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Diritto internazionale pubblico


I SOGGETTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE: LO STATO
1. Lo Stato come protagonista della societ internazionale e soggetto di diritto
internazionale.
Gli Stati sono i soggetti tipici del diritto internazionale.
La formazione di uno Stato un fenomeno essenzialmente politico e pre-giuridco, che si verifica
quando si afferma di fatto e stabilmente nel mondo delle relazioni internazionali unautorit politica
sovrana e indipendente, entro una determinata sfera territoriale e sociale.
2. Il concetto di Stato ai fini del diritto internazionale.
Due sono le nozioni di Stato che assumono rilievo ai nostri fini. Secondo una prima accezione, lo Stato
inteso come il governo, ossia il complesso delle autorit che esercitano il potere politico nell'ambito di
ciascuna comunit.
In una seconda accezione, invece, per Stato si intende la stessa comunit degli uomini, il popolo che si
organizza politicamente entro un territorio definito. Di modo che per Stato si intende la sintesi di un
insieme di elementi eterogenei, tra i quali emergono il popolo, il territorio e il governo.
Ma, ai nostri fini, assume un maggiore rilievo la prima accezione di Stato.
3. Il riconoscimento e la soggettivit internazionale dello Stato.
Il riconoscimento pu definirsi l'atto con cui uno Stato ammette che un determinato ente presenta le
caratteristiche necessarie perch lo si possa considerare come Stato, nel senso di soggetto del diritto
internazionale. Si ritiene poi equivalente al riconoscimento il voto a favore dell'ammissione di un nuovo
Stato alle Nazioni Unite.
Tuttavia, occorre rilevare che il riconoscimento non ha natura costitutiva, e che, pertanto, da esso non
dipende la qualit di soggetto internazionale. Tale idea trova innumerevoli conferme nella pratica
internazionale, oltre che nella dottrina prevalente, la quale, sia pure con varie sfumature di pensiero,
concorda sulla natura politica e dichiarativa del riconoscimento.
A tale proposito, lInstitut de Droit International, nell'art. 1 della risoluzione consacrata al riconoscimento
dei nuovi Stati e dei nuovi governi, afferma: Il riconoscimento di uno Stato nuovo l'atto libero
attraverso il quale uno o pi Stati costatano l'esistenza su di un determinato territorio di una societ
umana politicamente organizzata, indipendente da ogni altro Stato esistente, in grado di osservare le
prescrizioni del diritto internazionale, e manifestano di conseguenza la loro volont di considerarla
membro della comunit internazionale. Il riconoscimento ha un effetto dichiarativo. L'esistenza del
nuovo Stato, con tutti gli effetti giuridici che si ricollegano a tale esistenza, non influenzata dal rifiuto
di uno o pi Stati di riconoscerlo.
Alcuni aspetti della pratica recente, paiono in definitiva confermare il fine eminentemente politico del
riconoscimento. Ci si riferisce in particolare alla dichiarazione adottata il 16 dicembre 1991 dai ministri
degli esteri degli (allora) dodici Stati membri della Comunit europea. In tale dichiarazione si adottano
linee guida indicanti che, per ottenere il riconoscimento della Comunit europea e dei suoi Stati
membri, uno stato candidato a tale riconoscimento deve, tra l'altro: rispettare le disposizioni
concernenti lo Stato di diritto, alla democrazia e ai diritti dell'uomo; garantire i diritti dei gruppi etnici e
nazionali e delle minoranze; rispettare l'inviolabilit di tutte le frontiere. All'atto pratico, dunque, il
riconoscimento proposto come premio per ottenere un certo comportamento a livello interno o
internazionale da parte del nuovo Stato.
4. Segue: la soggettivit dello Stato come qualit conferita da un'apposita regola
internazionale generale.
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Relativamente alla determinazione della fattispecie (o del presupposto di fatto) della regola generale da
cui dipenderebbe l'attribuzione o il venir meno della personalit internazionale degli Stati, la dottrina
che segue l'indirizzo ora in esame si attiene per lo pi alla descrizione degli elementi correntemente
ritenuti tipici dello Stato anche come protagonista della vita di relazione internazionale, vale a dire il
governo, il popolo e il territorio. Secondo il diritto internazionale, uno Stato un ente che ha un
territorio definito e una popolazione permanente, sotto il controllo del suo proprio governo, e che si
impegna o ha la capacit di impegnarsi in relazioni formali con altri simili enti.
5. Gli enti dipendenti da uno Stato.
Si pone in alcuni casi il problema di uneventuale soggettivit internazionale di enti che, pur esercitando
funzioni di governo, si trovino nello stesso tempo in una posizione di subordinazione rispetto a un
altro Stato.
Una tipica situazione al riguardo quella degli enti territoriali membri di un'unione federale nei rapporti
con lo Stato federale. soltanto nella misura in cui gli Stati membri di uno Stato federale partecipino
direttamente, e autonomamente rispetto all'autorit federale, alla vita di relazione internazionale che di
essi si potr parlare come di destinatari di regole internazionali generali aventi a oggetto le attivit
interne ed esterne nell'esercizio delle quali la loro autorit non risulti in fatto limitata.
In questo senso non possono considerarsi soggetti di diritto internazionale gli Stati membri degli Stati
Uniti d'America. Infatti, nel 1999, chiamata a indicare misure cautelari nei confronti degli Stati Uniti
consistenti nel fermare l'esecuzione di due cittadini tedeschi condannati a morte dalle autorit
giudiziarie dellArizona, la Corte internazionale di giustizia afferm tra l'altro: uno Stato risponde
internazionalmente per l'azione degli organi e autorit competenti che agiscono in seno a tale stato,
quali che essi siano. Pertanto il governatore dellArizona aveva l'obbligo di agire conformemente agli
impegni internazionali degli Stati Uniti.
Una soggettivit internazionale, in quanto Stati, va invece attribuita ai cc.dd. micro-Stati, qualora, pur
nell'esiguit della loro dimensione territoriale e del numero dei loro abitanti, mantengano la loro
indipendenza e non si trovino in situazioni di subordinazione formale rispetto ad alcun altro
ordinamento statale. Va rilevato che ormai anche i pi piccoli Stati (ricordiamo in particolare a San
Marino, Monaco, il Liechtenstein) oltre ad altri sorti da fenomeni di decolonizzazione, sono divenuti
membri delle Nazioni Unite.
6. I mutamenti rivoluzionari nel governo di uno Stato.
Il quadro della moderna societ internazionale stato sin dalle origini in vivace movimento per quel che
riguarda il numero e l'individualit dei protagonisti della sua vita di relazione. Le trasformazioni di cui si
parla possono sollevare nella vita internazionale delicate questioni in ordine alla continuit o meno dei
rapporti giuridici, soprattutto dei rapporti giuridici pattizi, che legavano ad altri stati gli Stati coinvolti
nelle trasformazioni stesse, anteriormente al loro prodursi.
Secondo diversi studiosi, infatti, la continuit nei rapporti giuridici tra Stati dipenderebbe, in tutto un
insieme di situazioni, dalla stessa regola generale che provvederebbe a determinare chi sono i soggetti di
diritto internazionale e a quali condizioni tale qualit viene in essere o si estingue. Il diritto
internazionale generale, in altre parole, determinerebbe anche a quali condizioni un soggetto, in
particolare uno Stato, debba considerarsi giuridicamente identico a quello che era prima, nonostante gli
eventi interni o esterni intervenuti nel frattempo.
L'enunciazione pi nota della regola in tema di continuit dei rapporti giuridici deriva da un protocollo
firmato il 19 febbraio 1831 dai plenipotenziari delle maggiori potenze europee, riuniti a Londra per
discutere della crisi del Belgio. Pur se in forma alquanto enfatica, nel protocollo si affermava che
secondo un principio d'ordine superiore, i trattati non perdono la loro forza, quali che siano i
mutamenti intervenuti nell'organizzazione interna dei popoli e che i mutamenti verificatisi nella
situazione di uno Stato non l'autorizzano a ritenersi sciolto dai suoi impegni anteriori. Questa
massima si ricollega al principio per cui gli Stati sopravvivono ai loro governi, e gli impegni
imprescrittibili dei trattati a coloro che li hanno assunti.
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In definitiva, dunque, nonostante alcune prese di posizione contrarie, l'esistenza di una regola generale
statuente la continuit nei rapporti giuridici internazionali, in caso di mutamenti rivoluzionari
intervenuti nella struttura politico-istituzionale dello Stato, avvalorata da numerosi dati della prassi,
con lavvertenza che tale regola va coordinata con altre regole generali di cui ricorra lapplicazione nel
caso concreto, ad esempio con la regola che prevede lestinzione dei trattati per effetto del mutamento
fondamentale delle circostanze.
7. I mutamenti nel territorio degli Stati.
Ancora pi complessi sono i problemi in tema di continuit dei rapporti giuridici internazionali, qualora
intervengano mutamenti nel territorio degli Stati.
Si ha il trasferimento di una parte del territorio di uno Stato a un altro quando il mutamento
territoriale incide solo marginalmente nella consistenza complessiva degli Stati in questione, che
conservano la loro preesistente identit, che pi estesi o, viceversa, pi ristretti territorialmente. Esempi
possono essere la cessione dell'Alaska da parte della Russia agli Stati Uniti, avvenuta nel 1867 per il
corrispettivo di $ 7.200.000.
L'unificazione (o fusione) di Stati comporta l'unione di due o pi Stati preesistenti, che si estinguono,
e la formazione di uno Stato nuovo, che spesso assume i caratteri di uno Stato federale. Un recente caso
di unificazione il nuovo Stato della Repubblica Yemenita, costituitosi nel 1990 a seguito dell'unione
della Repubblica araba dello Yemen (o Yemen del Nord) e della Repubblica popolare democratica dello
Yemen (o Yemen del Sud).
L'incorporazione (o annessione) comporta l'estensione dell'autorit di uno Stato preesistente al
territorio di un altro Stato, che si estingue. I casi del passato comportarono spesso l'uso della forza e
sono comunemente indicati con il termine annessione. Questo fenomeno si produsse, ad esempio, nel
1936 col annessione dell'Etiopia da parte dell'Italia e nel 1937 con lAnschluss dell'Austria da parte della
Germania. Nel secolo scorso, la formazione dell'Italia probabilmente da configurarsi come annessione
da parte della Sardegna degli Stati pre-unitari esistenti nella penisola. Ma l'esempio pi recente di
incorporazione stato il frutto di un'evoluzione pacifica ed rappresentato dal trattato di unificazione
firmato a Berlino il 31 agosto 1990, ed entrato in vigore il 30 ottobre dello stesso anno dalla Germania
Democratica e dalla Germania Federale, a seguito del quale cinque nuovi Lander (gi costituenti la
Germania Democratica) vengono ad aggiungersi agli undici Lander costituenti la Germania Federale.
La dissoluzione (o smembramento) comporta l'estinzione di uno Stato preesistente e la formazione di
due o pi Stati nuovi. Ne sono classici esempi le estinzioni dell'Impero Austro-Ungarico e dell'impero
Ottomano a seguito del conflitto mondiale 1914-1918 e dell'estinzione del Reich germanico nel 1945,
con la successiva formazione in una parte importante del suo antico territorio di due Stati separati, la
Repubblica federale di Germania e la Repubblica democratica tedesca. Un caso recente quello della
dissoluzione della Cecoslovacchia avvenuta il 31 dicembre 1992, con la Cost. della Repubblica Ceca e
della Repubblica Slovacca.
La separazione (o secessione) comporta il distacco di una parte o di parti del territorio di uno Stato
preesistente, che permane, e la formazione di uno Stato nuovo o di pi Stati nuovi. Di essa, che pu
avvenire con procedimenti pacifici o con procedimenti violenti, sono esempi: la secessione, nell'ultimo
quarto del XVII secolo, dall'Inghilterra delle sue colonie dell'America settentrionale e la formazione
degli Stati Uniti; la secessione dell'Islanda dalla Danimarca nel 1940.
I due recenti casi del venir meno dell'Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche e della Repubblica
federativa socialista di Jugoslavia alla fine del 1991 presentano caratteristiche che possono far dubitare
se si tratti di casi di dissoluzione o di separazione. In entrambi i casi una pluralit di Stati esercita ormai
la sovranit su quello che era il territorio di un unico Stato. In entrambi i casi, nessuno di tali Stati ha
mantenuto il regime politico e la denominazione dello Stato unitario preesistente. In entrambi i casi,
infine, uno di tali Stati, ovvero, rispettivamente, la Federazione Russa e la Repubblica federale di
Jugoslavia (Serbia e Montenegro), ha avanzato pretese di essere il continuatore dello Stato preesistente.
Nel primo caso, nonostante che accordi del 1992 con gli altri Stati sorti sul territorio dell'Urss,
affermassero che l'Urss come soggetto di diritto internazionale e come realt geopolitica non esiste
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pi, la Federazione Russa considerata dagli altri Stati venutisi a formare sul territorio dell'ex Unione
Sovietica ed anche dagli altri Stati (come sembra confermare quanto avvenuto in seno alle Nazioni
Unite, ove la Federazione Russa ha sostituito l'Unione Sovietica, anche nel seggio permanente in
Consiglio di Sicurezza senza suscitare seria opposizione). Nel secondo caso, la pretesa di continuit
rispetto alla Repubblica federativa socialista di Jugoslavia della Repubblica federativa di Jugoslavia
(Serbia e Montenegro) ha incontrato la ferma opposizione delle altre Repubbliche sorte sul territorio
dell'ex Jugoslavia e di altri Stati, e una soluzione confusa in seno alle Nazioni Unite. Dopo il mutamento
politico seguito alla caduta del regime di Slobodan Milosevic, la stessa Repubblica federale di Jugoslavia
(Serbia e Montenegro) si era allineata alla tesi dello smembramento, presentando domanda, accolta
unanimemente il 10 novembre 2000, di ammissione alle Nazioni Unite. La Jugoslavia ha confermato
tale sua nuova posizione chiedendo la revisione giustificata a suo dire per il fatto che l'ammissione alle
Nazioni Unite ne confermava la qualit di Stato nuovo rispetto alla Repubblica federativa socialista di
Jugoslavia della sentenza sulle eccezioni preliminari della Corte internazionale di giustizia dell'11 luglio
1996 sul caso dell'applicazione della Convenzione sul crimine di genocidio. La Corte, con sentenza del 3 febbraio
2003, respinse l'istanza di revisione, evitando per di pronunciarsi sul se la Repubblica federale di
Jugoslavia sia o meno (al di fuori del sistema delle Nazioni Unite) uno Stato nuovo o se lo fosse tra il
1992 e il 2000, sostenendo che in tale periodo la sua situazione giuridica rimaneva complessa.
I SOGGETTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE: LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
1. Organizzazione giuridica e organizzazioni istituzionale della cooperazione tra Stati.
Bench gli Stati restino senza dubbio la componente essenziale della moderna societ internazionale, in
essa sono presenti e operano strutture istituzionali, usualmente denominate nella pratica e nella dottrina
organizzazioni internazionali o organizzazioni intergovernative. Mentre in passato si trattava per
di un'organizzazione prevalentemente giuridica, i fenomeni odierni concernono un'organizzazione
istituzionale della cooperazione internazionale.
Per alcuni secoli, invero, la cooperazione tra Stati fu attuata attraverso la conclusione, per il tramite dei
normali canali diplomatici, di trattati fra Stati. Si tratt, alle origini, di accordi bilaterali, nel cui testo
venivano fissati gli impegni, normalmente reciproci, che uno Stato volontariamente assumeva nei
confronti di un altro. Persino i grandi trattati di pace conclusi al termine di guerre che avevano visto
impegnati come belligeranti una molteplicit di Stati, a cominciare dai trattati di pace di Westfalia del
1648, vennero concepiti non come un unico atto internazionale, ma come un fascio di accordi bilaterali
paralleli tra le diverse coppie di Stati che avevano partecipato alla guerra in campi opposti.
La cooperazione intergovernativa risulta oggi perseguita in forme diverse e pi complesse. Infatti, in
numerosi trattati internazionali, per lo pi multilaterali, conclusi soprattutto in questo secolo, i governi
contraenti non si sono limitati ad assumere impegni relativi al proprio comportamento; ma si sono
altres obbligati a far sorgere appositi enti (o istituzioni), destinati ad assolvere determinati compiti nel
campo della cooperazione internazionale e capaci di manifestare una propria volont e di svolgere una
propria attivit, distinte e separate da quelle dei governi contraenti. in questi casi che si parla
correntemente di organizzazione internazionale.
2. Le prime manifestazioni di una periodica cooperazione tra Stati in materia politica: il
Concerto europeo.
Le prime manifestazioni dei fenomeni che qui interessano si producono gi nel XIX secolo e investono
importanti settori della cooperazione intergovernativa: da quello politico a quello economico e sociale.
Una prima, ma molto embrionale, periodica cooperazione tra Stati in materia politica, che va sotto il
nome di Concerto europeo o Direttorio europeo si ebbe tra le grandi potenze europee dopo il
Congresso di Vienna del 1815. Nel determinare il riassetto politico del continente dopo il crollo del
grande disegno napoleonico, le potenze europee vincitrici si erano impegnate a concertarsi
periodicamente anche per l'avvenire in apposite conferenze, tutte le volte che gli interessi comuni lo
avessero richiesto. Allargatasi nel 1818 alla Francia e nel 1856 alla Sardegna, l'idea e la pratica del
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Concerto si rivel ben pi duratura e consistente di quanto fosse la compattezza della coalizione di
potenze che aveva determinato quel riassetto.
3. La Societ delle Nazioni.
La Societ delle Nazioni fu creata nel 1919 con un accordo istitutivo (detto convenant o patto) che
venne inserito come parte prima nel trattato di pace di Versailles e degli altri trattati di pace che
chiusero il primo conflitto mondiale. Con il patto, gli Stati contraenti enunciavano gli obiettivi di
promuovere la cooperazione internazionale e di garantire la pace e la sicurezza internazionali.
Dei tre organi in cui la Societ delle Nazioni appariva strutturata l'Assemblea, il Consiglio e il
Segretariato i primi due, lungi dal potersi anche lontanamente configurare quali l'organo legislativo e,
rispettivamente, l'organo esecutivo di una grande entit superstatale, non erano altro che conferenze
diplomatiche, una generale e una pi ristretta. Come stato messo in evidenza, rappresentati in tali
conferenze, come in ogni conferenza diplomatica, erano esclusivamente gli Stati; n deve ingannare il
fatto, per esempio, che nell'assemblea gli Stati avessero tre rappresentanti, in quanto il voto era unico,
per Stato, e il punto di vista che i delegati erano chiamati a esporre non era il loro personale, e neppure
quello collettivo delle popolazioni dei rispettivi paesi, ma quello ufficiale del loro governo. [] La vera
ragione del dualismo Assemblea-Consiglio stava unicamente nella necessit di trovare un compromesso
nel tradizionale contrasto tra grandi e piccole potenze, tra la tendenza delle prime ad assumersi una
funzione direttiva e a riservare a s stessi l'esame e la soluzione delle maggiori questioni internazionali, e
la tendenza delle seconde a partecipare su un piano di eguaglianza ai convegni e ai consessi di Stati..
La periodicit delle riunioni dell'Assemblea e del Consiglio postulava naturalmente l'esistenza di un
terzo organo che assicurasse la continuit del funzionamento degli altri due; e a tal fine fu istituito il
Segretariato a carattere permanente.
4. Le Nazioni Unite.
Quel cospicuo sforzo di organizzazione istituzionale della cooperazione tra Stati in materia politica che
trov espressione nella Societ delle Nazioni, venne progressivamente a logorarsi nel corso delle
vicende politiche internazionali che si produssero nei venti anni intercorsi tra le due guerre mondiali e
fu definitivamente travolto, in linea di fatto, dallo scoppio nel settembre 1939 del nuovo conflitto
mondiale. Ma l'esigenza di fornire un'intelaiatura istituzionale pi stabile e pi efficiente alla
cooperazione tra Stati in materia politica non solo non era destinata a venire meno, ma anzi doveva
risultare ancora pi accentuata dagli eventi bellici. Proprio per soddisfare questa esigenza, il 26 giugno
1945, a conclusione di una conferenza tenutasi a San Francisco, e quindi antecedentemente trattati di
pace che avrebbero dovuto chiudere il secondo conflitto mondiale, gli Stati vincitori elaborarono e
adottarono il testo dello statuto (detto anche Carta di San Francisco) istitutivo di una nuova
organizzazione internazionale, a vocazione universale e finalit generali, denominata Nazioni Unite.
Delle Nazioni Unite sono attualmente membri pressoch tutti gli Stati.
Non si pu non riconoscere che varie affinit sussistono, per quanto riguarda sia i fini che la struttura,
tra la Societ delle Nazioni e le Nazioni Unite. Per quanto riguarda i fini, gli Stati che dettero vita alle
Nazioni Unite si impegnarono a (art. 1):
1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale [];
2. Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio
delleguaglianza dei diritti e dellauto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte
a rafforzare la pace universale;
3. Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali
di carattere economico, sociale culturale o umanitario, e nel promuovere e incoraggiare
il rispetto dei diritti delluomo e delle libert fondamentali per tutti senza distinzioni di
razza, di sesso, di lingua o di religione;
4. Costituire un centro per il coordinamento dellattivit delle nazioni volta al
conseguimento di questi fini comuni.
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Per quanto riguarda la struttura, le Nazioni Unite si compongono dell'Assemblea generale, della quale
fanno parte, con eguale diritto di voto, tutti gli stati membri dell'organizzazione, di un organo pi
ristretto, denominato Consiglio di sicurezza, composto di cinque membri permanenti (Cina, Francia,
Regno Unito, Stati Uniti, Federazione Russa, che ha preso il posto dell'Unione Sovietica) e di dieci
membri non permanenti, eletti per un periodo di due anni dall'Assemblea Generale, e del Segretariato,
a carattere permanente, a capo del quale posto il Segretario Generale. L'art. 7 dello statuto annovera, tra
gli organi principali delle Nazioni Unite, anche il Consiglio economico e sociale, il Consiglio per l'amministrazione
fiduciaria (la cui funzione sembra per esaurita) e la Corte internazionale di giustizia. La Corte internazionale
di giustizia costituisce il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite (art. 92).
Sono peraltro rilevabili anche marcate differenze tra la Societ delle Nazioni e le Nazioni Unite, per
quanto riguarda sia la ripartizione delle competenze tra i due organi dominanti, sia i sistemi di voto
adottati, sia le attribuzioni del Segretariato, sensibilmente pi estese nelle Nazioni Unite.
Particolarmente significativo il fatto che la carta abbia cercato di rimediare al rischio di conflitti di
attribuzioni, conferendo all'Assemblea Generale la competenza di discutere qualsiasi questione o
argomento che rientri nei fini della Carta (art. 10) e al Consiglio di sicurezza la responsabilit
principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (art. 24). Altrettanto
significativo l'abbandono del principio dell'unanimit, poich sia l'Assemblea Generale che il
Consiglio di sicurezza decidono a maggioranza. A questo riguardo, l'interesse delle grandi potenze a
evitare il rischio di trovarsi in posizione di minoranza rispetto a delibere di organi delle Nazioni Unite
stato tutelato in un duplice modo. Da una parte, non previsto un valore vincolante per le delibere
dell'Assemblea Generale, che pu fare raccomandazioni (art. 10) ai membri delle Nazioni Unite, al
Consiglio di sicurezza o agli uni e agli altri. D'altra parte, per l'adozione delle decisioni di natura non
procedurale del Consiglio di sicurezza, che in certi casi hanno valore vincolante, si prevede la necessit
di una maggioranza di 9 voti su 15, nella quale siano compresi i voti dei membri permanenti.
Per quanto riguarda le critiche, esse riguardano in primo luogo la composizione del Consiglio di
sicurezza e il diritto di veto. La mutata struttura della comunit internazionale rende indubbiamente
obsoleta tale composizione. Potenze di grande peso economico e politico, come la Germania e il
Giappone, nonch importanti e popolosi Stati in via di sviluppo, come l'India e il Brasile, manifestano
chiare aspirazioni a contare di pi, sostenendo l'introduzione di riforme che le vedrebbero accedere al
rango di membro permanente con o senza diritto di veto. Potenze di media dimensione, e in modo
particolarmente attivo l'Italia, si oppongono, finora con successo, a queste riforme che
comporterebbero l'inclusione tra i membri permanenti di un numero ristretto di Stati, tra cui esse non
figurerebbero, e sostengono soluzioni che introdurrebbero, tra i membri permanenti e quelli non
permanenti, una categoria intermedia di membri la cui presenza nel consiglio, bench non permanente,
sarebbe frequente.
Le Nazioni Unite sono l'incarnazione pi recente del sistema della cooperazione organizzata tra Stati
sovrani; e un fosso assai profondo le separa ancora da quelle forme a carattere superstatuale che
costituiscono l'aspirazione profonda e per ora irrealizzata di tanti che vi vedono il solo mezzo per
assicurare un ordinato e pacifico sviluppo della convivenza umana.
5. Le organizzazioni internazionali quali soggetti di diritto internazionale.
La cerchia dei membri della societ internazionale costituita oggi non pi soltanto da una pluralit di
centri sovrani e indipendenti di potere politico (Stati), ma anche da una pluralit di centri indipendenti
di organizzazione istituzionale della cooperazione tra Stati (organizzazioni internazionali).
appena il caso di segnalare, tuttavia, che la concreta destinatariet di obblighi e i diritti soggettivi
discendenti da regole di diritto internazionale appare, nel caso di un'organizzazione intergovernativa,
alquanto pi limitata di quanto avviene per gli Stati. Un'organizzazione internazionale , al pari di uno
Stato, un soggetto di diritto internazionale, ma dotata di una capacit giuridica internazionale ristretta e
soprattutto, a differenza di uno Stato, un soggetto di diritto internazionale privo di qualsiasi base
territoriale.
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In mancanza nella Carta di San Francisco di una norma esplicita che sancisca la soggettivit
internazionale delle Nazioni Unite, la pratica, in particolare attraverso la conclusione di convenzioni alle
quali l'Organizzazione delle Nazioni Unite parte, ha confermato questo carattere dell'Organizzazione,
la quale appare, sotto certi aspetti, quale un'organizzazione che si giustappone ai suoi membri e che ha il
dovere, quando se ne presenti il caso, di richiamarli all'osservanza di certi obblighi.
Sulla base di queste considerazioni la Corte arriva alla conclusione che l'Organizzazione un soggetto
di diritto internazionale. Questo non equivale a dire che l'Organizzazione sia uno Stato, il che
certamente essa non , o che la sua personalit giuridica, i suoi diritti e i suoi obblighi siano gli stessi che
quelli di uno Stato. Meno ancora questo equivale a dire che l'organizzazione sia un superstato, quale che
sia il significato di tale espressione. [] Questo vuol dire unicamente che l'Organizzazione un
soggetto di diritto internazionale, che essa titolare di diritti e obblighi internazionali e ha la capacit di
far valere i suoi diritti per mezzo di reclami internazionali. Ulteriormente, stato osservato, che le
istituzioni in cui si articolano le organizzazioni internazionali operano organizzando la cooperazione
tra i governi nazionali, non sovrapponendosi e imponendosi a questi, ed esse costituiscono per tal
modo non tanto gli inizi di un governo internazionale, anche se il termine in molti casi conveniente,
quanto piuttosto il surrogato di un tale governo.
La qualit di soggetto di diritto internazionale delle Nazioni Unite sempre secondo il parere della
Corte va d'altra parte affermata non solo di fronte agli Stati membri, ma anche di fronte a Stati non
membri.
QUESTIONI SULLA SOGGETTIVIT INTERNAZIONALE DI ALTRI ENTI
1. Considerazioni introduttive.
Si visto come la societ internazionale sia storicamente venuta a formazione come una societ di Stati,
intesi quali centri di potere politico superiores non recognoscentes, e come essa tuttora si configuri come una
societ nella quale gli Stati sovrani svolgono il ruolo di protagonisti. Si anche visto come, in un
determinato periodo storico, accanto agli Stati e per mezzo di trattati conclusi dagli Stati, siano sorti altri
soggetti di diritto internazionale, dotati di una propria indipendenza e denominati organizzazioni
internazionali. Ci si pu ora chiedere se esistano altri enti, diversi dagli Stati e dalle organizzazioni
internazionali, che siano dotati di una personalit giuridica internazionale.
La determinazione di quali siano i destinatari degli obblighi giuridici, dei diritti soggettivi e cos pure di
ogni altra conseguenza giuridica (soggettiva o non soggettiva) discendente dalle regole del diritto
internazionale, presuppone la identificazione di quali siano i membri della societ nella quale il diritto
internazionale si manifesta e opera; essa si riduce sostanzialmente a una mera determinazione di quali
siano, secondo criteri di effettivit, i protagonisti della vita di relazione internazionale nella sua
materialit e concretezza storica.
2. La Santa Sede.
La Santa Sede (o Sede Apostolica) la suprema autorit di governo della Chiesa cattolica, e viene
conseguentemente considerata come un soggetto di diritto internazionale alla medesima stregua degli
Stati.
La Santa Sede ha assunto il ruolo di protagonista della vita di relazione internazionale proprio nel
periodo che va dall'occupazione di Roma da parte dell'Italia (1870) allo stabilimento dello Stato della
Citt del Vaticano in virt della conclusione del trattato del Laterano tra l'Italia la Santa Sede (1929).
Con tale trattato, l'Italia riconosce la sovranit della Santa Sede nel campo internazionale come
attributo inerente alla sua natura, in conformit alla sua tradizione e alle esigenze della sua missione nel
mondo (art. 2). Inoltre, l'Italia riconosce alla Santa Sede la piena propriet e la esclusiva e assoluta
potest e giurisdizione sovrana sul Vaticano, com' attualmente costituito, con tutte le sue pertinenze e
dotazioni, creandosi per tal modo la Citt del Vaticano per gli speciali fini con le modalit di cui al
presente trattato (art. 3).
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La Santa Sede si pone anche quale suprema autorit di governo della Chiesa cattolica, concepita come
una vera e propria societ interindividuale, una societas perfecta allo stesso modo delle societ nazionali,
dotata di un proprio ordinamento giuridico, il diritto canonico, distinto e separato dagli ordinamenti
nazionali.
La Santa Sede e gli organi che realizzano i suoi fini godono in Italia e in altri Stati dei privilegi e delle
immunit che spettano agli Stati esteri.
3. Il Sovrano Militare Ordine di Malta.
Il Sovrano Militare Ordine di Malta (SMOM) un ordine religioso sorto nel XII sec., che esercit in
passato la sovranit territoriale su Rodi, dal 1310 al 1522, e su Malta, dal 1530 al 1798. Da oltre due
secoli esso non governa pi su alcun territorio.
Il SMOM non gode di indipendenza. Una sentenza di un tribunale cardinalizio della Santa Sede del 24
gennaio 1953 lo definisce come un ordine religioso, approvato dalla Santa sede. Il SMOM dipende,
dunque, dalla Santa sede.
Malgrado le discussioni che il problema di una sua asserita personalit internazionale ha determinato,
da escludere che il SMOM sia un soggetto di diritto internazionale, vista la sua posizione di
subordinazione rispetto alla Santa Sede. La qualit di ordine sovrano consiste nel godimento di alcune
prerogative inerenti all'ordine stesso come soggetto di diritto internazionale. Tali prerogative, che sono
proprie della sovranit e che, dietro l'esempio della Santa Sede, sono state riconosciute anche da alcuni
Stati, non costituiscono tuttavia nellordine quel complesso di poteri e prerogative, che proprio degli
enti sovrani nel senso pieno della parola.
4. I governi in esilio.
I governi in esilio si trasferiscono o si costituiscono sul territorio di uno Stato amico a seguito di
invasione bellica o di conflitti interni avvenuti sul territorio che essi intendono governare. Ad esempio,
durante la seconda guerra mondiale, si stabilirono a Londra i governi in esilio di Olanda, Grecia,
Norvegia, Polonia, Belgio, Jugoslavia e Lussemburgo.
In tempo di guerra, il fatto che uno Stato favorisca la formazione di governi in esilio, non costituisce un
illecito internazionale, ma rientra fra le misure che uno Stato belligerante pu adottare nei confronti
dell'avversario. per evidente che il governo in esilio privo di un effettivo controllo su di un
territorio e su di una popolazione ivi stanziata. Esso manca inoltre di indipendenza, rispetto allo Stato
sul cui territorio costituito e da cui anche dipende la continuazione delle sue funzioni, e molto si
avvicina a un organo di fatto di questo Stato. La soggettivit internazionale dei governi in esilio va, in
definitiva, esclusa.
5. Popoli, autodeterminazione, minoranze.
Il concetto di popolo e il principio di autodeterminazione dei popoli, menzionati dall'art. 1, par. 2,
della Carta delle Nazioni Unite, trovano svolgimento con il fenomeno della decolonizzazione,
promosso dalle Nazioni Unite. La risoluzione dell'Assemblea Generale n. 1514(L)XV del 1960, relativa
alla concessione dell'indipendenza ai popoli e ai paesi sottoposti a dominio coloniale, ribadisce il diritto
all'autodeterminazione dei popoli, come diritto di determinare liberamente la propria condizione
politica e di perseguire liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale.
In seguito, l'Assemblea Generale ha adottato nel 1970 la risoluzione n. 2625 (XXV), affermando il
principio che i popoli, che reagiscono e resistono a una misura di coercizione nell'esercizio del loro
diritto all'autodeterminazione, hanno il diritto di ricercare e ricevere un appoggio secondo gli scopi e i
principi della Carta. Un ulteriore passo stato compiuto con la risoluzione dell'Assemblea Generale n.
3314 (XXIX) del 1974, relativa alla definizione dell'aggressione, la quale non pregiudica il diritto dei
popoli sottoposti a regimi coloniali, razzisti, o ad altre forme di dominio straniero, di lottare ai fini della
loro autodeterminazione, libert e indipendenza. Ne consegue che l'impiego della forza e gli altri atti
equiparabili non costituiscono aggressione, se esercitati dai popoli privati con la forza del diritto
all'autodeterminazione.
[9]

Rimane tuttavia difficile dire quali sono i soggetti che da tale regola derivano diritti e obblighi. La
difficolt del problema sta in ci, che il concetto storico-politico di popolo (affine a quello di
nazione), riconducibile a una comunanza di razza, lingua, religione o tradizioni (fattori che non
necessariamente devono tutti concorrere) in una collettivit di individui, difficilmente formulabile in
termini giuridici.
In definitiva, dunque, la norma di diritto internazionale generale in tema di diritto di
autodeterminazione dei popoli, venutasi a sviluppare, come visto, nel quadro delle Nazioni Unite, nei
confronti di popoli trovantisi in determinate situazioni, sembra doversi intendere nel senso che i popoli,
lungi dal costituire un ente dotato di personalit giuridica internazionale, sono l'oggetto o, se si
preferisce, i materiali beneficiari di norme internazionali che pur sempre pongono diritti e obblighi in
capo agli Stati.
Il principio di autodeterminazione va, per, conciliato con quello del rispetto della integrit territoriale
degli Stati. Nella risoluzione sulle relazioni amichevoli del 1970, dopo aver affermato il principio
dell'autodeterminazione, si sottolinea che nulla di quanto precede deve essere interpretato nel senso di
autorizzare o incoraggiare qualsiasi azione tale da smembrare o menomare, in tutto o in parte, l'integrit
territoriale o la unit politica di Stati sovrani e indipendenti che si comportino conformemente al
principio dell'eguaglianza di diritti e dell'autodeterminazione dei popoli come sopra descritto e pertanto
dotati di un governo che rappresenti nel suo insieme il popolo appartenente al territorio senza
distinzione di razza, credo o colore. Questi concetti frenano l'estensione della regola
sull'autodeterminazione a contesti diversi da quello di popoli sottoposti a dominazione coloniale,
straniera o razzista. Nel 1992, all'indomani dello smembramento dell'Unione sovietica e della Jugoslavia,
l'allora segretario generale delle Nazioni Unite osservava: Se ognuno dei gruppi etnici, religiosi o
linguistici dovesse pretendere la condizione di Stato, la frammentazione non avrebbe pi limiti, e la
pace, la sicurezza e il progresso economico per tutti diverrebbero sempre pi difficili da assicurare. La
sovranit, l'integrit territoriale e lindipendenza degli Stati nel quadro del sistema internazionale
esistente e il principio dell'autodeterminazione dei popoli, principi tra i pi preziosi che esistano, non
dovranno mai trovarsi in opposizione in futuro.
La conciliazione con il principio dell'integrit territoriale viene a trovarsi nel considerare come popolo
suscettibile di autodeterminazione la popolazione maggioritaria di territori che in potenza possano
trasformarsi in Stati. Ne sono pertanto esclusi i gruppi che, pur rispondendo almeno in qualche misura
alla nozione storico-politica di popolo, si trovano a essere minoritari in un determinato territorio: si
tratta delle cc.dd. minoranze [un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione di uno Stato, in
posizione non dominante, i cui membri che hanno la cittadinanza dello Stato stesso posseggano, dal punto di vista
etnico, ovvero religioso, ovvero linguistico, delle caratteristiche diverse da quelle del resto della popolazione e manifestino
anche in modo implicito un sentimento di solidariet, tendente a preservare la propria cultura, le proprie tradizioni, la
propria religione o la propria lingua].
Va tuttavia osservato che la minoranza nell'ambito di uno Stato costituito pu essere maggioranza in
una determinata regione e, in situazioni di trasformazioni politiche, affermarsi come popolo di un
nuovo Stato. Quelle che si presentano come minoranze viste da lontano (guardando alla Jugoslavia) si
trasformano in popolazioni maggioritarie guardando pi da vicino (per esempio, la Croazia), ma se si
deve guardare da lontano o da vicino dipende dalle preferenze politiche dell'osservatore. Il caso delle
Falkland/Malvinas, in cui l'autodeterminazione della popolazione locale (che si espressa a favore del
mantenimento della sottoposizione alla sovranit britannica, frutto peraltro del colonialismo) va
conciliata col principio dell'integrit territoriale del contiguo Stato argentino, chiaro esempio delle
difficolt che si pongono e della larga parte che vi hanno i punti di vista politici.
Per quanto riguarda pi specificamente le minoranze, gi dopo la conclusione del primo conflitto
mondiale, e a seguito delle modifiche territoriali intervenute con i trattati di pace, vennero conclusi vari
trattati relativi al trattamento delle minoranze che si trovavano entro i confini di uno Stato determinato.
I concetti di popolo e di minoranza stanno alla base della Convenzione per la prevenzione e la
repressione del delitto di genocidio (New York, 9 dicembre 1948), che si applica agli atti commessi con
l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come
[10]

tale. Bench il concetto di minoranza non coincida totalmente con quello di popolo, rimane pur sempre
evidente, l'intento di porre a carico di uno Stato obblighi di diritto internazionale di cui siano materiali
beneficiari gli individui che appartengono a un gruppo a s stante, per caratteristiche culturali,
linguistiche, razziali o religiose o, addirittura, il gruppo stesso.
6. Gli insorti.
Gli insorti sono un gruppo organizzato di individui che prende le armi in occasione di una guerra civile
o di moti rivoluzionari interni, sulla spinta di determinati fini politici, quali la conquista del potere o la
secessione di un territorio per acquisire l'indipendenza o per unirsi a un altro Stato.
Gli insorti che riescano a conquistarsi nella comunit internazionale uno spazio sufficientemente
ampio di relazioni paritarie con altre entit indipendenti, hanno per ci stesso personalit giuridica
internazionale e sono destinatari, quindi, del diritto internazionale generale, anzitutto quello di guerra e
di neutralit, nella misura in cui a essi sia materialmente applicabile. Di soggettivit internazionale degli
insorti pu peraltro parlarsi soltanto qualora concorrano due condizioni:
a) che gli insorti siano organizzati sotto un comando responsabile;
b) che essi riescano a esercitare effettivamente un potere di governo su di un territorio.
Va comunque tenuto presente che la soggettivit internazionale degli insorti, in quanto tale, ha natura
temporanea. La situazione, infatti, dovr necessariamente prima o poi evolvere o nello scioglimento
degli insorti, qualora la loro lotta non abbia successo, o nella trasformazione da insorti in nuovo Stato
(o nell'annessione del territorio controllato dagli insorti in uno Stato preesistente), qualora gli obiettivi
dellinsurrezione vengano conseguiti.
7. I movimenti di liberazione nazionale.
Il movimento di liberazione nazionale l'ente che rappresenta un popolo nell'esercizio del diritto
all'autodeterminazione. Un esempio ne l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP),
considerata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite quale rappresentante del popolo palestinese,
nell'esercizio del suo diritto all'autodeterminazione.
In ogni processo di liberazione nazionale c' sempre all'origine un piccolo gruppo di uomini
determinati che si organizza e che, a poco a poco, sviluppa un'attivit sui piani intellettuale, politico e
militare fino a ottenere l'indipendenza del loro paese. La durata di questo processo e i metodi da
applicare dipendono da diversi fattori, tra i quali si pu citare la politica dello Stato colonizzatore e
l'aiuto che il movimento di liberazione riceve dall'estero. Nel processo di liberazione si perviene a uno
stadio in cui le aspirazioni del movimento sono precisate e in cui esso si organizza istituzionalmente.
Dopo essersi strutturato, il movimento pu cominciare ad agire ed esce dalla clandestinit. L'azione non
necessariamente condotta sul piano della guerriglia, ma pu trattarsi soltanto di un'attivit politica. Ma
bisogna sottolineare che l'elemento decisivo del successo o dell'insuccesso di un movimento di
liberazione sempre il concorso della volont popolare. [] Tali attivit hanno una portata sul piano
internazionale a partire dal momento in cui esse costituiscono nella vita istituzionale dello Stato
territoriale un avvenimento anormale, che lo obbliga a prendere delle misure eccezionali, vale a dire
quando, per dominare o cercare di dominare gli avvenimenti, esso si vede costretto a ricorrere a mezzi
che non sono quelli che si impiegano ordinariamente per far fronte a disordini occasionali.
Molto significativi appaiono, in tema di movimenti di liberazione nazionale, gli sviluppi del diritto
internazionale umanitario avutisi con i due protocolli addizionali alle convenzioni di Ginevra del 1949,
aperti alla firma a Ginevra nel 1977. Nell'ambito della categoria dei conflitti interni o civili i protocolli
operano una distinzione, che si basa unicamente sul fine che anima coloro che prendono le armi contro
il governo costituito:
ai popoli che lottano per il fine dell'autodeterminazione contro regimi coloniali, razzisti o
stranieri si applica il primo protocollo, redatto per i tradizionali conflitti armati tra Stati;
agli insorti che lottano per altri fini si applica invece il secondo protocollo, che offre una
protezione di diritto umanitario pi limitata.
[11]

L'atteggiamento che emerge dal trattamento di favore riservato ai movimenti di liberazione nazionale,
rispetto agli insorti che lottano per altri fini, non trasforma di per s automaticamente tali movimenti in
soggetti di diritto internazionale. Esso per indubbiamente facilitata tale effetto e, sul piano politico, le
lotte che i movimenti perseguono. Questo spiega anche perch taluni Stati abbiano deciso di non
ratificare il primo protocollo.
Proprio i requisiti di un'organizzazione istituzionale e dell'esercizio effettivo di attivit aventi una
portata internazionale distinguono il movimento di liberazione nazionale, ente che diviene un
protagonista di relazioni internazionali, dal popolo, che rimane un ente sociale privo di un diretto rilievo
giuridico sul piano internazionale.
Infatti, la Corte di cassazione penale italiana, nel 1985, rilevava che: il diritto internazionale riconosce
come Stati soltanto quegli enti che, in piena indipendenza, esercitano il proprio potere di governo
effettivo nei confronti di una comunit stanziata su di un territorio, onde da ritenersi principio
acquisito che la sintesi statuale debba essere espressa dalla triade popolo-governo-territorio e che
richieda, quindi, necessariamente che la componente della popolazione e l'apparato di governo da essa
espresso ricadano su un luogo di esercizio di tale governo dell'attivit dei soggetti.
L'INDIVIDUO COME TITOLARE DI DIRITTI E DI OBBLIGHI:
DIRITTI DELL'UOMO E CRIMINI INTERNAZIONALI
1. L'individuo soggetto del diritto internazionale? Titolarit di diritti e di obblighi e
soggettivit.
Si discute molto in dottrina se, tra i soggetti del diritto internazionale, si debbano comprendere gli
individui. La posizione tradizionale che il diritto internazionale un diritto fatto dagli Stati e per gli
Stati e che pertanto gli individui ne sono non soggetti, bens oggetti. In appoggio di questa opinione si
cita l'istituto della protezione diplomatica. Alla stregua di tale istituto, quando un privato subisce un
danno dovuto alla violazione, da parte di uno Stato diverso da quello di cui cittadino, di una regola di
diritto internazionale avente per oggetto la protezione degli stranieri, e quando tale privato abbia
esaurito i ricorsi interni previsti nell'ordinamento dello Stato che si sostiene abbia commesso la
violazione, la pretesa del privato pu essere fatta sua dallo Stato in cui esso ha la cittadinanza. La
pretesa del privato si trasforma in una pretesa internazionale. La riparazione, se a essa si arriva,
compiuta in favore dello Stato nazionale, anche se la misura del danno quella del danno subito dal
privato. Il carattere di finzione giuridica di questo istituto, tradito dall'incrociarsi in esso di aspetti che
riguardano l'individuo (il previo esaurimento dei ricorsi interni, il danno) e aspetti che coinvolgono lo
Stato, pu vedersi come indicare che gli Stati considerano gli individui non come soggetti ma oggetti nel
diritto internazionale.
2. I diritti della persona umana.
Come ha affermato in una risoluzione del 1989 lInstitut de droit International: I diritti dell'uomo sono
l'espressione diretta della dignit della persona umana. L'obbligo per gli Stati di assicurarne il rispetto
deriva dallo stesso riconoscimento di tale dignit proclamata gi dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Quest'obbligo internazionale un obbligo erga omnes; esso
vale per ogni Stato rispetto alla comunit internazionale nel suo insieme, e ogni Stato ha un interesse
giuridico alla protezione dei diritti dell'uomo.
Rilievo fondamentale assume il fatto che il promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell'uomo e
delle libert fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua, o di religione
indicato all'art. 1, par. 3, della Carta delle Nazioni Unite come uno dei fini dell'organizzazione.
Notevole rilevanza hanno in questo campo le norme scritte di carattere non vincolante (soft law). La pi
importante la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata con risoluzione nel 1948
dall'Assemblea Generale. In essa pu vedersi un punto di partenza e ancor oggi un punto di riferimento
essenziale in materia di diritti umani. Da essa prendono le mosse le norme pattizie sviluppatesi
nell'ultimo cinquantennio, nonch le norme consuetudinarie.
[12]

A proposito di queste ultime, difficile sostenere che la Dichiarazione nel suo insieme sia oggi diritto
ordinario, come pure stato detto. Occorre esaminare la pratica degli Stati per verificare il carattere
consuetudinario delle regole contenute in ciascuna disposizione e in generale per determinare l'esistenza
e il contenuto di specifiche norme consuetudinarie in materia di diritti umani.
Non qui possibile affrontare neppure sommariamente la su indicata indagine caso per caso. Essa
resa particolarmente complessa dalla difficolt di determinare quali elementi della pratica siano rilevanti.
In materia di diritti umani pare di particolare rilievo la considerazione che l'esistenza di una prassi,
anche estesa, contraria al precetto normativo, non impedisce di per s la formazione o la persistente
validit di una norma consuetudinaria. Infatti, come efficacemente espresso da una Corte interna
americana in relazione al divieto di tortura, nessuno Stato ha mai rivendicato il diritto a torturare i
propri cittadini. Di fronte a credibili accuse di tortura, uno Stato solito rispondere negandone
l'esistenza o meno frequentemente, affermando che la condotta non era autorizzata, ovvero che essa
costituiva un trattamento duro, ma non qualificabile quale tortura.
Come accennato, la Dichiarazione universale e l'azione delle Nazioni Unite sono state anche il punto di
partenza per lo sviluppo di norme pattizie per la protezione dei diritti umani. Dal susseguirsi di tali
norme, si pu rilevare come accanto ai diritti civili e politici emergano diritti detti di seconda
generazione, i diritti economici e sociali, tra cui il diritto al lavoro, alla salute, all'istruzione, che
comportano soprattutto obblighi di agire (o di fare il possibile) da parte degli Stati e il cui adempimento
indubbiamente di pi difficile verifica. A essi seguita una terza generazione di diritti, di cui non
facile identificare con chiarezza il titolare degli obblighi corrispondenti, che sono i diritti di solidariet di
carattere collettivo, quali il diritto all'autodeterminazione, il diritto allo sviluppo, il diritto a un ambiente
sano.
Tra gli strumenti pattizi di carattere generale di portata universale, hanno particolare importanza i Patti
delle Nazioni Unite, relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e
culturali, adottati a New York il 16 dicembre 1966. L'alto numero degli Stati che sono oggi parte dei
Patti, pur essendo giustificato lo scetticismo sull'effettivo impegno di tutti nell'adempimento degli
obblighi previsti, sembra incoraggiare la presunzione che, salvo prova contraria, da fornirsi in base a
persuasive indicazione della prassi, i diritti in essi previsti siano avviati a divenire parte del diritto
consuetudinario. Ci sembra valere in particolare per il nucleo duro comprendente i diritti che,
seguendo il precedente della Convenzione europea del 1950, il Patto dei diritti civili e politici prevede
non possano essere sospesi neppure in caso di pericolo pubblico eccezionale: il diritto alla vita, il diritto
a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli e degradanti, il diritto a non essere tenuto in
stato di schiavit, il diritto a non essere imprigionato per inadempimento di obbligazioni contrattuali, il
diritto a non essere condannato in base a norme retroattive, il diritto al riconoscimento della personalit
giuridica, il diritto alla libert di pensiero, di coscienza e di religione.
Sul piano pi strettamente giuridico, la Convenzione europea ha avuto un triplice merito essenziale. In
primo luogo, pochi anni dopo la Dichiarazione universale del 1948, essa ha trasformato, con modifiche
e approfondimenti, i diritti in questa previsti nell'oggetto di obblighi internazionale per gli Stati
contraenti, obblighi che sono stati (con modalit variabili da Stato parte a Stato parte) a loro volta
trasposti negli ordinamenti interni. In secondo luogo, come gi accennato, essa ha aperto la strada alla
formazione dei Patti delle Nazioni Unite. In terzo luogo, essa introdotto dei meccanismi aventi a
oggetto il controllo della messa in opera dei diritti da parte degli Stati contraenti ivi compresa
l'istituzione di una corte europea dei diritti dell'uomo, cui ora possono rivolgersi direttamente i privati.
3. I diritti procedurali dell'individuo nei meccanismi internazionali per l'applicazione
delle norme sui diritti umani.
L'azione organizzata delle Nazioni Unite ha messo a punto meccanismi miranti a mettere in luce
inadempienze degli Stati ai loro obblighi in materia di tutela dei diritti umani ed anche a imporre loro
varie forme di riparazione a vantaggio degli individui.
Questi meccanismi si riferiscono tutti all'asserito inadempimento di obblighi previsti da norme
internazionali, consuetudinarie o pattizie. Esse non prescindono per dalla tutela che i diritti previsti da
[13]

quelle norme possano ricevere nell'ambito dei diritti interni. Il requisito del necessario esaurimento dei
ricorsi interni per poter mettere efficacemente in moto i meccanismi internazionali previsto come
condizione per l'utilizzazione di questi, chiara indicazione della ora indicata connessione.
La funzione dei meccanismi in esame di prevedere una tutela supplementare, mirante a colmare le
lacune dei sistemi di diritto interno e soprattutto a reagire alle inadempienze che possano essersi
verificate nonostante la presenza di norme e procedimenti di tutela nel diritto interno. Ruolo
importantissimo hanno queste norme nei momenti di involuzione politica, in cui l'avvento di regimi
liberticidi pu essere contrastato a livello internazionale ricorrendo ai suddetti meccanismi.
Nell'ambito degli organi delle Nazioni Unite, sono stati creati due procedimenti (il primo pubblico,
l'altro confidenziale) che possono trarre origine da petizioni individuali.
A. La petizione un puro meccanismo di iniziativa, perch gli individui non partecipano ai
procedimenti e perch oggetto di questi non una protezione individualizzata. Il risultato finale
sono raccomandazioni.
B. Rilievo maggiore, anche se sempre a livello di iniziativa, hanno comunicazioni individuali al
Comitato dei diritti dell'uomo, istituito nel quadro del Patto per i diritti civili e politici. Ci si
riferisce peraltro a un procedimento che non tutti gli Stati parte al Patto hanno accettato. Alla
stregua del protocollo ogni individuo che si ritenga vittima della violazione di uno dei diritti
enunciati dal Patto pu presentare una comunicazione al comitato. Questo la esamina tenendo
conto delle comunicazioni scritte dello Stato che si pretende abbia commesso la violazione ed
anche dell'individuo interessato. Si va pertanto verso una protezione individualizzata attraverso
un meccanismo, nel quale si instaura una sorta di contraddittorio scritto, che non sembra
azzardato definire quasi-giudiziale. Alla conclusione il Comitato adotta considerazioni (views),
che vengono trasmessi allo Stato interessato e all'individuo e che contengono spesso anche
l'indicazione degli obblighi che incombono allo Stato a seguito di quanto accertato dal
Comitato. difficile che Stati che tengono alle reazioni dell'opinione pubblica e degli altri Stati
possano decidere alla leggera di non seguire le indicazioni (pur non vincolanti) del Comitato.
C. Ancor pi penetrante il ruolo riservato agli individui dalla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo del 1950. Ricorsi individuali possono infatti essere presentati alla Corte europea dei
diritti dell'uomo, composta attualmente di 44 giudici, uno per ogni Stato membro del consiglio
d'Europa. L'art. 34 prevede infatti: La Corte pu essere investita di un ricorso da parte di una
persona fisica, un'organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d'essere
vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella
Convenzione o nei suoi protocolli. Il ricorso, che avvia un procedimento caratterizzato dai
principi della pubblicit e del contraddittorio sia scritto che orale, cui l'individuo ricorrente
partecipa a pieno titolo, mira a ottenere dalla Corte la dichiarazione dell'avvenuta violazione da
parte dello Stato e una condanna di tale Stato a rimuovere le conseguenze di tale violazione.
Ove tale rimozione non sia possibile o lo sia solo in modo imperfetto alla stregua del diritto
interno dello Stato condannato, possibile la condanna a prestare un'equa soddisfazione (art.
41) che in generale di carattere pecuniario. Le sentenze sono vincolanti.
Il sistema risultante dalla Convenzione diviene cos il primo nel quale gli individui godono sul
piano internazionale di un vero e proprio diritto d'azione a tutela dei diritti e delle libert dei
quali sono diretti destinatari in virt della Convenzione.
4. L'individuo come titolare di obblighi: i crimini internazionali dell'individuo.
Anche in questo caso l'obiettivo sempre quello di garantire un doppio livello di protezione, in quanto
certi comportamenti individuali rimangono vietati dal diritto internazionale anche qualora essi non
ricevano una sanzione sulla base di un diritto nazionale.
Tali comportamenti possono qualificarsi come crimini internazionali dell'individuo.
L'elemento pi innovativo di tale nozione si ha nel caso in cui l'individuo di cui trattasi si trovi in una
posizione di autorit nell'apparato di uno Stato: in tale caso, infatti, solo la qualifica di crimine
[14]

internazionale individuale consente di far valere la responsabilit personale dell'individuo, che si
aggiunge alla responsabilit internazionale dello Stato di cui l'individuo organo.
Se queste nozioni vengono accettate, evidente che il punto cruciale per la loro pratica applicazione
dato dalla soluzione del problema del tribunale competente a giudicare i crimini internazionali degli
individui. Le soluzioni prospettate sono varie: si va dalla creazione dei tribunali internazionali, alla
previsione della competenza universale dei giudici di tutti gli Stati, a una combinazione dei due
principi.
Un impulso fondamentale all'affermazione nel diritto internazionale della nozione di crimini
internazionali dell'individuo deriva dall'accordo (Londra, 8 agosto 1945) a Francia, Regno Unito, Stati
Uniti e Unione Sovietica per il giudizio e la punizione dei principali criminali di guerra dell'asse europeo,
cui ha fatto seguito la sentenza resa a Norimberga il 30 settembre 1946 dal Tribunale militare
internazionale, costituito con l'accordo. Al Tribunale di Norimberga era conferito il potere di giudicare
e condannare le persone che, agendo nell'interesse dei paesi dell'asse europeo, avessero compiuto atti
che rientravano nelle tre categorie di crimini definite nell'art. 6 della Carta del Tribunale: i crimini
contro la pace, i crimini di guerra e i crimini contro l'umanit. Il fatto che gli imputati avessero agito
sulla base di un ordine del loro governo o di un loro superiore non li esonerava dalla responsabilit, ma
poteva essere dal tribunale considerato come un'attenuante della pena (art. 8). Il Tribunale, con la
sentenza motivata e definitiva, poteva infliggere ai responsabili la morte o ogni altra pena che esso
stabilisse giusta (art. 27).
Proprio sul piano del contributo allo sviluppo del diritto internazionale consuetudinario va
probabilmente inteso il superamento delle obiezioni, proposte dagli imputati, che il diritto
internazionale riguarda le azioni degli Stati sovrani e non dispone alcuna pena per gli individui; e inoltre
che, quando l'atto in questione un atto dello Stato, coloro che lo compiano non sono personalmente
responsabili, ma sono protetti dalla dottrina della sovranit dello Stato. Il Tribunale di Norimberga
ritenne invece che: i crimini contro il diritto internazionale sono commessi da uomini, e non da entit
astratte, e le norme di diritto internazionale possono venire applicate soltanto punendo gli individui che
commettono tali crimini; l'essenza stessa della Carta che gli individui hanno obblighi internazionali
che trascendono gli obblighi nazionali di obbedienza imposti dal singolo Stato. Chi viola le leggi di
guerra non pu ottenere immunit perch abbia agito sulla base dell'autorit dello Stato, se lo Stato che
autorizza l'atto va oltre la sua competenza secondo il diritto internazionale.
5. L'istituzione di giurisdizioni penali internazionali e le sue conseguenze.
Se si fa eccezione per la convenzione del 1948 sul genocidio, dopo le sentenze di Norimberga e di
Tokio, la materia dei crimini internazionali dell'individuo rimase, per oltre quarant'anni, in una
situazione di stallo, o di lento progresso. Nell'ultima decade del XX secolo, viceversa, si assistito a
un'avanzata precipitosa che ha avuto il suo punto di partenza nell'istituzione di tribunali penali
internazionali. Fu cos che furono istituiti, nel 1993, il Tribunale penale internazionale per i crimini
commessi nella ex-Jugoslavia e, nel 1994, il Tribunale internazionale per il Ruanda e che, nel 1998, fu
adottato lo Statuto della Corte penale internazionale, poi costituita nel 2003.
L'indubbio progresso che, sia pure con limiti, segna l'istituzione degli organi giudiziari penali
internazionali va in una triplice direzione. Esso non si limita infatti alla messa in opera di istanze
giudiziarie internazionali di fronte a cui gli individui accusati di crimini internazionali potranno essere
processati. Esso si manifesta anche in ci che la presenza di giurisdizioni penali internazionali non
senza influenza sugli Stati che sono stimolati, quasi sfidati, a reprimere con il loro diritto penale e i loro
meccanismi giudiziari i crimini internazionali. Infine, i documenti che disciplinano i tribunali ad hoc e la
Corte penale internazionale, nonch la prassi dei primi (la Corte non ha ancora una giurisprudenza)
hanno dato un contributo fondamentale alla definizione dei crimini internazionali dell'individuo e del
loro ambito di applicazione.
Relativamente alla disciplina dell'ambito di giurisdizione della Corte penale internazionale, la
giurisdizione della Corte pu esercitarsi qualora il crimine di cui si tratti sia stato commesso sul
territorio di uno Stato parte o da un cittadino di uno Stato parte (art. 13). Ne segue che i crimini
[15]

commessi sul territorio di uno Stato parte dal cittadino di uno Stato non parte rientrano nella
giurisdizione della Corte. Questa previsione ha sollevato preoccupazione da parte degli Stati contrari
all'istituzione della Corte e in particolare degli Stati Uniti. Per altro verso, gli Stati Uniti, hanno inoltre
stipulato con un'ottantina di Stati (ma incontrando l'opposizione, o almeno la resistenza, di molti altri,
tra cui quelli dell'Unione europea) accordi bilaterali per escludere il deferimento alla Corte di militari
degli Stati Uniti accusati di crimini commessi nel territorio di uno Stato parte. Come emerge, la strada
per leffettivo funzionamento della Corte irta di ostacoli.
6. Le varie categorie di crimini internazionali dell'individuo e il diritto internazionale
penale.
Le norme internazionali che prevedono i crimini individuali sono il risultato di una complessa
evoluzione consuetudinaria e pattizia, alimentata e precisata dalla giurisprudenza dei tribunali nazionali
e internazionali. Significativo punto di partenza lo Statuto della Corte penale internazionale, nel quale
confluiscono, con qualche arretramento e con qualche progresso, i precedenti dei Tribunali
internazionali di Norimberga e di Tokio e dei Tribunali ad hoc.
L'art. 5 dello Statuto, dopo aver affermato che la giurisdizione della Corte limitata ai pi seri crimini
che preoccupano la comunit internazionale nel suo insieme afferma che tale giurisdizione riguarda:
a) il crimine di genocidio;
b) i crimini contro l'umanit;
c) i crimini di guerra;
d) il crimine di aggressione.
Va detto subito che il secondo par. dell'art. 5 rinvia il possibile esercizio della giurisdizione
relativamente all'aggressione al momento in cui le parti contraenti ne avranno dato una definizione e
avranno precisato le condizioni di esercizio della giurisdizione in materia. I lavori sono in corso ma non
sembrano avviati a pronta e positiva soluzione. Questa eccezione che riguarda il principale tra quelli che
la Carta di Norimberga definiva crimini contro la pace dovuta alla difficolt politica di definire con
precisione una nozione che ha una rilevanza chiave nell'interpretazione dell'art. 51 della Carta delle
Nazioni Unite. Non si pu non ricordare peraltro quanto ebbe a dire il Tribunale di Norimberga: La
guerra essenzialmente un male. Le sue conseguenze non sono confinate ai suoi Stati belligeranti, ma
riguardano il mondo intero. Iniziare una guerra di aggressione, pertanto, non soltanto un crimine
internazionale; il supremo crimine internazionale, che si distingue dagli altri crimini di guerra solo per
il fatto che contiene in s la somma dei mali di tutti gli altri.
Di ciascuna delle altre categorie di crimini, lo statuto d analitiche definizioni nei successivi artt. 6,7 e 8,
che vanno completate alla luce degli elementi dei crimini.
Per quanto riguarda il genocidio, l'art. 6 lo definisce come ciascuno degli atti seguenti, commessi con
l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come
tale:
a. uccisione di membri del gruppo;
b. lesioni gravi all'integrit fisica o mentale di membri del gruppo;
c. sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di esistenza che comportano la sua
distruzione fisica, totale o parziale;
d. misure miranti a impedire le nascite all'interno del gruppo;
e. trasferimento forzato di bambini da un gruppo all'altro.
Le norme che prevedono i crimini contro l'umanit sono ispirate ai medesimi valori che ispirano i diritti
dell'uomo. Questi crimini infatti sono gravi attentati alla vita e alla dignit umana caratterizzati dal loro
carattere diffuso o sistematico. Ne possono essere vittime anche persone che appartengono allo stesso
paese cui appartengono i responsabili e possono essere perpetrati in pace o in guerra. All'art. 7, par. 1,
lo statuto della Corte penale internazionale, elenca le seguenti undici categorie di crimini contro
l'umanit, che devono essere commessi come parte di un attacco diffuso e sistematico contro
qualsiasi popolazione civile, con conoscenza dell'attacco:
omicidio;
[16]

sterminio;
riduzione in schiavit;
deportazione o trasferimento forzato di popolazione;
incarcerazione o altra grave violazione della libert personale in violazione di regole
fondamentali di diritto internazionale;
tortura;
stupro;
schiavit sessuale;
prostituzione forzata;
gravidanza forzata;
sterilizzazione forzata o ogni altra forma di violenza sessuale di gravit comparabile;
persecuzione contro un gruppo o collettivit identificabile per motivi politici, razziali, nazionali,
etnici, culturali, religiosi, di genere o per altri motivi universalmente riconosciuti come
inammissibili secondo il diritto internazionale;
lapartheid;
e altri atti inumani di carattere simile che diano luogo intenzionalmente grande sofferenza, o
gravi danni al corpo o alla salute fisica e mentale.
Il par. 2 dell'art. 9 contiene ulteriori chiarimenti relativi a nozioni utilizzate nel definire i crimini contro
l'umanit nel precedente par.. Se a questi si aggiungono i rilevanti elementi dei crimini si ha
l'impressione che l'intento degli Stati parte sia stato quello di imbrigliare la Corte restringendo le
possibilit di seguire l'esempio dei Tribunali ad hoc la cui giurisprudenza ha dato contributi rilevanti alla
definizione dei crimini contro l'umanit.
I crimini di guerra sono le violazioni gravi delle norme sul c.d. ius in bello previste dal diritto
consuetudinario e da specifiche convenzioni (in particolare quelle di Ginevra del 1949 e i Protocolli
addizionali del 1977). Essi possono riguardare il trattamento delle cc.dd. persone protette (feriti, civili,
prigionieri di guerra) o specialmente protette (personale medico, la Croce Rossa, ecc.), l'uso di metodi e
mezzi di guerra proibiti. L'art. 8 dello statuto della Corte penale internazionale (par. 2 lett. a) ne da
un'analitica elencazione. Va peraltro sottolineato che la nozione di crimine di guerra anche applicabile
ai crimini commessi in conflitti armati interni e non solo in quelli internazionali.
L'istituzione di giurisdizioni penali internazionali ha portato, di necessit, al formarsi di norme
internazionali relative alla parte generale del diritto penale. Prendendo ancora come guida lo statuto
della Corte penale internazionale (la cui parte terza intitolata Principi generali di diritto penale), di
particolare rilievo sono i principi seguenti. In primo luogo, i principi nullum crimen e nulla poena sine lege
completati dalla irretroattivit delle norme incriminatrici (artt. 22, 23 e 24). Mentre il principio di legalit
della prima norma mira a superare le obiezioni che erano state sollevate rispetto alla Carta di
Norimberga, e che la sentenza di Norimberga aveva superato affermando il carattere consuetudinario
delle norme che prevedevano i crimini internazionali, quello di irretroattivit mira a evitare
l'applicazione dello statuto a situazioni precedenti alla sua entrata in vigore. In secondo luogo, il
principio della responsabilit penale individuale, completato da una serie di norme in tema di
complicit, di istigazione, di tentativo (art. 25) e di elemento soggettivo del reato (intent and knowledge,
dell'art. 30). In terzo luogo, vanno ricordate le norme che escludono qualsiasi esenzione o immunit
dovute alla qualit ufficiale della persona incolpata (art. 27) e disciplinano le condizioni in presenza delle
quali sussiste la responsabilit dei superiori per gli atti dei subordinati (art. 28). Viceversa, l'ordine del
superiore pu essere una scusante ma solo in limitati casi di crimini di guerra e mai per il genocidio o il
crimine contro l'umanit (art. 33).
CARATTERI DINSIEME DELLE REGOLE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
1. Diritto internazionale generale, diritto internazionale particolare e altre fonti di diritto
internazionale.
[17]

Linsieme di regole di condotta denominato diritto internazionale si compone, precipuamente, di due
distinte categorie di regole:
da una parte, le regole del diritto internazionale generale o comune o consuetudinario o non
scritto, chiamate talvolta anche regole del diritto internazionale spontaneo o della coscienza
ovvero regole generalmente riconosciute o generalmente accettate dai membri della societ
internazionale;
dall'altra, le regole del diritto internazionale particolare o convenzionale o pattizio, chiamate
anche talvolta regole del diritto internazionale positivo o della volont.
La distinzione tra diritto internazionale particolare e diritto internazionale generale emerge dall'art. 38,
par. 1, dello statuto della Corte internazionale di giustizia, secondo il quale la Corte, la cui funzione di
decidere in base al diritto internazionale le controversie che le sono sottoposte, applica:
a) le convenzioni internazionali, sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente
riconosciute dagli Stati in lite;
b) la consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accettata come diritto;
c) i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;
d) le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori pi qualificati delle varie nazioni come mezzi
sussidiari per la determinazione delle norme giuridiche.
2. Natura e origine della consuetudine.
Proprio per il fatto di non essere posta per iscritto da un legislatore secondo procedure rigidamente
predeterminate, la regola consuetudinaria presenta caratteri di spontaneit, di informalit e di flessibilit
che ne rendono difficile un inquadramento sul piano teorico.
L'orientamento seguito nella presente opera ritiene che, per l'esistenza di regole generali del diritto
internazionale, sia giuridicamente irrilevante il modo della loro formazione. Secondo questo
orientamento, l'esistenza di tali regole non deriva dal fatto che esse siano state poste in essere in un
modo predeterminato, riconosciuto come idoneo alla produzione giuridica da una norma, esplicita o
implicita, del diritto internazionale; bens puramente e semplicemente dal fatto che tali regole si possano
constatare presenti ai membri della societ internazionale e operanti nella loro vita di relazione, quali
regole di osservanza obbligatoria.
L'elemento empirico che caratterizza la consuetudine di solito reso in termini giuridici spiegando che,
per l'esistenza di una consuetudine, occorre la presenza concomitante di due elementi: un elemento
oggettivo o materiale, dato dalla ripetizione costante nel tempo di una serie di comportamenti, e un
elemento soggettivo o psicologico, dato dal convincimento che i comportamenti in questione sono
doverosi e prescritti da una regola giuridica (opinio juris sive necessitatis).
3. Il fattore tempo nella formazione della consuetudine.
L'irrilevanza dei processi che portano alla formazione o al venir meno di regole del diritto
internazionale generale si manifesta anche sotto l'aspetto dell'irrilevanza del fattore temporale (il time
factor o time elemente degli anglosassoni) ai fini dell'esistenza delle regole in questione.
Con ci non si vuole affermare che il passaggio di un tempo sia pur breve non sia in pratica
indispensabile per l'affermarsi di una regola consuetudinaria. Si vuole solo sottolineare che, soprattutto
di recente, non poche regole internazionali generali sono venute a esistenza nell'arco di pochi anni.
Cos dicasi, ad esempio, per la regola generale che dispone l'irradiazione della sovranit territoriale dello
Stato sullo spazio atmosferico sovrastante il suo territorio. Cos pure dicasi per la regola generale
relativa all'irradiazione della sovranit territoriale dello Stato marittimo sulla cosiddetta piattaforma
continentale. Cos ancora dicasi per la regola generale relativa alla libert di utilizzazione degli spazi
extra-atmosferici.
4. La prova della consuetudine.
Non sembra che possa parlarsi di un vero e proprio onere della prova del contenuto e dell'esistenza delle
regole generali del diritto internazionale, a carico dello Stato che le invoca nei confronti di un altro.
[18]

Lo Stato che invoca l'esistenza di una regola generale di diritto internazionale si preoccuper di darne la
prova con tanta maggiore ampiezza e accuratezza, quanto pi forte e decisa risulti la resistenza dell'altro
Stato ad ammetterne l'esistenza. Il maggior numero di controversie internazionali in cui sono state fatte
valere pretese fondate su regole generali del diritto internazionale verte, peraltro, non tanto
sull'esistenza di tali regole, quanto sul pi preciso contenuto delle stesse.
L'odierna divisione della societ internazionale, sia sotto il profilo dell'organizzazione interna,
economica, sociale e politica, dei suoi protagonisti, sia sotto quello del loro sviluppo economico e
tecnologico, nonch la sua espansione in conseguenza della decolonizzazione, rendono probabilmente
pi acuto il delicato problema della rilevazione delle regole internazionali generali.
Una regola consuetudinaria potr pertanto dirsi universalmente riconosciuta soltanto se essa risulti
seguita non soltanto da un adeguato numero di Stati, ma anche dai principali gruppi di Stati interessati
alla regola stessa.
5. Gli interventi volontari nella formazione ed evoluzione delle regole consuetudinarie.
Anche se la configurazione delle norme consuetudinarie internazionali come norme spontanee,
continua, a nostro avviso, a essere la pi soddisfacente, occorre precisare che nella pratica
contemporanea divengono sempre pi frequenti i comportamenti e le manifestazioni di opinione per
mezzo dei quali gli Stati si propongono di influire sul processo di formazione o di evoluzione del diritto
internazionale consuetudinario.
Tali interventi possono assumere le forme pi varie, da comportamenti materiali (come, ad esempio, il
passaggio di flotte in certe zone marittime), alla emanazione di leggi e altri provvedimenti interni, a
dichiarazioni, obiezioni, e via dicendo. Una manifestazione molto chiara dell'atteggiamento in questione
data da una dichiarazione del 1970 del primo ministro canadese, Trudeau. La dichiarazione intendeva
giustificare la legge, adottata quell'anno, con la quale il Canada in contrasto con il diritto
consuetudinario allora vigente, che limitava a 12 miglia la sovranit dello Stato sul mare adiacente
estendeva a 100 miglia dalla costa l'ambito di applicazione spaziale delle norme canadesi relative alla
prevenzione dell'inquinamento marino nella regione artica: Dove non vi diritto o dove il diritto
chiaramente insufficiente e non c' alcun diritto internazionale comune applicabile ai mari artici noi
diciamo che qualcuno deve preservare quest'area per l'umanit, finch il diritto internazionale non si
sviluppi. E noi siamo pronti a facilitarne lo sviluppo prendendo misure da parte nostra.
In tali interventi e nelle reazioni che essi suscitano e da vedere non tanto mutamento qualitativo dei
modi di formazione del diritto consuetudinario; quanto piuttosto un arricchimento della serie di
manifestazioni della pratica di cui ci si pu servire per ricostruire il contenuto delle norme
consuetudinarie.
6. Lo Stato obiettore persistente.
Tra gli interventi volontari nel processo di formazione delle norme consuetudinarie internazionali,
esaminati nel par. precedente, ne stato da tempo identificato uno con il quale uno Stato, pur non
intendendo ostacolare il sorgere di una norma consuetudinaria in formazione, persegue lo scopo di
sottrarre s stesso all'ambito di applicazione di tale norma.
Si sostiene, infatti, che se una regola consuetudinaria nel corso della sua fase formativa viene fatta
oggetto di obiezioni in modo persistente e inequivoco da parte di un determinato Stato (detto Stato
obiettore persistente o Stato recalcitrante), la regola stessa, una volta affermata, non pu essere fatta
valere nei confronti dello Stato in questione.
La spiegazione del fenomeno, pi che in una concezione consensualistica della consuetudine, parrebbe
risiedere in una situazione di temporanea e limitata frantumazione della societ internazionale, dovuta
alle tensioni cui danno luogo le rapide trasformazioni della sua composizione e delle concezioni in essa
prevalenti.
7. Le consuetudini locali o particolari.
[19]

Alcune manifestazioni importanti della giurisprudenza internazionale sembrano deporre per l'esistenza
non solo di regole generali, ma anche di regole particolari aventi una natura consuetudinaria. Si tratta
delle regole la cui esistenza sarebbe provata, secondo la formulazione dell'art. 38, par. 1b, dello statuto
della Corte internazionale di giustizia, da una pratica generale accettata come diritto non dai membri
della societ internazionale nel loro insieme, bens da un gruppo limitato e determinato di Stati o al
limite da due Stati soltanto. Si parla a questo proposito di consuetudine locale o particolare o regionale, in
contrapposizione alla consuetudine universale o generale.
Prendendo posizione sul punto, la Corte ha osservato che: La parte che invoca una consuetudine di
questa natura deve provare che tale consuetudine si stabilita in modo tale da divenire obbligatoria per
l'altra parte. Alla luce di ci, e a differenza di quel che si detto avvenire per le regole generali, sulla
parte che invoca una regola consuetudinaria particolare sembrerebbe incombere l'onere di fornire la
prova della sua esistenza nei confronti dello Stato che tale esistenza contesti.
8. I rapporti tra regole consuetudinarie e regole pattizie.
Il fatto che i trattati internazionali siano posti in essere mediante un procedimento previsto da norme
consuetudinarie e che pertanto, sotto un profilo meramente logico, il diritto consuetudinario rivesta una
posizione prioritaria rispetto a quello pattizio, non significa che una corrispondente posizione
sovraordinata del diritto consuetudinario esista anche sotto il profilo dell'efficacia normativa per i
soggetti. anzi vero il contrario. Le norme pattizie (ben s'intende, tra le parti del trattato che le hanno
poste in essere) hanno in linea di principio un'efficacia normativa del tutto equivalente e autonoma rispetto
alle regole di diritto non scritto o consuetudinario: dunque chiaro che le regole del diritto
internazionale consuetudinario conservano un'esistenza e un'applicabilit autonoma rispetto a quelle del
diritto internazionale convenzionale, anche quando le due categorie di diritto hanno un contenuto
identico.
Soltanto in tempi recenti, con la convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, ha cominciato a
prendere terreno l'idea che, in casi determinati e limitati, una ristretta categoria di norme
consuetudinarie, caratterizzate da loro contenuto imperativo (ius cogens), abbia efficacia normativa
prevalente su norme pattizie, cos da rendere nullo un trattato che sia in conflitto con tali regole
imperative del diritto internazionale generale.
Anche a prescindere dai casi eccezionali in cui venga ipotizzata l'esistenza di una norma generale
cogente, l'indagine sui criteri che si possono invocare nei casi di conflitto fra regole consuetudinarie e
regole pattizie presenta carattere di notevole delicatezza. Non ci si pu rifare al solo criterio per cui la
norma successiva deroga a quella preesistente, ma occorre anche tener presente il criterio per cui la
norma speciale deroga alla generale. Anzi, a quest'ultimo criterio oggi ci si rif nella maggioranza dei
casi, posto che al carattere generale delle regole di diritto consuetudinario si contrappone quello
particolare e in questo caso speciale delle norme pattizie.
Nella sentenza parziale resa il 14 luglio 1987 nella controversia tra Stati Uniti e gli Iran, il Tribunale dei
reclami Iran-Stati Uniti fece il seguente rilievo: Come lex specialis nelle relazioni tra i due paesi, il
trattato prevale sulla lex generalis, ovvero sul diritto internazionale consuetudinario. Questo non significa,
tuttavia, che il secondo sia irrilevante nel caso specifico. Al contrario, le regole di diritto
consuetudinario possono essere utili al fine di colmare possibili lacune del trattato, per determinare il
significato di termini non definiti nel suo testo o, pi in generale, per contribuire all'interpretazione e
all'applicazione delle sue disposizioni.
Se il criterio di specialit consente in molti casi di ritenere prevalente la norma pattizia, in altri casi
possibile giungere all'opposta conclusione. Questo si verifica in particolare quando si assiste al formarsi
in tempi brevi, successivamente all'accordo, di una nuova, e rispetto a esso divergente, norma
consuetudinaria. Esempi recenti del fenomeno riguardano la formazione, rapidamente avvenuta negli
ultimi decenni del XX secolo, di nuove regole consuetudinarie in materia di diritto del mare, che
consentono allo stato costiero di esercitare diritti sovrani in materia di pesca entro 200 miglia marine
dalla costa. Tali norme consuetudinarie hanno abrogato, come sottolineano manifestazioni della prassi
[20]

anche giudiziaria, le norme pattizie in materia di pesca fondate sul presupposto di una limitazione a 12
miglia dell'ambito dei poteri dello Stato costiero.
9. I principi generali di diritto.
Nell'iniziale processo di formazione spontanea delle regole generali della moderna societ
internazionale, un ruolo non indifferente stato giocato da diversi principi generali di diritto che non
erano altro, sino alla loro trasfusione nel corpo del diritto internazionale, che principi generali del diritto
romano o del diritto interno delle singole societ nazionali del tempo, in particolare di quel diritto comune
che rappresent, per molti paesi europei, fino agli inizi del XVIII secolo, una sorta di fondo giuridico
uniforme tra i paesi stessi e i rispettivi ordinamenti nazionali.
Il ruolo per tal modo svolto dai principi generali del diritto romano o del diritto comune nell'iniziale
processo di formazione spontanea di molte regole generali del diritto internazionale venuto, peraltro,
progressivamente regredendo mano a mano che l'esistenza di queste regole nella vita di relazione
internazionale pot essere attestata, non pi con riferimento a siffatti principi, bens con un diretto
riferimento alla pratica degli Stati.
Nella situazione contemporanea dell'ordinamento internazionale, una simile trasfusione di principi
generali dalla sfera giuridica delle societ nazionali alla sfera giuridica propria della societ internazionale
da ritenersi ancora ammissibile?
Certamente s, se tale possibilit sia espressamente contemplata da una regola pattizia. Ed questo il
caso del gi riportato art. 38, par. 1c, dello statuto dell'attuale Corte internazionale di giustizia, il quale
prevede che la Corte applichi, nel decidere in base al diritto internazionale le controversie che le sono
sottoposte, anche i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. Con essa, stato inteso
conferire alla Corte una maggiore libert di apprezzamento per quanto riguarda le premesse giuridiche
da cui trarre la decisione delle controversie, rispetto a quanto risulterebbe da un mero riferimento alle
regole convenzionali o generali applicabili al caso controverso.
L'esercizio del potere di ricorrere ai principi generali del diritto soggetto, tuttavia, a condizioni e
restrizioni. Occorre, innanzitutto, che non vi siano regole particolari n regole generali del diritto
internazionale applicabili alla fattispecie su cui verte la controversia. Occorre, in secondo luogo, che il
principio generale di diritto applicato dalla Corte informi gi di s i principali sistemi giuridici nazionali.
Occorre, in terzo luogo, che il principio non sia incompatibile con i caratteri e la struttura della societ
internazionale.
Va subito aggiunto che la Corte ha esercitato finora con estrema cautela il potere conferitole dall'art. 38,
par. 1c, dello statuto.
10. Le dichiarazioni di principi dellAssemblea generale delle Nazioni Unite e il soft law.
Certi atti dell'Assemblea Generale e, pi precisamente, le risoluzioni di tale organo, si usano
consuetamente designare con l'espressione dichiarazioni di principi.
Tra le pi note e le pi frequentemente richiamate si possono ricordare: la risoluzione n. 217 A (III) del
1948 recante la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo; la risoluzione n. 1514 (XV) del 1960
recante la dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza ai popoli coloniali; la risoluzione n. 3324
(XXIX) del 1974 recante la definizione dell'aggressione.
Ci si chiede se tali e altre similari dichiarazioni di principi, in considerazione della vocazione universale
delle Nazioni Unite, non debbano configurarsi quali una vera e propria nuova fonte, di natura legislativa
o quasi-legislativa, del diritto internazionale contrapponibile, in quanto tale, sia all'accordo che alla
consuetudine. Non sembra che la prassi internazionale consenta di dare una risposta positiva a un
simile quesito. Queste risoluzioni hanno senza dubbio un gran peso nei processi di formazione
spontanea di regole generali di diritto internazionale relative alle materie considerate, come pure nella
cristallizzazione di opinioni e di pratiche dalle quali derivano e si sviluppano tali regole, ma nulla
consentirebbe, a parer nostro, di andare oltre. Nella stessa Carta delle Nazioni Unite difficile rinvenire
un fondamento giuridico preciso della competenza dell'Assemblea Generale a emanare le suddette
[21]

dichiarazioni di principi, le quali non hanno comunque altra natura che quella di raccomandazioni
(art. 10 della Carta).
poi sintomatico che diverse tra tali dichiarazioni si siano trasfuse o tendano a trasfondersi in accordi
internazionali e che la tecnica prescelta dall'Assemblea Generale per portare avanti la sua opera di
codificazione e di sviluppo progressivo del diritto internazionale non sia stata quella delle dichiarazioni
di principio, bens quella tradizionale degli accordi internazionali.
Le dichiarazioni di principio sono forse la manifestazione pi conosciuta e discussa del pi ampio
fenomeno del soft law. Con tale espressione si designano testi di contenuto normativo, adottati da
soggetti di diritto internazionale spesso nel quadro di organizzazioni internazionali, attraverso
procedimenti che non comportano che essi abbiano carattere vincolante, ma cui non possono negarsi
taluni effetti giuridici, quali quelli test visti nella formazione o nella cristallizzazione di regole
consuetudinarie, e anche, sotto il profilo della buona fede, quello di precludere allo Stato che abbia
concorso col suo consenso alla loro adozione di sostenere l'illiceit di un comportamento conforme a
tali norme.
Particolarmente importante rilevare che, nonostante il loro carattere non vincolante, le regole di soft
low vengono in genere seguite dagli Stati. A ci contribuiscono le pressioni sociali che comporterebbe
un comportamento non conforme, accentuate spesso dallazione di organizzazioni non governative e da
meccanismi istituiti nel quadro di organizzazioni intergovernative che prevedono rapporti periodici
sulladempimento delle regole stesse.
11. Verso una legislazione internazionale?
Occorre subito premettere che l'attribuzione ai trattati nella societ internazionale di una funzione
comparabile a quella della legislazione nelle societ nazionali va accolta con grande prudenza.
Anche a voler limitare la suddetta funzione soltanto ad alcuni trattati multilaterali, che la dottrina usa
chiamare law-making treaties o trattati legislativi o trattati ed efficacia generale, rimane pur sempre vero
che il trattato resta uno strumento di auto-regolamento di rapporti tra Stati, fondato sul consenso di
questi, e non assume quella posizione eteronoma (condizione in cui l'azione del soggetto non guidata
da un criterio autonomo ma determinata dall'esterno) rispetto ai consociati, che viene considerata
essenziale allo strumento legislativo.
12. Atti giuridici unilaterali.
Non costituiscono propriamente atti giuridici unilaterali, nonostante la innegabile unilateralit che
propria di queste dichiarazioni di volont nel momento in cui sono espresse, n i cosiddetti atti di
ratifica, di approvazione o di adesione a un trattato, n gli atti di annessione di un territorio altrui o
nullius, in quanto i primi producono effetti per il diritto internazionale soltanto in virt della loro
convergenza con manifestazioni di volont di altri soggetti e i secondi soltanto quali elementi di una
fattispecie pi complessa, che richiede un'effettiva e stabile estensione dell'autorit dello Stato nella
regione di cui si tratta.
Costituiscono invece atti giuridici unilaterali tutte quelle manifestazioni (o dichiarazioni) di volont di
soggetti cui il diritto internazionale ricollega conseguenze o effetti corrispondenti alla volont
manifestata.
L'efficacia cos attribuita a manifestazioni unilaterali di volont pu dipendere tanto da regole generali
quanto da regole particolari dell'ordinamento internazionale.
13. Le varie categorie di atti unilaterali, in particolare: il riconoscimento, la rinuncia, la
protesta, la promessa e la notificazione.
Quali esempi di manifestazioni unilaterali di volont contemplate da regole pattizie di diritto
internazionale si possono ricordare:
la denuncia o il recesso di uno Stato rispetto a un trattato, che d luogo al venir meno per lo
Stato da cui promana, e nei confronti delle altre parti, dell'efficacia delle regole create con il
trattato;
[22]

la domanda di uno Stato volta a mettere in moto il procedimento per il regolamento giudiziario
delle controversie, previsto da un trattato di cui siano parti tanto lo Stato che avanza la richiesta
quanto lo Stato nei confronti del quale la medesima avanzata.
Quali manifestazioni unilaterali di volont contemplate da regole generali del diritto internazionale
vengono abitualmente considerate:
il riconoscimento, ovvero l'atto attraverso il quale uno Stato, sulla base di un preventivo
apprezzamento dei mutamenti intervenuti nella sfera delle relazioni internazionali per ci che
concerne un altro Stato, e dell'assenza in tali mutamenti di elementi pregiudizievoli ai propri
interessi e diritti, manifesta unilateralmente a questo Stato la propria volont di considerare
esistente e di non contestare la situazione di fatto o di diritto risultante da tali mutamenti.
L'effetto che il diritto internazionale generale ricollega al riconoscimento consiste nell'obbligo,
per lo Stato che ha effettuato il riconoscimento, di non contestare la situazione di fatto o di
diritto per tal modo riconosciuta e in un corrispondente diritto soggettivo a favore dello Stato al
quale la manifestazione universale di volont diretta;
la rinuncia, attraverso la quale uno Stato manifesta la volont di non avvalersi di un diritto
soggettivo spettantegli, nei confronti di un altro Stato, a seguito di una regola, generale o
pattizia, del diritto internazionale. Secondo il diritto internazionale generale, la rinuncia ha per
effetto l'estinzione, in capo all'altro Stato, dell'obbligo giuridico corrispondente al diritto
soggettivo rinunciato.
Il riconoscimento e la rinuncia possono risultare tanto da una manifestazione espressa di
volont di uno Stato che procede all'uno o all'altra, quanto da suoi comportamenti concludenti
e, in circostanze particolari, perfino dal suo silenzio. soprattutto in questi casi che si parla di
acquiescenza (intesa come un riconoscimento tacito manifestato da un comportamento unilaterale
di uno Stato che l'altra parte pu interpretare come un consenso) e della sua funzione in un
ordinamento giuridico come quello della societ internazionale, profondamente e
comprensibilmente dominato da esigenze di effettivit.
la protesta, per il tramite della quale esclusa la possibilit di evincere dal comportamento dello
Stato il suo riconoscimento dei mutamenti intervenuti nelle relazioni internazionali per ci che
concerne altri Stati o la sua rinuncia a un proprio diritto soggettivo contro il fatto di uno Stato
che quei mutamenti abbia determinato o che abbia leso quello che il primo Stato ritiene essere
un proprio diritto soggettivo. La manifestazione unilaterale di volont in cui si sostanzia la
protesta ha per effetto, secondo il diritto internazionale generale, di impedire che il
comportamento passivo dello Stato di fronte ad un fatto lesivo dei suoi diritti e dei suoi
interessi possa valere acquiescenza. La protesta, tuttavia, per avere efficacia, deve essere
tempestiva.
la promessa, per la quale l'esistenza in diritto internazionale di una regola generale che
imporrebbe, sempre che sussistano determinate condizioni a tutela dell'affidamento del
promissario (o beneficiario), allo Stato che ha effettuato la dichiarazione unilaterale di volont di
impegnarsi a un certo comportamento, l'obbligo di attenersi al comportamento stesso, stata
affermata dalla Corte internazionale di giustizia nelle sue sentenze del 20 dicembre 1974
nell'affare degli esperimenti nucleari, che contrapponeva la Francia a, rispettivamente, Australia e
Nuova Zelanda. Gli unilaterali impegni pubblicamente presi dalla Francia di non continuare gli
esperimenti nucleari nell'atmosfera dopo il 1974 furono ritenuti vincolanti e tali che gli Stati
interessati potevano tenerne conto e farvi affidamento.
Sembra invece difficile, nonostante la diversa opinione di qualche studioso, poter configurare la
notificazione come un atto giuridico unilaterale, in quanto la notificazione non si sostanzia in una
manifestazione di volont, bens in una mera attivit dello Stato che la effettua, diretta, a seconda dei
casi, a far pervenire quella dichiarazione al destinatario o a portare quel fatto a conoscenza dell'altro
soggetto.
[23]

LA CODIFICAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE
1. La codificazione pattizia del diritto internazionale.
Per codificazione di un intero sistema giuridico o di una sua parte, tanto in diritto nazionale quando in
diritto internazionale, si intende consuetamente una determinazione autoritativa delle regole codificate,
atta a imporne l'osservanza nell'ambiente sociale in cui le stesse dovranno essere applicate.
Nelle societ nazionali, la determinazione vincolante di cui si parla operata dal legislatore. Nella
societ internazionale, data l'assenza di un legislatore, la determinazione in questione non pu essere
operata altrimenti che mediante il procedimento dell'accordo tra Stati; ovvero attraverso il negoziato e
la conclusione di trattati aventi per oggetto e per scopo di racchiudere in una regolamentazione pattizia
un insieme pi o meno vasto di regole del diritto internazionale non scritto o consuetudinario.
2. Le Nazioni Unite e la codificazione del diritto internazionale nel quadro della
Commissione del diritto internazionale e in quadri diversi.
All'Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Carta di San Francisco (art. 13, par. 1a) attribu, tra le
altre, la funzione di intraprendere studi e fare raccomandazioni allo scopo di incoraggiare lo sviluppo
progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione.
Per assolvere a tale funzione, l'Assemblea Generale cre un apposito organo sussidiario a carattere
permanente, la Commissione del diritto internazionale. La commissione composta, a partire dal 1981,
da 34 membri, di riconosciuta competenza in materia di diritto internazionale, eletti dall'Assemblea
Generale su liste di candidati presentate dagli Stati membri. Essa ha lo scopo prevalente di promuovere
lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione. Secondo l'art. 15 dello statuto
della Commissione, l'espressione sviluppo progressivo del diritto internazionale va intesa come
riferita all'elaborazione di convenzioni su materie che non siano ancora regolate dal diritto
internazionale o sulle quali il diritto internazionale non appaia ancora sufficientemente sviluppato nella
pratica degli Stati; l'espressione codificazione del diritto internazionale va invece intesa come
riferentesi ai casi in cui si tratti di formulare con maggiore precisione e in modo sistematico delle regole
di questo diritto nei campi nei quali esistano gi considerevoli pratiche degli Stati, precedenti e dottrina.
L'accentuata politicizzazione delle attivit delle Nazioni Unite, conseguenza dell'allargamento della loro
composizione e anche della pratica di assumervi le decisioni per consensus, ha causato negli anni recenti
l'emergere di nuove procedure di codificazione e soprattutto di sviluppo progressivo del diritto
internazionale in parallelo con quella che fa perno sulla Commissione del diritto internazionale. Tali
nuove procedure hanno in comune il loro svolgersi integralmente a livello politico, senza intervento di
organi tecnici come, appunto, la Commissione del diritto internazionale.
3. Risultati e programmi dell'opera della Commissione del diritto internazionale.
I risultati conseguiti dall'opera delle Nazioni Unite per la codificazione e lo sviluppo progressivo del
diritto internazionale si sostanziano oggi in un insieme estremamente ricco e vario di testi, che coprono
ampi settori della materia oggetto del diritto internazionale consuetudinario.
I risultati dell'opera di codificazione condotta in base ai lavori della Commissione del diritto
internazionale sono indubbiamente imponenti per quanto riguarda ampiezza e variet di materie
affrontate. Per quanto riguarda il successo, in termini di ratifiche e adesioni, il quadro, bench
largamente positivo, pi sfumato. Va per subito sottolineato che, come meglio si vedr fra breve, il
successo di una convenzione di codificazione non si pu misurare solo con riferimento al numero delle
ratifiche e delle adesioni, anche se tale numero, soprattutto a distanza di anni dalla conclusione, pu
essere un utile indicatore del grado in cui una determinata convenzione rifletta le esigenze della
comunit internazionale.


[24]

4. La codificazione del diritto internazionale e i suoi riflessi sul diritto internazionale
generale.
Come si visto in precedenza, lo strumento giuridico prevalentemente utilizzato sino a oggi per
procedere a una codificazione dell'uno o dell'altro settore del diritto internazionale, e il solo che
produca norme vincolanti, quello dell'accordo tra Stati. Ma non si deve credere per questo che il
successo o l'insuccesso di un'opera di codificazione sia sempre e strettamente correlato alle sorti dello
strumento convenzionale in cui tale opera stata consacrata.
Certamente, auspicabile che l'adozione di un trattato di codificazione sia seguita, senza eccessivi
ritardi, dalle ratifiche o dalle adesioni del numero di Stati richiesto per l'entrata in vigore del trattato; e
cos pure auspicabile che il numero degli Stati, che manifestano il loro consenso a vincolarsi al
trattato, sia il pi largo possibile tanto quantitativamente che qualitativamente.
Tuttavia, non si deve credere che, anche quando un adeguato suo successo non sia stato raggiunto, o
non sia stato ancora raggiunto, l'opera di codificazione vada considerata priva di incidenza nel quadro
della societ internazionale. Ogni sforzo per la codificazione e lo sviluppo progressivo del diritto
internazionale costituisce comunque un elemento importante della pratica degli Stati e un punto di
riferimento essenziale ai fini della rilevazione delle regole generali relative al settore in cui si tentata la
codificazione.
L'ampliarsi del numero delle convenzioni di codificazione rende sempre pi importante l'indagine sulla
corrispondenza o meno di convenzioni di codificazione, o di disposizioni in esse contenute, al diritto
consuetudinario. Ai fini di tale indagine indubbiamente utile un modello concettuale dei rapporti tra
convenzioni di codificazione e diritto consuetudinario proposto dalla Corte internazionale di giustizia in
varie sentenze. Secondo quel modello, dovrebbero distinguersi tre casi:
quello della convenzione come codificazione di una regola consuetudinaria preesistente;
quello della convenzione come cristallizzazione di una regola consuetudinaria emergente;
quello della convenzione come fattore generatore di una nuova regola consuetudinaria.
Nel primo caso, la convenzione d forma scritta a regole consuetudinarie esistenti al momento della sua
adozione; nel secondo caso, la inclusione nella convenzione di regole consuetudinarie ancora in fase
formativa fa s che tali regole vengano riconosciute aver concluso tale loro fase; nel terzo caso, le regole
contenute nella convenzione, non corrispondendo al diritto consuetudinario al momento dell'adozione
di essa, funzionano come modelli di comportamento per gli Stati, venendo, con il passare del tempo, a
dar luogo a nuove regole consuetudinarie.
Pu per verificarsi anche il fenomeno contrario: regole che al momento della loro inclusione in una
convenzione di codificazione riproducevano regole consuetudinarie universalmente riconosciute
possono, col passare del tempo, non essere pi sentite come obbligatorie dalla comunit degli Stati e
non avere pi vigore se non a titolo di regole pattizie per gli Stati che sono parte alla convenzione.
IL DIRITTO DEI TRATTATI
1. Il diritto dei trattati e la sua codificazione.
Come gi osservato in precedenza, la parte quantitativamente preponderante delle regole di diritto
internazionale costituita da regole di natura pattizia o convenzionale. In questo capitolo sar preso in
considerazione quell'insieme di norme internazionali generali da cui dipende lo specifico valore di tali
regole nel quadro della societ internazionale.
La rilevazione delle regole generali del diritto internazionale dei trattati (o, in breve, del diritto dei
trattati) appare oggi grandemente agevolata dall'imponente opera di codificazione compiuta sotto gli
auspici delle Nazioni Unite.
Tale opera ha avuto inizio nell'ambito della Commissione del diritto internazionale che, sin dalla sua
prima sessione (1949), aveva incluso il diritto dei trattati all'ordine del giorno dei suoi lavori. Solo a
partire dal 1961 la Commissione pot dedicare una parte considerevole dei suoi lavori al diritto dei
trattati, adottando nel 1966 un progetto di artt. trasmesso all'Assemblea Generale per l'esame e per le
decisioni relative alla fase ulteriore dei lavori di codificazione. Il 22 maggio 1969, con 79 voti a favore,
[25]

19 astensioni e il solo voto contrario della Francia, il testo di una convenzione sul diritto dei trattati
venne adottato in seno ad una conferenza tenutasi a Vienna, e fu aperto alla firma il giorno successivo.
La convenzione sul diritto dei trattati entrata in vigore il 27 gennaio 1980, a seguito del deposito del
35 strumento di ratifica o di adesione, secondo quanto previsto dal suo art. 84, e a maggio 2009 ne
sono parte 109 Stati, tra cui l'Italia (la ratifica dell'Italia stata autorizzata con legge il 12 febbraio 1974,
n. 112).
La convenzione di Vienna non si limita a codificare le regole generali, presenti e operanti nell'ambito
della societ internazionale. Lart. 4 della convenzione, infatti, prevede che essa si applichi unicamente
ai trattati conclusi da Stati dopo la sua entrata in vigore, posto che, naturalmente, come affermato dallo
stesso art., la non retroattivit della convenzione non esclude che norme corrispondenti a quelle in essa
contenute siano vincolanti in quanto norme di diritto internazionale generale, indipendentemente dal
fatto che lo Stato sia parte della convenzione stessa.
2. La nozione di trattato.
Quale che sia la denominazione a essa riservata nella prassi diplomatica, la fattispecie presa in
considerazione dal diritto internazionale generale si sostanzia nella convergenza di manifestazioni di
volont di due o pi Stati, ciascuno dei quali consente, nei confronti dell'altro o degli altri, a osservare
come obbligatorie le regole di condotta contenute in un documento scritto o in due o pi documenti
scritti tra loro connessi.
La convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, nel dare (art. 2) le definizioni delle espressioni da essa
utilizzate, precisa che per trattato si intende un accordo internazionale concluso in forma scritta tra
Stati e regolato dal diritto internazionale, sia esso incorporato in uno strumento unico o in due o pi
strumenti connessi, e qualunque sia la sua denominazione particolare. Da tale definizione si desume
che gli Stati possono, se lo vogliono, addivenire ad accordi regolati non dal diritto internazionale, bens
da un diritto interno (ad esempio, se uno Stato stipula con un altro Stato un normale contratto di diritto
privato per prendere in locazione un immobile nel territorio del secondo).
Sono da considerarsi trattati internazionali anche alcuni accordi cui la convenzione di Vienna, per
motivi di opportunit pratica, non applicabile, e cio gli accordi internazionali conclusi tra Stati e altri
soggetti di diritto internazionale o da altri soggetti di diritto internazionale e gli accordi internazionali
che non sono stati conclusi in forma scritta. Come precisa l'art. 3 della convenzione, il fatto che essa
non si applichi a tali accordi non porta pregiudizio:
a. al valore giuridico di tali accordi;
b. all'applicazione a questi accordi di ogni regola enunciata nella presente convenzione alla quale
essi siano sottoposti in virt del diritto internazionale indipendentemente dalla convenzione;
c. all'applicazione della convenzione alle relazioni inter se tra Stati nell'ambito di accordi
internazionali dei quali siano ugualmente parte altri soggetti di diritto internazionale.
Ben diverso il caso dei trattati internazionali conclusi in forma non scritta. Quand'anche essi siano
ammissibili come sembra ammettere la convenzione di Vienna, pur escludendo di applicarsi a tali
trattati essi sembrano costituire un'ipotesi assolutamente eccezionale. Se anche i consensi degli Stati a
vincolarsi possano talora manifestarsi verbalmente o in modo tacito, la secolare pratica delle cancellerie
diplomatiche usa tradizionalmente fissare in scrittura il testo di qualsiasi diritto od obbligo che lo Stato
vada a contrarre.
La pubblicit del testo non costituisce un requisito essenziale perch si abbia un trattato internazionale.
vero che il diritto costituzionale di numerosi Stati prescrive, a tutela dei diritti degli organi
parlamentari e dei cittadini, che il testo dei trattati conclusi da parte degli organi nazionali competenti
sia pubblicato in raccolte nazionali ufficiali. per anche vero che nessuna norma di diritto
internazionale generale vieta gli Stati di concludere accordi segreti.
Carattere meramente pattizio ha l'art. 102 della Carta delle Nazioni Unite, che prevede una procedura di
registrazione e di pubblicazione internazionale dei trattati: ogni trattato e ogni accordo internazionale
stipulato da un membro delle Nazioni Unite dopo l'entrata in vigore del presente statuto deve essere
registrato al pi presto possibile presso il Segretariato e pubblicato a cura di quest'ultimo. La
[26]

conseguenza della mancata registrazione semplicemente l'impossibilit di invocare il trattato davanti
ad un organo delle Nazioni Unite, e non gi l'invalidit o l'inefficacia del trattato.
3. La struttura formale e la lingua dei trattati.
Il testo di un gran numero di trattati presenta taluni elementi ricorrenti, sui quali opportuno
brevemente soffermarsi.
Quale che sia la denominazione prescelta da coloro che lo hanno elaborato, tale denominazione si trova
in genere inserita in un titolo che serve a indicare sommariamente la materia del trattato: ad esempio,
trattato di pace, trattato di alleanza, trattato di amicizia, commercio e navigazione, convenzione
consolare, accordo di pagamenti, convenzione di estradizione, trattato istitutivo di una determinata
organizzazione internazionale e via dicendo. Al titolo segue il preambolo, che costituisce la parte
introduttiva del testo del trattato. Se si tratta di accordi bilaterali, nel preambolo si enunciano in forma
concisa i motivi che hanno spinto i due Stati a partecipare al negoziato. Nei trattati multilaterali, che a
cominciare approssimativamente dalla met del XIX secolo assumono ormai la forma di un atto
unitario e non pi quella di un fascio di trattati bilaterali tra le diverse coppie di Stati tra le quali si sono
svolte le trattative, l'enunciazione dei motivi e degli obiettivi tende a essere pi ampia di quanto avviene
per gli accordi bilaterali.
Al preambolo segue il dispositivo o parte percettiva del trattato, nel quale specificata la
regolamentazione materiale, che stata l'oggetto del negoziato e i diritti e obblighi da essa discendenti.
Il trattato si chiude, per lo pi, con una parte finale, nella quale si raccoglie tutta una serie di
disposizioni (dette clausole finali o protocollari) relative: ai tempi e ai modi con cui dovr essere
espresso il consenso dello Stato a vincolarsi al trattato, all'entrata in vigore, all'applicazione territoriale e
temporale, alla durata o ai modi di porre termine al trattato, nonch pi specificamente per i trattati
multilaterali agli Stati che potranno divenire parti, alle riserve, alle clausole in materia di emendamenti
o di revisione, alla designazione e ai compiti del depositario, al testo o ai testi facenti fede nel caso di
trattati redatti in pi lingue, e via dicendo.
Alle origini della moderna societ internazionale, il testo dei trattati era prevalentemente redatto in
latino, ma, a cominciare dalla seconda met del XVIII secolo, la lingua francese soppiant il latino
come lingua diplomatica e come lingua di prevalente redazione dei trattati.
Da vari decenni a questa parte, tuttavia, questa pratica ha subito un considerevole declino. Mentre nei
trattati bilaterali diffuso l'uso di redigere il testo in entrambe le lingue delle parti contraenti, nei trattati
multilaterali si predispone sempre pi di frequente il testo in una pluralit di lingue, considerate di solito
tutte parimenti autentiche, dotate cio di pari valore dal punto di vista dellinterpretazione del
contenuto e della portata degli impegni assunti dagli Stati.
4. La redazione del testo del trattato attraverso negoziati tra Stati.
Il procedimento formativo dell'accordo internazionale ha come suo punto di partenza lelaborazione e
redazione del testo di quella regolamentazione convenzionale che, in un momento successivo, ciascuno
Stato potr assumere come vincolante della propria condotta nei confronti degli altri contraenti.
Questa fase preparatoria si svolge perlopi, ma non necessariamente, attraverso negoziati o trattative tra
Stati.
5. L'adozione del testo.
Se le trattative hanno buon esito, l'adozione del testo del trattato da parte degli Stati che hanno partecipato
alla sua elaborazione conclude la fase preparatoria di formazione del trattato. Essa apre la strada alla
ulteriore fase consistente nella cosiddetta stipulazione del trattato, e cio nella manifestazione del consenso
degli Stati ad assumere come vincolante, ciascuno rispetto agli altri, la regolamentazione convenzionale
incorporata nel testo previamente predisposto.
In linea di principio, l'adozione del testo del trattato richiede il consenso di tutti gli Stati che hanno
partecipato al negoziato. In questo modo dispone l'art. 9, par. 1, della convenzione di Vienna. Ma nulla
vieta agli Stati, soprattutto quando si tratta di negoziati a carattere multilaterale e tra un numero
[27]

considerevole di partecipanti, di disporre diversamente al riguardo. La pratica largamente seguita nelle
grandi conferenze internazionali infatti orientata verso procedure di voto a maggioranza, quasi
sempre qualificata, per l'adozione dei testi. La convenzione di Vienna ha inteso codificare tale pratica
ponendo la regola suppletiva per cui l'adozione del testo di un trattato in una conferenza
internazionale si effettua con la maggioranza dei due terzi degli Stati presenti e votanti, a meno che questi
decidano, con la stessa maggioranza, di applicare una regola diversa (art. 9, par. 2).
6. La firma e gli altri mezzi di autenticazione del testo.
L'adozione del testo di un trattato apre la strada alla fase successiva, che quella della manifestazione
del consenso degli Stati a obbligarsi all'osservanza della regolamentazione incorporata in quel testo
ovvero della stipulazione del trattato (come si usa chiamarla nella dottrina italiana).
Tuttavia, occorre notare che tra l'adozione del testo di un trattato e la sua stipulazione intercorre
sovente un lasso di tempo pi o meno lungo. Proprio il frequente distacco temporale che interviene tra
la negoziazione di un trattato e la sua stipulazione, nonch la frequente diversit delle persone che
rappresentano gli Stati nelle due diverse fasi della negoziazione e della stipulazione, sono all'origine di
una pratica largamente diffusa e seguita nelle relazioni internazionali contemporanee, tendente a
conferire definitivit (ne varietur) al testo del trattato, cos da permettere agli Stati un pieno e preciso
apprezzamento circa il contenuto e la portata degli impegni che si andranno ad assumere, qualora
decidano di obbligarsi all'osservanza della regolamentazione incorporata nel testo.
A tale pratica ha riguardo l'art. 10 della convenzione di Vienna, nel quale si stabilisce che il testo di un
trattato certificato come autentico e definitivo:
a. secondo la procedura prevista nel testo medesimo o concordata fra gli Stati partecipanti alla
elaborazione del trattato;
b. in mancanza di una tale procedura, dalla firma, dalla firma ad referendum o dalla parafatura, da
parte dei rappresentanti di tali Stati, del testo del trattato o dell'atto finale di una conferenza
internazionale nel quale il testo sia contenuto.
7. Il consenso dello Stato a obbligarsi: forme semplificate e forme solenni della sua
espressione.
Dal punto di vista del diritto internazionale generale la manifestazione del consenso a obbligarsi non
soggetta a prescrizioni d'ordine formale: l'accordo delle parti in proposito decisivo. La Corte
internazionale di giustizia nella sentenza 10 ottobre 2002 ha chiaramente affermato: mentre nella
pratica internazionale le disposizioni relative all'entrata in vigore di un trattato spesso prevedono una
procedura in due tappe che consistono nella firma e nella ratifica, ci sono anche casi in cui un trattato
entra in vigore immediatamente al momento della firma. Sia il diritto consuetudinario che la
convenzione di Vienna sul diritto dei trattati lasciano completamente liberi gli Stati sulla procedura che
essi vogliano seguire.
Le forme di espressione del consenso a vincolarsi sono di solito preventivamente concordate dagli Stati
che hanno redatto e adottato il testo del trattato e incorporate nelle disposizioni finali o protocollari
dello stesso. In tal caso tale consenso deve essere espresso nella forma cos concordata, per quanto
possa ritenersi, sia pure non alla leggera, che il consenso a vincolarsi possa anche essere manifestato in
modi diversi da quanto previsto nel trattato, purch tale manifestazione, bench irregolare, sia
inequivoca.
In difetto di un'intesa delle parti in materia, il consenso pu essere espresso nella forma unilateralmente
prescelta dallo Stato, sempre che essa sia resa palese, in un modo o nell'altro, agli altri Stati. Non da
escludere l'eventualit che tale consenso, sia pure in casi estremamente rari, possa venire manifestato
verbalmente o risultare da manifestazioni tacite o implicite della volont di uno Stato.
La libert di scelta da parte degli Stati della forma idonea a esprimere il loro consenso a essere obbligati
da un trattato confermato dal contenuto estremamente ampio dell'art. 11 della convenzione di
Vienna: Il consenso di un Stato a essere vincolato da un trattato pu essere espresso per mezzo della
firma, dello scambio degli strumenti costituenti un trattato, della ratifica, dell'accettazione,
[28]

dell'approvazione o dell'adesione, o di qualsiasi altro mezzo convenuto. Nella pratica delle relazioni
internazionali si distinguono peraltro due principali forme di espressione del consenso a obbligarsi a un
trattato: la forma semplificata della forma solenne.
La forma semplificata di stipulazione si realizza attraverso la firma del testo del trattato da parte del
rappresentante dello Stato (art. 12, par. 1). Il consenso di uno Stato a essere vincolato da un trattato si
esprime per mezzo della firma da parte del rappresentante di questo Stato:
a. quando il trattato prevede che la firma avr questo effetto;
b. quando risulta altrimenti che gli Stati partecipanti al negoziato avevano concordato che la firma
avrebbe avuto questo effetto;
c. quando l'intenzione dello Stato di attribuire questo effetto alla firma risulta dai pieni poteri del
suo rappresentante o stata espressa nel corso del negoziato.
Un'altra forma semplificata di stipulazione, spesso utilizzata nel caso di accordi conclusi mediante la
proposta di uno Stato e la successiva accettazione di un altro, data dallo scambio degli strumenti
(note, lettera) che costituiscono il trattato. A norma dell'art. 13 della convenzione di Vienna, infatti: Il
consenso degli Stati a essere obbligati da un trattato costituito dagli strumenti scambiati fra di essi si
esprime attraverso questo scambio:
1. quando gli strumenti prevedono che il loro scambio avr questo effetto;
2. quando risulta altrimenti che tali Stati avevano concordato che lo scambio degli strumenti
avrebbe avuto questo effetto.
La forma solenne di espressione del consenso a vincolarsi a un trattato si manifesta attraverso
un'apposita e a s stante dichiarazione scritta, denominata ratifica o accettazione o approvazione. Il
consenso di uno Stato a essere obbligato da un trattato si esprime attraverso la ratifica:
a. quando il trattato prevede che tale consenso si esprima attraverso la ratifica;
b. quando risulta altrimenti che gli Stati che hanno partecipato al negoziato avevano concordato
che la ratifica fosse necessaria;
c. quando il rappresentante dello Stato ha firmato il trattato con riserva di ratifica;
d. quando l'intenzione dello Stato di firmare il trattato con riserva di ratifica risulta dai pieni poteri
del suo rappresentante o stata espressa nel corso del negoziato. (art. 14, par. 1).
Alla ratifica sono equiparate l'accettazione e l'approvazione (art. 14, par. 2).
8. Segue: l'adesione.
Oltre ai vari modi in precedenza considerati, il consenso dello stato a obbligarsi pu essere espresso
anche attraverso l'adesione (o accessione) al trattato.
Diversi trattati multilaterali presentano, infatti, un carattere aperto, nel senso che gli Stati che hanno
redatto e adottato il testo ritengono vi sia interesse ad allargare a determinati altri Stati o addirittura a
tutti gli Stati, la possibilit di obbligarsi, se lo vorranno, all'osservanza del trattato, tramite un apposito
atto di adesione. Gli Stati aderenti sono cos considerati parti del trattato, alla stessa stregua dei
contraenti originari.
L'adesione appare, dunque, il modo attraverso il quale uno Stato rimasto estraneo alle trattative che
hanno condotto alla redazione del testo del trattato manifesta il suo consenso a obbligarsi a
quest'ultimo. Essa viene prestata attraverso un apposito documento scritto. Talvolta il documento di
adesione fa riserva di successiva ratifica; il che comporta che il documento di per s non vale adesione,
ma costituisce soltanto una dichiarazione di intenzione da parte dello Stato da cui promana, e che l'adesione
si avr soltanto nel momento in cui intervenga lo strumento di ratifica.
La possibilit per uno Stato diverso da quelli che hanno partecipato alla formulazione del testo di un
trattato di aderire allo stesso da ritenere, in ogni caso, strettamente legata all'accordo di tali Stati.
9. Le persone abilitate a rappresentare lo Stato nella formazione dei trattati: i pieni poteri.
Tanto se espresso in forma solenne quanto se espresso in forma semplificata, il consenso dello Stato a
obbligarsi si estrinseca, necessariamente, attraverso attivit compiute o dichiarazioni rese da persone
fisiche, considerate nella sfera delle relazioni internazionali, come aventi la qualit di rappresentare lo
[29]

Stato ai fini della stipulazione di un trattato. Lo stesso va detto per le persone attraverso le quali
vengono condotte le trattative.
La qualit di rappresentante dello Stato ai fini delle trattative o dell'espressione del consenso a vincolarsi
attestata, di fronte agli altri Stati, da un apposito documento, chiamato tradizionalmente nella prassi
diplomatica pieni poteri.
Di regola, pertanto, una persona considerata abilitata a rappresentare lo Stato soltanto in quanto essa
produca appropriati pieni poteri; a meno che risulti dalla pratica degli Stati interessati o da altre
circostanze che essi avevano l'intenzione di considerare questa persona come rappresentante dello Stato
a questi fini e di non richiedere la presentazione di pieni poteri (art. 7, par. 1). Tuttavia, come si
osserva nel commento della Commissione del diritto internazionale, ai nostri giorni, numerosi trattati
sono stipulati in forma semplificata e, nella maggior parte dei casi, la produzione di pieni poteri non
appare richiesta.
Lo stesso art. 7 della convenzione di Vienna, al par. 2, enumera peraltro tre categorie di persone che
fanno eccezione alla suddetta regola, nel senso che esse, in ragione delle loro funzioni, sono considerate
dal diritto internazionale come abilitate a rappresentare lo Stato o in tutte le fasi di formazione del
trattato o soltanto in quella di redazione e adozione del testo, senza essere tenute a presentare uno
strumento di pieni poteri.
Tali persone sono:
a. i capi di Stato, i capi di governo e i ministri degli affari esteri, per tutti gli atti relativi alla
conclusione di un trattato;
b. i capi di missione diplomatica, per l'adozione del testo di un trattato tra lo Stato accreditante e
lo Stato accreditatario;
c. i rappresentanti accreditati degli Stati a una conferenza internazionale o organizzazione
internazionale o uno dei suoi organi, per l'adozione del testo di un trattato in questa conferenza,
quest'organizzazione o questo organo.
A tali eccezioni, sembra, inoltre, che se ne possa aggiungere una quarta, relativa ai poteri generalmente
riconosciuti ai comandanti supremi per quanto riguarda la negoziazione e la conclusione di trattati tra
belligeranti.
L'atto compiuto da persona che non pu essere considerata come abilitata a rappresentare uno Stato
privo di efficacia giuridica, a meno che esso sia in seguito confermato da questo Stato. In questo senso
dispone lart. 8 della convenzione di Vienna, il quale tiene evidentemente conto della non infrequente
pratica degli Stati di non impegnarsi in modo aperto e formale in certe trattative, soprattutto se
particolarmente ardue dal punto di vista politico, e di riservarsi di confermare in seguito loperato di chi
ha negoziato laccordo.
10. Lo scambio o il deposito delle espressioni del consenso dello Stato a obbligarsi.
Il consenso dello Stato a vincolarsi alla regolamentazione racchiusa nel trattato, oltre ad essere
manifestato in modo non equivoco, deve altres essere portato a conoscenza degli altri Stati interessati,
attuandosi cos quella convergenza delle manifestazioni di volont di due o pi Stati in cui si sostanzia
l'accordo internazionale. Il modo e il momento in cui si raggiunge la suddetta convergenza sono diversi
a seconda che si abbia un trattato bilaterale o un trattato multilaterale, nonch a seconda che il trattato
venga stipulato in forma semplificata o in forma solenne.
Per quanto riguarda i trattati bilaterali che vengono stipulati in forma semplificata attraverso una mera
firma, evidente che il consenso dei due Stati a vincolarsi viene reciprocamente messo a conoscenza gi
al momento dell'apposizione della firma in calce al testo da parte dei plenipotenziari. Nel caso degli
scambi di note, il perfezionamento dell'accordo si ha per avvenuto nel momento in cui la nota di
accettazione della proposta venga a conoscenza dello Stato proponente.
Nel caso di stipulazione in forma solenne, il perfezionamento del trattato bilaterale si ha per avvenuto
al momento dello scambio degli strumenti di ratifica (o di accettazione o di approvazione), attestato da
un apposito processo verbale.
[30]

Per quanto riguarda i trattati multilaterali, il consenso a obbligarsi caratterizzato dal deposito presso
il Ministero degli Affari Esteri di uno degli Stati che hanno partecipato al negoziato (di solito, lo Stato
che ha ospitato la conferenza) ovvero presso l'organizzazione intergovernativa sotto i cui auspici il
trattato stato adottato (nel caso delle Nazioni Unite il deposito avviene presso il segretario generale)
ovvero in un primo tempo presso l'uno e successivamente presso l'altra delloriginale del trattato e, se
la stipulazione richiede tale procedura, degli strumenti di ratifica, di approvazione, di accettazione e di
adesione.
Il trattato che in questi casi, come si usa dire, viene aperto alla firma presso il depositario si ha per
perfezionato nel momento in cui al depositario pervenga l'ultima delle manifestazioni del consenso
degli Stati a obbligarsi richiesta per l'entrata in vigore del trattato.
L'art. 16 della convenzione di Vienna sembra riflettere lo stato attuale della pratica internazionale,
quando sancisce che: Salvo che il trattato non disponga altrimenti, gli strumenti di ratifica, di
accettazione, di approvazione o di adesione determinano il consenso dello Stato a essere obbligato da
un trattato al momento:
a. del loro scambio fra gli Stati contraenti;
b. del loro deposito presso il depositario;
c. della loro notifica agli Stati contraenti o al depositario, se in tal senso stato concordato.
11. L'entrata in vigore dei trattati.
L'espressione entrata in vigore designa il momento iniziale di operativit e di efficacia della
regolamentazione incorporata nel testo del trattato.
Il trattato di regola entra in vigore secondo le modalit e alla data fissate dalle sue disposizioni o
tramite accordo tra gli Stati che hanno partecipato al negoziato. In mancanza di tali disposizioni o di un
tale accordo, un trattato entrer in vigore dal momento in cui il consenso a essere vincolato dal trattato
stato stabilito per tutti gli Stati che hanno partecipato al negoziato (art. 24, parr. 1 e 2).
Per quanto riguarda i trattati multilaterali soprattutto nel caso di trattati aperti la suddetta regola
della totalit dei consensi quasi sempre soppiantata, tuttavia, dalla presenza nel testo di disposizioni
protocollari che ricollegano l'entrata in vigore del trattato al momento in cui un numero limitato e
predeterminato di Stati, tra quelli aventi qualit per divenirne parti, abbia prestato il suo consenso a
obbligarsi.
Prima del momento della sua entrata in vigore, il trattato non ancora produttivo di diritti e di obblighi.
Sembra tuttora problematico dimostrare l'esistenza di una regola di diritto internazionale generale, che
vieti allo Stato che ha firmato un trattato, e cos pure allo Stato che ha prestato il suo consenso a
obbligarsi, di compiere atti suscettibili di frustrare la futura attuazione del trattato, prima che esso sia
entrato in vigore nei suoi confronti. Il compimento di atti di questo genere ad opera di uno Stato
dovrebbe venire configurato quale una revoca o una ritrattazione tacita degli atti precedentemente posti
in essere in vista di divenire parte a trattato.
Sembra pertanto rispondere a esigenze non di codificazione, ma di sviluppo progressivo del diritto dei
trattati, l'art. 18 della convenzione di Vienna, che cos dispone: Uno Stato deve astenersi da atti che
priverebbero il trattato del suo oggetto e del suo scopo quando:
a. ha sottoscritto il trattato o scambiato gli strumenti che costituiscono il trattato con riserva di
ratifica, accettazione o approvazione, fintanto che non abbia manifestato la sua intenzione di
non divenirne parte;
b. ha espresso il suo consenso a essere obbligato dal trattato, nel periodo che precede l'entrata in
vigore del trattato e a condizione che questa non sia indebitamente ritardata.
In tale disposizione potrebbe vedersi un'applicazione di un principio generale del diritto che
richiederebbe un comportamento in buona fede da parte degli Stati.
Le parti possono ulteriormente convenire, o nel testo stesso del trattato o in un'altra maniera, che il
trattato si applichi a titolo provvisorio in attesa della sua entrata in vigore. L'applicazione provvisoria
frequente nel caso di trattati che debbano essere eseguiti in particolari condizioni d'urgenza.
[31]

12. Le riserve nei trattati e la loro ammissibilit.
Nella pratica delle relazioni internazionali, la partecipazione di uno Stato a un trattato talora
accompagnata da una riserva, ossia da una dichiarazione attraverso la quale lo Stato esprime la sua
volont di limitare gli effetti giuridici nei suoi confronti di certe disposizioni del trattato.
La convenzione di Vienna definisce la riserva come una dichiarazione unilaterale, quale che sia il suo
contenuto o denominazione, fatta da uno Stato quando firma, ratifica, accetta o approva un trattato o vi
aderisce, tramite la quale esso intende escludere o modificare l'effetto giuridico di certe disposizioni del
trattato nella loro applicazione a questo Stato (art. 2, lett. d). Le riserve sono formulate al momento in
cui lo Stato manifesta il suo consenso a vincolarsi o anche in una fase anteriore dell'iter formativo del
trattato, come all'atto della firma del testo, per i trattati che devono essere stipulati in forma solenne.
Diverse dalle riserve sono, almeno in linea di principio, le dichiarazioni e le dichiarazioni interpretative che,
pur esprimendo il punto di vista di uno Stato circa determinate disposizioni di un trattato, non
intendono escludere o modificare il loro effetto giuridico rispetto allo Stato in questione. Talora, pu
accadere che alcuni Stati qualifichino come dichiarazioni interpretative dichiarazioni che, per il loro
contenuto, molto si avvicinano a vere e proprie riserve. Come ha affermato recentemente la
Commissione del diritto internazionale, la natura di dichiarazione unilaterale o di riserva determinata
dall'effetto giuridico che si propone di produrre.
Le riserve sembrerebbero configurabili soltanto rispetto a un trattato multilaterale. Se fosse apposta a
un trattato bilaterale, come avviene in alcune manifestazioni della pratica degli Stati Uniti, la riserva non
potrebbe evidentemente assumere altro significato che quello o di un rigetto del testo preventivamente
negoziato tra i due Stati interessati o di una proposta di emendamento del testo stesso.
L'ammissibilit delle riserve non solleva dubbi tutte le volte che lo stesso testo del trattato, in una delle
sue clausole finali, preveda espressamente che gli Stati aventi qualit per divenirne parti possano
formulare riserve e sempre che si tratti di riserve relative a disposizioni per le quali sia prevista tale
possibilit. Cos pure, linammissibilit delle riserve non d luogo a dubbi tutte le volte che lo stesso
testo del trattato escluda espressamente e in via generale la possibilit che uno Stato che intende
divenirne parte formuli riserve su di una qualsiasi delle disposizioni del trattato.
Soltanto nel caso di assenza in un trattato di ogni disposizione relativa alle riserve ci si deve chiedere
quali conseguenze siano da attribuire al fatto che uno Stato abbia formulato una riserva.
Relativamente alle riserve alla convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, la Corte
internazionale di giustizia rese il suo parere consultivo il 28 maggio 1951. Su tale questione si
scontravano due opposti indirizzi. Secondo una tendenza, ispirata al criterio della integrit dei trattati,
l'accettazione espressa o implicita di tutti indistintamente gli Stati contraenti costituirebbe una condicio
sine qua non per l'ammissibilit della riserva formulata da uno Stato in tali condizioni e,
conseguentemente, per la possibilit che lo Stato autore della riserva divenga parte del trattato nei limiti
indicati dalla riserva. Secondo un'altra tendenza, ispirata al criterio della flessibilit dei trattati, la
mancata accettazione della riserva da parte di taluni Stati contraenti e la loro opposizione alla stessa non
impedirebbe allo Stato autore della riserva di divenire parte al trattato nei confronti di quegli altri Stati
contraenti che avessero invece accettato la riserva.
Entrambi i suddetti indirizzi poggiano su argomenti di innegabile valore. A favore del primo, sta la
considerazione che uno Stato non dovrebbe poter unilateralmente modificare proprio vantaggio la
regolamentazione convenzionale sulla quale si verificata la convergenza della volont delle parti, a
meno che non vi sia il consenso, preventivo o successivo, di tutte le altre parti al trattato. A favore del
secondo, sta il fatto che i trattati multilaterali tendono oggi spesso a porre in essere delle
regolamentazioni giuridiche di vocazione universale, destinate ad avere vigore per un numero
considerevole di Stati o addirittura per tutti gli Stati, e che sarebbe quindi opportuno assecondare tale
tendenza, anche se a prezzo di qualche sacrificio sul piano dell'integrit del trattato. La pratica
internazionale sembra oggi propendere a favore del secondo indirizzo.
Una prima importante manifestazione in questo senso rappresentata dal sopra ricordato parere
consultivo reso nel 1951 dalla Corte internazionale di giustizia. In esso, la corte ha escluso che lo stato
della pratica internazionale permettesse di concludere che l'assenza in una convenzione multilaterale di
[32]

una disposizione relativa alle riserve comporti il divieto per gli Stati contraenti di apporre riserve, ma
che (proseguiva la Corte) il quesito non era suscettibile di avere una risposta assoluta, dipendendo
dalle circostanze particolari di ogni caso di specie la valutazione di ogni riserva e degli effetti delle
eccezioni che alla stessa possano essere fatte; la Corte ha concluso che lo Stato che ha formulato e
mantenuto una riserva alla quale facciano opposizione uno o pi parti alla convenzione, ma non le altre
parti, pu essere considerato quale parte alla convenzione, se la predetta riserva compatibile con
l'oggetto e lo scopo di questa; non pu essere considerato tale nel caso contrario.
Una manifestazione importante della preferenza verso la flessibilit dei trattati rappresentata dalle
disposizioni in materia di riserve contenute nella convenzione di Vienna. La convenzione dichiara
infatti ammissibile l'apposizione di riserve a un trattato, salvo che (art. 19):
a. la riserva sia vietata dal trattato;
b. il trattato disponga che solo delle riserve determinate, fra le quali non figuri la riserva in
questione, possano essere fatte;
c. in casi diversi da quelli previsti alle lettere a) e b), la riserva sia incompatibile con l'oggetto e lo
scopo del trattato.
13. Segue: accettazione, obiezioni ed effetti delle riserve.
L'accettazione di tutte le parti richiesta, quando risulta dal numero limitato degli Stati che hanno
partecipato al negoziato, come pure dall'oggetto e dallo scopo del trattato, che l'applicazione del trattato
nella sua integrit tra tutte le parti una condizione essenziale del consenso di ciascuna di esse a essere
vincolata dal trattato (art. 20, par. 2).
In tutti gli altri casi, salvo che il trattato non disponga diversamente, valgono le seguenti regole (art. 20,
par. 4):
l'accettazione di una riserva da parte di un altro Stato contraente fa dello Stato autore della
riserva una parte al trattato nei confronti di quest'altro Stato, se il trattato in vigore o quando
esso entrer in vigore per questi Stati;
l'obiezione fatta a una riserva da un altro Stato contraente non impedisce al trattato di entrare in
vigore tra lo Stato che ha formulato l'obiezione e lo Stato autore della riserva, a meno che
l'intenzione contraria sia stata nettamente espressa dallo Stato che ha formulato l'obiezione;
un atto che esprime il consenso di uno Stato a essere vincolato da un trattato e che contiene una
riserva prende effetto dal momento in cui almeno un altro Stato contraente ha accettato la
riserva.
L'art. 20, par. 5, contiene una presunzione di accettazione: a meno che il trattato disponga
diversamente, una riserva si ha per accettata da uno Stato, se quest'ultimo non ha formulato
un'obiezione alla riserva sia allo scadere dei dodici mesi che seguono la data in cui ne ha ricevuto
notificazione, sia alla data in cui ha espresso il suo consenso a essere vincolato dal trattato, se questa
successiva.
Le riserve hanno in genere un affetto reciproco. Esse non solo modificano per lo Stato autore della
riserva nelle sue relazioni con l'altra parte le disposizioni del trattato sulle quali insiste la riserva, ma
anche modificano queste disposizioni nella stessa misura per l'altra parte nelle sue relazioni con lo Stato
autore della riserva (art. 21, par. 1).
L'effetto reciproco delle riserve, facilmente configurabile in certi casi, appare per difficilmente
ammissibile nei casi in cui non possibile configurare il trattato multilaterale come un fascio di rapporti
bilaterali. Si possono ricordare, ad esempio, il caso in cui la riserva voglia escludere l'applicazione del
trattato in una porzione del territorio dello Stato che la formula, quello in cui la riserva riguarda un
trattato per la protezione dei diritti dell'uomo o la tutela dell'ambiente naturale o un trattato che prevede
una disciplina di diritto privato uniforme.
Circa gli effetti dell'obiezione, quando uno Stato che ha formulato un'obiezione a una riserva non si
opposto all'entrata in vigore del trattato tra esso stesso e lo Stato autore della riserva, le disposizioni alle
quali la riserva si riferisce non si applicano tra i due Stati nella misura prevista dalla riserva (art. 21, par.
3).
[33]

Sembrerebbe in definitiva che, secondo la convenzione di Vienna, l'effetto delle riserve che hanno
ricevuto obiezioni finisca col non differire dall'effetto delle riserve che sono state accettate, a meno che
lo Stato che formula l'obiezione vi aggiunga la sua opposizione all'entrata in vigore del trattato nei
rapporti con lo Stato riservante. In tale soluzione, sembra doversi vedere un'indicazione dell'importanza
che viene sempre pi assumendo la preoccupazione di ottenere l'universalit dei trattati multilaterali,
anche a costo di recare importanti eccezioni alla loro integrit.
Nel campo dei diritti umani si sta peraltro facendo strada un orientamento che va al di l delle due
predette soluzioni. Infatti, in un commento generale del 1994, il Comitato dei diritti umani delle
Nazioni Unite, ha affermato: La conseguenza normale di una riserva inammissibile non che il patto
non abbia alcun effetto per la parte riservante. Al contrario, tale riserva in generale sar separabile, nel
senso che il patto sar operativo per la parte riservante senza il beneficio della riserva. In altre parole,
la riserva si avr per non apposta. Questa conseguenza sembra discostarsi dal fondamentale principio
consensualistico per cui uno Stato non rimane vincolato da obblighi che non ha voluto assumersi.
Circa la procedura, la riserva, l'accettazione espressa di una riserva e lobiezione a una riserva devono
essere formulate per iscritto e comunicate agli Stati contraenti e agli altri Stati che hanno qualit per
divenire parti al trattato (art. 23, par. 1). La riserva pu essere formulata, salvo che il trattato contenga
diverse indicazioni, al momento della firma, della ratifica, dell'accettazione o dell'adesione (art. 19).
14. La regola pacta sunt servanda.
La regola cos formulata nell'art. 26 della convenzione di Vienna, rubricato con la massima pacta sunt
servanda: Ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere eseguito da esse in buona fede.
La regola pacta sunt servanda oggettivizza, per cos dire, il valore degli impegni unilateralmente assunti da
ogni Stato che abbia consentito a osservare, nei confronti di altri, la regolamentazione incorporata nel
testo di un trattato. La mancata esecuzione del trattato costituisce un illecito internazionale.
15. I trattati e gli Stati terzi.
L'efficacia che la regola pacta sunt servanda conferisce al trattato limitata agli Stati che hanno espresso il
loro consenso a essere vincolati dal trattato e per i quali lo stesso entrato in vigore, e cio agli Stati
parte al trattato. La limitata sfera di efficacia soggettiva del trattato risulta chiaramente dal gi citato art.
26 della convenzione di Vienna, per il quale il trattato vincola le parti e deve essere da queste eseguito in
buona fede. Ne consegue che un trattato non crea n obblighi nei diritti per uno Stato terzo senza il
suo consenso (art. 34), intendendosi per Stato terzo uno Stato che non parte al trattato.
Non sono mancati tuttavia autori che hanno sostenuto che il suddetto limite non sarebbe assoluto e
insuscettibile di deroghe e che hanno ritenuto che, sulla base del diritto internazionale generale, da un
trattato potessero discendere, in determinati casi e a date condizioni, tanto diritti soggettivi, ma anche
obblighi giuridici, in capo a Stati terzi.
Prima ancora di iniziare una verifica della pratica, bene per precisare che la questione qui in esame
unicamente quella della presenza o dell'assenza, in diritto internazionale, di eccezioni alla sfera
soggettiva di efficacia del trattato risultante dalla regola pacta sunt servanda.
A tal fine, l'art. 38 della convenzione di Vienna precisa che nessuna delle disposizioni in materia di
trattati e Stati terzi preclude la possibilit che una regola enunciata in un trattato divenga obbligatoria
per uno Stato terzo in quanto regola consuetudinaria di diritto internazionale riconosciuta come tale.
16. Segue: la pratica in materia di disposizioni convenzionali a favore di Stati terzi.
dato rinvenire in un certo numero di trattati bilaterali e multilaterali disposizioni dalle quali
apparentemente discendono situazioni vantaggiose o comunque possibilit di azione a favore di Stati
terzi che non sono parte al trattato.
Ad esempio, l'art. 35, par. 2, dello statuto delle Nazioni Unite prevede che anche uno Stato che non sia
membro delle Nazioni Unite, e quindi che non sia parte del trattato istitutivo di tale organizzazione,
pu sottoporre al Consiglio di sicurezza o all'Assemblea Generale una controversia di cui esso sia parte,
[34]

alla condizione di accettare preventivamente, ai fini di tale controversia, gli obblighi di regolamento
pacifico previsti dallo statuto.
Tra gli altri tipi di trattati ove dato talvolta di imbattersi in disposizioni a favore di Stati terzi vanno
ricordati i cosiddetti trattati di garanzia, mediante i quali due o pi potenze si impegnano a garantire
l'indipendenza, l'integrit territoriale o altri interessi di uno Stato determinato, qualora il garantito non
partecipi all'accordo in cui le disposizioni in questione vengono incorporate e senza che esso venga
invitato ad aderirvi. Ad esempio, con riferimento al trattato di Parigi del 16 aprile 1856, Austria, Francia
e Gran Bretagna si impegnavano a considerare quale casus belli una qualsiasi violazione dell'indipendenza
e dell'integrit territoriale dell'Impero ottomano, da qualunque parte proveniente.
Tuttavia, la sentenza resa dalla Corte permanente di giustizia Internazionale il 7 giugno 1932 sulla
controversia tra la Francia e la Svizzera in merito alle zone franche dellAlta Savoia e del paese di Gex ebbe a
considerare che l'esistenza di un diritto acquisito in forza di un atto intervenuto tra altri Stati costituisce
una questione da decidere caso per caso: si tratta di verificare se gli Stati, che hanno stipulato in favore
di un altro Stato, hanno inteso creare per esso un vero e proprio diritto, che questo Stato ha accettato
come tale. Alla luce di queste considerazioni appare indubbio che, nel pensiero della Corte, soltanto
uno specifico e nuovo accordo (anche tacito) avrebbe potuto consentire al terzo di far valere le
disposizioni per lui vantaggiose contenute in un trattato inter alios. Di conseguenza la Corte finiva con il
negare che, alla stregua del diritto internazionale generale e senza un nuovo accordo con il terzo, le
disposizioni di un trattato, anche se vantaggiose al terzo, potessero far sorgere di per s un diritto
soggettivo a suo favore.
Infine, per quanto la pratica degli Stati a questo riguardo risulti talora influenzata da fattori in parte
estranei al mondo delle relazioni internazionali, anche le manifestazioni della giurisprudenza nazionale
in cui si avuto occasione di affrontare la questione qui in esame confermano l'orientamento generale
qui messo in luce.
17. Segue: la pratica in materia di disposizioni convenzionali a carico di altri Stati.
Meno ancora sembrano potersi evincere dalla prassi regole internazionali generali che, sempre in deroga
alla normale sfera soggettiva di efficacia del trattato, conferiscano a questo o a certe sue disposizioni
lidoneit a creare obblighi giuridici a carico di Stati terzi.
Nel caso, ad esempio, della smilitarizzazione delle isole dAland, le pretese della Svezia nei confronti
della Finlandia si basavano sul fatto che la Russia, che aveva acquistato nel 1809 la sovranit sulle isole,
si era impegnata verso la Francia e la Gran Bretagna a non fortificare e a mantenere smilitarizzato
l'arcipelago. Secondo la Svezia, la convenzione avrebbe creato a carico della Russia una servit sul
territorio delle isole, alla quale il successore nella sovranit territoriale sulle Aland, ovvero la Finlandia,
avrebbe dovuto ritenersi vincolato, non soltanto nei confronti delle altre parti alla convenzione, ma
anche nei confronti della Svezia, che pure a tale convenzione era estranea.
Una tesi siffatta stata sostenuta da giuristi eminenti. Tuttavia, l'esistenza di servit internazionali, nel
senso proprio e tecnico della parola, non risulta generalmente ammessa.
La commissione ritiene tuttavia che la pretesa della Svezia potesse trovare una base in diritto
internazionale sotto il diverso profilo dell'esistenza di un presunto diritto pubblico europeo, avendo
le potenze che avevano concluso i trattati cercato di porre in essere un vero diritto oggettivo, veri e
propri statuti politici, i cui effetti si fanno sentire anche al di fuori della cerchia delle parti contraenti.
Tale richiamo dovette tuttavia apparire cos poco convincente ai molti Stati interessati alla
smilitarizzazione delle Aland, da far avvertire l'esigenza della conclusione di un nuovo trattato. Essa
avvenne il 20 ottobre 1921. La Finlandia vi si assumeva, specificamente e formalmente, l'obbligo di non
militarizzare il detto arcipelago.
Proprio il fatto che si sia ritenuto di addivenire a tale accordo a soli pochi mesi di distanza dalla
definizione data alla controversia dal Consiglio della Societ delle Nazioni, sta a dimostrare la mancanza
di una regola generale nel senso che certi obblighi convenzionali di uno Stato, in quanto aventi un
carattere territorialmente localizzato, debbono accompagnare in modo permanente il territorio su cui
[35]

gravano e possono essere opposti a qualunque Stato terzo alla convenzione in cui vennero stabiliti;
sempre che questo si trovi ad esercitare la propria sovranit sul territorio stesso.
18. Segue: conclusioni sulle stipulazioni a favore e a carico di Stati terzi. Le disposizioni
della convenzione di Vienna.
Circa le stipulazioni a vantaggio di terzi, sembrano giustificate, alla luce della considerazione della pratica
internazionale, le conclusioni raggiunte, vari anni or sono, da un illustre studioso, quando scriveva che:
mentre una legislazione interna pu stabilire che da una stipulazione a favore di un terzo, questo
acquista senz'altro il diritto di esigere nell'adempimento, o l'acquista con un semplice atto della volont,
la struttura stessa dell'ordine giuridico internazionale dimostra che, mancando una norma particolare la
quale deroghi ai principi generali, il diritto del terzo Stato di esigere l'esecuzione delle stipulazioni a lui
favorevoli pu sorgere soltanto da un accordo fra le parti contraenti da un lato e il terzo Stato
dall'altro.
Anche per quanto riguarda la possibilit che dalle disposizioni di un trattato discendano obblighi giuridici
a carico di Stati terzi, non sembrano rilevabili eccezioni alla regola generale che limita alle parti la sfera
soggettiva di efficacia dei trattati. A prescindere dall'eventualit di una sua adesione al trattato (nel qual
caso, di norma, lo Stato terzo diviene parte dell'intero trattato), occorre che lo Stato terzo presti il suo
consenso a essere vincolato dalle disposizioni che prevedono un obbligo a suo carico.
Queste conclusioni, raggiunte sulla base di un'analisi della prassi internazionale, hanno trovato
conferma e precisazione nella convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
Dopo aver sancito nel gi citato art. 34 la regola generale per cui un trattato non crea n obblighi n
diritti per uno Stato terzo senza il suo consenso, la convenzione di Vienna ha sviluppato
separatamente tale regola, in rapporto all'ipotesi di trattati in cui siano previsti obblighi a carico di Stati
terzi e a quella di trattati in cui siano previsti diritti soggettivi a favore di Stati terzi.
Per la prima ipotesi, l'art. 35 stabilisce che una disposizione di un trattato pu imporre un obbligo a carico
di uno Stato terzo soltanto se le parti al trattato intendono creare l'obbligo per mezzo di questa
disposizione e se lo Stato terzo accetta espressamente per iscritto quest'obbligo.
Per la seconda ipotesi, l'art. 36 stabilisce che una disposizione di un trattato d vita ad un diritto soggettivo
a favore di uno Stato terzo soltanto se le parti al trattato intendono, per mezzo di questa disposizione,
conferire questo diritto sia allo Stato terzo o un gruppo di Stati al quale esso appartiene, sia a tutti gli
Stati, e se lo Stato terzo vi acconsente. In questa seconda ipotesi, tuttavia, non si richiede che il
consenso dello Stato terzo debba essere manifestato espressamente e formalmente per iscritto: il
consenso presunto fintantoch non vi sia indicazione contraria, a meno che il trattato disponga
diversamente.
19. L'applicazione dei trattati e la compatibilit tra trattati.
La libert degli Stati di predeterminare, di solito nelle clausole finali o protocollari del trattato, l'ambito
temporale o territoriale di applicazione della regolamentazione convenzionale racchiusa nel testo del
trattato, appare pacificamente riconosciuta da una pratica plurisecolare. In assenza di una siffatta
predeterminazione da ritenere che operino in materia talune presunzioni che la convenzione di
Vienna ha fatto proprie ed ha formulato nelle seguenti regole.
In materia di applicazione temporale, la convenzione di Vienna accoglie il principio della non retroattivit
dei trattati. Le disposizioni di un trattato non vincolano, ovvero, una parte per quanto concerne un
atto o un fatto anteriore alla data di entrata in vigore del trattato riguarda questa parte o una situazione
che aveva cessato di esistere a questa data (art. 28).
In materia di applicazione territoriale, un trattato vincola ciascuna delle parti rispetto all'insieme del suo
territorio (art. 29).
Circa l'applicazione dei trattati successivi relativi alla stessa materia, disciplinata dall'art. 30 della convenzione di
Vienna, la regola generale, implicitamente statuita in tale accordo, quella della prevalenza del trattato
successivo sul precedente. Di conseguenza, quando tutte le parti al trattato anteriore sono ugualmente
parti al trattato posteriore, senza che il trattato anteriore possa considerarsi estinto o sospeso, il trattato
[36]

anteriore si applica soltanto nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del
trattato posteriore (art. 30, par. 3). Diversamente, quando le parti al trattato anteriore non sono tutte
parti al trattato posteriore, nelle relazioni tra uno Stato parte ai due trattati e uno Stato parte a uno
soltanto di questi trattati, il trattato al quale i due Stati sono parte regola i loro diritti e obblighi reciproci
(art. 30, par. 4).
Alla stregua dell'art. 30, par. 1, della convenzione di Vienna, le regole test esaminate, contenute nello
stesso art. 30, fanno comunque salvo il disposto dell'art. 103 della Carta delle Nazioni Unite, secondo il
quale in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dei membri delle Nazioni Unite con la presente
Carta e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli
obblighi derivanti dalla presente Carta.
20. L'interpretazione dei trattati: la regola generale di interpretazione.
La convenzione di Vienna distingue tra la regola generale di interpretazione (art. 31) e i mezzi
complementari di interpretazione (art. 32), che possono entrare in gioco soltanto titolo suppletivo.
La regola generale di interpretazione cos formulata: Un trattato deve essere interpretato in buona fede
secondo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e
del suo scopo (art. 31, par. 1). Non sembra dubbio che la regola generale di interpretazione attribuisca
una decisa priorit al metodo detto testuale od oggettivo, che privilegia il senso ordinario da attribuire alle
parole scritte nel trattato nel loro contesto.
Secondo l'art. 31, par. 2, ai fini dell'interpretazione, il contesto del trattato va inteso in senso ampio.
Esso comprende, oltre al testo, al preambolo e agli allegati, anche ogni accordo avente rapporto con il
trattato e che intervenuto tra tutte le parti in occasione della conclusione dello stesso (ad esempio, un
apposito protocollo interpretativo contestuale al trattato).
Senza menomare l'importanza del metodo testuale, anche altri metodi, di carattere logico o teleologico,
appaiono per impliciti in ogni interpretazione del trattato alla luce del suo oggetto e del suo scopo,
come pure prescrive l'art. 31 della convenzione di Vienna.
Ma anche i metodi interpretativi di tipo soggettivo, che tendono ad accertare la reale intenzione delle parti
non appaiono estranei alla regola generale di interpretazione incorporata nell'art. 31 della convenzione
di Vienna.
In primo luogo, un termine pu essere inteso in un senso particolare, se stabilito che tale era
l'intenzione delle parti (art. 31, par. 4). In secondo luogo, si deve tener conto, oltre che del contesto del
trattato, anche dei seguenti fattori (art. 31, par. 3):
a. di ogni accordo ulteriore intervenuto tra le parti riguardo all'interpretazione del trattato o
all'applicazione delle sue disposizioni;
b. di ogni pratica ulteriormente seguita nell'applicazione del trattato per mezzo della quale risulti
l'accordo delle parti circa l'interpretazione del trattato.
Sembra chiaro che, in queste ipotesi, pi che il significato testuale ed oggettivo dei termini scritti nel
testo del trattato, conti, ai fini dell'interpretazione, il modo in cui le parti dimostrano di intendere i
termini stessi.
Un carattere storico-evolutivo ha invece un ulteriore elemento indicato nell'art. 31, par. 3 lett. c, ai fini
dell'interpretazione dei trattati, vale a dire ogni regola pertinente di diritto internazionale applicabile
nelle relazioni tra le parti.
21. I mezzi complementari di interpretazione.
Si pu fare ricorso a dei mezzi complementari di interpretazione, e in particolare ai lavori preparatori e
alle circostanze nelle quali il trattato stato concluso, al fine, sia di confermare il significato risultante
dall'applicazione dell'art. 31, sia di determinare il significato, quando l'interpretazione data
conformemente all'art. 31:
a. lascia il significato ambiguo o oscuro;
b. conduce a un risultato che manifestamente assurdo o irragionevole (art. 32).
[37]

L'art. 32 della convenzione di Vienna menziona, a titolo esemplificativo e non esaustivo, mezzi
complementari di interpretazione: i lavori preparatori e le circostanze in cui il trattato stato concluso. I
lavori preparatori sono i dati relativi ai negoziati che hanno portato all'adozione del testo di un trattato.
In una sentenza arbitrale, i limiti della nozione di lavori preparatori sono cos chiariti: Occorre prima
di tutto sottolineare che si limita di regola questa nozione ai dati fissati per iscritto, ai quali si pu dunque
fare ricorso in seguito. Questo vuol dire che le dichiarazioni orali e le prese di posizione su di una
materia non fanno parte, salvo casi eccezionali, dei lavori preparatori, se non sono stati incorporati in
un processo verbale o in un rapporto di conferenza. In ogni modo, esse possono venire prese in
considerazione soltanto se sono state fatte a titolo ufficiale e durante i negoziati stessi. Un'altra
condizione per far parte dei lavori preparatori che si tratti di un dato accessibile ed effettivamente
conosciuto da tutte le parti contraenti originarie.
Circa gli altri mezzi complementari di interpretazione dei trattati, che non sono espressamente indicati
nell'art. 32 della convenzione di Vienna, svariati criteri ermeneutici fanno a volte comparsa nella pratica
internazionale. Alcuni di essi sono riassunti in massime latine, a conferma del fatto che si tratta, pi che
di principi di natura normativa, di criteri di logica giuridica di antica origine (ad esempio, in claris non fit
interpretatio).
22. L'interpretazione dei trattati autenticati in due o pi lingue.
L'art. 33 della convenzione di Vienna dispone in materia quanto segue: Quando un trattato stato
autenticato in due o pi lingue, il suo testo fa fede in ciascuna di queste lingue, a meno che il trattato
disponga o che le parti convengano che in caso di divergenza un testo determinato prevarr (par. 1).
Una versione del trattato in lingua diversa da una di quelle nelle quali il testo stato autenticato sar
considerata come autentica soltanto se il trattato lo prevede o le parti lo hanno convenuto (par. 2). I
termini di un trattato sono presunti avere il medesimo senso nei diversi testi autentici (par. 3).
All'infuori del caso in cui un testo determinato prevalga in conformit al par. 1, quando il confronto
dei testi autentici fa apparire una differenza di significato che l'applicazione degli artt. 31 e 32 non
permette di eliminare, si adotter il significato che, tenuto conto dell'oggetto e dello scopo del trattato,
concilia meglio questi testi (par. 4). In altre parole, il riferimento compiuto dall'art. 33, par. 4, della
convenzione di Vienna all'oggetto e allo scopo del trattato non ha altro significato che di autorizzare
colui che deve interpretare un trattato internazionale, redatto in pi lingue, a scegliere l'interpretazione
che, secondo lui, corrisponde meglio all'oggetto e allo scopo del trattato, nel caso in cui l'applicazione
degli artt. 31 e 32 della convenzione di Vienna non permetta di eliminare una differenza di significato.
23. L'emendamento dei trattati.
Se all'interprete non consentito in alcun caso di adattare o piegare la regolamentazione pattizia a
nuove esigenze o situazioni, ben possono a ci provvedere gli stessi Stati che tale regolamentazione
sono tenuti ad applicare.
Questa libert che il diritto internazionale lascia agli Stati di procedere ad emendamento (o revisione,
come anche si suole dire) dei trattati tra di loro conclusi confermata da una pratica plurisecolare ed
ribadita nell'art. 39 della convenzione di Vienna.
Un procedimento assai originale fu seguito per modificare la convenzione delle Nazioni Unite sul
diritto del mare del 1982, prima della sua entrata in vigore, ma dopo la ratifica di un congruo numero di
Stati. Un accordo fu adottato nel 1994 con una risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite
e subito dopo aperto alla firma e alla ratifica. L'accordo prevede che esso dovr leggersi come un
tutt'uno con la convenzione e che, in caso di divergenza, le sue disposizioni prevalgano su quelle della
convenzione. Esso dispone poi che, a partire dalla sua adozione, la convenzione del 1982 potr essere
ratificata solo congiuntamente all'accordo stesso.
La convenzione di Vienna pone alcune regole suppletive in tema di emendamento dei trattati
multilaterali, destinate a valere per il caso che il trattato non disponga diversamente (art. 40, par. 2):
Ogni proposta diretta ad emendare un trattato multilaterale nelle relazioni tra tutte le parti deve essere
notificata a tutti gli Stati contraenti, e ciascuno di essi ha il diritto di prendere parte:
[38]

a. alla decisione sul seguito da dare a questa proposta;
b. al negoziato e alla conclusione di ogni accordo avente l'oggetto di emendare il trattato.
Ma non detto che tutte le parti del trattato originario esercitino il loro diritto di divenire parti al
trattato emendato. abbastanza frequente constatare nella pratica che uno o pi parti all'originario
trattato non consentano a vincolarsi all'accordo che ne ha emendato alcune disposizioni. In vista del
verificarsi di situazioni di questo genere, l'art. 40, par. 4, precisa che l'accordo relativo all'emendamento
non vincola gli Stati che sono gi parte al trattato e che non divengono parti a questo accordo; e
dichiara applicabile al caso il gi ricordato art. 30, par. 4, ai termine del quale, nell'ipotesi di trattati
successivi sulla stessa materia, le relazioni tra uno Stato che sia parte di due trattati ed uno Stato che sia
parte ad uno soltanto di essi sono regolate dal trattato di cui siano parti entrambi gli Stati.
Lo Stato che divenga parte al trattato dopo l'entrata in vigore dell'accordo di emendamento , a meno
che abbia espresso una diversa intenzione, considerato:
a. quale parte al trattato come emendato;
b. quale parte al trattato non emendato nei confronti di ogni parte del trattato che non sia
vincolata dall'accordo di emendamento.
24. La modificazione di un trattato multilaterale tra alcune delle sue parti.
L'emendamento di un trattato multilaterale, quale lo configurano le regole di cui si in precedenza
parlato e le disposizioni convenzionali che ad esso hanno riguardo, tende a raggiungere un
cambiamento della regolamentazione pattizia destinato a valere nei confronti di tutte le parti al trattato,
e non soltanto tra alcune di esse. Questo obiettivo, come si detto, non sempre raggiunto. Ma ci
non toglie che gli emendamenti abbiano sempre in s un valore di globalit, nel senso che essi siano
concepiti come diretti ad essere elaborati con la partecipazione di tutti gli Stati che sono parte al trattato
ed a valere poi, se suffragati dal consenso di questi Stati, nei confronti di tutti.
Ben distinta , pertanto, l'ipotesi di modificazioni alla regolamentazione pattizia risultante da un trattato
multilaterale, le quali siano ab initio concepite come destinate a valere tra alcune soltanto delle parti al
trattato. L'art. 41 della convenzione di Vienna ha il proprio specifico oggetto proprio nell'ipotesi ora
menzionata.
Il punto principale da considerare, a questo proposito, quello dell'ammissibilit di simili
regolamentazioni convenzionali e ristrette di fronte alla regolamentazione pattizia globale risultante dal
trattato.
Rimane da stabilire se, in assenza vuoi di autorizzazioni vuoi di divieti espressi sanciti nel trattato, due o
pi delle sue parti possano ugualmente concludere inter se accordi modificativi del trattato. Secondo l'art.
41, par. 2 lett. b, della convenzione di Vienna, che si conforma a quanto sembra potersi evincere dalla
pratica degli Stati e dalla relativismo che permea di per s tutta la materia del diritto dei trattati, tale
possibilit deve ritenersi ammessa, purch l'accordo modificativo:
non porti pregiudizio al godimento dei diritti discendenti dal trattato per le parti, n
all'esecuzione dei loro obblighi;
non si riferisca ad una disposizione la cui deroga risulti incompatibile con la piena ed effettiva
realizzazione dell'oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme.
Alle medesime condizioni ora esposte, l'art. 58 della convenzione di Vienna dispone che alcune soltanto
delle parti ad un trattato multilaterale possono accordarsi tra di loro anche per sospendere
temporaneamente inter se l'applicazione del trattato.
25. Le disposizioni generali in tema di nullit, estinzione e sospensione dei trattati.
La convenzione di Vienna codifica tra situazioni che, sia pure sulla base di presupposti molto diversi,
hanno per conseguenza l'inidoneit del trattato a produrre effetti (nullit del trattato) o la cessazione,
definitiva o temporanea, della sua idoneit a produrre effetti (estinzione o sospensione del trattato).
La parte V della convenzione di Vienna, in cui si trova codificata e sviluppata la regolamentazione
specifica del diritto internazionale in materia, si intitola nullit, estinzione e sospensione
dell'applicazione dei trattati.
[39]

anzitutto affermato il principio della tipicit delle situazioni che influiscono sulla forza giuridica di
un trattato, le quali possono operare soltanto nei casi previsti dalla convenzione (art. 42). Questo
significa che uno Stato pu sciogliersi dagli obblighi derivanti da un trattato soltanto qualora ricorrano
le condizioni previste dal diritto internazionale e dalla convenzione di Vienna in particolare.
Un certo interesse presente il problema della cosiddetta divisibilit del trattato. Di regola, una causa di
nullit, di estinzione o di sospensione va invocata riguardo all'intero trattato (art. 44, par. 2). Tuttavia, se
essa riguarda alcune clausole determinate, la causa in questione va invocata soltanto rispetto a queste
clausole, quando (art. 44, par. 3):
a. queste clausole sono separabili dal resto del trattato per quanto riguarda la loro esecuzione;
b. risulta dal trattato o altrimenti stabilito che l'accettazione delle clausole in questione non ha
costituito per l'altra parte o per le altre parti al trattato una base essenziale del loro consenso ad
essere vincolate dal trattato nel suo insieme;
c. non ingiusto continuare ad eseguire quanto rimane del trattato.
Ci nonostante, nei casi di nullit per violenza o per contrasto con norme imperative del diritto
internazionale generale, la separazione delle disposizioni di un trattato non consentita (art. 44, par. 4).
Riprendendo una regola generale affermata anche nella giurisprudenza della Corte internazionale di
giustizia, la convenzione di Vienna prevede che uno Stato non pu invocare una causa di nullit, di
estinzione o di sospensione di un trattato, qualora, dopo aver avuto conoscenza dei fatti (art. 45, par. 1):
a. ha esplicitamente accettato di considerare che, a seconda dei casi, il trattato valido, resta in
vigore o continua ad essere applicabile;
b. deve ritenersi, a causa della sua condotta, che abbia prestato acquiescenza, a seconda dei casi,
alla validit del trattato o al suo mantenimento in vigore o in applicazione.
Questa regola non vale nei casi di nullit per violenza o per contrasto con norme imperative del diritto
internazionale generale e nel caso di estinzione o sospensione per impossibilit sopravvenuta.
26. Le cause di nullit: la violazione delle disposizioni di diritto interno sulla competenza a
concludere trattati.
Alcune delle cause di nullit dei trattati attengono alla validit o ai requisiti sostanziali di validit del
procedimento mediante il quale il trattato stato posto in essere. Un ruolo preminente hanno sempre
avuto, a questo riguardo, i cosiddetti vizi del consenso, nel novero dei quali va ricompreso, in diritto
internazionale, anche l'irregolare formazione, dal punto di vista di un ordinamento nazionale, della
volont che poi lo Stato ha dichiarato all'esterno. Si tratta di accertare se e, in caso affermativo a quali
condizioni, la circostanza che il consenso dello Stato ad obbligarsi sia stato espresso in violazione di
disposizioni del suo diritto interno relativamente alla competenza a concludere trattati pu essere
invocata come causa di invalidit del consenso stesso.
La pratica degli Stati, malgrado le sue incertezze e talune inconcludenze, sembra deporre per la
formazione di una regola generale al riguardo. Anzi, secondo la convenzione di Vienna, la violazione
delle disposizioni di diritto interno sulla competenza a concludere trattati costituisce l'unica eccezione alla
regola per cui uno Stato non pu invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la
mancata esecuzione di un trattato (art. 27).
Questa causa di nullit opera, per, qualora si verifichino condizioni ben precise, cos da tutelare anche
l'affidamento degli altri Stati, dai quali non si pu pretendere la conoscenza di qualsiasi disposizione,
anche di marginale importanza, del diritto nazionale altrui: Il fatto che il consenso di uno Stato ad
essere vincolato da un trattato sia stato espresso in violazione di una disposizione del suo diritto interno
concernente la competenza per concludere dei trattati non pu essere invocato da questo Stato, a meno
che questa violazione sia stata manifesta e riguardi una regola del suo diritto interno di importanza
fondamentale (art. 46, par. 1). Una violazione da ritenere manifesta se essa oggettivamente
evidente per ogni Stato che si comporta in materia conformemente alla pratica abituale e in buona
fede (art. 46, par. 2).
Il successivo art. 47 non che un corollario della regola sopra esposta: Se il potere di un
rappresentante di esprimere il consenso di uno Stato di essere vincolato da un trattato determinato
[40]

stata oggetto di una restrizione particolare, il fatto che questo rappresentante non abbia tenuto conto di
essa non pu essere invocato come vizio del consenso che egli ha espresso, a meno che la restrizione
sia stata notificata, prima dell'espressione del consenso, agli altri Stati che hanno partecipato al
negoziato.
27. I vizi del consenso: l'errore.
Una regola generale di diritto internazionale prevede la possibilit che uno Stato faccia valere, quale
causa di nullit di un trattato, la presenza nel procedimento che ha dato vita alla regolamentazione
convenzionale di uno dei tradizionali vizi del consenso: errore, dolo, violenza. Essi si traducono in una
divergenza tra la volont dichiarata e quella che sarebbe stata la volont reale del soggetto, senza
l'intervento deformante del vizio.
L'errore, inteso come una falsa rappresentazione della realt, pu essere invocato da uno Stato come
vizio del suo consenso ad essere vincolato dal trattato, se esso riguardava un fatto o una situazione che
questo Stato supponeva esistere al momento in cui il trattato stato concluso e che costituiva una base
essenziale del consenso di questo Stato ad essere vincolato dal trattato (art. 48, par. 1). Rileva, dunque,
il solo errore di fatto ed essenziale.
Occorre anche che l'errore sia scusabile, dato che lo Stato non pu invocarne l'esistenza, se vi ha
contribuito con il proprio comportamento o quando le circostanze erano tali che esso doveva avvedersi
della possibilit di un errore (art. 48, par. 2).
Ben diverso dall'errore che vizia il consenso di uno Stato a vincolarsi quello che attiene alla redazione
del testo che non pregiudica la validit di un trattato. La convenzione di Vienna disciplina in modo
dettagliato, all'art. 79, la procedura di correzione, qualora gli Stati firmatari o contraenti o il depositario
constatino che il testo del trattato contiene un errore.
28. Segue: il dolo e la corruzione.
Estremamente scarsi sono i dati della pratica internazionale circa il dolo, quale vizio del consenso
prestato da uno Stato a vincolarsi ad un trattato. Secondo l'art. 49 della convenzione di Vienna, se uno
Stato stato indotto a concludere un trattato per mezzo della condotta fraudolenta di un altro Stato che
ha partecipato al negoziato, esso pu invocare il dolo come vizio del suo consenso ad obbligarsi.
Costituisce una specificazione della suddetta regola quanto sancito nel successivo art. 50, secondo il
quale: Se l'espressione del consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato stata ottenuta per
mezzo della corruzione del suo rappresentante tramite lazione diretta o indiretta di un altro Stato che
ha partecipato al negoziato, lo Stato pu invocare questa corruzione come vizio del suo consenso ad
essere vincolato dal trattato.
29. Segue: la violenza.
A proposito della violenza, vale a dire la minaccia di un male ingiusto e difficilmente resistibile date le
circostanze, occorre distinguere a seconda che essa sia esercitata sul rappresentante di uno Stato o sullo
Stato stesso attraverso la minaccia o l'impiego della forza contro la sua integrit territoriale o
indipendenza politica.
L'idea predominante nella prassi e nella dottrina sino all'epoca della seconda guerra mondiale era che la
sola forma di violenza che potesse portare all'invalidit del trattato fosse quella esercitata per mezzo di
atti o di minacce diretti contro la persona abilitata a rappresentare lo Stato nella conclusione di un
trattato, nell'intento di indurla a prestare il consenso ad obbligarsi.
La convenzione di Vienna, dunque, ha codificato una situazione di diritto generale gi esistente,
stabilendo che l'espressione del consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato che stata
ottenuta attraverso la violenza esercitata sul suo rappresentante per mezzo di atti o di minacce diretti
contro di lui priva di ogni effetto giuridico (art. 51).
La Commissione del diritto internazionale, prima, e la conferenza di Vienna, poi, hanno ritenuto che
l'evoluzione del diritto internazionale avutasi dopo la seconda guerra mondiale dovesse portare anche a
sancire la nullit di ogni trattato la cui conclusione stata ottenuta attraverso la minaccia o l'impiego
[41]

della forza in violazione dei principi di diritto internazionale incorporati nella Carta delle Nazioni
Unite. Cos l'art. 52 della convenzione di Vienna, la quale, del resto, constata nel preambolo che i
principi del libero consenso e della buona fede sono universalmente riconosciuti, insieme alla
regola pacta sunt servanda.
Moltissime delegazioni alla conferenza di Vienna si sono pronunciate nel senso che il secondo tipo di
violenza previsto dalla convenzione doveva gi considerarsi lex lata in diritto internazionale
consuetudinario e varie manifestazioni della pratica internazionale sembrano confermare questa
conclusione. Diversi Stati, appartenenti soprattutto al gruppo dei paesi in via di sviluppo, avevano anzi
insistito nel corso della conferenza di Vienna perch la convenzione sancisse la nullit anche di un
trattato concluso con pressioni di natura economica (c.d. violenza economica) esercitate da uno Stato ai
danni di un altro. Altri Stati ritenevano, invece, che un simile ampliamento del concetto di violenza
avrebbe avuto effetti negativi sulla sicurezza e stabilit dei rapporti giuridici internazionali.
Soltanto una soluzione di compromesso ha fatto s che, da un lato, la violenza economica non fosse
inserita tra le cause di nullit dei trattati codificate nel testo della convenzione di Vienna; e che,
dall'altro, essa fosse menzionata in una dichiarazione allegata all'atto finale della conferenza di Vienna (e
quindi in un atto non avente valore immediatamente vincolante per le parti), con la quale la conferenza
condanna solennemente il ricorso alla minaccia o allimpiego di tutte le forme di pressione, militare,
politica o economica, da parte di qualsiasi Stato, al fine di costringere un altro Stato a compiere un atto
qualunque legato alla conclusione di un trattato, in violazione dei principi delluguaglianza sovrana degli
Stati e della libert del consenso.
30. Il contrasto del trattato con norme imperative del diritto internazionale generale (ius
cogens).
Di ben diversa natura, rispetto alle precedenti, l'ultima causa di invalidit dei trattati prevista dalla
convenzione di Vienna: il contrasto del trattato con una norma imperativa (o cogente o inderogabile)
del diritto internazionale generale.
Infatti, mentre la maggior parte delle norme potrebbe venire liberamente derogata dalle parti con un
trattato, esisterebbe un ristretto nucleo di norme generali (ius cogens) che sarebbero talmente connaturate
alle esigenze fondamentali della societ internazionale nel suo insieme, da presentare una natura
imperativa. Tuttavia, in una societ priva di un apparato legislativo, come nel caso della societ
internazionale, risulta molto difficile determinare quali norme rientrino nella categoria delle norme
cogenti.
La conferenza di Vienna ha accolto la discussa idea dell'esistenza di uno ius cogens in diritto
internazionale, che pure non poteva allora dirsi suffragata da alcun dato sicuro della pratica
internazionale. Secondo l'art. 53 della convenzione di Vienna, nullo ogni trattato che, al momento
della sua conclusione, in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale.
Correlativamente, l'art. 64 prevede, sia pure in termini non molto precisi, l'estinzione di un trattato che,
pur valido al momento della conclusione, venga successivamente a contrastare con una norma cogente
sopravvenuta: se una nuova norma imperativa del diritto internazionale generale sopravviene, ogni
trattato esistente che in contrasto con questa norma diviene nullo e prende fine.
La convenzione di Vienna non fornisce l'elenco delle norme cui si dovrebbe attribuire il requisito
dell'inderogabilit, ma propone una definizione astratta: Ai fini della presente convenzione, una norma
imperativa del diritto internazionale generale una norma accettata e riconosciuta dalla comunit
internazionale degli Stati nel suo insieme come norma alla quale non permessa alcuna deroga e che
pu essere modificata soltanto da una nuova norma del diritto internazionale generale avente lo stesso
carattere (art. 53). La definizione, alquanto tautologica, sembra voler deliberatamente evitare ogni
compromissione sulla reale natura, sull'estensione e sugli interessi tutelati dalle norme in questione.
Nel periodo successivo all'adozione della convenzione di Vienna, il concetto di ius cogens ha tuttavia
ricevuto qualche conferma nella pratica giudiziaria internazionale. Tale pratica riguarda soprattutto la
natura imperativa della norma generale che vieta l'uso o la minaccia della forza nelle relazioni tra Stati,
che gi costituiva il principale esempio fornito dalla Commissione del diritto internazionale.
[42]

31. Le cause di estinzione: i termini di durata e il diritto di denuncia o recesso.
frequente il caso che le clausole finali o protocollari di un trattato dispongano in merito alla sua
durata e al diritto di una parte di denunciare il trattato o di recedervi.
La libert che hanno gli Stati di predeterminare nel testo del trattato la durata della regolamentazione
convenzionale ivi incorporata, cos come la possibilit di sciogliersi unilateralmente dalla stessa, risulta
pacificamente ammessa da una pratica plurisecolare ed appare ribadita dall'art. 54 della convenzione di
Vienna, secondo il quale l'estinzione di un trattato o il recesso di una parte possono aver luogo
conformemente alle disposizioni del trattato.
Quando un trattato risulti concluso senza limiti di durata, normalmente previsto in modo esplicito il
diritto delle parti di denunciare il trattato, facendo di conseguenza venire meno il vigore della
regolamentazione pattizia incorporata nel testo.
Il rovescio, per cos dire, del recesso di uno Stato da un'organizzazione internazionale costituito dal
potere di esclusione del membro, che quasi tutti i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali
attribuiscono alle stesse.
Difficili problemi pongono quei trattati, soprattutto multilaterali, che non contengono alcuna
disposizione relativa alla loro durata e che non prevedono la possibilit di denuncia o recesso. Secondo
l'opinione di alcuni studiosi, l'assenza di ogni disposizione espressa sulla denuncia o sul recesso non
dovrebbe significare un'assoluta esclusione della possibilit che una parte al trattato unilateralmente lo
denunci o vi receda. La denuncia o il recesso potrebbero, infatti, a certe condizioni, considerarsi
consentiti vuoi a causa della natura, intrinsecamente temporanea, di certi trattati, vuoi in seguito ad
un'intenzione implicita delle parti.
Questa soluzione ha finito con l'essere accolta nella convenzione di Vienna: Un trattato che non
contiene disposizioni relative alla sua estinzione e non prevede che si possa denunciarlo o recedere da
esso non pu essere oggetto di denuncia o di recesso, a meno (art. 56, par. 1):
a. che sia stabilito che era nell'intenzione delle parti di ammettere la possibilit di una denuncia o
di un recesso;
b. che il diritto di denuncia o di recesso possa essere dedotto dalla natura del trattato.
Il par. 2 dello stesso art. stabilisce un termine di preavviso di dodici mesi.
Nella pratica, l'esempio pi noto al riguardo la Carta delle Nazioni Unite, che non contiene alcuna
norma in materia di recesso. Tuttavia, si afferm alla conferenza di San Francisco: Il Comitato del
parere che la Carta non debba contenere un'espressa dichiarazione, n favorevole n contraria al
recesso. Esso del parere che ogni Stato membro abbia il sommo dovere di prestare continuativamente
la propria collaborazione in seno all'organizzazione allo scopo di preservare la pace e la sicurezza
internazionali. Se, peraltro, in presenza di circostanze eccezionali, uno Stato si vedesse costretto a
recedere, e quindi a lasciare agli altri membri l'onere del mantenimento della pace e della sicurezza,
l'ONU non intende costringere tale Stato a proseguire nella sua collaborazione con l'organizzazione.
Ci si pu, infine, chiedere se continui a produrre effetti un trattato multilaterale quando, a seguito di pi
denunce, il numero delle sue parti scenda al di sotto di quello che era stato previsto come necessario
per la sua entrata in vigore. La convenzione di Vienna risolve il problema in senso affermativo: A
meno che il trattato disponga diversamente, un trattato multilaterale non prende fine per il solo motivo
che il numero delle parti scenda al di sotto del numero necessario per la sua entrata in vigore (art. 55).
32. Segue: l'abrogazione ad opera delle parti.
L'art. 54 della convenzione di Vienna prevede che un accordo delle parti in ordine alla cessazione degli
effetti di un trattato (cosiddetta abrogazione del trattato) pu intervenire in ogni momento, attraverso il
consenso di tutte le parti, dopo consultazione degli altri Stati contraenti.
L'appropriazione del trattato pu risultare dal fatto che tutte le sue parti concludano tra di loro nuovo
trattato, nel quale espressamente si dichiara che il primo trattato cessa di avere vigore (cosiddetti accordi
abrogativi espressi).
Il consenso di due o pi Stati diretto all'abrogazione di un precedente trattato pu essere manifestato
oltre che in modo espresso, anche in modo implicito o tacito. Quest'ultima evenienza si verifica per il fatto
[43]

che tutti gli Stati che sono parti ad un trattato concludono successivamente tra di loro un nuovo trattato
sulla medesima materia, purch ricorrano alcune condizioni espressamente indicate nell'art. 59, par. 1,
della convenzione di Vienna: Un trattato considerato aver preso fine quando tutte le parti a questo
trattato concludono ulteriormente un trattato che regola la stessa materia e:
a. risulta dal trattato posteriore o altrimenti stabilito che secondo l'intenzione delle parti la
materia deve essere regolata da questo trattato;
b. le disposizioni del trattato posteriore sono a tal punto incompatibili con quelle del trattato
anteriore che impossibile applicare i due trattati nello stesso tempo.
Va infine ribadito che l'abrogazione, sia essa espressa o tacita, di un trattato anteriore richiede sempre il
consenso di tutti gli Stati che sono parte di quest'ultimo. La convenzione di Vienna esclude la possibilit
di attribuire effetti abrogativi di un trattato multilaterale anteriore ad accordi conclusi inter se tra alcune
soltanto delle parti del primo.
33. Segue: la violazione del trattato ad opera di una delle parti.
Non mai stata seriamente contestata nella dottrina n nella pratica l'esistenza di una regola generale di
diritto internazionale che consente a una parte di sciogliersi da un trattato, nel caso di una sua
violazione sostanziale ad opera di un'altra parte (inadempienti non est adimplendum = allinadempimento
non dovuto l'adempimento).
La regola inadempienti non est adimplendum, quale risulta regolamentata nella convenzione di Vienna, si
atteggia diversamente a seconda che il trattato violato sia bilaterale oppure multilaterale.
In presenza di un trattato bilaterale, una violazione sostanziale ad opera di una delle parti autorizza l'altra
a invocare la violazione come motivo per mettere fine al trattato o a sospenderne la sua applicazione
in tutto o in parte (art. 60, par. 1).
In presenza di un trattato multilaterale, le conseguenze dell'inadempimento sostanziale di una parte
sono pi complesse. Si prevede, in primo luogo, che una violazione sostanziale del trattato autorizzi le
parti, agendo per accordo unanime, a sospendere l'applicazione del trattato in tutto o in parte o a porvi
fine, sia nelle relazioni tra esse stesse e lo Stato autore della violazione, sia tra tutte le parti (art. 60, par.
2 lett. a). Si distingue poi il caso in cui si possa parlare di una parte specialmente lesa dalla violazione
e quello in cui il trattato sia di natura tale che una violazione sostanziale delle sue disposizioni ad opera
di una parte modifica radicalmente la situazione di ciascuna delle parti rispetto all'esecuzione ulteriore
dei suoi obblighi in virt del trattato. Nella prima ipotesi, in cui possibile vedere il trattato
multilaterale come regolante un fascio di rapporti bilaterali, la parte specialmente lesa pu invocare la
violazione come motivo di sospensione dell'applicazione del trattato, in tutto o in parte, nelle relazioni
tra essa stessa e lo Stato autore della violazione (art. 60, par. 2 lett. b). Nel secondo caso, che connota
trattati a contenuto non sinallagmatico e fra di essi quelli in cui la violazione modifica radicalmente la
situazione di ciascuna parte rispetto all'esecuzione del trattato, ogni parte di un trattato multilaterale
diversa dallo Stato autore della violazione pu invocare la violazione come motivo per sospendere
l'applicazione del trattato in tutto o in parte per quanto la concerne (art. 60, par. 2 lett. c).
Al fine di mettere meglio in chiaro che una violazione di importanza minore non potrebbe essere
invocata come causa di estinzione o di sospensione di un trattato, la convenzione di Vienna precisa che
per violazione sostanziale si intende o un ripudio del trattato non autorizzato dalla convenzione stessa o la
violazione di una disposizione essenziale per la realizzazione dell'oggetto e dello scopo del trattato (art.
60, par. 3).
La convenzione infine contiene un limite alla possibilit di invocare la regola inadempienti non est
adimplendum introdotto a Vienna su proposta della Svizzera: i parr. da 1 a 3 dellart. 60 non si applicano
alle disposizioni relative alla protezione della persona umana contenute nei trattati di carattere
umanitario, in particolare alle disposizioni che escludono ogni forma di rappresaglie contro le persone
protette da tali trattati (art. 60, par. 5). Questo limite dovrebbe essere inteso nel senso che uno Stato
parte ad un trattato contenente disposizioni sulla tutela della persona umana non pu venir meno
all'osservanza di tali disposizioni, per il solo fatto che un'altra parte sia responsabile di violazioni
sostanziali delle stesse.
[44]

34. Segue: l'impossibilit sopravvenuta.
Il par. 1 dell'art. 61 della convenzione di Vienna, intitolato sopravvenienza di una situazione che rende
l'esecuzione impossibile, codifica un'altra regola, la cui esistenza in diritto internazionale generale
appare generalmente riconosciuta: Una parte pu invocare l'impossibilit di eseguire un trattato come
motivo per porvi fine o per recedervi se questa impossibilit deriva dalla scomparsa o distruzione
definitiva di un oggetto indispensabile all'esecuzione di questo trattato. Se l'impossibilit temporanea,
essa pu essere invocata soltanto come motivo per sospendere l'applicazione del trattato.
Esempi di impossibilit sopravvenuta possono essere un mutamento di sovranit su di un territorio, in
caso di trattato che imponga obblighi relativi a quel territorio, o un evento naturale irreversibile che
renda un corso d'acqua inidoneo alla navigazione, nel caso di trattato che obblighi lo Stato rivierasco a
consentirvi la navigazione di navi straniere [se il fiume, tuttavia, divenisse inidoneo alla navigazione non
per un fenomeno naturale, ma per un comportamento dello Stato rivierasco vincolato dal trattato, si
verificherebbe una situazione di inadempimento ad opera di una parte].
Esempi di impossibilit temporanea dell'esecuzione, invocabile come motivo di sospensione del
trattato, possono essere la rottura delle relazioni diplomatiche o consolari tra due Stati, per quei trattati
che presuppongono come indispensabile per la loro applicazione l'esistenza di relazioni di questo
genere, o il fatto che un porto o un canale divenga transitoriamente inutilizzabile, per un trattato che
imponga allo Stato del porto o del canale obblighi relativi all'accesso o al transito di navi straniere.
Il par. 2 dell'art. 61 rappresenta, invece, una discutibile innovazione introdotta dalla conferenza di
Vienna rispetto al corrispondente art. del progetto finale della Commissione del diritto internazionale.
In base alla convenzione di Vienna, l'impossibilit di esecuzione non pu essere invocata da uno Stato
come motivo per porre fine a un trattato, per recedervi o per sospenderne l'applicazione se questa
impossibilit deriva da una violazione, ad opera della parte che la invoca, sia di un obbligo previsto dal
trattato, sia di ogni altro obbligo internazionale nei confronti di ogni altra parte del trattato.
Questa disposizione appare fuori posto, nel contesto di una convenzione che ha espressamente voluto
lasciare impregiudicata ogni questione concernente la responsabilit degli Stati (art. 73). Come stato
giustamente rilevato, l'impossibilit dell'esecuzione, in quanto fatto oggettivo assoluto, paralizza in
ogni caso il trattato quale che sia la maniera in cui essa si prodotta. Il che naturalmente non significa
che l'estinzione o la sospensione annullino la responsabilit dello Stato che ha violato i suoi obblighi; al
contrario, nella determinazione della riparazione, dovr tenersi conto del danno risultante dal fatto di
aver causato l'estinzione o la sospensione del trattato.
35. Segue: il mutamento fondamentale delle circostanze.
L'esistenza in diritto internazionale di un'apposita norma generale, che limita la regola pacta sunt servanda
di fronte a trasformazioni radicali delle circostanze che avevano accompagnato la conclusione di un
trattato, trova conferma in copiose manifestazioni della pratica degli Stati e nel suo riconoscimento, nel
1969, da parte della grandissima maggioranza degli Stati rappresentati alla conferenza di Vienna.
Con una formulazione che vuole palesemente accentuare il carattere eccezionale di questa causa di
estinzione, la convenzione di Vienna cos dispone (art. 62, par. 1): Un mutamento fondamentale di
circostanze che si verificato rispetto a quelle esistenti al momento della conclusione di un trattato e
che non era stato previsto dalle parti non pu essere invocato come motivo per porre fine al trattato o
per recedervi, a meno che:
a. l'esistenza di queste circostanze abbia costituito una base essenziale del consenso delle parti ad
essere vincolate dal trattato;
b. questo cambiamento abbia per effetto di trasformare radicalmente la portata degli obblighi che
restano da eseguire in virt del trattato.
Richiamando la convenzione di Vienna, la Corte di giustizia delle Comunit Europee ha confermato la
validit della sospensione di un accordo di cooperazione economica del 1980 tra la Comunit e la
Jugoslavia, affermando che il venir meno di una situazione di pace in Jugoslavia e di istituzioni
capaci di provvedere alla realizzazione della cooperazione perseguita dall'accordo e il proseguimento
delle ostilit rendevano applicabile l'art. 62 della convenzione di Vienna.
[45]

L'art. 62, par. 2, della convenzione di Vienna prevede un ulteriore limite, escludendo che il mutamento
fondamentale delle circostanze possa venire invocato:
a. se si tratta di un trattato che stabilisce una frontiera;
b. se il mutamento fondamentale derivi da una violazione, ad opera della parte che lo invoca, sia di
un obbligo del trattato, sia di ogni altro obbligo internazionale nei confronti di ogni altra parte
del trattato.
Infine, l'art. 62, par. 3, inserito a Vienna in seguito ad una proposta del Canada e della Finlandia,
ammette che una parte possa invocare il mutamento fondamentale delle circostanze, qualora ne
ricorrano i presupposti, anche soltanto come causa di sospensione dell'applicazione del trattato. La
disposizione ha una sua ragion d'essere, in quanto una semplice sospensione del trattato, anzich la sua
estinzione, potrebbe in certi casi costituire una buona premessa di negoziati tendenti ad emendare il
trattato.
36. La sospensione dell'applicazione di un trattato.
Come risultato dall'analisi in precedenza condotta, nella regolamentazione contenuta nella
convenzione di Vienna, tutte le cause di estinzione dei trattati possono, sia pure a volte in presenza di
presupposti diversi, operare anche soltanto quali cause di sospensione dell'applicazione del trattato.
Cos, la conclusione di un trattato posteriore sulla stessa materia ad opera di tutte le parti di un trattato
pu comportare soltanto la sospensione del trattato anteriore, se ci risulta dal trattato posteriore o se
altrimenti stabilito che questa era l'intenzione delle parti (art. 59, par. 2). Nell'ipotesi di violazione del
trattato ad opera di una delle parti, la sospensione dell'applicazione dello stesso pu essere invocata, in
certi casi, quale unica conseguenza dell'inadempimento, in altri casi in alternativa all'estinzione (art. 60).
La sospensione dell'applicazione del trattato pu anche venire invocata in presenza di un'impossibilit
sopravvenuta, ma temporanea, dell'esecuzione del trattato (art. 61) e in presenza di un mutamento
fondamentale delle circostanze (art. 62).
A differenza di quanto avviene per l'estinzione, la sospensione dell'applicazione di un trattato
multilaterale pu intervenire per accordo tra alcune sue parti soltanto. La disciplina che l'art. 58 della
convenzione di Vienna fornisce al riguardo simile a quella della modificazione dei trattati multilaterali
nelle relazioni tra alcune parti soltanto, gi prevista dall'art. 41.
37. Le conseguenze della nullit, dell'estinzione e della sospensione dell'applicazione dei
trattati.
La nullit di un trattato ha la conseguenza di far cessare ab initio (o ex tunc) la forza giuridica delle
disposizioni racchiuse nel suo testo. Secondo l'art. 69 della convenzione di Vienna le disposizioni di un
trattato nullo non hanno forza giuridica. Nel caso di trattato multilaterale, le conseguenze della nullit
si producono nelle sole relazioni tra lo Stato il cui consenso a vincolarsi era viziato e le parti al trattato.
Qualora degli atti fossero tuttavia stati compiuti sulla base di un trattato nullo, ciascuna parte pu
chiedere a qualsiasi altra di ristabilire, nella misura del possibile, nelle loro reciproche relazioni, la
situazione che sarebbe esistita se questi atti non fossero stati compiuti.
L'estinzione di un trattato, a differenza della sua nullit, opera dal momento in cui essa si verifica (ex
nunc). Essa, a meno che il trattato disponga o che le parti convengano diversamente, libera le parti
dall'obbligo di continuare ad eseguire il trattato, ma non porta pregiudizio ai diritti, obblighi o situazioni
giuridiche delle parti, sorti a seguito dell'esecuzione del trattato prima che esso abbia preso fine. In caso
di denuncia o di recesso di uno Stato rispetto ad un trattato multilaterale, le conseguenze dell'estinzione
operano nelle relazioni tra questo Stato e ciascuna delle altre parti al trattato a partire dalla data in cui la
denuncia o di recesso prendono effetto (art. 70).
La sospensione dell'applicazione di un trattato, a meno che il trattato disponga o che le parti
convengano diversamente, libera le parti tra le quali l'applicazione del trattato sospesa dall'obbligo di
eseguire gli obblighi pattizi nelle loro reciproche relazioni durante il periodo di sospensione, ma non
pregiudica altrimenti le relazioni giuridiche stabilite dal trattato tra le parti.
[46]

38. Il modo di operare delle cause di nullit, di estinzione o di sospensione dei trattati.
Sempre piuttosto incerta apparsa la questione di stabilire se le conseguenze correlate alla nullit,
all'estinzione o alla sospensione dell'applicazione di un trattato debbano reputarsi discendere
automaticamente dal fatto che una delle parti al trattato abbia affermato la sua volont di invocarle; o
se, viceversa, tali conseguenze debbano reputarsi discendere soltanto dal previo esperimento di una
procedura intesa a constatare, con il concorso di tutte le altre parti al trattato o con l'intervento di
un'istanza imparziale, l'effettiva ricorrenza della situazione fatta valere da una parte e il fatto che essa
rientri in uno degli schemi di nullit, estinzione o sospensione.
Particolarmente importante, nelle predette condizioni di incertezza, va considerato il contributo recato
dalle soluzioni accolte negli artt. da 65 a 67 e nell'allegato della convenzione di Vienna. La convenzione
cerca di contemperare l'esigenza di evitare che un ricorso arbitrario a cause di invalidit, estinzione o
sospensione metta in pericolo la stabilit e la sicurezza delle relazioni pattizie internazionali con
l'esigenza di non legare troppo rigidamente gli Stati ad un meccanismo giudiziario obbligatorio di
regolamento delle controversie, che sarebbe risultato inaccettabile a un considerevole numero di
governi.
L'art. 65 dispone che la parte che invoca una causa di nullit, estinzione o sospensione deve notificare la
sua pretesa alle altre parti, indicando la misura che intende prendere riguardo al trattato e le relative
ragioni. Se, trascorso un termine che, salvo in caso di particolare urgenza, non pu essere inferiore a un
periodo di tre mesi a partire dalla data di ricevimento della notificazione, nessuna parte ha fatto
obiezione, la parte che ha fatto la notificazione pu prendere la misura contemplata. Se, invece,
un'obiezione stata sollevata da un'altra parte, le parti dovranno cercare una soluzione attraverso i
mezzi indicati nell'art. 33 della Carta delle Nazioni Unite, ovvero attraverso negoziati, inchiesta,
mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni o accordi
regionali o altri mezzi pacifici di loro scelta.
L'art. 66 prevede la competenza obbligatoria della Corte internazionale di giustizia per le controversie
relative all'applicazione o all'interpretazione delle disposizioni in materia di ius cogens, nonch la
possibilit di ricorso unilaterale ad una procedura di conciliazione, contemplata in un allegato alla
convenzione, per le controversie sullapplicazione o linterpretazione di qualunque altro art. in tema di
nullit, estinzione e sospensione dei trattati.
La soluzione cos accolta nellart. 66 costituisce certamente una garanzia sotto il profilo sia
delleventuale arbitrariet del motivo fatto valere da uno stato prosciogliersi da un trattato, che
delleventuale arbitrariet dellobiezione mossa da un altro Stato.
39. Gli effetti della guerra sui trattati.
L'insorgere di un conflitto armato tra due o pi Stati pu esercitare una varia influenza sui trattati di cui
gli Stati sono parti. La materia regolata dal diritto internazionale generale, dato che la convenzione di
Vienna dichiara espressamente di non voler pregiudicare qualsiasi questione che potrebbe porsi a
seguito dell'apertura di ostilit tra Stati (art. 73).
Tuttavia, la pratica contemporanea sembra orientata nel senso che l'insorgere di una guerra fra due o
pi Stati abbia unicamente l'effetto di sospendere l'applicazione, bello durante, dei trattati multilaterali di
cui gli Stati stessi siano parti; mentre produrrebbe l'estinzione dei trattati bilaterali in vigore, al
momento dellinsorgere del conflitto armato, tra Stati belligeranti avversari.
LUSO DELLA FORZA
1. Il divieto delluso della forza.
Il patto della Societ delle Nazioni (Versailles, 28 aprile 1919) impegnava i membri a rispettare e a
conservare contro qualsiasi aggressione esterna l'integrit territoriale e l'indipendenza politica attuale di
tutti i membri della Societ (art. 10). I membri si obbligavano a sottoporre a procedura di arbitrato o di
regolamento giudiziario, ovvero all'esame del Consiglio, le controversie suscettibili di provocare una
rottura insorte tra di essi e convenivano che in nessun caso avrebbero fatto ricorso alla guerra, prima
[47]

che fosse trascorso un periodo di tre mesi a partire dalla decisione arbitrale o giudiziale o dal rapporto
del Consiglio.
Con la Carta delle Nazioni Unite (San Francisco, 26 giugno 1945) si proclam in modo netto la
prevalenza del valore della pace con l'affermazione del principio del divieto dell'uso della forza e la
previsione di limitate eccezioni e di un apparato istituzionale per la loro applicazione. Gli Stati
fondatori, affermato nel preambolo di essere decisi a salvare le future generazioni dal flagello della
guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanit,
indicano il mantenimento della pace come il primo dei fini della nuova organizzazione (art. 1): I fini
delle Nazioni Unite sono:
1. mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure
collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o
le altre violazioni della pace e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformit ai principi della
giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle
situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace.
A tal fine, la Carta stabilisce, fra i principi delle Nazioni Unite, due obblighi fondamentali. Alla stregua
del primo: I membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera
che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo (art. 2, par. 3). Per il
secondo: I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della
forza, sia contro l'integrit territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra
maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite (art. 2, par. 4).
Lunica ipotesi che consenta limpiego della forza da parte di uno Stato , come vedremo nel prossimo
par., la legittima difesa, prevista dallart. 51.
Il divieto dell'uso della forza, in particolare nella sua forma pi grave, l'aggressione, oggi
comunemente citato come esempio di obbligo imposto da una norma generale di natura cogente, alla
quale cio non possibile derogare in alcun modo mediante trattato.
2. L'uso della forza da parte degli Stati secondo la Carta delle Nazioni Unite: la legittima
difesa.
La Carta delle Nazioni Unite, per un verso, prevede un'eccezione al principio del divieto dell'uso e della
minaccia dell'uso della forza da parte degli Stati e, per altro verso, un meccanismo che consente l'uso
della forza da parte delle Nazioni Unite stesse. L'eccezione quella della legittima difesa, prevista
all'art. 51: Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di legittima difesa
individuale o collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato [armed attack nella versione inglese;
nella versione francese, agression] contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoch il Consiglio di
sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.
Il concetto di aggressione riveste unovvia importanza come condizione della legittima difesa secondo
l'art. 51. Esso ha trovato una definizione, frutto di anni di accanite discussioni, in un apposito comitato
dell'Assemblea Generale, nella risoluzione 3314 del 14 dicembre 1974. Tale definizione precisa che per
aggressione deve intendersi, l'uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranit,
l'integrit territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato, o in qualsiasi altro modo incompatibile
con lo Statuto delle Nazioni Unite, che consista, vi sia o meno dichiarazione di guerra, in uno qualsiasi
degli atti seguenti (art. 3):
a. linvasione o lattacco del territorio di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato,
unoccupazione militare, anche temporanea, risultante da una tale invasione o da un tale attacco,
o unannessione con limpiego della forza del territorio o di una parte del territorio di un altro
Stato;
b. il bombardamento, da parte delle forze armate di uno Stato, del territorio di un altro Stato, o
limpiego di qualsiasi arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato;
c. il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato;
d. lattacco da parte delle forze armate di uno Stato contro le forze armate terrestri, navali o aeree,
o la marina e laviazione civile di un altro Stato;
[48]

e. lutilizzazione delle forze armate di uno Stato che sono stanziate sul territorio di un altro Stato
con laccordo dello Stato ospite, in violazione delle condizioni previste nellaccordo o un
prolungamento della loro presenza sul territorio in questione al di l della scadenza dellaccordo;
f. il fatto che uno Stato consenta che il suo territorio, che ha messo a disposizione di un altro
Stato, sia utilizzato da questultimo per perpetrare un atto di aggressione contro uno Stato terzo;
g. linvio da parte di uno Stato o in suo nome di bande o di gruppi armati, di forze irregolari o di
mercenari che si dedicano ad atti di forza armata contro un altro Stato di tale gravit che essi
equivalgono agli atti sopra enumerati, o il fatto di impegnarsi in maniera sostanziale in una tale
azione.
La definizione prevista come non esaustiva, posto che il Consiglio di Sicurezza pu determinare che
altri atti costituiscono aggressione secondo lo Statuto delle Nazioni Unite (art. 4).
3. L'uso della forza da parte delle Nazioni Unite: il capitolo VII della Carta.
Per quanto riguarda il meccanismo istituzionale previsto a complemento del divieto dell'uso della forza
da parte degli Stati, va ricordato che la Carta affida al Consiglio di Sicurezza la responsabilit principale
del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (art. 24) e che il Consiglio, oltre a
funzioni di tipo diplomatico-conciliativo previste dal capitolo VI, pu svolgere, alla stregua del capitolo
VII, un'azione per far fronte a minacce la pace, violazioni della pace ed atti di aggressione.
Il capitolo VII della Carta sembra delineare un procedimento che si svolge secondo fasi logicamente e
cronologicamente ordinate, e che culmina nella presa di decisioni che possono consistere nel ricorso
alla forza:
1) In primo luogo, il Consiglio accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della
pace o di un atto di aggressione (art. 39), fatti che costituiscono il presupposto per ogni
successiva decisione.
2) In secondo luogo, il Consiglio raccomanda o decide quali misure debbano essere prese per
mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale (art. 39).
3) In terzo luogo, il Consiglio pu decidere, per dare effetto alle sue decisioni, misure non
implicanti l'uso della forza, come l'interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e
delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura
delle relazioni diplomatiche (cc.dd. sanzioni economiche o politiche) e pu invitare i membri delle
Nazioni Unite ad applicare tali misure (art. 41).
4) In quarto luogo, se le sanzioni si rivelano inadeguate, il Consiglio pu intraprendere con forze
aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionale (art. 42).
Come si vede, le condizioni perch il Consiglio di Sicurezza decida l'uso della forza da parte delle
Nazioni Unite sono meno severe di quelle previste dall'art. 51 per gli Stati (una minaccia alla pace di
pi flessibile verifica che unaggressione) e soprattutto dipendono da un procedimento e dalla
formazione di una maggioranza, senza lopposizione di un membro permanente, che dipende a sua
volta dai pi vari fattori politici.
4. Segue: le operazioni di mantenimento della pace e la loro evoluzione.
Nel periodo della guerra fredda ci si rese conto che tra l'azione diplomatico-conciliativa del capitolo VI
e l'azione prevista dal capitolo VII, che poteva portare a sanzioni e all'uso della forza, poteva rivestire
indubbia utilit un'azione, diretta alla prevenzione della continuazione di conflitti o al mantenimento
della pace rispetto a conflitti in stato di precaria sospensione, che implicasse l'uso di forze armate, ma
solo un minimo uso della forza. Si svilupparono cos le operazioni di mantenimento della pace
(peacekeeping operations).
A partire soprattutto dalla forza di emergenza delle Nazioni Unite (UNEF) creata all'indomani della
guerra del 1957 tra Egitto e Israele, i caratteri originari delle operazioni di mantenimento della pace
vennero disegnati in modo da evitare ogni confusione con azioni basate sul capitolo VII. Le missioni
erano effettuate da forze armate provenienti da Stati diversi dai membri permanenti del Consiglio di
[49]

Sicurezza e da qualsiasi altro Stato che per ragioni geografiche o altre avesse un interesse speciale nel
conflitto; tali forze avevano soprattutto compiti di interposizione in situazioni di tregua o di cessate il
fuoco e anche di osservazione e di verifica di tali situazioni; esse erano dotate solo di armamento
leggero e potevano farne uso solo per legittima difesa; la loro presenza sul territorio di uno Stato era
sotto la condizione del consenso di tale Stato.
Non risult peraltro facile contenere le missioni di mantenimento della pace entro i limiti cos tracciati.
In vari casi le missioni, una volta sul terreno, ricevettero mandati diversi da quello originario e
comportanti compiti pi estesi che consentivano maggiori possibilit di uso della forza.
5. Segue: l'uso della forza deciso alla stregua del capitolo VII.
La fine della guerra fredda, col venir meno del dissidio ideologico fondamentale tra i membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza, ha reso possibile, nell'ultimo decennio del ventesimo secolo,
l'utilizzazione del capitolo VII della Carta.
In primo luogo, il Consiglio pare attento ad inquadrare le situazioni oggetto delle sue decisioni nella
previsione (non sempre citata esplicitamente) dell'art. 39 della Carta. In particolare, esso venuto
progressivamente adottando, a fondamento di decisioni inquadrate nel capitolo VII, una nozione di
minaccia alla pace che abbraccia anche situazioni di carattere interno, pur cercando talora di
giustificare la propria decisione con riferimenti ad elementi di rilievo internazionale quali i flussi di
rifugiati causati da un determinato conflitto. Non solo: dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre
2001 a New York e Washington, il Consiglio di Sicurezza ha definito gli atti di terrorismo
internazionale una delle pi gravi minacce alla pace e alla sicurezza internazionali del XXI secolo. Pur
non decidendo o autorizzando l'uso della forza in base al capitolo VII, la risoluzione estende pertanto la
nozione di cui all'art. 39 della Carta a comportamenti di attori diversi dagli Stati.
In secondo luogo, le azioni decise, quando comportano l'uso della forza, possono, per un verso, essere
intraprese direttamente dalle Nazioni Unite, sotto forma di missioni condotte da truppe messe a
disposizione da Stati membri e che, come si visto, sono in molti casi un'evoluzione di missioni di
mantenimento della pace del tipo di quelle gi in uso durante la guerra fredda. Per altro verso, alla luce
della mancata messa in opera del meccanismo militare previsto nel capitolo VII, e delle obiettive
difficolt incontrate, come si visto, dalle operazioni condotte dalle Nazioni Unite ed eccedenti i limiti
tradizionali di quelle di mantenimento della pace, si diffusa la prassi dell'autorizzazione da parte del
Consiglio di Sicurezza a condurre azioni implicanti l'uso della forza da parte di coalizioni di Stati
volontari (coalitions of the willing).
Il caso pi noto quello dell'autorizzazione (data dopo la constatazione di una violazione della pace e
della sicurezza internazionali, e dopo l'imposizione di sanzioni, risultate inefficaci, per far cessare la
violazione della pace e della sicurezza internazionale) a una coalizione di Stati che cooperano col
governo del Kuwait, a prendere tutte le misure necessarie per reagire all'invasione e occupazione del
Kuwait da parte dell'Iraq nel 1990. In base a tale autorizzazione, fu condotta, sotto il comando degli
Stati Uniti, l'operazione Desert Storm che port alla sconfitta dell'Iraq con la restaurazione del governo
legittimo in Kuwait. Il fatto che le forze della coalizione non agissero sotto la bandiera delle Nazioni
Unite e soprattutto che non fossero previsti precisi obblighi di far rapporto al Consiglio di Sicurezza e
di seguirne le istruzioni, in altre parole, che l'operazione, una volta autorizzata, sia stata condotta senza
alcun controllo del Consiglio, rendono legittimi i dubbi sulla compatibilit con la Carta di siffatte
deleghe in bianco.
Altro fattore di novit della prassi seguita alla rivitalizzazione del Consiglio di Sicurezza nell'ultimo
decennio del ventesimo secolo, consiste in ci che, invocando il capitolo VII della Carta, il Consiglio ha
creato, cooperando in varia misura con le popolazioni locali, istituzioni di tipo giudiziario e di tipo
amministrativo con competenza per territorio in cui si erano verificati gravi conflitti, con o senza il
coinvolgimento diretto delle Nazioni Unite. cos che il Consiglio ha istituito un Tribunale penale per i
crimini commessi nell'ex-Jugoslavia ed un Tribunale penale per i crimini commessi nel Ruanda.
[50]

6. L'uso della forza da parte di Stati senza autorizzazione delle Nazioni Unite nella prassi
recente: Kosovo, Afganistan, Iraq.
La fase successiva all'azione in Kuwait vede vari episodi di ricorso alla forza da parte di Stati senza
l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Vanno ricordati in particolare l'intervento armato di Stati
della NATO contro la Jugoslavia in relazione alla situazione nel Kosovo nel 1999, quello di una
coalizione sotto il comando degli Stati Uniti in Afganistan nel 2002 e degli Stati Uniti con l'appoggio di
alcuni Stati nel 2003 in Iraq. Le tre situazioni presentano caratteristiche diverse.
Nel Kosovo la situazione di repressione da parte del governo jugoslavo rispetto alla popolazione
albanese fu dichiarata da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza una minaccia alla pace e tale da dar
luogo a una imminente catastrofe umanitaria. L'intervento armato fu giustificato dagli Stati che lo
compirono sostenendo che tali risoluzioni contenevano un'autorizzazione implicita. Resta in ogni caso
che l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza non fu chiesta e che, ove lo fosse stata, probabilmente
non sarebbe stata ottenuta vista la contrariet della Russia. La legittimit dell'uso della forza contro la
Jugoslavia fu da questa contestata davanti alla Corte internazionale di giustizia in 10 azioni parallele
contro altrettanti membri della NATO.
Le argomentazioni a favore di un'autorizzazione implicita non sembrano facilmente sostenibili. La
configurabilit di un diritto d'intervento a fini umanitari, invocata dagli Stati Uniti, potrebbe
prospettarsi, a nostro avviso, almeno in via di principio, quale lunica percorribile alla luce
dell'importanza che i valori umanitari assumo nel diritto contemporaneo. Tuttavia, anche ove se ne
accettasse in astratto l'ammissibilit, l'intervento umanitario non potrebbe vedersi come privo di limiti.
Tali limiti sono stati descritti in una nota del 7 ottobre 1998 del Foreign and Commonwealth Office
britannico. In tale nota si afferma infatti che l'uso della forza in mancanza di autorizzazione del
Consiglio di Sicurezza pu giustificarsi in caso di schiacciante necessit umanitaria applicandosi i
seguenti criteri:
a. che vi siano prove convincenti, generalmente accettate dalla comunit internazionale, di una
situazione di necessit umanitaria estrema e di larga scala, che richiede sollievo immediato e
urgente;
b. che sia obiettivamente chiaro che non vi un'alternativa possibile all'uso della forza per salvare
vite umane;
c. che l'uso della forza che si propone necessario e proporzionato al fine ed strettamente
limitato nel tempo e nella portata a tale fine.
Un esame dell'intervento in Kosovo porta ad esprimere seri dubbi sulla sussistenza di siffatti requisiti
nel caso concreto.
L'intervento in Afganistan fu susseguente agli atti terroristici dell'11 settembre 2001 a New York e
Washington, atti condannati da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che, come detto, li definirono
minacce alla pace. Il Consiglio dichiar, per un verso, di essere pronto a prendere tutte le misure
necessarie per rispondere agli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 e, per altro verso, di
riconoscere il diritto di legittima difesa individuale o collettiva secondo la Carta. Alla luce della prima
dichiarazione, l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, con ogni probabilit, sarebbe stata possibile.
Gli Stati Uniti e gli Stati che parteciparono con essi all'azione armata contro il regime afgano dei
Talibani preferirono tuttavia non chiedere tale autorizzazione ed invocare la legittima difesa a
giustificazione della loro azione. Tale giustificazione e l'azione che ne segu, trovarono la sostanziale
acquiescenza degli Stati, anche se argomenti contrari sono stati sviluppati dalla dottrina.
L'azione militare intrapresa contro l'Iraq dagli Stati Uniti con alcuni altri Stati nel 2003 fu giustificata
invocando un'interpretazione di precedenti risoluzioni che, ad avviso di tali Stati, consentivano l'uso
della forza autorizzato a seguito dell'invasione del Kuwait e solo sospeso con il cessate il fuoco e la
risoluzione che stabiliva i conseguenti obblighi dell'Iraq. La constatazione, contenuta nella risoluzione
1441 del 2002 del sussistere di una situazione di sostanziale violazione di tali obblighi (in particolare in
tema di eliminazione delle armi di distruzione di massa), la previsione contenuta in tale risoluzione che
in caso di continuazione delle violazioni lIraq avrebbe dovuto affrontare serie conseguenze, e il fatto
che lIraq non avesse colto l'opportunit finale di adempiere ai suoi obblighi prevista da tale risoluzione,
[51]

facevano s, ad avviso degli Stati Uniti, che la base del cessate il fuoco stata rimossa e che l'uso della
forza autorizzato alla stregua della risoluzione 668(1990) (la risoluzione che autorizzava l'uso della
forza a seguito dell'annessione del Kuwait). La costruzione giuridica pare significativa in quanto cerca la
giustificazione dell'uso della forza all'interno del sistema della Carta. La sua debolezza emerge tuttavia
dalla voluta ambiguit della risoluzione 1441, che vari membri permanenti del Consiglio di Sicurezza
interpretarono fin dall'inizio nel senso che essa escludesse il ricorso alla forza senza una nuova esplicita
autorizzazione del Consiglio, e dal fatto che, pur sostenendo la surricordata interpretazione permissiva,
gli Stati Uniti e il Regno Unito, in lunghe trattative in seno al Consiglio, avevano cercato invano di
ottenere una siffatta autorizzazione. Infine, i due argomenti di fatto invocati a giustificazione
dell'intervento, la presenza in Iraq di armi di distruzione di massa e la connessione del governo iracheno
con il gruppo terroristico di Al-Qaeda non hanno trovato (almeno finora e per quanto reso noto)
conferma nelle indagini svolte in Iraq dagli Stati Uniti e i loro alleati dopo la vittoria militare sul regime
di Saddam Hussein e l'occupazione del paese. Ancor pi che per quanto riguarda l'intervento in
Kosovo, il carattere illecito dellazione in Iraq appare difficilmente contestabile e rischia di costituire un
precedente pericoloso per la sopravvivenza del sistema di salvaguardia della pace e della sicurezza
disegnato dalla Carta delle Nazioni Unite.
LA RESPONSABILIT INTERNAZIONALE
1. Le regole sulla responsabilit internazionale e la loro codificazione.
La violazione di una regola di diritto internazionale, in altre parole, l'illecito internazionale, la fattispecie
di norme internazionali che prevedono a carico del soggetto che commette la violazione l'obbligo di
riparazione, cio la sua responsabilit internazionale. Nel corso degli anni si sono susseguiti numerosi
tentativi al fine di pervenire ad una codificazione della materia.
Nel 2001 il lavoro intrapreso dalla Commissione del diritto internazionale, sotto l'impulso
dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per codificare la delicata materia della responsabilit,
pervenuto ad una conclusione con la sottoposizione all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite di un
progetto di artt. relativi alla responsabilit degli Stati per atti internazionalmente illeciti.
L'Assemblea Generale, seguendo il suggerimento della Commissione, non ha ritenuto di adottare il
testo da questa elaborato come progetto di convenzione da sottoporre ad una conferenza diplomatica.
Pur non escludendo la possibilit di una futura decisione in tal senso, l'assemblea si limitata a
prendere nota degli artt. (che chiameremo d'ora in poi gli artt. CDI) e a raccomandarli all'attenzione
dei governi. Parrebbe cos essere stata implicitamente accolta la tesi che ritiene preferibile affidarsi
all'autorevolezza di un testo frutto di quarantanni di lavori evitando i rischi che una conferenza
diplomatica e i tempi lunghi richiesti dalle decisioni in tema di ratifiche e di adesioni potrebbero far
correre a tale autorevolezza e forse anche alla stessa natura consuetudinaria, finora incontestata, di
talune norme in esso contenute.
Gli artt. CDI si articolano in tre parti. La prima riguarda latto internazionalmente illecito di uno
Stato. Essa intende stabilire quando un fatto illecito internazionale pu essere imputato a uno Stato e
quando si possa dire che esso comporta la violazione di un obbligo internazionale, ed anche quali
circostanze eccezionali precludano l'illiceit di atti non conformi agli obblighi internazionali dello Stato.
La seconda parte tratta del contenuto della responsabilit internazionale, vale a dire delle conseguenze
che comporta un fatto illecito internazionale. La terza parte riguarda la messa in opera della
responsabilit internazionale.
L'opera di codificazione promossa dalle Nazioni Unite stata limitata alla responsabilit internazionale
degli Stati, con esclusione della responsabilit dei soggetti di diritto internazionale diversi dagli Stati.
Questo non esclude che norme analoghe a quelle sulla responsabilit degli Stati siano applicabili anche
per quanto riguarda gli altri soggetti (come le organizzazioni internazionali), pur con le peculiarit che le
caratteristiche proprie di tali soggetti impongono. Pur dovendosi avvertire che, a partire dal 2002, la
Commissione ha avviato lo studio della responsabilit delle organizzazioni internazionali, quanto si dir
[52]

nella trattazione che segue della responsabilit degli Stati vale pertanto, mutatis mutandis, anche per le
organizzazioni internazionali.
2. La responsabilit internazionale come conseguenza di un comportamento in contrasto
con un obbligo internazionale.
Il presupposto della responsabilit internazionale di uno Stato consiste in un comportamento di tale
Stato in contrasto con un obbligo di diritto internazionale. Tale comportamento, per la correlazione
sempre presente tra obblighi giuridici e diritti soggettivi, si risolve in una violazione di un diritto soggettivo di
uno o pi altri Stati.
La circostanza che, secondo il diritto internazionale generale, la responsabilit internazionale dello Stato
tragga origine da un suo comportamento in contrasto con gli obblighi su di esso incombenti in forza di
una regola, generale o convenzionale, del diritto internazionale in vigore per tale Stato al momento in
cui si compie il fatto costituisce anche un limite della responsabilit internazionale. Questo in un
duplice senso:
anzitutto, che il comportamento dello Stato suscettibile di far sorgere la sua responsabilit
internazionale deve essere attribuibile allo Stato come soggetto di diritto internazionale (il c.d.
elemento soggettivo dell'illecito internazionale);
in secondo luogo, che non si ha responsabilit internazionale dello Stato, se non nella misura in
cui il comportamento che le avrebbe dato origine si presenti come una violazione di una regola
del diritto internazionale nei precisi termini in cui da tale regola discende un obbligo di azione o
di astensione a carico dello Stato (il c.d. elemento oggettivo dell'illecito).
Questo emerge chiaramente dagli artt. CDI. Dopo aver enunciato all'art. 1 che ogni fatto
internazionalmente illecito di uno Stato d luogo alla sua responsabilit internazionale, vi si precisa
all'art. 2 che sussiste un fatto illecito internazionale quando: un comportamento consistente in
un'azione o in un'omissione:
a. pu essere attribuito allo Stato alla stregua del diritto internazionale;
b. tale comportamento costituisce una violazione di un obbligo internazionale dello Stato.
Sono questi i due elementi costitutivi di un fatto illecito internazionale.
Ci si pu chiedere se, perch si possa dare un illecito internazionale, occorra anche la presenza di un
terzo elemento, e cio se occorra che il fatto abbia provocato un danno. La risposta negativa, essendo
il danno, inteso come un pregiudizio economico o anche un pregiudizio morale, la conseguenza
frequente di un illecito, ma non un suo elemento indispensabile. Per riprendere un esempio proposto
dalla Commissione del diritto internazionale, se sono violati obblighi internazionali incombenti sullo
Stato in tema di trattamento dei suoi stessi cittadini, ad esempio gli obblighi derivanti da convenzioni
sui diritti dell'uomo, la violazione cos commessa non provoca normalmente alcun pregiudizio
economico agli altri Stati parte alla convenzione e neppure un'offesa al loro onore o alla loro dignit.
Controversa inoltre in dottrina la questione se, tra gli elementi costitutivi del fatto illecito
internazionale, debba o meno essere sempre presente un elemento soggettivo nell'autore del
comportamento in contrasto con quello imposto da una regola del diritto internazionale: elemento
soggettivo concretantesi nella colpa in senso lato, che include il dolo, ossia il fatto di aver voluto l'evento,
e la colpa in senso stretto, ossia il fatto di aver omesso le misure idonee ad evitare l'evento.
Una parte non indifferente delle manifestazioni della pratica internazionale sembrano orientate verso
una concezione oggettiva della responsabilit internazionale dello Stato. La colpa potr allora essere un
requisito previsto dalla stessa norma violata. In tal senso si espresse la Danimarca a nome degli Stati
nordici commentando il progetto della Commissione del diritto internazionale: se l'elemento della
colpa rilevante per stabilire la responsabilit, esso dipende dalla specifica norma di diritto
internazionale che disciplina la situazione e non dal fatto che esso costituisca un elemento costitutivo
della responsabilit internazionale. Particolare interesse rivestono, a questo proposito, le norme,
frequenti in materia di protezione dell'ambiente, che prevedono un comportamento diligente, facendo
cos della mancanza di colpa un elemento della norma primaria.
[53]

3. Il comportamento attribuibile allo Stato.
Non si ha responsabilit internazionale dello Stato per il comportamento di semplici individui privati o
gruppi di individui privati che abbiano agito come tali, a meno che, in occasione del comportamento
degli individui, lo Stato abbia violato tramite un proprio comportamento omissivo un obbligo di
vigilanza, di prevenzione o di protezione.
Questo emerge chiaramente dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 24 maggio 1980 sul
caso del personale diplomatico e consolare degli Stati Uniti a Teheran. A seguito di attacchi di militanti islamici
contro i locali dell'ambasciata statunitense a Teheran, il personale in questione era stato sequestrato nei
locali dell'ambasciata. La Corte ritenne che, almeno in una prima fase, il comportamento dei militanti
islamici non potesse venir attribuito allo Stato iraniano, perch non era stato accertato che i militanti
agissero effettivamente per conto di tale Stato, in quanto un organo di esso li avesse incaricati di una
determinata operazione. Ci per, prosegue la Corte, non significa che l'Iran sia esonerato da ogni
responsabilit a proposito di questi attacchi. Il suo comportamento infatti incompatibile con i suoi
obblighi internazionali.
In definitiva, come precisava l'art. 5 del citato progetto della Commissione del diritto internazionale,
considerato come atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale il comportamento di qualsiasi
organo dello Stato, che abbia tale qualit alla stregua del diritto interno di detto Stato, purch esso abbia
agito in tale qualit nel caso in questione.
4. Segue: il concetto di organo dello Stato.
In materia di responsabilit internazionale il concetto di organo dello Stato assai ampio. Gli artt. CDI
precisano che viene considerato atto di uno Stato l'atto di qualsiasi organo di tale Stato, eserciti esso
funzioni legislative, esecutive, giudiziarie o altre, quale che sia la sua posizione nell'organizzazione
dello Stato e quale che sia la sua natura di organo del governo centrale o di unit territoriale dello Stato
(art. 4).
Per quanto riguarda in particolare la responsabilit dello Stato per i comportamenti dei suoi agenti
subordinati, baster riportare una presa di posizione del 9 marzo 1882 del Ministro degli esteri italiano,
Mancini: In regola generale questa responsabilit si presume, essendo nei principi generali del diritto
che debbasi civilmente rispondere della cattiva scelta di funzionari od incaricati che, nell'esercizio delle
funzioni ad essi affidate, abusano del mandato.
Sono anche attribuibili allo Stato i fatti di enti aventi la qualit, dal punto di vista del suo ordinamento
giuridico interno, di istituzioni pubbliche autonome o di collettivit pubbliche territoriali distinte dallo
Stato, e che abbiano agito in tale qualit. In questo senso dispone l'art. 4, par. 1, test citato, degli artt.
CDI.
Lo stesso principio si applica altres, e a maggior ragione, per quel che concerne le suddivisioni, non
solo politiche, ma anche amministrative, di uno Stato.
Altrettanto dicasi per l'attribuzione allo Stato dei fatti di persone o gruppi di persone che, pur se
formalmente sprovvisti, in base al diritto interno, della qualit di organi dello Stato, agiscano di fatto per
conto dello Stato oppure esercitino di fatto funzioni pubbliche in assenza delle autorit ufficiali e in
circostanze che giustificavano l'esercizio di tali funzioni (cosiddetti agenti di fatto).
Un delicato problema di imputabilit a uno Stato di atti di persone che non hanno qualit di suoi organi
si proposto alla Corte internazionale di giustizia nella controversia tra Nicaragua e Stati Uniti sulle
attivit militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, a proposito delle forze dette contras, e cio dei
gruppi armati che lottavano contro il governo del Nicaragua. La Corte non ritenne che l'assistenza che
gli Stati Uniti forniscono ai contras giustifichi la conclusione che queste forze sono sottoposte agli Stati
Uniti al punto tale che gli atti da essi commessi siano imputabili a tale Stato. Il grado di controllo
esercitato dagli Stati Uniti non era tale da potersi affermare, in mancanza di ulteriori prove, che gli Stati
Uniti avevano diretto o imposto gli atti contrari ai diritti umani e al diritto umanitario commessi dai
contras.
La Camera d'appello del Tribunale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia, nella sentenza 15 luglio
1999 sul caso Tadic, afferm esplicitamente il proprio dissenso dalla sentenza della corte dell'Aja,
[54]

sottolineando che il livello di controllo richiesto da tale sentenza per rendere imputabili agli Stati Uniti
gli atti dei contras era troppo elevato, essendo sufficiente un controllo generale che vada oltre il semplice
finanziamento ed equipaggiamento delle forze in esame e che comprenda anche la partecipazione nella
progettazione e supervisione di operazioni militari.
Gli artt. CDI sembrano volersi mantenere equidistanti tra i due opposti orientamenti, con la seguente
formulazione che non tocca esplicitamente il punto di contrasto, relativo al grado di direzione e
controllo esercitato: La condotta di una persona o di un gruppo di persone sar considerata atto di
uno Stato alla stregua del diritto internazionale se la persona o il gruppo di persone sta di fatto agendo
secondo le istruzioni, o sotto la direzione o il controllo, di tale Stato, nello svolgimento di tale
condotta (art. 8).
Quando un atto che non pu essere attribuito a uno Stato in quanto commesso da persone che non
rivestono la qualit di organi viene in seguito adottato come proprio da uno Stato, esso deve
considerarsi atto di tale Stato (art. 11 degli artt. CDI). Il principio fu applicato dalla Corte internazionale
di giustizia nella gi citata sentenza del 1980 nel caso del personale diplomatico e consolare degli Stati Uniti a
Teheran. Quando le autorit iraniane decisero di mantenere ed utilizzare a vari fini politici l'occupazione
dell'ambasciata americana e la detenzione del personale ivi tenuto in ostaggio dai militanti islamici, la
natura giuridica della situazione mut radicalmente: Avendo l'Ayatollah Khomeini e altri organi dello
Stato iraniano approvato questi fatti e deciso di perpetuarli, l'occupazione continuata dell'ambasciata e
la detenzione persistente degli ostaggi assunsero carattere di atti dello Stato iraniano. I militanti, autore
dell'invasione e carcerieri degli ostaggi, divennero allora agenti dello Stato iraniano per i cui atti tale
Stato era internazionalmente responsabile.
Attribuibili allo Stato sono anche i comportamenti dei suoi organi, che abbiano agito eccedendo la loro
competenza o in contrasto con le prescrizioni del diritto interno relative alla loro competenza, sempre
che tale eccesso o contrasto risultino manifesti. Ma, nella decisione sul caso Caire, resa il 7 giugno 1929
dalla Commissione dei Reclami istituita in virt di un accordo del 1924 tra la Francia e il Messico, si
aggiunge: Per poter ammettere tale responsabilit, detta oggettiva, dello Stato per gli atti commessi da
suoi funzionari o organi al di fuori dei limiti della loro competenza, occorre che essi abbiano agito
almeno apparentemente come funzionari o organi competenti oppure che, nel loro agire, abbiano fatto
uso di poteri o mezzi propri della loro qualit ufficiale.
La regola si trova nell'art. 7 degli artt. CDI. Esso prevede che il comportamento dell'organo statale, che
ha agito in tale qualit, viene attribuito allo Stato anche se, nel caso di specie, l'organo ha ecceduto la
sua competenza o contravvenuto alle istruzioni relative alla sua attivit.
Infine, il fatto di un movimento insurrezionale che diviene il nuovo governo di uno Stato attribuito a
questo Stato e il fatto di un movimento insurrezionale, la cui azione porta alla creazione di un nuovo
Stato su di una parte del territorio di uno Stato preesistente, attribuito a questo nuovo Stato (art. 10
degli artt. CDI). Nella pratica, si possono citare le istruzioni inviate il 26 gennaio 1959 dal Dipartimento
di Stato americano al proprio ambasciatore a Cuba: Un governo, che divenuto il governo legittimo di
uno Stato in seguito ad una rivoluzione vittoriosa di norma internazionalmente responsabile per i
danni causati dalle forze o dalle autorit tanto del governo precedente che dei rivoluzionari.
5. Segue: l'attribuzione ad uno Stato del comportamento di organi altrui.
Si anche discusso della possibilit di attribuire ad uno Stato i comportamenti di persone o di gruppi di
persone che abbiano la qualit di organi nel quadro dell'ordinamento giuridico di un altro Stato o di
un'organizzazione internazionale.
Dalle manifestazioni pertinenti della pratica internazionale sembra potersi evincere che l'attribuzione
allo Stato dei predetti comportamenti si abbia soltanto a condizione che gli organi altrui siano stati
messi a disposizione dello Stato e che effettivamente dipendano da esso ed agiscano in conformit alle
istruzioni impartite da quest'ultimo (art. 6 degli artt. CDI).


[55]

6. La partecipazione di uno Stato all'illecito di altro Stato.
Gli artt. CDI distinguono, nel loro capitolo IV, tre differenti ipotesi di responsabilit di uno Stato in
connessione con l'atto di altro Stato:
a. che uno Stato aiuti o assista un altro Stato nella commissione di un illecito internazionale;
b. che uno Stato eserciti direzione o controllo su altro Stato nella commissione di siffatto illecito;
c. che uno Stato costringa un altro Stato a commettere illecito.
Nel primo caso (art. 16) lo Stato di cui trattasi ritenuto internazionalmente responsabile per l'attivit di
aiuto o assistenza, se:
a. tale Stato esercita tale attivit essendo a conoscenza delle circostanze dellatto
internazionalmente illecito;
b. l'atto sarebbe stato internazionalmente illecito ove commesso da tale Stato.
Nei casi invece della direzione e controllo e della coercizione ci si muove sul presupposto che, in
presenza di un fatto illecito di uno Stato, comportamenti di un altro Stato, che di per s potrebbero
ritenersi perfettamente leciti, si considerino anch'essi fatti illeciti per la particolare connessione tra i due
comportamenti. Esempio fondamentale dell'ipotesi di Stato che esercita il potere di direzione o
controllo su di un altro Stato quello dell'occupazione bellica, al di l di ipotesi oggi superate connesse
al dominio coloniale. In entrambe le ipotesi sembra indubbio e cos previsto agli artt. 17 e 18 degli
artt. CDI che lo Stato occupante o lo Stato che esercita la coazione risponde dell'illecito. Ma risponde
al titolo proprio o indirettamente per un fatto di un altro Stato? Gli artt. citati accolgono la tesi per cui
si avrebbe a che fare in ogni caso con una responsabilit diretta dello Stato che esercita sull'altro Stato
totale direzione, controllo o coazione, pur rimanendo impregiudicata la questione della responsabilit
dello Stato che subisce la direzione, il controllo o la coercizione, come afferma l'art. 19.
7. Le diverse specie dei fatti illeciti internazionali.
Si sono in prima battuta distinti i fatti illeciti omissivi dai fatti illeciti co.ssivi.
Sotto diversi aspetti, pi importante appare la distinzione tra fatti illeciti di condotta e fatti illeciti di
risultato, a seconda che la regola inadempiuta richieda all'obbligato un mero comportamento o, invece,
un risultato. Tale distinzione si fonda sul diverso modo in cui le regole del diritto internazionale
provvedono alla regolamentazione della vita di relazione internazionale. Molto spesso, tali regole,
invece di porre come obbligatorio un comportamento determinato allo Stato cui si indirizzano, si
limitano a prescrivere un determinato risultato da raggiungere da parte di questo Stato, con i mezzi
ritenuti pi opportuni allo scopo e lasciando quindi allo Stato stesso un margine abbastanza ampio di
discrezionalit quanto alla scelta di tali mezzi. Esempi di obblighi del primo tipo si possono trovare in
convenzioni internazionali prevedenti l'obbligo di adottare una normativa uniforme su determinate
materie, mentre obblighi del secondo tipo sono quelli derivanti dalle direttive emesse dalla Comunit
Europea che vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.
Quando il comportamento dello Stato non conforme al risultato voluto dal diritto internazionale, ed
per possibile ottenere tale risultato con un comportamento successivo dello Stato stesso, si ha
violazione dell'obbligo solo se lo Stato anche con il suo comportamento successivo non assicura il
risultato che gli ha richiesto dall'obbligo (art. 21, par. 2 del progetto del 1996 della Commissione).
Una situazione di questo genere si verifica in non pochi casi che riguardano le regole internazionali
relative ai diritti dell'uomo o al trattamento degli stranieri. Alla stregua di molte di tali regole il risultato
da raggiungere consiste in garanzie di giustizia e di misure di protezione delle persone e dei beni di
individui, da realizzare nell'ambito degli ordinamenti nazionali degli Stati cui le regole si indirizzano,
senza che le regole stesse stabiliscano come quel risultato debba essere raggiunto e attraverso quali
mezzi nazionali di ricorso possa essere eventualmente posto riparo all'azione o all'omissione di un
organo statale, contrastante con il suddetto risultato. In casi di questo genere, lillecito internazionale
non pu dirsi verificato, se non quando risulti definitivamente precluso dall'ordinamento nazionale ogni
possibilit di raggiungere il risultato che la regola internazionale si prefigge. Se l'ordinamento nazionale
contempla apposite vie di ricorso avverso il provvedimento dell'organo statale, la cui azione od
[56]

omissione sia in contrasto con il risultato voluto dalla regola internazionale, il fatto illecito pu dirsi
verificato soltanto dopo il previo esaurimento dei ricorsi interni.
Gli artt. CDI sembrano invece adottare una concezione procedurale della regola limitandosi a
prevedere che la responsabilit di uno Stato non pu essere invocata se [] la domanda rientra tra
quelle cui si applica la regola dell'esaurimento dei ricorsi interni e i ricorsi interni efficaci non sono stati
esauriti (art. 44).
Una particolare categoria di illeciti di risultato, che pu indicarsi come quella degli illeciti di evento, si
ha nelle ipotesi in cui il risultato richiesto da una regola di diritto internazionale di prevenire, con
mezzi liberamente scelti, il verificarsi di un determinato evento. In tale ipotesi, come precisa l'art. 23
del progetto della Commissione del diritto internazionale, l'obbligo violato solo se, per mezzo della
condotta adottata, lo Stato non ottiene tale risultato.
8. Crimini e delitti internazionali, violazioni di norme imperative di diritto internazionale.
Uneventuale distinzione fondata sul contenuto degli obblighi violati pu avere un senso in relazione
alle conseguenze che possono derivare da una violazione degli obblighi e ai soggetti legittimati a far valere tali
conseguenze. Sulla base di questa premessa, la Commissione del diritto internazionale, accogliendo idee
sostenute con particolare impegno dagli autori sovietici, aveva accolto fin dal 1976 una distinzione
basata sull'importanza per la comunit internazionale dell'obbligo violato, distinguendo tra il delitto
internazionale ed il crimine internazionale. Mentre il delitto costituiva la forma ordinaria di illecito,
essendo definito, per negativo, come ogni fatto illecito che non costituisca un crimine, quest'ultima
nozione veniva cos definita nel progetto della Commissione: Il fatto internazionalmente illecito che
risulta da una violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale cos essenziale per la
salvaguardia di interessi fondamentali della comunit internazionale, che la sua violazione riconosciuta
come un crimine da detta comunit nel suo insieme, costituisce un crimine internazionale (art. 19, par.
2).
La definizione del crimine veniva completata e resa meno astratta da una disposizione esemplificativa
(art. 19, par. 3), in cui si affermava quanto segue: un crimine internazionale pu tra l'altro risultare:
a. da una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale al mantenimento
della pace e della sicurezza internazionale, come quello che vieta l'aggressione;
b. da una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per la salvaguardia
del diritto di autodeterminazione dei popoli, come quello che vieta l'istituzione o il
mantenimento con la forza di un dominio coloniale;
c. da una violazione grave e su larga scala di un obbligo internazionale per la salvaguardia
dell'essere umano, come quelli che vietano la schiavit, il genocidio e lapartheid;
d. da una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per la salvaguardia
e la preservazione dell'ambiente umano, come quelli che vietano l'inquinamento massiccio
dell'atmosfera o dei mari.
Occorre osservare come la nozione di crimine internazionale sia indubbiamente prossima a quella di
una violazione di norme di carattere imperativo. Infatti, le regole pi spesso indicate come esempi di
norme cogenti sono quelle stesse la cui violazione in generale indicata come esempio di crimine
internazionale.
Gli artt. CDI non riprendono la distinzione tra delitti e crimini internazionali. Alla luce delle incertezze
rilevate nella posizione degli Stati e dello scarso appoggio riscontrabile nella prassi giudiziaria, il relatore
speciale Crawford aveva di proporre l'eliminazione dal progetto degli artt. relativi ai crimini
internazionali dello Stato, pur senza pregiudizio della nozione stessa e della possibilit di riprenderne la
trattazione separata nella Commissione o in altra sede. La resistenza incontrata da questa proposta
radicale presso la Commissione e presso gli Stati membri delle Nazioni Unite, ha fatto s che, pur
abolendosi la nozione di crimine internazionale dello Stato, gli artt. CDI non abbiano voluto
abbandonare la menzione di una categoria di illeciti caratterizzati dalla loro particolare gravit. Si tratta
degli illeciti costituiti da una violazione grave da parte di uno Stato di un obbligo sorgente da una
norma imperativa di diritto internazionale generale, precisandosi che la violazione di tale obbligo
[57]

grave se implica da parte dello Stato responsabile una mancanza flagrante o sistematica nell'adempiere
l'obbligo (art. 40).
La soluzione adottata negli artt. CDI presenta l'indubbio vantaggio di non contenere alcuna allusione ad
un profilo penale o punitivo che inevitabilmente implicito nell'espressione crimine e che non trova
riscontro nella prassi internazionale per quanto riguarda le violazioni commesse dagli Stati.
Come si vedr pi avanti, gli artt. CDI hanno ricollegato particolari conseguenze alla violazione di
norme imperative, non ritenendo opportuno assimilare, sotto questo profilo, tali violazioni a quelle di
norme erga omnes, a cui si voluto dare rilievo nell'ottica del diritto a far valere la responsabilit.
9. Le circostanze che escludono il fatto illecito: aspetti generali. Il consenso.
Vi sono alcune circostanze che, in quanto sussistano, escludono l'illiceit internazionale di un fatto che
sarebbe illecito, se quelle circostanze non ricorressero, o che precludono la responsabilit conseguente
dall'illecito. Si pu prospettare la distinzione tra cause di esclusione dell'illiceit e semplici esimenti,
che escludono la responsabilit, conseguenza dell'illiceit.
Negli artt. CDI esse vengono tutte introdotte con la formula: L'illiceit del fatto di uno Stato non
conforme a un obbligo internazionale [] esclusa che fa pensare a una preferenza per la prima
costruzione. Tuttavia, il Commento della Commissione del diritto internazionale afferma che le
circostanze di esclusione dell'illiceit non annullano o estinguono l'obbligo: piuttosto, forniscono una
giustificazione o una scusa per il non adempimento quando sussista la circostanza di cui trattasi.
Questa affermazione precede quella per cui si deve fare una distinzione tra l'effetto delle circostanze
che escludono l'illiceit e l'estinzione dello stesso obbligo.
Come precisa l'art. 26 degli artt. CDI, le circostanze in esame non escludono l'illiceit di violazioni di
norme imperative di diritto internazionale. Inoltre (art. 27), l'invocazione di una circostanza che
esclude l'illiceit [] non pregiudica:
a. l'adempimento dell'obbligo in questione, se e nei limiti in cui la circostanza che esclude l'illiceit
non esista pi;
b. la questione della compensazione di perdite materiali causate da quel fatto.
La prima di queste circostanze costituita dal consenso dello Stato leso dal comportamento di un altro
Stato: ad esempio, il consenso prestato da uno Stato allo stanziamento o all'attivit sul proprio territorio
di forze armate o di agenti di polizia di un altro Stato o di una commissione d'inchiesta internazionale.
Il consenso prestato anteriormente o contemporaneamente alla violazione di una regola di diritto
internazionale esclude l'illiceit del comportamento di un altro Stato (salvo che, s'intende, tale consenso
non risulti viziato da incompetenza di chi lo ha prestato, dolo o violenza). Invece, il consenso prestato
dallo Stato leso successivamente al compimento del fatto non pu pi eliminarne il carattere illecito, ma
assume il valore di rinuncia dello Stato leso al suo diritto alla riparazione.
Tra i numerosi casi della prassi, si pu richiamare l'intervento di un co.ndo di teste di cuoio della
Germania federale avvenuto il 17-18 ottobre 1977 all'aeroporto di Mogadiscio, in Somalia, con la
liberazione dei passeggeri di un aereo tedesco, tenuti in ostaggio da un gruppo di dirottatori. L'esistenza
del preventivo consenso del governo somalo valse ad escludere ogni discussione circa la liceit
dell'intervento, al contrario di quanto era avvenuto per l'intervento israeliano effettuato in analoghe
circostanze, l'anno prima a Entebbe, senza il consenso del governo ugandese, la cui possibile
giustificazione fu oggetto di contrastanti opinioni e fu, in ogni caso, ricercata in altri principi.
Si pu aggiungere che il consenso di uno solo degli Stati lesi dall'atto illecito, qualora gli Stati lesi siano
pi di uno, non vale ad eliminare l'illiceit del fatto nei confronti degli Stati che non hanno prestato il
loro consenso.
Gli artt. CDI prevedono questa circostanza di esclusione dell'illiceit, precisando che: Il valido
consenso dello Stato alla commissione da parte di altro Stato di un determinato atto esclude l'illiceit di
tale atto rispetto al primo Stato purch latto rimanga nei limiti di tale consenso (art. 20).


[58]

10. Segue: la rappresaglia o contromisura.
La responsabilit internazionale comporta la possibilit che lo Stato leso infligga a sua volta una lesione
ad un diritto soggettivo dello Stato autore dell'illecito a titolo di rappresaglia o, come si preferisce dire
nella pratica pi recente, di contromisura.
La rappresaglia e la natura punitiva che le propria sono efficaci indirizzi del carattere della societ
internazionale, nella quale fa in generale difetto una struttura istituzionale che possa infliggere sanzioni
ai soggetti che hanno violato le regole e nella quale ammesso, sebbene, come si vedr, entro limiti
piuttosto rigorosi, una sorta di diritto di farsi giustizia da s.
Per fare un esempio di rappresaglia, con una nota del 30 gennaio 1986, la Bulgaria, dopo aver affermato
che le misure restrittive sugli spostamenti del personale diplomatico bulgaro negli Stati Uniti
rappresentavano una violazione di norme di diritto internazionale consuetudinario e convenzionale,
decideva di adottare analoghe misure nei confronti del personale diplomatico americano a Sofia.
Diversa dalla rappresaglia la ritorsione. Si tratta della reazione di uno Stato a un comportamento illecito
o anche semplicemente non amichevole di un altro Stato, la quale lede semplici interessi di quest'ultimo
Stato e non suoi diritti soggettivi risultanti da regole del diritto internazionale. In vari casi, soprattutto
nella pratica pi recente, per difficile distinguere fino a che punto le contromisure, adottate in
risposta ad un'asserita violazione di un diritto da parte di un altro Stato, costituiscano lesioni di diritti
spettanti a questo Stato ovvero ledano dei meri suoi interessi o ancora abbiano, a seconda delle singole
misure, l'una o l'altra di queste caratteristiche.
La liceit in diritto internazionale della rappresaglia trova un limite nella circostanza che l'azione od
omissione, in cui essa si concreta, non si risolva in una reazione sproporzionata rispetto al fatto illecito
che potrebbe giustificarla. Sproporzionata venne, ad esempio, considerata da alcuni rappresentanti di
Stati, l'azione svolta nel 1923 dall'Italia, che bombard, causando la morte di 15 persone, e occup
l'isola greca di Corf, quale rappresaglia per non avere la Grecia adeguatamente protetto il generale
italiano Tellini e quattro suoi collaboratori, che furono uccisi in un'imboscata in territorio greco, mentre
eseguivano sotto l'egida della Societ delle Nazioni una missione per la delimitazione dei confini tra
l'Albania e la Grecia.
Alla luce dell'evoluzione del diritto internazionale intervenuta dopo la seconda guerra mondiale, deve
comunque essere esclusa la liceit di qualsiasi rappresaglia che comporti, in tempo di pace, la minaccia o
l'uso della forza contro l'integrit territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato. Simili tipi di
rappresaglia violano sia l'art. 2, par. 4, della Carta delle Nazioni Unite, che una norma generale (avente,
per di pi, carattere imperativo) del diritto internazionale e, nella pratica, sono state frequentemente
condannate dal Consiglio di sicurezza. Il punto trovasi chiaramente espresso nell'art. 50, par. 1, degli
artt. CDI: Le contromisure non possono portare alcuna menomazione:
a. all'obbligo di astenersi dalla minaccia o dall'uso della forza come previsto dalla Carta delle
Nazioni Unite.
La liceit in diritto internazionale della rappresaglia trova, inoltre, un ulteriore limite nella circostanza
che l'azione o l'omissione, in cui essa si concreta, rispetti gli obblighi posti a tutela dellindividuo relativi
alla protezione dei diritti umani fondamentali e gli obblighi di carattere umanitario che escludono le
rappresaglie.
11. Segue: la forza maggiore, l'estremo pericolo e il caso fortuito.
Tutte queste figure sono accomunate dal fatto che il comportamento non conforme ad un obbligo
internazionale non provocato da un fatto illecito del soggetto leso (come invece accade in presenza di
rappresaglia o di legittima difesa), bens da circostanze e situazioni al cui sorgere il soggetto leso del
tutto estraneo.
Si ha cos, in primo luogo, la forza maggiore, quando il comportamento contrario ad un obbligo
internazionale giustificato dal fatto che esso dovuto al verificarsi di una forza irresistibile [] che
ha reso materialmente impossibile, alla luce delle circostanze, per lo Stato di adempiere all'obbligo (art.
23 degli artt. CDI).
[59]

In una situazione di forza maggiore, l'autore del fatto, pur rendendosi conto che il suo comportamento
lede un diritto spettante ad uno Stato, non materialmente in grado di impedire l'evento (ad esempio,
se una nave da guerra di uno Stato, essendovi stata trascinata da una tempesta cui non poteva opporsi,
venga a trovarsi ferma in avaria nel mare territoriale di un altro Stato). La forza maggiore non esclude,
per, l'illiceit del fatto, se lo Stato ha contribuito al prodursi della situazione di impossibilit materiale
(art. 23, par. 2a). Nella sentenza arbitrale del 30 aprile 1990 sul caso Rainbow Warrior precisato che la
forza maggiore, per essere applicabile, deve dare luogo ad un'impossibilit assoluta di eseguire un
obbligo e non gi ad una situazione che rende l'esecuzione pi difficile o onerosa.
Il caso fortuito, quale circostanza di esclusione dell'illiceit, si verifica quando il fatto di uno Stato non
conforme all'obbligo internazionale stato dovuto [] a un avvenimento imprevisto, fuori dal suo
controllo, che ha reso materialmente impossibile allo Stato [] rendersi conto che il suo
comportamento non era conforme a tale obbligo (art. 31 del progetto del 1996). Il caso fortuito si
avvicina ad una situazione di errore scusabile, in quanto, a differenza del caso di forza maggiore e, come
vedremo, di estremo pericolo, lo Stato autore del comportamento non si rende conto, senza sua colpa,
che esso lede un diritto spettante ad un altro Stato. Ancora una volta, la circostanza di esclusione
dell'illecito non opera se lo Stato ha contribuito al prodursi della situazione.
La seguente giustificazione, data dagli Stati Uniti all'Ungheria e all'Unione Sovietica in una nota del 17
marzo 1953, dello sconfinamento in territorio ungherese di un aereo americano, stata indicata dal
relatore speciale alla Commissione del diritto internazionale quasi come la descrizione di un tipico caso
fortuito. L'aereo e il suo equipaggio cercarono in ogni momento di seguire la rotta prescritta per
Belgrado, ma mentre l'equipaggio, e in particolare i piloti, ritenevano che l'aereo seguisse tale rotta,
l'aereo in realt veniva sospinto da venti la cui esistenza e direzione non erano stati n conosciuti n
annunciati, e la velocit di questi venti fece superare di molto all'aereo la velocit alla quale i piloti
ritenevano che esso stesse volando. Per conseguenza l'aereo vol un poco a nord della rotta prevista e
copr una distanza notevolmente superiore a quella che i piloti allora ritenevano o avevano ragione di
ritenere di coprire.
L'estremo pericolo si verifica invece quando l'autore del comportamento non aveva altro mezzo
ragionevole [] per salvare la propria vita o quella di persone affidate alle sue cure (art. 24 degli artt.
CDI). Ricorre una situazione di estremo pericolo, ad esempio, nell'ipotesi in cui il capo dei pompieri,
senza essere riuscito ad ottenere il preventivo consenso del capo della missione, decide di far entrare i
suoi uomini nella sede di una missione diplomatica estera in fiamme, per salvare la vita delle persone
che ivi si trovano. La sentenza arbitrale del 30 aprile 1990 sul caso Rainbow Warrior ha ammesso che
l'estremo pericolo possa venire invocato anche per la salvaguardia non solo della vita, ma anche del
diritto all'integrit fisica della persona umana.
L'esimente dell'estremo pericolo non pu venire invocata se lo Stato agente ha contribuito al prodursi
della situazione o se era probabile che la sua condotta creasse un pericolo comparabile o pi grave (art.
24, par. 2).
12. Segue: lo stato di necessit.
La Commissione del diritto internazionale ha ammesso, sia pure con prudenza, l'esistenza di questa
causa di esclusione dell'illiceit internazionale. Proprio per sottolinearne il carattere eccezionale, essa ha
formulato, in proposito, una disposizione con struttura negativa, affermando che lo stato di necessit
non pu essere invocato da uno Stato per escludere l'illiceit di un fatto da esso compiuto a meno che
(art. 25, par. 1, degli artt. CDI):
a. il fatto fosse il solo mezzo per salvaguardare un interesse essenziale di fronte a un pericolo grave
e imminente;
b. il fatto non compromettesse in modo serio un interesse essenziale dello Stato o degli Stati rispetto
a cui sussisteva l'obbligo, o della comunit internazionale nel suo insieme.
Lo stato di necessit verrebbe pertanto a distinguersi dall'estremo pericolo per l'esigenza di salvare non
pi vite umane, ma un interesse essenziale.
[60]

Tra i casi che sembrano spiegarsi con il ricorso allo stato di necessit si pu richiamare il
bombardamento, avvenuto nel 1967 ad opera dell'aviazione britannica, del relitto della petroliera Torrey
Canyon, di bandiera liberiana, incagliata fuori dalle acque territoriali britanniche al largo della
Cornovaglia, al fine di ridurre la minaccia di inquinamento derivante dal petrolio che fuoriusciva dalla
chiglia squarciata della nave. Non solo tale intervento, che veniva a ledere la norma internazionale sul
divieto di interferenze in alto mare nei confronti di navi straniere, non fu contestato, ma la sua liceit
venne confermata in successive convenzioni internazionali, che si possono vedere come un'accettazione
degli interventi su navi straniere fuori dalle acque territoriali per proteggere le coste o gli interessi
collegati, compresa la pesca, da un pericolo grave e imminente di inquinamento o da una minaccia di
inquinamento risultante da un incidente della navigazione o da atti legati a tale incidente.
A conferma del carattere eccezionale dello stato di necessit stanno ulteriori limiti alla possibilit che
esso possa valere quale circostanza di esclusione di un illecito internazionale. In ogni caso lo stato di
necessit non pu infatti venire invocato (art. 25, par. 2, degli artt. CDI):
a. se l'obbligo internazionale in questione esclude la possibilit di invocare lo stato di necessit;
b. se lo Stato in questione ha contribuito al verificarsi dello stato di necessit.
13. Segue: la legittima difesa alla luce della Carta delle Nazioni Unite.
Un'altra delle circostanze che escludono l'illiceit di un fatto la legittima difesa. Un comportamento in
s illecito, generalmente implicante l'uso della forza armata, perde tale suo carattere in funzione dello
scopo cui tende, qualora lo Stato agente intenda evitare il compimento di un fatto illecito nei propri
confronti da parte di un altro Stato o impedire che un illecito gi in atto venga portato ad ulteriori
conseguenze. La legittima difesa, oltre che individuale, pu essere collettiva, quando uno Stato agisca in
difesa di un altro Stato che sia oggetto di un attacco armato da parte di uno Stato terzo.
Proprio la presenza di un fatto illecito altrui distingue la legittima difesa dalle situazioni di necessit (in
senso lato) in precedenza esaminate. D'altro canto, il fine difensivo dell'azione distingue la legittima
difesa dalla rappresaglia, che ha invece finalit punitive.
La nozione di legittima difesa trova oggi un esplicito riconoscimento nell'art. 51 dello statuto delle
Nazioni Unite: Nessuna disposizione del presente statuto pregiudica il diritto naturale di legittima
difesa individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle
Nazioni Unite, fintantoch il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere
la pace e la sicurezza internazionale.
L'art. 51 della Carta ha dato luogo a interpretazioni divergenti relativamente ai casi in cui la legittima
difesa sarebbe ammissibile. Secondo una tesi, esso consentirebbe la legittima difesa soltanto nel caso di
risposta ad un attacco armato in atto, o anche, secondo alcuni, incipiente o imminente. Secondo un'altra
interpretazione, invece, l'art. 51 si limiterebbe a contemplare un'ipotesi la pi importante in cui si
pu fare ricorso alla legittima difesa, ma non escluderebbe altre ipotesi, quali, ad esempio, la risposta ad
altri illeciti gravi o la risposta ad un attacco armato non ancora in atto, ma soltanto minacciato (c.d.
legittima difesa preventiva).
con riferimento alla Carta delle Nazioni Unite che gli artt. CDI prevedono la legittima difesa quale
causa di esclusione dellilliceit di un fatto. In esso si legge infatti che lilliceit di un fatto di uno Stato
esclusa se il fatto costituisce una misura lecita di legittima difesa presa in conformit con la Carta delle
Nazioni Unite (art. 21).
La Commissione del diritto internazionale nel suo Commento si limita ad accennare ai requisiti che, per
quanto non menzionati nellart. 51 della Carta, si ritiene comunemente la legittima difesa debba
presentare: quello della necessit, dellimmediatezza e della proporzionalit.
14. Segue: la legittima difesa alla luce della pratica internazionale.
La legittima difesa frequentemente invocata nella pratica internazionale quale circostanza idonea ad
escludere, nella misura in cui un certo comportamento si sia reso necessario ai fini della difesa dello
Stato, l'illiceit di un'azione che altrimenti violerebbe un obbligo internazionale. In vari casi desumibile
il ricorso ad un concetto assai ampio di legittima difesa, che viene invocata sia come risposta ad un
[61]

attacco armato non in atto, ma soltanto minacciato, sia come risposta a violazioni di norme di diritto
internazionale diverse da quelle che vietano un attacco armato.
Gli attacchi sferrati dall'organizzazione terroristica Al Qaeda contro vari obiettivi negli Stati Uniti l'11
settembre 2001 provocando migliaia di vittime portarono gli Stati Uniti, insieme ai loro alleati, a reagire
con azioni militari contro l'Afganistan, Stato che aveva protetto ed ospitato il gruppo terroristico.
Qualora si ritenga che in sostanza terroristi di Al Qaeda e Stato afgano, sotto il governo dei talebani,
fossero la medesima cosa, la reazione rientra nella nozione generale di legittima difesa collettiva e si pu
discutere circa la sua immediatezza e proporzionalit. Se invece si ritiene che le due entit debbano
vedersi come separate, si prospetta la problematica ancora poco esplorata del se il diritto naturale alla
legittima difesa menzionata dall'art. 51 della Carta comprenda o meno la reazione ad attacchi di entit
non statali.
quindi particolarmente appropriata, in una simile situazione, l'analisi del concetto di legittima difesa e
dei suoi limiti operata dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza resa il 27 giugno 1986 nel
caso delle attivit militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua.
Con riferimento al contenuto della regola consuetudinaria sulla legittima difesa (individuale o collettiva),
la Corte ne limita significativamente l'ammissibilit al caso in cui uno Stato sia vittima di un attacco
armato, intendendosi peraltro come tale non solo l'azione di forze armate regolari attraverso una
frontiera internazionale, ma anche l'invio di bande armate sul territorio di un altro Stato, qualora tale
operazione, per dimensioni ed effetti, costituirebbe attacco armato, se eseguito da forze armate regolari.
15. Le conseguenze dell'illecito: l'obbligo di cessazione del fatto illecito.
A seguito della violazione, attribuibile ad uno Stato, di una qualsiasi regola del diritto internazionale
(c.d. regola primaria) discendono, in capo allo Stato autore della violazione, le conseguenze previste dalle
regole di diritto internazionale in tema di responsabilit (cc.dd. regole secondarie). Lo Stato autore della
violazione viene ad essere gravato di nuovi obblighi, cui corrispondono nuovi diritti a favore dello Stato
leso. La seconda parte degli artt. CDI, intitolata contenuto della responsabilit internazionale dello
Stato, intende enunciare una serie di conseguenze tipiche dell'illecito internazionale. Una regola
generale applicabile a tutte dette conseguenze si trova all'art. 32, modellato sull'art. 27 della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, il quale prevede che: Lo Stato responsabile non pu
invocare le disposizioni del suo diritto interno come giustificazione per il mancato adempimento degli
obblighi conseguenti alla commissione dell'illecito.
La prima delle menzionate conseguenze, che conviene ricordare, l'obbligo di cessazione dell'atto
illecito. Tale obbligo ha l'obiettivo di porre fine ad una violazione in progresso e, pertanto, riguarda
soltanto i fatti illeciti che si estendono nel tempo, come gli illeciti di carattere continuato e quelli che si
sono ripetuti pi volte e potrebbero ripetersi. Gli artt. CDI prevedono che (art. 30): Lo Stato
responsabile dellatto internazionalmente illecito ha l'obbligo:
a. di porvi fine, se esso continua.
Esempi di cessazione di un comportamento illecito possono essere la liberazione di persone private
della libert o, nel caso di illecito omissivo continuato, il compimento dell'atto richiesto dalla regola
internazionale.
A ben vedere, la cessazione del fatto illecito non una forma di riparazione, ma soltanto un modo di
adempimento, tardivo e parziale, dell'obbligo sin dall'inizio imposto da una norma primaria violata.
Particolarmente difficile , talora, distinguere l'obbligo di cessare il fatto illecito da un'altra conseguenza
dell'illecito che ha, invece, natura riparatoria, ovvero l'obbligo di restituzione in forma specifica. Ad
esempio, la restituzione di una cosa di cui uno Stato si sia illecitamente impossessato rappresenta, nello
stesso tempo, sia una cessazione dell'illecito che una restituzione in forma specifica. Come spiega il
relatore speciale Arangio-Ruiz, la restituzione in forma specifica comporta, per, il ristabilimento della
situazione che sarebbe esistita in assenza della violazione, e quindi anche l'obbligo di restituire la cosa
nello stesso stato e condizione in cui essa era prima dell'atto di spossessamento.
Gli artt. CDI affiancano all'obbligo di cessazione l'obbligo di offrire appropriate assicurazioni e
garanzie di non ripetizione, se le circostanze lo esigono (art. 30, par. 1b).
[62]

16. La riparazione: la restituzione in forma specifica.
Un'importante conseguenza dell'illecito internazionale l'obbligo dello Stato responsabile di prestare
un'appropriata riparazione allo Stato che stato leso dall'illecito. Gli artt. CDI precisano: Lo Stato
responsabile tenuto a riparare integralmente il pregiudizio causato dall'atto internazionalmente illecito
(art. 31, par. 1). Occorre, pertanto, un nesso di causalit. Di tale nesso, peraltro, gli artt. CDI non
precisano il contenuto ed i requisiti. Ad esempio, il Consiglio di sicurezza indic come possibile oggetto
di riparazione a seguito dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq nel 1990 qualsiasi perdita o danno
diretto, compreso il danno ambientale e l'impoverimento di risorse naturali, o pregiudizio a governi
cittadini e persone giuridiche straniere come risultato dell'atto illecito.
La riparazione viene ad assumere forme diverse, a seconda dei caratteri del pregiudizio arrecato allo
Stato leso e di alcuni altri elementi. Gli artt. CDI prevedono che: La riparazione integrale del
pregiudizio causato dall'atto internazionalmente illecito ha la forma di restituzione in forma specifica,
compensazione e soddisfazione singolarmente o in combinazione (art. 34).
Una prima forma di riparazione pertanto la restituzione in forma specifica (o ristabilimento dello
status quo ante o restitutio in integrum o reintegrazione nella situazione preesistente), che consiste nel
ristabilimento della situazione che si sarebbe avuta, se il fatto illecito non fosse stato compiuto (ad
esempio, levacuazione di un territorio illecitamente occupato, la revoca di un provvedimento
amministrativo o giudiziario illecitamente adottato contro la persona o i beni di uno straniero).
Negli artt. CDI previsto che lo Stato che ha commesso un fatto illecito debba fornire una restituzione,
e cio ripristinare la situazione che esisteva prima della commissione dellatto illecito, a meno che, e nei
limiti in cui, essa sia materialmente impossibile o sia eccessivamente onerosa per lo Stato che ha
compiuto il fatto illecito internazionale (art. 35).
Se limpossibilit materiale, ad esempio limpossibilit di restituire una cosa a causa della distruzione,
non suscita alcuna questione (ad impossibilia nemo tenetur), qualche problema pone la c.d. impossibilit
giuridica, vale a dire il fatto che la restituzione in forma specifica si riveli in contrasto con una norma
giuridica. Nel Commento agli artt. CDI si negava che avessero qualsiasi rilievo gli ostacoli provenienti
dal sistema di diritto interno della Stato responsabile, a meno che le parti si fossero accordate in tal
senso.
Lo Stato leso potr allora richiedere, in modo tempestivo, che il risarcimento del danno sostituisca in
tutto o in parte la restituzione specifica, purch questa scelta non si risolva in un ingiusto vantaggio a
scapito dello Stato responsabile o comporti la violazione di un obbligo derivante da una norma
imperativa del diritto internazionale generale. Lidea ripresa in termini generali dagli artt. CDI, ove si
prevede che lo Stato leso possa indicare quale forma dovrebbe assumere la riparazione (art. 43, par.
2b). La disposizione, pi che prevedere un diritto dello Stato leso, gli offre una semplice indicazione,
posto che in casi implicanti la vita o la libert di individui lopzione della compensazione non
ammissibile.
17. Segue: il risarcimento monetario.
Qualora la restituzione in forma specifica non sia possibile (in tutto o in parte) o comunque ricorra una
delle situazioni in cui essa possa essere evitata, lo Stato autore dell'illecito tenuto ad una riparazione
per equivalente, che assume quasi sempre la forma di un risarcimento monetario, ossia del versamento di
una somma di denaro corrispondente al valore che avrebbe avuto la restituzione in forma specifica. A
tale somma si aggiunge, se del caso, l'attribuzione allo Stato leso del risarcimento del danno per le
perdite subite nella misura in cui tali perdite non risultino gi coperte dalla restituzione in natura o dal
pagamento che ne prende il posto.
Il risarcimento monetario la forma cui abitualmente si ricorre per la riparazione dei danni conseguenti
alla violazione di regole di diritto internazionale relative alla protezione della persona e dei beni degli
stranieri. importante, tuttavia, precisare che il titolare del diritto al risarcimento dei danni subiti da
persone fisiche o giuridiche, sul piano delle relazioni internazionali, soltanto lo Stato di cui esse hanno
la nazionalit.
[63]

Sembra possibile desumere alcuni orientamenti dai dati della pratica internazionale in materia di
risarcimento monetario, i quali sono particolarmente numerosi e non sempre concordanti. La pratica
internazionale sembra orientata nel senso di ritenere risarcibile il danno soltanto nella misura in cui esso
sia collegato da un nesso di causalit ininterrotto con il fatto illecito. Il danno risarcibile quello
economicamente valutabile: non vi rientrano normalmente i cosiddetti danni morali allo Stato, ma vi
rientrano i danni morali alle persone dei cittadini e degli agenti dello Stato in quanto possibile una loro
quantificazione. Esso comprende, d'altra parte, tanto il danno emergente quanto il lucro cessante. Se il
danno in parte dovuto a cause diverse dal fatto illecito, ivi compreso il concorso dello Stato leso, il
risarcimento ridotto in proporzione.
Tali principi sono resi espliciti negli artt. CDI. L'art. 36, par. 1, prevede che lo Stato responsabile di un
atto internazionalmente illecito ha l'obbligo di risarcire il danno causato da tale atto nella misura in cui
tale danno non sia riparato dalla restituzione. Il par. 2 precisa che: Il risarcimento copre ogni danno
valutabile finanziariamente, ivi compreso il lucro cessante nella misura in cui esso sia accertato.
Alcuni recenti casi della pratica internazionale illustrano il ruolo che la compensazione monetaria,
unitamente ad altre forme di riparazione, svolge in materia di responsabilit internazionale.
Il 10 luglio 1985 la nave privata di bandiera britannica Rainbow Warrior, che si accingeva per conto
dell'associazione ecologista Greenpeace ad un'operazione di protesta contro gli esperimenti nucleari della
Francia nell'atollo di Mururoa (Polinesia francese), affond nel porto di Auckland, in Nuova Zelanda, a
seguito di un'esplosione che provoc anche la morte di un membro dell'equipaggio di nazionalit
olandese. Qualche tempo dopo, la Francia ammise ufficialmente che la Rainbow Warrior era stata
affondata su ordine del suo servizio di sicurezza, tramite agenti che erano entrati in Nuova Zelanda
sotto falsa identit e con falsi passaporti svizzeri. Nel giugno 1986, i due governi si accordarono per
richiedere al Segretario Generale delle Nazioni Unite una decisione obbligatoria dei problemi suscitati
dall'incidente.
La decisione, resa il 6 giugno 1986, oltre ad altre forme di riparazione che saranno in seguito
menzionate, decise che la Francia doveva pagare alla Nuova Zelanda la somma di 7 milioni di dollari
americani, quale risarcimento per tutti i danni subiti. Vi per da pensare che la somma accordata
includa il risarcimento per quei danni materiali (ripristino della zona del porto danneggiata, spese
dell'inchiesta di polizia e del processo ai due agenti segreti francesi colpevoli del fatto), che la stessa
Francia era pronta a risarcire alla Nuova Zelanda, e che sulla decisione abbia inciso il fatto che la
Francia avesse gi risarcito i familiari della persona uccisa e avesse accettato di esperire una procedura
arbitrale in contraddittorio con Greenpeace, per la determinazione obbligatoria dei danni da quest'ultima
subiti.
18. Segue: la soddisfazione.
Mentre il risarcimento monetario intende riparare il danno materiale subito dallo Stato leso, la
soddisfazione diretta a riparare il pregiudizio morale che consegue a un fatto illecito, vale a dire la lesione
dell'onore, della dignit e del prestigio di questo Stato. Come si precisa nell'art. 37, par. 1, degli artt.
CDI, si tratta di una forma di riparazione che si applica nei limiti in cui il pregiudizio non pu essere
riparato con la restituzione o il risarcimento.
La soddisfazione pu assumere varie forme, quali gli onori alla bandiera resi allo Stato leso, la
presentazione solenne di scuse talora accompagnata dall'invio di apposite missioni straordinarie allo
Stato leso, il versamento di una somma simbolica di denaro, il disconoscimento ufficiale di un fatto compiuto da
un organo dello Stato, ed altre prestazioni di corrispondente contenuto. Gli artt. CDI, a titolo
esemplificativo, menzionano il riconoscimento della violazione, unespressione di dispiacimento, delle
scuse formali (art. 37, par. 2), aggiungendo che la soddisfazione non pu essere sproporzionata al
pregiudizio e non pu assumere una forma umiliante per lo Stato responsabile (par. 3).
Nel gi menzionato regolamento del 1986 e del Segretario Generale delle Nazioni Unite sull'incidente
della Rainbow Warrior, ad esempio, stabilito che il Primo ministro della Francia doveva presentare al
Primo ministro della Nuova Zelanda scuse formali e incondizionate per l'attentato ai danni della nave.
[64]

In qualche caso della pratica internazionale, la constatazione della violazione di un obbligo fatta da un'istanza
giudiziaria internazionale pu costituire gi di per s una soddisfazione appropriata per lo Stato leso.
Natura di soddisfazione ha anche la punizione delle persone che hanno materialmente compiuto il fatto
illecito, punizione che a volte lo Stato leso richiede allo Stato responsabile. In proposito, il caso della
Rainbow Warrior offre, ancora una volta, interessanti spunti. Due degli agenti segreti francesi che
avevano compiuto l'attentato furono arrestati in Nuova Zelanda e condannati dal giudice penale
neozelandese a 10 anni di reclusione ciascuno per omicidio e altri reati. La Nuova Zelanda, pur
dichiarandosi disponibile a discutere la possibilit che essi scontassero la pena fuori dalla Nuova
Zelanda, non intendeva accettare che i due condannati fossero rimessi in libert. La Francia, invece,
riteneva che la soluzione della controversia internazionale tra le parti, tramite il risarcimento monetario
e le scuse che essa era tenuta a prestare, comportasse il riacquisto della libert da parte dei due agenti, i
quali non potevano essere sottoposti a procedimento penale in Francia, perch avevano agito sulla base
di ordini loro impartiti.
La soluzione data dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, a parer nostro, costituisce un'implicita
conferma della forma di soddisfazione consistente nella punizione degli individui che hanno
materialmente compiuto un fatto internazionalmente illecito (anche se il fatto stesso sia lecito o,
addirittura, doveroso secondo il diritto interno dello Stato responsabile). Il Segretario Generale decise,
infatti, che i due agenti segreti dovessero venire consegnati alla Francia e da questa trasferiti su di
un'isola lontana dall'Europa per un periodo di tre anni, indicando a tal fine l'isola di Hao, nella Polinesia
francese. I due agenti non potevano lasciare l'isola per alcun motivo, salvo accordo tra i due governi, e i
loro contatti durante la permanenza sull'isola dovevano essere limitati al personale militare o assimilato
e ai loro immediati congiunti e amici, con esclusione di qualsiasi contatto, a voce o per iscritto o in altro
modo, con la stampa o altri mezzi di comunicazione.
Pi complessa la questione circa l'esistenza in diritto internazionale di un'ulteriore forma di
soddisfazione, costituita dal versamento di una somma di denaro a titolo di danno punitivo, che, in certi
casi, verrebbe ad aggiungersi alla riparazione, tramite restituzione specifica e risarcimento monetario, e
ad altre forme di soddisfazione. I danni punitivi mirano, nello stesso tempo, ad infliggere una sanzione
allo Stato autore dell'illecito e a dissuaderlo dal tenere in futuro comportamenti simili. I dati della
pratica internazionale non appaiono in proposito univoci. Sembra per, in definitiva, che una
soddisfazione tramite danni punitivi sia tuttora incompatibile con la struttura della societ
internazionale. Oltre alle conseguenze di natura riparatoria, previste per illeciti comportanti un danno
materiale o morale, la funzione punitiva e dissuasiva appare tuttora affidata, nella societ internazionale,
al ricorso a contromisure, nei limiti in cui esse siano ammissibili.
I prevalenti dati della pratica internazionale confermano, sia pure con qualche incertezza, la conclusione
ora raggiunta, ed probabilmente pi in una prospettiva di sviluppo progressivo del diritto
internazionale, che in quella della sua codificazione in senso stretto, che il relatore speciale aveva
proposto nel 1989 alla Commissione del diritto internazionale di includere i danni punitivi tra le forme
di soddisfazione. La Commissione, pur affermando di non voler seguire il relatore speciale, si avvicin
peraltro molto all'idea dei danni punitivi inserendo tra le forme di soddisfazione i danni riflettenti la
gravit della violazione in casi di violazioni gravi dei diritti dello Stato danneggiato facendo riferimento
al ricordato caso Rainbow Warrior. Gli artt. CDI hanno peraltro abbandonato anche questa disposizione.
Da ultimo, la seconda decisione sul caso Rainbow Warrior, resa da un Tribunale arbitrale il 30 aprile
1990, pur apparendo criticabile per vari aspetti, fornisce ulteriori spunti in materia di soddisfazione a
seguito del compimento di un fatto illecito internazionale. Era infatti accaduto che, malgrado il gi pi
volte citato regolamento deciso nel 1986 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, la Francia avesse
fatto unilateralmente rimpatriare in anticipo i due agenti segreti, evitando che essi trascorressero
interamente il periodo di tre anni durante il quale dovevano restare sull'isola di Hao. Ne deriv
l'insorgere di una nuova controversia tra la Francia e la Nuova Zelanda, non avendo la prima
adempiuto ad uno degli obblighi su di essa incombenti in forza del regolamento del 1986.
Nella relativa sentenza del 1990 il Tribunale accert che la Francia, pur non avendo compiuto un
illecito nel rimpatriare uno degli agenti segreti (potendo operare nella fattispecie l'esimente dell'estremo
[65]

pericolo a causa del suo stato di salute), aveva violato diversi suoi obblighi verso la Nuova Zelanda, in
quanto non aveva rinviato l'agente segreto, dopo le cure, sull'isola, e aveva rimpatriato l'altro agente
segreto e non l'aveva rinviato ad Hao. Secondo il Tribunale, la violazione del regime particolare definito
dal Segretario Generale delle Nazioni Unite con il regolamento del 1986, ha suscitato oltraggio e
indignazione pubblica in Nuova Zelanda e dato luogo a un nuovo danno immateriale.
Il punto cruciale della controversia era per rappresentato dalla richiesta della Nuova Zelanda che la
Francia rinviasse i due agenti segreti ad Hao, poich, secondo lo Stato leso, una semplice dichiarazione
che riconoscesse la violazione commessa dalla Francia non costituirebbe nulla pi che la proclamazione
di un'evidenza e non sarebbe affatto soddisfacente per la Nuova Zelanda. Sul punto il Tribunale, dopo
aver qualificato la richiesta della Nuova Zelanda come avente ad oggetto la cessazione di un'omissione
illecita (omissione costituita dal mancato rinvio dei due agenti sull'isola) e non gi una restituzione in
forma specifica, respinse la richiesta in questione, in quanto l'illecito della Francia sarebbe venuto a
termine il 22 luglio 1989, data di scadenza del periodo di soggiorno dei due agenti ad Hao.
Una simile decisione dovette probabilmente apparire cos deludente anche allo stesso Tribunale da
indurlo a raccomandare alla Francia e alla Nuova Zelanda di costituire un fondo destinato a
promuovere delle strette e amichevoli relazioni fra i cittadini dei due paesi, raccomandando inoltre alla
Francia di versare al fondo una contribuzione iniziale equivalente a 2 milioni di dollari americani.
19. La rappresaglia o contromisura come conseguenza di un illecito internazionale.
Sono stati gi in precedenza esaminati sia il concetto di rappresaglia o contromisura, quale circostanza
che esclude l'illiceit di un fatto, sia i limiti che ne condizionano l'ammissibilit. Va ora aggiunto che,
qualora sia ammissibile, il ricorso ad una rappresaglia da parte dello Stato leso si configura come una
delle possibili conseguenze di un fatto illecito internazionale.
comunemente ritenuto che l'ammissibilit della rappresaglia venga meno, se lo Stato leso abbia gi
ottenuto un'adeguata riparazione per il torto subito. In tal senso l'art. 53 degli artt. CDI. Non pare
invece che il ricorso alla rappresaglia nei confronti dello Stato autore dell'illecito precluda allo Stato leso
la possibilit di chiedere la riparazione.
L'art. 52 degli artt. CDI prevede alcune condizioni procedurali al ricorso alle contromisure:
In primo luogo lo Stato leso deve procedere a una sommation, invitando lo Stato responsabile
ad adempiere il suo obbligo;
deve poi avvertirlo della decisione di adottare contromisure e invitarlo a negoziare (par. 1). Le
due notifiche possono avvenire in tempi separati o anche insieme. L'obbligo di fare le predette
notifiche non esclude peraltro che lo Stato leso possa prendere contromisure urgenti
necessarie a salvaguardare i suoi diritti (par. 2). Si pensi, ad esempio, a ordinanze di
congelamento dei beni.
La Commissione del diritto internazionale ha ulteriormente previsto che le contromisure non possono
essere prese, e, se prese, debbano essere sospese senza indebito ritardo se [] la controversia pende
davanti a una corte o a un tribunale abilitato a prendere decisioni vincolanti per le parti (art. 52, par. 3).
Se poi lo Stato responsabile non collabora in buona fede nel procedimento, le contromisure diventano
ammissibili (par. 4).
20. Le conseguenze del crimine internazionale e delle violazioni gravi di norme imperative.
Tuttora aperto e assai difficile il problema delle conseguenze che dovrebbero discendere dal
compimento di uno di quei gravi illeciti internazionali che rientrano nella categoria dei crimini
internazionali.
Gli artt. CDI, riferendosi alle violazioni gravi di norme imperative (definite, come si detto, nell'art.
40), ribadiscono che valgono in materia tutte le conseguenze previste per i fatti internazionalmente
illeciti, lasciando aperta anche la possibilit che il diritto internazionale (particolare o generale) preveda
conseguenze ulteriori (art. 41, par. 3). Gli artt. CDI ribadiscono poi, come conseguenza della violazione
grave di una norma internazionale imperativa, il principio che il compimento di un crimine
internazionale fa sorgere degli obblighi di solidariet internazionale per tutti gli Stati. L'art. 41, parr. 1 e 2,
[66]

prevede infatti che: Nessuno Stato pu riconoscere come legittima una situazione creata da una
violazione grave, nel senso di cui all'art. 40, n fornire aiuto o assistenza nel mantenere tale situazione.
Non mancano nella prassi internazionale esempi di non riconoscimento di situazioni create in
violazione di norme generalmente riconosciute come imperative. Le conseguenze dell'aggressione del
Kuwait da parte dell'Iraq nel 1990 furono dichiarate senza valore giuridico, come nulle e inesistenti
dal Consiglio di sicurezza, che invitava tutti gli Stati a non riconoscere l'annessione e ad astenersi da
ogni atto che potesse interpretarsi come riconoscimento diretto o indiretto.
21. Il concetto di Stato leso e la titolarit del diritto a far valere la responsabilit.
Nell'indicare lo Stato che ha diritto di far valere le conseguenze di un illecito internazionale si finora
parlato di Stato leso, intendendo come tale lo Stato il cui diritto soggettivo stato violato dal
comportamento contrario a un obbligo internazionale tenuto dallo Stato autore dell'illecito. Questa
tematica costituisce probabilmente il problema pi complesso, sotto il profilo tecnico-giuridico, di tutta
la materia della responsabilit internazionale.
La coincidenza tra Stato leso e Stato che ha diritto di invocare la responsabilit, che si trova riflessa
nell'art. 40 del testo adottato in prima lettura nel 1996, non stata ripresa dagli artt. CDI. Alla stregua di
tali artt. la cerchia degli Stati che hanno diritto di invocare la responsabilit pi ampia di quella degli
Stati lesi. La responsabilit pu invocarsi dallo Stato leso e anche, ma con conseguenze pi limitate, da
altri Stati. La distinzione emerge chiara considerando congiuntamente l'art. 42, intitolato alla
invocazione della responsabilit da parte dello Stato leso e l'art. 48, intitolato alla invocazione della
responsabilit da parte di uno Stato diverso dallo Stato leso. La distinzione suggerita da ci che le
posizioni degli Stati di fronte a violazioni di trattati multilaterali di cui fanno parte o di norme
consuetudinarie non sempre identica.
Secondo l'art. 42 degli artt. CDI, che riflette nella formulazione l'art. 60 della Convenzione di Vienna
sul diritto dei trattati, uno Stato ha diritto, in quanto Stato leso, a invocare la responsabilit di un altro
Stato se l'obbligo violato dovuto a due distinte categorie di Stati. In primo luogo, a tale Stato
individualmente (art. 42a). Pu trattarsi, ad esempio, dello Stato parte di un trattato bilaterale violato
dallo Stato responsabile, dello Stato a cui favore stata emessa una sentenza internazionale, dello Stato
nei confronti del quale stato assunto un impegno unilaterale da parte dello Stato responsabile. Ma pu
anche trattarsi della violazione di una norma consuetudinaria o di un trattato multilaterale, purch in tali
norme possa vedersi un fascio di obblighi bilaterali.
Il punto b dell'art. 42 si riferisce al diritto di invocare la responsabilit da parte di uno Stato quando
l'obbligo dovuto a un gruppo di Stati di cui esso fa parte o alla comunit internazionale nel suo
insieme se detto obbligo pregiudica specificamente tale Stato. Nel Commento CDI si fa l'esempio
dell'inquinamento dell'alto mare qualora ne derivi un inquinamento delle spiagge di uno o pi Stati.
L'estensione della qualit di Stato leso ai membri di un gruppo di Stati in quanto parti a un trattato
multilaterale o a tutti gli Stati come membri della comunit internazionale sembra particolarmente
rilevante nel caso, previsto dall'art. 42b (ii), in cui la violazione dell'obbligo sia di natura tale da
modificare radicalmente la situazione di tutti gli altri Stati cui l'obbligo dovuto per quanto attiene
all'ulteriore esecuzione dell'obbligo stesso. Si tratta del caso degli obblighi detti integrali o interdipendenti.
Come esempi di tale categoria di obblighi possono citarsi gli obblighi derivanti da trattati di disarmo. La
violazione di tali obblighi ad opera di uno Stato parte darebbe diritto a tutti gli altri Stati parte, in qualit
di Stati lesi, a invocare la sua responsabilit.
Per quanto riguarda l'invocazione della responsabilit da parte degli Stati diversi da uno Stato leso, l'art.
48, per un verso, specifica quali siano le obbligazioni che, ove violate, consentano tale invocazione e,
per altro verso, precisa, in termini pi limitativi di quanto previsto per lo Stato leso, quali siano le
conseguenze dell'illecito che tali Stati possono chiedere.
La responsabilit pu invocarsi da uno Stato diverso dallo Stato leso qualora (art. 48, par. 1):
a. l'obbligo violato dovuto a un gruppo di Stati che comprende tale Stato ed stabilito per la
protezione di un interesse collettivo del gruppo;
b. l'obbligo violato dovuto alla comunit internazionale nel suo complesso.
[67]

Con questa disposizione, che riguarda obbligazioni dette erga omnes partes e erga omnes, gli artt. estendono
al di l dello Stato leso il diritto di invocare la responsabilit, senza per conferire allo Stato che invoca
la responsabilit la pienezza delle pretese riconosciute allo Stato leso. Le pretese esercitabili dagli Stati
diversi dallo Stato leso sono infatti limitate, alla stregua dell'art. 48, par. 2, ad esigere la cessazione
dellatto internazionalmente illecito, e assicurazioni e garanzie di non ripetizione [], nonch
l'esecuzione dell'obbligo di riparazione conformemente agli artt. precedenti, nell'interesse dello Stato
leso o dei beneficiari dell'obbligo violato. Il diritto di ricorrere a contromisure non indicato dal citato
art. relativo allo Stato diverso dallo Stato leso. Peraltro, l'art. 54 prevede che il capitolo relativo alle
contromisure non pregiudica il diritto di uno Stato che abbia titolo, alla stregua dell'art. 48, par. 1, a
invocare la responsabilit di un altro Stato, di prendere misure lecite contro tale Stato per assicurare la
cessazione della violazione e la riparazione nell'interesse dello Stato leso o dei beneficiari dell'obbligo
violato. In quanto al diritto di pretendere la riparazione nell'interesse dello Stato leso o dei beneficiari
dell'obbligo violato esso non sembra avere un reale contenuto rispetto allo Stato leso che in generale,
se intende far valere i suoi diritti, lo pu fare direttamente. Maggiore interesse ha questa possibilit
trattandosi degli altri beneficiari, che possono essere ad esempio individui lesi da violazioni di norme
sui diritti umani.
La problematica relativa al diritto di invocare la responsabilit parrebbe superata alla radice quando la
norma internazionale stessa preveda chi possa far valere la responsabilit in caso di violazione. Ad
esempio, la convenzione sul genocidio del 1948 che consente ad ogni Stato parte di far valere la
responsabilit per violazione della convenzione stessa. Si pu poi ricordare il trattato di pace di
Versailles per cui, in caso di violazione di determinati artt. del trattato relativi alla libert di navigazione,
ogni potenza interessata avrebbe potuto ricorrere alla Corte permanente di giustizia internazionale.
Alla luce degli artt. CDI vi per da chiedersi se ci si trovi davanti a indicazioni relative allo Stato
leso o al diritto di invocare la responsabilit da parte di Stati diversi dallo Stato leso.
22. La cosiddetta responsabilit per fatti leciti e il problema delle conseguenze delle attivit
pericolose.
Il diritto internazionale ammette che, in talune ipotesi, attivit statali che non costituiscono violazione
di un obbligo internazionale possano, quando abbiano provocato un danno, far sorgere un obbligo di
risarcimento. Si cita come esempio l'art. 22 della convenzione di Ginevra del 1958 sull'alto mare, alla
stregua del quale le navi da guerra di qualsiasi Stato possono procedere a ispezioni a bordo di navi
straniere in alto mare, se hanno seri motivi per ritenere che esse si dedichino alla pirateria o alla tratta
degli schiavi o che esse abbiano in realt la stessa nazionalit della nave da guerra. Ma, se i sospetti si
rivelano infondati, la nave straniera deve essere compensata per qualsiasi perdita o danno che abbia
subito.
Un obbligo di risarcire il danno, anche in mancanza del compimento di un fatto illecito, sussiste, come
si visto, qualora intervengano talune circostanze che escludono l'illiceit: il consenso dello Stato leso,
la forza maggiore, il caso fortuito, l'estremo pericolo o lo stato di necessit.
Il settore di maggiore interesse rispetto al quale si pone la problematica del risarcimento dei danni
provocati da fatti illeciti dato da quelle attivit, tipiche dell'odierna societ industriale, che, pur avendo
un'indubbia importanza politico-economica sia per coloro che le esercitano che per la collettivit in
generale, presentano un alto grado di pericolosit per la sicurezza delle persone e l'integrit
dell'ambiente. Si pensi, ad esempio, alle attivit nucleari.
La tendenza del diritto internazionale in questa materia sembra ormai indicare l'avvenuta formazione di
una regola generale che pone a carico degli Stati l'obbligo di evitare i danni o i rischi di danni derivanti dalle
attivit in questione. Dalla violazione di questa regola generale discendono tutte le conseguenze che
normalmente derivano dal compimento di un fatto illecito internazionale, ivi compresi il risarcimento
del danno o, in caso di attivit che ha comportato un mero rischio, la cessazione del comportamento
illecito.
Tuttavia, l'applicazione della norma primaria sul divieto di inquinamento transfrontaliero e delle norme
secondarie sulla responsabilit che ne pu derivare in caso di violazione non da sola sufficiente ad
[68]

assicurare in ogni caso una riparazione del danno che stato prodotto. La norma in questione sembra
infatti configurarsi non in termini assoluti, cio nel senso che essa sia violata per il solo fatto che un
qualsiasi danno si verifichi, ma in termini relativi, cio nel senso che lo Stato sia responsabile di un
illecito internazionale soltanto qualora non abbia usato la diligenza che, date le circostanze specifiche,
era doveroso da lui attendersi. La situazione al riguardo ulteriormente complicata dal fatto che le
attivit in questione a volte non soltanto dagli Stati, ma anche e spesso soprattutto da privati e che non
sempre le loro conseguenze possono essere attribuite ad uno Stato.
Di qui l'esigenza di elaborare un sistema di norme che copra la cosiddetta responsabilit da attivit
lecite, ossia le regole di prevenzione (obblighi di consultazione tra Stati interessati, di notifica delle
situazioni di pericolo, e via dicendo) e di cooperazione che dovrebbero accompagnarsi all'esercizio di
determinate attivit utili, ma rischiose. Di qui soprattutto l'idea che, in ogni caso, dovuto risarcimento
per i danni provocati da queste attivit.
L'incertezza della situazione e soprattutto la necessit di intervenire con regole precise hanno portato gli
Stati ad adottare, relativamente a talune categorie di attivit pericolose di particolare importanza, un
certo numero di convenzioni internazionali. La trasposizione in termini convenzionali dell'idea
dell'obbligo di risarcimento danni derivanti da attivit lecite posto a carico dello Stato sotto la cui
giurisdizione si svolge l'attivit si ha nella convenzione del 29 marzo 1972 sulla responsabilit
internazionale per danni causati da oggetti spaziali.
L'obbligo di risarcimento a carico dello Stato, previsto nella ora esaminata convenzione, rimasto
peraltro una soluzione isolata e difficilmente estendibile alla luce dell'atteggiamento degli Stati. Per lo
pi gli Stati hanno infatti cercato, con le convenzioni stipulate, di facilitare il risarcimento dei
danneggiati nell'ambito dei sistemi di diritto interno, prevedendo particolari regimi di responsabilit
obiettiva o assoluta a carico dei soggetti di diritto interno responsabili. Queste convenzioni prevedono
dei tetti massimi di risarcimento e dei meccanismi di assicurazione obbligatoria. Nelle ipotesi in cui
l'ammontare dei danni supera il massimo previsto, come avviene nel caso degli incidenti nucleari,
ovvero, come avviene nel caso degli incidenti marittimi che provocano inquinamento da idrocarburi,
imposto alle categorie interessate allo svolgimento dell'attivit pericolosa il pagamento di contributi che
vanno a costituire un fondo internazionale di garanzia che, sempre entro certi massimali elevati, si
accolla il risarcimento del danno.
La tendenza, emergente dai negoziati relativi al regime di responsabilit per attivit pericolose, quella
di scartare la previsione di obblighi di risarcimento a carico dello Stato, preferendosi la strada, gi
battuta da altre convenzioni, dell'imposizione di tale obbligo alle persone fisiche o giuridiche cui gli atti
dannosi sono attribuibili.
LE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI E LA LORO SOLUZIONE
1. La nozione di controversia internazionale.
Nella vita di relazione internazionale pu avvenire che due o pi Stati si trovino ad avere un contrasto
di atteggiamenti rispetto ad un determinato conflitto di interessi. In tali casi ci si trova di fronte a una
controversia internazionale. Perch si abbia una controversia non sufficiente dimostrare che gli
interessi delle due parti sono in conflitto, essendo altres necessario che la pretesa di una delle parti si
scontri con la manifesta opposizione dell'altra.
L'importanza di una definizione di controversia in termini generali data dal fatto che l'esistenza di una
controversia costituisce il presupposto a cui numerose regole di diritto internazionale ricollegano delle
conseguenze giuridiche.
2. Prevenzione e soluzione delle controversie.
sentita nella comunit internazionale l'esigenza non solo di eliminare le controversie, ma anche di
prevenire il loro sorgere e di fare in modo che, ove esistano, esse non diano luogo, o diano luogo nella
misura minima possibile, a un turbamento delle relazioni tra le parti e ancor meno a un turbamento
delle relazioni internazionali a livello regionale o mondiale.
[69]

Testimonianza del diffuso sentimento dell'utilit per la comunit internazionale nel suo insieme
dell'eliminazione delle controversie, sono talune disposizioni della Carta delle Nazioni Unite. In
particolare, va ricordato l'art. 2, par. 3, alla stregua del quale tutti gli Stati membri devono risolvere le
loro controversie internazionali con mezzi pacifici in maniera che la pace e la sicurezza internazionale e
la giustizia non siano messi in pericolo.
Fermo restando l'obbligo di non ricorrere alla forza, gli Stati restano liberi di ricorrere a qualsiasi mezzo
di loro scelta per risolvere la controversia. Pertanto, posto che tale libert di scelta richiede, per essere
esercitata, l'accordo tra gli Stati parte alla controversia, essi sono anche liberi di non risolvere la
controversia. In tal senso deve leggersi il cosiddetto principio della libera scelta dei mezzi di soluzione
delle controversie su cui molto si insiste in varie risoluzioni delle Nazioni Unite e che, fino a non molti
anni or sono, veniva propugnato dagli Stati socialisti seguiti dei pi militanti tra gli Stati in via di
sviluppo.
In altre parole, l'obbligo di risolvere pacificamente le controversie pu venire reso inefficace dal
parallelo principio che riconosce alle parti della controversia la scelta dei procedimenti di soluzione.
Meccanismi di consultazione e notificazione preventiva sono, del resto, gi in opera in trattati in vigore,
soprattutto in materia di inquinamento transfrontaliero e di attivit pericolose. Co.ssioni bilaterali sono
state istituite tra Stati vicini per seguire in modo permanente situazioni che possano dar luogo a
controversie e contribuire pertanto alla loro prevenzione.
3. I mezzi e i procedimenti di soluzione delle controversie.
La controversia internazionale si estingue nel momento in cui la contrapposizione di atteggiamenti in
relazione ad un conflitto di interessi viene meno (c.d. cessazione della materia del contendere).
La soluzione della controversia , invece, un concetto giuridico. Data la natura paritaria della societ
internazionale, la soluzione delle controversie sempre ricollegabile alla volont delle parti alle
controversie stesse. Tale collegamento pu essere diretto: in tal caso la controversia viene risolta dalle
parti mediante accordo. Tale collegamento pu essere indiretto: in tal caso le parti si accordano a
considerare come vincolante la valutazione che del loro contrasto di atteggiamenti dar un terzo da essi
designato, e la controversia viene pertanto risolta con sentenza.
L'accordo e la sentenza sono i soli mezzi di soluzione delle controversie esistenti nell'attuale societ
internazionale.
Da non confondere con i mezzi di soluzione delle controversie, sono i procedimenti per tale soluzione.
La confusione pu sorgere perch l'art. 33 della Carta delle Nazioni Unite, e, sulla scorta di esso, ampia
parte della dottrina, denomina mezzi pacifici di soluzione il negoziato, l'inchiesta, la mediazione, la
conciliazione, l'arbitrato, il regolamento giudiziario, che non sono altro che procedimenti miranti ad
ottenere la soluzione della controversia o per accordo o mediante sentenza.
La messa in funzione di tutti i procedimenti di soluzione dipende dall'accordo delle parti. Tale accordo pu
formarsi preventivamente o al momento dell'insorgere della controversia. Esso pu riguardare categorie
pi o meno estese di controversie ovvero una controversia specifica. Anche nel caso, su cui si ritorner,
della funzione conciliativa delle Nazioni Unite, nel quale il procedimento appare potersi mettere in moto
senza l'accordo delle parti, tale accordo pur sempre sussiste, in quanto le parti alla controversia si sono
assunte, diventando parti contraenti della Carta delle Nazioni Unite, gli obblighi da questa previsti.
Tra i procedimenti di soluzione delle controversie si deve, in primo luogo, distinguere il negoziato, che
comporta la sola partecipazione delle parti alla controversia, dai procedimenti che comportano
l'intervento di un terzo. Si pu quindi distinguere tra i procedimenti per i quali l'accordo sulla loro
messa in funzione ha la conseguenza che il risultato del loro espletamento porti alla soluzione della
controversia, senza che occorra un ulteriore accordo delle parti, e quelli che a tale soluzione portano
solo eventualmente. I primi sono i procedimenti che si concludono con una sentenza e i secondi sono
quelli che mirano in vario modo a favorire l'accordo delle parti, accordo che, qualora questi procedimenti
giungano a positiva conclusione, il mezzo che risolve la controversia. I primi sono i procedimenti
arbitrali e giurisdizionali, i secondi, che possono collettivamente denominarsi procedimenti diplomatici,
comprendono il negoziato, l'inchiesta, i buoni uffici, la mediazione, la conciliazione.
[70]

Va sottolineato che ciascun procedimento concreto disciplinato dall'accordo in cui esso previsto. I
procedimenti che si sono sopraelencati non sono pertanto che modelli. Le caratteristiche di ciascuno
non potranno che essere ricavate per astrazione dai concreti procedimenti che si ritrovano negli accordi
conclusi dagli Stati.
Non esiste una gerarchia tra i procedimenti di soluzione delle controversie. La Corte internazionale di
giustizia ha sottolineato che non dato di trovare n nella Carta [delle Nazioni Unite] n altrove nel
diritto internazionale una regola generale per cui l'esaurimento dei negoziati diplomatici costituisca una
condizione per poter deferire una questione alla Corte. Negli accordi internazionali si prevede peraltro
spesso che si possa ricorrere a un procedimento solo quando siano esaurite le possibilit dell'altro. In
particolare, sono frequenti le clausole che ammettono il ricorso ai procedimenti arbitrale o giudiziario
solo quando uno o pi procedimenti diplomatici si sia concluso senza successo.
Talora si prevedono procedimenti diversi per aspetti diversi della medesima controversia. Ad esempio,
nella controversia insorta tra Paesi Bassi e Danimarca, da una parte, e Repubblica federale di Germania,
dall'altra, per la delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord, le parti concordarono di
ricorrere al procedimento giudiziario della Corte internazionale di giustizia per stabilire i principi e le
norme di diritto internazionale applicabili alla delimitazione ed il metodo pratico per la loro
applicazione, ma si riservarono di procedere per accordo alla concreta delimitazione, in applicazione
della sentenza della Corte.
4. Il negoziato.
Il negoziato il procedimento di soluzione delle controversie pi praticato dagli Stati. Anche se, come
detto nel par. precedente, non sembra si possa rilevare l'esistenza di una regola generale che imponga
l'espletamento dei negoziati come requisito perch le parti possano ricorrere ad altro procedimento di
soluzione, il negoziato in numerosi trattati indicato come condizione preliminare per l'utilizzazione di
altri procedimenti.
Nel corso dei negoziati, le parti hanno un obbligo di comportarsi in buona fede.
Laccordo il mezzo di soluzione delle controversie cui tende il negoziato, come del resto anche gli altri
procedimenti diplomatici. In tutti i casi, peraltro, la convergenza delle manifestazioni di volont delle
parti comprende nel suo oggetto il consentire, nei confronti dellaltra o delle altre parti, allestinzione
della controversia.
5. Buoni uffici, mediazione, inchiesta, conciliazione.
Mirano in vario modo a facilitare l'accordo tra le parti i vari procedimenti diplomatici che comportano
l'intervento di un terzo. La Carta delle Nazioni Unite elenca l'inchiesta, la mediazione e la conciliazione
(art. 33). Ad essi si possono aggiungere, come fa la dichiarazione di Manila del 1980, i buoni uffici. Pur
potendosi dire che i buoni uffici e la mediazione hanno carattere meno formale e strutturato che
l'inchiesta e la conciliazione, va sottolineato che i confini tra questi procedimenti non sono netti.
Con i buoni uffici, il terzo si limita a mettere in comunicazione le parti e a facilitare la messa in moto o
la ripresa dei negoziati tra di esse. I buoni uffici possono essere condotti da uno Stato o anche da un
autorevole cittadino di uno Stato terzo, oltre che da alti funzionari di organizzazioni internazionali. Essi
esauriscono la loro funzione quando i negoziati diretti tra le parti sono avviati o ripresi.
Numerosi sono i casi in cui i buoni uffici sono stati forniti dal Segretario Generale delle Nazioni Unite
o da suoi rappresentanti, in qualche caso congiuntamente ad esponenti di organizzazioni regionali.
Bench non sempre sia possibile distinguere nettamente tra le due figure, la mediazione si caratterizza
rispetto ai buoni uffici per il ruolo pi importante che vi svolge il terzo, il mediatore. Il mediatore non si
limita ad assicurare il contatto tra le parti ma facilita attivamente i negoziati tra di esse, talora
presentando proposte di carattere ufficioso e non vincolante. La funzione di mediatore viene conferita
a uno o pi Stati o a un autorevole rappresentante di un'organizzazione internazionale. L'autorit
politica del mediatore d alle sue proposte un peso e una forza persuasiva particolare. Si pensi, ad
esempio, alla mediazione del presidente degli Stati Uniti, Carter, che port alla conclusione tra Egitto e
[71]

Israele agli accordi di Camp David del 17 settembre 1978 che stabilivano una regolamentazione quadro
per la sistemazione delle controversie tra i due Stati.
Le parti possono avvertire l'esigenza, specialmente qualora la controversia risulti prevalentemente
incentrata su un divergente apprezzamento di questioni di fatto, di un preventivo e imparziale
accertamento dei fatti di cui questione. In tal caso esse possono far ricorso all'inchiesta o, come si
suole dire nella pratica pi recente, a procedimenti di accertamento dei fatti.
I procedimenti di accertamento dei fatti sono incentrati sull'attivit di uno o pi individui incaricati di
procedere, secondo regole di procedura pi o meno dettagliate, ma che in generale danno piena
garanzia di osservanza del principio del contraddittorio, all'accertamento dei fatti in questione. Il
rapporto con cui si conclude l'inchiesta non per solito vincolante per le parti. Esse possono per
decidere, al momento di avviare il procedimento, o anche dopo di aver conosciuto il rapporto, di
considerarlo tale. Un passo avanti fa la convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, la
quale afferma, nel prevedere la possibilit che le parti a una controversia affidino a una commissione
arbitrale specializzata il compito di accertare i fatti che hanno fatto sorgere una controversia tra di loro,
che tale accertamento, salvo accordo in senso contrario, sar considerato definitivo tra le parti.
Caratteri in parte coincidenti con l'inchiesta e con la mediazione presenta la conciliazione. Questo
procedimento vede un terzo che in generale un individuo, o, come avviene nell'inchiesta, e a differenza
di quanto avviene nella mediazione, una commissione, incaricato dalle parti di procedere a un esame della
loro controversia e a formulare proposte per la sua soluzione, da contenere in un rapporto. Le proposte
di soluzione non sono ovviamente vincolanti per le parti. Rispetto alla mediazione, la differenza
essenziale va ricercata, sembrerebbe, nel fatto che mentre il mediatore, come si visto, pu utilizzare il
proprio peso politico per facilitare l'accettazione delle sue proposte, il conciliatore non pu a tal fine
che affidarsi al proprio prestigio personale e alla ragionevolezza intrinseca delle sue proposte.
Il ricorso alla conciliazione previsto in trattati, alcuni dei quali prevedono anzi che tale ricorso sia
obbligatorio.
In altri casi la conciliazione obbligatoria nel senso che l'accordo d a ciascuna parte il potere di
mettere unilateralmente in moto il procedimento di conciliazione. In tali casi la possibile volont
contraria o dilatoria dell'altra parte pu essere superata, ove esista una commissione di conciliazione
precostituita oppure ove l'accordo preveda la possibilit di procedere alla sua Cost. anche senza la
partecipazione di una delle parti. La convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati prevede un
meccanismo di conciliazione obbligatoria di quest'ultimo tipo come procedimento applicabile
all'insieme delle controversie relative alla loro interpretazione e applicazione.
6. I procedimenti di soluzione nel sistema delle Nazioni Unite.
Il capitolo sesto della Carta delle Nazioni Unite dedicato alla soluzione pacifica delle controversie.
In esso si trovano previsti poteri del Consiglio di sicurezza e diritti ed obblighi sia degli Stati parte a una
controversia che di altri Stati. I poteri che vi sono riconosciuti al Consiglio hanno sempre carattere
raccomandatorio. Le previsioni contenute in questo capitolo si inseriscono pertanto nell'ambito dei
procedimenti diplomatici miranti a facilitare l'accordo tra le parti di cui si parlato nel par. precedente.
Per quanto riguarda i diritti e gli obblighi delle parti a una controversia, essi consistono, in primo luogo,
nell'obbligo, generico, di ricorrere a mezzi pacifici di soluzione di cui all'art. 33, par. 1, della Carta.
Alla stregua dell'art. 35, par. 1, non solo le parti alla controversia ma ciascuno Stato membro delle
Nazioni Unite, ha il diritto di sottoporre qualsiasi controversia, o qualsiasi situazione che pu portare a
frizione internazionale o a una controversia, all'attenzione del Consiglio di sicurezza o dell'Assemblea
Generale. Un analogo potere di sottoporre all'attenzione del Consiglio di sicurezza una situazione che
abbia probabilit di mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionali spetta all'Assemblea
Generale (art. 11, par. 3) e al Segretario Generale (art. 99, che si riferisce alle materie che, secondo la
sua opinione, possono minacciare la pace e la sicurezza internazionali).
Per quanto riguarda i poteri del Consiglio di sicurezza, va innanzitutto segnalato il potere di indagine su
qualsiasi controversia o situazione pericolosa per la pace e la sicurezza internazionali previsto dall'art.
34. Il Consiglio di sicurezza pu inoltre, a qualsiasi stadio di una controversia o di una situazione
[72]

pericolosa per la pace e la sicurezza internazionali, raccomandare appropriate procedure o metodi di
aggiustamento, ed anche, quando si tratti di una controversia (e non di una situazione) che sia
effettivamente pericolosa per la pace e la sicurezza internazionali e le parti non l'abbiano risolta con i
procedimenti di cui all'art. 33, raccomandare i termini di regolamento che consideri appropriati (art. 37).
7. L'arbitrato.
L'arbitrato un procedimento di soluzione delle controversie ad opera di un terzo, l'arbitro, scelto dalle
parti e la cui decisione (sentenza, lodo) esse si impegnano a considerare vincolante. Il carattere
vincolante della sentenza consente di classificare l'arbitrato tra i mezzi obbligatori di soluzione delle
controversie, e fa s che gli esempi di arbitrati consultivi che dato riscontrare nella pratica debbano
ritenersi in realt delle forme di conciliazione.
La scelta dell'arbitro ad opera delle parti il criterio che permette la distinzione tra l'arbitrato e il
procedimento giudiziale di soluzione delle controversie.
L'accordo per deferire alla decisione di un arbitro la soluzione di una controversia pu essere concluso
dalle parti dopo l'insorgere della controversia. In questo caso tale accordo si denomina compromesso
e, in genere, indica la persona o le persone chiamate a svolgere la funzione di arbitro, o almeno i
meccanismi per la loro designazione, il diritto applicabile, la procedura da seguire e il preciso oggetto
della controversia. Le parti possono per accordarsi di sottoporre a soluzione arbitrale anche pi o
meno ampie categorie di controversie prima che esse sorgano. Esse introducono a tal fine, in trattati da
esse concluse, clausole compromissorie, in forza delle quali si impegnano a sottoporre ad arbitrato le
controversie o determinate controversie che possano sorgere a proposito dell'applicazione ed
interpretazione dei trattati stessi. La loro natura pertanto, per lo pi, quella di un pactum de contrahendo,
posto che, dopo l'insorgere della controversia, essi rendono necessaria la conclusione di un
compromesso, in ispecie per quanto riguarda la designazione degli arbitri.
L'arbitro nella prassi contemporanea in genere costituito da un tribunale arbitrale, formato da tre o
cinque persone scelte tra giuristi specializzati di chiara fama.
In generale ogni Stato parte alla controversia designa almeno un arbitro della propria nazionalit,
mentre il terzo arbitro, o i rimanenti tre arbitri (salvo che, per collegi di cinque arbitri, non si prevede
che ciascuna parte possa nominarne due della propria nazionalit), sono designati di comune accordo
tra le parti.
La mancata designazione di uno degli arbitri nazionali, e l'impossibilit di pervenire a un accordo
sull'arbitro o sugli arbitri non cittadini delle parti, possono consentire a una parte di creare rilevanti
ostacoli all'avvio dell'arbitrato o di renderlo impossibile. Vari trattati contengono disposizioni per
evitare che ci possa avvenire, fissando, ad esempio, dei termini, scaduti i quali la designazione del terzo
arbitro, e in alcuni casi anche dell'arbitro nazionale, possa essere fatta da un terzo indipendente, ad
esempio, il presidente della Corte internazionale di giustizia, o il Segretario Generale delle Nazioni
Unite, per non parlare dell'istituzione di un organo permanente per svolgere queste funzioni, prevista
dalla convenzione di Stoccolma del 1992.
L'arbitro tenuto in genere ad applicare il diritto internazionale, ma le parti possono chiedere che
pronunci ex aequo et bono. Le parti sono rappresentate da agenti e assistite da consulenti e avvocati e il
processo si articola in una frase scritta in una fase orale. Frequente l'attribuzione al tribunale del
potere di indicare o prescrivere misure cautelari durante il giudizio.
Il procedimento si conclude con la sentenza, o lodo, arbitrale. Essa pu essere adottata a maggioranza.
Nellarbitrato moderno la sentenza generalmente motivata e gli arbitri dissenzienti possono farvi
seguire opinioni dissidenti, o individuali qualora siano d'accordo sul dispositivo ma non sulla
motivazione. La sentenza obbliga le parti a considerare risolta la controversia secondo quanto in essa
viene previsto. La sentenza ha pertanto efficacia di cosa giudicata in senso sostanziale per le parti. Essa
ha anche, nella massima parte dei casi, efficacia di giudicato in senso formale in quanto le parti
accettano che essa sia immutabile, salvi i casi, limitati ed eccezionali, di revisione in seguito alla scoperta
di un fatto nuovo, che durante lo svolgimento del procedimento era ignoto alla parte che lo invoca, e
tale che avrebbe avuto un'influenza decisiva su di esso, se fosse stato conosciuto.
[73]

L'epoca di maggiore successo dell'arbitrato per quanto riguarda soprattutto l'importanza delle
controversie effettivamente sottoposte alla decisione arbitrale, sembra essere stata quella precedente alla
Cost. della Corte permanente di giustizia internazionale. L'arbitrato ha per ben resistito alla
concorrenza dei tribunali precostituiti e continua ad avere una funzione di rilievo nel regolamento di
controversie internazionali.
8. La soluzione giudiziale: corti e tribunali internazionali e la loro moltiplicazione.
Quando gli Stati parte a una controversia internazionale si accordano per farla risolvere da un terzo,
con effetto per essi vincolante, si parla di soluzione giudiziale (e di procedimento giudiziale di soluzione)
qualora il terzo, anzich, come avviene nell'arbitrato, essere designato dalle parti, una corte o tribunale
precostituito.
Ai nostri fini, giova identificare due distinte nozioni, una pi ampia e l'altra pi ristretta, di corte o
tribunale internazionale. La nozione pi ampia si riferisce a organi, aventi natura precostituita rispetto al
sorgere della controversia e struttura permanente, composti di individui di diverse nazionalit e cui si
riconosce l'indipendenza, la cui funzione di provvedere alla soluzione di controversie, che sono
costituiti in base a un atto di natura internazionale (trattato, risoluzione vincolante di un'organizzazione
internazionale), e che applicano il diritto internazionale. La nozione pi ristretta si riferisce a organi
giudiziali che, oltre a presentare le caratteristiche ora ricordate, hanno per specifico fine la risoluzione di
controversie internazionali, ovvero tra Stati e altri soggetti assimilabili di diritto internazionale, quali le
organizzazioni internazionali.
alle corti e tribunali internazionali che rientrano nella nozione pi ristretta che rivolgeremo
prevalentemente la nostra attenzione. Si tratta soprattutto della Corte internazionale di giustizia, unico
organo a competenza universale, cui si affiancano principalmente il Tribunale internazionale del diritto
del mare e l'Organo d'appello dell'Organizzazione mondiale del commercio, organi a competenza
specializzata per materia, ma basati su trattati a partecipazione potenzialmente universale, e di fatto gi
ora estremamente ampia.
L'esistenza di una pluralit di tribunali internazionali potenzialmente competenti a giudicare delle
medesime controversie o di controversie simili porta a prospettarsi, accanto alla problematica sorgente
da possibili conflitti di giurisprudenza, una problematica di conflitti di giurisdizione. Norme specifiche per
evitare tali conflitti e i problemi di litispendenza e conflitto di giudicati che ne potrebbero seguire sono
contenute in convenzioni recenti, come, ad esempio, quella sul diritto del mare del 1982. Non sempre,
peraltro, tali disposizioni coprono tutti i casi che si possono presentare e vi sono casi per i quali
mancano norme specifiche applicabili. Ci si chiede, pertanto, se stiano emergendo regole internazionali
non scritte (analoghe a quelle conosciute nel diritto internazionale privato e processuale) in materia di
conflitti di giurisdizione, litispendenza, cosa giudicata o se possono soccorrere criteri di cortesia tra
tribunali, o di economia di attivit giudiziaria, che potrebbero svilupparsi in base alla nozione stessa
della funzione del giudice e forse, in prospettiva, divenire oggetto di norme in formazione.
9. La Corte internazionale di giustizia.
Nel diritto internazionale contemporaneo il pi importante esempio di tribunale precostituito per la
soluzione di controversie tra Stati la Corte internazionale di giustizia, successore della Corte
permanente di giustizia internazionale, attiva a partire dal 1922 nel quadro della Societ delle Nazioni.
Bench la Corte debba ritenersi un organo nuovo rispetto al suo predecessore, essa considera come
unitario il corpus giurisprudenziale elaborato dalle due Corti.
La Corte composta da 15 giudici di diversa nazionalit, eletti a maggioranza assoluta dei membri del
Consiglio di sicurezza e dei membri dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, integrati dagli Stati
parte allo statuto della Corte che non siano Stati membri delle Nazioni Unite. I giudici devono essere
personalit indipendenti aventi i requisiti per essere eletti alle pi alte cariche giudiziarie nei loro paesi o
essere giureconsulti di competenza riconosciuta nel campo del diritto internazionale. Le elezioni
avvengono in modo da rinnovare per un terzo ogni tre anni la composizione della Corte: ne seguita la
[74]

tendenza a far s che i seggi man mano lasciati vacanti vengano ricoperti da giudici appartenenti alla
stessa regione geografica.
Il mandato di ciascun giudice di nove anni. La rielezione ammessa e largamente praticata.
L'indipendenza e limparzialit dei giudici sono salvaguardate da norme che, per un verso, prevedono
determinate incompatibilit e, per altro verso, forniscono ai giudici nell'esercizio delle loro funzioni la
garanzia del godimento dei privilegi diplomatici. I giudici aventi la nazionalit delle parti in causa
mantengono il diritto di sedere nella Corte. Gli Stati parte a una controversia sottoposta alla Corte che
non abbiano in seno ad essa un giudice della loro nazionalit hanno il diritto di designare un giudice ad
hoc, non necessariamente del loro nazionalit, per sedere nella Corte, agli effetti della causa, in posizione
di parit con gli altri giudici.
La Corte ha una competenza contenziosa e una competenza consultiva.
Per quanto riguarda la giurisdizione contenziosa, solo gli Stati possono essere parte in controversie
davanti alla Corte nell'esercizio della giurisdizione contenziosa (art. 34 dello Statuto della Corte
internazionale di giustizia), mentre la funzione consultiva pu essere attivata solo da determinate
organizzazioni internazionali. Pareri consultivi possono essere richiesti alla Corte dall'Assemblea
Generale e dal Consiglio di sicurezza, nonch da altri organi delle Nazioni Unite e dalle agenzie
specializzate che siano state autorizzate dall'Assemblea Generale.
L'esercizio della giurisdizione contenziosa della Corte ha come suo presupposto l'esistenza di una
controversia e richiede l'esistenza di un titolo di giurisdizione. L'art. 36 dello Statuto della Corte
prevede, innanzitutto, che la giurisdizione della Corte si estende a tutte le controversie che le parti le
sottopongano. Si tratta della cosiddetta giurisdizione speciale. Essa si basa su un accordo speciale
(compromesso) con cui le parti si impegnano a far risolvere la loro controversia dalla Corte. Pu anche
avvenire che una parte presenti alla Corte una domanda senza che esista alcun titolo di giurisdizione e
che, in modo espresso o tacito, l'altra parte accetti la giurisdizione della Corte: si tratta del cosiddetto
forum prorogatum (art. 38, par. 5, del Regolamento della Corte).
La giurisdizione della Corte si estende, in secondo luogo, a tutti i casi previsti da trattati e convenzioni
in vigore. Ci si riferisce a tutti i casi in cui trattati prevedano che la soluzione delle controversie che
possano insorgere tra le parti in generale o nella loro interpretazione o applicazione, sia devoluta alla
cognizione della Corte. In questi casi le clausole rilevanti conferiscono a ciascuno Stato parte il diritto di
ricorrere unilateralmente alla Corte, senza che occorra ulteriore compromesso.
Infine, l'art. 36, par. 2, dello Statuto prevede che gli Stati parte possano, in qualsiasi momento,
dichiarare che essi riconoscono come obbligatoria ipso facto e senza accordo speciale, rispetto a ogni
Stato che accetti lo stesso obbligo, la giurisdizione della Corte in tutte le controversie giuridiche relative:
a. all'interpretazione di un trattato;
b. a ogni questione di diritto internazionale;
c. all'esistenza di qualsiasi fatto che, se provato, costituirebbe una violazione di un obbligo
internazionale;
d. alla natura o all'estensione della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo
internazionale.
Si tratta dell'accettazione della cosiddetta clausola facoltativa di giurisdizione obbligatoria della Corte.
Essa pu essere a tempo indeterminato o limitata nel tempo. Anche se non esplicitamente previsto
dallo Statuto, frequente che le parti limitino in vario modo le loro dichiarazioni, escludendone con
delle riserve varie categorie di controversie (ad esempio, quelle sorte prima dell'accettazione della
clausola facoltativa).
L'accettazione della clausola crea, secondo l'espressione usata dalla Corte, un vincolo consensuale tra gli
Stati accettanti. Tale carattere consensuale fa s che in questi casi la giurisdizione della Corte potr
essere invocata solo quando la materia oggetto della controversia rientri nella dichiarazione di entrambe
le parti.
Attualmente gli Stati che hanno accettato, spesso con sostanziali limitazioni, la clausola facoltativa, sono
62 (fra questi non vi l'Italia). Tra di essi, dopo il ritiro della dichiarazione da parte della Francia e degli
Stati Uniti, si conta uno solo dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza (il Regno Unito).
[75]

Per quanto riguarda la giurisdizione consultiva, essa pu essere esercitata quando l'organo richiedente sia
l'Assemblea Generale o il Consiglio di sicurezza, su qualsiasi questione giuridica. Quando a chiedere il
parere consultivo siano organi o istituti specializzati, a ci autorizzati dall'Assemblea Generale, la
giurisdizione consultiva della Corte pu riguardare qualsiasi questione giuridica che sorga nell'ambito
delle attivit di tali organi o istituti (art. 96 della Carta delle Nazioni Unite).
Nel procedimento contenzioso gi pendente si possono inserire vari procedimenti detti incidentali e
che possono concludersi a seconda dei casi, con ordinanza o con sentenza.
Un caso di procedimento incidentale si presenta quando uno Stato chiede di intervenire in un processo
gi instaurato davanti alla Corte. Ci pu avvenire quando tale Stato ha un interesse di natura giuridica
che pu essere pregiudicato dalla decisione: si tratta dell'intervento facoltativo previsto dall'art. 62 dello
Statuto. Esso ha poi il diritto di intervenire anche quando sia parte a una convenzione la cui
interpretazione sia in discussione nella controversia portata davanti alla Corte. In questo caso si prevede
che l'interpretazione accolta dalla Corte sia vincolante anche nei confronti dell'interveniente: si tratta in
questo caso dell'intervento di diritto previsto dall'art. 63 dello Statuto.
Nonostante i notevoli sviluppi introdotti dalla giurisprudenza, aspetti rilevanti restano ancora da
chiarire, quale quello dei limiti soggettivi dell'intervento non in qualit di parte, dell'efficacia della
sentenza nei vari tipi di intervento ex art. 62 e della differenza tra l'intervento ex art. 63 e quello ex art.
62 quando l'interesse giuridico riguardi il ragionamento della Corte. Due aspetti di fatto sembrano in
ogni caso da sottolineare: la Corte non ha mai accettato una domanda di intervento cui le parti
principali si opponessero, e non ha mai accettato una domanda di intervento in qualit di parte.
Un aspetto in cui si pu vedere il rovescio della medaglia della tematica dell'intervento, sta in ci che la
Corte si ritenuta carente di giurisdizione in casi in cui gli interessi dello Stato terzo (che non aveva
chiesto di intervenire n aveva accettato la giurisdizione obbligatoria della Corte) costituiscono
l'oggetto stesso della sentenza da pronunciare sul merito. Lo Stato terzo in questione stato indicato
come parte necessaria.
Tra gli altri procedimenti incidentali possibili nel processo davanti alla Corte, va menzionato per primo
quello relativo alle cosiddette eccezioni preliminari. Si tratta, per dirla con l'art. 79 del Regolamento
della Corte, di ogni eccezione del convenuto alla giurisdizione della Corte o alla ricevibilit del ricorso
unilaterale o ogni altra eccezione sulla quale si chieda una decisione prima che prosegua il processo sul
merito. Su tali eccezioni si instaura il contraddittorio, a conclusione del quale la Corte pronuncia una
sentenza con la quale essa accoglie l'eccezione, la respinge o dichiara che essa non ha, nelle circostanze
del caso, un carattere esclusivamente preliminare.
Va poi ricordato il procedimento incidentale relativo all'indicazione di misure conservatorie o
cautelari che dovrebbero essere prese per salvaguardare gli interessi rispettivi di ciascuna delle parti
(art. 41 dello Statuto). Le misure vengono solo indicate e non ordinate dalla Corte mediante
ordinanza. La Corte per lungo tempo non si pronunciata sulla questione, oggetto di discussione in
dottrina, del carattere obbligatorio ovvero facoltativo delle misure. Relativamente al caso LaGrand, in
base a discutibili argomenti testuali e a pi persuasivi argomenti teleologici, la Corte ha affermato il
carattere obbligatorio delle misure cautelari, carattere del resto esplicitamente riconosciuto dalle
rilevanti disposizioni convenzionali relative alle misure cautelari decise da altri tribunali internazionali.
La domanda di misure cautelari ha precedenza su qualunque altro procedimento. La Corte ha un'ampia
discrezionalit nell'indicare misure diverse da quelle richieste e nell'indicare misure anche alla parte
richiedente. Secondo la giurisprudenza della Corte, le misure possono essere indicate, se appare prima
facie che la Corte ha giurisdizione, se sussiste il pericolo di un pregiudizio irreparabile, che possa verificarsi
durante lo svolgimento del processo, per il diritto la cui tutela oggetto del processo. Perch si possa
parlare di giurisdizione prima facie, occorre non solo che la convenzione conferente giurisdizione alla
Corte sia in vigore tra le due parti, ma anche che gli atti imputati al convenuto possano rientrare
nell'ambito di applicazione delle disposizioni invocate.
Infine, altro procedimento incidentale pu riguardare le domande riconvenzionali. Tali domande
devono rientrare nella giurisdizione della Corte e presentare una connessione diretta con la domanda
dell'altra parte.
[76]

La Corte, senza pregiudizio della possibilit di decidere, se le parti sono d'accordo, secondo equit (ex
aequo et bono), ha come funzione di decidere secondo il diritto internazionale le controversie
sottopostele, applicando, secondo l'ordine previsto dalla notissima disposizione dell'art. 38 dello
Statuto:
1. le convenzioni internazionali;
2. il diritto consuetudinario;
3. i principi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili;
4. le sentenze giudiziarie e gli insegnamenti dei pubblicisti pi altamente qualificati delle varie
nazioni (per quanto tali mezzi abbiano carattere sussidiario).
La sentenza motivata, deve menzionare i giudici che ne sono autori, nonch indicare quali di essi
hanno concorso a formare la maggioranza. I giudici possono allegare alla sentenza dichiarazioni,
opinioni dissidenti o individuali.
La sentenza definitiva e inappellabile (art. 60 dello Statuto). La sentenza ha pertanto efficacia di
cosa giudicata in senso formale e in senso sostanziale. La Corte non vincolata dai propri precedenti, posto
che non si applica al processo internazionale una regola simile allo stare decisis propria del processo di
common law. per certo che la Corte presta grande attenzione ai propri precedenti e cerca, nei limiti del
possibile, di non allontanarsene.
L'unico mezzo di ricorso previsto la revisione, che pu essere richiesta solo in presenza della
scoperta di un fatto tale da essere di natura decisiva, purch tale fatto fosse ignoto alla Corte e alla parte
che domanda la revisione al momento in cui la sentenza fu pronunziata. La domanda di revisione deve
essere presentata entro 6 mesi dalla scoperta del fatto e non oltre 10 anni dalla data della sentenza (art.
61 dello Statuto).
Nel caso dei pareri consultivi non si pu parlare in senso tecnico di cosa giudicata. Il parere consultivo
finisce tuttavia con l'essere ritenuto dai richiedenti come vincolante, in ci essendo ovviamente assai
rilevante il fatto che i richiedenti possano essere solo organizzazioni internazionali.
In generale le sentenze della Corte vengono eseguite dagli Stati. Ad aumentare la pressione in tal senso
contribuisce all'art. 94, par. 1, della Carta delle Nazioni Unite che fa s che l'obbligo di eseguire la
sentenza assunto nei confronti di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite (sia pure con riserva di
quanto si detto circa la titolarit del diritto a far valere la responsabilit). Qualora una parte non dia
esecuzione agli obblighi che le incombono in base alla sentenza, l'altra parte potr ricorrere al
Consiglio di sicurezza che pu, se lo ritiene necessario, fare raccomandazioni o decidere misure da
prendere per dare effetto al giudizio (art. 94, par. 2, della Carta). Tale possibilit non per mai stata
finora utilizzata, e pu essere bloccata dal voto negativo di uno dei membri permanenti, anche quando
esso sia parte la controversia.
10. Altri procedimenti giudiziali di soluzione delle controversie: a) il Tribunale
internazionale del diritto del mare.
L'istituzione del Tribunale internazionale del diritto del mare avvenuta nel 1996 a seguito dell'entrata
in vigore nel 1994 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982.
Il tribunale comprende 21 membri ed ha sede ad Amburgo. Il suo statuto ispirato, pur con talune
differenze, a quello della Corte internazionale di giustizia. La giurisdizione del Tribunale in larga parte
obbligatoria. Per la maggior parte delle controversie tale giurisdizione obbligatoria condivisa con altri
organi giudicanti, nel senso che la possibilit di ricorso unilaterale al Tribunale dipende dal fatto che
entrambe le parti abbiano, in un'apposita dichiarazione, manifestato in via generale la loro preferenza
per tale mezzo di soluzione obbligatoria delle controversie, piuttosto che per la Corte internazionale di
giustizia o l'arbitrato. Qualora le parti abbiano fatto scelte non coincidenti, prevale l'arbitrato, che si
presume inoltre essere stato scelto dagli Stati che non abbiano fatto alcuna scelta.
Va sottolineato che il numero di Stati parte alla Convenzione sul diritto del mare che ha ritenuto di
formulare le dichiarazioni in cui si esprime preferenza per un procedimento di soluzione o in cui si
introducono eccezioni facoltative per tutte o alcune delle categorie di controversie relativamente
[77]

basso (si tratta, rispettivamente, di 30 e di 22 Stati su 145). In tal modo, per un verso, prevale la
preferenza implicita, anche se forse non voluta, per l'arbitrato.
L'Italia tra gli Stati che hanno fatto uso della facolt di esprimere una preferenza tra i vari organi di
soluzione delle controversie e di formulare eccezioni alla giurisdizione obbligatoria. Essa ha dato la sua
preferenza, senza indicare un ordine, al Tribunale internazionale del diritto del mare e alla Corte
internazionale di giustizia, sottolineando la sua fiducia negli organi precostituiti di giustizia
internazionale. Essa ha inoltre escluso dall'ambito della giurisdizione obbligatoria prevista dalla
Convenzione le controversie in tema di delimitazione e quelle relative a baie o titoli storici.
In un numero limitato di casi il Tribunale dotato di giurisdizione obbligatoria esclusiva, e cio
sottratta al meccanismo delle preferenze.
Si tratta, in primo luogo, di un particolare procedimento di pronta liberazione di navi ed
equipaggi arrestati e non rilasciati in violazione di norme della Convenzione che prevedano il
pronto rilascio dietro deposito di ragionevole cauzione o altra garanzia finanziaria.
In secondo luogo, del procedimento per la prescrizione di misure cautelari in pendenza della
Cost. del tribunale arbitrale competente.
In terzo luogo, poi provvista di giurisdizione obbligatoria ed esclusiva la Camera, composta da
11 membri del Tribunale, per la soluzione delle controversie relative ai fondi marini.
Le prime due ipotesi di giurisdizione obbligatoria hanno fornito al Tribunale la maggior parte dei casi
affrontati nella sua breve esistenza.
La procedura davanti al Tribunale riprende nelle grandi linee quella della Corte internazionale di
giustizia. Va notato che le misure cautelari vengono, in questo caso, prescritte e non indicate dal
Tribunale e che ne esplicitamente previsto il carattere obbligatorio. Questa previsione adottata alla
luce dellallora esistente incertezza sul valore obbligatorio delle misure indicate dalla Corte dell'Aja sono
probabilmente tra le origini del ricordato chiarimento avvenuto con la sentenza LaGrand.
11. Segue: b) il meccanismo di soluzione delle controversie nell'ambito
dell'Organizzazione mondiale del commercio.
Tale meccanismo di soluzione riguarda le controversie relative ai diritti delle parti contraenti
dell'accordo istitutivo dellOMC e degli altri accordi contemplati relativi al commercio internazionale,
specialmente in materia di scambi di merci, di scambi di servizi e di aspetti commerciali dei diritti di
propriet intellettuale.
Esso si articola in un doppio grado di giudizio. In primo grado, in cui si procede davanti a dei Panels di
tre o cinque persone da costituire caso per caso in base a liste di esperti, esso si presenta come una
forma di arbitrato istituzionalizzato. Nel secondo grado, in cui si procede davanti a un Organo
d'appello permanente, composto di sette membri e che giudica sempre nella composizione ristretta di
una divisione di tre di essi, esso presenta le caratteristiche di un meccanismo giudiziario.
Il sistema di soluzione delle controversie dellOMC mira a chiarire le disposizioni degli accordi
contemplati conformemente alle norme consuetudinarie di interpretazione del diritto internazionale
pubblico e l'Organo d'appello si deve pronunciare su questioni giuridiche e sulle interpretazioni
giuridiche contenute nel rapporto del Panel.
12. Segue: c) meccanismi permanenti di soluzione delle controversie a carattere regionale o
specializzati.
Di particolare interesse hanno alcuni tribunali istituiti in ambiti regionali ed a fini specifici.
Si possono cos ricordare le gi menzionate Corti per i diritti umani create nel continente europeo,
americano e africano. Gi si detto della competenza pi rilevante di tali corti, competenza che
riguarda i ricorsi di individui contro uno Stato per asserita violazione di uno dei diritti riconosciuti dal
rilevante accordo di protezione dei diritti umani. Interessa qui sottolineare che tali corti hanno anche
una competenza in materia di controversie tra Stati, oltre che una competenza consultiva a richiesta di
Stati.
[78]

La competenza della Corte europea dei diritti dell'uomo relativa a controversie tra Stati si basa sull'art.
33 per cui: Ogni Alta parte contraente pu deferire alla Corte qualunque inosservanza delle
disposizioni della convenzione e dei suoi protocolli che essa ritenga possa essere imputata ad un'Alta
Parte contraente. Va peraltro osservato che questo tipo di ricorso, di cui si annovera un modesto
numero di casi, viene sollevato dagli Stati membri in base ad un interesse obiettivo al rispetto della
convenzione, senza che occorra giustificare un interesse specifico, derivante, ad esempio, dal fatto che
la misura di cui si lamentano stata presa contro un loro nazionale.
Particolare importanza ha poi la Corte di giustizia delle Comunit europee. Si tratta di un tribunale la
cui giurisdizione in ampia parte mira ad assicurare la corretta applicazione delle norme comunitarie da
parte dei giudici interni (competenza in materia di controllo di legittimit sugli atti comunitari,
competenza in tema di questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte dai giudici nazionali che si trovino
ad esaminare una questione relativa all'interpretazione dei trattati istitutivi delle Comunit o alla validit
o interpretazione di atti comunitari). La giurisdizione della Corte per anche, in altri casi, assimilabile,
sia pure nel quadro di rapporti pattizi che danno luogo a un vero e proprio ordinamento giuridico
autonomo quale quello comunitario, a quello di un tribunale internazionale. La Corte pu cos
conoscere di tutte le controversie tra Stati membri sottopostele per via di compromesso in connessione
con l'oggetto del trattato CE.
Va ricordato anche il Tribunale dei reclami tra Stati Uniti e Iran, istituito dagli accordi gi ricordati di
Algeri del 1981. Questo tribunale svolge solo in parte funzioni di tribunale interstatale, mentre per altra
parte svolge una funzione, sia pure non priva di particolarit, di tribunale arbitrale fra privati. Esso ha
prodotto una giurisprudenza imponente che affronta non pochi temi di diritto internazionale generale.
DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO INTERNO
1. Diritto internazionale e diritti statali: monismo e dualismo.
Una delle questioni che maggiormente sembrano aver preoccupato la dottrina internazionalista a partire
dalla fine del secolo scorso quella dei rapporti tra diritto internazionale e diritto nazionale o interno.
Infatti, nel medesimo periodo, sempre pi frequenti si andavano facendo i trattati che, lungi
dall'impegnare gli Stati a comportamenti che si esaurissero nella sfera della loro vita di relazione,
ponevano loro obblighi tali da non poter essere adeguatamente adempiuti se non con interventi di
ciascun legislatore nazionale sul proprio diritto interno. Basti pensare in proposito ai numerosi trattati
in materia di amicizia, commercio e navigazione, di estradizione, di relazioni consolari e in altre materie,
ciascuno dei quali, rendendo necessarie pi o meno ampie modificazioni dei diritti nazionali,
inevitabilmente portava ad interrogarsi sui rapporti tra le regole per tal modo introdotte e quelle che
della loro introduzione nell'ordinamento nazionale erano causa. I suddetti interrogativi vennero
affrontati da alcuni studiosi sostenitori di una netta separazione tra ordinamenti nazionali e
ordinamento internazionale. A tali teorie, dette dualiste venne ben presto contrapposta la teoria
monista, alla stregua della quale diritto internazionale e diritti nazionali dovrebbero invece inserirsi in
un quadro giuridico unitario.
La polemica tra monismo e dualismo appare oggi, se non spenta, quantomeno fortemente attenuata,
anche a seguito di un certo avvicinamento delle rispettive posizioni da parte di molti degli esponenti
delle opposte dottrine, che vengono ad attutire le contrapposizioni pi estreme. D'altra parte si pu
rilevare che, anche in un contesto che, tutto sommato, si mosso in un'impostazione dualista, la
convenzione di Vienna sul diritto dei trattati abbia accolto una disposizione che, pur ribadendo in via di
principio la suddetta impostazione, lascia un certo spazio, in via di eccezione, a considerazioni proprie
del monismo: ci si riferisce al gi esaminato art. 46 della convenzione, relativo alla nullit dei trattati per
violazione di norme di diritto interno sulla competenza a stipulare.


[79]

2. La posizione dualista e la possibile esistenza di ordinamenti separati da quello
internazionale e da quelli statali.
Il nostro modo di intendere il diritto internazionale, quale una componente di una a s stante e specifica
sfera di convivenza sociale, ci induce a dare la nostra adesione alla tesi che vede diritto internazionale e
diritti statali come ordinamenti giuridici separati, ciascuno dotato del carattere della originariet: in altre
parole, di un proprio carattere individuale, unitario e autonomo.
Prima di trarre le conseguenze di quanto si ora affermato e di constatarne la conferma alla luce della
prassi internazionale, opportuno sgomberare il terreno da due possibili equivoci in cui la posizione
che si ora accolta potrebbe indurre.
In primo luogo, non bisogna credere che accogliere una posizione dualista significhi contrastare
l'incontestabile superiorit del diritto internazionale sugli Stati, intesi anche come portatori del loro
rispettivo ordinamento giuridico interno. Non contrastano affatto con la posizione dualista le frequenti
affermazioni nel senso della superiorit o della supremazia del diritto internazionale sul diritto interno
che dato rinvenire nella giurisprudenza internazionale.
In secondo luogo, va sottolineato che l'affermazione della reciproca separazione dell'ordinamento
internazionale e degli ordinamenti nazionali non porta necessariamente con s che, al di fuori di tali
ordinamenti, non vi possano essere fenomeni giuridici di cui tenere conto. Un esempio di tali
ordinamenti , a parer nostro, offerto dei cosiddetti ordinamenti interni delle organizzazioni
internazionali. Tali ordinamenti, che si sostanziano nellinsieme delle regole attinenti al funzionamento
dellorganizzazione, traggono certamente la loro origine da un trattato, ma pure si presentano come
dotati di una propria e marcata individualit.
3. Le conseguenze della separazione tra diritto internazionale e diritti nazionali.
La separazione tra diritto internazionale e diritti interni trova conferma in alcuni dati della prassi, i quali
valgono al tempo stesso a porre in luce talune delle conseguenze principali di tale separazione.
Uno di tali dati consiste nella regola alla stregua della quale uno Stato non pu invocare il proprio
diritto interno per giustificare l'inadempimento di un proprio obbligo internazionale. Il principio si
trova enunciato in chiari termini nella convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, sia pure
con la riserva di quanto previsto al gi citato art. 46. Nell'art. 27 di detta convenzione si statuisce infatti
che una parte non pu invocare le disposizioni del suo diritto interno a giustificazione della non
esecuzione di un trattato.
Tale circostanza mette in evidenza la caratteristica pi rilevante della posizione dualista, ovvero il
cosiddetto principio della relativit dei valori giuridici, per quanto riguarda i rapporti tra diritto internazionale
e diritti nazionali. Secondo tale principio, le varie qualificazioni giuridiche come permesso, vietato,
lecito, illecito, e via dicendo sono relative all'ordinamento giuridico dal cui punto di vista ci si pone. In
tal modo, un medesimo fatto o atto pu essere diversamente qualificato, a seconda che esso venga in
considerazione dal punto di vista del diritto internazionale o da quello del diritto interno.
4. L'adempimento degli obblighi internazionali mediante modifica dell'ordinamento
interno.
La Corte permanente di giustizia internazionale affermava essere un principio evidente quello per cui
uno Stato che ha validamente contratto degli obblighi internazionali tenuto ad apportare alla propria
legislazione le modificazioni necessarie per assicurare l'esecuzione degli impegni assunti.
In molti casi, l'emanazione di norme legislative interne, ancorch non espressamente richiesto dal
diritto internazionale, il modo pi pratico per creare le condizioni affinch l'obbligo internazionale sia
adempiuto. Va per ribadito che, nellipotesi ora indicata, l'adempimento dell'obbligo internazionale si
ha non con l'emanazione delle norme interne, bens con l'osservanza da parte dello Stato del
comportamento che con quelle norme esso ha inteso garantire. Al contrario, ove l'emanazione di
norme interne costituisca l'oggetto preciso e specifico dell'obbligo internazionale, l'adempimento
dell'obbligo stesso si ottiene proprio con la loro emanazione.
[80]

Non tuttavia sempre facile determinare la reale portata dell'obbligo internazionale. Ad esempio, la
sentenza del 10 dicembre 1998 del Tribunale penale per l'ex-Jugoslavia sul caso Furundzia
particolarmente significativa nell'affermare che la norma (convenzionale e consuetudinaria) che
proibisce il ricorso alla tortura rientra tra quelle che, pur non prevedendo specificamente l'obbligo di
adottare (o di abrogare) determinate norme interne, si possono ritenere inadempiute qualora tali norme
non vengano adottate o abrogate, senza aspettare che l'obbligo specifico in esse previsto sia violato.
Normalmente si legge nella sentenza il mantenere in vigore o l'adottare norme interne in contrasto
con norme internazionali d luogo a responsabilit internazionale, e conseguentemente alla
corrispondente pretesa di cessazione e di riparazione, solo se tali norme sono applicate in concreto.
Invece, nel caso della tortura, il semplice fatto di adottare o di mantenere in vigore legislazione contraria
al divieto internazionale della tortura d luogo a responsabilit internazionale. Il valore della libert dalla
tortura cos grande che diventa essenziale precludere ogni legge interna che autorizzi o condoni la
tortura o che possa in ogni modo recare tale effetto.
5. L'adattamento del diritto italiano al diritto internazionale generale.
La sola disposizione di carattere generale che dato rinvenire nell'ordinamento italiano in tema di
adattamento degli ordinamenti interni agli obblighi internazionali all'art. 10, I co., della Cost., alla
stregua del quale l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute. Il meccanismo di adattamento del diritto interno al diritto internazionale
predisposto dall'art. 10 automatico: nel senso che esso provvede a creare le norme interne necessarie
per adempiere alle prescrizioni delle norme internazionali generali, senza che occorra alcun intervento
del legislatore.
Le modificazioni del nostro ordinamento prodotte dall'art. 10 si verificano fin dal momento in cui
entrata in vigore la regola di diritto internazionale generale, per adeguarsi agli obblighi previsti dalla
quale tali modificazioni sono necessarie.
Il compito di accertare qual il contenuto preciso delle modifiche che, tramite l'art. 10, il diritto interno
subisce per adeguarsi agli obblighi derivanti dal diritto internazionale generale, spetta a tutti gli organi
preposti all'applicazione del diritto, ivi compreso il giudice nazionale. Tali organi devono provvedere
all'accertamento stesso mediante un'operazione di raffronto tra il contenuto degli obblighi
internazionali e il contenuto dell'insieme dell'ordinamento interno, in modo da poter determinare quali
norme interne si debbano ritenere create o abrogate perch l'obbligo internazionale si possa considerare
adempiuto.
Ci si pu chiedere quali siano le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute cui si riferisce l'art.
10. Non sembra accettabile la tesi, sostenuta in dottrina, secondo la quale, per il tramite della suddetta
disposizione, l'ordinamento italiano provvederebbe anche ad adeguarsi agli obblighi derivanti da regole
di diritto internazionale pattizio. Vi sono infatti elementi che sembrano smentire la fondatezza in
concreto della tesi in questione.
Il primo che, in sede di lavori preparatori della Cost., la possibilit di provvedere per il diritto pattizio
allo stesso modo che per il diritto consuetudinario era stata presa in considerazione e scartata,
chiarendosi cos che l'art. 10 avrebbe riguardato il solo diritto consuetudinario. Il secondo consiste nella
circostanza che, come vedremo pi avanti, la prassi italiana univoca nel senso di provvedere
all'adattamento delle norme internazionali convenzionali con appositi diversi procedimenti.
Dunque, accertato che esso si riferisce a regole consuetudinarie e non a regole pattizie, ci si pu
chiedere se l'art. 10 riguardi tutte le regole consuetudinarie o soltanto alcune. stato sostenuto che
l'espressione norme [] generalmente riconosciute usata nell'art. 10, e il conseguente adattamento
automatico, non varrebbero per quelle regole che, pur ritenute vigenti come regole generali, manchino
di generale riconoscimento; sembra tuttavia inopportuno cercare un significato di norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute diverso da quello che comunemente vi si d, di norme
consuetudinarie tout court: che tali non sarebbero se non fossero generalmente riconosciute.
Varie risposte sono state date dalla dottrina al quesito del rango che occupano, nell'ordinamento
giuridico italiano, le norme prodotte per mezzo del trasformatore permanente dell'art. 10 della Cost..
[81]

La Corte costituzionale ha previsto per le suddette norme una garanzia costituzionale, nel senso di
ritenere costituzionalmente illegittime, per violazione dell'art. 10, le norme di legge interna in contrasto con
le norme internazionali consuetudinarie.
Pu per, seppure in ipotesi non troppo numerose, accadere che vi sia contrasto tra una norma
costituzionale e una norma di diritto internazionale consuetudinario, immessa nel nostro ordinamento
tramite l'art. 10. Il problema si posto a proposito della regola consuetudinaria in materia di immunit
dalla giurisdizione civile degli agenti diplomatici stranieri, di cui si sosteneva il contrasto con varie
disposizioni della Cost., ivi compreso l'art. 24, per cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti ed interessi legittimi. Nel caso specifico, la Corte costituzionale, in una sentenza del 1979,
ha ritenuto che il denunciato contrasto sia soltanto apparente e risolubile applicando il principio di
specialit. Invero le deroghe alla giurisdizione derivanti dall'immunit diplomatica non sono
incompatibili con le norme costituzionali invocate, in quanto necessarie a garantire l'espletamento della
missione diplomatica, istituto imprescindibile del diritto internazionale, dotato anche di garanzia
costituzionale, come risulta dall'art. 87 Cost., secondo cui il Presidente della Repubblica accredita e
riceve i rappresentanti diplomatici.
In realt, dal punto di vista del diritto italiano, il conflitto tra l'art. 24 della Cost. e le norme
internazionali consuetudinarie sull'immunit giurisdizionale appare difficilmente eliminabile e
sembrerebbe determinare una diversa conseguenza: lo Stato italiano che, in ossequio alle norme
internazionali, sceglie di non rendere giustizia al soggetto che agisce in giudizio, come invece
richiederebbe lart. 24 della Cost., si rende responsabile di un danno ingiusto che indipendentemente
dal fatto che tale danno sia o meno dovuto ad un illecito di diritto interno obbliga lo Stato a un
indennizzo nei confronti dellattore.
6. La ratifica dei trattati internazionali secondo la Cost. italiana.
Sono rilevanti al riguardo gli artt. 72, IV co., 75, II co., 80, 87, VIII co.. L'art. 87, VIII co., stabilisce che
il Presidente della Repubblica, che il capo dello Stato e rappresenta l'unit nazionale, ratifica i trattati
internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Quest'ultimo inciso si chiarisce
alla luce dell'art. 80, secondo il quale le camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati
internazionali di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni
del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi.
L'espressione ratifica di trattati internazionali, impiegata negli artt. 80 e 87, va intesa in senso ampio
come riferibile ad ogni e qualsiasi atto mediante il quale venga espresso il consenso dello Stato ad essere
vincolato sul piano internazionale da un trattato concluso in forma solenne; tale consenso potr
essere manifestato tramite accessione, accettazione, approvazione, adesione, notificazione
dell'espletamento delle procedure previste dal diritto interno, e via dicendo. Parimenti, l'espressione
trattati internazionali va intesa in senso ampio, come ricomprendente in s ogni e qualsiasi accordo
tra Stati, diretto a porre in essere tra i medesimi regole destinate a disciplinare i loro rapporti, quale che
sia la denominazione ad esso riservata nella prassi diplomatica: convenzione, atto, patto, accordo,
protocollo, statuto, dichiarazione, carta, e via dicendo.
La competenza attribuita al Presidente della Repubblica di ratificare i trattati internazionali tiene conto
di un orientamento alquanto diffuso nelle moderne costituzioni. Il Presidente della Repubblica, nel
nostro cos come in diversi altri ordinamenti costituzionali, d'altra parte, rappresenta ed impersona
l'unit e la continuit nazionale, la forza permanente dello Stato al di sopra delle mutevoli maggioranze
parlamentari. Appare pertanto giustificata l'attribuzione della competenza per la ratifica dei trattati
internazionali, anche in considerazione della profonda incidenza che spesso i trattati hanno sulla vita
nazionale, all'organo costituzionale che, in ragione della sua funzione coordinatrice ed equilibratrice di
tutti gli organi dello Stato ad esso riconosciuta dal nostro sistema costituzionale, esprime formalmente
l'unit e la continuit dello Stato.
Tuttavia, la ratifica di un trattato internazionale un atto del Presidente della Repubblica soltanto in
senso formale. In senso sostanziale, la ratifica un atto del potere esecutivo, che il capo dello Stato si
limita a far proprio per assolvere alle funzioni conferitegli dalla Cost.. Anche rispetto ai rapporti
[82]

internazionali vale la prescrizione dell'art. 89 della Cost., secondo la quale nessun atto del Presidente
della Repubblica valido se non controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la
responsabilit.
7. L'autorizzazione delle Camere alla ratifica di alcune categorie di trattati.
Dal combinato disposto degli artt. 80 e 87, VIII co., della Cost. si ricava che il Presidente della
Repubblica non pu procedere alla ratifica di determinate categorie di trattati internazionali, che al
legislatore costituente sono parse maggiormente rilevanti per la comunit nazionale, se non in quanto le
Camere lo abbiano preventivamente autorizzato con legge.
La partecipazione del Parlamento alla stipulazione dei pi importanti trattati internazionali si esprime
tramite una vera e propria autorizzazione.
Per quanto essa sia un atto necessario perch si possa procedere alla ratifica di determinati trattati,
l'autorizzazione alla ratifica non obbliga il governo (in senso sostanziale) e il Capo dello Stato (in senso
formale) ad eseguire quanto stato autorizzato.
Non sembra dar luogo a particolari difficolt esegetiche la determinazione della precisa portata di
alcune delle categorie di trattati la cui ratifica, da parte del Presidente della Repubblica, esige di essere
previamente autorizzata dalle Camere a norma dell'art. 80 della Cost.. Le espressioni tecnico-giuridiche
che designano tali categorie consentono invero di individuare la loro portata con sufficiente precisione.
La categoria dei trattati che sono di natura politica, per la genericit e ampiezza della sua
qualificazione, sfugge in considerevole misura ad ogni tentativo di conchiuderla entro una definizione
precisa, potendosi anche sostenere la tesi estrema che qualsiasi trattato, per quanto insignificante esso
sia, denoti un'intenzione di natura politica di instaurare o migliorare le relazioni con determinati Stati.
lasciato comunque al governo un certo margine di discrezionalit nel valutare se un trattato, non
rientrante in alcuna delle altre categorie, debba o meno considerarsi di natura politica e
conseguentemente debba o meno essere sottoposto alle Camere per la previa autorizzazione alla
ratifica. In caso di dubbio, sembra costituzionalmente pi corretto, tuttavia, che il governo sottoponga
comunque il trattato al sindacato delle Camere.
Per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali non ammesso il referendum popolare
abrogativo (art. 75, II co., Cost.). Infatti, la Cost. ha voluto impedire, una volta perfezionatosi il trattato,
che esso venga privato dellindispensabile fondamento costituzionale, determinandone la
disapplicazione e rendendo in tal modo responsabile lo Stato italiano verso gli altri contraenti.
8. La pi precisa portata da attribuire alla autorizzazione alla ratifica.
Secondo la relazione su i rapporti internazionali nella futura Cost. italiana, presentata da Ago e
Morelli alla Commissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, la previa autorizzazione
del Parlamento avrebbe dovuto essere richiesta non solo per la stipulazione, ma altres per la denuncia o
il recesso relativamente ai trattati presi in considerazione. Tale proposta tuttavia non venne condivisa n
dalla maggioranza della suddetta Commissione, n dall'Assemblea Costituente.
Ulteriormente, poich la previa autorizzazione delle Camere prescritta unicamente ai fini della
stipulazione di certe categorie di trattati internazionali, l'art. 80 della Cost. non dovrebbe essere
interpretato nel senso di esigere che siano sottoposte a tale autorizzazione anche le riserve che il Capo
dello Stato, su iniziativa del governo, dovesse formulare al momento di ratificare il trattato. Questo
indubbiamente il criterio seguito dall'esecutivo italiano, il quale solo di rado ha ritenuto opportuno
sottoporre alla previa autorizzazione delle Camere sia il testo di un trattato che le riserve che esso si
proponeva di formulare al momento della ratifica.
Studioso ha sostenuto tuttavia la tesi contraria, asserendo che l'autorizzazione parlamentare sarebbe
necessaria solo per le riserve che non siano previste dal trattato. L'argomento a sostegno di questa
posizione, e cio che il Parlamento non potrebbe altrimenti sapere quale sar il contenuto esatto del
trattato su cui esprime la sua approvazione, sembra meritevole di attenzione. Se ne potrebbe ispirare
una prassi, certo auspicabile, che superi le conseguenze dell'interpretazione letterale dell'art. 80 in tema
di riserve.
[83]

9. La stipulazione di trattati internazionali in forma semplificata e il vigente sistema
costituzionale.
Il consenso dello Stato ad essere vincolato dalle regole contenute nel testo di un trattato pu essere,
per, espresso anche in forme diverse da quelle consistenti nello scambio o nel deposito di un atto
formale di ratifica (o accettazione, approvazione, adesione, notificazione dell'espletamento delle
procedure richieste dal diritto interno). Come si visto, accanto ai trattati internazionali stipulati in
forma solenne, la pratica degli Stati conosce anche la possibilit di stipulare i trattati in forma
semplificata:
attraverso la mera sottoscrizione apposta, senza riserva di ratifica o di accettazione o di
approvazione ulteriore, dal rappresentante dello Stato in calce allo strumento scritto in cui
incorporato il trattato;
mediante lo scambio, sempre senza la predetta riserva, di due o pi documenti scritti, tra loro
connessi e costituenti un trattato.
Anche il governo italiano ha talora proceduto a stipulare trattati internazionali in forma semplificata.
Proprio di fronte ad una simile prassi dell'esecutivo appare doveroso chiedersi quale ne possa essere il
fondamento giuridico e, in particolare, se ed in quale misura essa risulti compatibile con il tenore
testuale degli artt. 80 e 87, VIII co., della Cost., di cui si gi esposto il contenuto.
Ai fini di una spiegazione persuasiva del fenomeno qui in esame, si pu muovere da una distinzione tra
i casi in cui la competenza attribuita al Capo dello Stato per la ratifica deve essere esercitata con la
previa autorizzazione con legge delle Camere e i casi in cui l'esercizio della suddetta competenza non
invece subordinato alla preventiva autorizzazione del Parlamento. In questi ultimi casi, gli atti in cui si
sostanzia l'esercizio da parte del Presidente della Repubblica della sua competenza non sono, come si
gi visto, atti intrinsecamente suoi propri, ma sono atti sostanzialmente di governo, manifestazione
concreta del particolare indirizzo politico perseguito dalla maggioranza parlamentare attraverso i suoi
esponenti nel governo, e presuppongono in ogni caso, per il loro compimento, una specifica iniziativa
del governo.
Tutt'altro invece il discorso per quel che riguarda la legittimit costituzionale della stipulazione in
forma semplificata di trattati internazionali rientranti in una (o in pi di una) delle categorie previste
dall'art. 80 della Cost., per le quali richiesta la preventiva autorizzazione con legge delle Camere. Tutte
le volte che l'esecutivo stipulasse in forma semplificata trattati compresi in tali categorie, esso
compirebbe, consapevolmente o inconsapevolmente, una manifesta violazione della Cost..
Del resto, la mancata formazione di una norma integrativa (rectius derogativa) della Cost. a ben vedere
attestata anche dagli espedienti cui si fatto ricorso proprio al fine di sanare l'illegittimit costituzionale
della stipulazione in forma semplificata di trattati rientranti nelle categorie previste dall'art. 80: o
attraverso una legge di approvazione successiva, contestuale o meno alla legge di esecuzione del
trattato, ovvero attraverso l'emanazione di un atto di legislazione successivo alla stipulazione dell'atto
internazionale.
Questione diversa quella della legittimit, alla luce del vigente ordinamento italiano, di trattati
internazionali segreti, intendendosi come tali i trattati conclusi dall'esecutivo senza che ne sia data
comunicazione del testo al Parlamento o contenenti clausole diverse o aggiuntive rispetto a quelle rese
note al Parlamento.
Nella pratica, casi di segretezza ricorrerebbero in presenza di accordi di collaborazione militare, a volte
anche relativi allo stabilimento di basi militari straniere sul territorio nazionale, o in presenza di accordi
circa concessioni finanziarie a paesi in via di sviluppo: per i primi varrebbe l'esigenza di tutelare la
sicurezza nazionale, per i secondi l'intento di evitare che i paesi cui si accordano condizioni meno
favorevoli vengano a sapere delle condizioni pi favorevole riservate ad altri. Il pi noto dei trattati
segreti conclusi dall'Italia (ammesso che esista davvero) l'accordo del 1972 relativo ad una base
militare degli Stati Uniti sull'isola della Maddalena.
Non vi dubbio che la segretezza sia costituzionalmente illegittima nel caso di trattati rientranti nelle
categorie previste dall'art. 80 della Cost., per i quali la necessit di un'autorizzazione alla ratifica data con
[84]

legge esclude automaticamente la segretezza, dovendo il Parlamento essere chiamato a valutare il testo
del trattato e dovendo la legge essere pubblicata, qualora l'autorizzazione venga concessa.
Sempre in merito alla legittimit di un trattato concluso segretamente da parte dello Stato, occorre
valutare il disposto della legge n. 801/1977 che ha disciplinato il segreto di Stato. Secondo tale norma,
sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attivit e ogni altra cosa la cui
diffusione sarebbe idonea a recar danno all'integrit dello Stato democratico, anche in relazione ad
accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Cost. a suo fondamento, al libero esercizio
degli organi costituzionali, all'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi,
alla preparazione e alla difesa militare dello Stato. Il trattato segreto potrebbe pertanto ammettersi
soltanto qualora esso, oltre a non riguardare una materia menzionata nell'art. 80 della Cost., rischi
tramite un'eventuale sua diffusione di recare pregiudizio ad una delle esigenze elencate in via
eccezionale dalla legge n. 801/1977.
10. La competenza a stipulare accordi internazionali e le attivit di rilievo internazionale
delle regioni italiane.
La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha radicalmente mutato il contenuto dell'art. 117 della
Cost., vi ha introdotto un nono e ultimo co. in cui si prevede: Nelle materie di sua competenza la
regione pu concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e
con le forme disciplinati dalle leggi dello Stato.
La Corte costituzionale, nel precisare la portata del nuovo ultimo co. dell'art. 117, ha manifestato
l'avviso che, per un verso, le nuove disposizioni costituzionali non discostano dalle linee fondamentali
gi enunciate in passato da questa Corte: riserva allo Stato della competenza sulla politica estera;
ammissione di un'attivit internazionale delle regioni; subordinazione di questa alla possibilit effettiva
di un controllo statale sulle iniziative regionali, al fine di evitare contrasti con le linee della politica estera
nazionale. Per altro verso, secondo la Corte: La novit che discende dal mutato quadro normativo
essenzialmente il riconoscimento a livello costituzionale di un potere estero delle regioni, cio della
potest, nell'ambito delle proprie competenze, di stipulare, oltre ad intese con enti omologhi di altri
Stati, anche veri e propri accordi con altri Stati, sia pure nei casi e nelle forme determinati da leggi
statali. [] Le regioni, nell'esercizio della potest loro riconosciuta, non operano dunque come
delegate dello Stato, bens come soggetti autonomi che interloquiscono direttamente con gli Stati
esteri, ma sempre nel quadro di garanzie e di coordinamento apprestato dai poteri dello Stato.
Il legislatore statale, chiamato dal novellato art. 117 a disciplinare i casi e le forme in cui le regioni
potranno concludere gli accordi e le intese che esso menziona, ha disegnato, con la legge 5 giugno 2003,
n. 131, un sistema che, pur tenendo conto del valore innovativo delle nuove norme costituzionali, cerca
di mantenere una linea di continuit con il diritto previgente. La citata legge distingue tra:
le intese con enti territoriali interni ad altri Stati;
gli accordi con Stati.
Per le intese sufficiente che il governo sia informato prima della firma, dopo di che, decorso il termine
di 30 giorni entro i quali il governo pu trasmettere sue osservazioni, le regioni possono provvedere a
sottoscriverle.
Gli accordi, invece, il governo deve, in primo luogo, ricevere comunicazione delle trattative e pu
indicare principi e criteri da seguire nella conduzione dei negoziati; in secondo luogo, la regione o
provincia autonoma deve comunicare il progetto dell'accordo al Ministero degli Esteri, il quale, sentita
la Presidenza del Consiglio, e accertata l'opportunit politica e la legittimit dell'accordo conferisce i
poteri di firma previsti dalla convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
Gli accordi sottoscritti in assenza di conferimento dei pieni poteri sono nulli. Quest'ultima
disposizione suscita evidenti perplessit: la nullit di un accordo internazionale, infatti, non pu
essere conseguenza di una norma interna.
Molto delicato il problema del coordinamento dell'ultimo co. dell'art. 117 con l'art. 80 della Cost.. A
tal proposito, va notato che, per quanto riguarda le attivit di mero rilievo internazionale, la citata legge del
2003 prevede che con gli atti ad esse relative le regioni e le province autonome non possono esprimere
[85]

valutazioni relative alla politica estera dello Stato, n possono assumere impegni dai quali derivino
obblighi od oneri finanziari per lo Stato. Non chiaro se queste previsioni si applichino anche alle
intese. peraltro certo che la legge non ne prevede l'applicabilit agli accordi. questo sufficiente
per pensare che gli accordi possono, ad esempio, comportare oneri finanziari o avere natura politica?
Non sembrerebbe possibile, in mancanza di precise indicazioni, ammettere lo scavalcamento, che una
risposta affermativa comporterebbe, di una norma dellimportanza dellart. 80.
11. L'adattamento del diritto italiano ai trattati internazionali tramite il procedimento
dell'ordine di esecuzione.
Una volta chiarite le questioni relative alla competenza a stipulare i trattati, occorre prendere in
considerazione i procedimenti attraverso i quali l'Italia adegua il proprio ordinamento interno agli
obblighi contenuti nei trattati internazionali. Va subito precisato che non si rinviene nell'ordinamento
italiano alcuna disposizione di carattere generale che preveda l'adozione di un determinato meccanismo
per l'adattamento del diritto interno agli obblighi previsti da norme internazionali convenzionali. Un
esame della pratica indica per che in molti casi il meccanismo adottato quello del cosiddetto ordine
di esecuzione.
Tale meccanismo consiste nell'emanazione di un atto legislativo che, senza formulare direttamente le
norme materiali necessarie per l'attuazione di un trattato, si limita a dare piena ed intera esecuzione al
trattato stesso, di cui viene integralmente riprodotto il testo in allegato. L'ordine di esecuzione, nella
pratica italiana, viene spesso contenuto nel medesimo provvedimento legislativo che contiene anche
l'autorizzazione alla ratifica del trattato, autorizzazione che, come si visto, le Camere danno con legge
al Capo dello Stato.
L'ordine di esecuzione determina l'adattamento del diritto italiano alle regole dei trattati internazionali
con un meccanismo che pone in essere, di volta in volta, quello che, una volta per tutte, avviene per le
norme consuetudinarie in base all'art. 10 della Cost..
Anche per l'ordine di esecuzione vale quanto si detto per l'adattamento alle norme consuetudinarie
relativamente a chi spetti il compito di accertare in concreto il contenuto delle modificazioni
dell'ordinamento interno. chiaro che, al fine di accertare il contenuto degli obblighi discendenti da
trattati internazionali, si dovr provvedere, da parte del giudice e degli altri organi interni preposti
all'applicazione del diritto, allinterpretazione di detti trattati esattamente con le medesime regole con
cui essa verrebbe operata in un contesto internazionale, come gi si precisato parlando
dell'interpretazione dei trattati.
Sotto un profilo formale, l'ordine di esecuzione, che contenuto in un atto di legislazione, potr
essere una legge costituzionale, una legge o un decreto del Presidente della Repubblica, a seconda della
natura delle norme interne che, per effetto dell'ordine di esecuzione, vengono ad essere modificate.
Da quanto precede, fino all'emanazione della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, derivava la
conseguenza che il rango, nella gerarchia delle norme di diritto interno, delle norme prodotte per
mezzo dell'ordine di esecuzione dei trattati non era diverso dal rango delle altre norme interne emanate
con un atto di legislazione della medesima natura. Mancava, in altre parole, nel sistema costituzionale
italiano una disposizione paragonabile all'art. 55 della Cost. francese, per il quale i trattati o gli accordi
debitamente ratificati od approvati avranno, previa loro pubblicazione, un'autorit superiore a quella
delle leggi, sotto riserva della reciprocit da parte degli altri Stati contraenti. Il primo co. dell'art. 117
della Cost., come modificato dalla succitata legge costituzionale del 2001, prevede: La potest
legislativa esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Cost. nonch dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Sembra potersi leggere tale disposizione come una norma che incide sul rango assunto nell'ordinamento
interno dalle leggi recanti norme di adattamento ai trattati internazionali. Dal punto di vista
dell'ordinamento interno, pur rimanendo, a nostro parere, le norme immesse per mezzo dell'ordine di
esecuzione norme aventi il rango che d loro latto di normazione in cui sono contenute, esse, qualora
si tratti di leggi, statali o regionali, sembrano dotate di una tutela costituzionale che le rafforza rispetto
alle altre norme del medesimo rango. Le norme legislative con esse incompatibili potrebbero
[86]

considerarsi adottate in violazione indiretta dell'art. 117, co. primo, Cost., e sarebbero pertanto
suscettibili di impugnazione davanti alla Corte costituzionale.
Un discorso diverso va invece fatto, come si vedr, per le leggi che hanno dato esecuzione ai trattati
istitutivi delle Comunit europee, cui la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana ha attribuito
una copertura costituzionale ad opera dell'art. 11 della Cost..
Prima della riforma costituzionale del 2001 era incontestato che l'ordine di esecuzione, come le altre
leggi, potesse essere sottoposto a sindacato di legittimit costituzionale ad opera della Corte
costituzionale. Un'eventuale dichiarazione di illegittimit costituzionale colpiva l'ordine di esecuzione in
quanto esso avesse introdotto nel nostro ordinamento, al fine di adattarlo a norme internazionali
convenzionali, norme in contrasto con norme aventi rango costituzionale.
Ad esempio, la sentenza della Corte costituzionale 21 giugno 1979, n. 54, ha dichiarato incostituzionale
il provvedimento di adattamento della convenzione italo-francese di estradizione del 1870, nella parte in
cui consentiva l'estradizione per reati per cui nello Stato richiedente era prevista la pena di morte, per
contrasto con l'art. 27, IV co., della Cost., che non ammette la pena di morte, se non nei casi previsti
dalle leggi militari di guerra.
Non sembra che la riforma del 2001 giustifichi un mutamento dell'orientamento giurisprudenziale sopra
richiamato. Nonostante il carattere rafforzato, nel senso test indicato, che le norme interne di
adattamento agli obblighi internazionali oggi assumono rispetto alle leggi ordinarie, le norme
costituzionali mantengono nostro avviso una posizione superiore. Tale conclusione va peraltro messa a
raffronto con l'orientamento accolto dalla Corte costituzionale a proposito degli obblighi derivanti da
norme consuetudinarie, la cui posizione rafforzata dalla previsione dell'art. 10, e comunitarie, la cui
posizione si ritiene da tempo costituzionalmente rafforzata attraverso l'art. 11 della Cost..
12. Il c.d. procedimento ordinario di adattamento alle regole internazionali non self-
executing.
Il meccanismo di adattamento del diritto italiano alle regole internazionali generali di cui all'art. 10 della
Cost. e quello utilizzato per le norme internazionali convenzionali mediante l'ordine di esecuzione
possono funzionare solo in presenza di una condizione. Tale condizione richiede che le norme
internazionali in questione siano, come suole dirsi con terminologia di derivazione americana, self-
executing.
Una norma internazionale self-executing (ovvero suscettibile di immediata applicazione) quando
contiene in s tutti gli elementi idonei a consentire, a chi deve applicare le norme interne di
adattamento, di ricavare, dal contenuto della norma internazionale, il contenuto delle norme interne che
servono a dare esecuzione alla norma internazionale. Ad esempio, le regole convenzionali che
prevedono ipotesi di reato ed obbligano gli Stati contraenti a punirne la commissione con pene severe
non possono considerarsi self-executing. Se ci si limitasse a provvedere in proposito mediante l'ordine di
esecuzione, il giudice chiamato a giudicare del reato non saprebbe che pena co.nare. In taluni casi la
giurisprudenza ha sostenuto che determinate disposizioni convenzionali hanno carattere
programmatico e non self-executing, per giustificarne la non invocabilit avanti al giudice interno
nonostante l'emanazione di ordine di esecuzione. Infine, le Sezioni Unite affermarono il carattere self-
executing di tali norme, anche alla luce di norme interne le quali, anche se previste a fini diversi,
consentivano di ottenere il risultato voluto dalla norma convenzionale in esame.
In molti casi, la possibilit di ricorrere ai suddetti mezzi di adattamento, e quindi il carattere pi o meno
self-executing della norma internazionale pattizia, dipende non tanto dallo specifico modo di essere della
norma internazionale, quanto dalla presenza o meno, nell'ordinamento interno, di strumenti idonei a
mettere in atto quanto previsto dalla norma stessa.
Quando la norma internazionale, sia essa consuetudinaria o pattizia, non self-executing, i meccanismi
dell'art. 10 della Cost. e dell'ordine di esecuzione non sono idonei a produrre nell'ordinamento interno
le modificazioni necessarie a consentire l'adempimento degli obblighi che le norme internazionali
prevedono. Si dovr seguire pertanto un'altra strada per ottenere questo risultato. Tale strada viene
comunemente designata procedimento ordinario di adattamento, ove l'aggettivo ordinario sta ad
[87]

indicare che ad esso sarebbe possibile ricorrere in ogni caso, anche quando la norma internazionale
consenta l'impiego dei pi semplici mezzi di adattamento in precedenza esaminati. Il procedimento
ordinario consiste nell'emanazione di un provvedimento legislativo, che direttamente e specificamente
formula le norme idonee a porre nell'ordinamento italiano tutte le modifiche necessarie per adempiere
all'obbligo internazionale.
Si tratta di un meccanismo particolarmente oneroso per il legislatore, il quale potrebbe dare luogo ad
illeciti internazionali, ove non abbia provveduto a tutte le conseguenze rese necessarie
dall'adempimento all'obbligo internazionale.
Le norme interne con cui si provvede in via ordinaria all'adattamento non si distinguono in nulla dalle
altre norme interne. Esse non sono influenzate dalle vicende della norma internazionale, cui, talora, non
fanno neppure riferimento. L'estinzione o la modificazione della norma internazionale non provoca n
l'estinzione n la modificazione delle norme di adattamento interne, le cui vicende restano interamente
disciplinate dalle regole generali relative all'abrogazione e alla modificazione delle disposizioni
legislative. Quanto si ora detto non vale, qualora dal provvedimento interno di adattamento risulti una
diversa volont del legislatore.
opportuno segnalare che dalla prassi italiana non risulta una distinzione netta tra trattati relativamente
ai quali si provvede mediante ordine di esecuzione e trattati per i quali si ricorre al procedimento
ordinario. Ad un adattamento tramite entrambi i procedimenti il legislatore italiano ha fatto ricorso in
vari casi. A volte la stessa legge che d l'ordine di esecuzione contiene norme per l'adattamento in via
ordinaria dell'ordinamento italiano alle norme di un trattato internazionale.
In una sentenza del 1981 la Corte costituzionale ha poi precisato che il referendum abrogativo
inammissibile anche per le norme di adattamento in via ordinaria a un trattato internazionale, purch
nell'emanazione di esse non vi sia margine di discrezionalit quanto alla loro esistenza e al loro
contenuto.
13. L'adattamento alle norme derivate dai trattati e agli atti delle organizzazioni
internazionali.
Come avviene l'adattamento del diritto italiano alle norme prodotte da organi previsti da trattati, in
particolare da trattati che istituiscono organizzazioni internazionali (quali, ad esempio, le decisioni, di
grande rilievo politico, assunte dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite alla stregua del capitolo
VII della Carta)? La tecnica di adattamento seguita nella massima parte dei casi quella ordinaria con
l'emanazione di atti di legislazione interna che riformulano la norma internazionale.
Si pu peraltro sostenere che, ove le norme prodotte in base a meccanismi predisposti da trattati siano
self-executing, l'ordine di esecuzione dato alle norme del trattato sia sufficiente per produrre
nellordinamento interno le norme necessarie per dar luogo al necessario adattamento.
14. L'adattamento al diritto delle Comunit europee: il primato del diritto comunitario.
Una particolare posizione occupa, data l'importanza del diritto comunitario ed i problemi di
costituzionalit che si sono posti in proposito, il tema dell'adattamento del diritto italiano ai trattati
istitutivi delle tre Comunit europee (CECA, CEE, CEEA) ed alla normativa da esse emanata in base a
quanto previsto da tali trattati (c.d. diritto comunitario derivato).
L'Italia ha provveduto all'adattamento del suo ordinamento ai trattati istitutivi delle tre Comunit
europee mediante ordine di esecuzione dato con legge. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha
ritenuto che i trattati istitutivi delle Comunit europee rientrino nella previsione dell'art. 11 della Cost.,
che cos dispone: L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libert degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parit con gli
altri Stati, alle limitazioni di sovranit necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Il richiamo di tale
art. determina la conseguenza che, con l'ordine di esecuzione, le norme di adattamento alle regole
contenute nei trattati istitutivi delle Comunit europee vengono ad assumere una particolare posizione
che conferisce loro una resistenza speciale all'abrogazione da parte di norme di legge successive.
[88]

Una simile concezione, che porta ad attribuire una copertura costituzionale al diritto comunitario, il
punto di approdo di un'elaborazione teorica che ha visto tra fasi principali e che si caratterizza per un
completo ribaltamento della posizione assunta all'inizio. In un primo tempo, la Corte costituzionale,
con la sentenza n. 14/1964, ritiene che l'art. 11 non importasse alcuna deviazione dalle regole vigenti
in ordine all'efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei rapporti con gli altri Stati,
non avendo l'art. 11 conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il trattato, un'efficacia superiore a
quella propria di tale fonte di diritto.
Successivamente, con la sentenza n. 183/1973, la Corte costituzionale ritenne che la disposizione
dell'art. 11 della Cost. significa che, quando ne ricorrano i presupposti, possibile stipulare trattati i
quali comportino limitazione della sovranit, ed consentito darvi esecuzione con legge ordinaria. La
disposizione risulterebbe svuotata del suo specifico contenuto normativo, se si ritenesse che per ogni
limitazione di sovranit prevista dall'art. 11 dovesse farsi luogo ad una legge costituzionale.
Conseguentemente, la corte costituzionale dichiar l'illegittimit costituzionale, rispetto all'art. 11, di
alcune norme legislative italiane in contrasto con norme comunitarie. La Corte ritenne che le norme
italiane anteriori a quelle comunitarie, e con esse incompatibili, dovevano intendersi implicitamente
abrogate; qualora invece le norme italiane fossero successive a quelle comunitarie, e sempre con esse
incompatibili, il giudice italiano non avrebbe potuto direttamente disapplicarle, ma soltanto sollevare la
questione della loro legittimit costituzionale, da dichiararsi ad opera della Corte costituzionale.
In una terza e ultima fase, iniziata con la sentenza n. 170/1984, il primato del diritto comunitario sul
diritto interno, vale a dire l'obbligo del giudice di merito italiano di disapplicare immediatamente le
norme nazionali successive in contrasto con norme comunitarie, stato riconosciuto dalla Corte
costituzionale. Secondo la Corte, le norme derivanti da fonte comunitaria appartengono ad un
ordinamento diverso da quello statale e, se anche ammesse a ricevere diretta applicazione
nell'ordinamento italiano in forza dell'art. 11, rimangono estranee al sistema delle fonti interne: e se
cos , esse non possono, a rigor di logica, essere valutate secondo gli schemi predisposti per la
soluzione dei conflitti tra le norme del nostro ordinamento. Il giudice italiano prosegue la Corte
accerta che la normativa scaturente da fonte comunitaria regola il caso sottoposto al suo esame, e ne
applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al sistema dell'ente sovranazionale. Le
confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della
forza e valore che il Trattato [CEE] conferisce al regolamento comunitario, nel configurarlo come
atto produttivo di regole immediatamente applicabili. [] Precisamente, le disposizioni della CE, le
quali soddisfano i requisiti dell'immediata applicabilit (self-executing), devono, al medesimo titolo, entrare
e permanere in vigore nel territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata
dalla legge ordinaria dello Stato.
Il gi ricordato primo co. dell'art. 117 della Cost., come emendato nel 2001, sembra aggiungere una
nuova garanzia costituzionale all'adempimento degli obblighi comunitari. Eventuali leggi statali o
regionali che dessero luogo al mancato rispetto di norme comunitarie, oltre ad essere disapplicate pur
rimanendo in vigore, alla stregua della ora esaminata giurisprudenza, potrebbero infatti anche vedersi
abrogate in seguito a un giudizio specifico di costituzionalit per violazione indiretta dell'art. 117.
In una pi recente sentenza, la Corte costituzionale si riservata la competenza a verificare, attraverso
il controllo di costituzionalit della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato, cos come
essa interpretata e applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i
principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della
persona umana, definendo un tale contrasto come pur sempre possibile, bench sommamente
improbabile.
15. Segue: l'adattamento agli atti derivati dai trattati istitutivi delle Comunit europee.
La legge che ha dato esecuzione in Italia al trattato istitutivo della CE ha comportato il recepimento
anche dell'art. 249 di tale trattato, che definisce gli atti aventi natura normativa che gli organi comunitari
possono adottare per l'assolvimento dei loro compiti.
[89]

Il regolamento ha portata generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi ed direttamente applicabile
in ciascuno degli Stati membri. Ne discende che, per effetto del solo ordine di esecuzione relativo al
trattato CE, il nostro ordinamento risulta automaticamente modificato per adeguarsi ai regolamenti. Il
dubbio che in tal modo si introdurrebbe nel nostro ordinamento una fonte legislativa non prevista dalla
Cost. stato superato dalla Corte costituzionale rifacendosi all'art. 11 della Cost..
Ulteriore conseguenza di quanto detto che non occorrono appositi atti interni di recezione o di
adattamento: i regolamenti sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea ed entrano in
vigore, in tutti gli Stati membri, alla data da essi stabilita ovvero, in mancanza, nel ventesimo giorno
successivo alla loro pubblicazione. Quanto si detto non vale per per quei regolamenti che, per la loro
applicazione, richiedano di essere integrati con altre norme che il legislatore nazionale deve emanare.
Anche i regolamenti possono talora essere non self-executing, ossia, per usare l'espressione accolta dalla
Corte costituzionale, possono non presentare completezza di contenuto dispositivo.
La direttiva vincola lo Stato membro cui rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Sembra che nulla osti a
ritenere che, ove ci sia possibile, si abbia un adattamento automatico alle direttive, per effetto
dell'ordine di esecuzione del trattato CE, al pari di quanto avviene per i regolamenti. Questo pu
verificarsi nel caso delle cosiddette direttive dettagliate, di atti cio che, pur avendo la forma delle direttive,
contengono tutti gli elementi per poter venire direttamente applicati negli ordinamenti degli Stati
membri.
L'ordine di esecuzione al trattato istitutivo della CE consente di attribuire qualche effetto anche alle
direttive non dettagliate, come, in particolare, l'effetto consistente nel ritenere abrogate determinate
norme nazionali che, secondo la direttiva, dovevano essere abrogate entro un determinato termine
(quando il termine sia inutilmente decorso).
Le considerazioni finora svolte si applicano anche alla decisione, di cui siano destinatari gli Stati
membri. Il trattato CE si limita a dire che la decisione obbligatoria in tutti i suoi elementi per i
destinatari da essa designati e l'ordinamento interno potr ritenersi automaticamente adattato, nei limiti
in cui essa sia self-executing.
16. Adattamento al diritto internazionale e comunitario e competenze regionali.
L'art. 117 della Cost., dopo la riforma del 2001, nel prevedere, nel gi studiato primo co., che le regioni
esercitano la potest legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali pu vedersi come affermazione indiretta della proposizione che le regioni,
come qualsiasi organo in cui si articola lo Stato, sono tenute ad osservare gli obblighi derivanti dal
diritto internazionale.
La Cost., nella versione novellata del 2001 del titolo V, sviluppa questo concetto in alcune disposizioni
relative all'adattamento agli obblighi internazionali e comunitari da parte delle regioni e delle province
autonome.
Va sottolineato che la Cost., anche nella versione del 2001, nulla dice sulladattamento alle norme di
diritto internazionale consuetudinario relative a materie di competenza regionale. Si deve ritenere che
l'art. 10 della Cost. non faccia distinzione tra adeguamento a norme consuetudinarie su materie di
competenza statale e regionale. Esso provvede pertanto in modo automatico a conformare a quanto
previsto dalle une come dalle altre norme l'ordinamento giuridico italiano, recando all'ordinamento
stesso le modifiche necessarie al livello necessario e quindi, ove trattasi di materie di competenza
regionale, al livello del diritto regionale. Ci vale, ovviamente, quando si abbia a che fare con norme
consuetudinarie self-executing. Ove si abbia a che fare con norme internazionali consuetudinarie non self-
executing l'obbligo di adeguamento, previsto dall'art. 10, si concreter in norme di adattamento adottate
in forma ordinaria, per quanto di competenza delle regioni.
Storicamente, l'argomento pi forte invocato al fine di escludere o limitare il potere delle regioni di dare
esecuzione a norme contenute in trattati internazionali ed in atti comunitari anche nelle materie di loro
competenza consistito nel far valere che, ove tale potere venga loro riconosciuto, l'inadempienza di
una regione farebbe s che l'Italia commetta un illecito internazionale. Dal punto di vista
[90]

dell'ordinamento internazionale, come di quello comunitario, la responsabilit per inadempimento di un
obbligo internazionale spetta infatti allo Stato, e questo non pu invocare come scusante l'inerzia di una
sua suddivisione, quale una regione. cos che si sviluppata, nella legislazione italiana, attraverso un
lungo e faticoso processo, l'idea della potere sostitutivo dello Stato, in altre parole che lo Stato possa
sostituirsi alle regioni qualora esse siano inadempienti e nei limiti in cui lo siano. Il titolo V della Cost.,
modificato nel 2001, disciplina ora tale potere. L'art. 117, V co., prevede che lo Stato disciplina le
modalit di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza. L'art. 120, secondo co., dispone:
Il governo pu sostituirsi agli organi delle regioni, delle citt metropolitane, delle province autonome e
dei comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria
oppure di pericolo grave per l'incolumit e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela
dell'unit giuridica o dell'unit economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali.


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