferisce quindi
ai big five il diritto di veto. Attraverso un processo consuetudinario si è a ffermato il principio secondo cui
l’astensione di uno dei big non impedisce l’adozione di delibere.

Infine, un settore il cui ruolo del processo di formazione di norme consuetudi-narie è molto importante
concerne tutte quelle parti del diritto consuetudinario che gli Stati di nuova indipendenza hanno reputato
"accettabili", ma bisognosi di modifiche e specificazioni. E’ il caso delle norme consuetudinarie in materia di
diritto dei trattati. L’aggiornamento e la chiarificazione sono avvenuti con l’adozione di convenzioni di
codificazione che nelle loro parti innovatrici hanno dato luogo alla formazione di nuove norme
consuetudinarie.

VIII. LA CODIFICAZIONE DELLE NORME CONSUETUDINARIE

A partire dagli anni '60 si è sentita una forte richiesta di trascrivere quelle norme con-suetudinarie che
regolavano i rapporti internazionali. Infatti è molto più utilizzato, tra gli accordi, il metodo del trattato. Per
fare ciò è necessario un processo di codificazione, inteso come quell'insieme di azioni e procedimenti il cui
scopo e possibile risultato è l'elaborazione di norme giuridiche vincolanti. Ma si può parlare di codificazione
in merito a due diverse accezioni: la codificazione strictu sensu, cioè formulare in forma scritta le
consuetudini che regolano i rapporti, e la codificazione che intende influire sulle norme consuetudinarie,
colmandone alcune lacune e scegliendo l'accezione migliore.

Le convenzioni di codificazione possono avere tre e ffetti sul diritto consuetudi-nario: 1) e ffetto dichiarativo,
volto a contenere norme che si limitano a trascri-vere le norme consuetudinarie esistente; 2) e ffetto di
cristallizzazione, le norme contenute in una convenzione di codificazione possono portare a compimento il
processo di formazione delle norme consuetudinarie; 3) e ffetto di creare una nuova regola consuetudinaria,
inserita nella convenzione di codificazione.

L'adozione di risoluzioni di carattere normativo, in molti casi può sostituire in maniera veloce una norma
consuetudinaria, prima che le convenzioni di codificazione intervengano in maniera più dettagliata.
Risoluzioni di questo tipo, anche se hanno carattere giuridicamente non vincolante, esprimono un consenso
generale degli Stati su una determinata materia.

Nel caso vedi meglio pag. 242 - 247.

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CAPITOLO 12. ALTRE FONTI DI PRODUZIONE GIURIDICA


Consuetudini e trattati non sono le uniche fonti di formazione delle norme in-ternazionali. Fra le altre, i
principi generali di diritto sono l’unica fonte sussidia-ria del diritto internazionale.

I. GLI ATTI GIURIDICI UNILATERALI DEGLI STATI

La produzione giuridica per mezzo di atti unilaterali non è prevista ex art. 38 dello Statuto della CIG, ma è
prevista da una norma generale dello stesso rango di quella relativa alla consuetudine ed ai trattati. Non tutti
gli atti unilaterali danno origine a norme internazionali di contenuto non predeterminato. Vi sono alcuni atti
unilaterali che producono effetti giuridici prestabiliti dal diritto con-suetudinario:

• La protesta: dichiarazione unilaterale con cui si manifesta opposizione ad un atto o azione di uno
Stato allo scopo di non riconoscerli, accettarli o esserne acquiescenti.

• Il riconoscimento: atto unilaterale con cui si considera legittima una situazione o condotta. Esso
produce un estoppel.

• La rinuncia: abbandono volontario di un diritto. Essa deve essere chiara e vo-lontaria, non può
desumersi dall’inerzia, dal mancato esercizio del diritto o dal trascorrere del tempo.

• La notifica: atto con cui uno Stato informa un altro Stato che un’azione è stata in-trapresa e
adempiuta (es. blocco navale in caso di guerra). L’e ffetto è quello di pre-cludere ad altri Stati di pretendere
che, non essendo a conoscenza dell’azione, fosse-ro autorizzati a comportarsi diversamente.

• La promessa: unico atto unilaterale da cui discendono obblighi internazionali in senso proprio. Si
vengono infatti a stabilire nuove regole che obbligano lo Stato e ffettuante la promessa nei confronti di uno o
più soggetti. Consiste in una dichiarazione unilaterale attraverso cui uno Stato si impegna ad adottare un
certo comportamento. Secondo la CIG, lo Stato deve manifestare la chiara intenzione di sentirsi vincolato
giuridicamente dalla promessa, e deve assumere l’impegno pubblicamente.

II. LE FONTI PREVISTE DA ACCORDI

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 Gli atti vincolanti delle organizzazioni internazionali

Può capitare che anche nei trattati internazionali siano poste le basi per procedimenti di produzione giuridica.
È il caso dei trattati istitutivi di o r g a n i z z a z i o n i i n t e r n a z i o n a l i ( f o n t i s e c o n d a r i e ) . U
n o r g a n o dell'organizzazione internazionale è autorizzato ad adottare parametri giuridici vincolanti,
normalmente attraverso un voto maggioritario. Gli Stati decidono di essere vincolati da regole scritte diverse
da quelle basate sul loro consenso diretto soltanto se hanno accettato in precedenza il processo di produzione
normativa contemplato nel trattato. Ovviamente le regole emanate dall'organizzazione vincolano solo gli
Stati parte dell'organizzazione e non Stati terzi.

Un esempio esauriente è sicuramente quello della Carta delle Nazioni Unite che prevede una serie di
potenzialità giuridiche che ha il Consiglio di Sicurezza ex art. 41 secondo cui può decidere quali misure non
implicanti l’uso della forza armata debbano essere utilizzate per dare e fficacia alle sue decisioni. Sono altresì
vincolanti (non le raccomandazioni) ex art. 25 le decisioni del CdS. Le Nazioni Unite possono costringere gli
Stati ancora non membri a conformarsi alle decisioni del CdS attraverso sanzioni o altre misure ex art. 2, par.
6. Soprattutto dopo la fine della WWII, il CdS ha emanato molte decisioni in materia di sanzioni, fra cui
divieto di import - export ed interruzione di relazioni economiche (es. con Iraq, ex Jugoslavia, Somalia,
Liberia, Libia, Haiti).

Altra organizzazione intergovernativa con poteri normativi è l'ICAO (Organiz-zazione per l'aviazione civile
internazionale), il cui Consiglio ha il potere di emanare a maggioranza dei 2/3 parametri internazionali
relativi al traffico aereo che diventano vincolanti dopo 3 mesi dall’adozione, salvo che la maggioranza degli
Stati membri abbia notificato nel frattempo la propria disapprovazione.

Non ultimo il Consiglio d'Europa, il quale può emanare direttive (atti che im-pongono obblighi di risultato,
talvolta produttive di effetti diretti, che normal-mente diventano vincolanti dopo la pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale delle Comunità), regolamenti (immediatamente applicabili nel territorio degli Stati
membri) e decisioni (atti di specifica natura, vincolanti a seguito della loro noti-fica al destinatario).

 Le sentenze emanate sulla base di principi di equità

Alcuni trattati attribuiscono ai tribunali internazionali il potere di emanare sen-tenze non sulla base del diritto
esistente, ma su principi di equità ex art. 38, par. 2 dello Statuto della CIG. Un tribunale internazionale che
ricorre a principi di equità per risolvere una controversia, crea diritto per le parti. Si parla in questo caso di
sentenze dispositive.

III. I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO COMUNI AGLI ORDINAMENTI INTERNI

Oltre alle fonti primarie e secondarie vi sono anche fonti di produzione del dirit-to di carattere “sussidiario”
che intervengono qualora non esistessero altre fonti a regolare un determinato caso. Sono questi i "principi
generali di diritto comuni agli ordinamenti interni", diversi ovviamente dai principi generali del diritto
internazionale. Questi ultimi, infatti, tentano in linea generale di colmare even-tuali lacune del diritto
internazionale ma non costituiscono una fonte di diritto internazionale in senso stretto. I primi, invece,
operano come fonte di produzione giuridica che attinge ad altri ordinamenti e ffettuando una sorta di
trasposizione nell'ordinamento internazionale di alcuni principi propri di una giurisprudenza interna per
colmare eventuali lacune.

Attualmente nella comunità internazionale si possono distinguere due categorie di principi generali:

- i principi generali del diritto internazionale, che possono essere estrapolati dalle normi convenzionali
e consuetudinarie del diritto internazionale, ed alcuni dei quali sono stati ria ffermati dagli Stati in strumenti
internazionali in cui si è specificato i parametri di
comportamento che dovrebbero regolare le relazioni fra membri della comunità internazionale

- i principi generali specifici di un settore del diritto internazionale (diritto del mare, umanitario, della
responsabilità, ecc..). Sono parametri giuridici che ispirano l’intera disciplina di quel determinato settore
normativo.

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I principi generali di diritto comuni agli ordinamenti interni, invece, a di fferenza dei principi generali del
diritto internazionale, operano come fonte sussidiaria di produzione giuridica che attinge ad altri
ordinamenti: si effettua così una traspo-sizione nell’ordinamento internazionale di taluni principi operanti in
foro dome-stico, al fine di integrare le lacune eventualmente presenti in quell’ordinamento. Il ricorso a tale
fonte cominciò a manifestarsi durante l’800 quando i tribunali internazionali in assenza di disciplina
considerarono opportuno farvi ricorso, limitandosi ad annunciare questi principi di portata assai generale e
che erano comuni a tutti i sistemi giuridici occidentali. Gli Stati non hanno mai protestato per il ricorso a tali
principi perchè essi erano propri degli Stati interessati. I principi cui si è fatto riferimento erano:

- necessità

- forza maggiore

- principio della cosa giudicata

- divieto di diniego di giustizia

- risarcimento per i danni causati (danno emergente + lucro cessante).

 L’articolo 38 dello Statuto della CPGI

Vi fu un dibattito in seno al Comitato dei giuristi, nominato dal Consiglio della Società delle Nazioni e
composto di 10 membri, che vedeva contrapposte due tesi: quella del presidente, il barone belga Descamps,
secondo la quale, oltre al-le norme convenzionali e consuetudinarie, la Corte avrebbe dovuto applicare “le
norme di diritto internazionale riconosciute dalla coscienza giuridica delle na-zioni civili”, e quella (di
minoranza) secondo la quale la Corte avrebbe dovuto applicare esclusivamente le norme e i principi che
traevano origine dalla volontà degli Stati, ed erano contenuti nei trattati o in consuetudini.

Secondo la formulazione finale dell'art. 38 dello Statuto della Corte Permanente di Giustizia Internazionale,
essa poteva applicare qualcosa di più delle norme conven-zionali e consuetudinarie, e quindi non limitarsi al
diritto creato dagli Stati. Essa non poteva, però, applicare generici e vaghi principi di giustizia obiettiva, ma
doveva ricorrere a principi chiaramente formulati negli ordinamenti giuridici degli Stati (dominanti).

 Il ruolo dei principi di diritto

Da un esame della giurisprudenza della CPGI, si denota uno scarso ricorso ai principi in questione. Quando
ciò è accaduto, la Corte ha applicato principi di logica giuridica o di teoria generale del diritto. Fra questi si
possono menziona-re:

- nemo iudex in re sua

- obbligo di riparare il danno causato dall’illecito

- il principio secondo cui non si può trarre vantaggio dal proprio comportamento illecito

- inadimplendi non est adimplendum

- contra proferentem.

La Corte non aveva però identificato tali principi attraverso un’analisi degli or-dinamenti giuridici interni e
quindi esso non sono stati applicati come principi generali previsti in foro domestico, ma come principi
generali desunti dalle norme di diritto internazionale o come principi di logica giuridica. Inoltre essi non
erano indispensabili per la risoluzione della controversia, essendo stati menzionati ad adjuvandum (per
rafforzare un’argomentazione già formulata).

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Anche lo Statuto della CIG, subentrata alla CPGI alla fine della WWII, prevede che la Corte possa applicare
i principi generali di diritto riconosciuti dalle na-zioni civili, ma ciò è avvenuto ancora più raramente della
CPGI e sempre ad ad-juvandum. Lo stesso orientamento è stato seguito da altri tribunali internazionali.

La ragione principale del declino di questi principi sta nell’intensificarsi, per gli Stati, del ricorso a trattati
internazionali ed in virtù del relativo grado di sviluppo raggiunto dal diritto internazionale nei settori
internazionali. Ultimamente però, con la normazione di materie nuove, si è dovuto fare di nuovo ricorso alle
giurisdizioni interne come sussidio al diritto internazionale, utilizzando principalmente i principi generali di
diritto riconosciuti dai principali sistemi giuridici interni di common law e civil law. Ovviamente tali norme
interne possono essere traslate al diritto internazionale solo ove esso manchi (carattere sussidiario dei
principi di diritto) e vi sia compatibilità con i caratteri essenziali e strutturali dell'ordinamento giuridico
internazionale (compatibilità con l’ordinamento internazionale). Tuttavia, non tutta la dottrina è d’accordo
nel ritenere che i principi generali di diritto costituiscano una fonte.

IV. L’INCIDENZA DI PROCEDIMENTI CHE NON COSTITUISCONO FONTI DI


PRODUZIONE NORMATIVA

 Le sentenze giudiziarie che non si fondano su principi d’equità

Le sentenze della CIG (Corte Internazionale di Giustizia) hanno e fficacia vincolante solo per le parti in causa
e limitatamente al caso di specie (ex art. 59, par. 1, lett. d). Ciò significa che non è contemplato il principio
dello stare decisis, tipico degli or-dinamenti di common law e cioè che le sentenze precedenti influenzano le
successive. Però, in assenza di un organo centrale di giurisdizione, con il tempo è diventata una prassi quella
dell'attribuire molta importanza alle decisioni della Corte per le sentenze successive. In alcuni casi la CIG si
è trovata anche a determinare nuove norme, con il tacito consenso degli Stati, applicando così la dottrina dei
poteri impliciti, in virtù della quale le organizzazioni internazionali potrebbero esercitare tutti i poteri
necessari all’adempimento delle loro funzioni o al perseguimento dei loro obiettivi (es. nell’esercizio del
diritto alla protezione diplomatica ciò che importa è il legame e ffettivo tra individuo e Stato; dottrina dei
principi d’equità in materia di delimitazione della piattaforma continentale).

Gli Stati interessati non hanno mai sollevato obiezioni in relazione a questo modo di procedere della Corte,
essi hanno forse implicitamente accettato il ruolo normativo talvolta svolto dalla CIG.

 La “soft law”

Negli anni recenti si è manifestata la formazione di un fenomeno nuovo: la "soft law”, in opposizione alla
“hard law”, ossia il diritto internazionale in senso proprio. Si tratta di un insieme di parametri, impegni,
dichiarazioni congiunte, dichiarazioni d’intenti o politiche. La soft law si forma all'interno di organizzazioni
internazionali e concerne materie quali diritti umani, le relazioni economiche internazionali e la protezione
dell'ambiente. Gli strumenti di soft law hanno tre principali caratteristiche. Innanzitutto trasmettono tendenze
moderne di cui le organizzazioni internazionali si fanno promotori, in secondo luogo esse riguardano nuovi
interessi della comunità internazionale e infine per le questioni trattate non è possibile raggiungere un
accordo internazionale vincolante. Ovviamente si tende a rendere la "soft law" come terreno fertile per una
prassi e una consuetudine che porti alla formazione di norme internazionali.

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CAPITOLO 13. DIRITTO INTERNAZIONALE E ORDINAMENTI


GIURIDICI INTERNI
Nel regolare i rapporti tra diritto interno e quello internazionale, nel passato sono state elaborate tre principali
teorie: quella monista nazionalista, che vedeva la supremazia dell'ordinamento interno su quello
internazionale; la dualista, che vedeva l'ordinamento internazionale indipendente da quello interno; la
monista "internazionalista" che invece vedeva la supremazia dell'ordinamento internazionale su quello
nazionale.

Secondo la teoria monista l'ordinamento internazionale è considerato come un ordinamento statale esterno. Il
diritto internazionale costituirebbe un insieme di linee di comportamento il cui valore normativo cede tutte le
volte che uno stato "potente" le ritenga contrarie ai propri interessi. È indubbiamente una teoria
estremamente nazionalista occidentalista, che vede la supremazia dell'autorità statale.

La seconda teoria è quella dualista, principalmente avanzata dagli Stati anglo-sassoni, basati su principi di
common law. È una teoria che mette sullo stesso piano gli ordinamenti nazionali e internazionali anche se
differiscono su molti punti come: 1) i soggetti a cui si rivolgono, quello nazionale agli individui, quello
internazionale agli Stati; 2) le fonti di produzione normativa, con leggi parlamentari per quello interno e
principalmente consuetudini per quello inter-nazionale; 3) il contenuto delle norme giuridiche poiché il
diritto internazionale disciplina solo i rapporti tra gli Stati. In questo caso il diritto internazionale non può
indirizzarsi direttamente agli individui, quindi una norma internazionale deve trasformarsi ed adattarsi
all'interno degli ordinamenti nazionali.

L'ultima teoria è la monista "internazionalista" che muove da una serie di postulati, ossia l’esistenza di un
ordinamento giuridico unitario piramidale, la superiorità del diritto internazionale, l’inesistenza della
necessità di trasformare le norme di diritto internazionale in diritto interno poichè diritto internazionale e
ordinamenti giuridici interni fanno parte di un unico ordinamento giuridico. Inoltre la giurisprudenza inter-
nazionale ha come utente finale gli individui e le sue fonti non di fferiscono da quelle degli ordinamenti
nazionali. Le norme internazionali possono dunque essere applicate come tali dai tribunali nazionali senza

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essere trasformate. Sostenitori: Kelsen (per cui la scelta era dovuta non a valutazioni scientifiche, bensì da
preferenze morali e politiche), Vedross, Scelle. Essa riposa su due concezioni ideologiche: internazionalismo
e pacifismo. Per quanto concerne l’immediata applicabilità di norme internazionali negli ordinamenti interni,
vi possono essere due limitazioni:

- le costituzioni statali possono imporre ai tribunali nazionali di applicare solo le leggi poste in essere
dai parlamenti nazionali;

- i tribunali potranno applicare le norme internazionali solo dopo la loro tra-sformazione in norme
interne.

Ma per Kelsen prevalgono i valori internazionali su quelli nazionali e gli organi statali devono perseguire gli
obiettivi derivanti dai precetti internazionali.

La teoria monista nazionalista è priva di valore scientifico. La teoria dualista costituisce il riflesso della realtà
giuridica del XIX secolo e della prima metà del XX. La teoria monista internazionalista di Kelsen, avanzata
per l’epoca in cui fu elaborata, appariva allora utopistica mentre oggi ha un rilevante impatto ideologico.
Questa idea contribuisce a consolidare l’idea che gli organi statali dovessero conformarsi ai precetti giuridici
internazionali, anteposti alle norme interne.

Il diritto internazionale non costituisce più una sfera di diritto rigidamente sepa-rata dalla sfera di diritto
degli ordinamenti giuridici interni. Il diritto internazio-nale non è più uno ius inter potestates (un diritto che
governa solo le relazioni fra Stati), ma si rivolge direttamente anche agli individui.

Con qualche limite esso si sta orientando secondo il concetto di civitas maxima e si sta evolvendo come
diritto super partes che disciplina dall’alto (vs. inter partes, orizzontalmente).

Il diritto internazionale si limita a stabilire che gli Stati non sono legittimati ad invocare le procedure
giuridiche dei loro ordinamenti a giustificazione dell’inadempimento di obblighi internazionali. Esso lascia
liberti gli Stati di de-cidere se e come modificare il proprio ordinamento interno per consentire la piena
applicazione delle norme internazionali.

II. L’ASSENZA DI UN OBBLIGO GENERALE DI ADATTAMENTO

L'applicazione delle norme internazionali negli ordinamenti nazionali dipende esclusivamente dal
comportamento degli Stati. Non esiste, infatti, una disciplina che uniformi le modalità con cui gli Stati
applicano al loro interno direttive in-ternazionali.

Vi sono però delle eccezioni, date dal fatto che gli Stati considerano che certe disposizioni convenzionali o
norme consuetudinarie siano talmente importanti da richiedere una garanzia di attuazione nei sistemi
giuridici interni. In primis, le disposizioni dei trattati necessitano di legislazione per l’attuazione (es.
Convenzione di Ginevra del 1949 sulle vittime della guerra e di alcuni trattati sui diritti umani). In secondo
luogo, le norme generali di ius co-gens, che richiedono che gli Stati adottino la normativa di adattamento
necessaria alla loro attuazione.

Qualora gli Stati non provvedano all’emanazione della necessaria normativa di adattamento, essi possono
incorrere nella responsabilità internazionale. Se uno Stato poi manca di ottemperare ad una delle norme in
questione a causa dell’assenza di norme interne di attuazione, può essere chiamato a rispondere per un
duplice comportamento illecito.

III. I MECCANISMI DI ADATTAMENTO DEGLI ORDINAMENTI INTERNI AL


DIRITTO INTERNAZIONALE

In assenza di una normativa in materia, non esiste alcun grado di omogeneità per l'adattamento delle norme
internazionali nei vari ordinamenti interni. Ogni Stato decide da sé le modalità ed è riluttante ad accettare

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una disciplina internazionale in materia. Gli Stati adottano principalmente due meccanismi per garantire
l’adattamento del proprio diritto interno al diritto internazionale:

1. Meccanismo di adattamento automatico permanente che si realizza quando una norma interna (di
rango costituzionale, oppure in legge ordinaria, o in common law stabilita da decisioni giudiziarie) impone
agli organi statali e a tutti gli individui sul territorio statale di applicare le norme presenti e future di diritto
internazionale. Si ha quindi incorporazione automatica. Gli inter-venti del legislatore vi sono solo nei casi di
norme non self - executing.

2. Meccanismo di adattamento ad hoc in virtù del quale le norme diventano ap-plicabili


nell’ordinamento giuridico interno solo a seguito dell’emanazione di una specifica normativa interna. Questa
può assumere due forme: quella dell’atto legislativo che riformula il contenuto delle norme internazionali nel
dettaglio (adattamento normativo ad hoc) e quella dell’atto legislativo che rinvii alla norma internazionale
(adattamento automatico ad hoc). In sostanza l’ultimo metodo funziona come 1., con la di fferenza che la
norme che garan-tisce l’adattamento è emanata di volta in volta.

Allo scopo di assicurare la piena attuazione, il procedimento preferibile dovrebbe essere quello
dell’adattamento normativo ad hoc ogni volta che le norme di origine internazionale hanno carattere non self
- executing. Nel caso invece di norme self - executing, è opportuno optare per procedimenti au-tomatici di
adattamento. Naturalmente è sempre possibile ricorrere ad entrambi i procedimenti, ove necessario, ossia
all’emanazione di specifica normativa in-terna per completare e rendere self - executing norme già immesse
nell’ordinamento attraverso il procedimento automatico permanente o ad hoc.

IV. IL RANGO ELLE NORME INTERNAZIONALI NEI SISTEMI


GIURIDICI INTERNI

Le norme internazionali hanno lo stesso rango delle norme interne, e possono coinci-dere sia con norme
ordinarie che costituzionali, a seconda della scelta fatta dal legi-slatore nazionale sulla norma internazionale.
Come tale essa subisce tutte le regole delle norme interne secondo cui una norma di rango superiore prevale
su una di rango inferiore, una successiva di pari rango abroga quella precedente, una norma successi-va
generale non modifica né abroga una generale precedente. Ovviamente se una norma internazionale viene
modificata o abrogata per una interna, lo Stato ne dovrà rispondere a livello internazionale. Alcuni Stati si
dimostrano più propensi a dare una garanzia maggiore alla legge internazionale dandole grado e copertura
costituzionale. In caso di Stato con costituzione flessibile (che può essere modificata e integrata dalla
legislazione ordinaria), però, non si garantisce tale copertura. Per garantire la loro preminenza sarebbe
necessario un meccanismo che impedisca la modifica o l’abrogazione delle norme internazionali attraverso
l’emanazione di leggi ordinarie incompatibili. Tuttavia questo meccanismo non è ancora mai stato istituito.

Sono molti gli Stati che preferiscono un adattamento automatico permanente poiché comporta minori sforzi
legislativi da parte del Parlamento. Infatti, nei casi di applicazioni di leggi consuetudinarie internazionali il
legislatore interno dovrebbe constatare l'effettiva consuetudine a livello internazionale e disciplina-re
conseguentemente una materia dettagliatamente. Nel caso di adattamento au-tomatico, invece, questo
oneroso compito è affidato ai giudici o agli altri organi dello Stato preposti all'applicazione del diritto.

Vedi pagg. 309 - 310.

V. I R A P P O R T I T R A L’O R D I N AM E N TO I TA L I A N O E I L D I R I T TO
CONSUETUDINARIO

 L’articolo 10, 1° comma, della Costituzione

Art. 10, 1° comma, Cost. = “L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute.”

L'ordinamento italiano, attraverso l'art.10 Cost. ha deciso di utilizzare il meccanismo dell'adattamento


automatico permanente, subordinando tutto l'ordinamento nazionale a quello internazionale e garantendo una
duratura vita alle norme internazionali. Ciò comporta che: 1) nell'ordinamento italiano si deve dare
esecuzione a norme internazionali generali attraverso la creazione automatica di norme interne a quelle
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correlative; 2) le norme vigenti al momento dell'entrata in vigore della Costituzione che fossero contrarie a
consuetudini generali sono abrogate o debitamente modificate; 3) se per caso norme di fformi dal diritto
internazionale consuetudinario fossero prodotte in futuro con normali procedimenti di legiferazione, tali
norme dovrebbero essere dichiarate illegittime; 4) se esistono norme suscettibili di duplice interpretazione,
una conforme e l'altra contraria a regole internazionali generali, si deve preferire la prima interpretazione.

 Il rango delle norme consuetudinarie nell’ordinamento italiano

Dall'art. 10 della Costituzione non si riesce a desumere quale possa essere il rango delle norme interne
corrispondenti al diritto consuetudinario prodotte in virtù del congegno automatico predisposto da tale
articolo. La soluzione più corretta segue un criterio, valevole ratione materiae, secondo il quale le norme
consuetudinarie immesse automaticamente nell'ordinamento interno possono avere valenza costituzionale,
legislativa o regolamentare, a seconda che la materia disciplinata sia regolata, nell'ordinamento interno, da
norme costituzionali, legislative o regolamentari. Si può dunque dire che esiste un procedimento polivalente
(art. 10, 1° comma, Cost. come norma di adattamento polivalente).

Un altro problema, del tutto teorico, è se le norme di diritto internazionale con-suetudinario, immesse in virtù
del suddetto articolo, possano modificare o abro-gare norme costituzionali preesistenti. Questo è possibile,
conformemente alla tesi generale secondo cui le norme interne corrispondenti al diritto consuetudi-nario
internazionale hanno la stessa efficacia delle norme preesistenti su cui esse vanno ad incidere, e che esse
possono quindi abrogare o modificare.

Occorre aggiungere che la possibilità di revisione della Costituzione attraverso le norme di diritto
internazionale consuetudinario non può portare ad infrangere i cardini essenziali del nostro ordinamento.
L’immissione di norme interne corrispondenti a norme consuetudinarie che comportino una modifica alla
Costituzione deve pertanto avvenire entro i limiti tracciati dalla Costituzione stessa, implicitamente o
espressa-mente, ad ogni forma di revisione costituzionale. Vedi caso Russell pagg. 312 - 313.

In concreto la tutela costituzionale ex art. 10, 1° comma, Cost. opera così:

- le norme di origine consuetudinaria che hanno e fficacia costituzionale sono pienamente garantite
contro eventuali norme interne successive contrastanti di rango inferiore;

- le norme di origine consuetudinaria che hanno e fficacia di legge ordinaria o re-golamento sono
provviste nei confronti di atti normativi successivi e contrari, di tutela costituzionale (divieto di creare atti
normativi contrari a norme di origine consuetudinaria). Vedi pag. 313 - 314.

VI. I RAPPORTI TRA L’ORDINAMENTO ITALIANO E I TRATTATI

 La prassi dell’”ordine di esecuzione”

In Italia, l’attuazione dei trattati avviene con procedimento automatico ad hoc. Di volta in volta è emanato un
atto normativo (legge costituzionale o ordinaria, atto regolamentare) che contiene il c.d. ordine di esecuzione
del trattato che si intende recepire.

Per i trattati rientranti in art. 80 Cost. l’ordine di esecuzione è contenuto nella legge parlamentare di
autorizzazione alla ratifica. L’ordine consiste di due nor-me: una che autorizza a ratificare, l’altra che dà
“piena e intera esecuzione” al trattato nell’ordinamento italiano.

Art. 80 Cost. = “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati inter-nazionali che sono di natura
politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giu-diziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle
finanze o modifica-zioni di leggi.”

Finchè il trattato non entra in vigore ovviamente l’ordine di esecuzione è inope-rante.

Nella dottrina Quadri ha sostenuto che l’attuazione dei trattati nel nostro ordinamento non avrebbe bisogno
dell’emanazione di appositi atti legislativi, in quanto garantita ex art. 10, 1° comma Cost. che provvederebbe
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sia per il diritto internazionale consue-tudinario che per quello convenzionale. Se così non fosse, sostiene
Quadri, si avallerebbe l’incongrua prassi parlamentare attuale che ri-chiede un duplice intervento del
Parlamento (per autorizzare il capo di Stato a ratificare il trattato e per rendere esecutivo il trattato). E’
assurdo specialmente se i due atti sono contemporanei e contestuali, come nella prassi Italiana. Si può però
obiettare che questa concezione contrasti col Costituente, che ha voluto escludere che il rinvio includesse an-
che i trattati.

Nel caso in cui il trattato contenga norme non self - executing, la piena attuazione necessita di norme
nazionali che integrino le norme di adattamento prodotte per il tramite dell’ordine di esecuzione. Questo non
sempre accade, con un rischio per l’Italia di incorrere nella responsabilità internazionale.

 Le competenze delle Regioni e delle Province autonome in materia di adattamento ai trattati

Art. 117 , 5° comma, Cost. = “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolza-no, nelle materie di
loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e
provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel
rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del
potere sostitutivo in caso di inadempienza.”

Aspetto problematico del nostro ordinamento è che le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano
provvedano all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali. Il disposto di cui sopra è stato
variamente interpretato. Secondo alcuni, esso fa riferimento solo a quelle norme che siano già formalmente
introdotte nell’ordinamento interno. L’immissione dei trattati nell’ordinamento interno infatti sarebbe di
esclusiva competenza statale. Secondo altri, l’art. di cui sopra chiarirebbe che le Regioni, nelle materie di
loro competenza, sono abilitate a provvedere direttamente, nel rispetto delle norme statali di procedura,
all’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali. Questo orientamento sarebbe stato accolto dall’art.
6, par. 1, della l. 131/2003 che stabilisce che Regioni e province autonome di Trento e Bolzano nelle materie
di propria competenza legislativa provvedono direttamente all’attuazione ed esecuzione degli accordi
internazionali ratificati, dandone preventiva comunicazione al Ministero degli a ffari esteri ed alla Presidenza
del Consiglio dei ministri. In caso di inadempienza, vi è un meccanismo di sostituzione dello Stato
nell’esercizio delle competenze regionali.

Secondo Cassese, la soluzione più conforme al dettato costituzionale è quella che prende in considerazione
l’attribuzione della competenza legislativa esclu-siva allo Stato in materia di politica estera e di rapporti
internazionali dello Sta-to ex art. 117, 2° comma, e la competenza legislativa concorrente delle Regioni in
materia di rapporti internazionali delle Regioni ex art. 117, 3° comma, nonché il riconoscimento alle Regioni
del potere di stipulare direttamente accordi con altri Stati, alle condizioni e nelle forme stabilite dalla legge.

Art. 120, 2° comma, Cost. = “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane,
delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa
comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la
tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La
legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di
sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.”

 Il rango dei trattati nel sistema delle fonti

Il rango dei trattati nel sistema interno una volta che si è provveduto alla loro attuazione nell’ordinamento
interno è stato a lungo discusso. Bisogna distinguere alcuni casi. Il caso dei trattati istitutivi delle Comunità
Europee e dell'Unione Europea e le norme che ne conseguono, pur se di grado legislativo hanno un rango
superiore alle leggi ordinarie interne (caso Granital vedi p. 319).

Per gli accordi in materia di trattamento degli stranieri vi è una copertura costi-tuzionale (art.10 comma 2,
Cost.). In questi casi l'incorporazione di tali norme deve avvenire con legge e qualunque legge interna in
contrasto con questa è co-stituzionalmente illegittima.

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Per tutti gli altri trattati la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Re-gioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordina-mento comunitario e dagli obblighi internazionali ex
art. 117, 1° comma, Cost.. Questa norma ha sancito la prevalenza degli obblighi internazionali, inclusi quelli
derivanti dai trattati, sulla legislazione ordinaria. Sarebbe quindi illegitti-ma la legge ordinaria contrastante
con gli obblighi derivanti da un trattato.

Ma l’art. 117 , 1° comma, è norma idonea a conferire copertura costituzionale anche agli obblighi
internazionali discendenti da qualsiasi trattato? Questa soluzione non sembra compatibile però col dettato
costituzionale. Tale soluzione limiterebbe l’attività normativa primaria del Parlamento in rapporto a
qualunque trattato vincolante per l’Italia, inclusi quelli stipulati senza la partecipazione del Parlamento. La
soluzione più corretta sembra quella secondo cui, per quanto riguarda gli obblighi discendenti da trattati
diversi da quelli comunitari ed in materia di trattamento degli stranieri, il vincolo ex art. 117, 1° comma,
Cost. può operare solo per trattati di cui all’art. 80, rispetto ai quali il Parlamento abbia provveduto ad
emanare la legge autorizzativa alla ratifica comprensiva dell’ordine di esecuzione.

Infine, le leggi di esecuzione dei trattati internazionali devono essere conformi alle norme costituzionali e
sono quindi soggette al controllo di legittimità da parte della Corte costituzionale.

 Adattamento agli atti delle organizzazioni internazionali

Alcune organizzazioni internazionali sono autorizzate ad adottare atti vincolanti, che possono essere
meramente di rilevanza interna o produttivi di e ffetti esteri. In questi casi devono essere recepiti dagli
ordinamenti interni degli Stati parte. Molto importanti è anche l'attuazione dei regolamenti, delle direttive e
degli atti adottati dagli organi della Comunità Europea. Di norma, tranne in alcuni casi, si procede
all'adozione di atti di adattamento normativo ad hoc. Diversamente accade per i trattati istitutivi, i quali
stabiliscono che i regolamenti sono direttamente applicabili negli ordinamenti degli Stati membri.

PARTE QUINTA
CONTROVERSIE INTERNAZIONALI E RESPONSABILITA’ DELLO STATO

CAPITOLO 14. LA SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI


Ogni sistema giuridico ha norme che regolano le competenze dei tribunali per risolvere le liti tra i membri di
una comunità. Esistono pertanto procedimenti e tribunali penali e civili, o anche arbitrati, scelti in base alla
situazione che si presenta. A livello internazionale, fino all'adozione della Carta delle Nazioni Unite del 1945
gli Stati potevano utilizzare qualunque mezzo reputassero necessario alla risoluzione delle controversie,
anche la forza armata senza aver precedentemente cercato una soluzione pacifica. Nel tempo si sono
sviluppate diverse procedure per la dissoluzione di controversie internazionali, evitando in tutti i modi l'uso
della forza e della minaccia. Questo grazie anche alla creazione dell’ONU.

I. L’OBBLIGO DI SOLUZIONE PACIFICA DELLE CONTROVERSIE

Dopo la Seconda guerra mondiale e la Carta delle Nazioni Unite si è a ffermato l'obbligo generale di
soluzione pacifica delle controversie. In realtà era un accordo tacito che col tempo si è rivelata una prassi ed
oggi costituisce la naturale conseguenza dell’a ffermazione del divieto generale di minaccia ed uso della
forza. Oltre che nella Carta delle Nazioni Unite, tale obbligo è stato a ffermato in importanti strumenti
internazionali:

- Dichiarazione sulle relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati (ris. 2625 AG del 1970)

- Dichiarazione di Manila sulla soluzione pacifica delle controversie interna-zionali (adottata per
consensus dall’AG nel 1982).

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Poichè ogni controversia di fatto può condurre ad una situazione di pericolo per la pace e la sicurezza,
l’obbligo sancito ex art. 33 della Carta è potenzialmente riferibile a qualsiasi controversia.

Gli Stati, nella ricerca della soluzione di una controversia, devono cercare di non ri-correre ad azioni di
attuazione coercitiva. In realtà non sono neanche obbligati a ri-solvere ad ogni costo la controversia.
L’obbligo in esame, nonostante la sua impor-tanza, è indebolito dall’assenza di una disciplina che stabilisca
metodi di soluzione obbligatori. Non vi è infatti una norma generale che imponga agli Stati di sottoporre le
loro controversie ad organi autorizzati a dettare termini di regolamento. Vi è poi libertà di scelta dei metodi
di soluzione delle controversie. Su questi metodi gli Stati sono però di-visi. Alcuni ritengono che i metodi di
soluzione delle controversie siano la con-ciliazione e l’accertamento giudiziale e che essi debbano avere un
carattere ob-bligatorio, altri sostengono che il metodo migliore sia il negoziato oppure che gli Stati scelgano
quale sia la procedura più appropriata per il singolo caso.

II. LE PROCEDURE DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE

Soluzione delle controversie = nozione di tipo giuridico con cui si fa riferimento a valutazioni, con e fficacia
giuridica vincolante, circa il conflitto di interessi e le con-trapposte pretese che stanno all’origine della
controversia.

Poichè l’ordinamento giuridico internazionale difetta di un’attività giurisdizio-nale centralizzata ed


istituzionalizzata, il principale mezzo di soluzione delle controversie è costituito dall’accordo fra le parti in
lite, il cui raggiungimento può essere facilitato attraverso vari procedimenti (diplomatici). L’altro mezzo è la
sentenza, emanata da un terzo e che, per volontà delle parti in lite, produce e ffetti vincolanti.

L’estinzione delle controversie è invece un fatto storico che si produce quando viene a mancare il contrasto
che tra le opposte pretese che sta all’origine della controversia. Con l’accordo si ha al contempo anche
l’estinzione della controversia. Nel caso di soluzione mediante sentenza, può accadere che una parte o
entrambe si rifiutino di conformarsi ad essa e persistano nell’atteggiamento iniziale che ha dato luogo alla
controversia.

Si distinguono due categorie di procedimenti per la soluzione delle controversie:

- quelli diplomatici, che mirano a favorire il raggiungimento di un accordo

- quelli di tipo arbitrale o giudiziale, in cui un terzo è autorizzato dalle parti a dirimere la controversia
mediante l’emanazione di una sentenza vincolante.

A queste procedure se ne aggiungono altre.

III. LE PROCEDURE DIPLOMATICHE

 I negoziati: qui vi è assenza dell’intervento di un terzo. Presenta il vantaggio di lasciare la soluzione


della controversia alle parti, senza pressioni dall’esterno. Le parti arri-veranno ad un accordo, che
presumibilmente non lascia vincitori o vinti, anche se la parte più forte può comunque facilmente
esercitare pressioni sull’altra, grazie alla pro-pria superiorità di fatto. Vi è perciò il rischio che i
negoziati si rivelino uno strumento a disposizione degli Stati più potenti.

Vi sono casi in cui il negoziato è obbligatorio ai sensi di una disposizione convenzionale. E’ il caso dell’art.
283 della Convenzione di Montego Bay che stabilisce che in caso di controversia in materia di
interpretazione, gli Stati debbano procedere ad uno scambio di opinioni mediante negoziato od altro metodo
pacifico.

Alcuni trattati hanno istituzionalizzato il ricorso ai negoziati, stabilendo com-missioni a carattere


permanente.

 L’inchiesta: procedimento previsto nella Convenzione dell’Aia del 1899 per la soluzione pacifica
delle controversie. Questo meccanismo attribuisce ad un organo internazionale (istituito di solito
dalle parti e composto di individui in-dipendenti ed imparziali) il compito di accertare i fatti. Spetta

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poi alle parti decidere se ritenere o no vincolante l’accertamento effettuato dall’organo che ha
condotto l’inchiesta. Quest’ultima può poi anche costituire la fase di una più complessa procedura:
svolgendo un accertamento sui fatti, può essere pre-disposta al fine di facilitare il compito di
commissioni di conciliazione o tri-bunali internazionali. La Corte può affidare la funzione di
svolgere un’inchiesta o fornire una consulenza tecnica.

L’inchiesta ha però progressivamente perso importanza. Essa ha però assunto il ruolo importante di c.d. fact -
finding. Frequente è la creazione in ambito ONU di commissioni d’inchiesta sulle violazioni dei diritti umani
e del diritto umanitario, che in taluni casi hanno poi portato alla creazione di ulteriori mec-canismi (es.
TPIY), o all’attivazione della CPI (es. caso della Commissione internazionale d’inchiesta per il Darfur). Di
accresciuta importanza è la crea-zione di missioni di fact - finding da parte dell’Alto commissariato dei diritti
umani.

I buoni uffici, la mediazione e la conciliazione sono procedimenti che si di fferenziano fra loro per il grado
crescente di partecipazione del terzo al tenta-tivo di raggiungimento di un accordo fra le parti.

 I buoni uffici: il terzo (Stato o organo internazionale) si limita a cercare di in-durre le parti a sedersi
al tavolo negoziale.
 La mediazione: il terzo partecipa attivamente allo svolgimento dei negoziati, promuovendo
informalmente termini di regolamento; di solito il ruolo di me-diatore è svolto efficacemente da
organi di vertice o dignitari di grandi potenze od alti funzionari di organizzazioni internazionali. Es.
papa Giovanni Paolo II tra Cile e Argentina (1979) in relazione alla controversia sul Canale di
Beagle.
 La conciliazione: prevede una partecipazione ancora più intensa da parte del terzo, che ha il compito
di esaminare attentamente gli elementi di fatto e di diritto della controversia e proporre formalmente
termini di regolamento, ossia una soluzione della controversia nel merito. La proposta dell’organo di
conciliazione però non produce effetti vincolanti per le parti. Frequente è l’obbligo
convenzionalmente assunto dalle parti di ricorrere alla conciliazione (c.d. conciliazione
obbligatoria). Ciò può avvenire per adozione di un trattato ad hoc o grazie all’inserimento di una
clausola nel trattato, in virtù dei quali si riconosce il diritto delle parti di ricorrere unilateralmente a
questa procedura di risoluzione delle controversie. Questa tendenza è il risultato di due ottiche
confliggenti: quella degli Stati occidentali, secondo i quali non avrebbe senso stabilire norme
sostanziali senza creare meccanismi obbligatori, e quella degli altri Stati, che pur riconoscendo
l’importanza del principio di soluzione pacifica, non intende obbligarsi ad alcun procedimento di
soluzione, in particolare a quelli che si concludono con l’emanazione di una decisione vincolante.

Le conclusioni e le proposte della Commissione di conciliazione non sono vincolanti per le parti. Ciò
malgrado, il fatto di stabilire la facoltà di ricorso unilaterale ad una procedura di conciliazione e l’obbligo di
una controparte di sottoporsi ad essa, di predeterminare il procedimento da seguire durante lo svolgimento
della conciliazione e infine di istituire un organo con il compito di promuovere il raggiungimento amichevole
tra le parti, rappresenta un passo avanti significativo.

Per controversie non relative allo jus cogens gli Stati sono obbligati a trovare entro 12 mesi dal sorgere della
controversia, una soluzione pacifica. In caso di mancato raggiungimento della soluzione può intervenire il
tribunale che può essere un arbitrato o giudiziario.

IV. L’ARBITRATO E IL REGOLAMENTO GIUDIZIALE

Questi due procedimenti danno luogo ad una soluzione vincolante per le parti, una sentenza. Qui si intende
risolvere la controversia per garantire il mantenimento di re-lazioni pacifiche e comporre gli interessi, ma
anche per appianare le divergenze in conformità a parametri giuridici preventivamente accettati dagli Stati in
controversia, per mezzo dell’emanazione di una decisione vincolante (sentenza o, nel caso di arbi-trato, lodo
arbitrale). Come nella conciliazione, l’organo arbitrale o giudiziale esamina i fatti e le regole giuridiche che
ha il compito di applicare. Diversamente dalla conciliazione però le conclusioni sono giuridicamente
vincolanti per le parti (nella misura in cui esse siano espresse nella parte operativa della sentenza, il c.d.
dispositi-vo).

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Il procedimento di soluzione giudiziale è più istituzionalizzato rispetto a quello arbitrale, ed infatti nel primo
caso l’organo ha natura permanente o semiperma-nente, così come la procedura. Nel secondo, le parti alla
controversia devono accordarsi su organo e procedura. Sia i tribunali che le corti arbitrali si fondano sul
consenso di Stati, espresso nei trattati che li istituiscono. Il sistema di solu-zione delle controversie di tipo
giudiziario, che negli ordinamenti giuridici in-terni costituisce la regola, nel diritto internazionale, ha
carattere eccezionale.

 L’arbitrato e la Corte permanente di arbitrato (CPA)

Nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale le controversie tra gli Stati ve-nivano generalmente
risolte tramite la Corte Permanente di Arbitrato (CPA), istituita nel 1899 e ancora esistente. La CPA consiste
in un numero di giudice al quale gli Stati in controversia attingono per costituire un tribunale arbitrale, e
un'infrastruttura amministrativa che svolge le funzioni di segretariato (il Consiglio amministrativo
permanente e l'Ufficio internazionale). I modi per conferire giurisdizione alla CPA sono due: 1) la
stipulazione di un accordo tra le parti volto a sottoporre alla corte una controversia (c.d. compromesso
arbitrale); 2) l'introduzione in un trattato di una clau-sola in virtù della quale ogni parte contraente è
legittimata a sottoporre alla Corte qualsiasi controversia relativa all'interpretazione e applicazione del trattato
stesso (c.d. clausola compromissoria).

 La Corte permanente di giustizia internazionale e la Corte internazionale di Giustizia

La Corte Permanente di Giustizia Internazionale (CPGI), istituita nel 1929 era l'organo permanente per la
soluzione delle controversie ed è stata sostituita dalla Corte di Giustizia Internazionale (CGI) nel 1946.
Diversamente dalla Corte Permanente di Arbitrato (CPA) essa è costituita da giudici permanenti e non a
scelta tra vari giudici. Non dà (come la CPA) giudizi di natura politica, ma si basava solo su norme di diritto.
Inoltre la sua composizione non può constare anche di politici (come per la CPA), ma solo di giureconsulti e
grandi giudici. La sua permanenza è un segnale della volontà internazionale di voler garantire lo sviluppo
logico ed armonioso del diritto in-ternazionale. La più ampia accettazione da parte degli Stati della
giurisdizione della Corte è facilitata dalla c.d. "clausola opzionale", in virtù della quale ogni Stato decide di
sottostare alle decisioni della Corte.

 L’intensificarsi del ricorso all’arbitrato e al regolamento giudiziale

Con la fine della guerra fredda gli Stati hanno intensificato il ricorso all’arbitrato e al regolamento giudiziale
nella convinzione che la soluzione della controversia da parte di un terzo indipendente ed imparziale
costituisca uno strumento efficace per appianare le divergenze. Oltre alla sempre maggior importanza della
CIG, un altro fenomeno rilevante degli ultimi decenni è il proliferare di tribunali internazionali a carattere
permanente o semipermanente. Es.:

- Corte europea

- Corte interamericana dei diritti umani

- Corte di giustizia

- Tribunale di prima istanza dell’UE

- Tribunale internazionale del diritto del mare, ecc.

A questi occorre aggiungere quelli istituiti per la repressione dei c.d. crimini in-ternazionali: ICTY e ICTR,
Corte penale internazionale, Corte speciale per la Sierra Leone, Tribunale speciale per il Libano, ecc..

Secondo alcuni, questo porta a divergenze d’interpretazione ed applicazione del diritto internazionale, che ne
risulterebbe frammentato.

 Il ricorso obbligatorio all’arbitrato e al regolamento giudiziale

In alcuni casi eccezionali gli Stati hanno deciso di rendere obbligatorio il ricorso all’arbitrato o al
regolamento giudiziale, stipulando accordi o inserendo clausole di regolamento arbitrale o giudiziale
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obbligatorio. Due importanti convenzioni, fra le altre, prevedono il ricorso obbligatorio all’arbitrato o al
regolamento giudiziale: la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati e la Convenzione sul diritto
del mare del 1982.

Nel sistema della Convenzione di Vienna le controversie relative all’invalidità dei trattati per contrasto con lo
jus cogens possono essere sottoposte alla CIG su richiesta unilaterale, dopo che siano trascorsi 12 mesi dal
sorgere della controversia senza che sia stata raggiunta una soluzione. Come l’art. 33 della Carta delle
Nazioni Unite, anche l’art. 279 della Convenzione del 1982, obbliga gli Stati a procedere a scambi di vedute
sulla modalità di soluzione. In caso di mancato accordo, ciascuna delle parti ha diritto di proporre il ricorso
alla conciliazione. Se l’offerta non è accettata o le parti non si accordano l’art. 287 prevede che ciascuna
delle parti possa dare inizio ad un procedimento giudiziale davanti a degli organi specifici. Il sistema di
soluzione delle controversie della Convenzione sul diritto del mare è più e fficace di quello della
Convenzione di Vienna del 1969. Il ricorso alla conciliazione non è obbli-gatorio, mentre lo è la soluzione
arbitrale o giudiziale delle controversie, se le parti non raggiungono un accordo su un altro mezzo di
soluzione.

Le due procedure esaminate si riferiscono alle controversie relative all’interpretazione o applicazione di


determinati trattati multilaterali e sono contemplate nelle c.d. clausole compromissorie contenute in questi
trattati.

Occorre segnalare il ruolo dell’ICSID (Centro Internazionale per la soluzione delle controversie in materia di
investimenti), istituito dalla Convenzione di Washington del 1965 (conclusa sotto gli auspici della Banca
mondiale), che ha il compito di am-ministrare arbitrati ad hoc. E’ un meccanismo che cerca di proteggere gli
interessi degli investitori (cittadini o enti) e gli Stati in cui sono e ffettuati gli investimenti. Esso o ffre un
sistema di soluzione di controversie giuridiche originate da un investimento estero. E’ composto da un
Consiglio amministrativo (composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri), un segretariato e un panel
di conciliatori ed arbitri.

V. IL CONTROLLO INTERNAZIONALE

Oltre ai meccanismi di soluzione delle controversie, è stato elaborato un altro strumento per controllare, in
corso, l'effettivo rispetto dei trattati da parte degli Stati contraenti. Si tratta di norma di un controllo periodico
che non presuppone ne-cessariamente l'esistenza di un contenzioso. L'organo di controllo è costituito dai
rappresentanti degli Stati parte del trattato e di norma le funzioni di sorveglianza sono a ffidate a più di un
organo. La procedura di controllo, inoltre, non termina con una soluzione vincolante, ma al massimo
un'esortazione, per evitare di minare la sovranità statale. La procedura di controllo si può attuare tramite
quattro modalità diverse:

1) l'esame dei rapporti periodici da parte degli Stati ad intervalli determinati;

2) l'ispezione (da parte di organi preposti), ossia investigazioni sul posto che consentono di verificare
direttamente se lo Stato sia adempiente;

3) il controllo effettuato attraverso un procedimento contenzioso, dove lo Stato sotto controllo e


l’organo incaricato avviano un esame, in contraddittorio, del caso su istanza di uno Stato parte, o di individui
che si pretendono vittime di una violazione;

4) il controllo preventivo attraverso l'adozione di misure volte a prevenire la commissione di illeciti


internazionali da parte di uno Stato; finora però questa forma di controllo è stata prevista nel settore dell’uso
pacifico dell’energia atomica e della protezione dell’ambiente. In tutti i casi, il rapporto che conclude la
procedura di controllo è sprovvisto di valore vincolante.

La ragione per cui si usano queste procedure di controllo ha inizio dopo la WWI, quando gli Stati hanno
iniziato a disciplinare in via convenzionale materie che rientravano nel loro dominio riservato. Questa nuova
normativa internazionale non era basata sulla reciprocità, ossia non imponeva obblighi che ciascuna parte era
interessata ad adempiere in modo da indurre l’adempimento della controparte. La disciplina contenuta in tutti
questi trattati faceva parte della categoria di norme poste a protezione degli interessi di individui, enti o
associazioni diversi dagli Stati contraenti. In questi settori era, ed è ancora, di fficile stabilire meccanismi che
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assicurino l’osservanza della normativa stabilita. Il ricorso in via giudiziale appariva inadeguato o non era
possibile. Era più logico riconoscere il diritto di esigere il rispetto degli obblighi in questione ai loro
beneficiari. Tuttavia gli Stati avrebbero trovato inaccettabile attribuire ad individui o gruppi un locus standi
davanti ai tribunali internazionali e si è giunti ad un compromesso, concedendo ad individui e gruppi il
diritto di ricorso ad organi internazionali privi di funzioni e poteri giudiziari. Oltre alla non vincolatività
degli accertamenti finali, si è stabilito che gli incontri avvenissero a porte chiuse per tutelare l’immagine
pubblica degli Stati. I settori nei quali si registra maggior di ffusione di questi sistemi di garanzia sono:
rapporti internazionali di lavoro, tutela internazionale dei diritti umani, uso pacifico dell’energia atomica,
tutela dell’ambiente, Antartide e spazio extra atmosferico, diritto internazionale dell’economia.

VI. LA SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE NELL’ORGANIZZAZIONE


MONDIALE DEL COMMERCIO (OMC/WTO)

Un metodo avanzato ed originale di soluzione delle controversie è stato istituito nel settore delle relazioni
commerciali, nell’ambito dell’OMC. Le norme sostanziali degli accordi mirano alla liberalizzazione del
commercio mondiale, sulla base dei principi della nazione più favorita e del trattamento nazionale, attraverso
una progressiva ri-duzione dei dazi doganali. A tal fine nel 1994 è stata creata una procedura innovatrice,
prevista dal Dispute Settlement Understanding, DSU, parte degli Accordi di Marrakech istitutivi dell’OMC.

La procedura si articola come segue:

 Ciascuno Stato deve notificare all'OMC e alle altre parti contraenti, l'adozione di politiche
commerciali che possano pregiudicare l'applicazione di norme sostanziali previste da accordi
commerciali. Alla notifica segue la "consultazione".
 Le altre parti contraenti devono prontamente rispondere alla richiesta di consultazione mirando al
raggiungimento di soluzioni soddisfacenti per le parti coinvolte.
 Nel caso in cui le consultazioni non abbiano esito positivo è possibile richiedere i "buoni u ffici" o la
conciliazione dell'OMC. Nel caso in cui non si raggiunga alcuna soluzione, una parte contraente può
richiedere la costituzione di un "panel" di esperti indipendenti, cui presentare il reclamo. Il panel è
istituito dall'Organo per la soluzione delle controversie (DSB - Dispute Settlement Body), formato
dai rappresentanti di tutti gli stati membri.
 Se le parti contendenti rifiutano la composizione del panel, questo è deciso dal direttore generale
dell'OMC. Una volta istituito il panel esamina le richieste delle parti contendenti. L'accertamento dei
fatti e del diritto è suddiviso in due parti. Il panel adotta un rapporto provvisorio (interim report) che
le controparti possono commentare e successivamente il panel adotta un rapporto finale (final report)
che è trasmesso alle controparti e al BSD.
 Il rapporto finale è automaticamente adottato dal DSB, a meno che non decida il contrario. Tuttavia
ciascuna delle controparti può impugnare il final report del panel e presentare un appello all'Organo
d'Appello (Appellate Body), che può, però, decidere solo su questioni di legittimità.

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CAPITOLO 15. ILLECITO INTERNAZIONALE E RESPONSABILITA’


INTERNAZIONALE
Nell’ordinamento internazionale prevale il concetto di responsabilità collettiva: quando l’organo di uno Stato
viola il diritto internazionale, è l’intera comunità statale cui l’organo appartiene che subisce le conseguenze
dell’illecito. Sul pia-no interno, l’organo può comunque essere punito o subire conseguenze sfavore-voli a
seguito della propria condotta, ma in ambito internazionale lo Stato dovrà dare adempimento agli obblighi
derivanti dalla commissione dell’illecito. Oc-corre però distinguere due fasi di sviluppo normativo:

- disciplina tradizionale del diritto della responsabilità

- disciplina di più recente formazione che rappresenta un’evoluzione del diritto preesistente.

I. LA DISCIPLINA TRADIZIONALE

Le norme convenzionali in materia erano scarse. Es. art. 3 della IV Convenzione dell’Aia del 1907 sulla
guerra terrestre: “La Parte belligerante che violasse le di-sposizioni di detto Regolamento sarà tenuta, se vi
ha luogo, al rifacimento del danno. Essa sarà responsabile di tutti gli atti commessi da persone che fanno
parte della sua forza armata.”

Tra il 1924 e il 1930 sotto l’egida della SdN fu e ffettuato un tentativo di codificazione di vari settori del
diritto consuetudinario, fra cui quello della “Responsabilità degli Stati per i danni causati, nel proprio
territorio, ai cittadini stranieri e ai loro beni”. Alla Conferenza di codificazione però alcuni Stati sostenevano
che il cittadino straniero dovesse essere sottoposto al “trattamento nazionale”, secondo cui gli stranieri do-

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vevano avere gli stessi diritti ed obblighi spettanti al cittadino dello Stato territoriale. Secondo altri
(soprattutto quelli occidentali, per ovvie ragioni) nello Stato ospite i cit-tadini stranieri avessero diritto al c.d.
standard minimo di civiltà (di trattamento).

Il diritto consuetudinario stabiliva che lo Stato autore di un illecito fosse re-sponsabile a livello
internazionale e dovesse provvedere alla riparazione, e che lo Stato leso potesse reagire all'illecito finanche
con l'uso della forza armata.

In linea generale, la disciplina tradizionale del diritto della responsabilità degli Stati presentava le seguenti
caratteristiche:

- Regole rudimentali, che non precisavano gli elementi costitutivi dell’illecito (con-dizione essenziale
per il sorgere della responsabilità), né quali conseguenze discen-dessero dalla commissione dell’illecito. Non
si faceva riferimento se la responsabi-lità sorgesse da un’azione intenzionale o anche in assenza di dolo o
colpa grave dell’agente; non erano chiare quali forme di riparazione dovessero preferirsi rispetto ad altre. In
linea generale essa poteva consistere nel ripristino della situazione ex ante, nel risarcimento monetario o
nella c.d. soddisfazione (presentazione ufficiale di scuse, omaggio alla bandiera e robe del genere), formula
più usata in caso di vio-lazione della dignità di uno Stato. Inoltre lo Stato leso poteva decidere se, ed in quale
momento, rispondere all’illecito.

- Natura bilaterale del rapporto di responsabilità: gli Stati coinvolti si dovevano accordare sulle forme
dovute di riparazione. Altrimenti attuazione coercitiva nel rispetto del principio di proporzionalità.

- La questione della responsabilità degli Stati era ancora strettamente connessa alla questione degli
obblighi incombenti sugli Stati in materia di trattamento degli stranieri. La prassi si era sviluppata in
controversie concernenti la pre-sunta violazione di obblighi consuetudinari da parte degli Stati non industria-
lizzati a danno dei cittadini dei paesi industrializzati.

- Responsabilità internazionale come responsabilità collettiva, ad eccezione di due ipotesi: pirateria,


crimine diffuso fino al XVIII secolo e commesso da individui agenti a titolo privato; crimini di guerra,
consistente nella violazione grave degli usi e delle consuetudini di guerra nell’ambito di conflitti armati a
carattere internazionale, e dunque solitamente commessi da organi dello Stato, membri delle forze armate.

II. LA DISCIPLINA ATTUALE

Grazie all'opera di codificazione attuata negli anni'50 si è arrivati nel 2001 all'adozione di un Progetto di
articoli sulla responsabilità degli Stati, che in larga misura codifica il diritto consuetudinario esistente. Gli
elementi distintivi della disciplina attuale sono i seguenti:

- Il diritto della responsabilità è stato svincolato dall’insieme di norme in mate-ria di trattamento degli
stranieri e dei loro beni.

- Si possono distinguere due tipi di norme: le c.d. "primarie", ossia l'insieme delle norme di diritto
internazionale che impongono obblighi di natura sostanziale in capo agli Stati, e le c.d. "secondarie", un
corpus di norme che costituisce appunto il diritto della responsabilità degli Stati e che stabilisce:

1) le condizioni per cui si può dire che si è verificato un illecito;

2) le conse-guenze giuridiche discendenti da quell'illecito.

- La nuova disciplina chiarisce punti controversi della disciplina precedente.

- Anche il grado di responsabilità può variare in responsabilità "ordinaria", ossia quella normalmente
applicabile nei rapporti tra Stati a seguito della commissione di un illecito, e la responsabilità "aggravata",
che scaturisce da violazioni di norme fondamentali della comunità (vedi cap. XVI).

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A parte la responsabilità degli Stati in caso di violazione di norme internazionali, vi sono stati
cambiamenti importanti anche sotto altri due profili:

- Anche la responsabilità individuale è mutata rispetto alla disciplina tradizionale. Infatti gli individui
possono essere responsabili a livello internazionale per violazioni gravi di diritto internazionale (crimini di
guerra, crimini contro l’umanità, genocidio, tortura, terrorismo), commessi sia in tempo di guerra che in
tempo di pace. Possono incorrere nella responsabilità internazionale non solo i ranghi inferiori delle forze
armate, ma anche i leader militari e politici di uno Stato. La repressione di questi crimini anche a livello
internazionale costituisce una nuova forma di garanzia in materia di diritti umani e diritto internazionale dei
conflitti armati. Questo corpus normativo, il c.d. diritto internazionale penale, va distinto da quello della
responsabilità degli Stati anche se talvolta possono esservi delle sovrapposizioni tra le due forme di
responsabilità.

- Il secondo cambiamento è rappresentato dalle regole in materia di responsabi-lità degli Stati per
attività non proibite dal diritto internazionale (c.d. respon-sabilità degli Stati per fatti leciti). Es. uno Stato è
autorizzato a fermare ed ab-bordare navi mercantili straniere quando vi siano fondati motivi per ritenere che
la nave sia impegnata in atti di pirateria, tratta di schiavi o trasmissioni abusive, ma se i sospetti sono
infondati, lo Stato di appartenenza deve inden-nizzare la nave abbordata per ogni danno o perdita che possa
aver subito.

III. L’ILLECITO INTERNAZIONALE

Il presupposto per il sorgere della responsabilità internazionale è costituito dalla commissione di un illecito
da parte di uno Stato, al realizzarsi di due condizioni: una di natura soggettiva, l’altra oggettiva. La prima
condizione si ha quando la condotta attiva od omissiva posta in essere da un individuo è attribuibile ad uno
Stato. La seconda condizione si realizza quando la condotta è contraria ad un obbligo internazionale, causa
un danno morale o materiale ad un altro soggetto internazionale e non è giustificabile per la presenza di
specifiche circostanze.

 L’elemento soggettivo

Gli Stati agiscono sul piano internazionale per mezzo di individui. Per a ffermare la responsabilità
internazionale di uno Stato è necessario stabilire quando la condotta posta in essere da un individuo possa
essere attribuita a tale Stato.

Innanzitutto è il caso dell’attività di organi (del potere centrale o derivato, fede-rale) dello Stato secondo il
diritto interno che agiscano in qualità ufficiale, nel caso in cui l’organo abbia contravvenuto istruzioni
ricevute o abbia agito al di fuori della propria competenza (ultra vires), purchè la condotta sia stata posta in
essere con mezzi e poteri propri della funzione pubblica. Ratio: gli Stati e citta-dini stranieri possono non
conoscere la distribuzione dei poteri fra organi di un altro Stato.

Altro caso è quello di individui formalmente privi della qualità di organo di uno Stato svolgono un ruolo
importante nell’esercizio di funzioni pubbliche, in quanto esercitano autorità o controllo sullo Stato. Le
attività poste in essere da questi, sono da attribuirsi allo Stato.

Altra categoria è quella del c.d. organi di fatto. Si tratta di individui che, sprovvisti della qualifica formale di
organi dello Stato, nei fatti agiscono per suo conto. La CIG ha parlato in questo caso di complete dependence
test.

Al di fuori di questa ipotesi, è possibile attribuire allo Stato specifiche condotte di privati se la loro condotta
è posta in essere sulla base di istruzioni ricevute dallo Stato, o sotto la sua direzione o controllo (v. esempio
pag. 350 + appunti).

Nel caso Nicaragua, per la CIG l’attribuzione ad uno Stato di atti illeciti compiuti da individui sprovvisti
della qualifica formale di organo richiede che essi abbiano agito sotto il controllo e ffettivo dello Stato, ossia
che siano stati pagati o finanziati dallo Stato, oppure che la loro condotta sia stata coordinata e diretta dallo
Stato o ancora che la singola condotta sia stata posta in essere in base a specifiche istruzioni impartite dallo
Stato.
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Nel caso Tadic (vedi), si ha un rapporto organico de facto quando singoli individui o gruppi armati non
organizzati agiscono in conformità a specifiche istruzioni impartite da uno Stato, oppure ottengono ex post
l’approvazione pubblica per la condotta tenuta, quando gruppi armati sono sottoposti all’overall control dello
Stato senza che sia necessario dimostrare che la singola attività sia stata posta in essere secondo specifiche
istruzioni dello Stato ed infine quando individui di fatto agiscono come organi dello Stato all’interno della
struttura statale. Nel caso Applicazione della Convenzione sul genocidio, la CIG ha sostenuto che
l’impostazione adottata dalla Camera d’appello dell’ICTY nel caso Tadic può servire a determinare quali
condotte individuali siano attribuibili ad uno Stato ai fini della qualificazione internazionale di un conflitto,
ma non ai fini dell’attribuzione di responsabilità, per cui il criterio da utilizzare è quello indicato dalla Corte
nel caso di specie (e nel caso Nicaragua).

La prova della responsabilità internazionale di uno Stato è chiaramente più di fficile quando gli atti illeciti
siano posti in essere da individui che non abbiano la qualifica formale di organi (vedi p. 352).

In tutti gli altri casi lo Stato non è responsabile per gli atti compiuti da privati nel proprio territorio, ad
esempio per gli attacchi contro la persona o i beni di cittadini ed organi di Stati stranieri. Tuttavia, se si
dimostra che non ha esercitato la “due diligence” (dovuta diligenza) per prevenire e reprimere tali attacchi, lo
Stato può essere chiamato a rispondere di responsabilità di tipo omissivo, avendo i suoi organi mancato di
prendere le misure necessarie a pre-venire e reprimere l’azione illecita. A tal proposito si può vedere il caso
del Personale diplomatico e consolare statunitense a Teheran, deciso dalla CIG nel 1980 (film: Argo).

 La questione della colpa

Per colpa s’intende un atteggiamento psicologico dell’agente consistente nel dolo, ossia coscienza e volontà
dell’evento seguente alla condotta, o nella colpa grave, ossia nella consapevolezza del rischio di causare
l’evento con la propria condotta. Nella giurisprudenza internazionale, la colpa è presa in considerazione solo
se lo Stato accusato di aver commesso un atto illecito si giustifica a ffermando l’assenza di colpa, ed
invocando una delle cause di esclusione dell’illecito. Gli Articoli sulla responsabilità dello Stato non
indicano la colpa come elemento costitutivo dell’illecito internazionale, anche se l’assenza di colpe
dell’agente, in certe ipotesi, può operare come circostanza di esclusione dell’illecito. Inoltre può assumere
importanza ai fini della determinazione della riparazione dovuta.

Tuttavia in due casi l’atteggiamento psicologico dell’agente costituisce elemento soggettivo indispensabile
per il sorgere della responsabilità dello Stato, ossia quando:

- uno Stato dirige e controlla un altro Stato nella commissione da parte di quest’ultimo dell’illecito; in
tal caso il primo Stato è responsabile se è a cono-scenza delle circostanze in cui è compiuto l’atto illecito;

- uno Stato costringe un altro Stato a porre in essere un comportamento illecito; anche in questo caso il
primo Stato è responsabile se è a conoscenza delle cir-costanze in cui è compiuto l’illecito.

 L’elemento oggettivo

Uno Stato è responsabile quando la sua condotta è illecita, ossia contraria ad un obbligo internazionale che
incombe allo Stato in virtù di norme o principi di diritto internazionale, quale che sia la natura dell’obbligo
violato (consuetudinaria, con-venzionale etc..). La responsabilità sorge solo se l’obbligo era in vigore quando
la condotta difforme è stata posta in essere (tempus commissi delicti). La condotta può consistere sia in
un’azione (illecito commissivo) sia in un’omissione (illecito omissivo). Gli illeciti possono avere carattere
instantaneo o continuo.

Il danno può essere di due tipi:

- materiale: pregiudizio di tipo economico o patrimoniale agli interessi di uno Stato;

- morale: pregiudizio arrecato alla dignità e all’onore di uno Stato.

Secondo gli Articoli della CDI non è necessario dimostrare che l’illecito abbia causato un danno materiale o
morale. E’ sufficiente che vi sia stata lesione di un diritto soggettivo di un altro Stato, la quale causa sempre

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un danno di tipo giuridico (legal injury) al titolare del diritto violato. Il danno dunque sarebbe sempre
inerente alla violazione di qualsiasi obbligo giuridico. In sostanza, dal punto di vista della CDI, può esservi
responsabilità internazionale anche quando il comportamento antigiuridico non abbia causato pregiudizio
morale o materiale, essendo sufficiente il danno giuridico in ogni caso derivante dalla mera violazione di un
diritto soggettivo. A tal proposito la CDI ha fatto riferimento alle norme che impongono agli Stati di adottare
determinati comportamenti nei confronti dei propri cittadini, la violazione delle quali farebbe sorgere la
responsabilità internazionale senza che nessun altro Stato abbia subito un danno materiale o morale. Il danno
materiale o morale può essere preso in considerazione quando occorra determinare modalità ed entità della
riparazione.

La posizione della CDI non convince però per due ragioni:

- perchè gli esempi forniti dalla CDI a sostegno della sua tesi fanno riferimenti alla violazione di
obblighi solidali, il cui scopo è tutelare interessi fondamentali della comunità nel suo insieme, e non quelli
degli Stati e la cui violazione, per la loro stessa natura, non arreca necessariamente danni materiali o morali
ad uno Stato, ma causa sempre una lesione giuridica dei diritti di tutti i membri della comunità inter-
nazionale;

- al di fuori dei casi relativi a violazioni di obblighi solidali, nessuno Stato ha mai in-vocato la
responsabilità senza aver subito un danno materiale o morale in conse-guenza dell’illecito. Da un esame
della prassi si può concludere che, nella maggio-ranza dei casi, uno Stato, se non è materialmente o
moralmente leso dal comporta-mento di un altro Stato, non invoca le regole internazionali sulla
responsabilità con-tro quello Stato.

In conclusione, a differenza dalla soluzione accolta dalla CDI, quella preferita richiede la sussistenza del
danno morale o materiale come necessario requisito oggettivo.

IV. LE CAUSE DI ESCLUSIONE DELL’ILLECITO

Altro elemento da considerare per accertare la responsabilità dello Stato è l’assenza di circostanze di
esclusione dell’illecito. Nel Progetto di articoli della CDI sono previste sei cause di esclusione dell’illecito:

1) consenso. Il consenso prestato da uno Stato preclude l’illiceità dell’atto compiuto da un altro Stato a
condizione che esso sia stato prestato validamente (stessi principi operanti in materia di stipulazione dei
trattati: errore, dolo, violenza…), che sia chiaramente accertato e non presunto, che promani dagli organi
statali competenti ad impegnare lo Stato a livello internazionale e che sia antecedente alla commissione
dell’atto. L’illiceità dell’atto è esclusa solo nella misura in cui siano rispettati i limiti posti dallo Stato
prestante consenso. Il consenso di uno Stato non opera come circostanza d’esclusione dell’illecito nei
confronti di un terzo Stato. Nella prassi, il consenso è stato invocato nei casi di invio di truppe straniere per
aiutare lo Stato territoriale a sedare una ribellione in atto, liberare ostaggi, o nel caso di invio di organi di
polizia all’estero per effettuare arresti

2) legittima difesa che però opera solo con riguardo alla violazione della norma in materia di divieto
della minaccia e dell’uso della forza. Legittima difesa (vedi in seguito)

3) contromisure (o rappresaglie). Le contromisure, insieme alla legittima difesa, appartengono alla


categoria delle mi-sure di autotutela che uno Stato può attuare per reagire alla presunta commissione di un
atto illecito di un altro Stato. Esse costituiscono la reazione ad atti illeciti diversi dall’attacco armato (per il
quale si usa la legittima difesa) e consistono nella viola-zione, nei confronti dello Stato accusato di aver
commesso l’illecito iniziale, di un di-ritto soggettivo di questo Stato, ma operano come causa di esclusione
dell’illecito solo se lo Stato che le pone in essere rispetta alcune condizioni.

4) forza maggiore. La forza maggiore è il “verificarsi di una forza irresistibile o di un evento impre-
visto, al di fuori dal controllo dello Stato, che rende materialmente impossibile nelle circostanze del caso
adempiere l’obbligo giuridico”. Essa non opera se causata, anche in concomitanza con altri fattori, dalla
condotta dello Stato che la invoca o lo Stato ha assunto il rischio circa il verificarsi di tale situazione di forza
maggiore. Vedi caso Rainbow Warrior: il tribunale arbitrale cui il caso fu sottoposto ha rilevato che si deve

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trattare di impossibilità assoluta e materiale e che non concreta un’ipotesi di forza maggiore l’esistenza di
circostanze che rendano l’adempimento dell’obbligo più di fficile o oneroso.

5) estremo pericolo. L’estremo pericolo (o distress) è una situazione in cui “l’autore dell’atto non ha
altro modo ragionevole, in una situazione di estremo pericolo, di salvare la propria vita o quella delle persone
affidate alle sue cure”. Esso non opera come causa di esclusione dell’illecito se la situazione è causata dalla
condotta dello Stato che l’invoca o se l’atto poteva creare un pericolo comparabile o maggiore di quello che
si intendeva evitare. Qui l’organo è consapevole del fatto di porre in essere un comportamento contrario ad
un obbligo internazionale e potrebbe anche scegliere di a ffrontare il grave pericolo per la vita e rispettare gli
obblighi internazionali. Di fatto è però una possibilità di scelta solo apparente. Secondo la CDI costituiscono
esempi di estremo pericolo l’ingresso non autorizzato di aeromobili nel territorio di uno Stato straniero per
salvare la vita dei passeggeri, o l’ingresso non autorizzato di nave militare in porto straniero a causa di una
tempesta. La CDI ha ribadito che l’estremo pericolo opera come causa di esclusione dell’illecito solo quando
sia in gioco la vita e non anche l’integrità fisica dell’organo o delle persone a ffidate alle sue cure. Ma nel
caso Rainbow Warrior il Tribunale arbitrale ha ammesso che la minaccia all’integrità fisica possa concretare
un’ipotesi di estremo pericolo ai fini dell’esclusione dell’antigiuridicità. Il Tribunale ha però ritenuto che la
Francia avesse commesso un illecito internazionale per non aver riportato il maggiore Mafart nell’isola di
Hao, una volta che le ragioni mediche erano cessate.

6) stato di necessità. Lo stato di necessità costituisce circostanza escludente l’illecito perchè esiste una
situazione di pericolo in cui ad essere in pericolo non è la vita di un organo dello Stato o individui a ffidati
alle sue cure, ma lo Stato nel suo complesso. Nel Progetto si legge: “lo stato di necessità non costituisce una
circostanza escludente l’illecito a meno che la condotta altrimenti illecita, da un lato, costituisca l’unico
modo per salvaguardare un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave ed imminente e, dall’altro,
non danneggi seriamente un interesse essenziale degli Stati tutelati dall’obbligo violato o dalla comunità
internazionale nel suo complesso.” Lo stato di necessità non opera quando l’obbligo giuridico violato esclude
la possibilità di invocarlo (es. norme di diritto internazionale umanitario che si applicano proprio in
situazioni eccezionali di pericolo per lo Stato ed i suoi interessi). Vedi caso Torrey Canyon.

L’operare delle suddette cause non preclude la corresponsione di un risarcimen-to da parte dello Stato
invocante, per ogni danno materiale eventualmente causato anche se sembra che il risarcimento non debba
sempre essere corrisposto. Si escludono ovviamente i casi della legittima difesa, delle contromisure e del
consenso.

V. IL RAPPORTO DI RESPONSABILITA’

Con la commissione di un illecito internazionale lo stato giuridico tra i due Stati cambia e lo Stato o ffensore
deve tollerare che lo Stato leso ricorra a contromisure. Per responsabilità internazionale degli Stati si intende
l’insieme degli obblighi giuridici che incombono sullo Stato autore dell’illecito e il complesso di diritti,
facoltà ed obblighi dello Stato che ha subito l’illecito.

 Gli obblighi dello Stato autore dell’illecito

Lo Stato che commette l'illecito è sottoposti ad una serie di obblighi nei confronti dello Stato leso.
Innanzitutto deve cessare il comportamento illecito e deve provvedere alla piena riparazione per i danni
causati. Se esso rifiuta di effettuare la riparazione, deve accedere in buona fede alle proposte di risoluzione
pacifica avanzate dallo Stato leso. Nel caso di danno materiale lo Stato che ha commesso il dolo deve
provvedere alla restituzione in forma specifica, sempre che quest'ultima non sia materialmente impossibile o
che comporti un onere eccessiva rispetto al vantaggio che deriverebbe dalla restituzione in luogo del
risarcimento. In quest'ultimo caso si deve procedere ad una "riparazione per equivalenza", cioè coprire anche
monetariamente i danni causati. Nel caso in cui non si riesca a risarcire interamente il danno, lo Stato autore
dell'illecito è obbligato a fornire la c.d. "soddisfazione", cioè una riparazione per danni non materiali. Questa
forma di riparazione non deve essere sproporzionata rispetto al danno subito, né assumere forme che umilino
lo Stato responsabile. La soddisfazione può consistere anche nel pagamento simbolico di una modesta

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somma di denaro. Altre somme di soddisfazione possono essere la punizione degli individui che hanno
commesso l’illecito.

 Diritti, poteri e obblighi dello Stato leso

Per Stato leso si intende qualunque Stato che, in conseguenza della violazione di un obbligo da parte di un
altro Stato, subisca la lesione del correlativo diritto soggettivo e un danno di carattere materiale o morale. È
lo Stato leso che può far valere le conseguente dell'illecito nei confronti dello Stato responsabile. La CDI
individua 3 categorie di Stato leso: 1) in caso di violazioni di norme che istituiscono rapporti basati sulla
reciprocità; 2) in caso di violazioni di norme che pongono obblighi solidali; 3) è leso lo Stato in ordine al
quale la violazione ha un'incidenza particolare. Lo Stato leso deve notificare a quello responsabile le sue
pretese, specificando la condotta che deve lo Stato deve adottare ai fini della cessazione dell'illecito e la
forma che deve assumere la riparazione.

Eventualmente vedi pagg. 361 - 365.

VI. IL RICORSO A CONTROMISURE

In seguito ad un illecito internazionale lo Stato leso può a sua volta commettere un illecito verso lo Stato
offensore attraverso le contromisure. Tuttavia sono le-gittime le contromisure solo se presentano alcuni
caratteri e sono adottate a se-guito dell'adempimento di specifici obblighi. Inoltre alcune contromisure sono
vietate.

 Presupposti, contenuto, natura e scopo

Il presupposto di legittimità di una contromisura è la commissione di un atto illecito da parte di un altro


Stato. Allo Stato leso è consentita l'adozione di contromisure, ma solo nei confronti dello Stato o ffensore e
non di Stati terzi. Circa lo scopo delle con-tromisure, in passato si avevano due opinioni di fferenti: la prima
voleva che la con-tromisura fosse necessaria per la cessazione dell'illecito e la riparazione dei danni
commessi; la seconda, invece, la intendeva in un'ottica esclusivamente riparatoria. In quest'ultimo caso è
difficile valutare la proporzionalità delle contromisure contro l'il-lecito. Infatti, per seguire questo principio
di proporzionalità, la CDI si è espressa in favore della prima ipotesi (cessazione e riparazione). Nelle
contromisure non può es-serci forte sproporzione rispetto al danno subito. Secondo la CDI le contromisure
de-vono essere proporzionate "all'offesa subita, tenendo in considerazione la gravità dell'atto illecito e i
diritti coinvolti”.

 Gli adempimenti preventivi

Lo Stato che ha subito un illecito non può ricorrere immediatamente alle contromisure. Prima deve
percorrere una serie di adempimenti preventivi. Innanzitutto deve invitare lo Stato o ffensore a cessare il suo
comportamento illecito e provvedere alla riparazione (c.d. sommation). Nel caso di inadempimento, sempre
lo Stato leso deve proporre all'offensore l'avvio di negoziati. Ciò deriva dal principio di soluzione delle
controversie per via pacifica. Solo se l'altro Stato rifiuta di intraprendere i negoziati, lo Stato leso, che reputa
che non ci siano altre soluzione per la dissoluzione della controversia, può ricorrere alle contromisure. Alcuni
trattati vietano (in modo implicito o esplicito) il ricorso alle contromisure, adottando invece un giudice
internazionale. Infine occorre precisare che negli Articoli sulla responsabilità, questi adempimenti preventivi
non trovano applicazione in relazione alle eventuali “contromisure urgenti” che lo Stato leso intenda adottare
per la preservazione immediata dei propri diritti.

 I limiti circa il contenuto

Ci sono alcuni limiti che lo Stato leso deve tenere in considerazione nel momento dell'adozione delle
contromisure. Sicuramente è vietato l'utilizzo della forza o la minaccia. Inoltre nelle contromisure non
possono essere violati obblighi in materia di diritti umani e diritto internazionale umanitario, o comunque le
regole che proteggono interessi e bisogni fondamentali degli esseri umani. Non possono, poi, essere violate
norme di jus cogens e lo Stato che sta adottando le contromisure deve comunque rispettare i propri obblighi
1) in materia di proce-dure di soluzione delle controversie applicabili nei rapporti con lo Stato o ffen-sore, 2)
in materia di inviolabilità degli agenti diplomatici.
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 La durata delle contromisure

Sospensione delle contromisure per controversie sub judice: lo Stato leso che sta adottando contromisure è
obbligato a cessarle qualora l'illecito sia stato sospeso e la controversia sia stata sottoposta ad una procedura
di regolamento arbitrale o giudiziale.

 Contromisure e ritorsioni

Le contromisure non si devono confondere con le ritorsioni che sono compor-tamenti inamichevoli (che non
violano il diritto internazionale) in conseguenza di un illecito o di un comportamento inamichevole di un
altro stato. Le ritorsioni devono rispettare due condizioni. Devono risultare proporzionali all'illecito subito e
devono cessare con il venir meno del comportamento scorretto dell'altro Stato.

CAPITOLO 16. VIOLAZIONI DI OBBLIGHI SOLIDALI E RESPONSABILITA’


INTERNAZIONALE AGGRAVATA
La prassi internazionale dimostra che, attualmente, per illeciti di norme generalmente riconosciute e di jus
cogens, ci sono dei meccanismi di risposta più importanti rispetto ad un illecito di responsabilità "ordinaria".
Si parla in questo caso di responsabilità aggravata. Tale regime di responsabilità si di fferenzia da quello
ordinario in merito ai "presupposti" del rapporto di responsabilità, ai "soggetti legittimati" ad invocare la
responsabilità (c.d. soggetti attivi) e al "contenuto" del rapporto di responsabilità. È consentito, nei casi di
aggressione e di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani, una reazione collettiva o pubblica
all’illecito (opposta alla risposta privata e bilaterale tipica del regime ordinario di responsabilità). L’emergere
nella società internazionale di valori quali la pace, i diritti umani, l’autodeterminazione dei popoli, che hanno
un significato universale e non sono derogabili dagli Stati nelle loro transazioni private.

I. I PRESUPPOSTI PER L’INSORGERE DELLA RESPONSABILITA’ AGGRAVATA

 L’elemento oggettivo

Per corrispondere ad una responsabilità aggravata l'illecito commesso da uno Stato deve entrare nel gruppo
di norme internazionali di "natura solidale", cioè quelle norme che tutelano i valori fondamentali della
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comunità internazionale (pace, diritti umani, autodeterminazione dei popoli, protezione dell’ambiente), che
vincolano tutti gli Stati. Sono diritti la cui violazione da parte di uno Stato viola simultaneamente i diritti di
tutti gli Stati. La violazione di tali obblighi può essere di diversa gravità: può essere "minoris generis" (es.
assistenza armata a gruppi insurrezionali) o una violazione grave (es. aggressione armata) e le conseguenze
possono essere diversificate.

La violazione di norme di natura solidale rende irrilevante la sussistenza del danno, il quale è requisito
fondamentale in caso di responsabilità ordinaria, che si riferisce a violazioni di norme di natura
sinallagmatica, che tutelano interessi reciproci e concreti degli Stati. Infatti la violazione di una norma in
regime di responsabilità aggravata, per sua natura, può non comportare un danno materiale o morale a un
altro Stato (anche se può succedere), ma è comunque di importanza tale da richiedere un'azione volta a
ripristinare l'ordine giuridico violato. Es. se uno Stato commette gravi e sistematiche violazioni di tali norme
nei confronti dei propri cittadini, non vi sarà un altro Stato che possa lamentarsi di aver subito un danno
materiale o morale, ma tale illecito giustificherà l’esistenza di un interesse giuridico, ledendo interessi fon-
damentali per la comunità, e dunque la pretesa di tutti gli Stati all’osservanza della norma violata.

 L’elemento soggettivo

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo dell’illecito nell’applicazione della re-sponsabilità ordinaria
normalmente non si richiede la prova dell’esistenza di una particolare attitudine mentale del soggetto agente.
Le cose stanno diversamente nel caso della responsabilità aggravata. Per l’applicazione di tale regime
occorre di-mostrare che lo Stato abbia agito dolosamente o per colpa grave. Secondo un primo orientamento,
a tale scopo, si indaga sull’atteggiamento dell’individuo che, materialmente, abbia tenuto il comportamento
per conto dello Stato. Questa soluzione è difficoltosa però nel caso di illeciti a partecipazione di ffusa (es.
genocidio). Se si segue l’impostazione secondo la quale l’attitudine psicologica dello Stato coincide con
quella dell’individuo che pone in essere le condotte vietate, si potrebbe arrivare a ritenere che uno Stato sia
responsabile di genocidio per il sol fatto che uno solo dei suoi organi (de iure o de facto) attraverso la sua
condotta intendesse distruggere in tutto o in parte un gruppo protetto (vedi Bosnia vs. Serbia). Non sarebbe
possibile dimostrare che tutti gli individui abbiano agito con attitudine specifica del genocidio.

Appare quindi preferibile seguire un altro orientamento (seguito dalla Commissione d’inchiesta sul Darfur),
muovendo dal presupposto che lo Stato possa essere portatore di una volontà che si identifica soltanto con
quella dei suoi organi supremi. Non si può negare la responsabilità di uno Stato per genocidio se i suoi organi
supremi politici e militari abbiano pianificato la commissione di tale illecito. In assenza di prove dirette, è
possibile comunque desumere l’esistenza del dolo da elementi di fatto, che siano idonei ad accertare le
finalità generali dei vertici dello Stato nel tollerare, istigare, organizzare le violenze contro determinati
gruppi.

 L’inoperatività delle cause di esclusione dell’illecito e l’uso legittimo della forza armata

Nel caso di responsabilità aggravata non sussistono le circostanze di esclusione dell'illiceità come per la
responsabilità ordinaria, in ragione del fatto che le norme in questione tutelano valori fondamentali per la
società internazionale nel suo insieme. Vi sono solo due eccezioni per quanto riguarda la minaccia e l’uso
della forza nelle relazioni internazionali: la "legittima difesa" e l'"autorizzazione da parte del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU". Il diritto di ricorso alla legittima difesa individuale o collettiva è infatti espressamente
riconosciuto dalla Carta dell’ONU (ex art. 51). Tuttavia, la legittima difesa esclude l’illiceità del ricorso alla
forza soltanto se si realizzano alcune condi-zioni. L’eccezione dell’uso delle forza autorizzato dal CdS si è
formata in con-seguenza della mancata costituzione dell’esercito delle Nazioni Unite e all’impossibilità per il
CdS di intraprendere direttamente le azioni militari ex art. 42 della Carta.

II. IL RAPPORTO DI RESPONSABILITA’ AGGRAVATA

Le differenze tra responsabilità aggravata e ordinaria stanno anche nei soggetti attivi (cioè coloro che
possono invocare l'illecito) e il contenuto del rapporto di responsabilità.

 I soggetti legittimati ad invocare la responsabilità aggravata


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Nel caso di responsabilità aggravata tutti gli Stati possono in qualunque momento e senza aver subito danni,
invocare la violazione di una norma consuetudinaria internazionale. I diritti, poteri ed obblighi degli Stati
legittimati ad invocare la responsabilità aggravata, però, variano secondo la gravità della violazione.

 Gli obblighi dello Stato autore dell’illecito

Lo Stato che ha commesso un illecito in responsabilità aggravata deve, come per la responsabilità ordinaria,
cessare l'illecito, offrire assicurazioni e garanzie di non ripetizione e riparazione del danno. I soggetti a cui
sono rivolti questi obblighi sono tutti gli Stati e non solo uno, anche se nel caso di danno materiale ad un solo
Stato, questo può richiedere un risarcimento in forma bilaterale.

 Diritti e poteri degli altri Stati

Gli Stati diversi da quello che commette l'illecito hanno il potere di richiedere la ces-sazione dell'illecito e le
garanzie e assicurazione che tale illecito non si riverifichi. Nell'ipotesi in cui l'illecito abbia causato danni ad
un determinato Stato, ogni Stato è legittimato a chiedere la cessazione dell'illecito e il risarcimento del danno
subito verso quello Stato. Nel caso in cui, invece, non ci sono Stati che hanno subito danni, gli altri Stati
possono chiedere la riparazione a beneficio degli individui che hanno subito le conseguenze sfavorevoli
dell'illecito. Se il com-portamento illecito non cessa, gli altri Stati possono rivolgersi alle organizzazioni in-
ternazionali competenti, sia di carattere universale (NU), sia regionali. Quando la reazione ha carattere grave
e sistematico, gli altri Stati devono adempiere alcuni ob-blighi specifici: 1) non devono riconoscere come
legittima la situazione creata dall'il-lecito; 2) non devono prestare aiuto o assistenza allo Stato responsabile ai
fini del mantenimento della situazione discendente dall'illecito; 3) devono cooperare nella misura possibile ai
fini della cessazione dell’illecito.

III. LA REAZIONE PUBBLICA E COLLETTIVA: L’ADOZIONE DI SAN-ZIONI

A seguito di violazioni di norme consuetudinarie internazionali, il CdS dell'ONU può decidere di adottare
sanzioni di tipo economico (e non). In questo caso gli Stati possono violare obblighi giuridici derivanti da un
trattato, o adottare comportamenti leciti, ma di natura inamichevole. Lo scopo di tale sanzione è di
costringere lo Stato offensore a cessare il comportamento illecito; in nessun caso devono essere utilizzate
come strumento per conseguire vantaggi politici o diplomatici. Questo tipo di sanzione non vuole solo
danneggiare in campo eco-nomico lo Stato o ffensore, ma vuole anche riunire gli Stati in un'azione di pub-
blica delegittimazione dello Stato accusato.

 Presupposti dell’azione del CdS e violazione di obblighi solidali

Il CdS è un organo politico cui la Carta delle Nazioni Unite a ffida la responsabi-lità principale del
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Esso ha il compito di raccomandare e decidere le
misure che debbono essere adottate in presenza di tre situazioni: minaccia della pace, violazione della pace e
atti di aggressione. Nel sistema della Carta non esistono organi con la competenza di accertare la legittimità
delle delibere adottate ai sensi della Carta. Questo perché gli Stati intendevano garantirsi un'ampia possibilità
di azione attraverso il CdS. E comunque tutte le delibere del CdS, oltre a raggiungere la maggioranza
richiesta, possono essere bloccate dall'esercizio del c.d. diritto di veto (voto negativo da parte di uno dei
membri permanenti).

Negli anni il CdS ha ritenuto che potessero concretare un’ipotesi di minaccia alla pace le più svariate
situazioni: violazione generalizzata dei diritti umani, atti di terrorismo internazionale. In queste situazioni il
CdS può organizzare la risposta pubblica e collettiva alla violazione di norme che tutelano interessi
fondamentali della società internazionale, e dunque le misure da esso adottate diventano strumento di
garanzia di queste norme.

 L’adozione di sanzioni

Accertata l'esistenza di una delle tre cause di intervento del CdS, questo può inter-venire adottando misure
non implicanti l'uso della forza, le c.d. sanzioni. Meno forza coercitiva ha una sanzione e più spesso viene
utilizzata. Questo per evitare che i 5 membri permanenti del CdS siano tra loro in dissenso, infatti, sono state
pensate forme di condanna o pressione blande, che servono per lo più ad esprimere il dissenso da parte della
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comunità internazionale. Inoltre, tali misure hanno diversa e fficacia a seconda del sostegno che
concretamente ricevono dagli Stati, per il semplice fatto che possono essere attuate, spesso, solo per il
tramite di apparati statali. Negli ultimi anni, con il terrorismo internazionale il CdS ha deciso spesso di non
adottare misure sanzionatorie nei confronti di interi Stati (poiché potevano causare gravi danni alla
popolazione innocente), ma di utilizzare "sanzioni intelligenti" ("smart sanctions”) consistenti ad esempio
nelle misure di confisca o congelamento dei beni di proprietà di tali individui o gruppi, e che eventualmente
siano situati nel territorio degli Stati destinatari della delibera del CdS, oppure sono misure con le quali il
CdS imponga agli Stati di impedire l’ingresso, nel loro territorio, degli individui in questione, e così via. Vedi
pag. 383.

IV. IL RICORSO ALLA FORZA ARMATA IN LEGITTIMA DIFESA

In casi eccezionali previsti nella Carta delle NU è previsto il ricorso alla forza armata per la cessazione della
violazione di una norma, in deroga al divieto della minaccia e dell’uso della forza codificato ex art. 2 par. 4
della Carta ONU. Nel caso in cui uno Stato aggredisca militarmente un altro Stato, questo secondo può a sua
volta difendersi con la forza e gli altri Stati possono accorrere in suo aiuto. Tale diritto è contemplato ex art.
51 come un diritto naturale (“inherent”) che spetta ad ogni Stato nel caso in cui abbia luogo un attacco
armato, fintantoché il CdS non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale. Nel caso Nicaragua, la CIG ha osservato che l’azione in legittima difesa autorizza solo
l’adozione di misure proporzionali all’attacco armato che siano necessarie per respingere l’attacco. Ne
discende che:

- la vittima non deve occupare il territorio dell’aggressore, purché questo non sia strettamente
necessario per bloccarlo;

- l’azione deve cessare appena interviene il CdS con misure e fficaci;

- l’azione deve cessare quando abbia raggiunto il suo obiettivo: respingere l’attacco armato.

Non sono quindi autorizzate azioni militari prive di uno scopo difensivo e che non mirino unicamente a
respingere l’attacco, ad es. l’occupazione militare prolungata e l’annessione del territorio dell’aggressore a
quello della vittima.

 La nozione di attacco armato

Quali forme di uso della forza armata concretano un atto di aggressione? Costi-tuiscono atti di aggressione le
seguenti fattispecie:

1) invasione o attacco armato del territorio di un altro Stato o l'occupazione militare, o ogni annessione del
territorio con l'uso della forza;

2) il bombardamento da parte delle forze armate di uno Stato, nel territorio di un altro Stato;

3) il blocco navale dei porti e delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato;

4) l'attacco contro il territorio, il mare territoriale o le forze aerei o navali di un altro Stato;

5)l'uso delle forze armate di uno Stato dislocate nel territorio di un altro Stato in virtù di un accordo con lo
Stato ricevitore;

6)il fatto che uno Stato acconsenta all'utilizzazione del proprio territorio per perpetrare atti di aggressione
contro uno Stato terzo;

7) l'invio di bande armate, gruppi irregolari o mercenari che compiono azioni armate contro un altro Stato.

Non è chiaro se la legittima difesa sia ammissibile in caso di aggressione armata c.d. indiretta, cioè quando
uno Stato organizza, assiste, incita, finanzia, istiga o tollera attività sovversive dirette contro un altro Stato.
Vedi es. pag. 385 - 386.

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 La legittima difesa preventiva

Nell'epoca moderna è cruciale rispondere a questa domanda . Argomentazione meta-giuridica a favore: in


un’era di missili e armi nucleari, nonché di metodi di spionaggio elettronico sofisticati, sarebbe ingenuo
affermare che uno Stato debba attendere di essere attaccato da un altro paese. L’esame della prassi però non
consente di afferma-re che nella società odierna si sia a ffermata l’idea che la legittima difesa possa giusti-
ficare reazioni in legittima difesa per prevenire possibili, e solo paventati, attacchi armati (c.d. preventive self
- defence). Altra è la questione del ricorso alla legittima difesa per respingere un attacco sicuramente
imminente, ma non ancora sferrato (c.d. anticipatory self - defence). In realtà sarebbe più opportuno che gli
attacchi preventivi rimanessero vietati poiché sono suscettibili di con-durre facilmente ad abusi, basandosi su
una valutazione unilaterale necessaria-mente soggettiva e arbitraria.

Nel caso di anticipatory self - defence sembra corretto considerare tali azioni non consentite sotto il profilo
giuridico ma tuttavia giustificabili, in particolare quando lo Stato fornisce le prove dell’esistenza di un
attacco imminente.

 La legittima difesa collettiva

Ogni Stato può ricorrere all'uso della forza per soccorrere uno Stato vittima di un attacco armato. E’ però
necessario un precedente vincolo, ad es. un trattato di alleanza difensiva, tra i due Stati interessati, oppure
un’esplicita richiesta o il previo consenso dello Stato attaccato. Spetta a questi inoltre accertare di aver
effettivamente subito un attacco armato. Questo è quanto a ffermato dalla CIG nel caso Nicaragua.

Ad oggi la legittima difesa collettiva è stata invocata nei seguenti casi:

- USA a sostegno del Vietnam del Sud (1966)

- UK a sostegno della Federazione dell’Arabia del Sud vs. Yemen (1964)

- URSS a sostegno della Cecoslovacchia (1968) e dell’Afghanistan (1979)

- a seguito dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq (1990)

- UK a sostegno degli USA in occasione dell’attacco all’Afghanistan seguente all’11 Settembre

Una spiegazione della relativa scarsezza di esempi di legittima difesa collettiva, può ravvisarsi nella tendenza
degli Stati, ad evitare, per quanto possibile, di far-si coinvolgere in conflitti armati internazionali e a limitarsi
a sostenere una delle parti al conflitto attraverso l’invio di armi, munizioni ed altri aiuti militari.

V. L’USO DELLA FORZA ARMATA AUTORIZZATO DAL CDS

L'esercito delle Nazioni Unite non è mai stato istituito, così il CdS può solo autorizzare gli Stati ad usare la
forza armata. Il CdS ha, inoltre, gradualmente operato un collegamento tra crisi umanitarie e situazioni di
minaccia della pace (per poter agire); ha quindi autorizzato gli Stati all'utilizzo della forza armata anche al
fine di garantire un ambiente sicuro per lo svolgimento di missioni umanitarie, c.d. prassi
dell’autorizzazione, che ha avuto inizio nel 1950. In quell’anno, approfittando dell’USA in seno al CdS
(l’URSS protestava per il fatto che la Cina fosse ancora rappresentata dal governo nazionalista e non dal
governo di Pechino e si rifiutò di prendere parte ai lavori di qualsiasi organo in cui fosse presente il
rappresentante del governo di Taiwan), il CdS autorizzò gli Stati membri sotto il comando USA ad aiutare la
Corea del Sud a respingere l’aggressione da parte della Corea del Nord, consentendo la bandiera ONU nel
corso delle operazioni. Decisione simile fu presa nel 1990 per respingere l’aggressione irachena del Kuwait.

In altri casi il CdS ha autorizzato il ricorso alla forza per garantire il rispetto delle sanzioni economiche da
esso precedentemente deliberate.

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Il CdS ha interpretato in maniera assai ampia la nozione di minaccia alla pace contenuta nell’art. 39 della
Carta ONU, includendovi anche le emergenze uma-nitarie all’interno di un solo Stato, in passato ritenute
rientranti nel c.d. dominio riservato. Il CdS ha quindi autorizzato gli Stati membri ad utilizzare la forza
armata anche al fine di garantire un ambiente sicuro per lo svolgimento di mis-sioni umanitarie.

Recentemente il CdS ha usato il concetto di “responsibility to protect” (R2P o RtoP) nell’autorizzare il


ricorso alla forza armata da parte degli Stati. Nel Feb-braio 2011 il CdS aveva autorizzato gli Stati membri a
prendere tutte le misure necessarie per proteggere i civili dalle violente misure repressive attuate in Li-bia dal
colonnello Gheddafi. La nozione in questione sembra aver giustificato così la decisione del CdS di
autorizzare all’uso della forza, nel caso in cui lo Stato manchi di adempiere al suo dovere di proteggere i
civili dalle gravi viola-zioni dei diritti umani. La prassi dell’autorizzazione all’uso della forza da parte degli
Stati è ritenuta oggi conforme allo spirito del cap. VII della Carta.

A differenza delle autorizzazioni agli Stati come singoli ad usare la forza armata, la Carta contempla
espressamente la possibilità che il CdS autorizzi accordi o organizzazioni regionali, le cui attività siano
conformi a fini e principi ONU, ad intraprendere azioni coercitive. Il CdS può inoltre utilizzare tali accordi
ed organizzazioni per azioni coercitive sotto la sua direzione, cosa che non è mai successa.

VI. LE OPERAZIONI DI PEACE - KEEPING DELL’ONU

Nel 1956 con la temporanea convergenza di USA e URSS sono state istituite delle forze di peace-keeping (i
caschi blu), utilizzate per la prima volta per redimere i con-flitti della crisi di Suez in cui avevano il compito
di garantire la cessazione delle ostilità fra le parti in lotta ed il ritiro di Francia, UK e Israele dal territorio
egiziano, pro-cedendo poi ad operare come forza cuscinetto tra Egitto ed Israele. In quell'occasione tali forze
erano riunite per la prima volta nell'UNEF (Forza di emergenza delle Nazioni Unite).

Le forze in questione

- sono composte da personale militare messo a disposizione dagli Stati membri dell'ONU e sono
dislocate in aree di crisi con il consenso dello Stato ospitan-te;

- sono sotto il diretto controllo del CdS, anche se in alcuni casi può intervenire l'AG. La direzione
esecutiva e il comando sono attribuibili al Segretario Ge-nerale. Il comando logistico è del capo della
missione;

- non hanno il potere di coercizione, ma possono ricorrere alle armi sono in legittima difesa e devono
sempre agire in maniera neutrale e imparziale;

- sono finanziate attraverso il bilancio ordinario dell’ONU e sono ripartite ob-bligatoriamente


dall’AG. A causa dei loro costi l’AG ha in certi casi istituito un fondo speciale, finanziato da contributi
volontari degli Stati membri.

Oltre alla tradizionale attività, le forze di peace - keeping hanno iniziato a svolgere una varietà di compiti,
specialmente dal post - guerra fredda. Molte delle forze di peace - keeping agiscono in legittima difesa, ma vi
sono eccezioni in cui è stato assegnato ad esse il compito di attuazione coercitiva della pace. Si parla in
questo caso di peace - enforcing. L’operazione ONU in Congo (ONUC) per prevenire la guerra civile e
consentire l’arresto e la detenzione del personale militare e paramilitare straniero e dei mercenari ne è il
primo esempio. Lo stesso è accaduto in Somalia (UNOSOM), in Bosnia - Erzegovina (UNPROFOR).

La tendenza ad attribuire alle forze dell’ONU compiti di peace – enforcement è stata molto criticata. Oggi
comunque il CdS preferisce autorizzare diretta-mente gli Stati a compiere azioni armate per il conseguimento
dei fini prefissati.

Questo sistema non è previsto nella Carta.

VII. I DIRITTI E I POTERI DEGLI STATI IN CASO DI INERZIA DEL CDS

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Qualora di fronte alla violazione di una norma di natura solidale il CdS non adottasse alcuna misura, gli Stati
possono portare la questione ad altri organi competenti come l’AG od altre organizzazioni internazionali
competenti, che potranno esercitare una forte pressione nei confronti dello Stato autore dell’illecito per
indurlo a cessare la violazione e a riparare i danni causati. In varie occasioni gli Stati hanno riconosciuto che
la condanna pubblica di certi comportamenti costituisce un mezzo e fficace di pressione. Naturalmente, lo
Stato interessato può ignorare le condanne. Questa tipologia di misure può però essere apprezzata nel lungo
termine. Sembra che gli Stati infatti cerchino di evitare censure pubbliche e tendono ad evitare di essere
destinatari di ripetute condanne morali.

Tuttavia, quando l'illecito ha carattere grave e sistematico (es. aggressione armata, genocidio, apartheid) gli
altri Stati hanno degli obblighi precisi (in caso di responsa-bilità aggravata), come l'adozione di contromisure
pacifiche a carattere individuale o nell’ambito di organizzazioni internazionali competenti (es. UE). Se più
Stati agiscono in maniera individuale c'è bisogno di un coordinamento. Non è possibile invece per gli Stati,
in caso di inerzia del CdS, agire con la forza armata (con l’eccezione della legittima difesa) nei casi di
violazioni gravi e sistematiche di norme poste a tutela degli interessi fondamentali della società
internazionale nel suo complesso, neanche in presenza di violazioni massicce dei diritti umani.

Il diritto di intervento armato a scopi umanitari in assenza di autorizzazione del CdS è stato invocato da
alcuni Stati membri della NATO (es. Italia) quando a seguito dei massacri in Kosovo per mano della ex
Jugoslavia la NATO ha reagi-to usando la forza militare senza che vi fosse la previa autorizzazione del CdS.
L’azione della NATO è stata considerata illecita perché contraria alla Carta ONU. Dall’esame della prassi si
evince che non si è cristallizzata una norma consuetudinaria che autorizzi gli Stati ad intraprendere
unilateralmente azioni armate per indurre uno Stato a cessare delle violazioni.

VIII . LA RESPONSABILITA’ AGGRAVATA NEGLI ARTICOLI DELLA COMMISSIONE


DI DIRITTO INTERNAZIONALE

Vedi sul manuale.

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