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DIRITTO INTERNAZIONALE

INTRODUZIONE
Il diritto internazionale è il complesso delle norme giuridiche che regolano la convivenza
dell’umanità attraverso l’autorità di governo degli stati -> fa sì che l’umanità non precipiti nel
caos. Non c’è un’autorità superiore.

AUTORITÀ E NORME
Autorità: significa esercitare un potere che i consociati ritengono legittimo e meritevole di
obbedienza politica.
All’interno di uno stato l’autorità si estrinseca nei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
La legittimità può venir meno se una banda di politici usurpa le istituzioni dello stato, si arricchisce
a dismisura, reprime gli oppositori, controlla i media, ecc. La forza non equivale all’autorità.
Nel diritto internazionale non c’è un’autorità superiore universale (nemmeno l’ONU), ma c’è
comunque un ordine assicurato dagli Stati e non una situazione di caos.

Origine del sistema degli stati: esistevano già nel Vicino Oriente nel III millennio a.C., ma gli
stati nazionali europei nascono dopo la caduta dell’Impero Romano e soprattutto nel XV secolo
con la scoperta dell’America. Con la pace di Vestfalia nel 1648 nasce il “sistema di Vesfalia”, un
sistema di equilibrio anti-egemonico. Era imposto dall’alto e dunque maggiormente precario, ma
era libero e modellato continuamente dagli stati.
I confini tra gli Stati diventano più netti, non sono più aree ma linee. I sovrani sono alla pari nel
campo internazionale.
Si arriva alla completa distinzione di due ordini giuridici paralleli e complementari: diritto
interno e diritto internazionale.
I sovrani non hanno più potere sulle sue persone ovunque esse siano ma solo su chi si trova sul loro
territorio. Questo sistema doveva impedire la formazione di un’autorità egemonica totalitaria.
In un sistema fondato su questo tipo di equilibrio, ogni unità è responsabile della persistenza o del
crollo del sistema.

Norme (diritto):
Esistono, ma decentrate. Le tre funzioni dello stato in campo internazionale sono suddivise tra i
vari soggetti.

 Funzione legislativa (creazione delle norme internazionali): gli Stati, e non un parlamento,
creano le norme, attraverso:
 Consuetudini (primo grado) - Vincolano tutti, non sono scritte
 Trattati (secondo grado) - Vincolano i firmatari, sono scritte
 Altri meccanismi (terzo grado - es. atti vincolanti) -
Ogni grado è subordinato al grado superiore.
La consuetudine è il pilastro del Diritto Internazionale, mentre nel Diritto Interno è l’eccezione ed
è al fondo della gerarchia delle norme giuridiche. Tutto si fonda sulla norma consuetudinaria pacta
sunt servanda.

 Funzione giudiziaria (accertamento delle norme internazionali): esistono diversi organi


giudiziari (es. Corte internazionale di giustizia, corte penale internazionale, corte europea
dei diritti umani) ma la loro autorità si fonda sul loro riconoscimento da parte degli Stati,
ratificato nei trattati. Nessuno di questi ha un potere giudiziario assoluto. Dunque c’è un
sistema simile all’arbitrato, che negli stati è l’eccezione, ma nel D.I. è la regola. Questa
apparente imperfezione permette di non avere un Leviatano universale.
 Funzione esecutiva (attuazione coattiva delle norme internazionali): è possibile
l’autotutela, che nel diritto interno è l’eccezione. Nella pratica il ricorso ad essa è
infrequente, perché solitamente gli Stati sottopongono le loro controversie ad istanze
giudiziarie o arbitrali internazionali.
IL DIRITTO INTERNAZIONALE NELLA PRATICA
Nella pratica il D.I. funziona. Le norme sono tante, ciononostante le violazioni sono minime. Gli
stati, anche nelle proprie costituzioni, prevedono il rispetto del D.I.
L’esecutivo può non rispettare il diritto internazionale, ma i giudici dello stato sono tenuti a farlo.
Il fatto che ogni stato persegua i propri interessi non significa che questi vadano necessariamente
contro alle norme internazionali. Interessi politici e rispetto delle norme di D.I. non sono per
forza in opposizione. Tendenzialmente nel nostro mondo globalizzato l’interesse nazionale
coincide con quello globale.
È solo l’insieme che dà senso alle parti. L’esistenza di uno stato dipende dagli altri. Nessuno stato
si crea e si legittima da solo, dunque è il prodotto del diritto internazionale.
Teoria del sistema degli stati (gli stati si sono formati in Italia tra il 1340 e il 1450 d.C.): tutto il
pianeta e l’umanità appartengono a stati. Questo genera una pressione informale sugli stati:
nessuno vuole un carabiniere internazionale, dunque bisogna creare e rispettare il D.I.
Nel D.I. è importante la pressione del gruppo uti universi (in blocco) rispetto a un membro (uti
singuli).
Il DI come quello interno è un mito, un’invenzione di una collettività e non qualcosa di naturale,
che esiste di per sé. Ogni società immagina degli ordini superiori per far fronte alla precarietà
dell’esistenza.
Non conta quale sia il diritto ma come si contribuisce a far credere che sia questo o quello (es. diritti
neri, diritti animali)
Nel diritto sono importanti i fondamenti etici (il sostrato etico-pedagogico), se no questo non può
funzionare (es regole di convivenza umana, empatia, ecc.). Le punizioni sono solo per i delinquenti,
la maggior parte delle persone rispettano le leggi perché già rispettano delle regole morali non
scritte che le portano a comportarsi in maniera onesta. Anche nel D.I le norme derivano da dei
valori (ma non tutti i valori sono formalizzati in norme).
Se si parla di D.I. si intende quello pubblico (rapporto tra stati) e non il D.I. privato (regola
rapporti tra individui).

GIUSTIZIA E DIRITTO
Nella Carta dell’ONU si parla di Giustizia. Ma che cos’è la giustizia globale? Qual è il rapporto
tra la giustizia e il diritto?  Problema che ha risvolti pratici perché chi deve applicare il DI deve
rifarsi a un’idea di giustizia, il che è una questione controversa.
Due concezioni di giustizia: realista e idealista.
 Realista: la giustizia è una costruzione sociale, che dipende dalle volontà e dai bisogni
degli uomini. Non sempre tutti vedono un’equivalenza tra diritto e giustizia.
 Idealista: c’è un ideale assoluto di giustizia a cui il diritto deve ispirarsi. Crea uno spirito
cooperativo tra gli uomini.
Il diritto è in divenire ed è un mito perché ne facciamo parte. C’è il diritto così come è ora e il
diritto come dovrebbe essere in futuro (giustizia) ed è il risultato della nostra fede e del nostro
impegno.
Senso interiore di giustizia: la somma di ciò che ogni individuo ritiene giusto (senso interiore di
giustizia)  forma la giustizia della comunità. Dunque la giustizia esiste anche all’interno della sfera
psicologica di un individuo, come componente emotiva. Il diritto invece afferisce solo alla
collettività. Ma l’atteggiamento e l’impegno di ognuno ha il potenziale di diventare obiettività,
cambiando l’idea di giustizia collettiva e trasformandola in diritto. Senza un senso comune meta-
razionale di giustizia nessuna comunità può sopravvivere.
La giustizia solitamente è ciò che non c’è quando c’è una prevaricazione del più forte sul più
vulnerabile. È difficile definire cos’è la vulnerabilità: persone diverse potrebbero essere vulnerabili
interiormente per ragioni opposte. Inoltre la parte debole, una volta ottenuti privilegi, si trasforma
nel tempo in quella più forte.
Avere un senso interiore di giustizia contrastante con quello della collettività non significa che si
possa cambiare il diritto a proprio piacimento.

METODI DI ANALISI DEL DI


Per analizzare il DI ci sono diverse metodologie. Si ritiene che non ce ne sia una migliore di altre,
ma nell’utilizzarla bisogna essere coerenti.
Esempi di metodologie: orientata ai valori, umano-centrica (e non stato-centrica), progressista.

GLI STATI E LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE


(CAPITOLO I)
I soggetti nel DI sono gli Stati in quanto titolari di diritti e doveri. Sono composti da territorio,
popolazione e governo effettivo e indipendente. Non devono per forza essere democratici, anche se
esserlo è la tendenza.
Il termine “soggetto” può significare cose diverse in base all’accezione con cui lo si intende (per es.
un individuo è un soggetto internazionale ma non ha i diritti che hanno gli stati, come creare le
norme)
L’ONU inoltre è una persona giuridica internazionale, benché non sia uno stato.

LO STATO
Gli Stati sono il soggetto internazionale per eccellenza. Secondo la teoria classica erano gli unici
soggetti internazionali, oggi la tendenza è quella di riconoscerne anche degli altri.
Sono riconosciuti come soggetti internazionali (anche se con significati diversi):
 gli Stati
 le organizzazioni internazionali
 alcuni enti sui generis (es. Santa Sede e Croce Rossa)
 gli individui
I loro diritti e doveri sono però decisi dagli Stati quando creano norme.

Il modello di stato moderno risale al tardo medioevo. Nel 1899 alla Conferenza dell’Aja gli Stati
partecipanti erano 26, oggi ne esistono circa 200.

ELEMENTI DELLO STATO


Il DI definisce lo stato come:
“ente di governo effettivo e indipendente su una comunità territoriale”

Uno stato deve avere:


 un territorio che deve essere delimitato da confini
 una popolazione che deve essere stabile
 un governo effettivo e indipendente che deve essere riconosciuto dai suoi soggetti e non
deve dipendere dall’aiuto di altri stati

Nella Convenzione di Montevideo (adottata solo da USA e 15 stati latino-americani e quindi


giuridicamente irrilevante) si menziona come quarto elemento anche la capacità di intrattenere
rapporti con altri stati, che in parte corrisponde all’indipendenza del governo, ma indica anche la
capacità di interagire con gli altri stati.
La nazione (comunità legata da stessa lingua e cultura) non corrisponde allo stato. Uno Stato per
essere riconosciuto tale non deve essere una nazione, né ogni nazione forma uno Stato: una nazione
può andare oltre i confini dello stato e non è un soggetto di DI (ma può comunque venire protetta in
quanto minoranza).

 Il territorio
Si tratta di una porzione di terraferma delimitata da confini.
Il potere di un governo sul territorio è sempre pieno e non sfumato nelle zone più remote.
Non ci sono zone di vuoto di potere o zone “grigie” intermedie. Principio per cui tutti gli
individui ovunque si trovino devono essere governati da un’autorità.
I territori possono anche essere minimi, ma devono essere di origine naturale (es. non
possono essere una piattaforma artificiale).
I confini possono essere incerti e contestati.

 Il popolo
Deve essere composto da individui che risiedono stabilmente nel territorio. Non devono
necessariamente averne la cittadinanza, né il popolo deve essere omogeneo dal punto di vista
razziale, linguistico, tribale, religioso, ecc.
Ogni stato decide a modo proprio le norme su come si acquisisce la cittadinanza.
A titolo originario esistono:
 Jus sanguinis (figlio di genitori con la cittadinanza)
 Jus soli (nato sul territorio)
A titolo derivato:
 rapporti familiari (matrimonio, adozione, ecc.)
 naturalizzazione (determinati requisiti)
Ne deriva che possono sorgere casi di pluricittadinanza e apolidia.
La popolazione può essere minima ma deve essere permanente e avere un carattere
comunitario, intenso come condivisione di un destino comune.

 Il governo (effettivo e indipendente)


Il governo è l’elemento centrale in quanto tiene uniti gli altri due elementi.
L’esistenza di norme internazionali non sta erodendo o eliminando il potere dello Stato. Con la
globalizzazione lo stato in materia economica ha un margine di manovra ridotto. In altre materie
però non è così, come nel caso dei giudici statali. Le stesse multinazionali si rivolgono ai giudici
statali per la risoluzione di controversie. Più che di erosione si tratta di solito di collusione dello
Stato con i poteri privati (usare lo Stato per il proprio profitto).
Ius excludendi alios: lo stato governa solo ed esclusivamente sul suo territorio.

Effettività di governo: è la capacità di farsi obbedire (leggi, sentenze, ecc.) e di proteggere gli
individui dalla violenza altrui. Il grado di effettività richiesto deve garantire un livello minimo
di ordine pubblico  e di convivenza tra i cittadini.
Esiste uno stato se il governo è effettivo ma nessuno lo riconosce? Taiwan sì, come sentenziato
da alcuni giudici americani e per il fatto che è entrata nell’organizzazione mondiale del
commercio.
In mancanza di governo effettivo, è più difficile diventare uno stato che rimanere tale. Nella
prassi un failed o failing state continua ad essere riconosciuto come stato in prospettiva per
evitare vuoti di autorità.
Il default non implica il fallimento politico-istituzionale. Non esiste nel DI una procedura di
tutela dei creditori in caso di default.
Le organizzazioni internazionali e in particolare l’ONU si occupano sempre più di state
building, ovvero la ricostruzione di stati in forma democratica quando si verificano crisi di
effettività di un governo. In alcuni casi collaborano con le istituzioni locali, in altri
amministrano il territorio in maniera diretta. Raramente i tentativi di state building funzionano,
in quanto è difficile creare artificialmente la legittimazione politica.     
I governi in esilio non sono considerati effettivi. Tuttavia sono considerati i governi legittimi
dei rispettivi stati per motivi di cortesia e per il loro potenziale ritorno al governo.

Indipendenza: gli stati devono essere indipendenti non in senso fattuale (gli stati formano un
Sistema), ma in senso giuridico. Uno stato deve saper esercitare i tre poteri indipendentemente
e non in base a decisioni assunte da autorità esterne. Per i cittadini l’autorità politica suprema è
lo stato, per gli stati questa non esiste ma devono comunque rispettare il DI.
Gli stati membri di stati federali o le suddivisioni amministrativi non sono soggetti nel DI.
Se questi stipulano atti internazionali con stati esteri, si considera lo stato a cui appartengono
come responsabile.
Le confederazioni non sono soggetti nel DI perché gli stati rimangono indipendenti. Lo sono
quando diventano stati federali.
Se un governo dipende giuridicamente da un altro stato si parla di governo fantoccio, dunque
non indipendente. (es. Repubblica Turca di Cipro del Nord).
Al DI non interessa la legittimità interna della nascita di uno stato. è considerato legittimo
anche un governo che è nato violando la costituzione dello stato. È altresì vero che l’ONU di
solito riconosce i governi esistenti (eletti democraticamente) piuttosto che i ribelli.
Uno stato non deve essere necessariamente democratico, ma la tendenza è quella di tenere in
sempre più ampia considerazione la forma democratica di un governo nel considerarne la
legittimità. Spesso la mancanza di democrazia si accompagna a violazioni di diritti umani,
condannate dal DI.

DINAMICA DELLA STATUALITÀ


La statualità è dinamica non statica. Gli stati non nascono in un momento individuabile con
precisione. Cosa porta nel tempo alla nascita di uno stato? Un ente insurrezionale è un soggetto
internazionale?

RICONOSCIMENTO DI NUOVI STATI


Il riconoscimento o il non riconoscimento di un nuovo stato da parte di quelli pre-esistenti è una
prassi molto diffusa.
Vi sono due teorie:
 teoria costitutiva: il riconoscimento stesso crea la soggettività internazionale con un atto
giuridico - valore giuridico (es. Impero Ottomano riconosciuto dopo guerra di Crimea e
Jugoslavia riconosciuta dalla Comunità Europea)
 teoria dichiarativa: il riconoscimento si limita a constatare la soggettività internazionale
che è di per sé, è automatica quando lo stato risponde ai requisiti di indipendenza e
effettività - valore politico
La teoria dichiarativa è nettamente prevalente. Il riconoscimento indica solo l’intenzione di
intrattenere rapporti diplomatici, è un atto libero nel senso che uno stato può effettuarlo o meno
senza violare il DI e che il riconoscimento non produce la soggettività e il non riconoscimento
non la esclude. In alcuni casi atti vincolanti di Organizzazioni Internazionali possono vietare di
riconoscere situazioni illecite.
Vige il divieto di un riconoscimento prematuro di insurrezioni che il governo in carica sta
ancora cercando di reprimere.
Solitamente uno stato riconosce le leggi di diritto internazionale privato di uno stato non
riconosciuto ma con un governo effettivo, dunque le norme che regolano gli affari della vita di
tutti i giorni (come nascite, matrimoni, divorzi, attività commerciali, ecc.).
Sebbene il riconoscimento da parte della comunità internazionale non sia necessario alla
statualità di uno stato, è altresì vero che l’opinione degli stati incide su di essa. Dunque nella
prassi esiste un mix di teoria dichiarativa (prevalente) e costitutiva.
La speranza di un riconoscimento da parte della comunità internazionale spinge un sedicente
stato a rispondere ai requisiti di effettività e indipendenza.
Non è sempre chiaro se il riconoscimento o disconoscimento di un governo influisce anche sul
riconoscimento dello Stato (dato che è il governo ne è un elemento fondamentale) oppure no.

I MOVIMENTI INSURREZIONALI
Gli insorti nel periodo della rivoluzione sono soggetti internazionale nella misura in cui
detengono il potere effettivo su una parte di territorio. Se l’insurrezione ha successo gli
insorti acquisiscono la soggettività statuale, se falliscono verranno considerati ribelli e potranno
essere puniti dal governo come crede in base alle sue leggi, ma rispettando alcuni diritti
umanitari di base.
Se un movimento insurrezionale viene riconosciuto, a questo si applicheranno solo alcune delle
norme consuetudinarie che si applicano agli stati, tra cui:
 norme sulla conclusione di trattati internazionali (possono farli)
 norme sul trattamento degli stranieri e sull’immunità degli organi di stati stranieri (sul
territorio degli insorti)
 norme umanitarie sui conflitti internazionali e non
Non è ben chiaro se gli insorti abbiano diritto alle immunità diplomatiche.
Per quanto riguarda il pagamento dei danni:
 Se un’insurrezione fallisce il governo effettivo non deve pagarne i danni.
 Se ha successo il nuovo governo formato dagli insorti deve non solo pagarne i danni,
ma anche farsi carico di quelli causati dal governo precedente.
Si ritiene che gli stati possano intervenire in aiuto del governo legittimo ma NON degli
insorti, in quanto organizzazioni private. Nel 2014, benché il governo iracheno non fosse
effettivo, avendo perso ampi territori, il consiglio di sicurezza dell’ONU ha deliberato di
aiutarlo facendo prevalere ragioni di legittimità su quelle di effettività.
La tendenza nel valutare internazionalmente gli insorti o il governo legittimo è quella di stabilire
chi rappresenti le aspirazioni e le aspettative legittime del popolo, dunque senza guardare
esclusivamente l’effettività.

POPOLI IN LOTTA PER L’AUTODETERMINAZIONE


(CARTA ONU ART. 1 PARTE 2, 55, 56)
I popoli come elemento dello stato non sono soggetti internazionali. Ciò detto, è altresì vero
che dopo WW2 si è affermato il principio di autodeterminazione dei popoli per i popoli
come entità complessive non statali che aspirano a costituirsi in Stato indipendente. Il
principio di autodeterminazione dei popoli è:
 cogente (determina un obbligo inderogabile)
 erga omnes (vale per tutti i popoli)
Se, e solo se, un popolo è sottoposto a:
 dominazione coloniale
 segregazione razziale
 occupazione straniera
può formare uno stato, ovvero integrarsi ad uno già esistente.
Il DI aveva un occhio di riguardo per gli insorti negli stati coloniali mentre condannava  i
tentativi secessionisti al di fuori del processo di decolonizzazione.
I popoli che rientrano in queste categorie non sono terroristi internazionali per il DI, ma così
come qualsiasi movimento insurrezionale, sono terroristi per lo stato.
Questo principio non si applica né alle minoranze, né ai popoli indigeni. È irretroattivo: non
si applica ai periodi in cui non esisteva.
Nei casi di porzioni di terra che geograficamente appartengono a uno Stato ma sono occupate da
popolazione importata dalla madrepatria (Gibilterra e Falkland) gli stati devono procedere
tramite processi di mediazione.
Autodeterminazione interna: il popolo all’interno di uno stato deve essere rappresentato dal
suo governo. In realtà, il diritto alla forma di governo democratico o addirittura di secessione
solitamente non vengono accordati, eccezion fatta per gravi casi di violazioni di diritti
umani.
Questo diritto di autodeterminazione implica la soggettività internazionale dei popoli che ne
sono titolari?
La soggettività dei comitati di liberazione nazionale viene riconosciuta nella prassi, talvolta, in
maniera limitata. Es. Palestina
Solitamente gli si garantisce una qualche soggettività internazionale quando hanno una minima
forma di controllo sulla popolazione e nel territorio in cui dovrebbe costituirsi lo stato.

LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
Associazioni di Stati create con un trattato e provviste di organi propri. È uno dei modi che
gli Stati hanno per coordinarsi.
Storicamente iniziano nel XIX secolo (es. Commissioni fluviali e Unioni amministrative
internazionali). Dopo WW1 nasce la Società delle Nazioni con competenze nel campo della
sicurezza collettiva. Dopo WW2 aumentano in numero e alla SdN succede l’ONU, assistita da
diversi istituti specializzati (es. FAO, UNESCO, OMS, FMI). Inoltre si sono aggiunte altre
organizzazioni sia universali (WTO) che regionali (UE, NATO).
Le OI dipendono dagli stati, in quanto da essi create. Oggi però hanno una crescente influenza,
soprattutto quando sono dotate dagli Stati stessi di autonomia.
Influiscono sui processi di creazione del DI e contribuiscono a realizzare i valori comuni
dell’umanità, riuscendo a imporre la propria volontà agli Stati.
L’autonomia è maggiore quando:
 l’organizzazione è composta da individui indipendenti dagli stati
 i suoi organi possono adottare atti giuridicamente vincolanti
 quando esiste un organo rappresentativo dei popoli degli stati membri (es. Parlamento
Europeo)
 quando l’organizzazione ha un ordinamento interno proprio
 quando l’organizzazione ha risorse finanziarie proprie
Un esempio di OI autonoma è l’Unione Europea.

DISTINZIONE DA ALTRE FORME ASSOCIATIVE DI RILIEVO INTERNAZIONALE


 ONG: sono internazionali ma non sono OI perché sono create da privati mediante un
atto in ciascuno Stato in cui operano e non dagli Stati per mezzo di trattati. Non sono
regolate dal DI ma dal diritto dello Stato in cui operano.
 Altre associazioni (riunioni di organi, rappresentanza di stati da parte di altri e organi
comuni): gli atti sono imputati ai singoli Stati, mentre nelle OI agli organi propri
dell’OI.
 Le imprese internazionali: sono imprese create sì da Stati ma disciplinate dal diritto
dello Stato in cui hanno sede.

SOGGETTIVITÀ INTERNAZIONALE DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI


In passato alle OI non si riconosceva la soggettività internazionale (e derivanti diritti e
obblighi), benché c’erano state eccezioni illustri come la Società delle Nazioni. Oggi nelle
prassi la loro soggettività viene sempre riconosciuta anche se è una soggettività limitata sia
perché è limitata solo ad alcune Associazioni, sia perché è limitata solo ad alcune norme.
Nel 1949 nel caso sulla Riparazione dei danni la Corte Internazionale di Giustizia riconobbe la
soggettività dell’ONU. Ciò non equivaleva a dire ovviamente che l’ONU era uno stato, con
altrettanti diritti e doveri, né un super-stato, ma solo un soggetto con diritti e doveri
internazionali che poteva avanzare reclami internazionali.
La soggettività dell’ONU doveva essere riconosciuta da tutti e non solo dai suoi membri in
quanto nell’ONU c’era la grandissima maggioranza degli Stati.
Successivamente la CIG ha esteso la soggettività internazionali alle OI in genere.
Per es. nel 2007 nel caso Behrami la Corte europea dei diritti umani ha imputato all’ONU (per
le sue azioni in Kosovo) alcune responsabilità per atti compiute da forze appartenenti in quegli
stati.
In generale negli ordinamenti interni le OI sono riconosciute come soggetti internazionali.
In quello italiano vige anche per le OI il principio “Par in parem non habet iudicium”,
applicato agli stati, per il quale non si ha giurisdizione tra eguali.
Come si manifesta tale soggettività internazionale?
 possibilità di concludere accordi con stati membri o terzi e altre organizzazioni
internazionali
 possibilità di entrare in altre OI tramite trattati
 immunità dalla giurisdizione civile
 applicazione alle OI del diritto internazionale umanitario (questione discussa)

SOGGETTIVITÀ INTERNA
La soggettività interna è diversa. Solitamente le OI impegnano gli Stati Membri a riconoscere
l’organizzazione come persona giudica. Le OI possono anche stipulare accordi con Stati terzi
in merito a questi diritti. Il problema va risolto in base alle norme interne.
Le soluzioni accolte nel diritto interno al fine della responsabilità civile delle OI non possono
estendersi automaticamente alla loro responsabilità internazionale.

L’ ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE


Nata dopo la WW2 con lo scopo di garantire la pace mondiale. Fu realizzata per sostituire la
SdN e si fonda sulla Carta (Charter) firmata il 26/06/1945 a San Francisco da 51 firmatari
originari. Oggi ce ne sono 193. L’Italia ne è membro dal 1955.
Requisiti per l’ammissione (art. 4 parte 1):
 essere uno stato nel senso del DI
 accettare gli obblighi della Carta ed essere capace e disposto ad adempierli
 essere “amante della pace”
L’ammissione all’ONU costituisce una certificazione dell’effettiva statualità di un ente. Enti non
qualificabili come stati per il DI possono diventare osservatori senza diritto di voto.
La procedura di ammissione (art. 4 parte 2):
 proposta del Consiglio di Sicurezza (maggioranza di 9 membri di cui i 5 permanenti che
hanno diritto di veto)
 decisione dell’Assemblea Generale a maggioranza di ⅔ dei membri presenti e votanti

Sospensione, art. 5
- totale (mai accaduta), quando uno stato è oggetto di un’azione preventiva o coercitiva del
Consiglio di Sicurezza. Perde temporaneamente tutti i diritti.
- parziale (sporadica): quando uno stato non versa i contributi all’ONU  e l’arretrato è uguale
o superiore all’ammontare dei due anni precedenti. Perde il diritto di voto nell’Assemblea e la
sospensione opera automaticamente.
Espulsione, art. 6 (mai accaduta): quando uno stato membro è accusato di aver commesso una
“violazione persistente” della carta.

Recesso: la Carta non si pronuncia in merito. L’Indonesia però è di fatto receduta per qualche
anno.

ORGANI DELL’ONU
 Assemblea generale
 Consiglio di sicurezza
 Segretariato
 Corte internazionale di giustizia
 Altri (consiglio economico e sociale, consiglio di amministrazione fiduciaria)
Assemblea e consiglio possono istituire organi sussidiari.

 Assemblea generale:
composta da tutti gli stati membri. Ogni stato membro ha un voto. Ogni stato può avere
cinque delegati. Delibera a maggioranza semplice per le questioni non importanti,
qualificata (due terzi) per le questioni importanti. La maggioranza è sempre dei presenti e
votanti. Però se si tratta di emendamenti e revisioni della carta la maggioranza è di tutti
membri. Le astensioni sono escluse nel computo della maggioranza.
Adotta raccomandazioni (atti non vincolanti con natura esortativa) sulle materie di
competenza dell’ONU, in particolare la risoluzione pacifica delle controversie.

 Consiglio di sicurezza
5 membri permanenti: Cina, Federazione Russa, Francia, Regno Unito, Stati Uniti
10 membri non permanenti eletti ogni due anni dall’Assemblea a maggioranza di due terzi
dei membri presenti e votanti.
Criteri per l’elezione:
 contributo dei membri al mantenimento di pace e sicurezza
 equa distribuzione geografica
La rotazione non è egualitaria, alcuni paesi non sono mai stati eletti e altri lo sono stati
diverse volte.
Per le questioni procedurali è necessaria la maggioranza di 9 membri qualsiasi. Per
questioni non procedurali serve la maggioranza di nove membri di cui cinque
permanenti (che hanno diritto di veto), Nella prassi gli atti sono adottati anche con
l’astensione di uno o più membri permanenti.
Adotta decisioni (atti giuridicamente vincolanti) in merito al mantenimento della pace e
della sicurezza internazionale.

 Segretariato
Composto dal Segretario Generale  (nominato da AG su proposta del CdS) e funzionari
dell’organizzazione.

 Corte internazionale di giustizia


Emana sentenze vincolanti riguardo a controversie tra Stati e pareri consultivi.

 Consiglio economico e sociale


Composto da 54 membri eletti per tre anni. Si riunisce sotto la direzione dell’Assemblea e
delibera a maggioranza dei presenti e votanti. È coadiuvato da organi sussidiari. È tenuto
a invitare i membri interessati dalle sue deliberazioni.
 Consiglio di amministrazione fiduciaria
Serviva per governare i territori non autonomi. Ora sta per venire cancellato male.

Le Nazioni Unite non devono interferire negli affari interni degli stati (così come uno stato
non può interferire negli affari interno di uno stato). Si ritiene generalmente che nella
giurisdizione interna rientrino tutte le materie che non sono di competenza del DI. Per
quanto riguarda la Carta, sono possibili emendamenti e revisioni:
 Emendamenti: Assemblea deve adottare l'emendamento a 2/3 e il Consiglio deve
ratificare a 2/3 compresi i 5 membri permanenti (che anche in questa materia hanno
diritto di veto)
 Revisioni: L’assemblea generale e il consiglio di sicurezza indicono una conferenza ad
hoc.

SANTA SEDE, ORDINE DI MALTA E CROCE ROSSA


La Santa Sede è riconosciuta da tutti gli stati come soggetto internazionale. Ci sono dubbi
maggiori per quanto riguarda la soggettività internazionale dell’Ordine di Malta e la Croce
Rossa.
Per la Santa Sede e l’Ordine di Malta essere soggetti internazionali implica immunità dalla
giurisdizione civile e immunità fiscale.

 La Santa Sede è l’unica organizzazione religiosa al mondo ad essere considerata un


soggetto internazionale da tutti gli stati (anche quando era priva di territorio dal 1870 al
1929) sin dall’inizio dell’età moderna (Stato Pontificio). Monarchia assoluta in cui il Papa
è la suprema autorità di governo della chiesa cattolica e suprema autorità politica dello stato
del Vaticano fondato nel 1929 con i Patti Lateranensi.
La Santa Sede può concludere accordi internazionali sia bilaterali che multilaterali, ha
diritto all’immunità dalla giurisdizione civile e privilegi spettanti agli stati stranieri, e
partecipa a conferenze e organizzazioni internazionali ed è osservatore senza diritto di
voto all’ONU e al Consiglio d’Europa. Intrattiene relazioni diplomatiche con altri Stati.

 L’Ordine di Malta è un ordine religioso dedito ad opere medico-assistenziali, da lungo


tempo non governa territori (prima Rodi e Malta) quindi non è uno Stato. La sua sede è in
Italia.
È considerato un soggetto di diritto internazionale e intrattiene relazioni con vari stati
ed enti. È osservatore all’ONU. In Italia con un accordo del 2012 viene trattato al pari degli
altri stati.
La soggettività internazionale dell’Ordine è però criticata da molti con diversi
argomenti.

 Croce rossa: parte della dottrina la ritiene un soggetto internazionale perché intrattiene
rapporti con gli Stati, stipula trattati e gli vengono riconosciuti alcuni privilegi come
quello di non rivelare in giudizio le informazioni in suo possesso, ma questi elementi non
sono sufficienti a garantirne la soggettività (il comitato è in sostanza un’organizzazione
privata operante transnazionalmente su incarico degli Stati).

INDIVIDUI
Benché il DI sia solitamente orientato agli Stati, il suo fine ultimo è quello di garantire la
convivenza pacifica tra individui.
Nel DI classico gli individui non erano soggetti ma oggetti di diritto internazionale, nel senso
che le norme che li tutelavano (in particolare la protezione diplomatica) erano rivolte agli Stati e
loro ne erano meramente i beneficiari.
Con la globalizzazione sono state create più norme internazionali regolanti gli obblighi degli
stati nel governare gli individui, dando a quest’ultimi diritti da far valere contro gli Stati
trasgressori.
Gli individui sono soggetti di diritto internazionale anche se non ne creano le norme, così
come avviene nel diritto interno, almeno secondo l’opinione predominante. La definizione di
soggettività internazionale è dibattuta.

I diritti e gli obblighi verso gli individui riguardano sostanzialmente i diritti umani. Questi,
sanciti da trattati tra Stati, apparentemente coinvolgono solo questi ultimi. Dato che però sempre
più spesso questi diritti hanno un carattere procedurale (anche per persone giuridiche, società
commerciali, associazioni, ecc.), si può dire che gli individui siano direttamente coinvolti e
non solo meri beneficiari, dato che possono far valere i propri diritti indipendentemente
dalla volontà dagli Stati.
Secondo alcuni anche alcune norme del DI Umanitario (afferente alla protezione delle vittime
di guerra e dei conflitti armati) attribuirebbero diritti agli individui.
Per quanto concerne gli obblighi, vi è il divieto da parte degli individui di commettere
crimini internazionali (es. Norimberga). La dottrina tradizionale, tuttavia, ritiene che si tratti di
un obbligo per gli Stati di punire internamente questi crimini. Però questi crimini vengono
comunque sempre puniti a livello internazionale, quandanche non previsti dal diritto
interno dello stato di appartenenza del criminale.

Anche gli attori non-statali (es. ONU, Banca Mondiale, imprese multinazionali, gruppi
terroristici, ecc.) sono tenuti a rispettare i diritti umani.

In genere il DI lascia che gli Stati si occupino di punire le violazioni di diritti umani.
Qualora lo stato non lo faccia, è giusto che le violazioni non rimangano impunite e dunque
può intervenire il DI.

È dubbio se questo giustifica i privati (soprattutto le imprese) a attivare arbitrati internazionali


contro Stati stranieri per questioni patrimoniali. Mentre i diritti umani contrappongono gli
individui a propri Stati nazionali, le controversie in materia di investimenti esteri rientrano
nei rapporti inter-statali.

Le norme sui rapporti di lavoro nelle OI presuppongo la soggettività dei funzionari. Alcuni
ritengono che le norme sui funzionari internazionali facciano capo a un ordinamento proprio,
distinto da quello statale e internazionale.
Anche alcune norme del diritto dell’UE, che sembrano presupporre la soggettività degli
individui, derivando di fatto da trattati internazionali, si ritiene facciano comunque parte di un
ordinamento distinto.

In conclusione, non c’è motivo di escludere la soggettività degli individui, fintanto che
questa è regolata da norme create dagli Stati.

IMPRESE MULTINAZIONALI
Le multinazionali per il diritto sono società che hanno un’impresa madre in uno Stato e filiali
in altri. Ogni filiale è regolata dal diritto dello Stato in cui si trova.
A favore della soggettività vi è l’idea che le multinazionali spesso sono più potenti degli Stati.
È indubbiamente vero che sia necessario disciplinare le imprese in campo internazionale per
evitare violazioni di diritti umani e di legislazioni nazionali (es. penali fiscali, ambientali,
protezione dei lavoratori), ma:
 questa urgenza non rende le imprese multinazionali soggetti internazionali
 è comunque difficile considerare le multinazionali enti unitari
 anche se sono più potenti di micro-stati non hanno le loro stesse funzioni e competenze
Non ci sono norme giuridiche rivolte alle multinazionali in quanto tali, ma solo verso persone
giuridiche.
Alcuni rivolgono l’attenzione agli accordi che le Multinazionali firmano con gli Stati dicendo
che si tratti di trattati internazionali, ma in realtà la dottrina prevalente li considera contratti di
diritto privato.
Benché non esistano norme giuridicamente vincolanti rivolte alle multinazionali in campo
internazionale, esiste la cosiddetta Soft Law, ovvero “codici di condotta” sul rispetto dei
diritti umani e altri (es. Global Compact, firmato da più di 12.000 le multinazionali, che
presenta 10 principi che le multinazionali devono osservare).
Infatti si parla di “responsabilità sociale dell’impresa”, ovvero la responsabilità nei confronti
del bene comune e non solo degli azionisti.
Si tratta di una strategia di marketing e in ogni caso è una scelta volontaria delle
multinazionali.
I metodi per ridurre gli abusi delle multinazionali passano attraverso gli obblighi internazionali
degli stati o strategie di contro-marketing. Per questo motivo le multinazionali non sono
soggetti internazionali.

COMUNITÀ INTERNAZIONALE E GLOBAL GOVERNANCE

Che cosa si intende per comunità internazionale? Chi ne fa parte?


Nel diritto interno lo Stato è un soggetto giuridico. Nel diritto internazionale la comunità
internazionale non è un soggetto giuridico. Il termine è molto ambiguo. In base alla
situazione “comunità internazionale” assumerà diverse accezioni. Di seguito le varie accezioni:
1. Nella Convenzione di Vienna del 1969 si fa riferimento a una “comunità
internazionale di stati nel suo insieme”, come se esistesse una comunità di stati
superiore alla somma delle sue parti.
2. In altri casi (come Barcelona Traction del 1970) si parla “comunità internazionale nel
suo insieme”, includendo le OI e gli individui, dunque tutti i soggetti internazionali.
3. Un’altra accezione include tutti gli attori internazionali anche se non soggetti
internazionali (es. Croce Rossa, ONG, Multinazionali), in quanto hanno un ruolo
significativo nello scenario globale.
4. Una “comunità universale di individui”, ovvero l’intera umanità. È una visione
problematica perché ci sono più civiltà e più significati di “ciò che è comune” e “diritto
naturale universale”
5. Una comunità solidale internazionale, composta da tutti gli attori capaci di aiutare
altri esseri umani colpiti da catastrofi naturali o umanitarie.
6. La comunità di stati più forti e le forze prevalenti, che sono capaci di imporre e
garantire il diritto internazionale mediante principi costituzionali superiori alla
consuetudine e ai trattati
7. Comunità universale rappresentata unilateralmente: l’opinione unilaterale di certi
Stati o certe organizzazioni internazionali o attraverso il consiglio di sicurezza
dell’ONU. (es. l’attacco in Jugoslavia, “inteso a sostenere gli scopi della comunità
internazionale” secondo il Seg. Gen. della Nato, in realtà era opposto da paesi che
rappresentavano metà dell’umanità)

Tutte queste accezioni, a parte l’ultima, contengono una parte di verità.


È indubbia la necessità di una comunità di Stati in quanto unici enti in grado di garantire un
governo alle comunità territoriali. È altresì vero che esiste una comunità più grande di quella
inter-statale, in cui le OI e gli individui  possono influenzare gli Stati per evitare che questi
perseguano i loro fini privati. Se aggiungiamo le ONG al quadro globale si crea una rete di
interazione che può definirsi “comunità internazionale”.

È vero che esiste una competizione (politica, economica, militare, culturale) tra gli stati, è
altrettanto vero che ai fini di evitare il caos bisogna adottare una visione universalistica. Gli
interessi degli Stati e dell’umanità non sono in contrapposizione, sono tuttavia i primi in
grado di perseguirli. Individui e ONG possono influenzarli tramite il consenso o dissenso
politico. L’interazione tra loro è la governance globale.
CREAZIONE INTERSTATALE E APPLICAZIONE INTRASTATALE DELLE NORME
INTERNAZIONALI
(CAPITOLO II)

NORME INTERNAZIONALI GENERALI


Che cosa si intende per diritto internazionale e in che modo gli stati lo applicano al loro interno?
Bisogna determinare quali sono le “fonti” di DI, ovvero il modo in cui vengono create le
norme. La fonte ultima è il consenso degli stati.
L’art. 38 dello statuto della Corte Internazionale di Giustizia viene usato per individuare le
fonti che devono utilizzare i giudici nel risolvere le controversie.
Nel par. 1 sono individuate le seguenti fonti:
 trattati
 consuetudini
 principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili
 decisioni giudiziarie e la dottrina (mezzi sussidiari)
Nel par. 2 aggiunge che si può risolvere una controversia utilizzando il principio ex aequo et
bono (ovvero per equità, disapplicando le norme esistenti), a patto che le parti lo consentano.
Talvolta vengono anche incluse le dichiarazioni unilaterali degli stati (ovvero quando uno
stato dichiara la volontà di vincolarsi), le quali creano obblighi giuridici indipendentemente
dall’accettazione degli altri.

LE CONSUETUDINI
Il DI è essenzialmente consuetudinario: la consuetudine non dipende da nessun’altra fonte (è
un fenomeno a formazione spontanea), tutte le altre dipendono dalla consuetudine (ovvero come
si è sempre comportata la maggioranza e come ci si aspetta si comportino gli altri Stati anche in
futuro).
La consuetudine è una fonte di primo grado, i trattati una fonte di secondo grado, perché il
rispetto dei trattati dipende dalla consuetudine. In caso di conflitto i trattati possono prevalere
sulla consuetudine, se la consuetudine così stabilisce.
La consuetudine è creata dagli stati uti universi (intesi nel loro insieme) e imposta sugli stati
uti singuli (intesi singolarmente), anche quelli che non sono d’accordo. Anche gli stati più forti
devono far fronte alla pressione degli Stati nel loro insieme verso l’osservanza delle norme
comuni.
Tutti gli Stati accettano di essere involati dalla consuetudine.
Spesso si parla di “norme emergenti” o in “via di formazione” quando si prende atto di
trasformazioni o si promuove la prassi internazionale. Non va comunque strumentalizzato
questo uso per “spacciare” come diritto vigente alcune isolate manifestazioni della prassi.
È importante sapere chi controlla le fonti, così come nel diritto interno anche nel diritto
internazionale. Il diritto scritto è controllato da chi ha il potere di scriverlo e dai suoi interpreti
ufficiali; il diritto non scritto è controllato da chi contribuisce con il proprio comportamento ma
anche da chi interpreta la prassi generale (giuristi, giudici).

NOZIONE DI CONSUETUDINE INTERNAZIONALE


La teoria più accreditata è quella dualistica che descrive la consuetudine individuando due
elementi, uno oggettivo e uno soggettivo, che devono essere presenti entrambi:
 Usus (oggettivo): la prassi, un comportamento costante e uniforme da parte della gran parte
degli Stati. La norma viene quasi sempre rispettata e da quasi tutti gli stati.
 Opinio Juris (soggettivo) - convinzione dell’obbligatorietà e, in alcuni casi,
dell’importanza sociale di un comportamento. Una norma viene rispettata perché sentita
come giuridicamente obbligatoria e non per ragioni di convenienza, opportunità, casualità,
ecc.
Ci sono anche teorie monistiche (danno più importanza ad uno dei due elementi) che hanno
meno sostenitori ma restano attuali.
La teoria dualistica è stata ribadita sia nella giurisprudenza internazionale che statale.

 Usus
L’usus è individuabile:
 negli atti materiali (soprattutto coercitivi)
 nelle dichiarazioni degli Stati, purché non palese propaganda, non isolate e non smentite
dai comportamenti
 prassi giudiziaria e legislativa nazionale (immunità diplomatiche, immunità
giurisdizionale degli Stati stranieri, ecc.)
 inazione e silenzio (es. gli stati non invadono gli altri stati. È comunque fondamentale
l’opinio juris: questo comportamento è seguito perché invadere altri stati si ritiene vietato,
non per altri motivi o per puro caso)
 trattati internazionali  (molti trattati confermano la consuetudine. di regola però ne sono
eccezioni).
Anche le OI sono rilevanti nella prassi, ma di solito si escludono gli individui e altri attori non
statali.

Diuturnitas: la prassi deve essere costante e ripetuta nel tempo, non si può formare
istantaneamente (ipso facto) al momento di adozione di una risoluzione dell’Assemblea
generale dell’ONU. Non è chiaro quanto tempo debba passare affinché una prassi diventi
consuetudine: deve passare un minino di tempo, ma non è necessario che sia in uso da tempo
immemorabile.

Uniformità e diffusione: la prassi deve essere seguita da un numero sufficiente (la


“generalità”) di Stati, certamente non uno solo (per quanto forte e influente) ma non
necessariamente tutti (come si riteneva in passato). Non è chiaro quale sia il numero o la
percentuale necessaria, si tratta di una “percezione collettiva”.
Ci sono norme che toccano solo i cosiddetti stati “specially affected” (es. posessori di armi
nucleari o che si affacciano sul mare). In questi casi la prassi non può essere generalizzata. È
diventa ancora più importante l’opinione degli altri Stati, in quanto una minoranza di stati non
può prendere decisioni da sola. Questi Stati però possono bloccare le decisioni di tutti gli altri
Stati, in quanto quelli toccati sono loro (es. gli Stati nucleari possono opporsi al divieto di uso
delle armi nucleari).
In alcune sentenze si fa prevalere la qualità della prassi sulla quantità, ovvero non solo
quanti stati ma anche quali stati partecipino alla prassi. Questo può dare origine ad
opportunismi da parte dei giudici.

 Opinio juris ac necessitatis


L’opinio degli Stati deve risultare da dati e atti o documenti oggettivi (dichiarazioni, leggi,
sentenze statali). A volte è lo stesso materiale usato per individuare l’usus, ma questo attiene
semplicemente alla rilevazione del comportamento in sé, mentre l’opinio attiene alla
rilevazione dell’atteggiamento soggettivo dello stato e quindi consiste nell’accertare se vi sia
la convinzione che la prassi sia obbligatoria in base al DI vigente o necessaria ai fini di una
norma futura.
A volte alcune norme non scritte sono “di cortesia” (comitas), come nel cerimoniale e nel
protocollo; in questi casi c’è assenza di opinio, dunque non si tratta di norme giuridiche
consuetudinarie.
Ma il primo Stato che adotta un determinato comportamento è in errore, pensando che si tratti
di un obbligo giuridico (opinio juris)? Questo paradosso è superato grazie all’opinio
necessitatis: tale comportamento non è giuridicamente obbligatorio ma viene comunque
adottato perché sentito come moralmente o socialmente necessario. Quando il comportamento
“morale” diventa diffuso nella prassi (e quindi l’usus si affianca all’opinio), si arriva alla
consuetudine.
OPINIO NECESSITATIS (uno o più stati
ritengono un comportamento
moralmente e socialmente dovuto o
necessario)

USUS (la generalità degli stati adotta tale


comportamento ripetutamente)

OPINIO JURIS (la generalità degli stati


ritiene tale comportamento obbligatorio
giuridicamente)

FORMAZIONE DI UNA NORMA


CONSUETUDINARIA APPLICATA A TUTTI

La consuetudine è misteriosa ed è difficile rivelarla oggettivamente, ma questo è inevitabile a


causa della sua stessa natura. Ha una natura intrinsecamente sociale (radicata nel
comportamento primordiale della specie umana), in quanto fenomeno di gruppo che fa leva
sulla ripetizione, sull’aspettativa e quindi genera prevedibilità. È anche un processo
trasformativo del diritto e segue la logica della “profezia che si autoavvera”. I giudici
possono allinearsi a tutti gli altri o scommettere su un allineamento generale futuro.

Talvolta la dottrina esalta l’elemento dell’opinio mettendo in secondo piano l’usus. Benché sia
importante l’impulso propulsivo per rendere il DI più giusto in futuro (e il confine tra realtà
attuale e potenziale è molto più sfumato nel DI che nel diritto interno), è fondamentale
guardare al diritto oggettivamente vigente. Dare troppo peso all’opinio può, per esempio,
portare le grandi potenze a imporre i propri interessi momentanei in nome della necessità e della
giustizia universale, alimentando il diffuso senso di artificiosità del DI e facendolo sembrare il
riflesso momento per momento della volontà degli Stati dominanti.
Non bisogna confondere la consuetudine con il diritto naturale e una presunta morale
universale, che non sono fonti di DI. Se la prassi è contraria a un principio morale o umanitario
o a un valore è difficile sostenere che il principio sia di diritto vigente (ma si può comunque
sostenerlo per farlo affermare in futuro). Se la prassi è dubbia o assente, il principio morale è
più rilevante, soprattutto se ci sono prese di posizioni autorevoli (es. risoluzioni unanimi
dell’Ass. Gen. Onu). In caso di controversia in cui la prassi è dubbia o assente, il giudice ha un
margine di giudizio e può creare un precedente, basato su principi morali personali. I giudici
devono però ricordarsi che il diritto è imposto dai più forti, spesso con il
sostegno/acquiescenza della massa e può essere usata per schiacciare i deboli. Però se è
accettato dai suoi destinatari, non è importante che sia morale, benefico, logico, sano. Il
giurista, per quanto illuminato, deve accettarlo e applicarlo e, se così crede, battersi per uno
diverso.

AMBITO DI EFFICACIA DELLA CONSUETUDINE INTERNAZIONALE


 Consuetudini generali
La consuetudine di norma regola tutti gli Stati e non solo quelli coinvolti nella sua
formazione e nel caso di alcuni atti (come i trattati), regola a quali condizioni sono coinvolte
solo le parti contraenti.
Le consuetudini si applicano anche agli stati nuovi e a quelli che si sono opposti ad esse
sin dal momento della loro formazione.

 Consuetudini particolari
Anche se le consuetudini hanno di norma carattere generale, esistono nella prassi delle
consuetudini particolari o speciali, che vincolano una cerchia ristretta di stati.
Possono essere:
 di tipo geografico: vincolano due o più stati della stessa area geografica. Sono
ammesse in astratto ma non sono mai state applicate nella prassi. L’onere della prova per
queste consuetudini spetta allo stato che le invoca ed esse prevalgono sulle consuetudini
generali.
 modificatrici (o integratrici) di un trattato istitutivo di un’organizzazione
internazionale: vincolano solo gli stati membri dell’organizzazione. Sono state
accettate dalla Corte Internazionale di Giustizia in merito all’astensione dei membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza, per cui le decisioni possono essere adottate anche
con la loro astensione. Sono state invece rifiutate dalla Corte di Giustizia delle Comunità
europee, secondo la quale una prassi contraria a quanto stabilito in un trattato deve
considerarsi illegittima.

Quando le consuetudini particolari riguardano solo due stati, la differenza con dei semplici
accordi è sottile, mentre in tutti gli altri casi queste norme hanno le stesse caratteristiche di
quelle generali.
È comunque sempre la consuetudine generale a determinare i criteri secondo i quali viene
accertata l’esistenza di una norma consuetudinaria particolare.

CODIFICAZIONE E SVILUPPO PROGRESSIVO DELLA CONSUETUDINE


La consuetudine è principalmente non scritta, ma è possibile codificarla, ovvero scriverla in
norme contenute nei trattati. Ci sono stati tentativi di farlo da parte della SdN, dell’ONU, ma
anche di studiosi e istituzioni private.
L’art 13 della Carta ONU deroga il compito di codificare e sviluppare il DI consuetudinario
all’Assemblea Generale, che ha creato la Commissione del diritto internazionale, affinché se
ne occupi. Molti dei suoi progetti di codificazione sono stati adottati e ratificati dagli stati,
mentre altri sono rimasti semplici progetti o linee guida.
Gli accordi di codificazione valgono solo per chi li ratifica, a meno che non risulti che
effettivamente codificano il diritto consuetudinario. Gli accordi di codificazione possono anche
porsi lo scopo dello sviluppo progressivo del DI consuetudinario, nel senso che possono
essere inserite in un trattato delle norme che si spera diventino consuetudini, cosa che accadrà
solo quando ci saranno usus e opinio juris.
Se una norma consuetudinaria contraddice quanto scritto in un trattato precedente all’esistenza
della norma, si tende a ritenere che prevalga la consuetudine (perché più recente), ma solo se
gli stati in questione hanno partecipato alla sua formazione o l’hanno ritenuta applicabile.

PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO RICONOSCIUTI DALLE NAZIONI CIVILI


Nell’art. 38 par. 1 dello Statuto della CIG si fa menzione dei “principi generali di diritto
riconosciuti dalle nazioni civili” oltre ai trattati e alla consuetudine. Se ne parla nel par. 3.
Problema: il diritto naturale (senso universale di giustizia) può colmare le lacune del diritto
positivo? Il termine principi generali di diritto si presta a varie interpretazioni e riflette un
approccio costituzionalistico.

LAVORI PREPARATORI
Durante i lavori di redazione dello Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale
(in seno allo Società delle Nazioni) vi fu un dibattito tra il presidente Descamps e un giurista
Root. Il primo caldeggiava l’inserimento di “norme di diritto internazionale riconosciute
dalla coscienza giuridica delle nazioni civili” (il termine “civile” era molto in voga, dopo la
decolonizzazione ha iniziato a essere percepito come anacronistico e offensivo), il secondo era
contrario, in quanto temeva che questo lasciasse spazio alle sensazioni di giustizia soggettive
dei giudici. Si arrivò al compromesso della formula attuale che si presta a più interpretazioni,
ma quella prevalente è che si tratti di principi accettati dalle nazioni in foro domestico (come
principi di procedura, buona fede, res judicata).
Con lievi variazioni, questi principi furono mantenuti nello Statuto del CIG, art. 38 par. 1.

PRASSI E NATURA GIURIDICA


I principi generali di diritto erano spesso usati nel XIX secolo (essendoci poche norme di DI si
faceva riferimento a principi e massime di diritto romano, il quale ha ispirato i diritti
nazionali).
Le due Corti Internazionali di Giustizia si sono limitate a richiamare principi generali di tanto
in tanto, senza riferirsi in modo esplicito ai principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni
civili. Di norma lo facevano “ad abundantiam”, come ulteriore conferma di un risultato
raggiunto per altre vie.
Questi principi generali si è fatto spesso riferimento negli ultimi decenni nei tribunali penali e
amministrativi internazionali, anche nelle OI, in presenza di lacune normative.
Si tratta di principi elementari che esistono dall’alba del diritto, espressi solitamente in latino:
“pacta sunt servanda”, “qui tacet consentire videtur”, “rebus sic stantibus”, ecc.

Sono una fonte di diritto autonoma? Quale rango occupano rispetto alle altre? L’art. 38 dello
statuto della CIG individua chiaramente questi principi come una fonte autonoma. Tuttavia ci
sono due principali obiezioni:
 per alcuni sono solo norme consuetudinarie sui generis in quanto constano di usus e
opinio juris;
 per altri sono solo principi derivati non dal diritto internazionale ma da quello interno
(es. scuola sovietica)
Nella dottrina che gli riconosce l’autonoma gli si attribuiscono ruoli diversi:
 per alcuni sono assimilati al diritto naturale, all’equità, alla morale e alla giustizia. Se
così fosse, tuttavia, ne conseguirebbero norme vaghe, con un carattere troppo soggettivo o
che potrebbero confondersi con altre fonti internazionali (controverse) come l’equità o la
ragionevolezza.
 dagli autori anglosassoni sono visti come diritto positivo fondato su analogie con il diritto
privato statale
 per altri questi principi hanno un rango supremo e sono superiori a consuetudine e
trattati, in quanto possiedono un carattere costituzionale.

Nella prassi i giudici statali tengono effettivamente conto di principi di giustizia e umanità; gli
stati accolgono e applicano i medesimi principi nel DI, purché si tratti di principi davvero di
base. Questi hanno come obiettivo non solo il colmare le lacune, ma anche lo stabilire
standard minimi di giustizia e umanità.
In conclusione, si possono considerare questi principi come fonti autonome perché
intervengono quando le consuetudini e le norme pattizie non bastano. Questi principi
devono quindi possedere le seguenti caratteristiche:
 esseri riscontrabili nel diritto della maggior parte degli stati, esclusi quelli non
considerati civili perché vanno contro i valori sentiti come ‘comuni’ dall’umanità e/o
condannati dall’ONU;
 devono essere trapiantabili nel DI (es. “non rubare” è comune a tutti gli ordinamenti ma
non è applicabile in campo internazionale);
 non devono contraddire consuetudini e patti.

TRATTATI INTERNAZIONALI
STIPULAZIONE DEI TRATTATI
Menzionati nell’art. 38, par. 1 dello statuto del CIG come fonti autonome.
Hanno vari nomi (convenzione, patto, carta, statuto, protocollo, ecc.) ma la sostanza è la stessa,
ovvero servono a regolare le volontà di più Stati in maniera più precisa delle altre fonti.
Possono essere bilaterali o multilaterali e producono effetti giuridici vincolanti per i contraenti
(pacta sunt servanda).
Si applicano esclusivamente ai soggetti internazionali. Sono trattati internazionali solo quelli che
hanno natura giuridica e una volontà delle parti di obbligarsi (quindi non “gentlemen’s
agreement e simili) e si fondano sul DI.
La tendenza nella materia di diritti umani e diritto umanitario è quella di subire alterazioni (riserve,
interpretazioni, violazioni reciproche). I trattati, tuttavia, hanno una natura “obiettiva” o “erga
omnes”: ogni Stato si impegna verso ogni altro Stato contraente.

CONVENZIONI DI VIENNA DEL 1969 E DEL 1986 SUL DIRITTO DEI TRATTATI
Il diritto consuetudinario relativo ad ogni aspetto dei trattati è stato codificato nella Convenzione
di Vienna del 1969 (ad oggi 114 Stati hanno aderito).
I trattati a cui non si applica:
 quelli conclusi non da Stati
 quelli non-scritti
 responsabilità internazionale
 questioni relative alla successione tra Stati nei trattati
 effetti della guerra sui trattati
Si applica a trattati istitutivi di OI ed è irretroattiva.

Esiste anche la Convenzione di Vienna del 1986 che aggiunge al quadro anche le OI, ma che non
è ancora entrata in vigore.

PROCEDIMENTO DI STIPULAZIONE IN FORMA “SOLENNE”


I trattati possono essere conclusi in qualsiasi forma (orale o scritta) e in qualsiasi procedura
(comunicato congiunto o processi verbali).
Il procedimento solenne è più complesso di quello semplificato e consta di quattro fasi:
 negoziazione
 firma
 ratifica/adesione
 scambio/deposito delle ratifiche
La negoziazione deve essere condotta da rappresentati che hanno “i pieni poteri appropriati” (es.
Capo di stato, di governo, ministri degli esteri, ecc.). Se il rappresentante non ha i pieni poteri il
trattato non è valido a meno che lo Stato non lo confermi.
La negoziazione si conclude con l’adozione del testo:
 a maggioranza di due terzi dei presenti e votanti nelle conferenze internazionali
 all’unanimità negli altri casi
Esiste anche l’adozione per consensus, in cui non viene condotta una votazione formale, ma il
presidente si limita a chiedere se ci sono obiezioni.
Alla negoziazione segue la firma, che svolge la funzione di autenticazione del testo che dopo
potrà essere modificato solo per mezzo di nuovi negoziati. Nella procedura solenne la firma non
vincola lo stato né lo obbliga alla ratifica, ma ci sono obblighi minoris generis (es. non privare
il trattato del suo oggetto e scopo e applicazione provvisoria).
Alla firma segue la ratifica, che riguarda gli Stati che hanno preso parte ai negoziati e si
vincolano sul piano internazionale.
L’adesione, invece, avviene quando il trattato è già stato firmato e uno Stato desidera aderirvi
a negoziati terminati, nel caso questo sia possibile (es. ONU). In altri casi è necessario un
accordo ad hoc tra gli Stati parti di un trattato e uno stato terzo (es. UE).
Le questioni interne in merito alla ratifica dei trattati sono lasciate al diritto interno degli
Stati. In Italia la ratifica spetta al Capo di Stato (Mattarella) con la controfirma del ministro
proponente, che in alcuni casi deve essere autorizzata dal Parlamento. Il Capo di Stato non può
rifiutarsi di fronte alla richiesta del governo/parlamento di ratificare un trattato ma può proporre
un riesame. La legge sulla ratifica deve essere approvata in Parlamento e non può essere
sottoposta a referendum abrogativo.
Infine vi è lo scambio (negli accordi bilaterali, con entrata in vigore immediata) o il deposito
(negli accordi multilaterali, con entrata in vigore dopo un certo numero di ratifiche e un certo
periodo di tempo) di ratifiche. Un trattato può applicarsi a titolo provvisorio in attesa della sua
entrata in vigore se così le parti hanno stabilito.
I trattati, entrati a questo punto in vigore, devono essere eseguiti in buona fede.
L’accordo non deve essere necessariamente registrato al Segretariato dell’ONU, è comunque
efficace. Una non-registrazione implica una sua invalidità di fronte agli organi dell’ONU.

PROCEDIMENTO DI STIPULAZIONE IN FORMA “SEMPLIFICATA”


Gli accordi in forma semplificata entrano in vigore dal momento della firma e non prevedono
ratifica e scambio. È tipico degli USA ed è sempre più usato dagli Stati.
La firma è vincolante quando le parti esprimono il loro consenso, non solo esplicitamente ma
anche implicitamente, attraverso fatti e comportamenti.
La domanda è: la Costituzione prevede i trattati in forma semplificata? Quella italiana non ne fa
cenno, quindi si ritiene che possano essere conclusi in forma semplificata tutti quelli che non
richiedono autorizzazione del Parlamento alla ratifica (art 80 della Costituzione Italiana). Vi
è però una legge che ne richiede la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
La dottrina prevalente esclude la possibilità di firmare trattati segreti, ma i trattati segreti di fatto
contrastano con la Costituzione solo se sono dei tipi indicati nell’art 80, il che è alquanto
probabile dato che i trattati segreti sono di solito di natura politica.

COMPETENZA INTERNA A STIPULARE I TRATTATI E RIFLESSI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE


Stipulare trattati in forma semplificata quando la Costituzione non lo ammette rende il trattato
invalido dal punto di vista internazionale?
Il problema si è posto in passato (l’esempio più clamoroso è la domanda di ammissione
dell’Italia all’ONU) e continua a porsi.
Secondo la Convenzione di Vienna si può invocare una violazione di una norma
fondamentale di diritto interno (come quella dell’Italia) per invalidare il trattato. Lo Stato
che invoca tale invalidità deve dimostrare che la violazione di una sua norma interna esiste e
provare inoltre che la controparte ha ignorato il contrasto, agendo in malafede. La controparte
che ritiene il trattato valido deve dimostrare che questo contrasto non esiste o che non era
riscontrabile agendo in buona fede.
Le violazioni possono anche riguardare singole clausole del trattato e possono essere risolte con
un’accettazione di esecuzione del trattato.
Ci si chiede se il fatto che un trattato che viola la Costituzione sia avallato da una legge
parlamentare ne sani l’illegittimità costituzionale.  Ci sono tre tesi:
 il consenso ex-post sana l’incostituzionalità;
 ciò incentiva l’elusione dell’art. 80 della Cost., perché il Parlamento si vede costretto ad
approvare trattati che ormai sono già in vigore - questa è la posizione della Corte
Costituzionale.
 si è creata una norma consuetudinaria che valida i trattati in forma semplificata, che
quindi non sarebbero anti-costituzionali (questa tesi riflette la prassi ma non è in linea con la
giurisprudenza della Corte costituzionale)
Bisogna distinguere il piano internazionale da quello interno:
 su quello internazionale ai sensi dell. art. 45 della Convenzione di Vienna, l’Italia è
vincolata se ha dimostrato acquiescenza nel tempo.
 su quello interno non è accettabile un’autorizzazione ex-post e l’accordo però viene
applicato de facto finché non ne viene dimostrata l’anticostituzionalità. La soluzione sarebbe
creare una legge costituzionale in deroga all’art.80 o dimostrare che si è formata una
consuetudine costituzionale

COMPETENZA A STIPULARE DEGLI ENTI PUBBLICI SUB-STATALI E DELLE REGIONI


Sebbene non siano soggetti di DI, gli enti pubblici sub-statali e le regioni si ritrovano sempre più
spesso a stipulare accordi con altri Stati o con i loro enti pubblici.
In Italia, dopo alterne vicende, tramite una modifica dell’art. 117 della Cost. è stata accordata alle
Regioni la possibilità di stipulare accordi con altri Stati e intese con enti territoriali di altri Stati.
Le Regioni però stipulano sempre per conto dello Stato, che è l’unico a rispondere sul piano
internazionale.
Per le intese tra le Regioni e altri enti stranieri che vengono fatte senza l’assenso e la copertura
dello Stato, la dottrina prevalente è quella che non le ritiene veri e propri trattati, per cui essi non
hanno validità giuridica e lo Stato non ne risponde sul piano internazionale.

COMPETENZE A STIPULARE DELLE OI


Le OI possono stipulare trattati internazionali, come confermato anche dalla Convenzione di
Vienna del 1986, il che le rende soggetti di DI a pieno titolo.
Gli accordi stipulati in violazione di norme dell’organizzazione sulla competenza a
stipulare, sono ritenute non valide dalla Convenzione di Vienna. La competenza a stipulare va
individuata alla luce del trattato istitutivo e della prassi dell’organizzazione che non sia
contestata dagli Stati membri.

AMBITO SOGGETTIVO DI EFFICACIA DEI TRATTATI


Chi è vincolato dai trattati?
Vale il principio “pacta tertiis neque nocent nec prosunt”, ovvero il principio di inefficacia dei
trattati rispetto ai terzi.
I trattati vincolano solo i contraenti. Uno stato terzo deve necessariamente accettare diritti e
obblighi eventualmente attribuitigli da altri Stati, diventando così parte dell’accordo.
Esistono rare eccezioni:
 quando si ha a che fare con problemi globali (es. ambiente, diritto int. umanitario) la
tendenza è di imporre i trattati a tutti gli Stati, anche non firmatari (es. risoluzioni del
Consiglio di sicurezza dell’Onu sulla base di trattati firmati solamente da alcuni stati, le
quali si applicano a tutti)
 quando si codificano in trattati alcune norme consuetudinarie

TRATTATI “A FAVORE” DI TERZI


 trattati di libera navigazione
Si tratta di accordi di navigazione su fiumi, canali e stretti internazionali a favore di tutti gli
Stati, anche gli Stati terzi.
Il diritto non appartiene allo Stato terzo, che è solamente beneficiario materiale: solo gli Stati
contraenti possono far valere questo diritto in caso di violazione del trattato.
Si configurano come veri e propri diritti quando c’è l’intenzione degli Stati contraenti di creare
un diritto per uno Stato terzo, che deve però averlo preventivamente accettato.

 trattati di garanzia
Gli Stati contraenti si impegnano a garantire l’indipendenza di uno Stato terzo.

 clausola della nazione più favorita


È una clausola che gli Stati A e B inseriscono in un trattato, secondo la quale se A firmerà un
accordo con C contenente un vantaggio maggiore per C rispetto a quello accordato a B, anche
B automaticamente di diritto otterrà questo vantaggio. Il diritto è stabilito nel trattato
originario (tra A e B) e non accordato a B dopo il trattato tra A e C.

TRATTATI “A CARICO” DI TERZI


 trattati localizzati
Se in un trattato viene stabilito il regime giuridico di un territorio e uno stato terzo dovesse
estendere la sua sovranità su questo territorio, questo dovrà rispettarne il regime giuridico a
causa della sua successione nel trattato (in quanto nuovo sovrano) e non perché il trattato ha
effetti ultra partes.

 soggettività internazionale “obiettiva” ONU


Il riconoscimento della soggettività dell’ONU è imposto a tutti, non perché lo dichiara la Carta
ma perché nella prassi la sua soggettività è riconosciuta dalla maggior parte degli Stati.

CONVENZIONE DI VIENNA DEL 1969 SUL DIRITTO DEI TRATTATI E DIRITTO


INTERNAZIONALE CONSUETUDINARIO
La Convenzione di Vienna codifica le norme del diritto consuetudinario. A proposito
dell’efficacia soggettiva dei trattati sono dedicati gli artt. da 34 a 38:
 art. 34: I trattati non possono vincolare terzi
 art. 35: Gli obblighi attribuiti a uno Stato terzo per entrare in vigore devono essere
accettati da questo per iscritto
 art. 36: I diritti attribuiti a uno Stato terzo fino a prova contraria vengono considerati
accettati.
 art. 37: I diritti attribuiti a uno Stato terzo possono sempre essere revocati
unilateralmente dai contraenti
 art. 38: La revoca degli obblighi  attribuiti a uno Stato terzo deve essere accettata dal terzo
(che in realtà non è terzo ma contraente)

INCOMPATIBILITÀ TRA NORME CONVENZIONALI


Può accadere che uno Stato firmi un trattato incompatibile con un trattato precedente.
Questi sono i casi che si possono verificare:
 trattato anteriore bilaterale (tra A e B)
 trattato successivo bilaterale tra A e B oppure tra A/B e C
 trattato successivo multilaterale stipulato da A e B più altri.
 trattato anteriore multilaterale
 trattato successivo stipulato da tutti gli stessi contraenti del precedente
 trattato successivo stipulato da alcuni dei contraenti del precedente
 trattato successivo stipulato con uno o più Stati non contraenti del precedente
Vale il primo o il secondo? Vale il secondo anche se è incompatibile con il primo?
Si giudica in base ai principi:
 pacta sunt servanda, dunque entrambi sono obbligatori
 pacta tertiis nec nocent nec prosunt, chi ha firmato uno ma non l’altro non è toccato
dall’altro
 lex posterior derogat priori, nei trattati tra le stesse parti vale il successivo

È stato escluso che il trattato meno importante sia invalido, benché questo porti alla
“Frammentazione del diritto”.

È stato escluso che il trattato meno importante sia invalido, benché questo porti alla
“Frammentazione del diritto”.

IPOTESI RILEVANTI E REGIME DI DIRITTO INTERNAZIONALE CONSUETUDINARIO


 AB:AB, ABC:ABC - lex posterior, vale il successivo
 AB:AC - A deve decidere quale rispettare e quale violare
 AB:ABCD, ABCD:AB - Nella prima sub-ipotesi vale il secondo. Nella seconda sub-ipotesi
vale il secondo per AB ma questo comporta una violazione nei confronti di C e D.
 ABCD:ABEF - Per AB vale il secondo, ma con violazione nei confronti di C e D

Ci sono clausole di subordinazione (il trattato cede di fronte ad altri incompatibili) e di


prevalenza (prevale su altri incompatibili).
Oggi si fa solitamente ricorso al negoziato per risolvere le incompatibilità.
Uno stato può scegliere arbitrariamente di rispettare un trattato piuttosto che un altro, oppure
essere obbligato a farlo dal diritto interno. Nel secondo caso:
 Se nell’ordinamento interno è stato reso esecutivo solo uno dei due trattati lo Stato dovrà
rispettare quello reso esecutivo
 Se entrambi sono stati resi esecutivi si applica il trattato più recente

CONVENZIONE DI VIENNA DEL 1969


Art. 30 par. 1 - Fa salvo ciò che dice l’art. 103 dell’ONU.
par. 2 - Valgono le clausole di subordinazione.
par. 3 - Coincidenza dei contraenti: lex posterior.
par. 4 - Coincidenza parziale dei contraenti. Il contraente di entrambi è vincolato da entrambi,
quindi ci può essere una violazione con un contraente di uno solo.
par. 5 - Chi viola un trattato ha una responsabilità internazionale.

IL PROBLEMA DELLA “FRAMMENTAZIONE” DEL DIRITTO INTERNAZIONALE


Problema: con la proliferazione e specializzazione di norme e istituzioni internazionali c’è una
frammentazione di DI?
Sì. Spesso numerosi Stati prendono parte a trattati che possono confliggere e l’applicazione
di queste regole è difficoltosa. Inoltre il problema è aggravato dal fatto che a volte alcune
norme all’interno dei trattati sono conflittuali, pur non riguardando i trattati la stessa materia.
Inoltre i trattati creano anche meccanismi giurisdizionali (es. organi giurisdizionali) che causano
una frammentazione istituzionale (quale organo ha ragione?).

RISERVE NEI TRATTATI


La riserva ha lo scopo di consentire a uno Stato di aderire a un trattato nei limiti in cui è
disposto a farlo. L’art. 2 lett. d) della Convenzione di Vienna del 1969
definisce la riserva come una dichiarazione unilaterale con cui uno Stato si vincola ad un trattato
eccettuando (riserva eccettuativa), modificando (riserva modificativa), o ammettendo un’unica
interpretazione (riserva interpretativa).
Le riserve hanno senso solamente nei trattati multilaterali. Le riserve permettono di aderire anche
agli Stati contrari a qualche clausola e ampliano il numero dei contraenti, ma creando
potenzialmente frammentazione del regime giuridico.
Le riserve hanno effetti giuridici e vanno distinte dalle dichiarazioni politiche.
Esistono anche dichiarazioni interpretative, nella prassi equiparate alle riserve.
La CDI ha approvato nel 2011 la “Guida alla prassi”, contenente alcune linee guida concernenti le
riserve.

PRASSI ANTERIORE ALLA CONVENZIONE DI VIENNA DEL 1969


Come detto, le riserve pongono il problema di perdita di “integrità” del trattato.
In passato si preferiva limitare le riserve, che dovevano essere accettate da tutti i contraenti,
altrimenti lo Stato non entrava nel trattato. Non potevano essere apposte dopo la firma, a meno
che il trattato stesso non lo prevedesse esplicitamente.
Al “sistema europeo” fondato sull’integrità era contrapposto il “sistema panamericano” fondata
sull’”universalità”: si preferivano maggiori contraenti a una maggiore integrità.
Gli Stati che avanzavano riserve risultavano parti del trattato solo nei confronti di chi non aveva
sollevato obiezioni.
Nel 1951 nell’ambito del parere sulle Riserve alla convenzione sul genocidio, la CIG stabilì che:
 se il trattato non dava alcuna disposizione in merito alle riserve, queste potevano essere
apposte purché non contrastassero con scopo e oggetto del trattato
 gli altri stati potevano opporsi alla riserva (il trattato non li avrebbe legati allo Stato
obiettante) o accettarla (il trattato avrebbe legato gli Stati alle condizioni della riserva)
Tra gli Stati che non avevano apposto riserve, valevano le condizioni stabilite originariamente dal
trattato.
Queste scelte erano dettate dalla volontà di far partecipare più stati possibili a un trattato sui diritti
umani e dall’impossibilità di mantenere l’integrità totale all’interno di una comunità con culture e
tradizioni giuridiche sempre più diversificate.

RISERVE SECONDO LA CONVENZIONE DI VIENNA DEL 1969


Il parere del 51 è stato poi adottato dalla Convenzione di Vienna (artt. 19-23).
Anzitutto la convenzione stabilisce che:
 in presenza di indicazioni esplicite (ammissione o divieto di ammissione), queste vanno
seguite
 in assenza di indicazioni esplicite, le riserve sono ammesse purché non contrastino con lo
scopo e l’oggetto del trattato.
Gli stati possono:
 accettare in modo espresso o tacito la riserva (= no obiezione entro 12 mesi dalla notifica)
il trattato produce effetti come indicato dalla riserva.
 non accettare la riserva (obiezione entro i 12 mesi dalla notificazione) la riserva è efficace
e il trattato produce effetti solo se lo Stato obiettore non si è opposto nettamente all’entrata
in vigore del trattato. Se invece si è opposto nettamente, il trattato non produce effetti tra
Stato riservante e Stato obiettore, ma tra tutti gli altri si.
La distinzione tra obiezione netta e non è stata introdotta successivamente al 1951 perché così
consolidatasi nella prassi e dunque diventata consuetudine. L’obiezione non netta è difficile da
distinguere dall’accettazione e si ritiene che abbia perlopiù un valore morale o precauzionale. Nel
caso di obiezione non netta a una clausola di modifica o interpretazione, la clausola non si
applica, mentre nel caso di accettazione si applica come modificata o interpretata dalla riserva.
Anche uno stato firmatario può esprimere la propria obiezione, che sarà però valida solo quando lo
stato diverrà parte del trattato.

Il criterio per stabilire se una riserva è compatibile con lo scopo e l’oggetto del trattato non è
chiaro. Spetta a giudici interni o internazionali (Corte europea dei diritti umani) pronunciarsi in
merito.
Una riserva su una norma cogente non può essere ammessa e non pregiudica la natura
vincolante della norma. Lo jus cogens viene di solito invocato ad abundatiam perché solitamente
una riserva che viola lo jus cogens  è difficile che non violi anche oggetto e scopo.
Riserve e obiezioni alle riserve possono essere ritirate in qualsiasi momento (se non disposto
diversamente dal trattato) e in maniera unilaterale.
Riserve, accettazioni e obiezioni devono essere formulate per iscritto e comunicate agli stati
contraenti.

PRASSI PIÙ RECENTE


In tempi recenti alle riserve sembra essere accordata sempre minor rilevanza, soprattutto nei
trattati sui diritti umani.
Il problema è stabilire se l’inammissibilità di una riserva abbia per conseguenza:
 l’invalidità unicamente della riserva, per cui lo Stato dovrebbe accettare il trattato
senza riserve
 l’invalidità dell’adesione al trattato per lo Stato riservante
Nel 1988 la Corte europea sui diritti umani aveva iniziato una prassi per cui le riserve non
ammissibili erano considerate come non apposte (principio utile per inutile non vitiatur).
Tuttavia questo imponeva agli stati di accettare obblighi che non avrebbero voluto accettare.
La tendenza attuale sembra quindi quella di un approccio più cooperativo con lo Stato riservante.
La prassi più recente tende a non ammettere affatto le riserve in alcune materie, in particolare i
diritti umani, anche perché in passato molte riserve apposte in trattati sui DU erano contrari a
scopo e oggetto degli stessi.
Un’altra tendenza è quella di consentire l’apposizione di riserve successivamente alla ratifica,
ma solo se gli altri stati non sollevano obiezioni (in alcuni casi entro un termine di 12 mesi). Anche
se esprimere una riserva su una clausola dopo aver ratificato il trattato significa di fatto ripudiare
quella clausola, se c’è acquiescenza da parte degli altri stati è come se si formasse un nuovo
accordo, modificato nei termini della riseva.

COMPETENZA INTERNA A FORMULARE RISERVE


L’apposizione di riserve pone anche problemi di diritto interno. Ad esempio ci si chiede: cosa
succede se per la stipulazione di un trattato è richiesto il concorso di due o più organi ma solo uno
vuole apporre una riserva?

RISERVE AGGIUNTE DALL’ESECUTIVO


In Italia è capitato che il Governo volesse aggiungere delle riserve al testo di un trattato approvato
dal Parlamento (nei casi dell’art. 80 della Cost. per cui è richiesto il concorso di entrambi).
In merito al problema, la dottrina offre due soluzioni opposte:
 Sì: secondo alcuni l’art. 80 richiede il consenso del Parlamento solo per la ratifica,
non per l’apposizione di riserve, quindi il governo avrebbe competenza esclusiva per
le riserve. A sostegno vi è anche il fatto che il governo può decidere di non ratificare
affatto un trattato approvato dal Parlamento, quindi può anche ratificarlo solo
parzialmente. Infine si è anche sostenuto che sulla parte del trattato che obbliga lo stato
in campo interazionale il concorso di governo e Parlamento di fatto sussiste.
 No: secondo altri gli artt. 80 e 87 pur parlando solo di ratifica si riferirebbero
implicitamente anche alle riserve, data la loro inscindibilità dal trattato. Inoltre, dato
che le ratifiche modificano delle condizioni del trattato in un modo sul quale il
Parlamento non si è pronunciato, si potrebbe suppore che il Parlamento non avrebbe
approvato il trattato se avesse contenuto quella riserva. Dunque, il Governo
dovrebbe richiedere l’autorizzazione del Parlamento prima di apporre una riserva
in maniera autonoma.
La prima opinione sembra essere più corretta nel caso delle riserve eccettuative, perché in questi
casi il governo esclude solo una parte del trattato, ma per la parte restante sussiste il concorso di
Parlamento ed Esecutivo. Le riserve aggiunte fino ad oggi dal Governo italiano sono quindi
costituzionalmente legittime, essendo di carattere eccettuativo.
Diverso è il discorso per le riserve di carattere modificativo o interpretativo, perché in tal caso il
governo ratificherebbe un trattato che presenta termini diversi da quelli approvati dal Parlamento.

RATIFICHE TOLTE DALL’ESECUTIVO


Nell’ipotesi inversa, in cui il trattato viene approvato dal Parlamento con delle riserve che
vengono però tolte dal Governo in sede di ratifica, si verifica una violazione dell’art. 80 Cost.,
perché il Governo impegnerebbe lo Stato a rispettare parti del trattato non approvate dal
Parlamento. Essendoci dunque violazione dell’art. 80 Cost., il trattato risulta invalido sul piano
internazionale ai sensi dell’art. 46 della Convenzione di Vienna e della consuetudine
corrispondente.

L’interpretazione consiste nel capire quale significato attribuire a quanto detto nei trattati.
La competenza ad interpretare spetta a:
 Esecutivo degli Stati contraenti
 Giudici degli Stati contraenti, che in alcuni Stati devono consultare gli organi di politica
estera dell’Esecutivo
 Organi internazionali se così stabilito dai trattati (tribunale arbitrale costituito ad hoc, CIG,
organi di controllo)
 Organi delle OI nel caso di trattati istitutivi delle OI
Si tende ad interpretare i trattati in modo speciale soprattutto per quanto riguarda i DU (tendenza
a favorire l’individuo) e i trattati istitutivi delle OI (tendenza a erodere il potere dello stato e
favorire valori globali)

INTERPRETAZIONE SECONDO LA CONVENZIONE DI VIENNA DEL 1969


Le regole di interpretazione dei trattati si trovano negli artt. 31,32,33 della Convenzione di
Vienna del 1969 e corrispondono a consuetudini e principi generali di diritto.

L’art. 31 stabilisce i criteri principali di interpretazione:


- Testo: deve essere interpretato alla luce del suo significato ordinario, cioè in modo
oggettivo e non pensando a quali fossero le intenzioni delle parti. Un significato
speciale può essere attribuito solo dimostrando (onere della prova) che fosse nelle
intenzioni delle parti.
- Contesto (interpretazione sistematica): si considerano preambolo, allegati e gli
accordi conclusi in rapporto al trattato. Il preambolo non pone obblighi ma è utile
perché chiarisce le intenzioni delle parti e oggetto e scopo del trattato.
- Accordi interpretativi: accordi posteriori al trattato in cui gli stati si accordano in
modo formale su che significato attribuire al trattato o a delle sue parti.
- Prassi applicativa: come gli Stati hanno applicato il trattato nella prassi. Può
essere solo un’interpretazione oppure una vera e propria modifica informale del
trattato. Nel caso dei trattati istitutivi delle OI può creare una consuetudine
particolare.
- Oggetto e scopo: criterio meno determinato che può portare a interpretazioni
opposte rispetto al significato oggettivo del testo. Per quanto riguarda i diritti umani
ci può essere un’interpretazione teleologica o evolutiva del trattato, si cerca tra tutte
le interpretazioni possibili di preferire quella più conforme a oggetto e scopo. Questa
interpretazione comunque non può distaccarsi dalla volontà delle parti resa
palese dal testo.
- Altre regole pertinenti: si possono considerare anche diritto consuetudinario,
principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili e anche (controverso)
norme pattizie in vigore tra le parti. L’integrazione di tutte le norme internazionali,
definita integrazione sistemica, è però pericolosa perché possono essere giudicate
pertinenti alcune norme e non altre al solo fine di raggiungere lo scopo desiderato. In
ogni caso vanno considerate solo norme di DI e non di diritto interno.

L’art. 32 prevede anche l’impiego di criteri supplementari (se l’interpretazione ottenuta con i
mezzi dell’art. 31 non è chiara) in via sussidiaria, ovvero:
 Lavori preparatori: interpretazione storica delle intenzioni soggettive dei redattori
 Circostanze esistenti al momento della stipulazione: avvenimenti che hanno condotto
alla stipulazione del trattato

L’art. 33 si occupa dell’ipotesi di discordanza tra due o più versioni linguistiche egualmente
autentiche di un trattato (le uniche giuridicamente valide). In questo caso deve essere ritenuta
valida l’interpretazione che più assicura il raggiungimento dello scopo del trattato. Nel caso
invece la discordanza derivi da un errore di traduzione, il trattato deve essere rettificato.

ALTRE REGOLE DI INTERPRETAZIONE


Oltre a quelle degli artt. 31-33 esistono altre norme di interpretazione che di solito coincidono
con consuetudini e principi generali di diritto, ad esempio i principi:
 Contra proferentem (nel dubbio, contro il redattore che doveva essere più chiaro)
 Favor debitoris (nel dubbio a favore del più debole)
 In dubio mitius (nel dubbio, la soluzione meno forte)

Analogia: in alcuni casi, quando non c’è una norma che regola in maniera esplicita un caso, se ne
può applicare una che ne regola in maniera esplicita uno solo in parte uguale.

Interpretazione evolutiva: eccezione al principio intertemporale (attribuire al testo il significato


voluto dalle parti al momento della conclusione), che consiste nell’usare un’interpretazione in
chiave più recente (nel caso in cui la prassi adottata successivamente dagli Stati è andata in questa
direzione o il trattato è già nato con l’intenzione di evolvere di significato nel tempo) in caso di
termini generici. È utilizzata soprattutto nei trattati sui diritti umani perché secondo la Corte
europea la Convenzione europea sui diritti umani deve essere interpretata alla luce delle
condizioni di oggi e non del 1950.

INTERPRETAZIONE DEI TRATTATI ISTITUTIVI DELLE OI


Le regole per l’interpretazione dei trattati valgono anche per i trattati istitutivi delle OI o questi sono
più assimilabili a delle costituzioni e dunque dovrebbero seguire altri criteri?
La Convenzione di Vienna non prevede criteri specifici per i trattati istitutivi di OI.

Alle OI si applicherebbe la regola dei poteri impliciti (ispirata a quella della Costituzione
Americana sulla ripartizione dei poteri tra Stato federale e Stati federati) secondo la quale gli
organi di un’organizzazione godrebbero non solo dei poteri previsti dal trattato istitutivo, ma
anche di tutti quelli non esplicitamente previsti ma necessari per l’esercizio di questi poteri e
l’adempimento delle loro funzioni. Questa regola però è opposta alla regola di attribuzione,
secondo la quale le OI non possono avere più poteri di quelli espressamente conferitigli dagli
Stati. Le OI però non sono assimilabili agli stati federali perché non esercitano il controllo su
comunità territoriali né hanno legittimazione politica né sono in grado quanto gli stati di far
rispettare leggi e sentenze. Neppure i loro statuti sono assimilabili alle Costituzioni nazionali.
Trasferire i poteri dello Stato alle OI non assicurerebbe risultati migliori in termini di diritti umani.
Per quanto riguarda la Corte Internazionale di Giustizia, questa si è pronunciata a volte a favore del
principio dei poteri impliciti, in altre ha preferito il principio di attribuzione.
Sembra corretto ritenere che il criterio dei poteri impliciti non sia giuridicamente ammissibile
per le OI a meno che non esista una prassi oggettiva e incontestata che deroghi al loro Statuto.

INTERPRETAZIONE UNILATERALISTICA
Esiste una tendenza a interpretare i trattati in conformità al diritto interno e basandosi sulla
traduzione nella lingua nazionale. Questa possibilità però è esclusa dalla Convenzione di Vienna,
secondo la quale è bene cercare un significato comune a tutti i contraenti per non rompere l’unità
del trattato in una molteplicità di significati nazionali.
L’interpretazione uniforme dei trattati è più semplice se è presente un organo preposto a farlo e/o
se è il trattato stesso a dare disposizioni sulle sue modalità di interpretazione.

ATTI VINCOLANTI DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI


Si parla di fonti di terzo grado quando ci si riferisce a fonti previste dai e subordinate ai trattati.
In passato si faceva riferimento alle seguenti fonti come fonti di terzo grado:
 Emendamenti e revisioni dei trattati istitutivi delle OI adottati a maggioranza e
vincolanti anche la minoranza
 Sentenze dispositive, cioè sentenze il cui risultato crea una norma concreta per il caso di
specie sulla base e nei limiti di un accordo precedentemente stipulato tra le parti
Oggi si parla in particolare degli atti giuridicamente vincolanti, che però sono piuttosto rari nelle
OI, che di solito emettono perlopiù raccomandazioni non giuridicamente vincolanti.
Non tutti gli atti previsti da un trattato sono fonti di terzo grado, infatti alcuni sono assimilabili a
veri e propri trattati equiparabili al trattato che li contempla. Occorre quindi distinguere tra atti
organici (che sono fonti di terzo grado e devono essere conformi al trattato che li prevede) e
accordi veri e propri.

ATTI DELLE NAZIONI UNITE E POTERI LEGISLATIVI DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA


Le OI e l’ONU in particolare emettono soprattutto raccomandazioni non giuridicamente
vincolanti.
Gli atti vincolanti dell’ONU sono le “decisioni” in particolare quelle elencate agli artt. 17, 41 e
94(2):
 Art. 17: l’Assemblea Generale può approvare il bilancio dell’ONU e la delibera si impone a
tutti (ripartizione delle spese)
 Art. 41: il Consiglio di Sicurezza può adottare misure non implicanti l’uso della forza in
caso di minaccia alla pace, violazione della pace e atto di aggressione
 Art. 94(2): il Consiglio di Sicurezza misure per obbligare uno stato condannato dalla
CIG a rispettare la sentenza
Negli ultimi anni il CdS ha adottato sanzioni mirate a determinati individui per evitare violazioni
dei diritti umani.
Negli ultimi anni il CdS ha adottato risoluzioni che ricordano l’esercizio di veri e propri poteri
legislativi, che impongono obblighi e sanzioni sanciti da trattati non ratificati dagli Stati
destinatari, motivando questa scelta con la nozione di “minaccia alla pace” su scala globale (es.
terrorismo internazionale). Molti Stati hanno contestato la legittimità di tali misure non previste
dalla Carta e imposte a tutti senza il loro consenso, peraltro non temporanee e di natura eccezionale,
ma permanenti. Il CdS infatti si deve occupare di specifiche controversie che minacciano la pace
internazionale, mentre per norme di portata internazionale è l’intera comunità di Stati che deve
essere coinvolta, per mezzo di trattati e formazione di consuetudini.

Si possono applicare le modalità di interpretazione previste dalla convenzione di Vienna per i


trattati agli atti vincolanti? Sì, ma tenendo conto del fatto che questi atti potrebbero porsi a Stati che
non li hanno accettati specificamente (benché abbiano accettato la clausola del trattato istitutivo
che ne richiede l’adozione).
Non c’è nell’ONU e in molte OI (l’UE è un’eccezione) un organo che giudichi la legittimità degli
atti dei suoi organi. Non fa questo la CIG. Dalla prassi si ricava che ogni Stato può dissociarsi
dagli effetti dell’atto se ne contesta la legittimità (solitamente sono i giudici nazionali a sindacare
tali atti quando prevedono sanzioni lesive dei diritti umani).

ATTI VINCOLANTI DELL’UE


Nell’UE gli atti vincolanti sono la regola e non l’eccezione, a differenza delle altre OI. Essi sono:
 Regolamento: carattere generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi, direttamente
applicabile in ogni Stato membro.
 Decisione: obbligatoria in tutti i suoi elementi, ma vincola soltanto destinatari specifici.
 Direttiva: vincola lo Stato a cui è rivolta solo per quanto riguarda un risultato da
raggiungere (senza specificare come – anche se nella prassi le direttive spesso sono
specifiche)

ACCORDI INTERNAZIONALI UE
Nei casi in cui il TFUE (tratta sul funzionamento dell’UE) prevede una competenza esclusiva
dell’UE a stipulare accordi, questa competenza è sottratta ai singoli Stati membri, a meno che
l’UE non li autorizzi a concludere trattati nelle materie di sua competenza o concluda accordi misti
con la partecipazione anche degli Stati membri. Nelle materie in cui non è prevista una competenza
dell’Unione Europea vale il principio del parallelismo tra competenze interne ed esterne, cioè se
l’UE ha competenze interne per una materia, avrà anche le medesime competenze esterne.
Si aggiungono agli atti giuridici e legislativi quelli in ambito di politica estera e sicurezza comune
(PESC), in particolare le decisioni che definiscono le azioni dell’UE e quelle che definiscono la
posizione dell’UE su specifiche questioni.

RAPPORTI TRA FONTI INTERNAZIONALI


Nel DI ricostruire una gerarchia delle fonti è più difficile che nel diritto interno.
 Fonti del medesimo tipo: tra fonti del medesimo tipo si applicano i principi “lex posterior
derogat priori” e “lex specialis derogat generalis”, cioè prevale la norma posteriore a
meno che quella anteriore non sia speciale ratione materiae (riguarda una materia più
ristretta) o ratione personarum (riguarda un numero di soggetti più ristretto)
È difficile che due norme consuetudinarie (che richiedono prassi e opinio juris) siano
diametralmente opposte, perché è poco probabile che la prassi vada in modo generalizzato in due
direzioni opposte.
È invece possibile se una delle due norme è una fonte generale diversa dalla consuetudine, ad
esempio lo jus cogens o i principi internazionali costituzionali, per cui è possibile che nella prassi si
faccia tutto l’opposto ma prevalga una fonte superiore che prescinde dalla prassi.
Nonostante qualche tentativo di elevarlo, lo Jus Cogens non è una fonte di diritto di rango
supremo. Questi sono i possibili conflitti tra fonti:
 Consuetudine vs trattati: prevale il trattato per ratione personarum (riguarda un numero
ristretto di Stati), anche se anteriore; ci si può chiedere qual è la fonte primaria. Se si tiene
conto della consuetudine “Pacta sunt servanda”, va da sé che i trattati sono una fonte
inferiore perché dipendono da tale consuetudine. Se si ritiene che ambo trattati e
consuetudini sono imposte dagli Stati, si potrebbero considerare di pari livello. Ed è vero
che i trattati solitamente vengono firmati per sottrarsi alla consuetudine, ma questa pratica
rispetta a sua volta il principio consuetudinario “ratione personarum”.
Inoltre una norma consuetudinaria prevale su un trattato anteriore se le parti l’hanno
creata e intendono applicarla. Lo Jus Cogens prevale sempre sui trattati che non lo
rispettano: se è anteriore li invalida, se è posteriore li estingue.
 Principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili vs consuetudini e trattati: i
principi generali sono subordinati a consuetudini e trattati in quanto hanno come scopo
quello di colmare le lacune del DI (cons. e tratt.). Quindi i trattati prevalgono sulle
consuetudini e sui principi generali a titolo di specialità ratione personarum e ratione
materiae. La consuetudine prevale sui principi generali a titolo di specialità ratione
materiae.
 Trattati vs fonti previste da trattati: l’atto è subordinato al trattato. Ma se l’atto in realtà
è un vero e proprio trattato allora prevarrà per lex posterior.

DINAMICA DELLE FONTI INTERNAZIONALI


Nel diritto interno la creazione delle norme costituisce una fase distinta dalla sua promozione: la
legge diventa tale solo nel momento preciso in cui viene approvata, gli atti che la promuovono o la
osteggiano prima di tale momento non hanno validità giuridica. Al contrario nel DI ogni atto o
inazione è costitutivo della consuetudine (fonte fondamentale nel DI, marginale nel diritto
interno): momento per momento per mezzo del comportamento degli Stati si creano o si
indeboliscono le norme.
Cionostante, esiste un DI oggettivamente vigente, che non è un flusso indeterminato. Il DI
oggettivamente vigente è quello che deriva dagli Stati uti universi e si è consolidato nel tempo. Un
organo statale può rafforzare o indebolire una norma consuetudinaria vigente, rispettivamente
applicandola o non applicandola. Un organo può anche promuovere una norma la cui esistenza è
dubbia applicandola.
Ci sono alcuni fattori propulsivi e frenanti che sono diverse dalle font in quanto tali.

PERSISTENT OBJECTOR (BASTIAN CONTRARIO)


Può uno Stato sottrarsi a una consuetudine se gli si è opposto fin dall’inizio, oppure se
semplicemente non sostiene tale consuetudine? Nel secondo caso sicuramente NO!
A favore del persistent objector esiste una serie di sentenze piuttosto ambigue e suscettibili di
interpretazioni. Se si tratta tuttavia di una norma cogente anche il persistent objector è vincolato
alla sua applicazione.
Questa teoria trova uno scarso supporto nella giurisprudenza internazionale. Si tratta di una
dinamica volta a dare il proprio esempio agli altri Stati per indebolire una norma o impedire la
sua formazione.

GIURISPRUDENZA
Le decisioni giudiziarie internazionali (a cui sembra alludere l’art. 38, par. 1, lett. D dello statuto
della CIG) non sono fonti di diritto ma sono mezzi sussidiari che contribuiscono alla formazione e
al consolidamento delle norme. Occorre comunque distinguere tra decisioni giudiziarie:
 internazionali: le sentenze internazionali vincolano le parti giuridicamente solamente
perché le parti si sono sottoposte alla giurisdizione della corte. I giudici non sono tenuti a
rispettare le sentenze precedenti in casi simili, anche date da loro stessi. Le sentenze
internazionali influiscono sulla formazione del DI nella misura in cui corrispondono a una
prassi generalizzata degli Stati e alla loro opinio juris. In alcuni casi i giudici possono
esprimere anche un’opinio necessitatis, ovvero l’esigenza di una norma inesistente, dando
una spinta propulsiva al DI.
 statale: le sentenze statali possono anch’esse esprimere un’opinio necessitatis. Per essere
mezzi sussidiari di DI è necessario che siano espresse da tanti Stati (per settori di DI come
l’immunità giursidizionale).
I giudici, sia internazionali che statali, devono rendersi conto del ruolo che svolgono nel rafforzare
o indebolire le norme internazionali. I giudici nazionali non devono pensare al DI come
semplicemente “politico” o “diplomatico”, spogliandosi del dovere di applicarlo.

EQUITÀ
L’art. 38 par. 2 dello Statuto della CIG prevede la possibilità di emanare sentenze “secondo
equità” (secondo la coscienza del giudice) e non “secondo diritto” se così concordano le parti.
L’equità però non è una fonte di DI in quanto è subordinata al consenso di ambo le parti. Però
nella giurisprudenze internazionale spesso si parla di equità a prescindere da tale articolo. Dunque
l’equità è una fonte autonoma di DI? Ci sono tre nozioni di equità nella teoria generale del diritto:
 Equità infra/secundum legem: intepretazione del diritto vigente. Non è una fonte
autonoma in quanto segue le norme sui criteri interpretativi e i limiti imposti da tali norme.
 Equità praeter legem: interviene quando c’è una lacuna nel diritto, ovvero quando uno
Stato non dimostra l’esistenza di una norma e dunque, nel dubbio, si afferma la libertà degli
Stati (“tutto ciò che non è vietato è permesso”). Non è una fonte autonoma perché non
crea norme, ma si limita a rivelare lacune nel diritto.
 Equità contra legem: invocata da uno Stato quando agisce violando il diritto vigente. È la
più significativa delle tre, in quanto uno Stato può segnalarla per manifestare l’intenzione di
voler trasformare il diritto consuetudinario vigente. Non è una fonte autonoma perché
si propone di violare il diritto vigente.
L’obiezione principale all’equità è che gli Stati più potenti possano usarla per scavalcare norme
vigenti che non gradiscono, presentando i loro valori giusti ed equi. Ogni Stato ha una sua idea di
“equo e giusto”; fare ricorso all’equità pone il pericolo di rendere il diritto meno prevedibile e far
emergere conflitti tra opposte visioni dell’”equo”. Per questo il CIG usò la formula “principi
generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” e non la “giustizia naturale”.

SOFT LAW
Ovvero l’insieme di norme o principi non giuridicamente vincolanti che potrebbero produrre
effetti giuridici di portata minore (es raccomandazioni, risoluzioni non vincolanti, dichiarazioni
di principi dell’Ass. Gen. ONU, ecc.)
Quando non riproducono il diritto vigente, promuovono un DI futuro ritenuto più giusto dalla
comunità internazionale nel suo insieme, soprattutto se si tratta di dichiarazioni solenni di principi
da parte dell’Ass. Gen. Dell’ONU e tanto più ottengano un consenso vasto.
I giudici statali non sono tenuti ad applicarlo, ma potranno tenerne conto per prendere decisioni
dirette ad innovare il DI vigente sulla base di considerazioni rinvenibili in atti internazionali e non
proposte da loro unilateralmente.
Una violazione del DI ha meno probabilità di essere considerata illecita se vi è un consenso
universale verificabile e il DI ha più probabilità di trasformarsi.
DOTTRINA
Secondo l'art. 38, par. 1, lett. D la dottrina dello Stat. Della CIG è un mezzo sussidiario per la
determinazione delle fonti, perché le opinioni della dottrina più accreditate di norma
corrispondono al DI. Non concorre alla formazione del DI generale ma di fatto tende ad
influenzare le autorità statali. Per "dottrina" si intendono i singoli studiosi e la "comunità
scientifica", in particolare le associazioni private che si dedicano allo studio del DI. La stessa CID
deve considerarsi al pari della dottrina.
Non di rado la giurisprudenza, sia internazionale che statale, esamina la dottrina per
documentarsi e per stabilire se una norma internazionale esiste.
La dottrina, benché non crei norme di DI, ha anche un ruolo propulsivo e ispiratore per i pratici e
ispira soluzioni concrete e più efficaci, più giuste e adeguate alle aspettative dei popoli e degli
individui.
La dottrina aiuta anche a capire il diritto quale è. Infatti, il diritto è anche ciò che viene creduto dai
giuristi.
I giudici non devono considerare un'opinione dottrinale, per quanto autorevole, DI vigente, ma
dovrebbero usarla per chiarire il DI e tenerlo al passo con i mutamenti della società globale.
Gruppi di studiosi possono mobilitarsi con dichiarazioni, petizioni, lettere per modificare la realtà
internazionale ma si tratta di atti politici che vanno distinti dal lavoro scientifico.

OPINIONE PUBBLICA E ONG


Per opinione pubblica si intende espressione diretta della società civile globale che cerca di far
prevalere gli interessi dell'umanità su quelli dei singoli Stati attraverso ONG o altre forme di
organizzazione privata. Le ONG partecipano sempre più alla creazione del DI in maniera
indiretta, determinando un clima generale che obbliga gli Stati a comportarsi in maniera conforme
al DI. I loro pareri sono tenuti sempre più in considerazione dai giudici e spesso le ONG rivestono il
ruolo di "amici curiae", cioè forniscono informazioni utili alle sentenze (come parti non in causa).
Il mondo ha bisogno degli Stati, ma comunque questi si fondano sulla legittimazione politica,
quindi è importante che il loro rispetto del DI sia promosso dal basso. L'opinione della società civile
non è giuridicamente rilevante, ma ha una spinta propulsiva fondamentale.

ESIGENZE INTERNE DELLO STATO GENERALIZZABILI AGLI ALTRI STATI


Uno Stato non può far ricorso al proprio diritto ed esigenze interne per giustificare violazioni di
norme del DI (come stabilito dal CID e dalla Convenzione di Vienna del 1969). Tuttavia il
comportamento degli Stati contribuisce a creare e a trasformare il DI.
È dunque difficile giustificare una violazione del DI da parte dei giudici costituzionali che
difendono "valori interni". Dato che il DI però deve poter evolversi, il cambiamento avviene
solitamente tramite un illecito iniziale che sia progressivamente condivisibile dal resto degli Stati.
In questi termini gli altri Stati possono accettare un'invocazione di esigenze interne di un singolo
Stato, come punto di partenza per una nuova norma internazionale.

JUS COGENS
Si tratta di una serie di norme che per la loro natura prevalgono sulle altre in caso di conflitto (es.
divieto di tortura, di aggressione, apartheid, discriminazione razziale, genocidio, ecc.). Infatti sono
norme fondamentali che non possono essere derogate neppure con i trattati. Alcuni sostengono
che siano "principi generali di diritto", ma in quel caso non sarebbero norme di rango supremo, ma
solo supplettive.
Gli unici due articoli a occuparsi espressamente di Jus Cogens sono il 53 e il 64 della Convenzione
di Vienna del 1969.
L'art. 53 fornisce una definizione di norma cogente e stabilisce che un trattato che deroga una
norma di questo tipo è invalido.
L'art. 63 aggiunge che una norma cogente sopraggiunta estingue i trattati incompatibili pre-
esistenti.
Secondo una serie di disposizioni collaterali è la CIG a determinare se una norma è cogente.
Nessun articolo elenca le norme cogenti.

Il Progetto di articoli della CDI sulla responsabilità degli Stati del 2001 si è occupato di Jus Cogens.
In esso si dice che alcune cause che escludono l'illecito dello Stato (consenso dello Stato leso,
esercizio del diritto di legittima difesa, forza maggiore, ecc.) non operano in caso di violazione di
norme di Jus Cogens. Il Progetto inoltre prevede conseguenze per violazioni gravi di DI generale.
Quando parla di "obblighi dovuti alla comunità internazionale nel suo insieme" la Commissione
chiama in causa norme sostanzialmente coincidenti con lo Jus Cogens. Il progetto non definisce che
cosa sia e si limita a definirlo "DI generale".
Inoltre vi sono alcune sentenze internazionali che hanno fatto riferimento allo Jus Cogens,
soprattutto in materia di crimini internazionali e per richiamare principi come l'universalità della
giurisdizione, l'imprescrittibilità del crimine.

Altri effetti dello Jus Cogens:


 invalidità delle consuetudini
 rende inoperativa l'eccezione del persistent objector che commette violazioni che
scioccano l'umanità
 (si dice che) la sua violazione possa rendere obbligatorio l'esercizio della protezione
diplomatica per un cittadino leso all'estero
 (si dice che) l'ONU sia vincolato dallo Jus Cogens e che decisioni che lo violino (come
violazioni ai diritti umani) siano invalide
Quanto precede sembrerebbe avallare l'idea che lo Jus Cogens sia la fonte suprema di DI.
L'opinione prevalente è che ci sia una coincidenza con le norme erga omnes.

Secondo il Foca, lo jus cogens non rientra nella statica ma nella dinamica del DI, essendo:

 Promozionale. I giudici applicano lo jus cogens per dimostrare la necessità di un effetto,


indispensabile per proteggere un valore comune alla generalità degli Stati, ma ancora
giuridicamente inesistente, divenga DI vigente in futuro. Lo dimostrano con
un'argomentazione di tipo giusnaturalistico, con l'auspicio che progressivamente venga
applicato da tutti gli Stati in qualsiasi circostanza.
 Provvisorio. Una volta che gli Stati seguono l'esempio proposto dai giudici, si formerà una
norma che renderà non più necessario lo Jus Cogens.
 Educativo. Applicandolo i giudici educano gli Stati spingendoli a comportarsi secondo i
valori comuni all'umanità, nella misura in cui sono estranei alla prassi statale.

APPLICAZIONE INTRA-STATALE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE


Dato che non esiste un’autorità universale che amministra il DI, ogni Stato deve apportare
modifiche o integrazioni al proprio diritto per conformarsi al DI. Il diritto interno e il DI sono
distinti, quindi ogni norma di DI deve essere immessa nell’ordinamento interno dello Stato.
Oggi si parla spesso di “recezione” o “applicazione” intra-statale.
Il problema della recezione esiste in ogni Stato. Solitamente esistono meccanismi di recezione
diversi, a seconda se si tratta di norme internazionali generali, pattizie, contenuti in atti vincolanti di
OI. Se questi non esistono, talvolta i giudici le applicano comunque, assumendo che esistano norme
“tacite” di recezione o sulla base di principi generali come quello di “apertura
dell’ordinamento interno al DI”.
Esistono sia meccanismi di recezione “formali”, ovvero attraverso norme esplicite, che
“informali”, in cui esponenti politici si accordano con colleghi stranieri informalmente e poi
trasformano questi accordi direttamente in norme interne.
Il DI non prescrive agli Stati il modo in cui la recezione deve avvenire. La generalità degli Stati
ritiene che ogni Stato debba applicare a sua discrezione gli obblighi internazionali per
salvaguardare la sovranità di ogni Stato e garantire una più efficiente ed equa gestione del sistema
globale. Ne consegue che i giudici statali applicano il DI nella misura in cui esso è stato recepito dal
proprio ordinamento. La funzione sistemica del DI è sempre universalistica, ma l’autorità che
deve esercitarla in ultima istanza è sempre statuale.

La recezione può avvenire mediante due procedimenti:


 Procedimento “ordinario”: la norma internazionale viene riformulata in una norma di
diritto interno
 Procedimento “speciale”: l’autorità interna crea una norma che rinvia alla norma
internazionale (può riferirsi ad un intera categoria di norme, un singolo atto, una singola
questione regolata dal DI).
Una volta recepita dal diritto interno, la norma entra a far parte dell’ordinamento statale, ma
non è detto che sia direttamente applicabile, perché potrebbe necessitare di norme ulteriori per
poter essere applicata. La norma internazionale ha diversi livelli di applicabilità interna. Vi è però
confusione su tale questione. Non di rado i giudici statali si appellano alla non diretta applicabilità
per non applicare norme che ritengono poco desiderabili o limitative della sovranità nazionale.

Esistono quattro livelli di profondità di intervento normativo necessario affinché una norma
internazionale diventi operativa nel diritto interno:
 Operatività interna: se la norma non è stata recepita o validamente recepita, è vincolante
verso gli Stati in cui è in vigore ma non opera all’interno e anche se si tratta di una norma
inidonea al diritto interno per il suo contenuto (per esempio se si tratta di un tratto con
obblighi rilevanti solo nei rapporti tra Stati).
 Applicabilità diretta: deve intervenire il legislatore per obbligare gli organi statali interni
ad applicare la norma internazionale. La norma è recepita e lo Stato può rispettare gli
obblighi da essa stabiliti verso gli altri Stati.
 Azionabilità giudiziaria individuale: il legislatore può dover intervenire per dare agli
individui il diritto di far valere la norma dinanzi ai giudici interni. La norma, già
recepita e su cui vige la “diretta applicabilità” da parte degli organi interni, crea diritti e
obblighi anche per gli individui. Uno Stato può decidere autonomamente di rendere una
norma direttamente azionabile (dagli individui), anche quando in sé non lo sarebbe.
 Completezza del contenuto: talvolta il legislatore può dover intervenire per completare o
specificare una norma incompleta o meramente programmatica, senza un contenuto
precettivo preciso. Si parla quindi norme “self-executing” (direttamente applicabili senza
ulteriori interventi normativi) o meno. Dato che i diritti interni sono diversi tra loro, una
norma potrebbe essere direttamente applicabile in uno e non in un altro.

Bisogna capire che rango occupano le norme internazionali rispetto a quelle nazionali. Di solito
nell’ordinamento italiano la norma internazionale viene fatta equivalere alla norma nazionale
che provvede alla sua recezione.

RICEZIONE E RANGO NEL DIRITTO ITALIANO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE


L’art. 10, comma 1 della costituzione (“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme
del diritto internazionale generalmente riconosciute”) fa sì che i giudici abbiano l’obbligo di
applicare i principi di DI e possano farlo legalmente.
 Norme consuetudinarie
L’art. 10 fa riferimento alle norme consuetudinarie generali e alle norme cogenti, se constano
di “usus” e “opinio juris”. Non è chiaro se siano incluse le consuetudini particolari.
I giudici italiani (così come quelli di altri Stati) devono ricostruire le norme consuetudinarie,
attraverso il dialogo tra Corti e avere una conoscenza accurata dal DI.

 Principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili


Secondo la giurisprudenza e la dottrina l’art. 10 fa riferimento anche a questi principi.

Dunque l’art. 10 della Costituzione rinvia in blocco a tutte le norme internazionali generalmente
riconosciute obbligando i giudici a riconoscerle ed applicarle direttamente non appena si
formano sul piano internazionale.
Quindi il compito del giudice è molto delicato, in quanto deve stabilire l’esistenza di norme,
interpretarle, ecc.
Le norme internazionali generali sono quindi di rango costituzionale e le leggi che le violino
sono da ritenersi incostituzionali. Le norme sub-legislative che contrastano con le norme generali di
DI possono essere annullate dal giudice amministrativo o disapplicate nel caso di specie dal giudice
ordinario.
Nel caso di conflitto tra norme generali di DI e norme costituzionali, la dottrina prevalente
ritiene che prevalga il DI, tranne nel caso in cui questo confligga con principi supremi della
Costituzione (es. forma repubblicana). Dunque si parla di “controlimiti” costituzionali al DI.
In alcune sentenze del passato della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione si è ritenuto
che le norme di DI generale pre-esistenti alla Costituzione prevalessero su di essa. La Corte
Costituzionale tuttavia non ha più ripreso questo criterio in tempi recenti.
Sempre la Corte Costituzionale ha ricevuto forti critiche per alcune sentenze in cui ha assunto un
ruolo di “buttafuori” di norme internazionali da lei giudicate contrastanti i principi fondamentali
della Costituzione. Secondo Focarelli, bisognerebbe accogliere inizialmente qualsiasi norma di DI
e solamente dopo porsi problemi di rango e di conflitto con i principi costituzionali supremi.

Di solito il contrasto si pone tra la consuetudine dell’immunità giurisdizionale di Stati stranieri,


dei loro organi o delle OI e l’articolo 24 della Costituzione sul diritto alla tutela giurisdizionale. La
dottrina sembra propendere per l’ipotesi che la norma internazionale prevalga sull’art. 24 solo
quando questo sia soddisfatto “per equivalenti”, cioè quando si possa evitare di far ricorso a
giudici italiani perché è possibile ottenere tutela giurisdizionale attraverso altri giudici dello Stato
straniero. Comunque nelle sentenze il ricorso al criterio della protezione per equivalenti non viene
sempre applicato, anche perché non avallato dal DI.

RECEZIONE E RANGO NEL DIRITTO ITALIANO DEI TRATTATI E DELLE SENTENZE


INTERNAZIONALI
Non esiste alcun articolo della Costituzione che faccia menzione della recezione dei trattati.
Nell’ordinamento italiano di solito si applica il procedimento “speciale”. Viene emanato un atto
normativo, di solito una legge ordinaria, che contiene un ordine di esecuzione che rinvia per
intero al trattato indicato.
Gli organi statali devono applicarlo come se fosse diritto italiano. È quindi direttamente
applicabile e azionabile dai singoli nell’ordinamento interno, a meno che non sia carente nel
contenuto. La differenza tra ratifica e ordine di esecuzione è che la ratifica impegna lo Stato a
livello internazionale, mentre l’ordine di esecuzione ordina agli organi statali di applicare il trattato
nell’ordinamento interno. Se non c’è ordine di esecuzione è possibile cercare comunque di
interpretare le norme interne nella maniera più conforme possibile al trattato.
Più di rado si fa anche ricorso al procedimento “ordinario”, riproducendo il trattato con possibili
varianti rispetto al suo testo. I giudici devono rifarsi al testo dell’atto normativo e non a quanto
convenuto nel trattato. Si è soliti dire che il procedimento “speciale” sia preferibile, in quanto un
atto di recezione creato seguendo quello “ordinario” risente di eventuali variazioni rispetto al
trattato.
Se le norme sono non self-executing è necessario integrarlo con ulteriori norme statali, il che
implica la necessità di utilizzare il procedimento “ordinario”. Come già detto, esiste la tendenza
ad abusare del carattere incompleto delle norme per giustificare la disapplicazione di norme
indesiderate. Il procedimento “ordinario” è indispensabile per norme che danno allo Stato una
facoltà oppure gli impongono un obbligo senza specificare come attuarlo (es. obbligo di
repressioni di crimini internazionali senza specificare la pena).

Bisogna stabilire il rango dei trattati.


In passato, in caso di conflitto tra norme legislative di recezione e:
 Norme costituzionali: le norme di recezione venivano dichiarate incostituzionali
 Norme dello stesso rango: prevalevano i trattati quando corrispondevano alla lex posterior
e/o lex specialis, oppure si interpretavano le norme esistenti in modo che risultassero
conformi ai trattati
Per altri trattati (in particolare quelli sui diritti umani) i giudici hanno talvolta affermato che
non fossero modificabili o abrogabili a motivo del loro contenuto.
Le norme di diritto comunitario (oggi diritto UE), pur rese esecutive con legge ordinaria,
avevano rango costituzionale.
L'art. 117, comma 1, Cost, emendato nel 2001, dice che "la potestà legislativa è esercitata dallo
Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". Inoltre la legge che dà
attuazione a questo articolo afferma che i trattati "costituiscono vincolo alla potestà
legislativa dello Stato e delle Regioni". Si pone dunque il problema: i trattati, anche se resi
esecutivi con legge ordinaria, hanno un rango superiore alla legge ordinaria?
La Corte Costituzionale ha detto di sì in due sentenze. Dunque i trattati hanno un rango
intermedio tra la Costituzione e la legge ordinaria. I giudici devono sottoporre l'eventuale
incompatibilità di una legge con un trattato alla Corte Costituzionale, che eventualmente
renderà invalida la legge ordinaria perché confligge con il trattato ed è dunque incostituzionale.
Sempre secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, le leggi ordinarie però possono
prevalere sui trattati quando proteggono maggiormente i diritti umani.
Prima di valutare l'eventuale incostituzionalità di una norma interna incompatibile con un
trattato, la Corte deve sempre prima valutare se il trattato è conforme alla costituzione.
Tutti i trattati, eccezion fatta per il diritto dell'UE, funzionano in tal guisa.
L'orientamento precedente all'emendamento della Costituzione e quanto appena enunciato si
combinano in questo modo in un caso giudiziario:
 Se il giudice interpreta la legge in conformità del trattato non sorge conflitto.
 Se il giudice può applicare i principi "lex posterior" e "lex specialis" con carattere
interpretativo allora applicherà il trattato; se invece i due criteri sono diretti a risolvere
conflitti in senso stretto il giudice dovrà rivolgersi alla Corte.
 Se il trattato è anteriore e non speciale il giudice dovrà per forza rivolgersi alla Corte.

RECEZIONE E RANGO NEL DIRITTO ITALIANO DEGLI ATTI VINCOLANTI DELLE OI


Per quanto riguarda gli atti vincolanti delle OI, il problema che si pone è il seguente: è sufficiente
la recezione del trattato istitutivo o sono necessari atti di recezione per ciascuno degli atti
dell'OI, anche quelli self-executing?
A parte i regolamenti comunitari, che come espresso dal trattato istitutivo si applicano
direttamente, la prassi è di creare un atto normativo per ciascuna decisione per via ordinaria.
Dunque, nel silenzio del trattato istitutivo, non si può dedurre la diretta azionabilità intera di un atto
vincolante, ma è necessaria una norma di recezione.
Tali prassi è stata criticata in dottrina, sostenendosi che sarebbe sufficiente l'ordine di
esecuzione del trattato esecutivo e eventualmente atti di recezione ad hoc quando è necessaria
maggiore chiarezza oppure l'integrazione delle norme.
Tuttavia la recezione di ogni atto ad hoc può essere giustificata: infatti (eccezion fatta per l'UE)
nelle OI di solito non esiste una Corte di giustizia che verifica se l'atto è legittimo, in quanto
conforme al trattato istitutivo. Gli atti potrebbero essere infatti delle modifiche al trattato
istitutivo, dunque è difficile sostenere che la legge di esecuzione del trattato possa anche recepire
gli atti che lo modificano. L'ordine di esecuzione viene dato al trattato nel suo insieme e non alle
norme ulteriori. Nell'UE c'è l'esigenza pratica di evitare un numero ingestibile di atti di recezione
ad hoc, ma gli atti vincolanti delle altre OI sono molto rari.
Alla luce dell'art. 117, comma 1 della Cost come emendato nel 2001 si dice che la potestà
legislativa dello stato è vincolata dagli obblighi internazionali. Una legge del 2003 stabilisce tali
obblighi come "accordi di reciproca limitazione di sovranità". Dunque si possono considerare gli
atti vincolanti obblighi internazionali e quindi posizionarli in un rango superiore alla legge
ordinaria ma inferiore alla Costituzione ("norme interposte") alla stregua dei trattati.
Le risoluzioni del CdS dell'ONU sono attuate dall'UE attraverso regolamenti, quindi
direttamente applicabili negli ordinamenti interni degli Stati dell'UE
Si è sostenuto che la prassi della recezione ad hoc degli atti vincolanti valesse anche per le
sentenze internazionali ma bisogna considerare che le sentenze di regola riguardano solo due o
pochi Stati e accertano le norme ma non le creano, quindi atti e sentenze sono diversi.

RECEZIONE E RANGO NEL DIRITTO ITALIANO DEL DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA


La recezione dei trattati istitutivi delle comunità europee è avvenuta nel 1957 con legge
ordinaria, idem per i successivi trattati modificativi.
Il problema si pone per quanto riguarda la recezione di regolamenti, direttive e decisioni indirizzate
agli Stati.
I regolamenti si applicano direttamente, nella misura in cui siano self-executing, secondo quanto
previsto dall'art. 288 TFUE.
Decisioni e direttive indirizzate agli Stati richiedono atti di esecuzione ad hoc per poter essere
azionati davanti ai giudici nazionali. Per le decisioni indirizzate ai singoli la diretta applicabilità e
azionabilità è in re ipsa.
Le decisioni producono effetti diretti. Le direttive invece impongono dei risultati ma non come
raggiungerli.
Le direttive possono produrre effetti diretti solo quando sono dettagliate. (di solito non lo sono).
Possono invocarle solo i singoli e solo contro gli Stati.
Le direttive possono produrre effetti diretti quando vengono usate per interpretare una norma di
diritto interno.
La diretta applicabilità e efficacia è riconosciuta anche per gli accordi UE con stati terzi e OI,
purché si tratti di norme complete e purché la Corte di giustizia UE non la escluda.

Per quanto riguardo il rango del diritto dell'UE vale l'art. 117 comma 1 Cost. emendato nel
2001. Il diritto interno incompatibile con quello UE deve essere disapplicato sia dai giudici che
dalla Pubblica Amministrazione senza sollevare la questione di legittimità se non nei casi in cui
ciò è ammesso.
Si pone il problema di incompatibilità tra diritto UE e norme costituzionali italiane,
soprattutto in materia di diritti fondamentali. Inizialmente il diritto UE non prevedeva norme a
tutela dei diritti fondamentali. In seguito però essi sono stati ricavati dalle tradizioni
costituzionali comuni degli stati membri e dai trattati che li vincolano, diventando principi
generali dell'ordinamento comunitario.
In alcune sentenze, le Corti costituzionali italiana e tedesca hanno entrambe stabilito di
rinunciare al controllo sui diritti fondamentali, fintanto che se ne occupa la Corte di
giustizia, ritenendo però di poter sindacare gli atti comunitari contrastanti con le rispettive
Costituzioni applicando la teoria dei "controlimiti".

LEGISLAZIONE REGIONALE ATTUATIVA NELL'ORDINAMENTO ITALIANO DELLE NORME DEL


DI E DELL'UE
Quando lo Stato ripartisce alcune competenze legislative interne attribuendone alcune agli enti
territoriali, è compito di questi provvedere all'emanazione di norme che rendano operative le
norme internazionali nelle materie di loro competenza? Si tratta di una questione di diritto
interno, al DI basta che gli obblighi internazionali vengano rispettati.
In passato si riteneva che la recezione da parte delle Regioni fosse circoscritta ad atti di
recezione già emanati dallo Stato. Infatti, in base al principio dell'unità della Repubblica, non
era ammissibile che ogni Regione avesse il potere di decidere se applicare le norme
internazionali o meno e in quale misura.
Rimaneva il problema se le Regioni potessero specificare e/o completare le norme emanate
dallo Stato. Inizialmente la Corte costituzionale era sfavorevole, ritenendo che gli affari esteri
fossero competenza esclusiva dello Stato. Così facendo era però sottratto alle Regioni la potestà
legislativa in materie di loro competenza.
In seguito la Corte costituzionale ha ammesso che le Regioni potessero esercitare questa
potestà, a condizione che lo Stato potesse sostituirle nel caso di inerzia, urgenza, esigenze di
uniformità.

Oggi si tiene conto dell'art 117, comma 5 della Cost emendato nel 2001, che attribuisce alle
Regioni la competenza a provvedere all'attuazione di accordi internazionali ratificati e atti
UE. La l. 131 del 2003 dispone che "le Regioni e province autonome di Trento e Bolzano nelle
materie di propria competenza legislativa, provvedono direttamente all'attuazione degli
accordi internazionali ratificati, …". Si discute sul significato di direttamente e ratificati. Il
primo sembra implicare la non necessità di un atto di recezione statale. Il secondo che
l'attuazione diretta sia esclusa dagli accordi in forma semplificata ma la Corte
costituzionale ha precisato che non è così.
L'art. 120, comma 2 della Cost specifica che lo Stato può sostituirsi alle Regioni quando le
norme e trattati internazionali non vengono rispettati oppure c'è un pericolo per l'incolumità
e la sicurezza pubblica oppure lo richiede la tutela dell'unità giuridica ed economica.
Si ritiene in dottrina che lo Stato dovrebbe limitarsi alla sola inerzia o inadempienza per non
comprimere troppo le competenze regionali.
Con riguardo al diritto dell'UE le Regioni nelle materie di competenza esclusiva danno
tempestiva attuazione alle direttive comunitarie. Inoltre le Regioni e le Provincie autonome,
nelle materie di propria competenza esclusiva provvedono al recepimento delle normative
europee, fermo restando i poteri sostitutivi dello Stato in caso di inerzia.
Ovviamente le Regioni non possono legiferare contro il DI, altrimenti violerebbero la
Costituzione (art. 117 comma 1).

GIUSTIZIABILITÀ
Quando i giudici si rifiutano di decidere un caso sostenendo che "non è giustiziabile", stanno
indebolendo il diritto. I giudici statali non di rado invocano dottrine di "astensionismo giudiziale"
per quanto riguarda il DI, che ha come risultato di dare un più ampio margine di manovra in politica
estera all'Esecutivo.
La non-giustiziabilità comprende una serie di atteggiamenti o giustificazioni dei giudici statali
diretti ad evitare e ad applicare il DI per motivi politici. Questo comportamento andrebbe
evitato, per non condurre a un diniego di giustizia e ad una violazione delle disposizioni
costituzionali e internazionali.
QUESTIONE POLITICA
La dottrina della "political question" è diretta ad evitare che i giudici statali si pronuncino su casi
che tocchino materie che si ritengono di pertinenza di organi dello Stato diversi dai giudici.
Vi sono questioni che sono competenza dell'Esecutivo e non sono sindacabili dai giudici (es.
Ratifica di un trattato, protezione diplomatica, ecc.). Tuttavia se una norma di DI vincola uno stato
gli organi statali devono rispettarla e i giudici accertare se ci sono violazioni.

DEFERENZA E RICHIESTA DI CERTIFICAZIONI ALL'ESECUTIVO


Una prassi, oggi anacronistica, è una forma di deferenza che consiste nella richiesta di
"certificazioni" (suggestions) su questioni sensibili relative alla politica estera dello Stato. È
criticabile quando questa prassi è diretta ad ottenere istruzioni dall'Esecutivo e non solo
informazioni. Soprattutto quando si tratta di diritti umani è bene che la funzione giudiziaria e quella
esecutiva rimangano separate.

ACT OF STATE
Secondo la dottrina dell'act of State, i giudici di uno Stato dovrebbero astenersi dal sindacare la
liceità internazionale o la legittimità rispetto alla Costituzione dello Stato straniero degli atti
sovrani emanati da un altro Stato che sono chiamati ad applicare in una controversia inter-
individuale, evitando poi di applicarli se illeciti.
È controverso se si tratti di una dottrina di DI. La prassi è divisa. Questa dottrina non è né imposta
né vietata dal DI. Nel complesso si tratta di un processo di diritto interno volto a non mettere in una
situazione di "imbarazzo" il proprio Governo nei rapporti con gli altri Stati.
Secondo Foca l'Act of State non deve valere e i giudici devono poter stabilire se un atto straniero sia
conforme al DI e applicabile in foro.

SEGRETO DI STATO
Anche la dottrina del "segreto di Stato" può precludere ai giudici statali di pronunciarsi su un caso
rilevante per il DI.
È difficile giustificare la dottrina del segreto di Stato, in quanto è nell'interesse dell'intera
comunità nazionale sapere che cosa faccia l'Esecutivo, quantomeno quando è accusato di
violazioni di diritti umani.
A questo proposito vi è un preoccupante atteggiamento altalenante da parte della giurisprudenza
italiana nei confronti del DI, che a volte è eccessivamente umanitario e altre volte è astrattamente
realista. Si nota una certa sottovalutazione e scarsa conoscenza del DI.

INDETERMINATEZZA E CLAUSOLE DI ESECUZIONE


A volte i giudici per evitare di applicare norme indesiderate invocano l'indeterminatezza o
vaghezza del DI. Altre volte invece scaricano la decisione a un meccanismo internazionale di
risoluzione delle controversie come la Corte di giustizia dell'Unione Europea.
"Indeterminatezza" e "vaghezza" sono concetti relativi, dunque una norma internazionale può
essere considerata non self executing solo quando prevede una facoltà oppure un obbligo che
necessità di un atto normativo interno per essere osservato.
I giudici a volte si appellano alla clausola di esecuzione per non pronunciarsi. Tale clausola
prevede che gli Stati contraenti un trattato applichino alcune misure legislative e regolamentari
che assicurino il rispetto del trattato in generale, per garantire l'osservanza e uniformità
nell'applicazione del trattato negli organi interni. Non osservare questa clausola però non influisce
sulla natura self-executing di ogni norma.

RIPARTIZIONE NORMATIVA DELL'AUTORITÀ DI GOVERNO DEGLI STATI


(CAPITOLO III)
Chi governa dove? Ogni cittadino deve trovarsi sotto la giurisdizione di uno Stato, che emette
norme giuridiche valide (penali, tributarie, amministrative, ecc.).
La giurisdizione nell'accezione attuale è l'autorità di governo di uno Stato e comprende i tre
poteri (o giurisdizioni) legislativo, giudiziario ed esecutivo.
Tende a coincidere con il potere coercitivo concreto, quindi con la concreta attuazione delle
norme.
L'autorità di governo statale ha una dimensione spaziale (terrestre, marittimo, aereo), definita da
confini. Ogni Stato ha competenza esclusiva sul suo territorio e può emanare leggi, emettere
sentenze e attuare entrambe coercitivamente.
Esiste eccezionalmente una dimensione extra-territoriale in Stati altrui (es. Navi o aerei di
bandiera, ambasciate, ecc.)
Tre tipi di giurisdizione:
 Giudiziaria
 Esecutiva
 Legislativa
Il problema è come ripartirla nei casi che coinvolgono più Stati.
Tuttavia, il termine "giurisdizione" usato nei trattati può essere inteso come potere esclusivamente
giudiziario invece che come autorità statale nel complesso. A sua volta, la giurisdizione giudiziaria,
può avere due accezioni:
o Giurisdizione giudiziaria intesa come applicazione delle norme di quello Stato o
o Giurisdizione giudiziaria come possesso di un titolo di giurisdizione da parte dei giudici
(statali o internazionali)

In alcuni casi la giurisdizione giudiziaria va distinta da quella esecutiva (potere di


pronunciarsi ma non di emettere atti esecutivi).
Qui ci occupiamo di giurisdizione legislativa e giudiziaria (penale, amministrativa, tributaria).

Ogni Stato, non potendo avere un potere di governo illimitato, ha un potere definito da quattro
criteri: territorialità, nazionalità, protezione, universalità.
 Territorialità: ogni Stato può applicare qualsiasi legge su persone, beni ed eventi nel suo
territorio, purché conforme al DI. Secondo il DI lo Stato deve applicare sul proprio territorio
la propria legge. La stragrande maggioranza dei reati giudicati da uno Stato sono commessi
sul proprio territorio. Non tutte le leggi di uno Stato si applicano a chiunque si trovi sul suo
territorio. Agli stranieri non si applicano certi obblighi (es. Servizio militare, imposizioni
fiscali) e diritti (diritto di voto).
Il principio territoriale si è dimostrato storicamente efficiente ma a volte solleva difficoltà
quando un reato avviene in più Stati (per es. L'illecito è compiuto in uno ma provoca un
danno in un altro). In questo caso infatti i due Stati potrebbero applicare ciascuno il suo diritto
in base al principio territoriale. Nella prassi gli Stati sono favorevoli alla competenza
legislativa e giudiziaria di tutti gli Stati territorialmente connessi al caso. Può succedere
che le sentenze siano incompatibili tra loro. Talvolta si assume che l'illecito sia di carattere
continuato e la competenza sia dello Stato in sui si è protratto. In alcuni casi si è supposto
che un atto fosse territoriale anche quando non lo era fisicamente ma aveva ripercussioni nel
territorio di uno Stato (prassi comune soprattutto negli Stati Uniti). In passato questa teoria
era fortemente contestata, oggi sembra essere accolta nei limiti in cui riflette il criterio
territoriale oggettivo localizzando gli eventi (effetti) dannosi nel foro.
Internet pone numerosi problemi in quanto un illecito può produrre effetti ovunque nel
globo. Di regola esercitano la giurisdizione lo Stato da cui parte l'illecito e lo Stato dove si
verifica l'effetto. Pur trattandosi di uno spazio virtuale si cerca di farlo coincidere con uno
spazio reale.
In alcuni casi i giudici hanno ingiunto al provider di impedire l'accesso al messaggio nello
Stato del foro piuttosto che cercare di eliminare il messaggio.

 Nazionalità: quando uno Stato esercita la sua autorità a prescindere dal un nesso
territoriale si parla di "giurisdizione extraterritoriale".
o Nazionalità attiva: lo Stato applica le proprie leggi a chi commette un illecito in
un altro Stato e potrà richiedere l'estradizione se prevista da un trattato. È
stabilito dal DI consuetudinario.
o Nazionalità passiva: lo Stato applica le proprie leggi a chi subisce un illecito
all'estero, in pratica si evita a meno di casi molto gravi, come l'omicidio. Talvolta
contestato, è spesso invocato per i casi di vittime di atti terroristici rimasti impuniti
avvenuti in paesi esteri terroristici. Questo è spesso previsto dai trattati e non è
chiaro se si tratti di una consuetudine.
 Protezione: Gli Stati di solito rivendicano il diritto di applicare la propria legislazione a
fatti compiuti all'estero da stranieri per difendere i propri interessi vitali ed essenziali
(es. contraffazione della propria valuta, traffico di stupefacenti, immigrazione illegale). La
giurisdizione quasi-universale è prevista da trattati, di solito in materia di terrorismo,
traffico di stupefacenti e corruzione. Non è chiaro quali siano gli "interessi essenziali",
quindi tale criterio si presta ad essere manipolato.
 Universalità: Alcuni reati gravi si ritiene che siano soggetti alla giurisdizione di tutti gli
Stati. La giurisdizione universale non va confusa con la giurisdizione extra-territoriale o
extra-personale, né con la "quasi universalità".

GIURISDIZIONE ESECUTIVA
La giurisdizione esecutiva , a differenza di quella legislativa e giudiziaria, si può applicare solo sul
proprio territorio o eccezionalmente in altri Stati ma con il loro consenso. In mancanza di
questo, va seguito la procedura sull'estradizione.
Se si esegue una "penetrazione non autorizzata" nel territorio di uno Stato da parte di agenti di un
altro (extraordinary rendition o abduction) per compiere un arresto si viola il diritto locale e il DI.
La giurisprudenza è divisa in merito a se sia legittimo processare nello stato cattore una persona
catturata in violazione di sovranità.

LA LIMITAZIONE DEGLI SPAZI DI ESERCIZIO DI GIURISDIZIONE STATALE


Che cosa si intende per territorio statale? Bisogna individuare gli spazi giuridicamente rilevanti
della terra e i relativi poteri di governo esercitabili dagli stati secondo il DI. Gli spazi sono:
 Terrestri
 Marini
 Aereo
 Cosmico
 Polari
Lo spazio virtuale è tendenzialmente ricondotto a quello fisico.
Sulla terraferma vale il principio della sovranità territoriale, ovvero il diritto esclusivo di uno stato
di esercitare le sue funzioni e l’obbligo di proteggere i diritti di altri stati, oltre a quelli dei cittadini
in territorio straniero.
Vige l’uguaglianza degli stati intesa dal punto di vista giuridico, ovvero l’obbligo di non
interferenza o rispetto del dominio riservato degli stati. Questo non significa che non ci siano
diseguaglianze tra gli stati o che alcuni Patti da essi firmati non diano diritti ed obblighi diversi ai
suoi firmatari (es. diritto di veto dei membri permanenti del CdS e loro diritto di possedere armi
nucleari)
Lo Stato può esercitare la propria autorità di governo in un altro Stato solo con il suo
consenso.
L’uso della forza è illecito: non si può annettere un territorio altrui per conquista, tendenza che ha
origine dalla cosiddetta dottrina Stimson. Ma dato che il DI è anche interessato alla governabilità,
anche se l’annessione è considerata illecita, se si protrae nel tempo e lo Stato aggressore esercita
stabilmente la propria autorità di governo sul territorio conquistato, il suo risultato sarà
considerato lecito in un momento successivo.
Nel 2016 il consiglio di sicurezza dell’ONU in una risoluzione ha condannato gli insediamenti nel
territorio palestinese da parte di Israele, definendoli una violazione del DI umanitario, e ha richiesto
che gli Stati operino una distinzione tra il territorio di Israele e i territori occupati dal 1967. L’ONU
ha dunque riconosciuto l’esistenza di un’entità palestinese, benché non di uno Stato.

SPAZI TERRESTRI
Occorre stabilire i confini, all’interno dei quali uno Stato esercita la sovranità e giurisdizione
territoriale, intesa come potere coercitivo esclusivo.
Il confine di regola è stabilito con un trattato, ma talvolta anche con sentenza arbitrale, decisione di
una Commissione ad hoc, per risoluzione del CdS ONU.
Sul terreno è demarcato per mezzo di cippi, reti e simili. Sui fiumi si ricorre alla regola del
thwaleg (linea di massima navigabilità), oppure la linea mediana nei fiumi non navigabili. Nei
laghi di frontiera la linea mediana, per le catene montuose di confine la linea spartiacque o che
unisce le vette più alte.

L’unica norma di DI in materia di confini è il c.d. principio uti possidetis, per cui gli Stati
decolonizzati devono mantenere i confini che la madrepatria aveva stabilito quando erano
colonie.
Questo principio è stato applicato inizialmente dagli stati latino-americani, poi da quelli Africani. In
tempi più recenti è stato applicato anche per la dissoluzione della Jugoslavia, quindi non in un caso
di decolonizzazione. Questo principio è volto non solo a confermare i confini precedenti, ma
anche ad assicurare il rispetto dei confini stabiliti a prescindere dalla volontà popolare dei nuovi
Stati (in questo senso potrebbe trovarsi in tensione con il diritto di autodeterminazione dei popoli).
Sulla base di questa prassi, oggi si ritiene che il principio non solo faccia parte del DI generale, ma
che sia applicabile anche ad altre ipotesi oltre che a quella di decolonizzazione.

In caso di isole o zone di confine contese tra due Stati, la Corte internazionale di giustizia ha più
volte affermato la prevalenza del possesso di un titolo giuridico sull’effettività, a meno di
acquiescenza dello Stato alla situazione effettiva (es. controversia territoriale e marittima tra
Nicaragua e Colombia in cui isole del Nicaragua sono state riconosciute come di proprietà della
Colombia per acquiescenza del N. alla sua effettività).
SPAZI MARINI

Il mare è di vitale importanza per i trasporti, fin


dall’antichità. Storicamente alcuni Stati costieri
volevano impossessarsene interamente, estendo
il loro potere addirittura ad oceani interi. Dal
'600 si preferisce invece la “libertà dei mari”.
Dalla metà dell’800 la libertà dei mari è andata
incontro a un processo di erosione, causato
dalla pretesa degli Stati costieri di controllare
in modo esclusivo il mare adiacente alle coste.
Vi sono stati diversi tentativi di codificare il DI
del mare. Oggi la materia è regolata dalla
Convezione ONU sul diritto del mare di
Montego Bay del 1982 (UNCLOS in inglese),
firmata da 168 Stati. Si ritiene che diverse sue
parti corrispondano al DI  generale.
Le ragioni dell’erosione del principio della
libertà dei mari è da individuarsi nella pretesa
degli Stati di estendere il controllo a:
 mare territoriale: per motivi di
sicurezza e repressione del
contrabbando
 a favore della “piattaforma
continentale” e della “zona economica esclusiva”, ovvero per motivi economici legati allo
sfruttamento delle risorse naturali
 “zona di protezione ecologica”, per fini di protezione ambientale

ACQUE INTERNE E PORTUALI


Le acque interne sono quelle situate verso il terreno rispetto alla linea di base del mare
territoriale (baie, canali, estuari, laghi, mari interni, fiumi). Lo stato esercita la propria sovranità
sulle acque interne esattamente come sulla terraferma del suo territorio. L’unica eccezione è
l’obbligo di concedere alle navi straniere il diritto di “passaggio inoffensivo”, ma solo nei casi in
cui la linea di base sia stata tracciata con il metodo delle linee rette, per non nuocere ai traffici
marittimi. Di solito gli Stati costieri stabiliscono proprie condizioni per l’accesso di navi straniere
alle loro acque interne.
Le acque portuali sono considerate acque interne, ma non sono incluse le installazione artificiali
lontane dalla costa e le isole artificiali. All’uscita dal porto le navi straniere devono ottemperare
alle formalità richieste e potrebbero essere trattenute.
La giurisdizione esecutiva dello stato costiero non può essere esercitata sulle navi da guerra
(non si può salire a bordo e arrestare gente). La giurisdizione legislativo-giudiziaria può invece
essere esercitata sulle navi private straniere.

.
FIUMI E CANALI INTERNAZIONALI
Fiumi e canali internazionali sono acque interne ma particolari.
I fiumi appartengono alle acque interne dello Stato attraversato e sono regolati da trattati erga
omnes che sanciscono il principio di libera navigazione per qualsiasi Stato (non presente nel DI
consuetudinario).
In passato presentavano essenzialmente problemi di navigazione, oggi anche altri (es. ripartizione
acque a monte e a valle).
I canali internazionali all’interno di uno Stato ma che collegano due parti di alto mare sono
regolati da trattati (es. Suez, Panama, Kiel) e stabiliscono la libera navigazione di tutti gli Stati.

MARE TERRITORIALE
Lo stato costiero esercita sul mare territoriale (fascia di mare adiacente alla costa che comprende
suolo, sottosuolo e acqua) la stessa sovranità che esercita sulla terraferma per il solo fatto di
esercitare la sovranità sulla costa (non richiesta effettività).
Secondo la convenzione di Montego Bay il limite esterno massimo del mare territoriale è di 12
miglia nautiche (22,22 km) dalla costa.
Il limite esterno si misura a partire dal limite interno che si fa corrispondere alla linea di bassa
marea, quindi segue le curve della costa.
Per le coste particolarmente frastagliate si attua il metodo delle linee rette, che consiste nel
tracciare linee che colleghino i punti più sporgenti, senza distaccarsi troppo dalla forma effettiva
della costa. Si tratta di una consuetudine che però ha suscitato perplessità.
Le baie possono essere considerate tali se hanno dimensioni maggiori di un semicerchio che ha
come diametro la distanza tra le sue aperture. Regola delle 24 miglia: la linea di base deve
essere di massimo 24 miglia.
La linea di base non può superare le 24 miglia. In caso di ampiezza maggiore della baia, va
tracciata una linea retta di 24 miglia che comprenda più spazio possibile (la linea arretra).
Le regole del semicerchio e delle 24 miglia non si applicano:
- Quando la linea di base viene tracciata col metodo delle linee rette
- Quando si tratta di “baie storiche” su sui lo Stato ha esercitato per lungo tempo la
sua giurisdizione con acquiescenza degli altri stati.
Alcuni stati hanno preteso di voler chiudere baie vitali per i loro interessi economici o militari, ma
la loro rivendicazione non ha trovato riscontro nel DI.
Quando le coste di due stati si fronteggiano o sono adiacenti, nessuno dei due può estendere il
proprio mare territoriale oltre la linea mediana equidistante dalle rispettive linee di base, a meno
che non vi siano circostanze speciali per cui è necessario delimitare il mare territoriale in altro
modo.
Nel mare territoriale vige l’obbligo di permettere il passaggio inoffensivo delle navi straniere e il
divieto di giurisdizione sulle navi straniere transitanti.
Passaggio inoffensivo: diritto riconosciuto da lungo tempo per non recare danno al commercio
internazionale e costringere le navi ad allungare le proprie rotte. Vale per le navi commerciali, le
navi da guerra e i sottomarini che navighino in emersione e mostrino la bandiera. Il passaggio
deve essere continuo e rapido ed inoffensivo. Nel caso in cui il passaggio sia offensivo, lo stato
costiero può adottare misure come l’invito a lasciare le acque territoriali o il fermo. Il diritto di
passaggio inoffensivo può essere sospeso dallo stato costiero per ragioni di sicurezza.
Lo stato straniero non può esercitare la giurisdizione su navi straniere da guerra e altre navi di stato
non commerciali né su navi straniere per fatti puramente interni.
La giurisdizione penale non dovrebbe essere esercitata su persone a bordo di navi straniere.
Lo Stato costiero non dovrebbe nemmeno fermare o dirottare una nave straniera per esercitar e la
giurisdizione civile.

ZONA CONTIGUA E ZONA ARCHEOLOGICA


La CMB stabilisce l’esistenza della zona contigua, una fascia marina adiacente al mare territoriale.
Essa si estende per un massimo di 24 miglia nautiche dalla linea di base. In questa zona lo Stato
costiero può esercitare il controllo necessario a prevenire e punire la violazione delle proprie
leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari e di immigrazione nel suo territorio o mare
territoriale.
In dottrina è controversa la questione sulla necessità di istituire o proclamare formalmente la zona
contigua da parte dello Stato. Il CMB non lo prevede, ma ci sono indizi che indicano la sua
necessità.
Una parte della dottrina sostiene che il potere di prevenzione riguarda le navi in entrata e il potere
di repressione le navi in uscita (che hanno commesso un illecito). Altri affermano che lo Stato può
esercitare qualsiasi potere nelle materie indicate. Si tratta di poteri “funzionali”, diversi dalla
“sovranità” nella terraferma e dai “diritti sovrani” esercitabili in altre zone marine.
Un recente studio ha sottolineato come nella zona contigua lo stato costiero abbia solo
giurisdizione esecutiva, quindi possa compiere azioni coercitive per le 4 materie dette prima. La
giurisdizione legislativa può essere esercitata solo in materia doganale da una norma
consuetudinaria risultante dalla prassi delle zone di vigilanza doganale e dalle misure di contrasto al
traffico di droga.
Alla zona contigua è sovrapposta la zona archeologica, prevista dal CMB e dalla Convenzione
UNESCO sulla protezione dei diritti subacquei. Secondo l’art. 303 della CMB, rimuovere oggetti
di carattere storico e archeologico dalla zona archeologico di uno stato costiero può essere
considerata una violazione nell’ambito del suo territorio o del suo mare territoriale.

PIATTAFORMA CONTINENTALE, ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA E ZONA DI PROTEZIONE


ECOLOGICA
Nel 1945 il presidente americano Truman con un proclama rivendica il diritto di sfruttamento
delle risorse naturali (petrolio gas) presenti nel suolo e sottosuolo della piattaforma
continentale, in quanto naturale prosecuzione della massa terrestre. L’esempio statunitense fu
seguito da altri Stati e in breve si formo una norma di DI generale, che superava la
contrapposizione tra mare internazionale (libero) e mare territoriale (controllato dallo Stato
costiero).
La Covenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale, la definisce come il letto del mare e il
sottosuolo delle regioni sottomarine adiacenti alle coste, fino a una profondità di 200 metri o
fino al punto in cui la profondità delle acque permette lo sfruttamento delle risorse naturali.
Tuttavia questo criterio era iniquo perché discriminava le regioni meno sviluppate
tecnologicamente.
La Convenzione di Montego Bay, tenendo conto di tale iniquità, ha stabilito che la piattaforma
continentale comprende i fondi marini e il loro sottosuolo oltre il mare territoriale fino al
bordo esterno del margine continentale o, se questo si trovi a una distanza inferiore, fino a 200
miglia marine dalle linee base. Se la piattaforma si estendesse oltre le 200 miglia ma non oltre le
350, una parte dei proventi dello sfruttamento di risorse devono essere versati annualmente
all’Autorità internazionale dei fondi marini, che li ripartisce agli Stati meno sviluppati.

Sulla piattaforma continentale lo Stato costiero ha un diritto automatico, funzionale ed esclusivo di


sfruttamento delle risorse naturali minerarie e altre non viventi del fondo marino e del
sottosuolo.
Questo non pregiudica i diritti degli altri Stati di sfruttamento delle risorse naturali nelle acque
sovrastanti e dell’uso dello spazio aereo sopra le acque (es. navigazione, pesca, posa cavi e
condotte sottomarine).
Si pone dunque il problema della limitazione della piattaforma continentale per stati adiacenti o
limitrofi. Nella Sentenza sul Mare del Nord, la CIG ha stabilito che la regola della limitazione
tramite una linea mediana che collegasse i punti più vicini delle linee di base dei due stati non
corrispondesse alla consuetudine, e che bisognasse ricorrere a un accordo per equità.
L’art. 83 della CMG prevede che la delimitazione venga fatta per accordo. Se non viene raggiunto
in tempi ragionevoli, gli Stati devono ricorrere alle procedure dedicate alla soluzione delle
controversie (Parte XV CMB). In attesa della conclusione gli Stati devono raggiungere intese
provvisorie di natura pratica. È ragionevole ritenere che nel frattempo viga un regime di
libertà per tutti gli Stati coinvolti.
Nella giurisprudenza internazionale si è fatto ricorso a vari criteri di equità, che hanno tenuto in
considerazione la configurazione della costa e la presenza di isole, ma non gli interessi di sicurezza
e di difesa, economici, storico-politici, biologici ed ecologici degli Stati.

La zona economica esclusiva, stabilita dalla CMB, corrisponde allo spazio marino che si estende
dalla linea di base del mare territoriale fino a 200 miglia marine (370,4 km), quindi include la
zona contigua ma non il mare territoriale. In questa zona lo Stato esercita diritti sovrani esclusivi
per lo sfruttamento delle “risorse naturali, biologiche o non biologiche, delle acque sovrastanti il
fondo del mare, del fondo del mare e del sottosuolo”. Dunque è venuta meno la tradizionale liberta
di pesca in alto mare.
Nella zona economica esclusiva lo Stato ha “diritti sovrani” esclusivi e funzionali di sfruttamento
di tutte le risorse biologiche e minerarie.
Restano per gli altri Stati le libertà di navigazione e sorvolo e di posa di condotte o cavi
sottomarini. Diversi Stati hanno invocato il diritto di impedire la navigazione nella zona economica
esclusiva a Stati stranieri, nella misura in cui questa ostacola l’esercizio dei loro poteri.
Per gli Stati svantaggiati dalla CMB (no litorale), è previsto il diritto di partecipare su basi eque
ad una parte adeguata delle eccedenze delle risorse della zona economica esclusiva della stessa
regione tramite accordo.

Recentemente nella prassi c’è la tendenza ad istituire “zone protezione ecologica”, come stabilita
dalla CMB, che parte dal limite del mare territoriale fino a un limite determinato sulla base di
accordi con gli Stati interessati (adiacenti o frontisti). In tali zone lo Stato esercita la propria
giurisdizione in materia di protezione e preservazione dell’ambiente marino, compreso il
patrimonio archeologico e storico (questi ultimi due punti solo in conformità con la Convenzione
UNESCO del 2001 e non con la CMB, che stabiliva a tal scopo la zona archeologica). La legge non
si applica alla pesca.

STRETTI INTERNAZIONALI
Negli stretti internazionali (contrazioni del mare tra due terre emerse di limitata largezza
costituenti una naturale via di passaggio tra due parti più vaste di mare) vige il “diritto di
passaggio in transito” (che non può essere sospeso), che rispetto al diritto di passaggio inoffensivo
del mare territoriale (che può essere sospeso) prevede in più il diritto di sorvolo aereo e di
transito dei sottomarini in immersione.

STATI ARCIPELAGICI
La CMB stabilisce un regime marittimo speciale per gli Stati arcipelagici, ovvero “Stati
interamente (e quindi non Stati come Spagna e Portogallo che hanno le Azzorre e le Baleari),
costituiti da uno o più arcipelaghi ed eventualmente da altre isole”. Un arcipelago è un gruppo di
isole, le acque comprese e altri elementi naturali interconnessi che formano un unico insieme
geografico, economico e politico (es. Filippine, Indonesia, Figi, Mauritius). Ci sono regole per
stabilire le linee di base che congiungono i punti estremi delle isole più esterne.   
Nelle acque racchiuse tra le linee di base arcipelagiche lo Stato esercita la sua sovranità.
Vige inoltre il diritto di passaggio inoffensivo (sospendibile) e il diritto di passaggio
arcipelagico (simile a quello di passaggio in transito) per le rotte normalmente usate per la
navigazione internazionale.

MARE INTERNAZIONALE
Al di là degli spazi marini sottoposti alla giurisdizione dei singoli Stati si estende il mare
internazionale, in cui vige per tutti gli Stati (anche se privi di costa) la libertà di navigazione, di
posa condotte e cavi, di pesca, di sorvolo, di costruzione di installazioni artificiali e di isole e di
ricerca scientifica. Ogni Stato deve rispettare la libertà altrui.
L’unica eccezione sono le navi di bandiera, in cui sul mare internazionale ha giurisdizione
esclusiva lo Stato in cui la nave è stata immatricolata. La giurisdizione viene esercitata attraverso il
comandante o le navi da guerra dello stato nazionale.
La CMB prevede la sussistenza di un legame effettivo tra la nave e il suo stato di immatricolazione,
nel senso che lo stato della bandiera non può essere meramente formale (fenomeno delle bandiere
ombra). Del resto il legame effettivo è richiesto come requisito per l’immatricolazione dal DI, ma
non è chiaro quali siano le conseguenze nel caso in cui uno stato accordi la propria bandiera ad
una nave in assenza di tale legame. Ci si aspetterebbe che in questo caso venga meno la validità
internazionale dell’immatricolazione, ma la prassi invece fa esattamente il contrario, distinguendo
la nazionalità fittizia (giurisdizione statale ammessa) dall’a-nazionalità (giurisdizione statale non
ammessa).

Eccezioni al principio di libertà del mare internazionale (la nave può essere visitata e catturata da
navi straniere):
- Pirateria: è considerato pirateria:
 ogni atto illecito a fini privati commesso da una nave (equipaggio o
passeggeri) o un aeromobile privato ai danni di un’altra nave (persone e beni
trasportati) in alto mare o comunque fuori dalla giurisdizione di qualsiasi
stato
 Ogni atto di partecipazione volontaria ad attività volte a rendere la nave
pirata
 Ogni azione che faciliti o inciti il verificarsi dei due punti precedenti
Dunque la violenza a fini pubblici, commessa da navi di stato, coinvolgente una
singola nave o aeromobile o attuata in acque territoriali o interne di uno stato
NON è pirateria.
Poiché i pirati commettono crimini a fini privati su navi senza bandiera e non
scelgono le loro vittime sulla base della loro nazionalità, sulla pirateria vige la
giurisdizione universale, quindi tutti gli stati possono catturare e processare i pirati.
La pirateria è tornata in auge in tempi recenti soprattutto al largo della Somalia e per
combatterla la CIG ha autorizzato l’uso della forza e l’esercizio di poteri di polizia in
acque territoriali e territorio somalo. Gli stati occidentali hanno catturato alcuni
pirati, ma li hanno fatti processare a stati terzi. Dal 2013 la pirateria somala è
considerevolmente diminuita.
- Sospetta pirateria, sospetta tratta di schiavi, sospetta a-nazionalità, sospetto uso
fraudolento di bandiera straniera: CG e CMB ammettono il diritto di visita da
parte di navi da guerra a bordo di navi sospettate di essere impegnate in pirateria o
tratta di schiavi, di non avere bandiera o, pur essendo della stessa nazionalità della
nave da guerra, di rifiutarsi di esibirla o di esibirne una straniera. L’equipaggio può
controllare i documenti e in caso di permanenza dei sospetti procedere con indagini
a bordo, ma non può sequestrare la nave o processare l’equipaggio, può solo
informare lo Stato della nave visitata. Se i sospetti dovessero rivelarsi infondati, la
nave fermata ha diritto ad indennizzo.
- Trasmissioni non autorizzate in alto mare: la CMB prevede l’arresto
dell’equipaggio e il sequestro dell’attrezzatura di navi che emettano trasmissioni
radiofoniche o televisive non autorizzate. Esiste inoltre un diritto di visita delle navi
sospettate di trasmissione non autorizzata.
- Contrabbando di guerra in tempo di pace: una parte della dottrina ritiene che
siano possibili visita e cattura a bordo di una nave che trasporti armi o armati in aiuto
degli insorti di un altro Stato, ma la CMB non si occupa di questo caso.
- Inquinamento (o minaccia di inquinamento) grave al litorale derivante da incidente
avvenuto nel mare internazionale: CMB ammette il potere di d’intervento in alto
mare su navi altrui per cercare di evitare o attenuare danni alla costa derivanti da un
incidente ecologico.
- Diritto di inseguimento: secondo DI consuetudinario e CMB, le navi da guerra o
adibite a servizi pubblici dello stato costiero possono inseguire una nave straniera
che abbia violato le sue leggi, a condizione che l’inseguimento sia preceduto da
intimazione di fermarsi, sia iniziato nelle acque in cui lo stato ha giurisdizione per
violazione di diritti che lo Stato possiede in tali zone e sia continuo e non
interrotto.
Una volta fermata (anche con l’uso della forza, purché necessario e proporzionato),
sulla nave si possono esercitare i poteri esercitabili nella zona marina di inizio
dell’inseguimento. Il diritto di inseguimento cessa una volta che la nave entra in
acque territoriali di un altro stato.
La CMB accoglie la “teoria della presenza costruttiva”, per cui se una nave in alto
mare partecipa ad illeciti di altre navi che si trovano sul mare territoriale (es.
trasbordo di persone o merci illegali) può essere catturata e inseguita dallo stato
costiero a partire dal mare internazionale.
CMB prevede che uno stato che ritenga in maniera fondata che una nave battente la
sua bandiera sia coinvolta in traffico di stupefacenti o sostanze psicotrope possa
chiedere aiuto agli altri stati, che devono cooperare per reprimere il traffico
illecito. Non esistono norme che ammettano visita e cattura in alto mare di una nave
altrui per traffico di stupefacenti presumibilmente destinati allo stato cattore.

SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE NATURALI DEI FONDI MARINI INTERNAZIONALI E


PRINCIPIO DEL “PATRIMONIO COMUNE DELL’UMANITÀ”
A partire dagli anni ‘70 dello scorso secolo il regime di sfruttamento delle risorse naturali dei
fondi marini internazionali ha seguito un regime di ripartizione “a favore dell’umanità”,
distinto dal regime di navigazione.
L’assemblea generale dell’ONU nel 1970, per mezzo di una risoluzione, sancì che le risorse del
mare internazionale erano inappropriabili e inutilizzabili a fini non pacifici e dovessero essere
sfruttate “nell’interesse dell’umanità”.
La CMB stabilì nell’art. 137 che le risorse dell’”Area” (ovvero fondo del mare, degli oceani e del
sottosuolo, oltre ai limiti di giurisdizione nazionale), fossero patrimonio comune dell’umanità,
che nessuno Stato potesse rivendicare o appropriarsi di una parte o delle sue risorse.  Tutti i diritti
sulle risorse dell’Area erano conferiti all’intera umanità, per conto della quale agiva l’Autorità
Internazionale dei Fondi Marini.
Secondo il regime dello “sfruttamento parallelo”, gli Stati tecnologicamente avanzati potevano
sfruttare il fondo marino parallelamente a un organo dell’Autorità, l’Impresa, che gestiva gli
interessi degli Stati più poveri e a cui gli Stati avanzati dovevano trasferire le tecnologie.
Gli Stati industrializzati per molto tempo non firmarono la CMB proprio per questo regime relativo
all’Area, troppo favorevole agli Stati meno sviluppati. L’accordo di New York del 1994 modificò
la parte XI della Convenzione e sostituì questo principio solidarista con criteri di libero mercato
circa l’accaparramento delle risorse, più favorevoli agli Stati industrializzati, che dopo l’accordo
ratificarono la Convenzione. Gli Stati parti oggi devono vigilare che le loro imprese rispettino i
contratti stipulati con l’Autorità.
Il Tribunale internazionale sul diritto del mare ultimamente ha stabilito una serie di obblighi
ambientali per gli Stati che sponsorizzano le attività private nell’Area.

SPAZIO AEREO
La sovranità esercitata da uno Stato sul territorio viene esercitata anche sullo spazio aereo
soprastante. Vi sono due principi analoghi alla navigazione marittima:
 libertà di sorvolare negli spazi soprastanti a spazi non sottoposti a sovranità Statale
 potere dello Stato del sorvolo nello spazio sovrastante il suo territorio e il suo mare
territoriale
In base al secondo principio, uno Stato può regolare come crede il sorvolo e le rotte degli aerei
stranieri, ma non la loro “vita di bordo”, che è sotto la giurisdizione dello Stato della bandiera.
Di fronte a trasgressione lo Stato può prendere provvedimenti, che non includono ovviamente
l’abbattimento di aerei civili. L’ICAO (International Civic Aviation Organization), istituita dalla
Convenzione di Chicago nel 1944, stabiliva questi principi.
Con lo sviluppo della tecnologia e della velocità degli aerei, a partire dagli anni 50 furono stabilite
zone di “identificazione aerea”, in deroga al primo principio, estese fino a centinaia di miglia dalla
costa, con obblighi di identificazione a carico degli aerei stranieri, la cui violazione poteva
comportare l’intercettazione in volo, l’atterraggio e se necessario l’abbattimento.

SPAZIO COSMICO
Lo spazio cosmico è situato al di sopra dello spazio aereo. Dall’inizio della corsa allo spazio fu
chiaro che lo spazio cosmico era sottoposto al regime di libertà di esplorazione da parte di
qualsiasi stato, come stabilito dall’ONU. Il limite tra spazio areo e cosmico è giuridicamente
rilevante, ma, nonostante anni di discussioni, non si è arrivati a un punto di convergenza sul
problema della sua delimitazione.
Nel 1967 fu firmato un trattato tra USA e URSS che regolava le attività degli Stati nello spazio
extra-atmosferico e prevedeva che, in quanto “provincia dell’intera umanità”, non poteva essere
sottoposto a sovranità nazionale, né utilizzato a fini militari, imponeva l’aiuto agli astronauti,
inviati dell’umanità, in caso di avaria o atterraggio forzato e altri obblighi.
Seguirono ulteriori convenzioni nei decenni a venire.
Lo spazio cosmico è usato per le radio-telecomunicazioni. Si è stabilito che le frequenze (essendo
limitate) dovevano poter essere utilizzate da tutti e da tutti doveva poter essere usata l’orbita
geostazionaria (situata a 36.000 km dalla Terra), utilizzata per le trasmissioni satellitari, nonché la
tele-osservazione.
Il principio dell’equa ripartizione delle frequenze è sancito dall’ITU, Unione Internazionale delle
Telecomunicazioni. In passato si seguiva il principio “first come, first served”. Chi si appropriava
per primo di una frequenza e posizione geostazionaria poteva utilizzarla senza interferenze altrui.
Questo principio è stato criticato dai paesi in via di sviluppo, che non possedevano le tecnologie
necessarie, in quanto non garantiva un equo accesso allo spazio cosmico a tutti gli Stati. Si è
stabilito dunque un regime di pianificazione a priori di tali frequenze e posizioni, che ha posto il
problema dei satelliti sulla carta, per cui certi Stati non usano le posizioni orbitali assegnategli,
sottraendole così agli altri. La pianificazione a priori vale solo per alcuni satelliti, per il resto vale
ancora il principio “first come, first served”.
Nuovi problemi sono posti dal turismo cosmico e dalla commercializzazione dello spazio (es.
giurisdizione statale, responsabilità dei privati, ecc). Si ritiene che i trattati esistenti, conclusi
durante la guerra fredda, siano oramai totalmente inadeguati.

REGIONI POLARI

Consiste di ghiacci mobili sotto i quali possono navigare i sottomarini. Per questa ragione e per le
risorse sui suoi fondali la regione ha un rilievo strategico. A differenza dall'Antartide è popolata da
indigeni (4 milioni). È stata oggetto di rivendicazioni indipendenti dall'effettività. Ora attrae
piùinteresse a causa dei fenomeni di deglaciazione.
La Groenlandia è sotto la sovranità della Danimarca. La Norvegia ha rivendicato le isole
Spitzbergen e altre isole. Canada e Unione Sovietica hanno rivendicato dei settori del circolo polare,
contigue ai loro territorio e con il vertice il polo nord. Tale "teoria dei settori" è stata contestata
dagli altri Stati artici e comunque non è valida per ineffettività dell'occupazione. Dunque l'Artide va
considerata alla stregua dell'alto mare, e sottoposta quindi al regime di libera navigazione.

ANTARTIDE
A differenza dell'Artide, si tratta di un vero e proprio continente con risorse naturali ma privo di
popolazione. Vi sono state sette rivendicazioni: Argentina, Australia, cile, Francia, Norvegia,
Nuova Zelanda e Regno Unito. Inoltre USA e Russia hanno asserito di avere una "base per una
pretesa". Non potendo esserci un criterio dell'effettività, viste l'impossibilità di un insediamento
umano, I titoli di rivendicazione variano dalla scoperta (Fr e UK), alla prossimità o contiguità
geografica (Arg. E Cile), all'occupazione simbolica e alla "teoria dei settori" come in Artide.
Secondo questa, ogni Stato rivendica una superficie equivalente ad un triangolo con il vertice nel
polo sud e gli altri due sul sessantesimo parallelo. Tali rivendicazioni sono solo riconosciute dai
"claimant states" (ad eccezione delle sovrapposizioni dei settori britannico, cileno e argentino) , e
hanno incontrato numerose contestazioni.

Nel 1959 fu firmato il trattato di Washington, vincolante 53 Stati (tra cui I claimant e I membri
permanenti del CdS ONU). Il trattato sospende le pretese di sovranità e le contestazioni, prevede
inoltre la demilitarizzazione (no basi nucleari, fortificazioni, manovre e esperimenti nucleari) e
denuclearizzazione (no esposizioni nucleari e materiale radioattivo), libertà di ricerca scientifica
(previa notifica), cooperazione scientifica e controllo da parte degli scienziati e osservatori del
rispetto del Trattato.
I 53 Stati si dividono in "parti consultive" e "parti contraenti". Un ruolo privilegiato è occupato
dalle prime (oggi 29), a loro volta composte dai 12 Stati firmatari e dagli altri che conducono
attività di ricerca scientifica. Le Parti consultive si riuniscono periodicamente e, al fine di far
rispettare il trattato, hanno diritto di designare osservatori che conducono ispezioni. Inoltre possono
deliberare atti vincolanti.
Il Trattato di Washington è stato completato dal altri accordi, come il "protocollo di Madrid per la
salvaguardia dell'ambiente antartico" del 1991. Esso integra il trattato e impegna le parti a
salvaguardare la regione e vieta le attività non scientifiche di estrazione mineraria per 50 anni.
Al termine dei 50 anni ogni Parte Consultiva potrà richiedere un riesame e potranno allora essere
adottate norme di sfruttamento minerario. Il trattato istituisce un Comitato di protezione ambientale
composto dai rappresentanti di tutti gli Stati contraenti.
In ogni caso il Trattato è efficace solo per gli Stati contraenti e vale il principio della libertà di
utilizzazione nel rispetto della libertà altrui.

PRIVILEGI E IMMUNITÀ DEGLI ORGANI STRANIERI


Una norma è sempre volta a proteggere un valore comune, ma non tutti i valori comuni si traducono
in norme che li proteggono. Non basta che un valore sia ritenuto fondamentale dalla comunità
internazionale affinché da esso si deduca una norma giuridica. Le norme sono individuabili solo
attraverso la teoria delle fonti, mentre i valori possono essere individuati in molti altri modi. Noi ci
occuperemo solo di valori che corrispondono a norme giuridiche.
Le norme che vengono ricostruite dalla teoria delle fonti sono di solito il punto di incontro tra valori
comuni, a volte anche in conflitto. Dalle norme oggettive si può risalire ai valori a cui esse si
ispirano, ma dai valori non si possono dedurre norme.
Il valore fondamentale del diritto internazionale è l’ordine interstatale mondiale, in assenza
del quale non possono essere perseguiti gli altri valori. Questo non significa che sia l’unico valore n
che prevalga sempre sugli altri. In generale i valori contribuiscono alla trasformazione del DI
vigente (idea di jus cogens).
La struttura di fondo dell’ordine globale è costituita dalla ripartizione dell’autorità di governo tra i
vari stati. Le principali norme volte a garantire l’ordine globale sono quelle:
 sul trattamento degli organi stranieri
 sul trattamento degli stati stranieri
 sul trattamento delle OI
Attraverso queste regole gli stati limitano la propria giurisdizione sul proprio territorio,
riconoscendo gli altri Stati come pari e garantendosi così di essere a loro volta riconosciuti dagli
altri.
Le immunità dunque esistono per garantire l’ordine mondiale, prerequisito per il
perseguimento di tutti gli altri valori comuni dell’umanità.

IMMUNITÀ DEGLI AGENTI DIPLOMATICI


Le immunità diplomatiche (ne impediatur legatio) sono una prassi consolidata, in quanto esistono
dagli albori della formazione della comunità internazionale e dallo stabilimento di missioni
permanenti presso stati stranieri nel XVI sec. Il loro scopo è quello di evitare che lo Stato
territoriale ostacoli l’attività di rappresentanza altrui (e dunque le relazioni internazionali) e
permetta ai rappresentanti stranieri di svolgere la loro funzione di inter-comunicazione tra Stati. Per
ogni stato il rispetto dei propri diplomatici all’estero presuppone il rispetto di quelli altrui.
Le immunità diplomatiche sono regolate dalla Convenzione di Vienna del 1961, firmata da 191
Stati, che si ritiene corrispondere largamente al DI consuetudinario. La convenzione è completata
da due Protocolli opzionali, di cui uno prevede la competenza obbligatoria della CIG per la
risoluzione delle controversie.
Secondo l’art. 2 della Convenzione di Vienna, lo stabilimento di relazioni diplomatiche deve
avvenire previo mutuo consenso, dunque non esiste un diritto di legazione attiva (invio) né un
obbligo di legazione passiva (ricevimento). Un diplomatico straniero viene accettato attraverso
“gradimento” e “accreditamento” e avvenuta la consegna di lettere credenziali al Capo dello Stato
ricevente, questo ha l’obbligo di riconoscergli le immunità diplomatiche dal momento in cui il
diplomatico entra nello stato fino al momento in cui lo lascia.
Uno stato può:
 rifiutare un diplomatico senza dover dare spiegazioni.
 inviare le persone che vuole, entro limiti ragionevoli.
 rinunciare alle immunità diplomatiche.
Se un diplomatico deve attraversare uno Stato terzo, questo (se ha firmato le Convenzioni) deve
accordargli tutte le immunità necessarie.
Sono titolari dell’immunità diplomatica gli agenti diplomatici, i loro familiari, il personale collegato
alla missione e i loro domestici. Le immunità per il personale elencato sono più che altro concesse
per cortesia che per adempimento dei DI consuetudinario.
Le immunità diplomatiche previste dal DI consuetudinario sono:
 Immunità personale è la più antica forma di immunità. Le autorità dello stato ricevente
non possono procedere a misure coercitive sulla persona dell’agente diplomatico senza il
consenso del suo Stato e hanno invece l’obbligo di adottare misure per prevenire ogni
attacco alla sua persona, libertà o dignità da parte di privati.
 Immunità domiciliare: la sede diplomatica e il domicilio dei diplomatici sono
inviolabili, quindi non possono essere sottoposte a misure coercitive da parte dello Stato
ricevente, che deve anzi adottare misure per proteggere sia la sede diplomatica che il
domicilio del diplomatico. L’inviolabilità vale anche per i mezzi di trasporto (libertà di
movimento nel Paese) e la corrispondenza collegata alla missione (libertà di comunicazione
per scopi ufficiali).
Nel 2016 la CIG ha ordinato alla Francia (che aveva emesso un mandato di cattura per il
figlio del Capo di Stato della Guinea e a cui la Francia non aveva riconosciuto l’immunità) di
astenersi da qualsiasi azione che potesse compromettere il principio dell’inviolabilità di
un’ambasciata straniera.
Non si può parlare di extraterritorialità per l’ambasciata: la sua immunità deriva da un
obbligo che lo stato ricevente deve adempiere nel suo territorio, non dal fatto che la sede
diplomatica si trovi in territorio straniero.
 Immunità giurisdizionale: lo Stato non può esercitare la giurisdizione penale, civile e
amministrativa nei confronti degli agenti diplomatici dello Stato di invio. Si divide in
immunità personale (ratione personae) (immunità dal processo durante il mandato sia per
atti compiuti come privato che come organo dello Stato di invio) e immunità funzionale
(ratione materiae) (immunità dalla legge durante e dopo il mandato, solo per atti compiuti
come organo dello Stato di invio).
Il fondamento teorico-giuridico e la titolarità dell’immunità funzionale sono controversi. Ci sono tre
teorie principali: secondo la prima vale per tutti gli organi di Stato e per tutti gli atti (a
prescindere dal loro carattere internazionalmente lecito o illecito e dal luogo in cui sono stati
compiuti); secondo la seconda teoria vale per tutti gli organi ma non per tutti gli atti; secondo
una terza teoria non vale né per tutti gli organi, né per tutti gli atti, né per tutte le funzioni: vale
solo se l’organo ha agito come organo e non come privato e se ha agito nell’esercizio delle sue
funzioni tipiche. A favore della terza teoria si è pronunciata la CIG nel caso Abu Omar, ritenendo di
poter accordare immunità solo ad alcuni organi nell’esercizio di attività tipiche (in cui ovviamente
non rientra il sequestro di persona).
Ricapitolando:
Immunità funzionale:
 esenzione dalla legge
 spetta al diplomatico durante e dopo il mandato
 copre solo atti compiuti durante il mandato nell’esercizio delle sue funzioni tipiche
 deve essere riconosciuta dallo stato accreditatario e da stati terzi
Immunità personale:
 esenzione dal processo
 spetta al diplomatico solo durante il mandato
 copre tutti gli atti compiuti prima e durante il mandato
 deve essere riconosciuta solo dallo stato accreditatario
L’immunità dalla giurisdizione penale è assoluta, mentre quella dalla giurisdizione civile e
amministrativa presenta 4 eccezioni di cui non parleremo perché sono troppo un bordello.
L’immunità vale soltanto dinanzi ai giudici dello Stato ricevente e non dinanzi a quelli dello
Stato di invio.
Il diritto al riconoscimento delle immunità è un diritto non del diplomatico ma dello Stato, che
infatti può decidere di sospenderlo anche durante un processo. In questo caso la rinuncia
all’immunità dalla giurisdizione non comporta anche una rinuncia all’immunità dalla sentenza, che
deve essere espressa separatamente.
 Immunità fiscale: lo Stato riconosce al diplomatico esenzione dal pagamento delle imposte
dirette personali. Non sussiste un obbligo analogo per le imposte indirette, ma normalmente
i diplomatici vengono comunque esentati per ragioni di cortesia internazionale, a patto che
vi sia reciprocità.
Cosa succede in caso di abuso (commissione di illeciti penali, minaccia alla sicurezza dello Stato)
delle immunità diplomatiche? La CIG ha ritenuto che il diritto diplomatico sia autosufficiente,
ovvero preveda già le conseguenze specifiche delle sue violazioni che sono:
 dichiarazione di persona ingrata
 espulsione
 rottura dei rapporti diplomatici nei casi più gravi
La CIG ha escluso che si possa ricorrere a contromisure, ma nella prassi sembra che sia invece
possibile tutelarsi commettendo l’identica violazione commessa dall’altro Stato.
Cosa succede se un diplomatico è nominato tale ma di fatto non esercita alcuna funzione (caso di
due diplomatici britannici nominati esclusivamente per sottrarli alla giurisdizione)? Secondo la
dottrina è vero che gli Stati riceventi non hanno il potere di giudicare diplomatici pigri o
incompetenti, ma è anche vero che un controllo giudiziario deve ammettersi nel caso in cui il
diplomatico non eserciti alcuna funzione, dato che lo scopo della Convenzione di Vienna non è
quello di favorire gli individui, ma quello di assicurare l’efficacia delle missioni diplomatiche.
http://www.treccani.it/enciclopedia/immunita-dir-int_(Diritto-on-line)/
#41iduetipidiimmunitdegliorganifunzionaleepersonale-1

IMMUNITÀ DEI CAPI DI STATO, DEI CAPI DI GOVERNO E DEI MINISTRI DEGLI ESTERI E DI ALTRI
ORGANI STATALI DI RANGO ELEVATO

Le immunità diplomatiche, in particolare l'inviolabilità personale e l'immunità giurisdizionale


personale (essendo quella funzionale scontata) si applicano anche ad altri organi di Stati stranieri.
Per estensione analogica o consuetudine sono applicate ai capi di Stato in visita all'estero.
L'immunità giurisdizionale personale si applica anche ai Capi di governo e ministri degli esteri in
visite ufficiali; più incerto è il caso delle visite private di queste due categorie (di solito si reputano
anch'esse coperte dalle immunità personali).
Il DI consuetudinario ritiene solitamente che i Capi di Stato e di governo e i Ministri degli esteri
stranieri godano dell'immunità giurisdizionale funzionale, nei limiti degli atti ufficiali che
rientrano nelle funzioni di tali organi e non per atti estranei come (corruzione, reati finanziari,
riciclaggio, traffico di stupefacenti, crimini internazionali).
Capi di Stato, governo e ministri degli esteri: immunità personale in visite sia ufficiali che private

IMMUNITÀ DEI CONSOLI E DEI MEMBRI DI MISSIONI SPECIALI


I consoli svolgono funzioni amministrative all'estero per la protezione degli interessi dello Stato
d'invio e dei suoi cittadini (es. Passaporti e visti, regolazione nasciti, morti, matrimoni ecc.)
Il console esercita le proprie funzioni con il consenso dello Stato territoriale, che può sempre
dichiararlo persona non grata..
La Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963 garantisce ai consoli una serie di
immunità (es. Domiciliare, personale, fiscale), che però non corrispondono al DI consuetudinario.
Quest'ultimo riconosce "l'immunità funzionale" durante l'esercizio delle funzioni consolari, e
l'inviolabilità dell'archivio consolare.
La convenzione esclude gli atti estranei alle funzioni consolari tipiche.
È dubbio se le immunità diplomatiche per il DI consuetudinario debbano essere accordate ai
membri di "missioni speciali" di rango minore. La Convenzione di New York del 1985 le
prevede (in particolare l'immunità giurisdizionale personale) ma è in vigore soltanto per 38 Stati e
alcune sentenze affermano non corrisponda al DI consuetudinario.
È altrettanta controversa la questioni sull'immunità funzionale.

IMMUNITÀ DEI CORPI DI TRUPPA STAZIONANTI ALL'ESTERO IN TEMPO DI PACE O DI MEMBRI


DELLE FORZE MILITARI OPERANTI ALL'ESTERO IN CASI DI OCCUPAZIONE BELLICA O DI
MISSIONI AUTORIZZATE DELLE NAZIONI UNITE.
Corpi di truppa stazionanti all'estero con consenso dello Stato territoriale
La questione è alquanto controversa. La dottrina ha espresso una varietà di posizioni:
dall'immunità assoluta, a una tesi intermedia, alla non-immunità.
Sembra ragionevole sostenere la tesi intermedia, che concede l'immunità per i fatti interni alle
truppe, di competenza allo Stato d'invio (similmente al trattamento delle navi straniere nei porti e
nel mare territoriale).
I SOFA's (Status of forces agreements) sono trattati che regolano la giurisdizione sui corpi di
truppa all'estero; tra essi vi sono quelli stipulati relativamente alle operazioni di peace-keeping
ONU. Secondo la Convenzione di Londra del 1953:
 Lo Stato di invio ha giurisdizione esclusiva solo sulle violazioni del proprio diritto
 Lo Stato territoriale ha giurisdizione esclusiva solo sulle violazioni del proprio diritto
 In caso di violazione di entrambi i diritti, si ha una situazione di giurisdizione concorrente.
La Convenzione stabilisce a chi spetta la giurisdizione, prevedendo la prevalenza di quella
dello Stato di invio per gli illeciti commessi durante un servizio ufficiale.

Corpi di truppa operanti all'estero durante occupazione bellica o in missioni multinazionali ONU
Esistono accordi che prevedono la giurisdizione concorrente o esclusiva dello Stato di invio.
L'esistenza di norme di DI consuetudinarie sull'immunità da Stati altri a quello di invio è incerta.
Nella sentenza Lozano del 2007 (relativa all'uccisione del soldato Calipari da parte di un soldato
statunitense) la Corte d'assise di Roma ha escluso la giurisdizione italiana, applicando il principio di
bandiera (giur. Esclusiva dello Stato di invio), ritenuto corrispondente a una norma consuetudinaria
e previsto dai SOFAs conclusi tra l'ONU e gli Stati che hanno accettato le missioni di peace-
keeping. Però questi non corrispondono necessariamente alla consuetudine, né si applicano ai
rapporti tra i diversi contingenti della missione. La sentenza Lozano 2008 della Corte d'Assise ha
rigettato la sentenza della Corte d'Assise ma ha comunque escluso la giurisdizione italiana in base a
una presunta norma di DI consuetudinario, secondo la quale i militari sono organi dello Stato e sono
coperti da immunità funzionale.
Nella vincenda Enrica Lexie (marò) secondo Foca e secondo gli indiani la giurisdizione indiana
prevale e i militari italiani non hanno immunità funzionale in quanto hanno agito a titolo personale e
non per ordine di un comandante.

IMMUNITÀ INTERNAZIONALI GIURISDIZIONALI, PROTEZIONE INTERNAZIONALE DELLA


PERSONA UMANA, DIRITTI COSTITUZIONALI FONDAMENTALI E DIRITTO DI ACCESSO ALLA
GIUSTIZIA
Recentemente ci si è posti la questione del riconoscimento delle immunità diplomatiche per Capi di
Stato, Capi di Governo e Ministri degli esteri per casi di violazioni gravi (a diritti umani
fondamentali, DI umanitario, ecc.). Ci sono diverse teorie a favore e contro. Nella prassi viene
quasi sempre concessa.
Un'eccezione è però costituita dagli ex organi statali: esiste una palese tendenza a non accordare
loro l'immunità funzionale se accusati di violazioni gravi (dunque soprattutto di tipo penale).
L'immunità serve a proteggere gli Stati, dunque trattandosi di organi statali non vi è violazione del
principio "par in parem non habet jurisdictionem".
L'immunità giurisdizionale prevista dal DI impedisce al singolo di ottenere giustizia davanti
ai giudici. Possono esserci contrasti sulla questione dell'immunità tra il DI e le costituzioni dei
paesi.
Ogni Stato risolve la questione diversamente, in base a se:
 Nell'ordinamento interno i diritti fondamentali e il diritto di accesso alla giustizia sono
previsti e, se sì, con quale rango
 Le norme internazionali sulle immunità entrano nell'ordinamento interno e, se sì, con quale
rango.
Secondo una parte della dottrina occorre applicare un "bilanciamento di valori" tra le norme
Costituzionali e le norme di DI consuetudinarie entrate nell'ordinamento interno a livello
costituzionale.

IMMUNITÀ DEGLI STATI STRANIERI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE


Quando un individuo compie un atto per conto di uno Stato, l’atto viene imputato allo Stato. Si
pone quindi il problema delle eventuali immunità dello Stato. L’immunità degli Stati stranieri è
oggi considerata dalla maggior parte della dottrina come facente parte del DI consuetudinario,
perché espressione del principio “par in parem non habet iudicium”, volto ad assicurare la
convivenza degli Stati e l’ordine globale.
Inizialmente, solo i diplomatici godevano dell’immunità, che poi si è estesa progressivamente ai
sovrani degli Stati stranieri e infine agli stati in quanto tali. L’immunità dei sovrani degli Stati
stranieri era assoluta, cioè non prevedeva eccezioni. Attualmente invece vige l’immunità relativa o
ristretta, per cui lo Stato gode di immunità solo per gli atti compiuti jure imperii (nell’esercizio
dei suoi poteri sovrani) e non per quelli compiuti jure privatorum (come fosse un privato).
In tempi recenti si è assistito ad una tendenza ad escludere l’immunità nei casi in cui lo Stato avesse
commesso gravi violazioni dei diritti umani, per cui ad esempio l’Italia ha negato l’immunità alla
Germania alla luce delle gravi violazioni dei diritti umani compiute durante l’occupazione italiana
degli anni 43-45. Tuttavia la CIG ha condannato questa decisione dell’Italia nella sentenza sulle
Immunità giurisdizionali dello Stato del 2012. La Corte costituzionale italiana ha comunque
affermato che le norme sull’immunità non entrano nell’ordinamento italiano se contrastano i
principi costituzionali fondamentali.

Immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile di cognizione


La norme consuetudinaria fino al 1850 concedeva l'immunità assoluta allo Stato, dato che nessuno
Stato poteva giudicarne un altro, ponendosi come superiore e contrastando l'eguaglianza sovrana
degli Stati. All'epoca delle monarchie assolute l'immunità spettava al sovrano e ai suoi organi, in
seguito fu applicata anche agli Stati e ad enti a lui distinti. Con la diminuzione del numero di
monarchie assolute, anche l'immunità assoluta è diventata obsoleta.
Dal 1850 in poi i giudici di alcuni Stati hanno iniziato a proporre l'immunità ristretta, che
distingue due tipi di funzioni Statali:
 jure privatorum (o gestionis): lo Stato che agisce come un privato, per cui non ha
l'immunità
 jure imperii: lo Stato che esercita la sua potestà di imperio, per cui ha l'immunità

La teoria dell'immunità ristretta derivava da:


 ragioni interne: in alcuni Stati si iniziava ad ammettere la possibilità di convenire in
giudizio con la PA per gli atti jure gestionis
 ragioni esterne: alcuni Stati, soprattutto quelli socialisti, partecipavano ad attività
imprenditoriali, altrove svolte da privati.
Progressivamente questa teoria è diventata una norma di diritto consuetudinario ed una prassi
seguita da molti Stati, benché ci siano divergenze tra essi riguardo quali casi siano sottratti
all'immunità. Negli Stati di common law si indicano le specifiche categoria sottratte all'immunità, in
altri (come in Italia) si interpreta caso per caso in base al principio par in parem non habet
judicium.
Questa materia è Stata codificata dalla Convenzione di New York del 2004 sulle immunità
giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, adottata dall'AG ONU ma ancora non in vigore. Non
prevede una distinzione esplicita tra atti jure imperii e jure gestionis ma la presuppone, in quanto
elenca (secondo lo stile della Common Law) una serie di eccezioni che attengono ad atti
tradizionalmente privatistici. In ogni caso la Convenzione stessa e la Corte Europea dei diritti
umani ritengono che la regola dell'immunità relativa rifletta il diritto consuetudinario e quindi
applicabile anche agli stati non firmatari.
Finché la convenzione non entrerà in vigore l'Italia seguirà il principio interpretativo par in parem
non habet judicium. La distinzione tra atti jure imperii e jure gestionis pone problemi. Alcuni sono
indubbiamente jure imperii (es. addestramento aerei da guerra). Alcuni atti possono essere più
ambigui, per esempio l'acquisto di beni mobili o immobili, in base a se si opera sulla base:
- della natura dell'acquisto: allora si tratterà di atti jure gestionis.
- del suo scopo: allora potrebbe trattarsi di atti jure imperii, se il bene risulta destinato ad una
pubblica funzione.
La Convenzione dà priorità alla natura dell'atto, ma ammetta che in alcuni casi si possa tenere
conto del suo scopo.

Il problema è delicato nelle controversie di lavoro dei dipendenti locali presso ambasciate o
istituti di Stati esteri: garantendo a queste l'immunità si incide sui diritti fondamentali dei
lavoratori. L'Italia considera le mansioni svolte dal lavoratore per garantire o meno allo Stato
estero l'immunità, ma non è chiaro se queste siano jure imperii o jure gestionis. . Per il criterio
"in dubio pro imunitate", l'immunità viene riconosciuta anche quando le mansioni dei
lavoratori sono molto labilmente assimilabili a funzioni sovrane (bibliotecari, addetto alla
rassegna stampa, usciere ecc.).
La Corta di Cassazione ha iniziato ad ammettere l'esercizio della giurisdizione solo per aspetti
patrimoniali del rapporto di lavoro.
L'Italia dunque tendenzialmente esclude l'immunità (anche a soggetti int. come Santa Sede e
Ordine di Malta) quando si tratta di funzioni ausiliarie e quando la domanda riguarda aspetti
patrimoniali, ma ci sono comunque incogruenze.
La Convenzione di New York prevede l'immunità quando il contratto di lavoro implica
l'esercizio del potere di governo e quando il lavoratore è cittadino dello Stato datore di lavoro,
ma esclude l'immunità quando il lavoratore vive permanentemente nel territorio dello Stato
locale.
Lo Stato straniero può sempre rinunciare all'immunità e sottoporsi alla giurisdizione dello Stato
territoriale.

Un problema rilevante (che ci siamo già posti per gli organi stranieri) è se lo Stato possa godere
di immunità anche quando ha violato diritti umani fondamentali. Nel 2004 l'Italia con la
sentenza Ferrini ha negato l'immunità alla Germania alla richiesta di risarcimento da parte di un
cittadino deportato, in quanto la Germania aveva commesso gravi violazioni dei diritti umani
appartenenti allo jus cogens. La Cassazione ha mantenuto questa posizione relativamente
all'immunità tedesca in altre 13 ordinanze, rimanendo però isolata a livello internazionale. La
dottrina italiana ha comunque difeso l'orientamento della Cassazione incoraggiandola a
proseguire.
Secondo il Foca la norma sul diniego dell'immunità non esiste, benché ciò potesse apparire
ingiusto, né potesse essere estratta da un generico valore. Il caso Ferrini può considerarsi un
caso di scuola in cui i giudici di no Stato tentano di trasformare il DI consuetudinario
violando il DI vigente (che sono tenuti ad applicare) e per farlo devono poter invocare principi
costituzionali di rango superiore, con la speranza che vengano accolti dalla generalità degli
Stati e diventino diritto consuetudinario. Era normale però aspettarsi la sentenza della CIG, che
non ha il diritto di imporre a tutti gli Stati le nuove tendenze del DI, ma statuire il diritto vigente
in questo momento (che in questo caso non è controverso o dubbio). La giurisprudenza Ferrini
può ancora operare da guida per i giudici di altri Stati, ma quel che conta è circoscrivere
l'eccezione umanitaria a specifici crimini commessi oggi o in futuro, non punendo crimini
passati, tanto meno di un unico Stato, dato che ogni Stato ne ha commessi.
Con la sentenza n. 238/2014 la Corte Costituzionale ha annullato per contrasto con gli art.. 2 e
24 Cost. le norme di recezione della sentenza CIG, permettendo ai processi di riprendere.
Questa sentenza costituisce un pericoloso atto di disobbedienza alla CIG che apre una breccia
nel DI e viola il principio di buona fede nelle relazioni tra Stati, un rafforzamento di
unilateralismo travestito da umanitarismo. La violazione del DI a fini trasformativi è
plausibile in mancanza di un accertamento di un giudice internazionale, non dopo.
Una parte della prassi ha sostenuto che tale illecito costituisca una contromisura, una risposta
illecita a un illecito altrui. Appare singolare che i giudici statali possano adottare contromisure,
che si addicono solitamente all'esecutivo.
In ogni caso rimane il problema nel diritto interno italiano di conflitto tra la norma
internazionale recepita dall'art.10 cost. e il diritto di tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24
cost.

IMMUNITÀ DEGLI STATI STRANIERI DA MISURE CAUTELARI ED ESECUTIVE


Una volta che uno Stato straniero è stato condannato ci si chiede se sia possibile procedere ad
esecuzione forzata rispetto ai suoi beni. La prassi internazionale è quella dell'immunità ristretta:
l'esecuzione forzata è ammessa per i beni non destinati ad una funzione pubblica. Resta aperto il
problema del criterio dell'atto (natura o scopo) da seguire per capire se un atto è jure imperii o
meno, soprattutto per beni a destinazione promiscua come i conti correnti bancari o titoli di Stato
(rilasciati in mercati finaziari internazionali come un privato ma per reperire soldi per lo Stato).
Dato che sia i primi che i secondi possono essere utilizzanti a fini pubblicistici e privatistici si tende
a presumere il primo e a riconoscere l'immunità.
La Convenzione di New York richiede un consenso ad hoc per l'esecuzione della sentenza, non
basta quello dato alla giurisdizione.
La legge 10 novembre 2014 n. 162 comporta l'impignorabilità dei beni tedeschi sembra essere un
escamotage pratico per togliere l'Italia dall'impasse pratico della sentenza n. 238/2014 della Corte
Costituzionale

IMMUNITÀ DEGLI STATI STRANIERI DA MISURE CAUTELARI ED ESECUTIVE


Si possono attuare misure coercitive (esecuzione forzata dei beni) nei confronti di uno Stato
straniero? Anche in questo caso vige l’immunità ristretta, ovvero sono immuni dall’esecuzione
forzata solo i beni destinati ad una funzione pubblica, non quelli destinati a funzione privata.
Il fatto che uno Stato non abbia immunità dalla giurisdizione non significa che automaticamente
non abbia anche quella dall’esecuzione.
Non è sempre chiaro come dividere i beni jure imperii (destinati a funzione pubblica) da quelli iure
privatorum (non destinati a funzione pubblica), anche perché alcuni hanno funzione promiscua (es.
conti correnti). In caso di incertezza, la giurisprudenza statale tende a riconoscere l’impiego
pubblico e a riconoscere l’immunità, supponendo che anche certe azioni compiute come privato
possano però avere come fine il funzionamento dello Stato e la protezione dell’interesse collettivo.
La Convenzione di NY del 2004 prevede l’immunità dall’esecuzione per qualsiasi misura coercitiva
adottata durante il processo o dopo la sentenza. Lo Stato deve sempre prestare il suo consenso, non
solo alla giurisdizione, ma anche e separatamente, con un consenso ad hoc, all’esecuzione.

IMMUNITÀ DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI, DEI LORO FUNZIONARI E DEI


RAPPRESENTANTI DEGLI STATI
Anche le OI godono di immunità dalla giurisdizione e dall’esecuzione dinanzi ai giudici statali,
perché dovendo necessariamente operare nel territorio dello stato in cui hanno sede (non avendo un
territorio proprio), necessitano di essere protette da interferenze e ostacoli di quello Stato. Lo
scopo è quindi sempre quello di assicurare la cooperazione tra stati e l’ordine globale.
Le immunità delle OI sono distinte da quelle dei loro funzionari e dei rappresentanti degli stati
presso organizzazioni e conferenze internazionali.
Anche in questo caso si pone il problema della compatibilità con il diritto di accesso ai giudici, che
viene risolto con la c.d. “protezione per equivalenti”: l’immunità viene accordata alle OI se questa
dispone di procedure giudiziarie proprie alle quali il cittadino possa rivolgersi e avere giustizia con
garanzie equivalenti a quelle statali.

IMMUNITÀ DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE E DA


MISURE CAUTELARI ED ESECUTIVE
La maggior parte delle giurisprudenze statali tende a riconoscere l’immunità alle OI perché
solitamente prevista da norme pattizie. L’Italia invece (andando controcorrente) la concede anche
in assenza di norme pattizie, applicando il DI consuetudinario in funzione del principio “par in
parem non habet iudicium”, per analogia con gli Stati.
Esiste la possibilità che questa immunità contrasti con il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24) e
col diritto di accesso al giudice (Convenzione Europea sui diritti umani). In passato la corte
Costituzionale ha assolutizzato il diritto di accesso al giudice, a meno di necessità di proteggere un
interesse pubblico preminente (es. sentenza Lo Franco in cui è stata riconosciuta l’immunità alla
NATO perché la sicurezza e la pace del Paese hanno prevalso sull’art.24, secondo l’art. 11 cost.)
La prassi è oggi orientata alla protezione per equivalenza: l’immunità va esclusa se
l’Organizzazione non ha un tribunale al quale il cittadino possa rivolgersi per ottenere
giustizia, tale da assicurare uno standard processuale equivalente a quello del tribunale statale. Il
processo può quindi svolgersi quando il cittadino non ha rimedi alternativi per ottenere giustizia. In
questo modo il riconoscimento dell’immunità non viola il diritto di accesso al giudice, che resta
garantito.
Tuttavia, il punto critico è la valutazione dell’adeguatezza degli standard dei tribunali delle OI da
parte di giudici nazionali.
Caso Wallace del 2016: controversia tra la banca Mondiale e quattro dipendenti di una società
canadese beneficiari di fondi della Banca Mondiale per la costruzione di un ponte in Bangladesh.
La Banca, sospettando i quattro dipendenti di corruzione nei confronti di funzionari del
Bangladesh per ottenere l’appalto del ponte, aveva avviato delle indagini interne e deciso di
sospendere la società canadese dall’uso dei suoi fondi. Si era però poi rifiutata, invocando
l’immunità, di fornire ai giudici canadesi intercettazioni e altri documenti richiesti dalla difesa
degli imputati. La Corte suprema canadese ha ammesso l’immunità della Banca, ritenendo che
coprisse sia gli archivi dell’Organizzazione sia il personale operante nell’esercizio delle proprie
funzioni.

IMMUNITÀ E PRIVILEGI DEI FUNZIONARI INTERNAZIONALI


Il DI consuetudinario non prevede immunità per i funzionari delle OI, perciò nella prassi
queste immunità vengono riconosciute solamente quando previste da trattati e sono di regola
diversificate a seconda del rango del funzionario.
Secondo la Carta dell’ONU i funzionari godono di privilegi e immunità necessari all’esercizio
indipendente delle loro funzioni inerenti all’Organizzazione. Fra i trattati in merito alle immunità
dei funzionari spicca la Convenzione generale sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite.
Un “esperto in missione” ONU ha diritto alle immunità previste dalla Convenzione.

PROTEZIONE DIPLOMATICA DEI FUNZIONARI INTERNAZIONALI


Se un organo di uno Stato subisce un danno nel territorio di un altro Stato mentre è in veste ufficile,
il suo Stato nazionale può agire in protezione diplomatica e chiedere all’altro Stato un risarcimento.
Le OI possono fare lo stesso per i propri funzionari?
Il problema si è posto nel 1948 quando due funzionari mediatori per conto dell’ONU furono uccisi a
Gerusalemme. Il Segretario generale ONU accusò Israele di non aver preso le misure necessarie ad
evitare l’attentato, chiedendo un risarcimento. La CIG, interrogata sulla questione, depose a favore
dell’ONU, sostenendo che il diritto dell’OI di agire in protezione diplomatica si ricava
implicitamente: se non ci fosse, verrebbe meno per l’OI la possibilità di perseguire i suoi fini
statutari, che invece deve essere garantita. Il diritto si impone non solo agli Stati membri, ma anche
agli Stati terzi.

IMMUNITÀ E PRIVILEGI DEI RAPPRESENTANTI DEGLI STATI PRESSO ORGANIZZAZIONI E


CONFERENZE INTERNAZIONALI
Le immunità e i privilegi di membri di delegazioni inviate da uno stato in missione presso un’OI
o presso una conferenza convocata da un’OI, sono regolati da una Convenzione di Vienna del
1975. La Convenzione prevede l’immunità giurisdizionale a favore del Capo e dei membri del
personale diplomatico della missione, mentre per il Capo e gli altri membri della delegazione che
non sono agenti diplomatici prevede solo l’immunità giurisdizionale funzionale, che di solito è
prevista anche da altri trattati. Non esiste una prassi internazionale sufficiente a ritenere tale diritto
una norma consuetudinaria esistente.

PERSONA UMANA
(CAPITOLO V)
Il valore ultimo del sistema globale è la protezione umana. Il DI moderno ha attinto al diritto
naturale, universale e valevole per ogni individuo. Benché non sia ammesso come fonte di diritto
dalla generalità degli Stati, la funzione di governo dell’umanità ne è un riflesso. Nonostante le
norme di DI delimitino i rapporti tra gli Stati inter se e non direttamente il comportamento nei
confronti degli individui, in realtà sono indispensabili proprio alla protezione ultima della persona
umana in quanto assicurano una struttura politica globale, fondamentale per un governo
dell’umanità.

Nel DI del 16esimo-17esimo secolo l’individuo era protetto da norme specifiche solo se straniero.
Non c’erano vincoli internazionali verso i propri sudditi ne verso gli apolidi. Oggi invece
l’individuo viene protetto a prescindere dalla cittadinanza e le norme sui diritti umani sono più
importanti di quelle sugli obblighi verso i cittadini stranieri, che vengono applicate solo quando
non trovano applicazione le prime.
Gli Stati sono più inclini a far valere la violazione all’estero di norme sul trattamento dei loro
cittadini piuttosto che violazione di diritti umani e in passato rappresentavano la maggior parte del
contenzioso internazionale, ma ultimamente sono in declino.

NORME INTERNAZIONALI SUL TRATTAMENTO DEGLI STRANIERI


 Diritto internazionale consuetudinario
Ogni Stato ovviamente non può esercitare come crede l’autorità di governo nei confronti degli
Stranieri, ma è controverso quale sia lo standard di DI consuetudinario da applicare. Si sono
proposte due opzioni:
 trattamento nazionale (uguale a quello riservato ai propri cittadini)
 trattamento internazionale minimo
La seconda opinione sembra preferibile. Infatti uno Stato potrebbe trattare i propri cittadini al di
sotto della media, ma è difficile stabilire precisamente quale trattamento sia internazionalmente
dovuto.
Lo Stato territoriale può esercitare la sua autorità sugli stranieri nella misura in cui esiste un
“legame sufficiente” con essi. Non può, ad esempio, imporgli il servizio militare se non hanno la
cittadinanza, fargli pagare le tasse se non hanno beni o non svolgono attività nel suo territorio, ecc.

Ammissione, estradizione, espulsione


In principio gli Stati possono regolare come credono l’ingresso e l’uscita degli stranieri, che non
hanno diritto ad entrare in uno Stato straniero se non esiste un trattato che lo prevede. La prassi
consuetudinaria diffusa è di vietargli un trattamento oltraggioso e dargli tempo prima di
obbligarlo ad abbandonare lo Stato.
Una parte della dottrina ritiene che il DI consuetudinario proibisca le espulsioni collettive. C’è
anche una forte tendenza ad escludere le espulsioni ed estradizioni se c’è il rischio che nel suo
paese vengano commesse gravi violazioni dei diritti umani. La CDI nel 2010 ha elaborato un
progetto di 31 articoli dedicati all’espulsione.
Si discute se il trasferimento forzato di un cittadino straniero in un altro Stato nel quale verrà
arrestato e sottoposto a processo penale sia contrario al DI in quanto forma mascherata di
estradizione in violazione allo straniero che non può essere cacciato in modo oltraggioso. Si è
posto questo problema soprattutto per le extraordinary renditions.

Amministrazione della giustizia


Gli stranieri hanno diritto a garanzie processuale minime e ad un’assistenza legale adeguata. Si
parla di “denial of justice” quando ciò non avviene (es. mancato accesso al giudice, eccessiva
durata del procedimento, corruzione dell’organo giudicante, ecc.).

Prevenzione e repressione degli illeciti


Gli Stati hanno l’obbligo di proteggere la persona o i beni degli stranieri e prevenire e
reprimere le offese nei loro confronti (il diniego di giustizia è un illecito di questo tipo, derivante
da un difetto di organizzazione giudiziaria dello Stato territoriale)

Nazionalizzazioni ed espropriazioni - ce ne occuperemo più avanti

Rispetto del debito pubblico contratto dallo Stato predecessore


Si discute se dopo un mutamento di sovranità uno Stato debba ripagare i debiti dello Stato
predecessore nei confronti di cittadini stranieri .
Nel passato si è adottato il principio della tabula rasa (per gli Stati sorti dallo smembramento
dell’Impero Ottomano o dalla decolonizzazione). Anche se si ritiene la necessità di una continuità,
alcuni debiti si considerano intrasmissibili (es. debiti di guerra, debiti strettamente legati al
regime preesistente). Più recentemente (URSS, Cecoslovacchia) la prassi è di accollarsi i debiti
contratti dal predecessore.

 Diritto internazionale convenzionale


In assenza di norme consuetudinario si applicano i numerosi trattati che disciplinano
l’ammissione, lo stabilimento, l’espulsione, l’estradizione, l’asilo politico, ecc.
Rilevanti in UE sono le norme sulla libera circolazione, libero stabilimento di attività
imprenditoriali e i diritti connessi alla cittadinanza europea.
L’accordo Italia-Libia per contenere l’immigrazione irregolare ha causato diverse perplessità, tra
cui quelle relative alle possibili violazioni dei diritti umani.
Una tendenza sempre più seguita nella prassi e che deriva da varie Convenzioni (la prima fu quella
del 51 sullo status dei rifugiati) e sentenze è quella di vietare l’espulsione e l’estradizione verso
Stati a rischio di tortura. Questo principio si chiama “non refoulement”.
Tale orientamento trova sempre più riscontro nella prassi internazionale e giudiziaria nazionale. Si è
osservato che l’Italia non avrebbe dovuto rimandare i Marò in India di fronte all’eventualità della
pena di morte. A volte paesi stranieri hanno rifiutato l’estradizione in Italia per le carenze del
regime penitenziario italiano, più volte condannato dalla CEDDU.
Cfr. caso transgender messicano
Secondo alcuni il principio di non-refoulement corrisponde al DI consuetudinario o ha
addirittura una natura cogente (in quanto vuole evitare una violazione di un’altra norma cogente
come la tortura). Ci sono diverse incertezze nella valutazione di “situazioni a rischio”.
Secondo il Foca non si tratta di diritto consuetudinario e nemmeno di Jus Cogens, ma può essere
applicato dai giudici per rafforzare la prassi.
Il diritto internazionale convenzionale di regola vieta le espulsioni collettive. L'Italia è stata
condannati dalla Corte europea nei casi Hirsi (2012) e Khalifa (2015) per espulsioni di migranti in
violazione non solo al principio di non refoulement per esposizione al rischio di tortura in Libia, ma
anche equiparando il respingimento in massa ad un'espulsione collettiva.
Un’altra tendenza è quella favorevole a concedere allo straniero il diritto di impugnare la
legittimità dell’espulsione dinanzi al giudice dello Stato che lo espelle.

PROTEZIONE DIPLOMATICA
Uno Stato può intervenire in “protezione diplomatica” se un altro Stato tratta un suo cittadino in
violazione delle norme sul trattamento degli stranieri, chiedendo un risarcimento, il ricorso
all’arbitrato o ad altri mezzi, oppure adottando contromisure.
Della protezione diplomatica si è occupata la Commissione del diritto internazionale con un
Progetto di articoli del 2006.
Il titolare del diritto di protezione diplomatica è lo Stato, perché si ritiene che un danno a un
cittadino equivalga ad un danno al suo Stato, e non l’individuo, che è solo un beneficiario di
fatto. Lo Stato per ragioni di opportunità politica potrebbe anche rinunciare alla protezione
diplomatica di un suo cittadino.
Oggi tuttavia, si tende a considerare la protezione diplomatica sì uno strumento inter-statale, ma
volto a rendere effettivi diritti individuali. Il Progetto non si pronuncia in merito a chi sia il
titolare del diritto, ma precisa che vedere nel danno allo straniero un danno al suo Stato ignora il
fatto che il danno sia causato direttamente all’individuo.
Apparentemente a favore della titolarità del diritto alla protezione diplomatica è la clausola Calvo,
presente nei contratti di concezione stipulati dagli stati con cittadini o società straniere. La clausola
prevede la rinuncia da parte dello straniero alla protezione diplomatica e la competenza esclusiva in
caso di controversia dei giudici locali. Tuttavia, questa clausola non può avere l’effetto di
impedire ad uno Stato di agire in protezione diplomatica, in quanto si tratta di un diritto dello
Stato e non dell’individuo, che dunque non può rinunciare a un diritto che non ha.

La protezione diplomatica può essere esercitata solo alle seguenti condizioni:


- La nazionalità dell’individuo deve essere continua (non deve averla cambiata
durante il procedimento) ed effettiva (non fittizia). In alcune sentenze l’esistenza di
un legame effettivo tra lo Stato e l’individuo è stata tenuta in conto, in altre no.
- L’individuo deve avere ottenuto nello Stato straniero una sentenza definitiva, o
comunque deve riuscire a dimostrare che ricorrere ad ulteriori rimedi locali
eventualmente disponibili non gli assicuri di ottenere giustizia.
Uno Stato può chiedere la riparazione dei danni alle persone a bordo di una nave (anche se stranieri)
la cui libera navigazione è stata impedita. Il diritto alla libera navigazione in alto mare è un diritto
dello Stato ed è lo Stato a venire danneggiato, quindi la regola dell’esaurimento dei ricorsi interni
non si applica.
La protezione diplomatica può essere esercitata anche a favore di società commerciali e persone
giuridiche. Non è chiaro come individuarne la nazionalità, se con criteri formali (luogo di
costruzione o della sede) o effettivi (nazionalità della maggior parte degli azionisti o luogo del
controllo economico effettivo). La CIG sembra preferire criteri formali, affermando che lo Stato
nazionale dei soci possa agire in protezione diplomatica dei singoli ma non dell’intera società.
Tuttavia è difficile che ciò avvenga, perché normalmente il danno all’azionista non viene distinto
dal danno alla società. Nella prassi dei trattati comunque la tutela degli azionisti è di solito
garantita dalla giurisprudenza arbitrale.
DIRITTI UMANI
Oggi le norme sui diritti umani sono tra le più importanti del DI. Tuttavia, nel DI tradizionale
l’individuo era protetto unicamente dal sistema inter-statale, attraverso la protezione
diplomatica del suo Stato, ma in questo modo non si poteva proteggere l’individuo dal suo stesso
Stato, né un individuo apolide.
Nel XIX sec. vennero elaborate norme contro la tratta degli schiavi, dopo WW1 norme sulla
protezione delle minoranze e dei lavoratori.
Il Trattato di Versailles sancì la responsabilità personale di Guglielmo II Hohenzollern per aver
causato la prima guerra mondiale, dando inizio alla diffusone del principio di responsabilità
personale degli organi Statali per crimini internazionali.
Dopo WW2 e olocausto, c’è stata una spinta molto forte alla creazione di norme internazionali per
proteggere gli individui in quanto tali.

Vi è un dibattito circa il rapporto tra universalità dei DU e diversità culturale: i diritti umani
devono essere imposti in blocco a tutti gli stati e sopprimendo le diversità culturali o bisogna far
prevalere la diversità culturale, ammettendo però pratiche locali difficili da tollerare? Secondo
marxisti e terzomondisti i DU sono uno strumento ideologico dell’Occidente per dominare
culturalmente e militarmente il resto del mondo. Secondo altri invece, i DI sono qualcosa di
universalmente insito in ogni essere umano, indipendentemente dalla sua cultura di appartenenza.
Il problema è comunque politologico, al DI interessa solo capire se esistono norme tramite la teoria
delle fonti.

Dal punto di vista giuridico esistono norme internazionali


- universali: consuetudini e trattati multinazionali. La partecipazione massiccia ai
trattati sui DI spesso non è sincera, ma dimostra che comunque anche se solo a fini
propagandistici e di facciata, il rispetto dei DU ha un peso.
- regionali: esistono convenzioni concluse in Europa (Convenzione europea dei diritti
dell’uomo del 1950, Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2009), in America
(Convenzione americana sui diritti umani del 1969), in Africa (Carta africana dei
diritti dell’uomo e dei popoli del 1981), negli Stati Arabi (Carta araba dei diritti
umani del 2008). Non esistono convenzioni sui DU nel continente asiatico.

I DIRITTI UMANI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE


Per la dottrina e la giurisprudenza è pacifico che alcuni diritti umani siano protetti dal DI
consuetudinario, ma la rilevazione nella prassi resta problematica.
Molti Stati infatti violano sistematicamente i DU benché a parole dichiarino di rispettarli, quindi
l’opinio iuris è universale, ma l’usus manca o è discutibile. Considerare consuetudini norme che
constano solo dell’opinio iuris significa legittimare “norme solo sulla carta”.
Inoltre, spesso tra più definizioni di un reato presenti in diverse convenzioni o trattati è difficile
stabilire quale sia quella accolta dal DI generale.
Di solito per determinare la presenza o meno dell’usus si guardano le risoluzioni dell’Assemblea
generale ONU, le legislazioni e giurisprudenze nazionali, i trattati.
Vi è una tendenza da parte delle norme sui DU di “alterare” i trattati, tramite riserve,
interpretazioni, ecc.
Inoltre, la materia dei DU si presta particolarmente ai principi generali di diritto, al fine di
imporla a tutti gli Stati, anche se non sono vincolati da trattati specifici. Fra i principi generali di
diritto possono includersi le “considerazioni elementari di umanità” alle quali la CIG ha fatto
talvolta riferimento nella sua giurisprudenza.

DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI DEL 1948 E PATTI DELLE NAZIONI UNITE
DEL 1966
Le disposizioni sui diritti umani contenute nella Carta delle Nazioni Unite sono poche e molto
generiche, perché si riteneva che la tutela dei cittadini fosse di competenza interna. Dunque le
poche norme presenti sono solo strumentali al mantenimento della pace tra gli Stati.
Sulla base delle norme sui DI della Carta venne adottata nel 1948 la Dichiarazione Universale sui
diritti umani, che non è giuridicamente vincolante, ma si ritiene corrisponda al DI consuetudinario.
Dopo la Guerra Fredda questa fu ribadita nella Dichiarazione e Programma d’azione di Vienna
(1993), anch’essa non vincolante.
Solo nel 1966 vennero adottate due norme di carattere pattizio giuridicamente vincolanti:
- Patti sui diritti civili e politici
- Patti sui diritti economici, sociali e culturali
Con questi Patti gli stati contraenti (oggi 168 e 164) si impegnano a garantire i diritti ai cittadini
che si trovano sul loro territorio e sono sottoposti alla loro giurisdizione, ma in realtà i Patti si
applicano anche ad atti compiuti fuori dal territorio nazionale, purché sotto il controllo effettivo
di uno Stato contraente.
Nel patto sui diritti civili e politici, ma non in quello sui diritti economici, sociali e culturali, è
presente una clausola di deroga ai diritti sanciti dal patto (eccetto alcuni) in caso di situazione di
pericolo per lo Stato e minaccia alla sua esistenza. La Turchia ad esempio ha fatto ricorso a questa
clausola in seguito al colpo di Stato del 15 luglio 2016.
I due patti contengono norme:
 Sostanziali: sanciscono diritti fondamentali come autodeterminazione dei popoli, diritto
alla vita, divieto della tortura e della schiavitù, diritto ad equo processo, ecc.
 Procedurali: disciplinano i meccanismi di controllo, di cui si occupano il Comitato dei
diritti umani (previsto dal Patto sui diritti civili e politici) e il Comitato sui diritti sociali,
economici e culturali (non previsto da nessun Patto, ma creato lo stesso dal Consiglio
economico e sociale). Il Comitato sui diritti sociali, economici e culturali ha competenza a
ricevere comunicazioni sia da individui che da Stati.
I meccanismi di controllo sfociano in decisioni che non sono vincolanti ma hanno
comunque un peso per l’immagine degli Stati e sono di tre tipi:
- Rapporti periodici: rapporti che gli Stati contraenti devono presentare al Segretario
generale ONU, che poi li invia ai due Comitati. Questi formulano commenti generali
sui rapporti, che vengono poi trasmessi agli Stati, ma non sono rivolti a Stati
specifici né vincolanti. I commenti sono spesso usati a fini interpretativi o per
registrare linee di tendenza.
- Ricorsi interstatali: uno Stato contraente può presentare ai Comitati ricorsi contro
un altro Stato contraente, accusandolo di aver violato i Patti, purché entrambi gli
Stati abbiano riconosciuto la competenza del Comitato. Questo può redigere un
rapporto non vincolante indirizzato agli Stati ed eventualmente sottoporre la
questione ad una Commissione di conciliazione, se le parti acconsentono.
- Comunicazioni individuali: anche gli individui possono presentare comunicazioni
ai due Comitati contro Stati contraenti (che abbiano accettato la competenza dei
Comitati) accusati di aver violato uno dei due Patti. I Comitati possono formulare
considerazioni non vincolanti indirizzato allo Stato accusato e all’individuo.

Tra gli altri organi ONU che si occupano di diritti umani vi è il Consiglio per i diritti umani,
istituito nel 2006 dall’Assemblea Generale. È stato criticato il fatto che ne farebbero parte Stati che
violano sistematicamente i diritti umani. Il compito del Consiglio è di procedere ad un controllo
universale periodico attraverso informazioni oggettive e affidabili e la cooperazione con lo Stato
controllato circa il rispetto dei DU. Su segnalazione di altri Stati o di ONG, il Consiglio può
procedere a verifiche, anche in loco, di eventuali violazioni dei DU, e nel caso redige un
rapporto non vincolante. Nel 2008 il Consiglio ha ravvisato violazioni dei DU da parte di Israele per
operazioni militari condotte in Palestina, ricevendo critiche per non aver tenuto conto degli attacchi
lanciati al territorio israeliano da Hamas, che avrebbero giustificato la reazione di Israele.
Accanto ai due Patti, che si occupano di DU in generale, sono stati conclusi numerosi altri trattati
sempre a vocazione universale, ma con carattere settoriale, perché si occupano di specifici
diritti fondamentali (es. tortura, discriminazione razziale, genocidio, apartheid, ecc). Anche molti
di questi trattati hanno istituito comitati di controllo, tuti composti da persone che risiedono a titolo
individuale (non dipendono dai governi) e con poteri non vincolanti.

Con riguardo alla Convenzione contro la tortura del 1984, l’Italia ha finalmente introdotto il
reato specifico di tortura, la cui assenza nell’ordinamento ha in passato obbligato i giudici a
punire abusi molto gravi con pene previste per reati minori. Inoltre, nel 2015 la Camera della Corte
europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la repressione nella scuola Armando Diaz in
occasione del G8 di Genova del 2001 per la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 3 della
Convenzione europea che vieta la tortura.
Il 5 luglio 2017 la Camera dei Deputati (dopo varie modifiche delle due Camere) ha approvato la
proposta di legge che introduce i reati di tortura e istigazione del pubblico ufficiale alla tortura.
Altre disposizioni vietano l’uso delle informazioni ottenute mediante tortura, il
respingimento/espulsione/estradizione di uno straniero in uno Stato in cui verrebbe sottoposto a
tortura, il riconoscimento dell’immunità a stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati
per il reato di tortura da un altro Stato o da un tribunale internazionale, prevedendone l’estradizione.
Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha osservato che la proposta di legge
appare in contrasto con le norme internazionali sui diritti umani, perché troppo debole (per
verificarsi la tortura richiede necessariamente “più condotte violente o minacce gravi”, un
trattamento “inumano e degradante”) e con pene troppo clementi.

LA CONVENZIONE EUROPEA SUI DIRITTI UMANI DEL 1950 E


LA CARTA SOCIALE EUROPEA DEL 1961
La Convenzione europea sui diritti dell’uomo è stata firmata a Roma nel 1950 da 47 Stati tra cui
l’Italia, nell’ambito del Consiglio d’Europa. Ha inizialmente istituito due organi di controllo, che
sono stati in seguito ridotti ad uno solo, la Corte europea dei diritti umani.
All’art. 1 la Convenzione stabilisce l’obbligo generale per gli Stati contraenti di riconoscere i diritti
fondamentali ivi sanciti “ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione”, quindi anche a
stranieri, a condizione che si trovino sotto la loro giurisdizione. Si pone il problema se la
giurisdizione, oltre che in senso territoriale, vada intesa anche in senso extra-territoriale. Si tratta
di un problema fondamentale, perché al giorno d’oggi, molti stati si trovano ad agire fuori dal loro
territorio per diversi fini (es. militari in missione all’estero, occupazione dell’Iraq da parte di truppe
USA, occupazione israeliana dei territori palestinesi, detenzione di presunti terroristi nella base di
Guantanamo o loro interrogatori su aerei o in altri Stati da parte degli USA). In tutti questi casi la
Convenzione europea e altri trattati sui DU stabiliscono che lo Stato ha l’obbligo di rispettare i
diritti umani anche quando agisce fuori dal territorio nazionale, non importa dove né nei
confronti di chi. In questo modo l’applicazione dei DU opera come limite all’abuso di poteri
globali da parte di potenze che vogliono imporre la loro autorità fuori dai confini nazionali.
I diritti sanciti dalla convenzione (es. diritto alla vita, alla libertà di coscienza, alla libertà di
espressione, diritto di sposarsi, divieto di tortura e di schiavitù, ecc.) sono diritti “civili e politici” o
“della prima generazione” che prevedono obblighi di astensione da parte degli Stati ma anche
obblighi “positivi” ad adottare da parte degli Stati misure idonee per evitarne la violazione.
La Convenzione europea non si occupa di diritti sociali (es. diritto all’integrità fisica e alla dignità
umana), di cui si occupa invece la Carta sociale europea.
Alcuni Protocolli addizionali alla Convenzione europea sui diritti umani aggiungono altri diritti,
altri invece sono solo di carattere procedurale.
I diritti sanciti dalla Convenzione possono essere derogati in situazioni di guerra o emergenza
nazionale, ma restano inderogabili in qualsiasi circostanza il diritto alla vita, il divieto di
tortura, il divieto di schiavitù e di servitù e il divieto di irretroattività della legge penale. Per i
diritti derogabili è necessario in ogni caso che lo Stato informi il Segretario generale del Consiglio
d’Europa.
Gli obblighi della Convenzione europea, così come quelli degli altri trattati, sono erga omnes, cioè
valevoli nei confronti di tutti i contraenti. Se uno Stato tortura un cittadino di un altro Stato,
commette una violazione non solo nei confronti dello Stato della vittima, ma nei confronti di tutti i
contraenti, che possono dunque adire la Corte. La Convenzione infatti prevede un regime
“obiettivo” fondato su un meccanismo di garanzia collettiva, che sancisce un ordine pubblico
europeo.

DIRITTI UMANI E “SOVRANITÀ RESPONSABILE”


Con sovranità responsabile si intende la sovranità esercitata al servizio della popolazione anziché
soltanto delle élite al potere e quindi nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini.
Il concetto di “responsabilità” è sempre più comune nel Di ma si presta ad un uso ambiguo.
Innanzitutto, è un concetto che risale all’inizio dell’età moderna in Europa, quindi non così
innovativo. Inoltre quando si passa a questioni più specifiche dell’idea generale di responsabilità
non è chiaro che cosa si intenda. Inoltre non è chiaro come si coniughi con la democrazia, dato che
la popolazione stessa può fare scelte democratiche irresponsabili.
L’origine dell’idea risale al libro ”Sovereignty as Responsibility” del 1996 relativo alla gestione dei
conflitti in Africa successivi alla decolonizzazione. Si riteneva che la sovranità doveva essere
responsabile e provvedere ai bisogni fondamentali della popolazione e che in caso contrario la
comunità internazionale avrebbe dovuto prendere provvedimenti.
Questo concetto di “sovranità come responsabilità”, verso i propri cittadini (quindi a servizio del
popolo) e verso l’esterno (verso altri Stati), era visto come contrapposto al vecchio sistema
vestfaliano di “sovranità come controllo” e si è originato come risultato dell’influenza crescente
delle norme che regolano i diritti umani nel DI.
Esistono tre possibili accezioni di sovranità responsabile:
 agisce nei limiti postigli dal DI
 protegge i diritti fondamentali della sua popolazione sanciti dalle norme internazionali sui
DU (la più diffusa)
 gestisce risorse comuni fondamentali presenti nel suo territorio, come gli ambienti o gli
oggetti culturali.
Gli obblighi variano in base a quale si sceglie, così come l’idea stessa di cosa si considera un
comportamento responsabile o meno e anche le conseguenze possono non coincidere.
Secondo la seconda accezione, che è la più comune, si intende che i governanti devono agire per i
governati in conformità al DI e rispettare ad ogni costo uno standard internazionale anche se
vanno contro la volontà dei più.
Tutte le norme di DI possono essere considerate come norme che, anche se formalmente rivolte agli
Stati, hanno come obiettivo ultimo regolare il modo in cui i governanti devono governare i
governati.
Es. il divieto dell’uso della forza armata può essere visto come l’obbligo di non far soffrire i
governati coinvolgendoli in una guerra
Dunque limitare la sovranità significa limitare i governanti nel modo in cui regolano la vita dei
propri cittadini. È altresì vero che i governanti sono scelti dai governati o da quelli più potenti tra
loro e dunque hanno un grado di responsabilità.
Il DI nel suo complesso può essere visto come un insieme di regole volte a stabilire come
l’intera umanità deve essere governata (in modo responsabile).

DIRITTI DELLE MINORANZE, DEI POPOLI INDIGENI, DIRITTO ALLA DIVERSITÀ CULTURALE E
“CULTURALIZZAZIONE” DEI DIRITTI UMANI
L’art. 15 del Patto ONU sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 prevede il diritto a
“partecipare alla vita culturale, a godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue
applicazioni, a godere della tutela degli interessi morali e materiali scaturenti da qualunque
produzione scientifica, letteraria o artistica di cui egli sia l’autore” e impone agli Stati l’obbligo di
“rispettare la libertà indispensabile per la ricerca scientifica e l’attività creativa”.
Si discute sull’esistenza di un diritto rispetto all’identità culturale dei popoli (lingua, religioni, usi,
ecc.). Il problema riguarda soprattutto la salvaguardia della cultura delle minoranze e dei popoli
indigeni, sulla quale esistono alcune convenzioni importanti ma ratificate da pochi Stati. Si
possono anche applicare le norme presenti sui DU presenti in vari trattati.
È soprattutto in ambito UNESCO che negli ultimi decenni sono state adottate norme alla tutela della
cultura, in particolare del “patrimonio intangibile” e della diversità culturale.
Secondo Foca non esiste un diritto complessivo riguardante l’unità culturale, né consuetudinario
né convenzionale, ma solo alcuni diritti specifici sanciti dal diritto pattizio.
Spesso nei trattati sui DU si esclude che il diritto all’identità culturale possa giustificare pratiche
come il cannibalismo, la vendetta privata, ecc. Dunque sono fatti salvi i DU fondamentali e si
parla di “multiculturalismo liberale”. La limitazione è difficile in pratica da applicare perché non
esiste un criterio idoneo a guidare nell’individuazione dei diritti umani fondamentali. Con
l’immigrazione sorge il problema se e fino a che punto debba rispettare una cultura diversa dalla
propria. Secondo una parte della dottrina il diritto alla diversità culturale ha come limite invalicabile
i diritti umani protetti dallo jus cogens.

Caso Jatinder 2017: un’indiano Sikh, multato perché si era rifiutato di consegnare un coltello di 18
cm che portava alla cintura come stabilito dalla sua religione, si appellò all’”eccezione culturale” e
all’art. 19 della costituzione che protegge ogni religione. La Corte di Cassazione sentenziò che,
benché la società multietnica sia una necessità, è necessario conformare i propri valori con quelli
della società dove liberamente vai ad inserirti.

MINORANZE
Dopo la prima guerra mondiale furono firmati trattati sulle minoranze per garantire la stabilità e
sicurezza in Europa alla luce dei nuovi confini stabiliti dai trattati di pace.
La protezione delle minoranze è stata ripresa nell’art. 27 del sopracitato Patto ONU che sancisce “il
diritto al godimento della propria cultura, a professare e a praticare la loro religione o a usare la loro
lingua, in comunità con gli altri membri del gruppo”.
In ambito europeo è importante la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze
nazionali del 1995, vincolante 39 Stati tra cui l’Italia, che afferma che “la protezione delle
minoranze nazionali è essenziale alla stabilità e alla pace del continente”.

POPOLI INDIGENI E TRIBALI


Nella Storia ha avuto luogo il soggiogamento di popoli “indigeni” o “aborigeni” e lo
spossessamento delle loro terre da parte di Stati europei e non.
È difficile definire i popoli indigeni, secondo una definizione sono quei popoli che “presentano
una continuità storica con le società anteriori all’invasione e alla colonizzazione”
I popoli indigeni non aspirano alla secessione ma all’autogoverno, rivendicando il diritto al
controllo delle loro terre ancestrali, alla loro cultura e al loro stile di vita, alla rappresentanza
all’ONU e allo sfruttamento delle risorse naturali ivi presenti.
Per quest’ultimo motivo i popoli indigeni si distinguono dalle minoranze in senso giuridico, ma
anche per il fatto che richiedono l’autodeterminazione interna e non solo diritti individuali alla non
discriminazione e alla partecipazione alla vita dello Stato.
La Convenzione OIL (organizzazione internazionale del lavoro) n. 108 del 1957 fa rientrare i
popoli indigeni nella popolazione dello Stato e gli concede gli stessi diritti.
La convenzione OIL n. 169 del 1989 definisce i popoli tribali come popoli che “si reggono
totalmente o parzialmente secondo le consuetudini o le tradizioni loro proprie” e lo sono per il
fatto di discendere dalle popolazioni che abitavano il Paese quando è stato conquistato.
Gli Stati contraenti devono riconoscere i loro valori e usanze, consultarli quando devono adottare
misure che li riguardano, rispettare le loro consuetudini di repressioni dei reati,
compatibilmente con il sistema giuridico nazionale e i diritti dell’uomo riconosciuti
internazionalmente.
L’ONU con la Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni (non vincolante) del 2007 gli concede
il diritto all’autodeterminazione, all’autonomia e all’autogoverno.
L’OAS (Organization of American States) nel 2016 ha adottato una dichiarazione (anch’essa non
vincolante) sui diritti dei popoli indigeni americani
Considerando le poche ratifiche della Convenzione OIL del 1989 e il carattere non vincolante
delle due dichiarazioni appena menzionate sembra che il rilievo giuridico dei popoli indigeni si
base più sulle costituzioni dei singoli Stati che sul DI generale.
La prassi più seguita è quella di proteggerli attraverso le norme sui DU.

DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO


Nel momento in cui scoppia un conflitto armato il diritto consuetudinario cessa di operare tra i
belligeranti e inizia ad operare il DI umanitario, che ha come scopo limitare la violenza nei
confronti degli individui (“umanizzare” la guerra). Il suo principio cardine è il divieto della
gratuità: non si tratta di proibire utopisticamente ogni atto di violenza ma almeno quelli che non
sono strettamente necessari e/o sproporzionati al fine di raggiungere lo scopo delle operazioni
belliche.
Il DIU è stato il primo settore del DI ad essere codificato, a partire dalla metà dell ‘800. Gli accordi
firmati sono numerosi.
In passato c’era una distinzione tra “diritto internazionale di guerra e di neutralità”, che regolava la
condotta delle ostilità e il “diritto internazionale umanitario” che regolava in senso stretto il
trattamento delle vittime di guerra. Oggi si considerano questi due settori integrati in un unico
sistema normativo denominato “diritto internazionale umanitario”, il cui scopo è di tutelare gli
standard minimi di umanità nei confronti di tutti gli individui coinvolti in un conflitto,
militari e civili.
Una parte della dottrina ritiene che la guerra sia “al di là del bene e del male giuridico”, in
quanto un contendente può violare tutte le norme di DIU pur di vincere. Questa idea tuttavia non
considera un aspetto importante: ciascun contendente è consapevole che l’avversario può utilizzare
gli stessi strumenti e violare il diritto allo stesso modo. Ogni parte in conflitto, per quanto
possibile, cerca sempre di raggiungere il risultato senza commettere violazioni delle regole
comuni.
Solitamente si ritiene che il rispetto del DIU si basi sulla reciprocità. Tuttavia si è anche sostenuto
in dottrina che esistono diverse norme del DIU che hanno un carattere “oggettivo” e una naturale
duale, applicandosi sia agli Stati che agli individui. Per esempio le Convenzioni di Ginevra del
1948 prevedono che le Parti possono stipulare accordi speciali che “non pregiudichino la situazione
delle persone protette regolata dalla Convenzione stessa, né ne limitino i diritti che essa gli
conferisce”. Inoltre, molte norme del DIU sono così fondamentali per il rispetto della persona che
devono essere osservate da tutti, abbiano o meno osservato le convenzioni che li contengono.
Anche il DIU si basa su consuetudini e trattati, benché i trattati si ritiene corrispondano alle
consuetudini e dunque si applichino a tutti gli Stati, anche non contraenti.

Ci sono però alcune fonti controverse, la cui qualifica di fonte in realtà è impropria:

- Clausola Mertens:
Ideata dal giurista F. Von Mertens e inserita nel preambolo della Convenzione dell’Aja del 1907,
sostiene che in casi non previsti dal codice vigente i contraenti dovevano attenersi a principi di DI
risultanti dagli usi delle nazioni civili, dalle leggi di umanità e dalle esigenza di coscienza
pubblica.
La clausola è stata inserita in vari accordi, tra cui le 4 Convenzioni di Ginevra.
Si discute se si tratti di una fonte autonoma (ma quindi troppo indeterminata) oppure corrisponda
alla consuetudine (ma quindi superflua). Senza arrivare a considerarla una fonte autonoma la si può
configurare come un elemento che invita ad interpretare le Convenzioni in cui è contenuta nel senso
di ritenerle applicabili nei limite del possibile per analogia a casi non espressamente previsti, come
lo sviluppo della tecnologia delle armi (anche informatiche). Ci si basa sul principio “for a weapon
to be legal it is not enough that it is a new weapon”. Dunque si dà più importanza all’opinio juris
che all’usus. Il suo “invito” è diretto ad impedire risultati che condurrebbero a un risultato meno
favorevole alla protezione della persona.

- Principio di umanità:
La clausola Mertens non è che un’applicazione specifica del più ampio principio di umanità,
considerato un principio generale di diritto conosciuto da “millenni”.
È ritenuto il principio fondamentale che ispira il DI relativo ai diritti umani e al DIU. Oltre alla già
discussa “clausola Mertens”, questo principio è apparso in numerosi trattati, è uno dei principi
fondamentali della croce rossa, è stato accolto dalla CIG. È stato sintetizzato anche in termini di
“protezione dell’individuo in quanto essere umano”.
In tempi più recenti regola norme applicabili a fatti come le calamità naturali.

- Necessità militare
Neanche il principio di necessità militare è una fonte di DIU. Da notare che può avere due
accezioni opposte:
limite all’azione bellica: i belligeranti devono applicare solo la quantità di forza necessaria ad
annientare il nemico
limite all’applicazione del DIU: si ammette che il fine giustifichi i mezzi quando ci sono
“imperiose necessità”

Non sono fonti nemmeno i “manuali militari” e le “regole d’ingaggio”.


I “manuali militari” sono pubblicazioni dei Ministeri della difesa, che non hanno valore giuridico, in
cui si indicano ai propri militari le regole da seguire nei conflitti, di solito riproducendo il DIU o
integrandolo se manchino norme internazionali.
Le “regole d’ingaggio” sono regole di solito segrete adottate in ogni singolo conflitto che
stabiliscono le circostanze necessarie per iniziare o continuare un combattimento con il nemico.
Non è una fonte di DIU neanche il “manuale di Sanremo” sul DI applicabile ai conflitti in mare,
essendo una codificazione privata preparata da esperti.
Durante i conflitti oltre al DIU si applicano anche le norme di DU, a meno che non esista una
clausola di deroga e a condizioni che le operazioni militari avvengano negli Stati parti dei trattati sui
DU applicabili. La CIG si è pronunciata in tal senso, ritenendo il DIU lex specialis rispetto ai
trattati sui DU. È difficile però stabilire in base alla ratione personarum e alla ratione
materiae (alcune norme di DIU sono più specifiche di quelle di DU, altre più ampie).
L’applicazione di DU in guerra ha come conseguenza la possibilità di rivolgersi a giudici e organi
di controllo internazionali intesi ad applicarsi in tempo di pace.
Si ritiene che il DIU si applichi all’ONU, benché non sia parte di trattati di DIU né di DU, essendo
questi aperti soltanto agli Stati. È communis opinio però che le forze militari ONU debbano
rispettare il DI consuetudinario applicabile nei conflitti armati. Lo stesso ONU ha detto di ritenersi
vincolata al rispetto di “principi” e “spirito” dei trattati di DIU, benché questa formula non sia
molto chiara.

PRINCIPI FONDAMENTALI
Il DIU comprendere diverse norme che disciplinano gli aspetti rilevanti durante i conflitti armati
(es. status dei prigionieri di guerra, “legittimi combattenti”, mezzi e metodi di combattimento, ecc.).
Un conflitto internazionale avviene quando “uno o più Stati ricorrono alla forza armata contro un
altro Stato”.
Altre norme regolano i conflitti interni o “non internazionali”.
Il DIU si applica sia agli aggressori che alle vittime.
Un “conflitto internazionale” inizia quando iniziano le ostilità (la dichiarazione di guerra o il
riconoscimento di uno Stato sono irrilevanti) e finisce solitamente con un trattato di pace.
Un “conflitto interno” inizia quando lo scontro interno a uno Stato raggiunge un’intensità superiore
ai semplici disordini interni.
Si applicano, come detto, le norme consuetudinarie e pattizie, ma le norme pattizie che non
corrispondono alle consuetudini si applicano solo ai contraenti: se il conflitto coinvolge Stati non
contraenti allora non si applicheranno a nessuno (clausola si omnes). Questo riduce i casi in cui
le convenzioni trovano applicazione.

In Crimea vista l’occupazione russa perdurante si applica il diritto dei conflitti armati internazionali.
In Ucraina orientale, vista il livello raggiunto dalle ostilità, si applica il diritto dei conflitti armati,
ma con la necessità di stabilire se sia interno o internazionale (se si prova che la Russia ha
equipaggiato, aiutato o diretto i ribelli).

I tre capisaldi del DIU sono:


principio di distinzione: sono vietati gli attacchi contro i civili (tra cui anche i militari fuori dal
combattimento, i feriti, i prigionieri di guerra) o contro beni civili, nonché gli attacchi
indiscriminati contro persone/beni civili e obiettivi militari.

principio di proporzionalità: sono vietati gli attacchi i cui danni ai civili sono sproporzionati al
vantaggio militare, quindi gratuiti. Sono ammessi gli attacchi che colpiscono civili ma in maniera
proporzionati al vantaggio militare (danni collaterali).

principio di precauzione: sono vietati gli attacchi senza previo avvertimento ai civili e quelli scelti
come più dannosi ai civili rispetto ad altri.
Le violazioni di DIU comportano una responsabilità internazionale dello Stato e eventualmente
una responsabilità penale individuale nel caso di crimini di guerra (che a volte sono anche
contro l’umanità).
Il rispetto del DIU è garantito (con varia efficacia) dalle rappresaglie belliche (un'azione di
autotutela effettuata da uno Stato contro un altro Stato, in risposta a un precedente atto illecito
commesso dal secondo contro il primo), dal sistema delle “Potenze protettrici” (uno Stato terzo
che sorveglia sul rispetto del DIU, accettato dai belligeranti. Manda delegati che verifichino il
rispetto dei DIU. Le loro prerogative includono: l’accesso di questi ai prigionieri di guerra, agli
internati civili, l’inoltro dei soccorsi umanitari. Nella prassi l'applicazione è difficoltosa), dalle
Commissioni per l’accertamento dei fatti (meccanismo del tutto inutilizzato), dai tribunali
penali internazionali e a volte dai tribunali sui diritti umani (che possono imporre un
risarcimento).a

CONFLITTI ARMATI NON INTERNAZIONALI


In passato le guerre civili non erano regolate dal DI, salvo i rapporti tra lo Stato dell’insurrezione
e gli Stati terzi. Dopo la WW2 sono state create norme che li disciplinano, come l’art. 3 comune
alle quattro Convenzioni di Ginevra (1949) e il Protocollo addizionale del 1979.
Si applicano inoltre i trattati sui DU di cui lo Stato sia parte.
Affinché possa parlarsi di conflitto interno occorrono scontri tra il governo e i ribelli che hanno un
livello di organizzazione simile, tale da poter condurre operazioni militare prolungate nel tempo.
L’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra prevede obblighi di trattamento umano
minimo a carico sia del governo legittimo che degli insorti. Chi non partecipa alle ostilità deve
essere trattato con umanità e senza discriminazioni (es. razza, religione, ecc.). Sussiste l’obbligo di
curare i feriti, il divieto di presa di ostaggi, di offese alla dignità personale, di irrogare pene
senza previo giudizio.
Inoltre chi non partecipa alle ostilità ha diritto ad essere sottoposto a giudizio e godere di tutte
le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dai popoli civili.
Il protocollo di Ginevra del 1977 sancisce il principio tradizionale di non intervento da parte di
Stati terzi, ma stabilisce alcuni limiti di carattere umanitario al dominio degli Stati. Mantiene fermo
il principio secondo cui gli insorti non sono legittimi combattenti e non hanno diritto allo status
di prigionieri di guerra. Possono dunque essere puniti dal governo legittimo. Si occupa inoltre di
feriti, malati, naufraghi (tra cui l’obbligo di rispettare il personale sanitario). Inoltre tutela la
popolazione civile e stabilisce una serie di divieti (es. atti di ostilità contro il patrimonio culturale e
spirituale dei popoli, trasferimento forzato, ecc.). È ammesso il soccorso della Croce Rossa e della
stessa popolazione civile.
Il protocollo corrisponde in gran parte al DI consuetudinario. Oggi c’è la tendenza ad applicare le
norme sui conflitti internazionali (come i crimini di guerra) anche internamente.

CRIMINI INTERNAZIONALI
Sulla base dei “principi di Norimberga” tratti dallo Statuto del Tribunale di Norimberga, dopo
WW2 e soprattutto dopo la Guerra Fredda, si è affermata nella prassi la repressione dei “crimini
internazionali”, ovvero gravissime violazioni dei DU compiute da privati o individui-organi. Di
questi crimini rispondo le persone (repressione individuale) che li commettono o li agevolano o
non adottano le misure in loro potere per impedirli. Il regime dei crimini internazionali
attribuisce obblighi internazionali agli individui, per questo è usato per sostenere la soggettività
internazionale degli individui, insieme ai DU.
L’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga distingue i seguenti crimini internazionali:
 crimini di guerra (violazioni del DI umanitario)
 crimini contro l’umanità (es. sterminio)
 crimini contro la pace (es. aggressione)
 genocidio (progressivamente affermatosi dopo WW2 come figura autonoma)
Tuttavia, è difficile fornire una definizione generale di crimine internazionale, per questo non è
ben chiaro quali atti esattamente vi rientrino.

CRIMINI DI GUERRA
La categoria dei crimini di guerra viene storicamente ricondotta al c.d. Codice Lieber, una
codificazione del diritto di guerra adottata nel 1863 dal presidente A. Lincoln. Fu poi inserita
nell’art. 6 del Tribunale di Norimberga. In passato i crimini di guerra riguardavano solo conflitti tra
Stati, mentre oggi si ritiene che possano essere commessi sia in conflitti internazionali che non.
I crimini di guerra consistono in una violazione grave del DI umanitario (sia diritto dell’Aja che
diritto di Ginevra). È indispensabile che vi sia un conflitto (internazionale o non) e che il crimine
sia ad esso collegato. Il crimine può essere commesso da civili o da militari nei confronti di
civili o militari purché appartenenti alle forze armate nemiche, quale che sia la loro nazionalità.
La responsabilità personale sorge anche per atto omissivo (es. comandante che non impedisce ai
subordinati di commettere il crimine o non lo punisce).
Mentre lo Stato risponde per qualsiasi violazione del DI umanitario, l’individuo risponde solo per
quelle particolarmente gravi. Tuttavia non è semplice stabilire quali violazioni siano gravi. Le
Convenzioni di Ginevra del 1949, il Protocollo di Ginevra del 1977 e gli Statuti dei Tribunali penali
internazionali individuano alcune violazioni come gravi, es. atti compiuti contro civili, prigionieri
di guerra e militari malati o feriti, attacco a località indifese, uccisione del nemico fuori
combattimento, attacco a monumenti storici, ecc.
In mancanza di altri criteri, per stabilire se un fatto è sufficientemente grave da poter essere
considerato crimine di guerra, su può far riferimento a manuali militari e ai principi generali del
diritto penale comuni alla generalità degli Stati.
È difficile elencare tutte le condotte (actus reus) che possono dar luogo insieme all’intento (mens
rea) ai crimini di guerra. Come prima approssimazione, si può far riferimento all’elenco dei crimini
di guerra dell’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale.
CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ
I crimini contro l’umanità si fanno risalire a una dichiarazione del 1915 di Russia, Francia e
Gran Bretagna che dichiaravano tutti i membri del governo ottomano personalmente
responsabili per le uccisioni di massa degli armeni nell’impero Ottomano.
Questi crimini vennero poi inseriti nell’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga come una
categoria di reati nuova, che dunque poneva il problema del rispetto del principio di legalità (non
si possono punire crimini che non erano considerati crimini quando sono stati commessi).
Lo Statuto del Tribunale di Norimberga affermava che i crimini contro l’umanità dovessero essere
connessi ad un conflitto armato, ma oggi nella prassi non è più così: secondo il DI generale odierno,
i crimini contro l’umanità non richiedono né un conflitto armato, né un intento
discriminatorio (come invece afferma lo Statuto del Tribunale penale per il Ruanda).
I crimini contro l’umanità richiedono l’esistenza di un “attacco esteso e/o sistematico nei confronti
della popolazione civile con la consapevolezza dell’attacco”. L’attacco non deve necessariamente
essere connesso a un conflitto armato e può consistere anche in un maltrattamento che
provochi sofferenze fisiche o mentali. Per popolazione civile si intende un gruppo di persone di
qualsiasi nazionalità o apolidi che può comprendere anche alcuni non-civili. Per esteso si intende
che cagioni un alto numero di vittime e per sistematico che faccia parte di un piano di
un’organizzazione che abbia un’autorità esclusiva (es. Stato, gruppo insurrezionale). I crimini
contro l’umanità di solito corrispondono a violazioni dei DU.
Le condotte materiali (actus reus) che possono dar luogo a crimini contro l’umanità sono
numerose (es. omicidio volontario, sterminio, schiavitù, deportazione, stupro, persecuzione,
tortura, ecc.) e devono risultare compiute con l’intento e la consapevolezza (mens rea) di
commettere il crimine.
Dal 2014 i crimini contro l’umanità sono stati inclusi nei lavori della Commissione del diritto
internazionale, che ha adottato 10 articoli relativi alla prevenzione e punizione dei crimini contro
l’umanità, nei quali sono elencate 11 fattispecie. È previsto l’obbligo generale degli Stati di
prevenire e punire queste fattispecie e di inserire i crimini contro l’umanità nella propria
legislazione penale.

GENOCIDIO
Il genocidio non è espressamente menzionato dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga.
Fu l’Assemblea generale ONU, con una risoluzione del 1946, a definire il genocidio come “rifiuto
del diritto all’esistenza di interi gruppi umani”. Da quel momento il genocidio venne configurato
come un crimine autonomo, distinto dai crimini contro l’umanità.
La sua autonomia fu confermata con la Conferenza di New York del 1948.
͐ All’art. I gli Stati contraenti si impegnano a prevenire e punire il crimine di genocidio,
riconosciuto come un crimine internazionale, sia che venga commesso in tempo di pace che
in tempo di guerra. L’obbligo per gli Stati di prevenire e reprimere il genocidio da parte di
individui sotto la loro influenza implica anche l’obbligo di non commetterlo essi stessi.
L’obbligo è erga omnes, pertanto vi è una quasi universalità della giurisdizione (tutti i
giudici degli Stati contraenti possono processare e punire un individuo per genocidio anche
in assenza di contratti con il foro).
͐ L’art. II definisce l’actus reus e la mens rea richiesti affinché il reato si configuri. La
condotta può consistere in 5 diversi tipi di atto che provocano uccisione o lesioni ad un
gruppo, mentre l’intento deve essere quello di aver commesso gli atti con intenzione di
distruggere, in tutto in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Se manca
l’intento di distruggere il gruppo in quanto tale, si configurano altri crimini, quali lo
sterminio (uccisione di persone su larga scala, aka crimini contro l'umanità). Non devono
necessariamente verificarsi uccisioni, purché ci sia l’intento di distruggere fisicamente il
gruppo, a prescindere dal fatto che l’intento si realizzi o meno. La convenzione non
considera genocidio il “genocidio politico” (distruzione di avversari politici) né il
“genocidio culturale” (distruzione di simboli culturali di un gruppo). La pulizia etnica
(espulsione di un gruppo da un’area geografica) non sembra rientrare nel reato di genocidio.
Secondo la Convenzione il genocidio non richiede la presenza di una prassi estesa o
sistematica, anche se difficilmente il genocidio può essere compiuto attraverso atti isolati o
sporadici.
Nella sentenza Tolimir del 2015 è stato per la prima volta individuato l’actus reus di genocidio in
atti diversi dall’uccisione. Il Tribunale per l’ex Jugoslavia ha concluso che i musulmani di
Srèbrenica avevano sofferto varie forme di lesioni mentali genocidiarie (le lesioni mentali
costituiscono genocidio se causano danni durevoli). Il trasferimento forzato di civili può dar luogo
a condizioni di vita tese a distruggere il gruppo, ma nel caso di specie il Tribunale ha concluso che
le espulsioni forzate delle popolazioni da Srebrenica e Žepa non furono condotte in circostanze
dirette a causare la distruzione fisica dei musulmani espulsi.
Nel 2016 la Commissione indipendente d’inchiesta sulla Siria ha dichiarato che l’ISIS è
responsabile di genocidio della popolazione degli Yazidi, nei confronti della quale ha perpetrato
varie forme di lesione e uccisioni, avendo espresso con affermazioni pubbliche e la propria
condotta la chiara volontà di distruggere il gruppo.
͐ L’art. III prevede che siano puniti oltre al reato di genocidio anche le forme incoative di
crimine: la concertazione intesa a commetterlo, l’istigazione a commetterlo, il tentativo e la
complicità. L’art. III non si applica solo ai fini della responsabilità personale degli
individui, ma anche alla responsabilità dello Stato i cui organi abbiano commesso
genocidio.
͐ Secondo l’art. V della Convenzione le parti contraenti si impegnano a conformare il proprio
diritto interno a quanto stabilito dalla Convenzione, prevedendo sanzioni penali efficaci.
L’Italia l’ha fatto con diverse leggi, che prevedono tra l’altro la possibilità di estradare un
individuo accusato di genocidio e identificano il negazionismo (della Shoah, dei crimini di
genocidio, contro l’umanità e di guerra) non come reato autonomo, ma come aggravante.
A parte la Convenzione di NY esistono nella prassi numerosi manifestazioni a favore del carattere
consuetudinario del divieto di genocidio, che si ritiene faccia parte dello jus cogens.
CRIMINI CONTRO LA PACE
È la categoria più controversa, nella quale rientra sostanzialmente l’aggressione. L’art. 6 elenca
alcuni atti ritenuti aggressivi, senza fornire una definizione generale. I tipici atti di aggressione sono
invasione, bombardamento, blocco dei porti, ecc. Il crimine di aggressione non rientra nella
giurisdizione dei Tribunali penali internazionali, ma può rientrare in quella della Corte penale
internazionale.
Nella Conferenza di Kampala (Uganda) del 2010 è stato definito il crimine di aggressione in
termini di “pianificazione, preparazione, scatenamento o esecuzione, da parte di una persona che
sia effettivamente in grado di controllare o di dirigere l’azione politica e militare dello Stato, di un
atto di aggressione che, per carattere, gravità e portata, costituisca una manifesta violazione della
Carta delle Nazioni Unite”. Per atto di aggressione si intende sostanzialmente l’uso della forza
armata contro un altro Stato.
Come per il genocidio, va distinto il crimine di aggressione per il quale è penalmente responsabile
l’individuo, dall’illecito internazionale per cui è responsabile lo Stato sul piano internazionale.

REGIME GIURIDICO DEI CRIMINI INTERNAZIONALI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE


GENERALE
Il regime giuridico dei crimini internazionali nel DI, non è pacifico: alcuni principi sembrano
consolidati, altri sono contestati, altri non sembrano corrispondere alla prassi. La CDI sta creando
un progetto di articoli sui crimini contro l’umanità.
Norme che sono o potrebbero essere considerate valide per i crimini contro l’umanità:
 Universalità della giurisdizione: l’accusato di un crimine internazionale può essere
giudicato da giudici di qualsiasi Stato, anche in assenza di contatto con tale Stato. Nella
prassi si richiede però almeno che l’accusato si trovi nello Stato che vuole giudicarlo.
Critiche: il principio spesso funziona a senso unico, cioè è applicato solo dagli Stati più
forti, che però non vogliono che altri giudichino i propri cittadini; gli Stati deboli spesso
non offrono standard di equo processo adeguati; i giudici spesso non sono imparziali
nel giudicare organi statali supremi, perché politicizzati. Le giurisdizioni nazionali a
favore dell’universalità della giurisdizione sono poche, tutte di Stati occidentali (alcuni
occidentali comunque vi si oppongo, es. USA), non concordano su quali crimini siano
coperti dalla g. universale e spesso lasciano troppa discrezionalità agli organi esecutivi,
che finiscono per processare solo imputati di Stati deboli. Spesso i giudici confondono la
giurisdizione universale con quella extra-territoriale o con quella quasi-universale prevista
dai trattati, che obbliga però solo le parti del trattato. Essendo facoltativa, di solito gli Stati
sono restii ad esercitarla, pertanto l’universalità della giurisdizione per crimini
internazionali sembra non
corrispondere al DI generale.
 Irrilevanza dell’immunità funzionale dell’individuo-organo: principio consolidato nel DI
pattizio, secondo il quale un reo di crimini internazionali non può fare appello
all’immunità funzionale (dire di aver agito per conto dello Stato) per sottrarsi alla sua
responsabilità. Il Tribunale penale internazionale per i crimini internazionali commessi nella
ex-Jugoslavia ha affermato che l’eccezione umanitaria all’immunità funzionale corrisponda
al DI consuetudinario. La giurisdizione è permessa nei confronti di ex individui-organi,
mentre l’immunità personale va riconosciuta in ogni caso. La questione comunque
riguarda solo i casi di organi stranieri che avrebbero diritto all’immunità.
 Inoperatività dell’esimente dell’ordine superiore: non è chiaro se nel DI una persona
possa invocare come esimente il fatto di aver agito per eseguire un ordine ricevuto da
un’autorità gerarchicamente superiore. In alcuni tribunali penali, è ammessa come
attenuante, nell’ordinamento statale tende ad essere considerata esimente ad alcune
condizioni, poi riprese nello statuto della CIG, ovvero è necessario che: l’esecutore abbia
l’obbligo giuridico di obbedire all’ordine; l’ordine non sia manifestamente illegittimo
(genocidio, crimini contro umanità); l’esecutore non sia consapevole che l’ordine è
illegittimo. Sembra che l’inoperatività dell’ordine superiore sia dunque in principio
stabilita dal DI generale, restando da vedere le circostanze concrete in cui l’ordine è stato
eseguito.
 Imprescrittibilità del crimine: è dubbio se esista nel DI consuetudinario il divieto di far
cadere in prescrizione i crimini internazionali. Non è prevista dai Tribunali penali
internazionali, ma la prevede la CIG. Nel DI pattizio la maggioranza delle Convenzioni
sui crimini internazionali non la prevede (solo due Convenzioni lo fanno). Non sembra
dunque che sia sancita dal DI generale, ma gli Stati, se non sono parti di trattati che si
pronunciano in merito, possono decidere se rendere i crimini internazionali prescrivibili o
meno senza violare il DI.
 Inamnistiabilità del crimine: si ritiene che spesso l’imprescrittibilità dei crimini
internazionali comporti anche la loro inamnistiabilità, ovvero il divieto di concedere
amnistie che li estinguano. In passato l’ONU ha appoggiato le leggi di amnistia,
sostenendo che le esigenze di riconciliazione e pace sociale dovessero prevalere su quelle di
giustizia, ma recentemente ha invertito la tendenza per i crimini internazionali. In ogni
caso è certo che non ci siano leggi internazionali che vietino l’amnistia per reati diversi
dai crimini internazionali. Le amnistie possono essere vietate da specifici trattati, in
particolare quelli sui diritti umani, ma se non ci sono trattati che le vietano, di fatto il DI
consuetudinario non le vieta.
 Estradabilità facoltativa del presunto criminale: se non è obbligato a farlo da un trattato,
uno Stato può decidere in maniera facoltativa se estradare o meno un criminale.
 Irrilevanza dell’illiceità internazionale della cattura: l’esercizio della giurisdizione
penale di un presunto criminale non è precluso se questo è stato catturato in modo
illecito in territorio altrui, per evitare il possibile rifiuto dello Stato territoriale di concedere
l’estradizione.

SICUREZZA GLOBALE
(CAPITOLO VII)

Gli Stati per proteggere le persone che si trovano entro il loro territorio o giurisdizione adottano
misure preventive e repressive. Vista però la molteplicità di Stati e il fatto che i trasgressori possano
spostarsi da uno all'altro, gli Stati devono cooperare per reprimere la criminalità interna e
transnazionale (se connessa a più Stati).
Con la globalizzazione la criminalità transnazionale è in crescita, sia per i minori costi dei trasporti
e delle comunicazioni, sia perché gli Stati sono sempre meno capaci di contrastarla. La
globalizzazione incentiva il jurisdictional shopping, ovvero la scelta dello Stato più conveniente in
cui commettere un reato. È dunque necessario intensificare la cooperazione tra Stati, soprattutto
nell'ambito delle OI.
Ancora oggi vale il principio secondo cui la cattura dei delinquenti e la repressione della
criminalità spetta allo Stato territoriale. Uno Stato non può catturare un delinquente in uno Stato
straniero e il ricorso alla forza militare a questo fine è vietato. L'unica via ammessa è
l'estradizione, che dipende dalla presenza di trattati tra i due Stati e/o dal diritto interno.
Gli unici trattati in materia di criminalità transnazionale impongono solamente l'obbligo di adottare
norme interne e di cooperazione.
L'estradizione (consegna di un accusato o condannato alle autorità di un altro Stato per essere
sottoposto a processo o scontare una pena) è stabilita esclusivamente da trattati ed è la forma più
importante di mutua assistenza penale tra Stati.
Vi sono alcuni principi comuni che regolano l'estradizione:
- principio di specialità: l'estradando può essere processato dallo Stato richiedente solo per un
reato per il quale è stata richiesta l'estradizione
- principio di della doppia previsione (o incriminazione) del reato: se il fatto commesso è un
reato in entrambi gli ordinamenti l'estradizione può essere rifiutata
- principio del ne bis in idem: se c'è già Stata una sentenza o l'estradando abbia già scontato la
pena inflittagli dallo Stato richiedente, vige l'obbligo di rifiutare l'estradizione
Di regola ogni trattato ha diverse eccezioni per cui lo Stato richiesto può rifiutare l'estradizione, tra
cui il carattere politico del reato. È importante oggi il divieto di estradizione a rischio di pena di
morte, tortura o trattamenti inumani.
L'ONU nel 1990 ha adottato con una risoluzione il "Modello di trattato sull'estradizione", non
vincolante ma contenente linee guida sulle disposizioni tipiche riscontrabili nei trattati di
estradizione.

Regola aut dedere aut judicare


Solitamente nei trattati sulla criminalità transnazionale è prevista questa regola, secondo cui gli
Stati devono processare l'autore di un reato regolato dal trattato o estradarlo.
La regola però ha formule diverse in trattati diversi. In passato la formula era "primo dedere
secundo judicare": lo Stato ha l'obbligo di processare soltanto se riceve e rifiuta la richiesta di
estradizione; se non la riceve può non fare nulla. A partire dagli anni '70 tale formula è stata
sostituita da quella attuale, secondo cui lo Stato, se non estrada, deve sottoporre il caso alle
proprie autorità giudiziarie. Esiste anche una terza via che preveda la consegna del criminale a
tribunali internazionali.

Questa norma, apparentemente semplice, solleva numerosi problemi nel suo intersecarsi con le altre
norme internazionali relative ai due versanti del dedere o del judicare. Spesso ci sono norme
internazionali che escludono una delle due alternative, dunque spesso gli Stati devono adottare
internamente norme che gli permettano di adottare l'altra.
Si discute se tale regola possa essere considerata una norma di DI consuetudinario o addirittura
cogente, ma la tesi affermativa è debole. La prassi convenzionale non è uniforme e spesso viene
disattesa; inoltre la regola si giustifica proprio per l'assenza di una volontà internazionale di punire
i reati più gravi.

TERRORISMO INTERNAZIONALE
La sua definizione giuridica è una questione controversa in campo internazionale:
 secondo gli Stati occidentali si tratta di atti compiuti da privati "sponsorizzati da Stati";
 secondo gli Stati afro-asiatici e arabi si tratta ANCHE di atti compiuti da Stati, in
particolare dalle Potenze coloniali contro i popoli in lotta per l'autodeterminazione.
L'accordo non è ancora stato raggiunto perché la qualificazione di atti di resistenza armata nella
lotta per l'autodeterminazione continua ad essere un punto di divergenza.
È noto che il termine "terrorismo" viene utilizzato da avversari politici per screditarsi
reciprocamente; inoltre è noto che atti considerati terroristici da uno Stato possono non esserlo
in altri, o che in base all'epoca storica smettano di essere considerati tali.
Certamente è necessaria una definizione condivisa universalmente, ma il punto sulla lotta per
l'autodeterminazione di cui sopra continua a creare divergenze. Il terrorismo, distinto dai reati
comuni, è una qualificazione unilaterale utilizzata da ciascuno Stato per indicare chi mina il
PROPRIO ordine politico. I terrorismo ha rilievo internazionale nella misura in cui l'ordine
costituzionale dei singoli Stati influenza l'ordine globale.
La comunità internazionale può convergere su casi concreti di "terrorismo", ma non su una
definizione astratta valida sempre. Il Consiglio di sicurezza decide autoritativamente quali
individui o gruppi di individui siano terroristi (Bin Laden, Al Qaeda, talebani, ISIS), ai fini di
adottare misure repressive. Il CdS identifica gli attentatori sia a livello internazionale che
interno, sul presoppusto che la pace internazionale dipenda da entrambi. Da notare che il CdS
dunque si assume il potere di decidere internamente ad uno Stato quali aspiranti al potere
siano legittimi e quali tirannici.

Vi sono numerosi trattati, di OI (come l'ICAO, l'IMO e l'AIEA) e altrettante risoluzioni CdS e
AG ONU. Gli obblighi sono di due tipi:
 prevenzione: prevenire i reati in oggetto, anche scambiando informazioni e coordinando
le attività amministrative
 repressione: criminalizzare tali reati sul piano interno nel caso in cui manchino norme
Statali (improbabile vista la gravità)
Spesso è prevista la giurisdizione "quasi universale", nel senso che hanno titolo di giurisdizione
lo Stato territoriale, lo Stato del presunto reo e altri Stati connessi in vario modo. È comune il
principio "aut dedere aut judicare". Inoltre i reati disciplinati dal trattato devono rientrare nei
trattati inter-partes sull'estradizione, già conclusi o da concludere in futuro o nella loro legislazione
interna.
A volte esiste in alcuni casi la clausola di "eccezione politica", secondo cui l'estradizione va
esclusa per "reati politici", ma spesso viene esclusa anche perché spesso i reati associati al
terrorismo hanno finalità politiche.

Sono significative le risoluzioni ONU:


 L'Assemblea generale ha iniziato a occuparsene nel 1972, con una serie di
raccomandazioni su come prevenire e reprimere gli atti terroristici, mentre nel 1994 per
la prima volta li ha condannati, definendoli atti ingiustificabili "quali che siano le ragioni
politiche, ideologiche o religiose"
 Il CdS si occupa da anni di casi specifici di terrorismo internazionale, talvolta
raccomandando, talvolta vincolando determinate misure (es. risoluzione n. 2178 2014
contro l'ISIS). Contestualmente, ha costituito comitati di controllo dell'adempimento degli
obblighi da parte degli Stati.
Nella risoluzione sopracitata il CdS ha espresso preoccupazione per il fenomeno dei foreign
terrorist fighters. Nel 2016 il Segretario generale ONU ha presentato un Piano d'azione contro
l'estremismo violento, in cui si sottolinea la gravità degli attentati ISIS e prevedendo un approccio
"All-of-UN", pur nel rispetto dei diritti umani.

Proprio il rispetto dei diritti umani nel reprimere il terrorismo pone un problema dinanzi ai
giudici nazionali. Per esempio, è sorto questo problema quando il CdS ha redatto una lista di
individui e organizzazioni ritenute associate ad Al-Qaeda da sottoporre a sanzioni, senza che questi
potessero far valere le loro ragioni.
La Corte di giustizia UE nel 2005 si espresse negativamente nei confronti delle risoluzioni del CdS
(caso Kadi e Yusuf), ritenendo che violassero diritti fondamentali sanciti dal diritto comunitario.
Le misure correttive del CdS (che davano per esempio l'opportunità agli interessati di contestare
l'inserimento) erano poco significative. Misure più efficaci sono state adottate con una risoluzione
nel 2009, che prevede meccanismi di "delisting" e con una risoluzione del 2011 che introduceva
disposizioni per la pubblicità delle ragioni dell'inserimento nelle liste delle sanzioni contro Al-
Qaeda.
Si discute se è legale l'uso della Forza armata quando si subisce un attacco terroristico?
Il terrorismo è un crimine internazionale (in altre parole, è un crimine anche quando non è
configurabile come crimine di guerra, contro l'umanità o genocidio)? Analizzando i lavori
preparatori della Corte penale internazionale, no, dato che questa non l'ha considerato di sua
competenza. Successivamente però in un'altra sentenza ha cambiato idea, dicendo che "si è
formata una consuetudine di DI riguardante il crimine internazionale di terrorismo, almeno in
tempo di pace". La scelta è stata critica, secondo il Foca giustamente, in quanto esercizio di
"creatività giudiziaria".

DIVIETO DELL’USO DELLA FORZA


Per il DI la sicurezza dei singoli Stati e del sistema globale è fondamentale. La sicurezza non può
essere garantita solo da norme giuridiche, può richiedere misure coercitive, purché queste siano
ritenute legittime dalla generalità dei destinatari. La sicurezza deve essere perseguita sia contro
illeciti già commessi sia contro le minacce. Il DI prevede misure di sicurezza che proteggono i
singoli Stati (es. legittima difesa), ma anche e soprattutto l’intero sistema (es. divieto uso della
forza).
La sicurezza globale è assicurata anzitutto dal divieto generale dell’uso e della minaccia di uso
della forza, sancito da Carta ONU e DI generale. Gli Stati quindi non possono ricorrere
unilateralmente all’uso della forza armata a meno che non vi sia una giustificazione prevista dal DI
vigente. Se la giustificazione è infondata si configura un illecito internazionale. Le uniche due
eccezioni al divieto dell’uso della forza sono la legittima difesa (reazione armata ad un attacco
armato di un altro Stato) e l’uso della forza da parte del CdS.
In questo caso si parla di jus ad bellum (diritto di ricorso alla guerra) che va distinto dallo jus in
bello (DI umanitario).
Nel disegno originario della Carta ONU solo il CdS poteva ricorrere all’uso della forza, che era
vietata agli Stati (eccetto la legittima difesa in attesa dell’intervento del CdS). Gli Stati avrebbero
dovuto fornire al CdS dei contingenti militari, ma questo non è mai avvenuto. Il CdS dunque non ha
forze militari proprie e quindi autorizza di volta in volta all’uso della forza gli Stati disposti ad
intervenire.

IL DIVIETO DELLA MINACCIA E DELL’USO DELLA FORZA ARMATA NELLA CARTA ONU E NEL
DI GENERALE
Il divieto generale dell’uso della forza si è affermato nel XX secolo, in particolare grazie alla
Carta ONU, che lo prevede all’art. 2. L’articolo non si riferisce alla guerra ma solo alla forza.
La Carta non precisa se si intenda solo forza militare o anche forza politica ed economica, ma la
prassi è nel senso unicamente della forza militare.
L’art. vieta anche la minaccia dell’uso della forza, senza chiarire cosa effettivamente costituisca
una minaccia. La CIG ha sostenuto che è vietata ogni minaccia della forza il cui uso è vietato, ad
es. la dissuasione nucleare è una minaccia se è diretta contro uno Stato o se, usata come strumento
di difesa, viola i principi di proporzionalità e necessità.
La forza è vietata “nelle relazioni internazionali”, quindi solo tra Stati. L’espressione è
controversa, ma si ritiene che deve trattarsi della forza esercitata al di là del territorio dello Stato
o all’interno del territorio ma solo nei confronti di truppe straniere stanziate legalmente. È
certo che non sia vietata la forza per reprimere gli insorti o contro agenti diplomatici stranieri.
L’articolo vieta inoltre la forza impiegata sia “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza
politica di qualsiasi Stato” sia “in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle
Nazioni Unite”. Non è chiaro se tali espressioni limitino il divieto (che varrebbe solo per attacchi
limitati e temporanei compiuti in un altro Stato) o lo enfatizzino (per cui il divieto vale sempre ma
soprattutto in presenza di tali circostanze).
La norma che vieta l’uso della forza corrisponde al DI generale, appartiene allo jus cogens e
contempla un obbligo erga omnes, quindi tutti devono rispettarla, non solo i membri ONU.
LEGITTIMA DIFESA INDIVIDUALE E COLLETTIVA
Ai sensi dell’art. 51, che corrisponde al DI generale, nessuna disposizione della Carta pregiudica il
diritto alla legittima difesa (reazione armata ad un attacco armato) sia individuale (dello Stato che
ha subito l’attacco) sia collettiva (di Stati terzi in difesa dello Stato che ha subito l’attacco).
Ci si chiede se l’art. 51 preveda anche la minaccia preventiva, cioè la reazione armata a una mera
minaccia. In uno scambio di note con lo UK, il Segretario di Stato americano Webster si espresse a
favore della legittima difesa preventiva, ma solo contro un attacco imminente. Nella prassi del
secondo dopoguerra gli Stati hanno ripetutamente sostenuto che la legittima difesa preventiva è
vietata. La CIG non si è pronunciata in merito.
Il dibattito è stato riacceso in tempi recenti dagli USA (es. guerra in Iraq). La soluzione che
sembra prevalere in dottrina è allineata alla formula Webster, per cui la legittima difesa
preventiva è ammessa, ma solo se l’attacco è già iniziato o vi sono prove certe che sia
imminente, non quando è una mera ipotesi.
In un rapporto del 2016, Obama ha chiarito che gli USA riconoscono tre situazioni in cui non è
vietato l’uso della forza: se lo Stato è autorizzato dal CdS, se agisce in legittima difesa e se
l’uso della forza avviene con il consenso dello Stato territoriale.
Nel 2017 anche lo UK ha espresso la sua posizione, in un discorso dell’Attorney General J. Wright,
secondo il quale l’uso difensivo della forza (anche contro attori non statali) è ammesso solo in caso
di attacco imminente. A sua detta la verifica dell’imminenza dell’attacco fa parte della valutazione
sulla necessità di ricorso alla forza.

Per ricorrere alla legittima difesa è necessario che sia in atto un attacco armato, ma non è chiaro
di che tipo. Nella sentenza sulle Attività militari in Nicaragua, la CIG ha distinto tra forme di
attacchi più gravi e meno gravi: alcuni attacchi minoris generis (seppur vietati dall’art. 4
sull’uso della forza) non giustificano la legittima difesa, gli attacchi devono avere una certa “scala
ed effetti”. La legittima difesa è ammessa in risposta “all’aggressione armata indiretta”, ovvero
l’attacco di uno Stato con gruppi armati che non fanno parte delle sue forze regolari. Inoltre, atti
che presi singolarmente non giustificherebbero la legittima difesa, se attuati in serie possono
giustificarla (dottrina dell’accumulazione degli eventi).

Dopo gli attacchi dell’11 settembre e con l’ISIS si è posto il problema della legittima difesa contro
attori non statali, ovvero attacchi armati di privati provenienti da uno Stato straniero che però non
ha legami con l’attacco. L’uso della forza extra-territoriale contro attori non statali ha scarso
supporto nella prassi.

L’art. 51 contempla anche la legittima difesa collettiva, che quindi non deve essere
necessariamente prevista da trattati ad hoc, anche se ne esistono sia di bilaterali che di multilaterali
che la prevedono. La NATO ultimamente tende ad effettuare operazioni militari non previste dal
Trattato né autorizzate dal CdS. Si tratta di operazioni multilaterali in ambito NATO, ma unilaterali
in rapporto all’ONU e alla comunità internazionale.

La reazione armata a titolo di legittima difesa deve svolgersi rispettando tre criteri non previsti
dall’art. 51 ma dal DI generale:
- Necessità: è ammessa solo se non esistono altre vie pacifiche per risolvere l’attacco
- Proporzionalità: è ammessa solo la forza necessaria a respingere l’attacco e
ripristinare lo status quo ante
- Immediatezza: la forza può essere impiegata solo mentre l’attacco è in corso o
comunque in tempi ragionevoli
L’art. 51 prevede però l’obbligo per gli Stati membri di informare il CdS delle azioni di legittima
difesa intraprese. Inoltre, gli Stati devono interrompere l’uso della forza in caso di intervento
del CdS. In caso di legittima difesa collettiva, gli Stati diversi da quello attaccato devono
aspettare il consenso dello Stato attaccato per agire, non possono farlo unilateralmente.

ALTRE FORME UNILATERALI DI INTERVENTO MILITARE


Non esiste oggi un diritto di intervento armato di carattere generale. Oltre alla legittima difesa,
si discute di altre forme di ecoccezioni (con atti unilaterali) al divieto dell’uso della forza:
 Rappresaglie armate in tempo di pace: si tratta di reazioni armate ad attacchi diversi
dall’attacco armato. Hanno carattere punitivo e non difensivo. La Carta ONU non le
ammette né le vieta, ma nella prassi gli Stati le ritengono illecite.
 Interventi a protezione dei cittadini all’estero: l’uso della forza in difesa non di propri
militari in uno Stato straniero, ma di propri cittadini, quando lo Stato territoriale non può o
non vuole proteggerli, è controverso. Nella prassi ci sono stati casi, ma in varie occasioni
la maggioranza degli stati l’ha condannato fermamente.
 Interventi umanitari: l’intervento di Stati terzi per proteggere in territorio straniero i
cittadini di uno Stato che perpetri gravi violazioni dei DU, era vietato prima della Carta
ONU e durante la guerra fredda, ma oggi esistono segnali in senso contrario nella prassi. Ad
esempio, l’intervento di alcuni Stati nella guerra del Kosovo è stato giustificato come
intervento umanitario, così come è stato fatto dalla Russia per il conflitto in Georgia nel
2008 e per l’annessione della Crimea. Alcuni Stati (in particolare Cina, India e la stessa
Russia per il Kosovo) si sono opposti alla pratica in tutti e tre i casi. Nel 2013 gli Stati
occidentali si sono rifiutati di intervenire in Siria contro l’uso di armi chimiche sui civili
senza il consenso del CdS. Al momento comunque non sembra che il DI preveda questa
ipotesi come eccezione al divieto dell’uso della forza.
Esistono diverse teorie a sostegno dell’intervento umanitario:
1. Data la natura erga omnes delle norme a protezione dei DU, tutti gli Stati sarebbero
autorizzati ad intervenire per proteggerli. Obiezione: un obbligo può essere erga omnes
senza dover ammettere la reazione armata.
2. La Carta vieta l’uso della forza, ma promuove anche la difesa dei DU, quindi ciò
giustificherebbe l’uso della forza per farlo. Obiezione: la Carta vieta l’uso della forza e
non prevede l’intervento umanitario tra le eccezioni. È vero che i DU sono norme
cogenti, ma lo è anche il divieto di uso della forza, che spesso causa più vittime di
quante ne intenda salvare.
3. L’intervento umanitario è giustificato in caso di “stato di necessità”, cioè catastrofe
umanitaria. Obiezione: se può essere invocato ed è ammesso solo in casi estremi,
significa che nel resto dei casi è illecito.
4. La sicurezza umana prevarrebbe sulla sovranità dello Stato. Obiezione: l’idea della
sicurezza umana non implica di per sé la possibilità dell’intervento armato, potendo
essere invocata anche contro di esso.
Tutte queste teorie partono dalla conclusione desiderabile e cercano argomenti che la
giustifichino ad ogni costo. Per questo non risultano convincenti, ma possono essere
sicuramente utili ai fini di promuovere un diritto futuro più giusto ed auspicabile.
Ha un qualche riscontro pratico la “dottrina della responsabilità di proteggere”, secondo la
quale la comunità internazionale avrebbe la responsabilità di prevenire, reagire e
ricostruire quando in uno Stato si verificano gravi violazioni dei DU. La responsabilità di
reagire comprende il diritto di intervenire militarmente (a certe condizioni, su autorizzazione
del CdS) se lo Stato in questione non può o non vuole proteggere la popolazione. Nel tempo il
dovere di ricostruzione è stato lasciato in secondo piano rispetto agli altri due. Il Segretario
generale ONU ha circoscritto la dottrina solo alle ipotesi di genocidio, crimini di guerra, pulizia
etnica e crimini contro l’umanità. Gli Stati in astratto si sono dimostrati favorevoli alla
dottrina, ma nella prassi restii ad applicarla, soprattutto nel senso dell’intervento miliare.
Comunque dalla dottrina non si possono ricavare diritti ed obblighi vigenti: rappresenta una
tendenza ma non trova corrispondenza nel DI vigente se non ad abundantiam.

 Interventi contro il terrorismo internazionale: l’intervento militare in stati stranieri


per catturare il terrorismo era fermamente condannato nella prassi anteriore alla guerra
fredda. Negli anni 2000, in particolare dopo l’11 settembre, questa posizione è parzialmente
mutata. Attualmente, il problema riguarda soprattutto gli interventi militari contro l’ISIS
in Siria (in cui vi sono anche interventi contro le violazioni dei DU del regime di Assad),
Iraq e Libia. Questi interventi sono stati giustificati a vario titolo:
 consenso dello stato territoriale
 legittima difesa collettiva
 autorizzazione del CdS
 intervento umanitario sulla base dell’incapacità o non volontà dello stato di
proteggere i civili
 reazione alla violazione di obblighi erga omnes
 legittima difesa contro attori non statali
 esistenza di un conflitto armato contro l’ISIS
Nessuna di queste giustificazioni è accettabile e tutte sono state contestate nella prassi.
La risoluzione del CdS che “calls upon” gli Stati a prendere tutte le misure necessarie per prevenire
e sopprimere atti terroristici non autorizza né impone l’uso della forza, ma soltanto lo raccomanda,
essendo questo già lecito nel DI.

 Interventi per la democrazia: alcuni Stati (vedi USA) hanno in tempi recenti attuato
interventi militari con la scusa di voler stabilire o ristabilire la democrazia nello stato
dell’intervento. Gli altri Stati hanno sempre contestato la motivazione, che non è quindi
avallata dal DI.

L’USO DELLA FORZA NEL DIRITTO ITALIANO


L’uso della forza armato viene frequentemente disciplinato nelle Costituzioni nazionali, anche
in quella italiana.
 Art. 10: l’art. 10 comma 1 Cost. immette nell’ordinamento italiano con rango
costituzionale o super-costituzionale, le norme generali di DI che vietano l’uso della forza
armata e ammettono come unica eccezione la legittima difesa successiva, individuale o
collettiva, e l’intervento armato su autorizzazione del CdS. Quindi qualsiasi atto implicante
l’uso della forza non previsto dal DI è in contrasto con l’art. 10.
 Art. 11 (l’Italia ripudia la guerra): questo articolo vieta la guerra di aggressione ma è
communis opinio che ammetta implicitamente la legittima difesa, quindi ogni altro uso
della forza armata va valutato alla luce del’art. 10. Inoltre, questo articolo sottolinea
l’impegno dell’Italia a favorire la pace e la giustizia internazionali attraverso le OI,
lasciando supporre che interventi militari a favore di pace e giustizia, purché
internazionalmente leciti, siano legittimi. L’art. 11 va letto nel suo complesso, senza dare
preminenza all’una o all’altra delle tre frasi che lo costituiscono per patrocinare il pacifismo
assoluto (1a frase) o interventi militari di dubbia legittimità (2a e 3a frase).
 Artt. 87 e 78: secondo questi articoli è necessaria la delibera del parlamento per la
dichiarazione dello stato di guerra da parte del Capo dello Stato e per l’applicazione
del diritto italiano valevole in tempo di guerra. Negli ultimi anni non è stata mai richiesta
una delibera del Parlamento per missioni militari all’estero, il suo controllo è stato limitato a
risoluzioni di approvazione delle Camere, talvolta addirittura ex post.
 Art. 117: secondo questo articolo i trattati di DI e ogni altro impegno pattizio in relazione
a missioni militari all’estero hanno rango di norme interposte tra legge ordinaria e
costituzione.
SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVA DELLE NAZIONI UNITE
I capitoli VI, VII e VIII della Carta ONU formano il cosiddetto “sistema di sicurezza collettiva”.
Cap. VI: L’ONU ha una funzione conciliativa e diplomatica nelle controversie internazionali
Cap. VII (art.. 39-51) è vietata la minaccia e l’uso della forza, eccetto in legittima difesa. Il
Consiglio può adottare misure coercitive sia pacifiche che militari nel caso di minaccia o
violazione alla pace o di aggressione.

Cap. VIII (52-54): Disciplina l’intervento militare delle organizzazioni regionali sotto la
direzione del CdS
L’idea di fondo è di sottrarre il ricorso alla forza militare agli Stati e accentrarla al CdS, che
agisce in loro nome. Il suo impiego nei confronti di uno Stato trasgressore è equiparabile ad
un’azione di polizia legittimata dalla comunità internazionale. Le norme della Carta inoltre
definiscono norme procedurali che il CdS deve seguire.
Alcune competenze minori (non comprendenti misure coercitive o decisioni vincolanti) sono
esercitate dall’AG e dal Segretario Generale.
L’art. 39 (Cap. VII) stabilisce che il CdS deve constatare una:
 minaccia alla pace - più difficile da circoscrivere delle altre. Solitamente sono situazioni di
carattere interno agli Stati (es. apartheid, genocidio, guerra civile, anarchia con violazioni di
DU, ecc.)
 violazione della pace
 atto di aggressione

Misure che può adottare


Art. 39 - Il CdS può fare raccomandazioni al fine di facilitare una soluzione amichevole.
Art. 40 - Il CdS può adottare misure provvisorie e di urgenza per prevenire l’aggravarsi della
situazione (es. cessate-il-fuoco, ritiro di truppe, ecc.), che sono inviti e non hanno efficacia
vincolante.
Art. 41 - Il CdS può adottare atti vincolanti non implicanti l’uso della forza.
Art. 42 - Nel disegno originario il CdS doveva disporre di contingenti messi a disposizione dagli
Stati membri, avendo così una competenza di polizia internazionale. Poiché gli accordi non si sono
mai conclusi, il CdS ha finito per costituire esclusivamente missioni di peace-keeping e state-
building o ad autorizzare gli Stati ad intraprendere operazioni coercitive.

OPERAZIONI DELLE NAZIONI DI PEACE-KEEPING, AMMINISTRAZIONE DI TERRITORI E


STATE-BUILDING
La prassi del peace-keeping si è molto estesa nel periodo successivo alla guerra fredda. Esistono
quattro generazioni di missioni di “peace-keeping”.
Prima generazione (pre-1989, periodo di guerra fredda dura) - Il CdS si interpone tra le parti in
conflitto. Tra parentesi indicherò perché non corrispondono al piano originario della Carta.
Caratteristiche:
 necessità del consenso dello Stato territoriale (dunque non sono coercitive)
 neutralità da mantenere tra le parti in conflitto
 l’uso della forza è limitato alla legittima difesa (e dunque non sono operazioni CONTRO
lo Stato sul quale le missioni operano)
 i militari sono reperiti tramite accordi con gli Stati membri (dunque non sono
contingenti permanenti).
Peacekeeping post-1989:
è diventata una sorta di amministrazione territoriale in Stati deboli o failed, soprattutto nella
transizione verso un ordine democratico.
Seconda generazione: missioni estese alla sfera “civile”, come il rimpatrio dei rifugiati,
l’assistenza umanitaria, controllo sul rispetto dei DU, ecc.
Terza generazione: peace-enforcement (imposizione della pace), cade il principio
dell’imparzialità e del consenso dello Stato di dislocamento.
Quarta generazione: Solo teorica, se mai in futuro si creerà un esercito permanente ONU
Le operazioni di peace-keeping sono controllate dal Consiglio e dal Segretario generale: i due
organi nominano un rappresentante speciale operativo sul campo e un Comandante supremo.
Ma il peace-keeping è legittimo? Dato che la prassi non è riconducibile a quanto dice la Carta,
vi sono numerose opinioni in dottrina. Secondo alcuni si tratta di una norma consuetudinaria a metà
tra il Cap. VII e VI, altri chiamano in causa parti di questi capitoli e altri articoli della Carta.
Secondo Foca si tratta di una norma consuetudinaria particolare nell’ambito del cap. VII che
integra la carta.
Oltre al peace-keeping il CdS si è occupato di vero e proprio State-building, svolgendo funzioni di
governo in territori rivendicati da più stati o in crisi di effettività.
Le missioni UNMIK (UN Interim administration mission in Kosovo) e UNTAET (Timor est)
sono le prime in cui l’ONU ha assunto l’amministrazione diretta dei territori in questione,
esercitando tutti i poteri. L’UNMIK è ancora in funzione con un mandato riconfigurato dopo la
proclamazione d’indipendenza del Kosovo, l’UNTAET si è conclusa nel 2002 dopo l’indipendenza
di Timor Est.
È stata inoltre istituita nel 2005 la Peace Building Commission, mezzo sussidiario dell’AG e del
CdS, che deve provvedere all’attuazione di iniziative di State-Building in paesi usciti da un
conflitto su loro richiesta
Come per il peace-keeping esiste il problema del fondamento normativo delle amministrazioni
territoriali. La Dottrina si è divisa, dando diverse spiegazioni; Foca ritiene si tratti di una
consuetudine particolare che amplia la portata della consuetudine sul peace-keeping. La
norma incontra i limiti incontrati dalle misure implicanti o meno l’uso della forza, come il rispetto
del diritto umanitario e il principio di auto-determinazione dei popoli.
Un’altro grande problema è: chi è responsabile delle violazioni di DI, in particolare DU e Diritto
umanitario?
La Corte Europea dei diritti umani (2007 - Behrami e Saramati) ha incolpato esclusivamente
l’ONU per azioni ed omissioni di forze di stanza autorizzate dal CdS, seguendo una giurisprudenza
criticabile perché imputa esclusivamente all’Organizzazione responsabilità per atti compiuti
autonomamente da forze militari nazionali. La Corte però ha cambiato orientamento nel 2011
(Al jedda), ammettendo che la responsabilità si estende anche agli Stati che operano su
autorizzazione del CdS.
Nel 2010 è scoppiata ad Haiti un’epidemia di colera che ha infettato 800.000 persone e ne ha
uccise più di 9000, la cui responsabilità è stata attribuita ai peace-keepers ONU di nazionalità
nepalese ivi impiegati. Lo stesso segretario Ban Ki Moon si è scusato e ha espresso rammarico,
affermando la responsabilità dell’ONU a risolvere la situazione. L’immunità del Segretario generale
e dell’ONU sono state riconosciute dagli USA di fronte a una class action di migliaia di cittadini
haitiani.
Il caso dimostra che, benché le OI siano indubbiamente efficaci, mancando di poteri autonomi e di
un demos che le supporti e legittimi possono essere usate strumentalmente da Stati. Gli attori non-
statali dovrebbero esercitare una pressione tale da spingere gli Stati a orientarle in direzione più
rispettosa della “rule of law”.
Per quanto riguarda la responsabilità dei singoli peace-keepers e State-builders, esiste la
tendenza assolutamente ingiustificata ad evitare la celebrazione dei processi.
Pippone scritto in piccolo che riassumerò in poche parole: ci sono scandali sessuali commessi da
peace-keepers. L’ONU vuole che gli Stati che li mandano facciano controlli per prevenire e
reprimere e se non lo fanno il CdS può ritirare un intero contingente. In dottrina si è proposta la
pratica del “naming and shaming” dei militari che hanno commesso atti sessuali.

OPERAZIONI COERCITIVE DEGLI STATI AUTORIZZATE DAL CDS


In mancanza di un esercito proprio, il CdS può solo autorizzare i singoli Stati ad usare la forza
armata e dal 1991 (quindi dopo il periodo di veti incrociati della Guerra Fredda) è successo molto
più spesso, in situazioni che non riguardavano un attacco armato ma altre situazioni (es. crisi di
effettività o democraticità, per assistere amministrazioni transitorie ONU, per garantire attuazione
accordi di pace, per reprimere la pirateria, ecc.)
Inoltre è anche stata accordata non solo la forza militare, ma la coercizione a fini di polizia (nel
senso di mantenimento dell’ordine) interno.
L’inchiesta britannica sulla liceità dell’intervento britannico in Iraq nel 2003 ha concluso che la
base giuridica era tutt’altro che soddisfacente, in quanto non c’era consenso all’interno del CdS.
Come per il peace-keeping e per lo state-building manca una norma che faccia da fondamento
normativo. Anche qui la dottrina è molto divisa, ma perlopiù favorevole alla legittimità. Secondo
Foca anche qui si è formata una norma consuetudinaria interna al sistema ai sensi della quale il
CdS ha sempre agito. La generalità degli Stati ha accolto l’idea che in mancanza di un esercito del
CdS nulla si oppone che perlomeno agisca seguendo uno prassi che istituzionalizza ad un livello
più basso l’intervento militare degli Stati. Infatti gli stessi Stati ribadiscono che gli interventi
militari sono leciti solo se autorizzati dal CdS. Ci sono anche stati significativi interventi militari
non autorizzati, i quali hanno però sollevato obiezioni (es. Iraq) oppure sono stati ritenuti leciti su
altre basi, come legittima difesa (Afghanistan).
È diffusa l’opinione che le autorizzazioni sarebbero soggette a quattro limiti:
 Dovrebbero essere date ex ante (prima dell’intervento)
 Dovrebbero essere esplicite
 Dovrebbero stabilire la durata dell’intervento o quanto meno il suo obiettivo
 Dovrebbero essere controllate dal CdS
Tali limiti derivano dall’esigenza di evitare che il CdS (in particolare i membri permanenti) abbia
un potere di “sanatoria” di illeciti internazionali (es. dando un’autorizzazione ex post ad un
intervento illecito rendendolo lecito).
Gli Stati membri che intervengono con la forza devono comunque rispettare tutte le norme di DI
generale, in particolare del diritto umanitario.
Le autorizzazioni non sono né decisioni vincolanti né raccomandazioni.
Nel 2015 il CdS ha approvato due risoluzioni sul traffico di migranti nel Mediterraneo, in cui ha
autorizzato gli Stati membri impegnati nella lotta al traffico di migranti al sequestro delle navi
sospettate di violazioni e alle misure commisurate alle specifiche circostanze, tra cui anche quelle
armate. La Libia ha votato a favore, dichiarando di non riuscire a controllare il proprio territorio.

LE MISSIONI DI SICUREZZA COLLETTIVA ALL’ESTERO NEL DIRITTO ITALIANO


Ci si è posto il problema se l’Italia, nel partecipare a missioni militari all’estero (e solitamente lo fa
sotto l’egida ONU, appunto), debba passare per la deliberazione dello stato di guerra del parlamento
(art. 78 Cost.) che rende possibile la dichiarazione dello stato di guerra da parte del Presidente della
Repubblica (art. 87 comma 9 cost.).
Chi dice di sì ritiene che, anche se si tratta di missioni di pace, di fatto tale uso della forza non si
può che definire guerra.
Chi dice di no ritiene che, benché tali missioni comportino operazioni belliche, non sono definibili
“guerra” in senso classico (si svolgono all’estero e non hanno come obiettivo l’annientamento del
nemico) perché mirano a creare condizioni di convivenza pacifica. Inoltre la deliberazione del
parlamento potrebbe ritardare eccessivamente gli interventi di emergenza.
Nel 2016 l’Italia ha approvato una legge (l. 145) che regola la partecipazione alle “missioni
internazionali”, che opera nei casi al di fuori dell.art 78 Cost. e dell’art. 87 comma 9 cost.,
stabilisce:
 le categorie di persone interessate (quali forze armate e di polizia vanno a combattere)
 le missioni regolate (dell’ONU, di altre OI, ecc.)
 condizioni di ammissibilità (rispetto dell’art. 11 Cost. (Italia ripudia la guerra), DI, DU, DI
Umanitario, Diritto penale internazionale)
L’iter da seguire è il seguente:
Il consiglio dei ministri delibera la partecipazione, previa comunicazione al Capo di Stato -> il
Governo indica le informazioni operative della missione (area geografica, unità inviate, ecc.) ->
le Camere autorizzano o negano e possono sottoporre condizioni. Ogni anno le Camere devono
pronunciarsi sulla proroga della missione e il Governo deve presentare una relazione sulle missioni
in corso.
Ci si è anche posto il problema se in queste missioni si deve applicare il codice penale militare di
pace o di guerra. Secondo la legge 145 del 2016 di cui sopra si applica quello di pace, a meno che il
Governo non decida di deliberare l’applicazione del codice di guerra.

DISARMO E NON PROLIFERAZIONE DELLE ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA


La sicurezza globale è garantita non soltanto dalla capacità di reagire ex post ad illeciti e minacce
al sistema, ma anche di prevenire ex ante entrambi. in questo senso vanno le norme sul disarmo e
non proliferazione di armi di DDM.
La differenza con il Dir. Umanitario nel divieto di certe armi è che in questo caso si vuole
prevenire il conflitto.
Vanno distinte le norme sul disarmo (no produzione o vendita per qualunque Stato destinatario) da
quelle di non proliferazione (no al possesso solo per alcuni destinatari).

DISARMO
Le probabilità di dover ricorrere alla guerra si possono ridurre tramite l’imposizione di obblighi
internazionali di disarmo (riduzione della produzione e vendita) e distruzione di armi pre-
esistenti.
Non esiste un vero e proprio obbligo di disarmo nella Carta ONU, benché l’AG abbia il potere di
adottare raccomandazioni in materia e il CdS possa formulare piani per la disciplina degli
armamenti. La principale sede di negoziazioni è la “Conferenza del disarmo” (indipendente
dall’ONU); è anche importante il Foro di Cooperazione per la Sicurezza, all’interno dell’OSCE.
Il disarmo non è un obbligo previsto dal DI consuetudinario ma solamente pattizio.
Non si occupa di disarmo né di non profilerazione, ma ha comunque il fine di ridurre le armi il
trattato sul commercio di armi (Arms Trade treaty) del 2013 adottato dall’AG ONU sotto la spinta
di numerose ONG. Il suo scopo è “prevenire ed eliminare il commercio illecito di armi
convenzionali e di prevenire la loro diversione verso il mercato illecito”.

NON PROLIFERAZIONE DELLE ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA


Le armi di distruzioni di massa (armi nucleari, batteriologiche e chimiche) sono regolate da
trattati multilaterali e da risoluzioni del CdS delle Nazioni Unite, che hanno imposto un regime
di non proliferazione, di smantellamento (Siria) o sanzioni (Corea del Nord, Iran).
Il problema riguarda il loro rispetto e i meccanismi di controllo.

TRATTATO DI NON PROLIFERAZIONE DELLE ARMI NUCLEARI DEL 1968


Ne sono parte 191 Stati. Non fanno parte tre stati nucleari (India, Pakistan, Corea del Nord) e un
presunto stato nucleare (Israele).
Ci sono tre pilastri:
 Non proliferazione: Gli “stati nucleari” sono i 5 membri permanenti del CdS. Sono
impegnati a non trasferire le loro armi nucleari in altri Stati né sostenere altri Stati nella
loro produzione. Gli “stati non-nucleari”, a loro volta sono impegnati a non riceverle e a
non essere assistiti nella produzione e hanno accettato le misure di salvaguardia
dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica dirette a verificare che usino l’energia
nucleare pacificamente.
 Disarmo. Le parti, nucleari e non, devono intrattenere negoziati sulle misure per cessare la
corsa al nucleare e per il disarmo, attraverso un trattato sul disarmo generale. Lo status
privilegiato degli Stati nucleari è loro concesso a condizione che progressivamente
disarmino. Sta di fatto che non si è mai giunti ad un trattato di disarmo generale:
chiaramente gli Stati nucleari temono che il disarmo avvantaggi altri Stati che, in violazione
al trattato, si armerebbero.
 Uso pacifico dell’energia nucleare. Gli Stati hanno il diritto di usare il nucleare per scopi
pacifici; possono arricchire l’uranio e acquistarlo sui mercati internazionali, ma è difficile
distinguere i procedimenti di arricchimento dell’uranio pacifici da quelli militari.
Tranne qualche eccezione, come la Corea del Nord e forse l’Iran, il trattato è stato rispettato dagli
Stati, anche alla luce del principio discriminatorio secondo cui 5 Stati possono possedere armi
nucleari.
Si ritiene che l’uso delle armi biologiche e chimiche sia vietato dal diritto consuetudinario. È
più difficile stabilire se il divieto costituisce un crimine internazionale che comporta la
responsabilità penale del reo. Lo Statuto della Corte Penale Internazionale prevede come crimine di
guerra l’uso di “veleno, gas asfissianti e ogni analogo liquido, materiale o meccanismo”. Una parte
della dottrina ritiene che le armi biologiche e chimiche rientrino in questa categoria. Ma anche se si
dà questa interpretazione, non vuol dire che si tratti di crimini di guerra anche dinanzi ad altri
giudici naz. o internaz., anche se la tendenza è quella di dare responsabilità personale a chi usa
tali armi.

La materia delle armi di DDM è disciplinata anche dalla risoluzione n.1540 (2004) del CdS relativa
alla non proliferazione di armi nucleari, chimiche o biologiche, attraverso misure di controllo
interno. Essa è imposta anche agli Stati che non hanno ratificato trattati sulla materia. È stato
istituito il Comitato 1540, competente a monitorarne l’attuazione.

Il CdS ha adottato numerose sanzioni contro L’Iran e la Corea del Nord, ritenendo che le attività
di sviluppo di armi nucleari costituiscano una minaccia alla pace ai sensi dell. art. 39.
Tali Stati hanno violato più volte il regime sanzionatorio. Inoltre nel 2013 il CdS ha condannato
l’uso di armi chimiche in Siria e le ha imposto di non usarle, produrle, acquisirle, immagazzinarle
o trasferirle in altri Stati.

REGOLAMENTO INTERNAZIONALE DELLE CONTROVERSIE


(CAPITOLO IX)
GIURISDIZIONE INTERNAZIONALE
GIURISDIZIONE NELLE CONTROVERSIE INTERSTATALI
Quando sorge una controversia internazionale, oltre all’autotutela si può raggiungere una
soluzione concordata (e pacifica). Possono essere meccanismi giurisdizionali (arbitri, giudici
internazionali) o diplomatici.
Ci sono alcune importanti differenze con la giurisdizione statale:

 Non esistono giudici o arbitri internazionali per ogni tipo di controversia e se ci sono
spesso sono incompetenti ratione materiae
 Anche se ce ne sono, potrebbero non pronunciarsi per mancanza di consenso tra le
parti
 I vari tribunali non hanno un'organizzazione integrata o gerarchica e non c'è una
divisione di competenze fissata da norme comuni
 Non sempre si possono impugnare le sentenze internazionali, benché questa sia la
tendenza
 I giudici internazionali solitamente sono scelti politicamente e non in base alle loro
competenze (nel 90% dei casi in cui lo Stato della loro nazionalità è coinvolto, votano a suo
favore);
Non hanno legittimazione politica, né capacità esecutiva.
Ci sono due orientamenti riguardo l'accertamento e la creazione giudiziaria internazionale:
- Judicial activism: chi sostiene che i giudici creino le norme con la loro interpretazione
- Self-restraint: Chi vede nella funzione giudiziaria la funzione di accertamento di norme vigenti
I giudici propendono per la seconda ma a volte hanno possono scegliere l'interpretazione di una
norma che più si confà a quelle che ritengono le esigenze di giustizia.

GIURISDIZIONE E ARBITRATO INTERNAZIONALE


Sia l'arbitrato che la giurisdizione internazionale si svolgono sulla base del consenso delle
parti contendenti. Dunque si comprende come la giurisdizione internazionale abbia un ruolo meno
incisivo che quella statale. Negli ultimi anni però gli Stati sono piuttosto propensi a sottoporsi a
tribunali arbitrali e giurisdizioni internazionali.
Si ha giurisdizione quando il collegio giudicante è precostituito, "arbitrato" quando viene
costituito appositamente. Entrambi però hanno carattere arbitrale in quanto il consenso delle parti
è sempre necessario.
Una controversia internazionale è: "Un disaccordo su un punto di diritto o di fatto, un contrasto,
un'opposizione di tesi giuridiche o di interessi tra due soggetti" (caso Mavrommatis 1924).
Entrambe le parti devono essere chiaramente a conoscenza che il contendente abbia una
posizione opposta.
Talvolta gli Stati negano che una controversia sia "giuridica" o "giustiziabile", ritenendo che ha
valore politico, dunque non potrebbe risolversi che per negoziato o per sentenza dispositiva.
Benché il requisito della "giuridicità" sia spesso richiesto, sono i giudici che si pronunciano sulla
"giuridicità" di una controversia.
Ci sono diverse modalità di risoluzione delle controversie arbitrali, storicamente sono diventate
sempre più istituzionalizzate, come corti internazionali stabili. Gli Stati possono comunque
ricorrere alla forma più rudimentale, quella di creare un arbitrato ad hoc. La differenza è che nel
secondo caso gli Stati hanno maggior controllo sui membri del collegio, sulle norme procedurali,
sul diritto da applicare, ecc.
Metodi di attivazione di un arbitrato:

 Compromesso arbitrale: si crea un collegio arbitrale ad hoc, si stabiliscono le norme, ecc.


 Clausola compromissoria: all'interno del trattato è previsto il ricorso obbligatorio
all'arbitrato in caso di controversie sull’interpretazione e applicazione del trattato (crearne
uno o sottoporsi ad uno direttamente)
 Trattato generale di arbitrato: prevede l'obbligo di ricorso all'arbitrato per tutte le parti per
TUTTE le controversie che possano sorgere tra gli Stati contraenti
 Dichiarazione di accettazione della giurisdizione: Uno Stato che aderisce allo Statuto
della CIG può dichiarare di accettare la giurisdizione della CIG nei confronti di ogni Stato
che l'abbia firmato (non si può revocarla in seguito, né sapere chi la farà in seguito).
Oltre al consenso di tutte le parti, si deve verificare se lo Stato attore abbia la legittimazione ad
agire in giudizio (jus standi). Per esempio, se ad attivare il giudizio è un attore non statale (come
un ONG che invoca una violazione di DU, benché non sia lei vittima della violazione) o uno stato
terzo non coinvolto nella controversia, il giudice può non ammettere il ricorso. Si è discusso sulla
possibilità di ampliare la legittimazione ad agire a terzi per obblighi erga omnes. Innanzitutto anche
se così fosse, comunque servirebbe il consenso di tutti i contendenti. Per quanto riguarda la
possibilità di ricorso di Stati terzi e attori non-statali, non si può escludere che i giudici possano
pronunciarsi (actio popularis), soprattutto nell'ambito di trattati sui DU. La legittimazione ad
agire in giudizio di terzi è diversa dall' "intervento" degli Stati terzi in una controversia e dalla
partecipazione come "amici curiae", specialmente di attori non-statali.
Emanata la sentenza, si pone il problema dell'esecuzione coattiva qualora lo Stato condannato non
voglia o non possa conformarvisi. Di norma i giudici internazionali non dispongono di
meccanismi coercitivi. I giudici che operano nelle OI possono avvalersi di organi con poteri
esecutivi (es. CdS per la CIG, Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa per Corte Eur. dei DU),
di norma non molto efficaci. Di solito però gli Stati rispettano le sentenze internazionali (che
comunque, dando il consenso, accettano).
Un altro problema è la diretta efficacia negli ordinamenti interni, come quelle della CIG.

RUOLO DELLA GIURISDIZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEL SISTEMA E C.D.


"FRAMMENTAZIONE ISTITUZIONALE" DEL DI
Durante la guerra fredda il ricorso agli arbitrati e alla giurisdizione era molto limitato,
soprattutto per la riluttanza degli Stati socialisti. Dopo la guerra fredda è emerso il problema
opposto, della c.d. "frammentazione" della giurisprudenza internazionale, che può comportare una
"frammentazione istituzionale".
Esiste un dibattito sull'unità e sulla coerenza del DI come sistema normativo credibile ed efficace.
Organi diversi possono dare interpretazioni divergenti o conflittuali di una stessa norma, oppure
possono pronunciarsi in base al loro sub-sistema normativo con ripercussioni inevitabili su altri sub-
sistemi normativi, oppure emanare decisioni contradditorie sul medesimo caso.
In mancanza di un'autorità universale superiore la frammentazione è inevitabile. Ciò che possono
fare i giudici internazionali è uniformare le interpretazioni che danno e se si staccano da una
soluzione passata giustificare il perché. È comune la prassi di tenere conto del DI consuetudinario
nell'interpretare i trattati. Alcuni tribunali inoltre tendono a conformarsi alla CIG e nella
dottrina qualcuno vorrebbe attribuirle una competenza superiore agli altri tribunali, ma questo è
contro la natura anti-egemonica del sistema internazionale.

DIRITTO APPLICABILE E MARGINE DI APPREZZAMENTO GIUDIZIARIO INTERNAZIONALE


A volte non è chiaro quale diritto i giudici debbano applicare. La CIG nell'art. 38 del suo Statuto
menziona le fonti, ma non tutti gli organi giurisdizionali hanno statuti in cui si menziona il
diritto applicabile.
Si possono applicare alcuni principi generali, al di là delle proprie regole statutarie (es. abuso del
diritto, buona fede, ragionevolezza, ecc.)? Secondo Foca questi "principi generali del DI", distinti
dai "principi generali di diritto riconosciuti alle nazioni civili", possono e devono essere considerati
dai giudici internazionali. Lo stesso vale per i principi di carattere procedurale (res judicata, stare
decisis).
Sembra comunque che nonostante l'assenza di norme di coordinamento, il sistema globale tenda
(con eccezioni anche significative) verso l'uniformità e la coerenza. La discrezionalità dei giudici
internazionali si fonda in ultima analisi sulla credibilità, la reputazione e la legittimazione
internazionale che hanno nella percezione degli Stati parti del loro statuto.

CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA


La Corte internazionale di giustizia è il principale organo internazionale di giustizia delle
Nazioni Unite. Storicamente è stata preceduta dalla Corte permanente di arbitrato e dalla Corte
permanente di giustizia internazionale.
È costituita da un corpo permanente di 15 giudici eletti da AG e CdS e funziona in base a norme
inderogabili contenute nel suo Statuto. Svolge sia una funzione contenziosa (emette sentenze
vincolanti), sia consultiva (emette pareri consultivi non vincolanti).
 Funzione contenziosa: nell’esercizio della funzione contenziosa la Corte può essere attivata
con uno qualsiasi dei mezzi già esaminati, ma la sua giurisdizione può anche fondarsi sui
comportamenti di uno stato dai quali sia manifesto il suo consenso a sottoporsi ad essa. Solo gli
Stati possono essere parti nei procedimenti della CIG (no individui e OI), se prestano il loro
consenso. Nella soluzione delle controversie la CIG usa le fonti elencate all’art. 38 Stat..,
oppure si pronuncia ex aequo et bono (se le parti così chiedono). La Corte applica il diritto,
non lo crea.
Le sentenze della CIG sono giuridicamente vincolanti per le parti e valgono solo per la
sentenza decisa (no effetto ultra partes), quindi i giudici internazionali e la stessa CIG non sono
tenuti a rispettare le sue precedenti sentenze. Le sentenze sono adottate a maggioranza dei
giudici presenti, con prevalenza del voto del presidente in caso di parità di voti. Le sentenze
devono essere motivate e sono definitive (no appello), a meno che gli Stati non richiedano
un’interpretazione (in caso di sentenza il cui significato è contestato) o un riesame (se
emergono fatti nuovi e rilevanti).
L’esecuzione della sentenza di una Corte (se uno Stato non vuole conformarvisi) può essere
chiesta al CdS. Occorre distinguere il valore vincolante delle sentenze sul piano internazionale
e sul piano interno. Sul piano interno, spesso i giudici escludono la diretta azionabilità in
quanto le sentenze della Corte vincolano solo gli Stati (essendo parti solo gli Stati) e non
anche gli individui che potrebbero far valere la sentenza nei giudizi interni. Ma diretta
applicabilità e diretta azionabilità sono due cose distinte: nel vincolare lo Stato comunque la
sentenza vincola tutti i suoi organi, compresi i giudici.
La Corte può anche indicare misure provvisorie vincolanti di carattere cautelare quando
esiste il rischio di un danno irreparabile in attesa dell’emanazione della sentenza, su richiesta
delle parti o proprio motu. Se una sentenza cautelare non viene rispettata, la Corte può
stabilire proprio motu le conseguenze e ad esempio constatare nella sentenza di merito
l’inadempimento ed eventualmente addossare i costi del procedimento allo Stato inadempiente.
È controverso se gli Stati possano chiedere al CdS di attuare coercitivamente le misure
provvisorie della CIG.

 Funzione consultiva: i pareri della Corte possono essere richiesti dall’AG, dal CdS, dagli
organi ONU e dagli istituti specializzati, non da Stati e individui. La Corte può riservarsi il
potere di non renderli se ci sono forti ragioni per rifiutare.
I pareri della Corte non sono giuridicamente vincolanti, cioè non è obbligatorio richiederli né
conformarvisi. Hanno però valore come opionio juris ac necessitatis nella formazione di nuove
norme consuetudinarie. I pareri possono eccezionalmente essere vincolanti, se così stabilito da
un accordo concluso tra le parti.
I pareri possono avere ad oggetto “qualsiasi questione giuridica” se chiesti da AG e CdS o
“questioni giuridiche sorte nell’ambito delle rispettive attività” se richieste da ONU o
istituti specializzati.

TRIBUNALE INTERNAZIONALE DEL DIRITTO DEL MARE


Il Tribunale internazionale del diritto del mare è stato istituito sulla base dell’allegato VI alla
Convenzione di Montego Bay del 1982. È composto da 21 giudici nominati a titolo personale tra
le personalità più eminenti nel campo del DI del mare.
Ci sono quattro Camere speciali che si occupano di categorie di controversie diverse.
Il Tribunale è competente a risolvere le controversie in materia di interpretazione della
Convenzione di Montego Bay e ogni altra questione sottoposta alla sua giurisdizione da altri
trattati. Può ordinare misure di carattere cautelare per tutelare i diritti delle parti o impedire gravi
danni all’ambiente marino in pendenza di una decisione finale. Può anche emettere pareri
consultivi.
Il Tribunale è competente ad esaminare i ricorsi presentati dagli Stati parti alla CMB, da altri
enti diversi da Stati come le OI, da persone fisiche e giuridiche.
Può applicare sia le disposizioni della CMB che le norme generali di DI con essa compatibili e può
anche pronunciarsi ex aequo et bono se così richiesto dalle parti. Deve inoltre tener conto delle
“regole e standard internazionali” per la protezione e la prevenzione dell’ambiente marino. Finora si
è pronunciato in 25 casi, tra cui quello della Enrica Lexie, emettendo un’ordinanza (in attesa che
venisse costituito un tribunale arbitrale) che ingiungeva a Italia ed India di sospendere tutti i
procedimenti giudiziari pendenti e astenersi dall’adottarne altri. Il Collegio arbitrale
successivamente costituito ha poi ordinato il rientro del marò italiano rimasto in India (l’altro era
rientrato per motivi di salute) con le appropriate garanzie italiane di rientro in India dei marò in caso
di decisione di merito favorevole alla giustizia indiana.

ORGANO PER LA RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE DELL’ORGANIZZAZIONE MONDIALE


DEL COMMERCIO
Nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio la soluzione delle controversie
internazionali è demandata al DSB (Dispute Settlement Body) composto da tutti gli Stati membri
dell’Organizzazione e in appello all’Appellate Body. E’ un meccanismo di risoluzione delle
controversie attivabile solo da Membri (no privati e multinazionali). Sfocia in un decisioni
vincolanti se, avanzando attraverso varie fasi, non viene raggiunta l’unanimità per fermarlo.
Nel caso della violazione di un obbligo da parte di un Membro, le parti hanno l’obbligo di
consultarsi e comporre la controversia entro 60 giorni. Il procedimento deve concludersi in sei mesi
con la redazione di un rapporto distribuito ai Membri. Il DBS può adottare tale rapporto al massimo
entro 60 giorni. L’esecuzione dei rapporti adottati viene garantita tramite la possibilità del DBS di
autorizzare contromisure contro lo Stato inadempiente.
Il meccanismo del consensus negativo conferisce natura giurisdizionale al DBS, perché la
procedura sfocia in ogni fase in un atto che non è vincolante, ma può essere poi adottato e diventare
vincolante quasi matematicamente, perché lo Stato che viene favorito dal rapporto non voterà mai
contro di esso.
I rapporti del DBS si limitano a chiedere al Membro condannato di conformarsi al trattato violato
senza specificare come, lasciando libertà allo Stato.
GIURISDIZIONE SUI DIRITTI UMANI E PENALE INTERNAZIONALE
Il diritto di ricorso per violazioni di DU contro Stati contraenti (il proprio Stato o Stati terzi) di
trattati sui DU appartiene agli individui, ma anche agli Stati (benché di solito non se ne
avvalgono contro Stati terzi per non inimicarseli).
Dunque gli individui sono indipendenti rispetto al loro Stato, per questo si ritiene che siano soggetti
di DI.
Diversamente dai tribunali penali internazionali in relazione ai crimini internazionali, ad essere
giudicato però è sempre e solo lo Stato, il che può rendere il sistema insoddisfacente.
I crimini internazionali possono essere giudicati da giudici statali, internazionali creati ad hoc
(tribunale di Norimberga e di Tokyo) ed internazionali preesistenti.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI (CHE NON C’ENTRA CON L’UE MA COL CONSIGLIO
D’EUROPA!)
La parte innovativa della Convenzione europea sui DU (1950) era la presenza di due organi che
controllano il rispetto dei DU: La commissione europea dei DU e la Corte europea dei DU.
La prima valutava ricorsi inter-statali (presentati da uno Stato contro un altro) che ricorsi individuali
(da privati contro uno Stato).
Con il Protocollo n.11 del 1994 (in vigore dal 1998) è stata istituita una Corte unica e
permanente che svolge le funzioni di entrambe, nonché quelle del Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa. La Corte attuale è competente ad esaminare ricorsi individuali e statali.
Con individui si intende “ogni persona fisica, ogni ONG o gruppo di privati” vittima di
violazione della Convenzione. Le ONG devono essere esse stesse vittime e non possono ricorrere
facendo valere gli interessi di altri.
I ricorsi devono essere presentati entro 6 mesi dalla sentenza interna definitiva, sia per Stati che per
individui, inoltre ci sono altre condizioni per la loro ricevibilità (pag. 588 Foca)
Ci sono 47 giudici (uno per Stato contraente), eletti per 9 anni e non rieleggibili. Ci sono 4
formazioni di giudizio e una formazione plenaria.

 giudice unico - decide se i ricorsi individuali sono ricevibili o cancellabili dal ruolo
 comitato (3 giudici) - decidono sulla ricevibilità, sulla cancellazione, anche se la questione è
già oggetto di una giurisprudenza consolidata della Corte.
 Camere (7 giudici) - decidono su ricevibilità ricorsi individuali (se non si è pronunciato il
comitato) e su tutti i casi Statali, anche nel merito mediante sentenza impugnabile
 Grande camera (17 giudici) - decide con sentenza definitiva, oltre che in caso di declinatoria di
competenza e di impugnazione delle sentenze delle Camere, sulle questioni di interpretazione.
La corte in assemblea plenaria fa elezioni interne.
Le decisioni di ricevibilità dei Comitati e le sentenze nel merito della Grande camera sono
definitive. Le sentenze delle camere sono impugnabili dinanzi alla Grande Camera. Tutte le
sentenze hanno efficacia vincolante. Il Comitato dei Ministri ne sorveglia l’esecuzione. In
sostanza la “Grande Camera” è una sorta di corte d’appello, se si presenta una questione
interpretativa grave.
Le sentenze hanno effetto di “res judicata” e la domanda non può essere reiterata dinanzi ad altri
giudici. La corte non è vincolata dai suoi precedenti ma li segue per assicurare prevedibilità alle sue
decisioni. Le sentenza non sono costitutive ma dichiarative: gli Stati a loro discrezione scelgono
quali misure adottare per rispettarle.
Solitamente lo stato ingiunge un risarcimento alla vittima; in altri casi lo Stato può essere
condannato ad adottare “misure generali”, quando la violazione è “strutturale” e non “generale” (es.
caso Torreggiani, sovraffollamento delle carceri).
Alla luce di due sentenze della Corte Costituzionale (somogy e Dorigo), ora in Italia si permette la
riapertura di un processo che ha già avuto una sentenza definitiva se la CEDDU ha condannato
l’Italia per violazione del diritto all’equo processo sancito dalla Convenzione Europea.
L’esecuzione delle sentenze della Corte è problematica in Stati come la Russia, dove per la prima
volta nel 2016 una sentenza è stata dichiarata impossibile da applicare, in quanto contraria alla
costituzione russa esercitando un potere stabilito da una legge che essa stessa sembra
incostituzionale, che stabilisce la prevalenza dei trattati sul diritto interno.

La Corte europea ha avviato un dialogo tra Corti interne e internazionali (cross-fertilization), un


fenomeno complesso ma di grandi rilievo. In ogni caso non mancano comunque i casi di divergenza
o di scontro, come il caso Ferrini (Corte cost. vs CIG) e Abu Omar (Corte cost. vs CEDDU.

TRIBUNALI PENALI PER LA EX JUGOSLAVIA E PER IL RUANDA


Dopo la guerra fredda sono stati creati diversi tribunali penali (i loro precursori sono i Tribunali di
Norimberga e di Tokyo) e affiancano i giudici nazionali nella repressione dei crimini internazionali.
Quelli per i crimini commessi da ex Jugoslavia e Ruanda sono importanti. creati dal CdS (1993 e
1994), soprattutto dal 2005 hanno messo in atto specifiche strategie di chiusura dei lavori. Il
secondo ha smesso di funzionare ufficialmente. Le loro funzioni sono prese in carico dal
“Meccanismo Internazionale Residuale per i Tribunali Penali” (2012 e 2013).
Gli imputati hanno subito contestato la loro legittimità. I tribunali hanno ritenuto di potersi
pronunciare sulla propria legittimità e sulla risoluzione del CdS che li ha stabiliti autoqualificandosi
“misure non implicanti l’uso della forza”, anche se atipiche.

CORTE PENALE INTERNAZIONALE


La maggiore novità nella prassi recente è l’istituzione della CPI, corte permanente e non circoscritta
ad un territorio. Si differenzia significativamente dai tribunali ad hoc appena esaminati e supera
l’obiezione alla giustizia penale internazionali come “giustizia dei vincitori”.
È stata creata su un accordo firmato a Roma nel 98 (valido per 124 Stati oggi). Si impone agli Stati
che ne hanno firmato la competenza. L’operatività si estende però anche a cittadini di Stati che non
hanno accettato la competenza della CPI.
è composta da 18 giudici indipendenti (9 esperti in diritto e procedura penale e 5 in DI Um. e DU,
nominati dai Governi). Ci sono diversi organi e Camere.
La Corte più giudicare i “crimini più gravi, motivo di preoccupazione per l’intera comunità
internazionale”, come “crimini contro l’umanità”, “crimini di guerra”, ecc.
La competenza soggettiva è limitata alle persone fisiche superiori ai 18 anni di età, non persone
giuridiche e multinazionali quindi.
La competenza temporale è limitata ai crimini commessi dopo l’entrata in vigore internazionale
dello Statuto o dopo l’entrata in vigore per ogni Stato (a meno che non decida la retroattività).
Esistono diversi principi di diritto penale che la Corte applica e sono indicati nello Statuto
(nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege, imprescrittibilità dei crimini, ecc.)
La sentenza può essere di reclusione fino ai 30 anni oppure l’ergastolo ed eventualmente ammenda
o confisca profitti del crimine. La pena deve essere seguita in uno Stato designato dalla Corte sotto
il controllo della stessa. Ci sono altre regole ma stica duro
Un caso è sottoposto alla Corte se i giudici di Stati non intendano o siano incapaci di svolgere
l’indagine o iniziare il processo. La Corte ha lo scopo di evitare che i presunti criminali
rimangano impuniti se i giudici non possono o non vogliono perseguirli e dunque è
complementare ai giudici Statali.
La Corte può essere attivata (notitia criminis) da uno stato parte, dal CdS o dal Procuratore
della stessa Corte. Lo Statuto ha efficacia soltanto per gli Stati parti ma dà la giurisdizione alla
Corte anche se lo Stato nazionale del presunto criminale è uno Stato terzo o lo Stato territoriale
abbia accettato la giurisdizione della Corte.
Se la notitia criminis arriva dal CdS non è necessaria l’accettazione di nessuno Stato. Ne consegue
che stati del CdS terzi allo Statuto (USA, Cina, Russia) possono attivare la CPI dal di fuori.
A 16 anni dalla sua creazione il suo bilancio non è incoraggiante, avendo aperto indagini solo su 10
situazioni. La Corte soffre di scarsa cooperazione e non ha mezzi efficaci per imporla. è inoltre
osteggiata apertamente dell’Unione Africana, diversi stati della quale hanno receduto.
L’Italia ha adeguato il suo ordinamento interno alla CPI dopo 15 anni di deplorevole inerzia.

TRIBUNALI PENALI IBRIDI


Negli ultimi anni sono stati istituiti alcuni Tribunali penali “ibridi”, in cui sono presenti sia giudici
nazionali dello Stato in cui sono insediati, sia giudici internazionali. Sono tenuti di solito a
giudicare non solo crimini internazionali ma anche altri reati stabiliti dal diritto locale. (es.
Corte speciale per la Sierra Leone, Tribunale speciale Iracheno, Camere specialistiche del Kosovo
ecc.). Sono stati creare per ricostituire o rafforzare la struttura istituzionale di uno Stato o territorio
dopo un conflitto.
Si applica il principio di complementarietà della CPI con i tribunali interni anche ai tribunali ibridi?
Gli imputati hanno immunità funzionale? La situa è problematica. è difficile definire questi
tribunali come “internazionali” per il fatto che non è chiaro di quanti elementi di
internazionalità si debba tener conto, benché ne presentino qualcuno. La risposta deve trovarsi
nelle disposizioni statutarie e dalla prassi di ciascun tribunale.

ARBITRATI SUGLI INVESTIMENTI ESTERI


In materia di investimenti esteri possono sorgere due tipi di controversie:

 tra Stato dell’investitore e Stato dell’investimento


 direttamente tra investitore e Stato dell’investimento
Le controversie del primo tipo sono disciplinate dalle norme del DI classico sulla protezione
diplomatica in caso di violazione di norme sul trattamento degli stranieri (negoziato, mediazione,
conciliazione, arbitrato). I Trattati Bilaterali per gli Investimenti (BITs) di regola prevedono che in
caso di controversia gli Stati debbano cercare un accordo per via diplomatica (consultazioni e
negoziati), quindi ricorrere ad un arbitrato ad hoc su richiesta di una o l’altra parte.
Le controversie del secondo tipo sono specifiche del diritto degli investimenti e vengono di solito
sottoposte ad arbitrato (dopo tentativi di negoziati e mediazione) sulla base di clausole apposite
contenute nei trattati. In particolare i BITs prevedono ormai sistematicamente il diritto
dell’investitore di attivare una procedura arbitrale in caso di controversia con lo Stato di
investimento, che accetta di sottoporsi ad arbitrato e rispettare la sentenza.
RIMEDI DISPONIBILI ALL’INVESTITORE
Se l’investitore ritiene che lo Stato ospitante (dove ha investito) ha violato il contratto di
investimento, può:

 chiedere protezione diplomatica al suo Stato nazionale, ma questo può non avere
interesse a proteggerlo sul piano nazionale
 rivolgersi ai giudici dello Stato ospitante per ottenere giustizia in loco, ma c’è il rischio di
parzialità o di scarsa competenza tecnica nel settore investimenti da parte dei giudici
locali
 rivolgersi ai giudici del proprio stato, che però probabilmente dovranno accordare
l’immunità allo Stato straniero, che difficilmente vi rinuncerà
 attivare direttamente la procedura internazionale di conciliazione o arbitrato
prevista dal contratto di investimento: è la soluzione migliore e più diffusa nei trattati dagli
anni 70, che hanno clausole per cui l’investitore può scegliere la procedura da attivare tra:
ICSID, regime della Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale
internazionale, regime della Camera di Commercio Internazionale o altri. Se è presente la
clausola della “biforcazione della strada”, una volta attivato uno di questi meccanismi
non se ne potranno più attivare altri.

CONCILIAZIONE E ARBITRATO ICSID


Tra i meccanismi di conciliazione vi è il Centro internazionale per la soluzione delle
controversie relative agli investimenti, il ricorso al quale è previsto dalla gran parte dei trattati.
Ha sede a Washington, dove è stato istituito con una Convenzione del 1965, e consta di due organi,
Consiglio di amministrazione e Segretariato. La sua funzione è di fornire alle parti meccanismi e
servizi per la conciliazione e l’arbitrato. Quando le parti chiedono all’ICSID la costituzione di un
collegio arbitrale, questo viene formato da tre membri, due nominati dalle parti e il terzo nominato
dagli altri due. È possibile che un membro decada per imparzialità, in quel caso decidono gli altri
due.
Il tribunale ha giurisdizione sulle

 controversie giuridiche tra uno Stato parte della Convenzione di Washington e le


persone fisiche o giuridiche di un altro Stato contraente. A volte è difficile stabilire lo
Stato nazionale dell’investitore, soprattutto in caso di multinazionali. L’investitore può
anche essere una società nazionale dello Stato ospitante, purché il suo controllo effettivo sia
esercitato da un altro Stato membro della convenzione.
 che derivino direttamente da un investimento. Non è chiara la definizione di
investimento, ma sono stati elaborati diversi criteri di valutazione come il rischio, la durata,
l’apporto allo sviluppo dello Stato ospitante.
 qualora le due parti abbiano accettato la giurisdizione per iscritto.
Aderendo alla Convenzione, gli Stati rinunciano ad altri meccanismi di risoluzione della
controversia, in particolare al diritto alla protezione diplomatica a favore degli investitori.
Prima di esaminare la controversia, il tribunale deve decidere quale diritto applicare. Di solito sono
le parti a scegliere le norme (nazionali o internazionali) da applicare (possono anche scegliere
giudizio ex aequo et bono), se non lo fanno il tribunale applica il diritto dello Stato parte e non può
rifiutare di pronunciarsi a motivo del silenzio o dell’oscurità di quest’ultimo.
La sentenza arbitrale (di solito confidenziale, ma può anche essere resa pubblica) deve rispondere
a tutte le questioni sollevate ed essere motivata. La sentenza stabilisce se una presunta violazione
dello Stato ospitante è conforme o meno al diritto applicabile e se non lo è condanna lo Stato,
obbligandolo anche a pagare le spese processuali. La sentenza è vincolante per le parti e non può
essere annullata dai giudici nazionali.

VALORE DELLA GIURISPRUDENZA ARBITRALE


La giurisprudenza arbitrale è spesso tutt’altro che uniforme, anche perché solitamente gli arbitri
vengono selezionati e nominati di volta in volta da un gruppo ristretto di persone collegate agli Stati
parti ed emettono sentenze sì giuridiche ma anzitutto accettabili dalle parti. Quindi, è bene non
tenerla troppo in considerazione per enuclearne principi generali, perché si rischierebbe di plasmare
un DI troppo favorevole agli Stati più forti.
Comunque, in generale le sentenze arbitrali sono a favore degli investitori e delle
multinazionali anche perché i trattati di norma contengono clausole a favore e protezione degli
investitori e non degli Stati, che nelle controversie attivate dagli individui possono al massimo “non
perdere”. Gli arbitrati internazionali sono molto costosi e solo gli investitori più potenti possono
permettersi di attivare il procedimento.

GIURISDIZIONI INCARNATE IN ORDINAMENTI AUTONOMI


Alcuni giudici operanti in virtù di un trattato internazionale sono così innestati nella struttura
di un’OI da potersi considerare interni ad ordinamenti giuridici autonomi, distinti sia
dall’ordinamento internazionale che dagli ordinamenti statali. Si tratta principalmente dei Tribunali
amministrativi internazionali e di Tribunale e Corte di giustizia dell’Unione Europea
nell’ambito dell’UE.
 Tribunali amministrativi delle Organizzazioni internazionali
Alcune OI come l’ONU e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, hanno istituito dei
“tribunali amministrativi” competenti a giudicare le controversie di lavoro tra OI e dipendenti.
In queste controversie sono parti gli individui e le OI e vengono applicate norme spesso ricavate
da “principi generali di diritto” riconosciuti dalla generalità degli Stati. La natura giuridica di tali
norme è controversa: secondo una parte della dottrina costituiscono un diritto proprio
dell’Organizzazione, secondo un’altra parte, derivando dal trattato istitutivo, sarebbero
internazionali e dunque deporrebbero a favore della soggettività internazionale degli individui.
Grazie ai Tribunali amministrativi, si è affermata la prassi di riconoscere l’immunità
giurisdizionale alle OI quando assicurano al lavoratore una tutela giurisdizionale alternativa
equivalente a quella statale.
 Corte di giustizia, Tribunale e Tribunale della funzione pubblica dell’Unione Europea
 Corte di giustizia. Ha sede a Lussemburgo ed ha competenze più simili a quelle dei giudici
nazionali che dei giudici internazionali:
o competenza arbitrale: controversia tra Stati membri in connessione con l’oggetto dei
trattati
o competenza per inadempimento: ricorso della Commissione o di uno Stato membro
per violazione del diritto dell’UE, implicante in caso di condanna, l’obbligo di porre
fine alla violazione (altrimenti, sanzione pecuniaria)
o competenza di legittimità: ricorso del Consiglio, della Commissione, del Parlamento o
di uno Stato membro su atti degli organi ritenuti viziati da incompetenza, violazioni di
norme e trattati, ecc. La Corte annulla ex tunc (in modo retroattivo) gli atti dichiarati
illegittimi.
o ricorsi in carenza: presentati da membri o istituzioni europee se ritengono che organi
(es. Parlamento, Commissione, BCE) si siano astenuti dal pronunciarsi su questioni
per cui secondo i trattati avrebbero dovuto farlo
o competenza in via pregiudiziale: ricorso dei giudici degli Stati membri riguardo
questioni di interpretazione dei trattati o di validità di interpretazione di atti
dell’Unione
Le sentenze della Corte che condannano ad obblighi pecuniari costituiscono titolo esecutivo
negli Stati membri.

 Tribunale di prima istanza. Dal 1989 affianca la Corte di giustizia, con competenze a
conoscere in prima istanza ricorsi per annullamento di atti delle istituzioni o in carenza.
Secondo il Trattato dovrebbe avere anche competenza pregiudiziale, ma fino ad ora non l’ha
esercitata. Le sue sentenze possono essere impugnate di fronte alla Corte di giustizia. Il
Parlamento e il Consiglio possono istituire tribunali specializzati da affiancare al Tribunale.
 Tribunale della funzione pubblica. Opera nell’ambito della Corte di giustizia per
controversie in materia di lavoro tra Unione Europea e i suoi agenti. Le sue sentenze
possono essere impugnate di fronte al Tribunale di prima istanza.

DIPLOMAZIA
Una controversia può risolversi anche ricorrendo a mezzi che non sfociano in decisioni vincolanti,
che nel DI potrebbe venire rispettate dagli Stati più di quelle vincolanti. è indubbio che le
controversie debbano risolversi con mezzi pacifici (il DI prevede obbligo di risoluzione pacifica
delle controversie), in particolare quelli diplomatici. I mezzi diplomatici più comuni sono:

 negoziati: le parti possono negoziare tra loro un accordo che risolva la controversia. I
negoziati devono svolgersi in buona fede, ovvero con la genuina intenzione di arrivare a un
risultato positivo
 buoni uffici: prevedono l’intervento di un terzo che induca le parti alla negoziazione
 mediazione: prevede l’intervento di un terzo che partecipi attivamente ai negoziati fra
le parti (es. mediazione della Santa Sede nella controversia sul canale di Beagle tra Cile e
Argentina)
 inchiesta: prevede l’intervento di un terzo che ha competenza all’accertamento
vincolante dei fatti affinché poi le parti raggiungano un accordo
 Conciliazione: prevede l’intervento di un terzo competente ad esaminare la
controversia sia in fatto che in diritto e a formulare una proposta non vincolante di
soluzione affinché le parti raggiungano poi un accordo
Si parla di conciliazione obbligatoria quando il ricorso alla conciliazione può essere
attivato unilateralmente da una delle parti e l’altra è automaticamente obbligata a
sottoporsi al procedimento conciliativo. Meccanismi di questo tipo sono previsti dalla
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati e dalla Convenzione di Montego Bay.

RUOLO FONDAMENTALE DELLA DIPLOMAZIA PER LA SALVAGUARDIA DELL’ORDINE


MONDIALE
È fuorviante pensare che l’ordine mondiale sia dovuto solo alla capacità di imporsi del DI. Questo è
una delle componenti dell’ordine mondiale, ma è molto importante anche la diplomazia.
La diplomazia facilita la comunicazione tra Stati, gli altri soggetti e gli attori internazionali.
Agevola la conclusione di accordi internazionale o più in generale aiuta a trovare punti di interesse
condivisi. Serve anche a raccogliere informazioni sugli altri Stati e a indirizzare le proprie
decisioni, che su di loro influiscono.
Infine, una delle funzioni più importanti è quella di minimizzare l’uso della violenza preferendo
la persuasione verbale. Il DI ha bisogno del lavoro diplomatico di ravvicinare i consociati e
metterli in comunicazione. Il DI può funzionare solo se i consociati ESIGONO che funzioni, perché
nessun diritto può assicurare la giustizia se non c’è la collaborazione della collettività. Le norme
non possono punire in sé stesse nessuno, ma possono stabilire quali conseguenze di carattere
coercitivo la collettività vuole che ne derivino per il trasgressore.
Ciò è assai meno di un ordine “sicuro” per tutti, ma è anche assai più del caos in cui il mondo può
precipitare in un attimo.

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