INTRODUZIONE
Il diritto internazionale è il complesso delle norme giuridiche che regolano la convivenza
dell’umanità attraverso l’autorità di governo degli stati -> fa sì che l’umanità non precipiti nel
caos. Non c’è un’autorità superiore.
AUTORITÀ E NORME
Autorità: significa esercitare un potere che i consociati ritengono legittimo e meritevole di
obbedienza politica.
All’interno di uno stato l’autorità si estrinseca nei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
La legittimità può venir meno se una banda di politici usurpa le istituzioni dello stato, si arricchisce
a dismisura, reprime gli oppositori, controlla i media, ecc. La forza non equivale all’autorità.
Nel diritto internazionale non c’è un’autorità superiore universale (nemmeno l’ONU), ma c’è
comunque un ordine assicurato dagli Stati e non una situazione di caos.
Origine del sistema degli stati: esistevano già nel Vicino Oriente nel III millennio a.C., ma gli
stati nazionali europei nascono dopo la caduta dell’Impero Romano e soprattutto nel XV secolo
con la scoperta dell’America. Con la pace di Vestfalia nel 1648 nasce il “sistema di Vesfalia”, un
sistema di equilibrio anti-egemonico. Era imposto dall’alto e dunque maggiormente precario, ma
era libero e modellato continuamente dagli stati.
I confini tra gli Stati diventano più netti, non sono più aree ma linee. I sovrani sono alla pari nel
campo internazionale.
Si arriva alla completa distinzione di due ordini giuridici paralleli e complementari: diritto
interno e diritto internazionale.
I sovrani non hanno più potere sulle sue persone ovunque esse siano ma solo su chi si trova sul loro
territorio. Questo sistema doveva impedire la formazione di un’autorità egemonica totalitaria.
In un sistema fondato su questo tipo di equilibrio, ogni unità è responsabile della persistenza o del
crollo del sistema.
Norme (diritto):
Esistono, ma decentrate. Le tre funzioni dello stato in campo internazionale sono suddivise tra i
vari soggetti.
Funzione legislativa (creazione delle norme internazionali): gli Stati, e non un parlamento,
creano le norme, attraverso:
Consuetudini (primo grado) - Vincolano tutti, non sono scritte
Trattati (secondo grado) - Vincolano i firmatari, sono scritte
Altri meccanismi (terzo grado - es. atti vincolanti) -
Ogni grado è subordinato al grado superiore.
La consuetudine è il pilastro del Diritto Internazionale, mentre nel Diritto Interno è l’eccezione ed
è al fondo della gerarchia delle norme giuridiche. Tutto si fonda sulla norma consuetudinaria pacta
sunt servanda.
GIUSTIZIA E DIRITTO
Nella Carta dell’ONU si parla di Giustizia. Ma che cos’è la giustizia globale? Qual è il rapporto
tra la giustizia e il diritto? Problema che ha risvolti pratici perché chi deve applicare il DI deve
rifarsi a un’idea di giustizia, il che è una questione controversa.
Due concezioni di giustizia: realista e idealista.
Realista: la giustizia è una costruzione sociale, che dipende dalle volontà e dai bisogni
degli uomini. Non sempre tutti vedono un’equivalenza tra diritto e giustizia.
Idealista: c’è un ideale assoluto di giustizia a cui il diritto deve ispirarsi. Crea uno spirito
cooperativo tra gli uomini.
Il diritto è in divenire ed è un mito perché ne facciamo parte. C’è il diritto così come è ora e il
diritto come dovrebbe essere in futuro (giustizia) ed è il risultato della nostra fede e del nostro
impegno.
Senso interiore di giustizia: la somma di ciò che ogni individuo ritiene giusto (senso interiore di
giustizia) forma la giustizia della comunità. Dunque la giustizia esiste anche all’interno della sfera
psicologica di un individuo, come componente emotiva. Il diritto invece afferisce solo alla
collettività. Ma l’atteggiamento e l’impegno di ognuno ha il potenziale di diventare obiettività,
cambiando l’idea di giustizia collettiva e trasformandola in diritto. Senza un senso comune meta-
razionale di giustizia nessuna comunità può sopravvivere.
La giustizia solitamente è ciò che non c’è quando c’è una prevaricazione del più forte sul più
vulnerabile. È difficile definire cos’è la vulnerabilità: persone diverse potrebbero essere vulnerabili
interiormente per ragioni opposte. Inoltre la parte debole, una volta ottenuti privilegi, si trasforma
nel tempo in quella più forte.
Avere un senso interiore di giustizia contrastante con quello della collettività non significa che si
possa cambiare il diritto a proprio piacimento.
LO STATO
Gli Stati sono il soggetto internazionale per eccellenza. Secondo la teoria classica erano gli unici
soggetti internazionali, oggi la tendenza è quella di riconoscerne anche degli altri.
Sono riconosciuti come soggetti internazionali (anche se con significati diversi):
gli Stati
le organizzazioni internazionali
alcuni enti sui generis (es. Santa Sede e Croce Rossa)
gli individui
I loro diritti e doveri sono però decisi dagli Stati quando creano norme.
Il modello di stato moderno risale al tardo medioevo. Nel 1899 alla Conferenza dell’Aja gli Stati
partecipanti erano 26, oggi ne esistono circa 200.
Il territorio
Si tratta di una porzione di terraferma delimitata da confini.
Il potere di un governo sul territorio è sempre pieno e non sfumato nelle zone più remote.
Non ci sono zone di vuoto di potere o zone “grigie” intermedie. Principio per cui tutti gli
individui ovunque si trovino devono essere governati da un’autorità.
I territori possono anche essere minimi, ma devono essere di origine naturale (es. non
possono essere una piattaforma artificiale).
I confini possono essere incerti e contestati.
Il popolo
Deve essere composto da individui che risiedono stabilmente nel territorio. Non devono
necessariamente averne la cittadinanza, né il popolo deve essere omogeneo dal punto di vista
razziale, linguistico, tribale, religioso, ecc.
Ogni stato decide a modo proprio le norme su come si acquisisce la cittadinanza.
A titolo originario esistono:
Jus sanguinis (figlio di genitori con la cittadinanza)
Jus soli (nato sul territorio)
A titolo derivato:
rapporti familiari (matrimonio, adozione, ecc.)
naturalizzazione (determinati requisiti)
Ne deriva che possono sorgere casi di pluricittadinanza e apolidia.
La popolazione può essere minima ma deve essere permanente e avere un carattere
comunitario, intenso come condivisione di un destino comune.
Effettività di governo: è la capacità di farsi obbedire (leggi, sentenze, ecc.) e di proteggere gli
individui dalla violenza altrui. Il grado di effettività richiesto deve garantire un livello minimo
di ordine pubblico e di convivenza tra i cittadini.
Esiste uno stato se il governo è effettivo ma nessuno lo riconosce? Taiwan sì, come sentenziato
da alcuni giudici americani e per il fatto che è entrata nell’organizzazione mondiale del
commercio.
In mancanza di governo effettivo, è più difficile diventare uno stato che rimanere tale. Nella
prassi un failed o failing state continua ad essere riconosciuto come stato in prospettiva per
evitare vuoti di autorità.
Il default non implica il fallimento politico-istituzionale. Non esiste nel DI una procedura di
tutela dei creditori in caso di default.
Le organizzazioni internazionali e in particolare l’ONU si occupano sempre più di state
building, ovvero la ricostruzione di stati in forma democratica quando si verificano crisi di
effettività di un governo. In alcuni casi collaborano con le istituzioni locali, in altri
amministrano il territorio in maniera diretta. Raramente i tentativi di state building funzionano,
in quanto è difficile creare artificialmente la legittimazione politica.
I governi in esilio non sono considerati effettivi. Tuttavia sono considerati i governi legittimi
dei rispettivi stati per motivi di cortesia e per il loro potenziale ritorno al governo.
Indipendenza: gli stati devono essere indipendenti non in senso fattuale (gli stati formano un
Sistema), ma in senso giuridico. Uno stato deve saper esercitare i tre poteri indipendentemente
e non in base a decisioni assunte da autorità esterne. Per i cittadini l’autorità politica suprema è
lo stato, per gli stati questa non esiste ma devono comunque rispettare il DI.
Gli stati membri di stati federali o le suddivisioni amministrativi non sono soggetti nel DI.
Se questi stipulano atti internazionali con stati esteri, si considera lo stato a cui appartengono
come responsabile.
Le confederazioni non sono soggetti nel DI perché gli stati rimangono indipendenti. Lo sono
quando diventano stati federali.
Se un governo dipende giuridicamente da un altro stato si parla di governo fantoccio, dunque
non indipendente. (es. Repubblica Turca di Cipro del Nord).
Al DI non interessa la legittimità interna della nascita di uno stato. è considerato legittimo
anche un governo che è nato violando la costituzione dello stato. È altresì vero che l’ONU di
solito riconosce i governi esistenti (eletti democraticamente) piuttosto che i ribelli.
Uno stato non deve essere necessariamente democratico, ma la tendenza è quella di tenere in
sempre più ampia considerazione la forma democratica di un governo nel considerarne la
legittimità. Spesso la mancanza di democrazia si accompagna a violazioni di diritti umani,
condannate dal DI.
I MOVIMENTI INSURREZIONALI
Gli insorti nel periodo della rivoluzione sono soggetti internazionale nella misura in cui
detengono il potere effettivo su una parte di territorio. Se l’insurrezione ha successo gli
insorti acquisiscono la soggettività statuale, se falliscono verranno considerati ribelli e potranno
essere puniti dal governo come crede in base alle sue leggi, ma rispettando alcuni diritti
umanitari di base.
Se un movimento insurrezionale viene riconosciuto, a questo si applicheranno solo alcune delle
norme consuetudinarie che si applicano agli stati, tra cui:
norme sulla conclusione di trattati internazionali (possono farli)
norme sul trattamento degli stranieri e sull’immunità degli organi di stati stranieri (sul
territorio degli insorti)
norme umanitarie sui conflitti internazionali e non
Non è ben chiaro se gli insorti abbiano diritto alle immunità diplomatiche.
Per quanto riguarda il pagamento dei danni:
Se un’insurrezione fallisce il governo effettivo non deve pagarne i danni.
Se ha successo il nuovo governo formato dagli insorti deve non solo pagarne i danni,
ma anche farsi carico di quelli causati dal governo precedente.
Si ritiene che gli stati possano intervenire in aiuto del governo legittimo ma NON degli
insorti, in quanto organizzazioni private. Nel 2014, benché il governo iracheno non fosse
effettivo, avendo perso ampi territori, il consiglio di sicurezza dell’ONU ha deliberato di
aiutarlo facendo prevalere ragioni di legittimità su quelle di effettività.
La tendenza nel valutare internazionalmente gli insorti o il governo legittimo è quella di stabilire
chi rappresenti le aspirazioni e le aspettative legittime del popolo, dunque senza guardare
esclusivamente l’effettività.
LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
Associazioni di Stati create con un trattato e provviste di organi propri. È uno dei modi che
gli Stati hanno per coordinarsi.
Storicamente iniziano nel XIX secolo (es. Commissioni fluviali e Unioni amministrative
internazionali). Dopo WW1 nasce la Società delle Nazioni con competenze nel campo della
sicurezza collettiva. Dopo WW2 aumentano in numero e alla SdN succede l’ONU, assistita da
diversi istituti specializzati (es. FAO, UNESCO, OMS, FMI). Inoltre si sono aggiunte altre
organizzazioni sia universali (WTO) che regionali (UE, NATO).
Le OI dipendono dagli stati, in quanto da essi create. Oggi però hanno una crescente influenza,
soprattutto quando sono dotate dagli Stati stessi di autonomia.
Influiscono sui processi di creazione del DI e contribuiscono a realizzare i valori comuni
dell’umanità, riuscendo a imporre la propria volontà agli Stati.
L’autonomia è maggiore quando:
l’organizzazione è composta da individui indipendenti dagli stati
i suoi organi possono adottare atti giuridicamente vincolanti
quando esiste un organo rappresentativo dei popoli degli stati membri (es. Parlamento
Europeo)
quando l’organizzazione ha un ordinamento interno proprio
quando l’organizzazione ha risorse finanziarie proprie
Un esempio di OI autonoma è l’Unione Europea.
SOGGETTIVITÀ INTERNA
La soggettività interna è diversa. Solitamente le OI impegnano gli Stati Membri a riconoscere
l’organizzazione come persona giudica. Le OI possono anche stipulare accordi con Stati terzi
in merito a questi diritti. Il problema va risolto in base alle norme interne.
Le soluzioni accolte nel diritto interno al fine della responsabilità civile delle OI non possono
estendersi automaticamente alla loro responsabilità internazionale.
Sospensione, art. 5
- totale (mai accaduta), quando uno stato è oggetto di un’azione preventiva o coercitiva del
Consiglio di Sicurezza. Perde temporaneamente tutti i diritti.
- parziale (sporadica): quando uno stato non versa i contributi all’ONU e l’arretrato è uguale
o superiore all’ammontare dei due anni precedenti. Perde il diritto di voto nell’Assemblea e la
sospensione opera automaticamente.
Espulsione, art. 6 (mai accaduta): quando uno stato membro è accusato di aver commesso una
“violazione persistente” della carta.
Recesso: la Carta non si pronuncia in merito. L’Indonesia però è di fatto receduta per qualche
anno.
ORGANI DELL’ONU
Assemblea generale
Consiglio di sicurezza
Segretariato
Corte internazionale di giustizia
Altri (consiglio economico e sociale, consiglio di amministrazione fiduciaria)
Assemblea e consiglio possono istituire organi sussidiari.
Assemblea generale:
composta da tutti gli stati membri. Ogni stato membro ha un voto. Ogni stato può avere
cinque delegati. Delibera a maggioranza semplice per le questioni non importanti,
qualificata (due terzi) per le questioni importanti. La maggioranza è sempre dei presenti e
votanti. Però se si tratta di emendamenti e revisioni della carta la maggioranza è di tutti
membri. Le astensioni sono escluse nel computo della maggioranza.
Adotta raccomandazioni (atti non vincolanti con natura esortativa) sulle materie di
competenza dell’ONU, in particolare la risoluzione pacifica delle controversie.
Consiglio di sicurezza
5 membri permanenti: Cina, Federazione Russa, Francia, Regno Unito, Stati Uniti
10 membri non permanenti eletti ogni due anni dall’Assemblea a maggioranza di due terzi
dei membri presenti e votanti.
Criteri per l’elezione:
contributo dei membri al mantenimento di pace e sicurezza
equa distribuzione geografica
La rotazione non è egualitaria, alcuni paesi non sono mai stati eletti e altri lo sono stati
diverse volte.
Per le questioni procedurali è necessaria la maggioranza di 9 membri qualsiasi. Per
questioni non procedurali serve la maggioranza di nove membri di cui cinque
permanenti (che hanno diritto di veto), Nella prassi gli atti sono adottati anche con
l’astensione di uno o più membri permanenti.
Adotta decisioni (atti giuridicamente vincolanti) in merito al mantenimento della pace e
della sicurezza internazionale.
Segretariato
Composto dal Segretario Generale (nominato da AG su proposta del CdS) e funzionari
dell’organizzazione.
Le Nazioni Unite non devono interferire negli affari interni degli stati (così come uno stato
non può interferire negli affari interno di uno stato). Si ritiene generalmente che nella
giurisdizione interna rientrino tutte le materie che non sono di competenza del DI. Per
quanto riguarda la Carta, sono possibili emendamenti e revisioni:
Emendamenti: Assemblea deve adottare l'emendamento a 2/3 e il Consiglio deve
ratificare a 2/3 compresi i 5 membri permanenti (che anche in questa materia hanno
diritto di veto)
Revisioni: L’assemblea generale e il consiglio di sicurezza indicono una conferenza ad
hoc.
Croce rossa: parte della dottrina la ritiene un soggetto internazionale perché intrattiene
rapporti con gli Stati, stipula trattati e gli vengono riconosciuti alcuni privilegi come
quello di non rivelare in giudizio le informazioni in suo possesso, ma questi elementi non
sono sufficienti a garantirne la soggettività (il comitato è in sostanza un’organizzazione
privata operante transnazionalmente su incarico degli Stati).
INDIVIDUI
Benché il DI sia solitamente orientato agli Stati, il suo fine ultimo è quello di garantire la
convivenza pacifica tra individui.
Nel DI classico gli individui non erano soggetti ma oggetti di diritto internazionale, nel senso
che le norme che li tutelavano (in particolare la protezione diplomatica) erano rivolte agli Stati e
loro ne erano meramente i beneficiari.
Con la globalizzazione sono state create più norme internazionali regolanti gli obblighi degli
stati nel governare gli individui, dando a quest’ultimi diritti da far valere contro gli Stati
trasgressori.
Gli individui sono soggetti di diritto internazionale anche se non ne creano le norme, così
come avviene nel diritto interno, almeno secondo l’opinione predominante. La definizione di
soggettività internazionale è dibattuta.
I diritti e gli obblighi verso gli individui riguardano sostanzialmente i diritti umani. Questi,
sanciti da trattati tra Stati, apparentemente coinvolgono solo questi ultimi. Dato che però sempre
più spesso questi diritti hanno un carattere procedurale (anche per persone giuridiche, società
commerciali, associazioni, ecc.), si può dire che gli individui siano direttamente coinvolti e
non solo meri beneficiari, dato che possono far valere i propri diritti indipendentemente
dalla volontà dagli Stati.
Secondo alcuni anche alcune norme del DI Umanitario (afferente alla protezione delle vittime
di guerra e dei conflitti armati) attribuirebbero diritti agli individui.
Per quanto concerne gli obblighi, vi è il divieto da parte degli individui di commettere
crimini internazionali (es. Norimberga). La dottrina tradizionale, tuttavia, ritiene che si tratti di
un obbligo per gli Stati di punire internamente questi crimini. Però questi crimini vengono
comunque sempre puniti a livello internazionale, quandanche non previsti dal diritto
interno dello stato di appartenenza del criminale.
Anche gli attori non-statali (es. ONU, Banca Mondiale, imprese multinazionali, gruppi
terroristici, ecc.) sono tenuti a rispettare i diritti umani.
In genere il DI lascia che gli Stati si occupino di punire le violazioni di diritti umani.
Qualora lo stato non lo faccia, è giusto che le violazioni non rimangano impunite e dunque
può intervenire il DI.
Le norme sui rapporti di lavoro nelle OI presuppongo la soggettività dei funzionari. Alcuni
ritengono che le norme sui funzionari internazionali facciano capo a un ordinamento proprio,
distinto da quello statale e internazionale.
Anche alcune norme del diritto dell’UE, che sembrano presupporre la soggettività degli
individui, derivando di fatto da trattati internazionali, si ritiene facciano comunque parte di un
ordinamento distinto.
In conclusione, non c’è motivo di escludere la soggettività degli individui, fintanto che
questa è regolata da norme create dagli Stati.
IMPRESE MULTINAZIONALI
Le multinazionali per il diritto sono società che hanno un’impresa madre in uno Stato e filiali
in altri. Ogni filiale è regolata dal diritto dello Stato in cui si trova.
A favore della soggettività vi è l’idea che le multinazionali spesso sono più potenti degli Stati.
È indubbiamente vero che sia necessario disciplinare le imprese in campo internazionale per
evitare violazioni di diritti umani e di legislazioni nazionali (es. penali fiscali, ambientali,
protezione dei lavoratori), ma:
questa urgenza non rende le imprese multinazionali soggetti internazionali
è comunque difficile considerare le multinazionali enti unitari
anche se sono più potenti di micro-stati non hanno le loro stesse funzioni e competenze
Non ci sono norme giuridiche rivolte alle multinazionali in quanto tali, ma solo verso persone
giuridiche.
Alcuni rivolgono l’attenzione agli accordi che le Multinazionali firmano con gli Stati dicendo
che si tratti di trattati internazionali, ma in realtà la dottrina prevalente li considera contratti di
diritto privato.
Benché non esistano norme giuridicamente vincolanti rivolte alle multinazionali in campo
internazionale, esiste la cosiddetta Soft Law, ovvero “codici di condotta” sul rispetto dei
diritti umani e altri (es. Global Compact, firmato da più di 12.000 le multinazionali, che
presenta 10 principi che le multinazionali devono osservare).
Infatti si parla di “responsabilità sociale dell’impresa”, ovvero la responsabilità nei confronti
del bene comune e non solo degli azionisti.
Si tratta di una strategia di marketing e in ogni caso è una scelta volontaria delle
multinazionali.
I metodi per ridurre gli abusi delle multinazionali passano attraverso gli obblighi internazionali
degli stati o strategie di contro-marketing. Per questo motivo le multinazionali non sono
soggetti internazionali.
È vero che esiste una competizione (politica, economica, militare, culturale) tra gli stati, è
altrettanto vero che ai fini di evitare il caos bisogna adottare una visione universalistica. Gli
interessi degli Stati e dell’umanità non sono in contrapposizione, sono tuttavia i primi in
grado di perseguirli. Individui e ONG possono influenzarli tramite il consenso o dissenso
politico. L’interazione tra loro è la governance globale.
CREAZIONE INTERSTATALE E APPLICAZIONE INTRASTATALE DELLE NORME
INTERNAZIONALI
(CAPITOLO II)
LE CONSUETUDINI
Il DI è essenzialmente consuetudinario: la consuetudine non dipende da nessun’altra fonte (è
un fenomeno a formazione spontanea), tutte le altre dipendono dalla consuetudine (ovvero come
si è sempre comportata la maggioranza e come ci si aspetta si comportino gli altri Stati anche in
futuro).
La consuetudine è una fonte di primo grado, i trattati una fonte di secondo grado, perché il
rispetto dei trattati dipende dalla consuetudine. In caso di conflitto i trattati possono prevalere
sulla consuetudine, se la consuetudine così stabilisce.
La consuetudine è creata dagli stati uti universi (intesi nel loro insieme) e imposta sugli stati
uti singuli (intesi singolarmente), anche quelli che non sono d’accordo. Anche gli stati più forti
devono far fronte alla pressione degli Stati nel loro insieme verso l’osservanza delle norme
comuni.
Tutti gli Stati accettano di essere involati dalla consuetudine.
Spesso si parla di “norme emergenti” o in “via di formazione” quando si prende atto di
trasformazioni o si promuove la prassi internazionale. Non va comunque strumentalizzato
questo uso per “spacciare” come diritto vigente alcune isolate manifestazioni della prassi.
È importante sapere chi controlla le fonti, così come nel diritto interno anche nel diritto
internazionale. Il diritto scritto è controllato da chi ha il potere di scriverlo e dai suoi interpreti
ufficiali; il diritto non scritto è controllato da chi contribuisce con il proprio comportamento ma
anche da chi interpreta la prassi generale (giuristi, giudici).
Usus
L’usus è individuabile:
negli atti materiali (soprattutto coercitivi)
nelle dichiarazioni degli Stati, purché non palese propaganda, non isolate e non smentite
dai comportamenti
prassi giudiziaria e legislativa nazionale (immunità diplomatiche, immunità
giurisdizionale degli Stati stranieri, ecc.)
inazione e silenzio (es. gli stati non invadono gli altri stati. È comunque fondamentale
l’opinio juris: questo comportamento è seguito perché invadere altri stati si ritiene vietato,
non per altri motivi o per puro caso)
trattati internazionali (molti trattati confermano la consuetudine. di regola però ne sono
eccezioni).
Anche le OI sono rilevanti nella prassi, ma di solito si escludono gli individui e altri attori non
statali.
Diuturnitas: la prassi deve essere costante e ripetuta nel tempo, non si può formare
istantaneamente (ipso facto) al momento di adozione di una risoluzione dell’Assemblea
generale dell’ONU. Non è chiaro quanto tempo debba passare affinché una prassi diventi
consuetudine: deve passare un minino di tempo, ma non è necessario che sia in uso da tempo
immemorabile.
Talvolta la dottrina esalta l’elemento dell’opinio mettendo in secondo piano l’usus. Benché sia
importante l’impulso propulsivo per rendere il DI più giusto in futuro (e il confine tra realtà
attuale e potenziale è molto più sfumato nel DI che nel diritto interno), è fondamentale
guardare al diritto oggettivamente vigente. Dare troppo peso all’opinio può, per esempio,
portare le grandi potenze a imporre i propri interessi momentanei in nome della necessità e della
giustizia universale, alimentando il diffuso senso di artificiosità del DI e facendolo sembrare il
riflesso momento per momento della volontà degli Stati dominanti.
Non bisogna confondere la consuetudine con il diritto naturale e una presunta morale
universale, che non sono fonti di DI. Se la prassi è contraria a un principio morale o umanitario
o a un valore è difficile sostenere che il principio sia di diritto vigente (ma si può comunque
sostenerlo per farlo affermare in futuro). Se la prassi è dubbia o assente, il principio morale è
più rilevante, soprattutto se ci sono prese di posizioni autorevoli (es. risoluzioni unanimi
dell’Ass. Gen. Onu). In caso di controversia in cui la prassi è dubbia o assente, il giudice ha un
margine di giudizio e può creare un precedente, basato su principi morali personali. I giudici
devono però ricordarsi che il diritto è imposto dai più forti, spesso con il
sostegno/acquiescenza della massa e può essere usata per schiacciare i deboli. Però se è
accettato dai suoi destinatari, non è importante che sia morale, benefico, logico, sano. Il
giurista, per quanto illuminato, deve accettarlo e applicarlo e, se così crede, battersi per uno
diverso.
Consuetudini particolari
Anche se le consuetudini hanno di norma carattere generale, esistono nella prassi delle
consuetudini particolari o speciali, che vincolano una cerchia ristretta di stati.
Possono essere:
di tipo geografico: vincolano due o più stati della stessa area geografica. Sono
ammesse in astratto ma non sono mai state applicate nella prassi. L’onere della prova per
queste consuetudini spetta allo stato che le invoca ed esse prevalgono sulle consuetudini
generali.
modificatrici (o integratrici) di un trattato istitutivo di un’organizzazione
internazionale: vincolano solo gli stati membri dell’organizzazione. Sono state
accettate dalla Corte Internazionale di Giustizia in merito all’astensione dei membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza, per cui le decisioni possono essere adottate anche
con la loro astensione. Sono state invece rifiutate dalla Corte di Giustizia delle Comunità
europee, secondo la quale una prassi contraria a quanto stabilito in un trattato deve
considerarsi illegittima.
Quando le consuetudini particolari riguardano solo due stati, la differenza con dei semplici
accordi è sottile, mentre in tutti gli altri casi queste norme hanno le stesse caratteristiche di
quelle generali.
È comunque sempre la consuetudine generale a determinare i criteri secondo i quali viene
accertata l’esistenza di una norma consuetudinaria particolare.
LAVORI PREPARATORI
Durante i lavori di redazione dello Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale
(in seno allo Società delle Nazioni) vi fu un dibattito tra il presidente Descamps e un giurista
Root. Il primo caldeggiava l’inserimento di “norme di diritto internazionale riconosciute
dalla coscienza giuridica delle nazioni civili” (il termine “civile” era molto in voga, dopo la
decolonizzazione ha iniziato a essere percepito come anacronistico e offensivo), il secondo era
contrario, in quanto temeva che questo lasciasse spazio alle sensazioni di giustizia soggettive
dei giudici. Si arrivò al compromesso della formula attuale che si presta a più interpretazioni,
ma quella prevalente è che si tratti di principi accettati dalle nazioni in foro domestico (come
principi di procedura, buona fede, res judicata).
Con lievi variazioni, questi principi furono mantenuti nello Statuto del CIG, art. 38 par. 1.
Sono una fonte di diritto autonoma? Quale rango occupano rispetto alle altre? L’art. 38 dello
statuto della CIG individua chiaramente questi principi come una fonte autonoma. Tuttavia ci
sono due principali obiezioni:
per alcuni sono solo norme consuetudinarie sui generis in quanto constano di usus e
opinio juris;
per altri sono solo principi derivati non dal diritto internazionale ma da quello interno
(es. scuola sovietica)
Nella dottrina che gli riconosce l’autonoma gli si attribuiscono ruoli diversi:
per alcuni sono assimilati al diritto naturale, all’equità, alla morale e alla giustizia. Se
così fosse, tuttavia, ne conseguirebbero norme vaghe, con un carattere troppo soggettivo o
che potrebbero confondersi con altre fonti internazionali (controverse) come l’equità o la
ragionevolezza.
dagli autori anglosassoni sono visti come diritto positivo fondato su analogie con il diritto
privato statale
per altri questi principi hanno un rango supremo e sono superiori a consuetudine e
trattati, in quanto possiedono un carattere costituzionale.
Nella prassi i giudici statali tengono effettivamente conto di principi di giustizia e umanità; gli
stati accolgono e applicano i medesimi principi nel DI, purché si tratti di principi davvero di
base. Questi hanno come obiettivo non solo il colmare le lacune, ma anche lo stabilire
standard minimi di giustizia e umanità.
In conclusione, si possono considerare questi principi come fonti autonome perché
intervengono quando le consuetudini e le norme pattizie non bastano. Questi principi
devono quindi possedere le seguenti caratteristiche:
esseri riscontrabili nel diritto della maggior parte degli stati, esclusi quelli non
considerati civili perché vanno contro i valori sentiti come ‘comuni’ dall’umanità e/o
condannati dall’ONU;
devono essere trapiantabili nel DI (es. “non rubare” è comune a tutti gli ordinamenti ma
non è applicabile in campo internazionale);
non devono contraddire consuetudini e patti.
TRATTATI INTERNAZIONALI
STIPULAZIONE DEI TRATTATI
Menzionati nell’art. 38, par. 1 dello statuto del CIG come fonti autonome.
Hanno vari nomi (convenzione, patto, carta, statuto, protocollo, ecc.) ma la sostanza è la stessa,
ovvero servono a regolare le volontà di più Stati in maniera più precisa delle altre fonti.
Possono essere bilaterali o multilaterali e producono effetti giuridici vincolanti per i contraenti
(pacta sunt servanda).
Si applicano esclusivamente ai soggetti internazionali. Sono trattati internazionali solo quelli che
hanno natura giuridica e una volontà delle parti di obbligarsi (quindi non “gentlemen’s
agreement e simili) e si fondano sul DI.
La tendenza nella materia di diritti umani e diritto umanitario è quella di subire alterazioni (riserve,
interpretazioni, violazioni reciproche). I trattati, tuttavia, hanno una natura “obiettiva” o “erga
omnes”: ogni Stato si impegna verso ogni altro Stato contraente.
CONVENZIONI DI VIENNA DEL 1969 E DEL 1986 SUL DIRITTO DEI TRATTATI
Il diritto consuetudinario relativo ad ogni aspetto dei trattati è stato codificato nella Convenzione
di Vienna del 1969 (ad oggi 114 Stati hanno aderito).
I trattati a cui non si applica:
quelli conclusi non da Stati
quelli non-scritti
responsabilità internazionale
questioni relative alla successione tra Stati nei trattati
effetti della guerra sui trattati
Si applica a trattati istitutivi di OI ed è irretroattiva.
Esiste anche la Convenzione di Vienna del 1986 che aggiunge al quadro anche le OI, ma che non
è ancora entrata in vigore.
trattati di garanzia
Gli Stati contraenti si impegnano a garantire l’indipendenza di uno Stato terzo.
È stato escluso che il trattato meno importante sia invalido, benché questo porti alla
“Frammentazione del diritto”.
È stato escluso che il trattato meno importante sia invalido, benché questo porti alla
“Frammentazione del diritto”.
Il criterio per stabilire se una riserva è compatibile con lo scopo e l’oggetto del trattato non è
chiaro. Spetta a giudici interni o internazionali (Corte europea dei diritti umani) pronunciarsi in
merito.
Una riserva su una norma cogente non può essere ammessa e non pregiudica la natura
vincolante della norma. Lo jus cogens viene di solito invocato ad abundatiam perché solitamente
una riserva che viola lo jus cogens è difficile che non violi anche oggetto e scopo.
Riserve e obiezioni alle riserve possono essere ritirate in qualsiasi momento (se non disposto
diversamente dal trattato) e in maniera unilaterale.
Riserve, accettazioni e obiezioni devono essere formulate per iscritto e comunicate agli stati
contraenti.
L’interpretazione consiste nel capire quale significato attribuire a quanto detto nei trattati.
La competenza ad interpretare spetta a:
Esecutivo degli Stati contraenti
Giudici degli Stati contraenti, che in alcuni Stati devono consultare gli organi di politica
estera dell’Esecutivo
Organi internazionali se così stabilito dai trattati (tribunale arbitrale costituito ad hoc, CIG,
organi di controllo)
Organi delle OI nel caso di trattati istitutivi delle OI
Si tende ad interpretare i trattati in modo speciale soprattutto per quanto riguarda i DU (tendenza
a favorire l’individuo) e i trattati istitutivi delle OI (tendenza a erodere il potere dello stato e
favorire valori globali)
L’art. 32 prevede anche l’impiego di criteri supplementari (se l’interpretazione ottenuta con i
mezzi dell’art. 31 non è chiara) in via sussidiaria, ovvero:
Lavori preparatori: interpretazione storica delle intenzioni soggettive dei redattori
Circostanze esistenti al momento della stipulazione: avvenimenti che hanno condotto
alla stipulazione del trattato
L’art. 33 si occupa dell’ipotesi di discordanza tra due o più versioni linguistiche egualmente
autentiche di un trattato (le uniche giuridicamente valide). In questo caso deve essere ritenuta
valida l’interpretazione che più assicura il raggiungimento dello scopo del trattato. Nel caso
invece la discordanza derivi da un errore di traduzione, il trattato deve essere rettificato.
Analogia: in alcuni casi, quando non c’è una norma che regola in maniera esplicita un caso, se ne
può applicare una che ne regola in maniera esplicita uno solo in parte uguale.
Alle OI si applicherebbe la regola dei poteri impliciti (ispirata a quella della Costituzione
Americana sulla ripartizione dei poteri tra Stato federale e Stati federati) secondo la quale gli
organi di un’organizzazione godrebbero non solo dei poteri previsti dal trattato istitutivo, ma
anche di tutti quelli non esplicitamente previsti ma necessari per l’esercizio di questi poteri e
l’adempimento delle loro funzioni. Questa regola però è opposta alla regola di attribuzione,
secondo la quale le OI non possono avere più poteri di quelli espressamente conferitigli dagli
Stati. Le OI però non sono assimilabili agli stati federali perché non esercitano il controllo su
comunità territoriali né hanno legittimazione politica né sono in grado quanto gli stati di far
rispettare leggi e sentenze. Neppure i loro statuti sono assimilabili alle Costituzioni nazionali.
Trasferire i poteri dello Stato alle OI non assicurerebbe risultati migliori in termini di diritti umani.
Per quanto riguarda la Corte Internazionale di Giustizia, questa si è pronunciata a volte a favore del
principio dei poteri impliciti, in altre ha preferito il principio di attribuzione.
Sembra corretto ritenere che il criterio dei poteri impliciti non sia giuridicamente ammissibile
per le OI a meno che non esista una prassi oggettiva e incontestata che deroghi al loro Statuto.
INTERPRETAZIONE UNILATERALISTICA
Esiste una tendenza a interpretare i trattati in conformità al diritto interno e basandosi sulla
traduzione nella lingua nazionale. Questa possibilità però è esclusa dalla Convenzione di Vienna,
secondo la quale è bene cercare un significato comune a tutti i contraenti per non rompere l’unità
del trattato in una molteplicità di significati nazionali.
L’interpretazione uniforme dei trattati è più semplice se è presente un organo preposto a farlo e/o
se è il trattato stesso a dare disposizioni sulle sue modalità di interpretazione.
ACCORDI INTERNAZIONALI UE
Nei casi in cui il TFUE (tratta sul funzionamento dell’UE) prevede una competenza esclusiva
dell’UE a stipulare accordi, questa competenza è sottratta ai singoli Stati membri, a meno che
l’UE non li autorizzi a concludere trattati nelle materie di sua competenza o concluda accordi misti
con la partecipazione anche degli Stati membri. Nelle materie in cui non è prevista una competenza
dell’Unione Europea vale il principio del parallelismo tra competenze interne ed esterne, cioè se
l’UE ha competenze interne per una materia, avrà anche le medesime competenze esterne.
Si aggiungono agli atti giuridici e legislativi quelli in ambito di politica estera e sicurezza comune
(PESC), in particolare le decisioni che definiscono le azioni dell’UE e quelle che definiscono la
posizione dell’UE su specifiche questioni.
GIURISPRUDENZA
Le decisioni giudiziarie internazionali (a cui sembra alludere l’art. 38, par. 1, lett. D dello statuto
della CIG) non sono fonti di diritto ma sono mezzi sussidiari che contribuiscono alla formazione e
al consolidamento delle norme. Occorre comunque distinguere tra decisioni giudiziarie:
internazionali: le sentenze internazionali vincolano le parti giuridicamente solamente
perché le parti si sono sottoposte alla giurisdizione della corte. I giudici non sono tenuti a
rispettare le sentenze precedenti in casi simili, anche date da loro stessi. Le sentenze
internazionali influiscono sulla formazione del DI nella misura in cui corrispondono a una
prassi generalizzata degli Stati e alla loro opinio juris. In alcuni casi i giudici possono
esprimere anche un’opinio necessitatis, ovvero l’esigenza di una norma inesistente, dando
una spinta propulsiva al DI.
statale: le sentenze statali possono anch’esse esprimere un’opinio necessitatis. Per essere
mezzi sussidiari di DI è necessario che siano espresse da tanti Stati (per settori di DI come
l’immunità giursidizionale).
I giudici, sia internazionali che statali, devono rendersi conto del ruolo che svolgono nel rafforzare
o indebolire le norme internazionali. I giudici nazionali non devono pensare al DI come
semplicemente “politico” o “diplomatico”, spogliandosi del dovere di applicarlo.
EQUITÀ
L’art. 38 par. 2 dello Statuto della CIG prevede la possibilità di emanare sentenze “secondo
equità” (secondo la coscienza del giudice) e non “secondo diritto” se così concordano le parti.
L’equità però non è una fonte di DI in quanto è subordinata al consenso di ambo le parti. Però
nella giurisprudenze internazionale spesso si parla di equità a prescindere da tale articolo. Dunque
l’equità è una fonte autonoma di DI? Ci sono tre nozioni di equità nella teoria generale del diritto:
Equità infra/secundum legem: intepretazione del diritto vigente. Non è una fonte
autonoma in quanto segue le norme sui criteri interpretativi e i limiti imposti da tali norme.
Equità praeter legem: interviene quando c’è una lacuna nel diritto, ovvero quando uno
Stato non dimostra l’esistenza di una norma e dunque, nel dubbio, si afferma la libertà degli
Stati (“tutto ciò che non è vietato è permesso”). Non è una fonte autonoma perché non
crea norme, ma si limita a rivelare lacune nel diritto.
Equità contra legem: invocata da uno Stato quando agisce violando il diritto vigente. È la
più significativa delle tre, in quanto uno Stato può segnalarla per manifestare l’intenzione di
voler trasformare il diritto consuetudinario vigente. Non è una fonte autonoma perché
si propone di violare il diritto vigente.
L’obiezione principale all’equità è che gli Stati più potenti possano usarla per scavalcare norme
vigenti che non gradiscono, presentando i loro valori giusti ed equi. Ogni Stato ha una sua idea di
“equo e giusto”; fare ricorso all’equità pone il pericolo di rendere il diritto meno prevedibile e far
emergere conflitti tra opposte visioni dell’”equo”. Per questo il CIG usò la formula “principi
generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” e non la “giustizia naturale”.
SOFT LAW
Ovvero l’insieme di norme o principi non giuridicamente vincolanti che potrebbero produrre
effetti giuridici di portata minore (es raccomandazioni, risoluzioni non vincolanti, dichiarazioni
di principi dell’Ass. Gen. ONU, ecc.)
Quando non riproducono il diritto vigente, promuovono un DI futuro ritenuto più giusto dalla
comunità internazionale nel suo insieme, soprattutto se si tratta di dichiarazioni solenni di principi
da parte dell’Ass. Gen. Dell’ONU e tanto più ottengano un consenso vasto.
I giudici statali non sono tenuti ad applicarlo, ma potranno tenerne conto per prendere decisioni
dirette ad innovare il DI vigente sulla base di considerazioni rinvenibili in atti internazionali e non
proposte da loro unilateralmente.
Una violazione del DI ha meno probabilità di essere considerata illecita se vi è un consenso
universale verificabile e il DI ha più probabilità di trasformarsi.
DOTTRINA
Secondo l'art. 38, par. 1, lett. D la dottrina dello Stat. Della CIG è un mezzo sussidiario per la
determinazione delle fonti, perché le opinioni della dottrina più accreditate di norma
corrispondono al DI. Non concorre alla formazione del DI generale ma di fatto tende ad
influenzare le autorità statali. Per "dottrina" si intendono i singoli studiosi e la "comunità
scientifica", in particolare le associazioni private che si dedicano allo studio del DI. La stessa CID
deve considerarsi al pari della dottrina.
Non di rado la giurisprudenza, sia internazionale che statale, esamina la dottrina per
documentarsi e per stabilire se una norma internazionale esiste.
La dottrina, benché non crei norme di DI, ha anche un ruolo propulsivo e ispiratore per i pratici e
ispira soluzioni concrete e più efficaci, più giuste e adeguate alle aspettative dei popoli e degli
individui.
La dottrina aiuta anche a capire il diritto quale è. Infatti, il diritto è anche ciò che viene creduto dai
giuristi.
I giudici non devono considerare un'opinione dottrinale, per quanto autorevole, DI vigente, ma
dovrebbero usarla per chiarire il DI e tenerlo al passo con i mutamenti della società globale.
Gruppi di studiosi possono mobilitarsi con dichiarazioni, petizioni, lettere per modificare la realtà
internazionale ma si tratta di atti politici che vanno distinti dal lavoro scientifico.
JUS COGENS
Si tratta di una serie di norme che per la loro natura prevalgono sulle altre in caso di conflitto (es.
divieto di tortura, di aggressione, apartheid, discriminazione razziale, genocidio, ecc.). Infatti sono
norme fondamentali che non possono essere derogate neppure con i trattati. Alcuni sostengono
che siano "principi generali di diritto", ma in quel caso non sarebbero norme di rango supremo, ma
solo supplettive.
Gli unici due articoli a occuparsi espressamente di Jus Cogens sono il 53 e il 64 della Convenzione
di Vienna del 1969.
L'art. 53 fornisce una definizione di norma cogente e stabilisce che un trattato che deroga una
norma di questo tipo è invalido.
L'art. 63 aggiunge che una norma cogente sopraggiunta estingue i trattati incompatibili pre-
esistenti.
Secondo una serie di disposizioni collaterali è la CIG a determinare se una norma è cogente.
Nessun articolo elenca le norme cogenti.
Il Progetto di articoli della CDI sulla responsabilità degli Stati del 2001 si è occupato di Jus Cogens.
In esso si dice che alcune cause che escludono l'illecito dello Stato (consenso dello Stato leso,
esercizio del diritto di legittima difesa, forza maggiore, ecc.) non operano in caso di violazione di
norme di Jus Cogens. Il Progetto inoltre prevede conseguenze per violazioni gravi di DI generale.
Quando parla di "obblighi dovuti alla comunità internazionale nel suo insieme" la Commissione
chiama in causa norme sostanzialmente coincidenti con lo Jus Cogens. Il progetto non definisce che
cosa sia e si limita a definirlo "DI generale".
Inoltre vi sono alcune sentenze internazionali che hanno fatto riferimento allo Jus Cogens,
soprattutto in materia di crimini internazionali e per richiamare principi come l'universalità della
giurisdizione, l'imprescrittibilità del crimine.
Secondo il Foca, lo jus cogens non rientra nella statica ma nella dinamica del DI, essendo:
Esistono quattro livelli di profondità di intervento normativo necessario affinché una norma
internazionale diventi operativa nel diritto interno:
Operatività interna: se la norma non è stata recepita o validamente recepita, è vincolante
verso gli Stati in cui è in vigore ma non opera all’interno e anche se si tratta di una norma
inidonea al diritto interno per il suo contenuto (per esempio se si tratta di un tratto con
obblighi rilevanti solo nei rapporti tra Stati).
Applicabilità diretta: deve intervenire il legislatore per obbligare gli organi statali interni
ad applicare la norma internazionale. La norma è recepita e lo Stato può rispettare gli
obblighi da essa stabiliti verso gli altri Stati.
Azionabilità giudiziaria individuale: il legislatore può dover intervenire per dare agli
individui il diritto di far valere la norma dinanzi ai giudici interni. La norma, già
recepita e su cui vige la “diretta applicabilità” da parte degli organi interni, crea diritti e
obblighi anche per gli individui. Uno Stato può decidere autonomamente di rendere una
norma direttamente azionabile (dagli individui), anche quando in sé non lo sarebbe.
Completezza del contenuto: talvolta il legislatore può dover intervenire per completare o
specificare una norma incompleta o meramente programmatica, senza un contenuto
precettivo preciso. Si parla quindi norme “self-executing” (direttamente applicabili senza
ulteriori interventi normativi) o meno. Dato che i diritti interni sono diversi tra loro, una
norma potrebbe essere direttamente applicabile in uno e non in un altro.
Bisogna capire che rango occupano le norme internazionali rispetto a quelle nazionali. Di solito
nell’ordinamento italiano la norma internazionale viene fatta equivalere alla norma nazionale
che provvede alla sua recezione.
Dunque l’art. 10 della Costituzione rinvia in blocco a tutte le norme internazionali generalmente
riconosciute obbligando i giudici a riconoscerle ed applicarle direttamente non appena si
formano sul piano internazionale.
Quindi il compito del giudice è molto delicato, in quanto deve stabilire l’esistenza di norme,
interpretarle, ecc.
Le norme internazionali generali sono quindi di rango costituzionale e le leggi che le violino
sono da ritenersi incostituzionali. Le norme sub-legislative che contrastano con le norme generali di
DI possono essere annullate dal giudice amministrativo o disapplicate nel caso di specie dal giudice
ordinario.
Nel caso di conflitto tra norme generali di DI e norme costituzionali, la dottrina prevalente
ritiene che prevalga il DI, tranne nel caso in cui questo confligga con principi supremi della
Costituzione (es. forma repubblicana). Dunque si parla di “controlimiti” costituzionali al DI.
In alcune sentenze del passato della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione si è ritenuto
che le norme di DI generale pre-esistenti alla Costituzione prevalessero su di essa. La Corte
Costituzionale tuttavia non ha più ripreso questo criterio in tempi recenti.
Sempre la Corte Costituzionale ha ricevuto forti critiche per alcune sentenze in cui ha assunto un
ruolo di “buttafuori” di norme internazionali da lei giudicate contrastanti i principi fondamentali
della Costituzione. Secondo Focarelli, bisognerebbe accogliere inizialmente qualsiasi norma di DI
e solamente dopo porsi problemi di rango e di conflitto con i principi costituzionali supremi.
Per quanto riguardo il rango del diritto dell'UE vale l'art. 117 comma 1 Cost. emendato nel
2001. Il diritto interno incompatibile con quello UE deve essere disapplicato sia dai giudici che
dalla Pubblica Amministrazione senza sollevare la questione di legittimità se non nei casi in cui
ciò è ammesso.
Si pone il problema di incompatibilità tra diritto UE e norme costituzionali italiane,
soprattutto in materia di diritti fondamentali. Inizialmente il diritto UE non prevedeva norme a
tutela dei diritti fondamentali. In seguito però essi sono stati ricavati dalle tradizioni
costituzionali comuni degli stati membri e dai trattati che li vincolano, diventando principi
generali dell'ordinamento comunitario.
In alcune sentenze, le Corti costituzionali italiana e tedesca hanno entrambe stabilito di
rinunciare al controllo sui diritti fondamentali, fintanto che se ne occupa la Corte di
giustizia, ritenendo però di poter sindacare gli atti comunitari contrastanti con le rispettive
Costituzioni applicando la teoria dei "controlimiti".
Oggi si tiene conto dell'art 117, comma 5 della Cost emendato nel 2001, che attribuisce alle
Regioni la competenza a provvedere all'attuazione di accordi internazionali ratificati e atti
UE. La l. 131 del 2003 dispone che "le Regioni e province autonome di Trento e Bolzano nelle
materie di propria competenza legislativa, provvedono direttamente all'attuazione degli
accordi internazionali ratificati, …". Si discute sul significato di direttamente e ratificati. Il
primo sembra implicare la non necessità di un atto di recezione statale. Il secondo che
l'attuazione diretta sia esclusa dagli accordi in forma semplificata ma la Corte
costituzionale ha precisato che non è così.
L'art. 120, comma 2 della Cost specifica che lo Stato può sostituirsi alle Regioni quando le
norme e trattati internazionali non vengono rispettati oppure c'è un pericolo per l'incolumità
e la sicurezza pubblica oppure lo richiede la tutela dell'unità giuridica ed economica.
Si ritiene in dottrina che lo Stato dovrebbe limitarsi alla sola inerzia o inadempienza per non
comprimere troppo le competenze regionali.
Con riguardo al diritto dell'UE le Regioni nelle materie di competenza esclusiva danno
tempestiva attuazione alle direttive comunitarie. Inoltre le Regioni e le Provincie autonome,
nelle materie di propria competenza esclusiva provvedono al recepimento delle normative
europee, fermo restando i poteri sostitutivi dello Stato in caso di inerzia.
Ovviamente le Regioni non possono legiferare contro il DI, altrimenti violerebbero la
Costituzione (art. 117 comma 1).
GIUSTIZIABILITÀ
Quando i giudici si rifiutano di decidere un caso sostenendo che "non è giustiziabile", stanno
indebolendo il diritto. I giudici statali non di rado invocano dottrine di "astensionismo giudiziale"
per quanto riguarda il DI, che ha come risultato di dare un più ampio margine di manovra in politica
estera all'Esecutivo.
La non-giustiziabilità comprende una serie di atteggiamenti o giustificazioni dei giudici statali
diretti ad evitare e ad applicare il DI per motivi politici. Questo comportamento andrebbe
evitato, per non condurre a un diniego di giustizia e ad una violazione delle disposizioni
costituzionali e internazionali.
QUESTIONE POLITICA
La dottrina della "political question" è diretta ad evitare che i giudici statali si pronuncino su casi
che tocchino materie che si ritengono di pertinenza di organi dello Stato diversi dai giudici.
Vi sono questioni che sono competenza dell'Esecutivo e non sono sindacabili dai giudici (es.
Ratifica di un trattato, protezione diplomatica, ecc.). Tuttavia se una norma di DI vincola uno stato
gli organi statali devono rispettarla e i giudici accertare se ci sono violazioni.
ACT OF STATE
Secondo la dottrina dell'act of State, i giudici di uno Stato dovrebbero astenersi dal sindacare la
liceità internazionale o la legittimità rispetto alla Costituzione dello Stato straniero degli atti
sovrani emanati da un altro Stato che sono chiamati ad applicare in una controversia inter-
individuale, evitando poi di applicarli se illeciti.
È controverso se si tratti di una dottrina di DI. La prassi è divisa. Questa dottrina non è né imposta
né vietata dal DI. Nel complesso si tratta di un processo di diritto interno volto a non mettere in una
situazione di "imbarazzo" il proprio Governo nei rapporti con gli altri Stati.
Secondo Foca l'Act of State non deve valere e i giudici devono poter stabilire se un atto straniero sia
conforme al DI e applicabile in foro.
SEGRETO DI STATO
Anche la dottrina del "segreto di Stato" può precludere ai giudici statali di pronunciarsi su un caso
rilevante per il DI.
È difficile giustificare la dottrina del segreto di Stato, in quanto è nell'interesse dell'intera
comunità nazionale sapere che cosa faccia l'Esecutivo, quantomeno quando è accusato di
violazioni di diritti umani.
A questo proposito vi è un preoccupante atteggiamento altalenante da parte della giurisprudenza
italiana nei confronti del DI, che a volte è eccessivamente umanitario e altre volte è astrattamente
realista. Si nota una certa sottovalutazione e scarsa conoscenza del DI.
Ogni Stato, non potendo avere un potere di governo illimitato, ha un potere definito da quattro
criteri: territorialità, nazionalità, protezione, universalità.
Territorialità: ogni Stato può applicare qualsiasi legge su persone, beni ed eventi nel suo
territorio, purché conforme al DI. Secondo il DI lo Stato deve applicare sul proprio territorio
la propria legge. La stragrande maggioranza dei reati giudicati da uno Stato sono commessi
sul proprio territorio. Non tutte le leggi di uno Stato si applicano a chiunque si trovi sul suo
territorio. Agli stranieri non si applicano certi obblighi (es. Servizio militare, imposizioni
fiscali) e diritti (diritto di voto).
Il principio territoriale si è dimostrato storicamente efficiente ma a volte solleva difficoltà
quando un reato avviene in più Stati (per es. L'illecito è compiuto in uno ma provoca un
danno in un altro). In questo caso infatti i due Stati potrebbero applicare ciascuno il suo diritto
in base al principio territoriale. Nella prassi gli Stati sono favorevoli alla competenza
legislativa e giudiziaria di tutti gli Stati territorialmente connessi al caso. Può succedere
che le sentenze siano incompatibili tra loro. Talvolta si assume che l'illecito sia di carattere
continuato e la competenza sia dello Stato in sui si è protratto. In alcuni casi si è supposto
che un atto fosse territoriale anche quando non lo era fisicamente ma aveva ripercussioni nel
territorio di uno Stato (prassi comune soprattutto negli Stati Uniti). In passato questa teoria
era fortemente contestata, oggi sembra essere accolta nei limiti in cui riflette il criterio
territoriale oggettivo localizzando gli eventi (effetti) dannosi nel foro.
Internet pone numerosi problemi in quanto un illecito può produrre effetti ovunque nel
globo. Di regola esercitano la giurisdizione lo Stato da cui parte l'illecito e lo Stato dove si
verifica l'effetto. Pur trattandosi di uno spazio virtuale si cerca di farlo coincidere con uno
spazio reale.
In alcuni casi i giudici hanno ingiunto al provider di impedire l'accesso al messaggio nello
Stato del foro piuttosto che cercare di eliminare il messaggio.
Nazionalità: quando uno Stato esercita la sua autorità a prescindere dal un nesso
territoriale si parla di "giurisdizione extraterritoriale".
o Nazionalità attiva: lo Stato applica le proprie leggi a chi commette un illecito in
un altro Stato e potrà richiedere l'estradizione se prevista da un trattato. È
stabilito dal DI consuetudinario.
o Nazionalità passiva: lo Stato applica le proprie leggi a chi subisce un illecito
all'estero, in pratica si evita a meno di casi molto gravi, come l'omicidio. Talvolta
contestato, è spesso invocato per i casi di vittime di atti terroristici rimasti impuniti
avvenuti in paesi esteri terroristici. Questo è spesso previsto dai trattati e non è
chiaro se si tratti di una consuetudine.
Protezione: Gli Stati di solito rivendicano il diritto di applicare la propria legislazione a
fatti compiuti all'estero da stranieri per difendere i propri interessi vitali ed essenziali
(es. contraffazione della propria valuta, traffico di stupefacenti, immigrazione illegale). La
giurisdizione quasi-universale è prevista da trattati, di solito in materia di terrorismo,
traffico di stupefacenti e corruzione. Non è chiaro quali siano gli "interessi essenziali",
quindi tale criterio si presta ad essere manipolato.
Universalità: Alcuni reati gravi si ritiene che siano soggetti alla giurisdizione di tutti gli
Stati. La giurisdizione universale non va confusa con la giurisdizione extra-territoriale o
extra-personale, né con la "quasi universalità".
GIURISDIZIONE ESECUTIVA
La giurisdizione esecutiva , a differenza di quella legislativa e giudiziaria, si può applicare solo sul
proprio territorio o eccezionalmente in altri Stati ma con il loro consenso. In mancanza di
questo, va seguito la procedura sull'estradizione.
Se si esegue una "penetrazione non autorizzata" nel territorio di uno Stato da parte di agenti di un
altro (extraordinary rendition o abduction) per compiere un arresto si viola il diritto locale e il DI.
La giurisprudenza è divisa in merito a se sia legittimo processare nello stato cattore una persona
catturata in violazione di sovranità.
SPAZI TERRESTRI
Occorre stabilire i confini, all’interno dei quali uno Stato esercita la sovranità e giurisdizione
territoriale, intesa come potere coercitivo esclusivo.
Il confine di regola è stabilito con un trattato, ma talvolta anche con sentenza arbitrale, decisione di
una Commissione ad hoc, per risoluzione del CdS ONU.
Sul terreno è demarcato per mezzo di cippi, reti e simili. Sui fiumi si ricorre alla regola del
thwaleg (linea di massima navigabilità), oppure la linea mediana nei fiumi non navigabili. Nei
laghi di frontiera la linea mediana, per le catene montuose di confine la linea spartiacque o che
unisce le vette più alte.
L’unica norma di DI in materia di confini è il c.d. principio uti possidetis, per cui gli Stati
decolonizzati devono mantenere i confini che la madrepatria aveva stabilito quando erano
colonie.
Questo principio è stato applicato inizialmente dagli stati latino-americani, poi da quelli Africani. In
tempi più recenti è stato applicato anche per la dissoluzione della Jugoslavia, quindi non in un caso
di decolonizzazione. Questo principio è volto non solo a confermare i confini precedenti, ma
anche ad assicurare il rispetto dei confini stabiliti a prescindere dalla volontà popolare dei nuovi
Stati (in questo senso potrebbe trovarsi in tensione con il diritto di autodeterminazione dei popoli).
Sulla base di questa prassi, oggi si ritiene che il principio non solo faccia parte del DI generale, ma
che sia applicabile anche ad altre ipotesi oltre che a quella di decolonizzazione.
In caso di isole o zone di confine contese tra due Stati, la Corte internazionale di giustizia ha più
volte affermato la prevalenza del possesso di un titolo giuridico sull’effettività, a meno di
acquiescenza dello Stato alla situazione effettiva (es. controversia territoriale e marittima tra
Nicaragua e Colombia in cui isole del Nicaragua sono state riconosciute come di proprietà della
Colombia per acquiescenza del N. alla sua effettività).
SPAZI MARINI
.
FIUMI E CANALI INTERNAZIONALI
Fiumi e canali internazionali sono acque interne ma particolari.
I fiumi appartengono alle acque interne dello Stato attraversato e sono regolati da trattati erga
omnes che sanciscono il principio di libera navigazione per qualsiasi Stato (non presente nel DI
consuetudinario).
In passato presentavano essenzialmente problemi di navigazione, oggi anche altri (es. ripartizione
acque a monte e a valle).
I canali internazionali all’interno di uno Stato ma che collegano due parti di alto mare sono
regolati da trattati (es. Suez, Panama, Kiel) e stabiliscono la libera navigazione di tutti gli Stati.
MARE TERRITORIALE
Lo stato costiero esercita sul mare territoriale (fascia di mare adiacente alla costa che comprende
suolo, sottosuolo e acqua) la stessa sovranità che esercita sulla terraferma per il solo fatto di
esercitare la sovranità sulla costa (non richiesta effettività).
Secondo la convenzione di Montego Bay il limite esterno massimo del mare territoriale è di 12
miglia nautiche (22,22 km) dalla costa.
Il limite esterno si misura a partire dal limite interno che si fa corrispondere alla linea di bassa
marea, quindi segue le curve della costa.
Per le coste particolarmente frastagliate si attua il metodo delle linee rette, che consiste nel
tracciare linee che colleghino i punti più sporgenti, senza distaccarsi troppo dalla forma effettiva
della costa. Si tratta di una consuetudine che però ha suscitato perplessità.
Le baie possono essere considerate tali se hanno dimensioni maggiori di un semicerchio che ha
come diametro la distanza tra le sue aperture. Regola delle 24 miglia: la linea di base deve
essere di massimo 24 miglia.
La linea di base non può superare le 24 miglia. In caso di ampiezza maggiore della baia, va
tracciata una linea retta di 24 miglia che comprenda più spazio possibile (la linea arretra).
Le regole del semicerchio e delle 24 miglia non si applicano:
- Quando la linea di base viene tracciata col metodo delle linee rette
- Quando si tratta di “baie storiche” su sui lo Stato ha esercitato per lungo tempo la
sua giurisdizione con acquiescenza degli altri stati.
Alcuni stati hanno preteso di voler chiudere baie vitali per i loro interessi economici o militari, ma
la loro rivendicazione non ha trovato riscontro nel DI.
Quando le coste di due stati si fronteggiano o sono adiacenti, nessuno dei due può estendere il
proprio mare territoriale oltre la linea mediana equidistante dalle rispettive linee di base, a meno
che non vi siano circostanze speciali per cui è necessario delimitare il mare territoriale in altro
modo.
Nel mare territoriale vige l’obbligo di permettere il passaggio inoffensivo delle navi straniere e il
divieto di giurisdizione sulle navi straniere transitanti.
Passaggio inoffensivo: diritto riconosciuto da lungo tempo per non recare danno al commercio
internazionale e costringere le navi ad allungare le proprie rotte. Vale per le navi commerciali, le
navi da guerra e i sottomarini che navighino in emersione e mostrino la bandiera. Il passaggio
deve essere continuo e rapido ed inoffensivo. Nel caso in cui il passaggio sia offensivo, lo stato
costiero può adottare misure come l’invito a lasciare le acque territoriali o il fermo. Il diritto di
passaggio inoffensivo può essere sospeso dallo stato costiero per ragioni di sicurezza.
Lo stato straniero non può esercitare la giurisdizione su navi straniere da guerra e altre navi di stato
non commerciali né su navi straniere per fatti puramente interni.
La giurisdizione penale non dovrebbe essere esercitata su persone a bordo di navi straniere.
Lo Stato costiero non dovrebbe nemmeno fermare o dirottare una nave straniera per esercitar e la
giurisdizione civile.
La zona economica esclusiva, stabilita dalla CMB, corrisponde allo spazio marino che si estende
dalla linea di base del mare territoriale fino a 200 miglia marine (370,4 km), quindi include la
zona contigua ma non il mare territoriale. In questa zona lo Stato esercita diritti sovrani esclusivi
per lo sfruttamento delle “risorse naturali, biologiche o non biologiche, delle acque sovrastanti il
fondo del mare, del fondo del mare e del sottosuolo”. Dunque è venuta meno la tradizionale liberta
di pesca in alto mare.
Nella zona economica esclusiva lo Stato ha “diritti sovrani” esclusivi e funzionali di sfruttamento
di tutte le risorse biologiche e minerarie.
Restano per gli altri Stati le libertà di navigazione e sorvolo e di posa di condotte o cavi
sottomarini. Diversi Stati hanno invocato il diritto di impedire la navigazione nella zona economica
esclusiva a Stati stranieri, nella misura in cui questa ostacola l’esercizio dei loro poteri.
Per gli Stati svantaggiati dalla CMB (no litorale), è previsto il diritto di partecipare su basi eque
ad una parte adeguata delle eccedenze delle risorse della zona economica esclusiva della stessa
regione tramite accordo.
Recentemente nella prassi c’è la tendenza ad istituire “zone protezione ecologica”, come stabilita
dalla CMB, che parte dal limite del mare territoriale fino a un limite determinato sulla base di
accordi con gli Stati interessati (adiacenti o frontisti). In tali zone lo Stato esercita la propria
giurisdizione in materia di protezione e preservazione dell’ambiente marino, compreso il
patrimonio archeologico e storico (questi ultimi due punti solo in conformità con la Convenzione
UNESCO del 2001 e non con la CMB, che stabiliva a tal scopo la zona archeologica). La legge non
si applica alla pesca.
STRETTI INTERNAZIONALI
Negli stretti internazionali (contrazioni del mare tra due terre emerse di limitata largezza
costituenti una naturale via di passaggio tra due parti più vaste di mare) vige il “diritto di
passaggio in transito” (che non può essere sospeso), che rispetto al diritto di passaggio inoffensivo
del mare territoriale (che può essere sospeso) prevede in più il diritto di sorvolo aereo e di
transito dei sottomarini in immersione.
STATI ARCIPELAGICI
La CMB stabilisce un regime marittimo speciale per gli Stati arcipelagici, ovvero “Stati
interamente (e quindi non Stati come Spagna e Portogallo che hanno le Azzorre e le Baleari),
costituiti da uno o più arcipelaghi ed eventualmente da altre isole”. Un arcipelago è un gruppo di
isole, le acque comprese e altri elementi naturali interconnessi che formano un unico insieme
geografico, economico e politico (es. Filippine, Indonesia, Figi, Mauritius). Ci sono regole per
stabilire le linee di base che congiungono i punti estremi delle isole più esterne.
Nelle acque racchiuse tra le linee di base arcipelagiche lo Stato esercita la sua sovranità.
Vige inoltre il diritto di passaggio inoffensivo (sospendibile) e il diritto di passaggio
arcipelagico (simile a quello di passaggio in transito) per le rotte normalmente usate per la
navigazione internazionale.
MARE INTERNAZIONALE
Al di là degli spazi marini sottoposti alla giurisdizione dei singoli Stati si estende il mare
internazionale, in cui vige per tutti gli Stati (anche se privi di costa) la libertà di navigazione, di
posa condotte e cavi, di pesca, di sorvolo, di costruzione di installazioni artificiali e di isole e di
ricerca scientifica. Ogni Stato deve rispettare la libertà altrui.
L’unica eccezione sono le navi di bandiera, in cui sul mare internazionale ha giurisdizione
esclusiva lo Stato in cui la nave è stata immatricolata. La giurisdizione viene esercitata attraverso il
comandante o le navi da guerra dello stato nazionale.
La CMB prevede la sussistenza di un legame effettivo tra la nave e il suo stato di immatricolazione,
nel senso che lo stato della bandiera non può essere meramente formale (fenomeno delle bandiere
ombra). Del resto il legame effettivo è richiesto come requisito per l’immatricolazione dal DI, ma
non è chiaro quali siano le conseguenze nel caso in cui uno stato accordi la propria bandiera ad
una nave in assenza di tale legame. Ci si aspetterebbe che in questo caso venga meno la validità
internazionale dell’immatricolazione, ma la prassi invece fa esattamente il contrario, distinguendo
la nazionalità fittizia (giurisdizione statale ammessa) dall’a-nazionalità (giurisdizione statale non
ammessa).
Eccezioni al principio di libertà del mare internazionale (la nave può essere visitata e catturata da
navi straniere):
- Pirateria: è considerato pirateria:
ogni atto illecito a fini privati commesso da una nave (equipaggio o
passeggeri) o un aeromobile privato ai danni di un’altra nave (persone e beni
trasportati) in alto mare o comunque fuori dalla giurisdizione di qualsiasi
stato
Ogni atto di partecipazione volontaria ad attività volte a rendere la nave
pirata
Ogni azione che faciliti o inciti il verificarsi dei due punti precedenti
Dunque la violenza a fini pubblici, commessa da navi di stato, coinvolgente una
singola nave o aeromobile o attuata in acque territoriali o interne di uno stato
NON è pirateria.
Poiché i pirati commettono crimini a fini privati su navi senza bandiera e non
scelgono le loro vittime sulla base della loro nazionalità, sulla pirateria vige la
giurisdizione universale, quindi tutti gli stati possono catturare e processare i pirati.
La pirateria è tornata in auge in tempi recenti soprattutto al largo della Somalia e per
combatterla la CIG ha autorizzato l’uso della forza e l’esercizio di poteri di polizia in
acque territoriali e territorio somalo. Gli stati occidentali hanno catturato alcuni
pirati, ma li hanno fatti processare a stati terzi. Dal 2013 la pirateria somala è
considerevolmente diminuita.
- Sospetta pirateria, sospetta tratta di schiavi, sospetta a-nazionalità, sospetto uso
fraudolento di bandiera straniera: CG e CMB ammettono il diritto di visita da
parte di navi da guerra a bordo di navi sospettate di essere impegnate in pirateria o
tratta di schiavi, di non avere bandiera o, pur essendo della stessa nazionalità della
nave da guerra, di rifiutarsi di esibirla o di esibirne una straniera. L’equipaggio può
controllare i documenti e in caso di permanenza dei sospetti procedere con indagini
a bordo, ma non può sequestrare la nave o processare l’equipaggio, può solo
informare lo Stato della nave visitata. Se i sospetti dovessero rivelarsi infondati, la
nave fermata ha diritto ad indennizzo.
- Trasmissioni non autorizzate in alto mare: la CMB prevede l’arresto
dell’equipaggio e il sequestro dell’attrezzatura di navi che emettano trasmissioni
radiofoniche o televisive non autorizzate. Esiste inoltre un diritto di visita delle navi
sospettate di trasmissione non autorizzata.
- Contrabbando di guerra in tempo di pace: una parte della dottrina ritiene che
siano possibili visita e cattura a bordo di una nave che trasporti armi o armati in aiuto
degli insorti di un altro Stato, ma la CMB non si occupa di questo caso.
- Inquinamento (o minaccia di inquinamento) grave al litorale derivante da incidente
avvenuto nel mare internazionale: CMB ammette il potere di d’intervento in alto
mare su navi altrui per cercare di evitare o attenuare danni alla costa derivanti da un
incidente ecologico.
- Diritto di inseguimento: secondo DI consuetudinario e CMB, le navi da guerra o
adibite a servizi pubblici dello stato costiero possono inseguire una nave straniera
che abbia violato le sue leggi, a condizione che l’inseguimento sia preceduto da
intimazione di fermarsi, sia iniziato nelle acque in cui lo stato ha giurisdizione per
violazione di diritti che lo Stato possiede in tali zone e sia continuo e non
interrotto.
Una volta fermata (anche con l’uso della forza, purché necessario e proporzionato),
sulla nave si possono esercitare i poteri esercitabili nella zona marina di inizio
dell’inseguimento. Il diritto di inseguimento cessa una volta che la nave entra in
acque territoriali di un altro stato.
La CMB accoglie la “teoria della presenza costruttiva”, per cui se una nave in alto
mare partecipa ad illeciti di altre navi che si trovano sul mare territoriale (es.
trasbordo di persone o merci illegali) può essere catturata e inseguita dallo stato
costiero a partire dal mare internazionale.
CMB prevede che uno stato che ritenga in maniera fondata che una nave battente la
sua bandiera sia coinvolta in traffico di stupefacenti o sostanze psicotrope possa
chiedere aiuto agli altri stati, che devono cooperare per reprimere il traffico
illecito. Non esistono norme che ammettano visita e cattura in alto mare di una nave
altrui per traffico di stupefacenti presumibilmente destinati allo stato cattore.
SPAZIO AEREO
La sovranità esercitata da uno Stato sul territorio viene esercitata anche sullo spazio aereo
soprastante. Vi sono due principi analoghi alla navigazione marittima:
libertà di sorvolare negli spazi soprastanti a spazi non sottoposti a sovranità Statale
potere dello Stato del sorvolo nello spazio sovrastante il suo territorio e il suo mare
territoriale
In base al secondo principio, uno Stato può regolare come crede il sorvolo e le rotte degli aerei
stranieri, ma non la loro “vita di bordo”, che è sotto la giurisdizione dello Stato della bandiera.
Di fronte a trasgressione lo Stato può prendere provvedimenti, che non includono ovviamente
l’abbattimento di aerei civili. L’ICAO (International Civic Aviation Organization), istituita dalla
Convenzione di Chicago nel 1944, stabiliva questi principi.
Con lo sviluppo della tecnologia e della velocità degli aerei, a partire dagli anni 50 furono stabilite
zone di “identificazione aerea”, in deroga al primo principio, estese fino a centinaia di miglia dalla
costa, con obblighi di identificazione a carico degli aerei stranieri, la cui violazione poteva
comportare l’intercettazione in volo, l’atterraggio e se necessario l’abbattimento.
SPAZIO COSMICO
Lo spazio cosmico è situato al di sopra dello spazio aereo. Dall’inizio della corsa allo spazio fu
chiaro che lo spazio cosmico era sottoposto al regime di libertà di esplorazione da parte di
qualsiasi stato, come stabilito dall’ONU. Il limite tra spazio areo e cosmico è giuridicamente
rilevante, ma, nonostante anni di discussioni, non si è arrivati a un punto di convergenza sul
problema della sua delimitazione.
Nel 1967 fu firmato un trattato tra USA e URSS che regolava le attività degli Stati nello spazio
extra-atmosferico e prevedeva che, in quanto “provincia dell’intera umanità”, non poteva essere
sottoposto a sovranità nazionale, né utilizzato a fini militari, imponeva l’aiuto agli astronauti,
inviati dell’umanità, in caso di avaria o atterraggio forzato e altri obblighi.
Seguirono ulteriori convenzioni nei decenni a venire.
Lo spazio cosmico è usato per le radio-telecomunicazioni. Si è stabilito che le frequenze (essendo
limitate) dovevano poter essere utilizzate da tutti e da tutti doveva poter essere usata l’orbita
geostazionaria (situata a 36.000 km dalla Terra), utilizzata per le trasmissioni satellitari, nonché la
tele-osservazione.
Il principio dell’equa ripartizione delle frequenze è sancito dall’ITU, Unione Internazionale delle
Telecomunicazioni. In passato si seguiva il principio “first come, first served”. Chi si appropriava
per primo di una frequenza e posizione geostazionaria poteva utilizzarla senza interferenze altrui.
Questo principio è stato criticato dai paesi in via di sviluppo, che non possedevano le tecnologie
necessarie, in quanto non garantiva un equo accesso allo spazio cosmico a tutti gli Stati. Si è
stabilito dunque un regime di pianificazione a priori di tali frequenze e posizioni, che ha posto il
problema dei satelliti sulla carta, per cui certi Stati non usano le posizioni orbitali assegnategli,
sottraendole così agli altri. La pianificazione a priori vale solo per alcuni satelliti, per il resto vale
ancora il principio “first come, first served”.
Nuovi problemi sono posti dal turismo cosmico e dalla commercializzazione dello spazio (es.
giurisdizione statale, responsabilità dei privati, ecc). Si ritiene che i trattati esistenti, conclusi
durante la guerra fredda, siano oramai totalmente inadeguati.
REGIONI POLARI
Consiste di ghiacci mobili sotto i quali possono navigare i sottomarini. Per questa ragione e per le
risorse sui suoi fondali la regione ha un rilievo strategico. A differenza dall'Antartide è popolata da
indigeni (4 milioni). È stata oggetto di rivendicazioni indipendenti dall'effettività. Ora attrae
piùinteresse a causa dei fenomeni di deglaciazione.
La Groenlandia è sotto la sovranità della Danimarca. La Norvegia ha rivendicato le isole
Spitzbergen e altre isole. Canada e Unione Sovietica hanno rivendicato dei settori del circolo polare,
contigue ai loro territorio e con il vertice il polo nord. Tale "teoria dei settori" è stata contestata
dagli altri Stati artici e comunque non è valida per ineffettività dell'occupazione. Dunque l'Artide va
considerata alla stregua dell'alto mare, e sottoposta quindi al regime di libera navigazione.
ANTARTIDE
A differenza dell'Artide, si tratta di un vero e proprio continente con risorse naturali ma privo di
popolazione. Vi sono state sette rivendicazioni: Argentina, Australia, cile, Francia, Norvegia,
Nuova Zelanda e Regno Unito. Inoltre USA e Russia hanno asserito di avere una "base per una
pretesa". Non potendo esserci un criterio dell'effettività, viste l'impossibilità di un insediamento
umano, I titoli di rivendicazione variano dalla scoperta (Fr e UK), alla prossimità o contiguità
geografica (Arg. E Cile), all'occupazione simbolica e alla "teoria dei settori" come in Artide.
Secondo questa, ogni Stato rivendica una superficie equivalente ad un triangolo con il vertice nel
polo sud e gli altri due sul sessantesimo parallelo. Tali rivendicazioni sono solo riconosciute dai
"claimant states" (ad eccezione delle sovrapposizioni dei settori britannico, cileno e argentino) , e
hanno incontrato numerose contestazioni.
Nel 1959 fu firmato il trattato di Washington, vincolante 53 Stati (tra cui I claimant e I membri
permanenti del CdS ONU). Il trattato sospende le pretese di sovranità e le contestazioni, prevede
inoltre la demilitarizzazione (no basi nucleari, fortificazioni, manovre e esperimenti nucleari) e
denuclearizzazione (no esposizioni nucleari e materiale radioattivo), libertà di ricerca scientifica
(previa notifica), cooperazione scientifica e controllo da parte degli scienziati e osservatori del
rispetto del Trattato.
I 53 Stati si dividono in "parti consultive" e "parti contraenti". Un ruolo privilegiato è occupato
dalle prime (oggi 29), a loro volta composte dai 12 Stati firmatari e dagli altri che conducono
attività di ricerca scientifica. Le Parti consultive si riuniscono periodicamente e, al fine di far
rispettare il trattato, hanno diritto di designare osservatori che conducono ispezioni. Inoltre possono
deliberare atti vincolanti.
Il Trattato di Washington è stato completato dal altri accordi, come il "protocollo di Madrid per la
salvaguardia dell'ambiente antartico" del 1991. Esso integra il trattato e impegna le parti a
salvaguardare la regione e vieta le attività non scientifiche di estrazione mineraria per 50 anni.
Al termine dei 50 anni ogni Parte Consultiva potrà richiedere un riesame e potranno allora essere
adottate norme di sfruttamento minerario. Il trattato istituisce un Comitato di protezione ambientale
composto dai rappresentanti di tutti gli Stati contraenti.
In ogni caso il Trattato è efficace solo per gli Stati contraenti e vale il principio della libertà di
utilizzazione nel rispetto della libertà altrui.
IMMUNITÀ DEI CAPI DI STATO, DEI CAPI DI GOVERNO E DEI MINISTRI DEGLI ESTERI E DI ALTRI
ORGANI STATALI DI RANGO ELEVATO
Corpi di truppa operanti all'estero durante occupazione bellica o in missioni multinazionali ONU
Esistono accordi che prevedono la giurisdizione concorrente o esclusiva dello Stato di invio.
L'esistenza di norme di DI consuetudinarie sull'immunità da Stati altri a quello di invio è incerta.
Nella sentenza Lozano del 2007 (relativa all'uccisione del soldato Calipari da parte di un soldato
statunitense) la Corte d'assise di Roma ha escluso la giurisdizione italiana, applicando il principio di
bandiera (giur. Esclusiva dello Stato di invio), ritenuto corrispondente a una norma consuetudinaria
e previsto dai SOFAs conclusi tra l'ONU e gli Stati che hanno accettato le missioni di peace-
keeping. Però questi non corrispondono necessariamente alla consuetudine, né si applicano ai
rapporti tra i diversi contingenti della missione. La sentenza Lozano 2008 della Corte d'Assise ha
rigettato la sentenza della Corte d'Assise ma ha comunque escluso la giurisdizione italiana in base a
una presunta norma di DI consuetudinario, secondo la quale i militari sono organi dello Stato e sono
coperti da immunità funzionale.
Nella vincenda Enrica Lexie (marò) secondo Foca e secondo gli indiani la giurisdizione indiana
prevale e i militari italiani non hanno immunità funzionale in quanto hanno agito a titolo personale e
non per ordine di un comandante.
Il problema è delicato nelle controversie di lavoro dei dipendenti locali presso ambasciate o
istituti di Stati esteri: garantendo a queste l'immunità si incide sui diritti fondamentali dei
lavoratori. L'Italia considera le mansioni svolte dal lavoratore per garantire o meno allo Stato
estero l'immunità, ma non è chiaro se queste siano jure imperii o jure gestionis. . Per il criterio
"in dubio pro imunitate", l'immunità viene riconosciuta anche quando le mansioni dei
lavoratori sono molto labilmente assimilabili a funzioni sovrane (bibliotecari, addetto alla
rassegna stampa, usciere ecc.).
La Corta di Cassazione ha iniziato ad ammettere l'esercizio della giurisdizione solo per aspetti
patrimoniali del rapporto di lavoro.
L'Italia dunque tendenzialmente esclude l'immunità (anche a soggetti int. come Santa Sede e
Ordine di Malta) quando si tratta di funzioni ausiliarie e quando la domanda riguarda aspetti
patrimoniali, ma ci sono comunque incogruenze.
La Convenzione di New York prevede l'immunità quando il contratto di lavoro implica
l'esercizio del potere di governo e quando il lavoratore è cittadino dello Stato datore di lavoro,
ma esclude l'immunità quando il lavoratore vive permanentemente nel territorio dello Stato
locale.
Lo Stato straniero può sempre rinunciare all'immunità e sottoporsi alla giurisdizione dello Stato
territoriale.
Un problema rilevante (che ci siamo già posti per gli organi stranieri) è se lo Stato possa godere
di immunità anche quando ha violato diritti umani fondamentali. Nel 2004 l'Italia con la
sentenza Ferrini ha negato l'immunità alla Germania alla richiesta di risarcimento da parte di un
cittadino deportato, in quanto la Germania aveva commesso gravi violazioni dei diritti umani
appartenenti allo jus cogens. La Cassazione ha mantenuto questa posizione relativamente
all'immunità tedesca in altre 13 ordinanze, rimanendo però isolata a livello internazionale. La
dottrina italiana ha comunque difeso l'orientamento della Cassazione incoraggiandola a
proseguire.
Secondo il Foca la norma sul diniego dell'immunità non esiste, benché ciò potesse apparire
ingiusto, né potesse essere estratta da un generico valore. Il caso Ferrini può considerarsi un
caso di scuola in cui i giudici di no Stato tentano di trasformare il DI consuetudinario
violando il DI vigente (che sono tenuti ad applicare) e per farlo devono poter invocare principi
costituzionali di rango superiore, con la speranza che vengano accolti dalla generalità degli
Stati e diventino diritto consuetudinario. Era normale però aspettarsi la sentenza della CIG, che
non ha il diritto di imporre a tutti gli Stati le nuove tendenze del DI, ma statuire il diritto vigente
in questo momento (che in questo caso non è controverso o dubbio). La giurisprudenza Ferrini
può ancora operare da guida per i giudici di altri Stati, ma quel che conta è circoscrivere
l'eccezione umanitaria a specifici crimini commessi oggi o in futuro, non punendo crimini
passati, tanto meno di un unico Stato, dato che ogni Stato ne ha commessi.
Con la sentenza n. 238/2014 la Corte Costituzionale ha annullato per contrasto con gli art.. 2 e
24 Cost. le norme di recezione della sentenza CIG, permettendo ai processi di riprendere.
Questa sentenza costituisce un pericoloso atto di disobbedienza alla CIG che apre una breccia
nel DI e viola il principio di buona fede nelle relazioni tra Stati, un rafforzamento di
unilateralismo travestito da umanitarismo. La violazione del DI a fini trasformativi è
plausibile in mancanza di un accertamento di un giudice internazionale, non dopo.
Una parte della prassi ha sostenuto che tale illecito costituisca una contromisura, una risposta
illecita a un illecito altrui. Appare singolare che i giudici statali possano adottare contromisure,
che si addicono solitamente all'esecutivo.
In ogni caso rimane il problema nel diritto interno italiano di conflitto tra la norma
internazionale recepita dall'art.10 cost. e il diritto di tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24
cost.
PERSONA UMANA
(CAPITOLO V)
Il valore ultimo del sistema globale è la protezione umana. Il DI moderno ha attinto al diritto
naturale, universale e valevole per ogni individuo. Benché non sia ammesso come fonte di diritto
dalla generalità degli Stati, la funzione di governo dell’umanità ne è un riflesso. Nonostante le
norme di DI delimitino i rapporti tra gli Stati inter se e non direttamente il comportamento nei
confronti degli individui, in realtà sono indispensabili proprio alla protezione ultima della persona
umana in quanto assicurano una struttura politica globale, fondamentale per un governo
dell’umanità.
Nel DI del 16esimo-17esimo secolo l’individuo era protetto da norme specifiche solo se straniero.
Non c’erano vincoli internazionali verso i propri sudditi ne verso gli apolidi. Oggi invece
l’individuo viene protetto a prescindere dalla cittadinanza e le norme sui diritti umani sono più
importanti di quelle sugli obblighi verso i cittadini stranieri, che vengono applicate solo quando
non trovano applicazione le prime.
Gli Stati sono più inclini a far valere la violazione all’estero di norme sul trattamento dei loro
cittadini piuttosto che violazione di diritti umani e in passato rappresentavano la maggior parte del
contenzioso internazionale, ma ultimamente sono in declino.
PROTEZIONE DIPLOMATICA
Uno Stato può intervenire in “protezione diplomatica” se un altro Stato tratta un suo cittadino in
violazione delle norme sul trattamento degli stranieri, chiedendo un risarcimento, il ricorso
all’arbitrato o ad altri mezzi, oppure adottando contromisure.
Della protezione diplomatica si è occupata la Commissione del diritto internazionale con un
Progetto di articoli del 2006.
Il titolare del diritto di protezione diplomatica è lo Stato, perché si ritiene che un danno a un
cittadino equivalga ad un danno al suo Stato, e non l’individuo, che è solo un beneficiario di
fatto. Lo Stato per ragioni di opportunità politica potrebbe anche rinunciare alla protezione
diplomatica di un suo cittadino.
Oggi tuttavia, si tende a considerare la protezione diplomatica sì uno strumento inter-statale, ma
volto a rendere effettivi diritti individuali. Il Progetto non si pronuncia in merito a chi sia il
titolare del diritto, ma precisa che vedere nel danno allo straniero un danno al suo Stato ignora il
fatto che il danno sia causato direttamente all’individuo.
Apparentemente a favore della titolarità del diritto alla protezione diplomatica è la clausola Calvo,
presente nei contratti di concezione stipulati dagli stati con cittadini o società straniere. La clausola
prevede la rinuncia da parte dello straniero alla protezione diplomatica e la competenza esclusiva in
caso di controversia dei giudici locali. Tuttavia, questa clausola non può avere l’effetto di
impedire ad uno Stato di agire in protezione diplomatica, in quanto si tratta di un diritto dello
Stato e non dell’individuo, che dunque non può rinunciare a un diritto che non ha.
Vi è un dibattito circa il rapporto tra universalità dei DU e diversità culturale: i diritti umani
devono essere imposti in blocco a tutti gli stati e sopprimendo le diversità culturali o bisogna far
prevalere la diversità culturale, ammettendo però pratiche locali difficili da tollerare? Secondo
marxisti e terzomondisti i DU sono uno strumento ideologico dell’Occidente per dominare
culturalmente e militarmente il resto del mondo. Secondo altri invece, i DI sono qualcosa di
universalmente insito in ogni essere umano, indipendentemente dalla sua cultura di appartenenza.
Il problema è comunque politologico, al DI interessa solo capire se esistono norme tramite la teoria
delle fonti.
DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI DEL 1948 E PATTI DELLE NAZIONI UNITE
DEL 1966
Le disposizioni sui diritti umani contenute nella Carta delle Nazioni Unite sono poche e molto
generiche, perché si riteneva che la tutela dei cittadini fosse di competenza interna. Dunque le
poche norme presenti sono solo strumentali al mantenimento della pace tra gli Stati.
Sulla base delle norme sui DI della Carta venne adottata nel 1948 la Dichiarazione Universale sui
diritti umani, che non è giuridicamente vincolante, ma si ritiene corrisponda al DI consuetudinario.
Dopo la Guerra Fredda questa fu ribadita nella Dichiarazione e Programma d’azione di Vienna
(1993), anch’essa non vincolante.
Solo nel 1966 vennero adottate due norme di carattere pattizio giuridicamente vincolanti:
- Patti sui diritti civili e politici
- Patti sui diritti economici, sociali e culturali
Con questi Patti gli stati contraenti (oggi 168 e 164) si impegnano a garantire i diritti ai cittadini
che si trovano sul loro territorio e sono sottoposti alla loro giurisdizione, ma in realtà i Patti si
applicano anche ad atti compiuti fuori dal territorio nazionale, purché sotto il controllo effettivo
di uno Stato contraente.
Nel patto sui diritti civili e politici, ma non in quello sui diritti economici, sociali e culturali, è
presente una clausola di deroga ai diritti sanciti dal patto (eccetto alcuni) in caso di situazione di
pericolo per lo Stato e minaccia alla sua esistenza. La Turchia ad esempio ha fatto ricorso a questa
clausola in seguito al colpo di Stato del 15 luglio 2016.
I due patti contengono norme:
Sostanziali: sanciscono diritti fondamentali come autodeterminazione dei popoli, diritto
alla vita, divieto della tortura e della schiavitù, diritto ad equo processo, ecc.
Procedurali: disciplinano i meccanismi di controllo, di cui si occupano il Comitato dei
diritti umani (previsto dal Patto sui diritti civili e politici) e il Comitato sui diritti sociali,
economici e culturali (non previsto da nessun Patto, ma creato lo stesso dal Consiglio
economico e sociale). Il Comitato sui diritti sociali, economici e culturali ha competenza a
ricevere comunicazioni sia da individui che da Stati.
I meccanismi di controllo sfociano in decisioni che non sono vincolanti ma hanno
comunque un peso per l’immagine degli Stati e sono di tre tipi:
- Rapporti periodici: rapporti che gli Stati contraenti devono presentare al Segretario
generale ONU, che poi li invia ai due Comitati. Questi formulano commenti generali
sui rapporti, che vengono poi trasmessi agli Stati, ma non sono rivolti a Stati
specifici né vincolanti. I commenti sono spesso usati a fini interpretativi o per
registrare linee di tendenza.
- Ricorsi interstatali: uno Stato contraente può presentare ai Comitati ricorsi contro
un altro Stato contraente, accusandolo di aver violato i Patti, purché entrambi gli
Stati abbiano riconosciuto la competenza del Comitato. Questo può redigere un
rapporto non vincolante indirizzato agli Stati ed eventualmente sottoporre la
questione ad una Commissione di conciliazione, se le parti acconsentono.
- Comunicazioni individuali: anche gli individui possono presentare comunicazioni
ai due Comitati contro Stati contraenti (che abbiano accettato la competenza dei
Comitati) accusati di aver violato uno dei due Patti. I Comitati possono formulare
considerazioni non vincolanti indirizzato allo Stato accusato e all’individuo.
Tra gli altri organi ONU che si occupano di diritti umani vi è il Consiglio per i diritti umani,
istituito nel 2006 dall’Assemblea Generale. È stato criticato il fatto che ne farebbero parte Stati che
violano sistematicamente i diritti umani. Il compito del Consiglio è di procedere ad un controllo
universale periodico attraverso informazioni oggettive e affidabili e la cooperazione con lo Stato
controllato circa il rispetto dei DU. Su segnalazione di altri Stati o di ONG, il Consiglio può
procedere a verifiche, anche in loco, di eventuali violazioni dei DU, e nel caso redige un
rapporto non vincolante. Nel 2008 il Consiglio ha ravvisato violazioni dei DU da parte di Israele per
operazioni militari condotte in Palestina, ricevendo critiche per non aver tenuto conto degli attacchi
lanciati al territorio israeliano da Hamas, che avrebbero giustificato la reazione di Israele.
Accanto ai due Patti, che si occupano di DU in generale, sono stati conclusi numerosi altri trattati
sempre a vocazione universale, ma con carattere settoriale, perché si occupano di specifici
diritti fondamentali (es. tortura, discriminazione razziale, genocidio, apartheid, ecc). Anche molti
di questi trattati hanno istituito comitati di controllo, tuti composti da persone che risiedono a titolo
individuale (non dipendono dai governi) e con poteri non vincolanti.
Con riguardo alla Convenzione contro la tortura del 1984, l’Italia ha finalmente introdotto il
reato specifico di tortura, la cui assenza nell’ordinamento ha in passato obbligato i giudici a
punire abusi molto gravi con pene previste per reati minori. Inoltre, nel 2015 la Camera della Corte
europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la repressione nella scuola Armando Diaz in
occasione del G8 di Genova del 2001 per la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 3 della
Convenzione europea che vieta la tortura.
Il 5 luglio 2017 la Camera dei Deputati (dopo varie modifiche delle due Camere) ha approvato la
proposta di legge che introduce i reati di tortura e istigazione del pubblico ufficiale alla tortura.
Altre disposizioni vietano l’uso delle informazioni ottenute mediante tortura, il
respingimento/espulsione/estradizione di uno straniero in uno Stato in cui verrebbe sottoposto a
tortura, il riconoscimento dell’immunità a stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati
per il reato di tortura da un altro Stato o da un tribunale internazionale, prevedendone l’estradizione.
Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha osservato che la proposta di legge
appare in contrasto con le norme internazionali sui diritti umani, perché troppo debole (per
verificarsi la tortura richiede necessariamente “più condotte violente o minacce gravi”, un
trattamento “inumano e degradante”) e con pene troppo clementi.
DIRITTI DELLE MINORANZE, DEI POPOLI INDIGENI, DIRITTO ALLA DIVERSITÀ CULTURALE E
“CULTURALIZZAZIONE” DEI DIRITTI UMANI
L’art. 15 del Patto ONU sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 prevede il diritto a
“partecipare alla vita culturale, a godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue
applicazioni, a godere della tutela degli interessi morali e materiali scaturenti da qualunque
produzione scientifica, letteraria o artistica di cui egli sia l’autore” e impone agli Stati l’obbligo di
“rispettare la libertà indispensabile per la ricerca scientifica e l’attività creativa”.
Si discute sull’esistenza di un diritto rispetto all’identità culturale dei popoli (lingua, religioni, usi,
ecc.). Il problema riguarda soprattutto la salvaguardia della cultura delle minoranze e dei popoli
indigeni, sulla quale esistono alcune convenzioni importanti ma ratificate da pochi Stati. Si
possono anche applicare le norme presenti sui DU presenti in vari trattati.
È soprattutto in ambito UNESCO che negli ultimi decenni sono state adottate norme alla tutela della
cultura, in particolare del “patrimonio intangibile” e della diversità culturale.
Secondo Foca non esiste un diritto complessivo riguardante l’unità culturale, né consuetudinario
né convenzionale, ma solo alcuni diritti specifici sanciti dal diritto pattizio.
Spesso nei trattati sui DU si esclude che il diritto all’identità culturale possa giustificare pratiche
come il cannibalismo, la vendetta privata, ecc. Dunque sono fatti salvi i DU fondamentali e si
parla di “multiculturalismo liberale”. La limitazione è difficile in pratica da applicare perché non
esiste un criterio idoneo a guidare nell’individuazione dei diritti umani fondamentali. Con
l’immigrazione sorge il problema se e fino a che punto debba rispettare una cultura diversa dalla
propria. Secondo una parte della dottrina il diritto alla diversità culturale ha come limite invalicabile
i diritti umani protetti dallo jus cogens.
Caso Jatinder 2017: un’indiano Sikh, multato perché si era rifiutato di consegnare un coltello di 18
cm che portava alla cintura come stabilito dalla sua religione, si appellò all’”eccezione culturale” e
all’art. 19 della costituzione che protegge ogni religione. La Corte di Cassazione sentenziò che,
benché la società multietnica sia una necessità, è necessario conformare i propri valori con quelli
della società dove liberamente vai ad inserirti.
MINORANZE
Dopo la prima guerra mondiale furono firmati trattati sulle minoranze per garantire la stabilità e
sicurezza in Europa alla luce dei nuovi confini stabiliti dai trattati di pace.
La protezione delle minoranze è stata ripresa nell’art. 27 del sopracitato Patto ONU che sancisce “il
diritto al godimento della propria cultura, a professare e a praticare la loro religione o a usare la loro
lingua, in comunità con gli altri membri del gruppo”.
In ambito europeo è importante la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze
nazionali del 1995, vincolante 39 Stati tra cui l’Italia, che afferma che “la protezione delle
minoranze nazionali è essenziale alla stabilità e alla pace del continente”.
Ci sono però alcune fonti controverse, la cui qualifica di fonte in realtà è impropria:
- Clausola Mertens:
Ideata dal giurista F. Von Mertens e inserita nel preambolo della Convenzione dell’Aja del 1907,
sostiene che in casi non previsti dal codice vigente i contraenti dovevano attenersi a principi di DI
risultanti dagli usi delle nazioni civili, dalle leggi di umanità e dalle esigenza di coscienza
pubblica.
La clausola è stata inserita in vari accordi, tra cui le 4 Convenzioni di Ginevra.
Si discute se si tratti di una fonte autonoma (ma quindi troppo indeterminata) oppure corrisponda
alla consuetudine (ma quindi superflua). Senza arrivare a considerarla una fonte autonoma la si può
configurare come un elemento che invita ad interpretare le Convenzioni in cui è contenuta nel senso
di ritenerle applicabili nei limite del possibile per analogia a casi non espressamente previsti, come
lo sviluppo della tecnologia delle armi (anche informatiche). Ci si basa sul principio “for a weapon
to be legal it is not enough that it is a new weapon”. Dunque si dà più importanza all’opinio juris
che all’usus. Il suo “invito” è diretto ad impedire risultati che condurrebbero a un risultato meno
favorevole alla protezione della persona.
- Principio di umanità:
La clausola Mertens non è che un’applicazione specifica del più ampio principio di umanità,
considerato un principio generale di diritto conosciuto da “millenni”.
È ritenuto il principio fondamentale che ispira il DI relativo ai diritti umani e al DIU. Oltre alla già
discussa “clausola Mertens”, questo principio è apparso in numerosi trattati, è uno dei principi
fondamentali della croce rossa, è stato accolto dalla CIG. È stato sintetizzato anche in termini di
“protezione dell’individuo in quanto essere umano”.
In tempi più recenti regola norme applicabili a fatti come le calamità naturali.
- Necessità militare
Neanche il principio di necessità militare è una fonte di DIU. Da notare che può avere due
accezioni opposte:
limite all’azione bellica: i belligeranti devono applicare solo la quantità di forza necessaria ad
annientare il nemico
limite all’applicazione del DIU: si ammette che il fine giustifichi i mezzi quando ci sono
“imperiose necessità”
PRINCIPI FONDAMENTALI
Il DIU comprendere diverse norme che disciplinano gli aspetti rilevanti durante i conflitti armati
(es. status dei prigionieri di guerra, “legittimi combattenti”, mezzi e metodi di combattimento, ecc.).
Un conflitto internazionale avviene quando “uno o più Stati ricorrono alla forza armata contro un
altro Stato”.
Altre norme regolano i conflitti interni o “non internazionali”.
Il DIU si applica sia agli aggressori che alle vittime.
Un “conflitto internazionale” inizia quando iniziano le ostilità (la dichiarazione di guerra o il
riconoscimento di uno Stato sono irrilevanti) e finisce solitamente con un trattato di pace.
Un “conflitto interno” inizia quando lo scontro interno a uno Stato raggiunge un’intensità superiore
ai semplici disordini interni.
Si applicano, come detto, le norme consuetudinarie e pattizie, ma le norme pattizie che non
corrispondono alle consuetudini si applicano solo ai contraenti: se il conflitto coinvolge Stati non
contraenti allora non si applicheranno a nessuno (clausola si omnes). Questo riduce i casi in cui
le convenzioni trovano applicazione.
In Crimea vista l’occupazione russa perdurante si applica il diritto dei conflitti armati internazionali.
In Ucraina orientale, vista il livello raggiunto dalle ostilità, si applica il diritto dei conflitti armati,
ma con la necessità di stabilire se sia interno o internazionale (se si prova che la Russia ha
equipaggiato, aiutato o diretto i ribelli).
principio di proporzionalità: sono vietati gli attacchi i cui danni ai civili sono sproporzionati al
vantaggio militare, quindi gratuiti. Sono ammessi gli attacchi che colpiscono civili ma in maniera
proporzionati al vantaggio militare (danni collaterali).
principio di precauzione: sono vietati gli attacchi senza previo avvertimento ai civili e quelli scelti
come più dannosi ai civili rispetto ad altri.
Le violazioni di DIU comportano una responsabilità internazionale dello Stato e eventualmente
una responsabilità penale individuale nel caso di crimini di guerra (che a volte sono anche
contro l’umanità).
Il rispetto del DIU è garantito (con varia efficacia) dalle rappresaglie belliche (un'azione di
autotutela effettuata da uno Stato contro un altro Stato, in risposta a un precedente atto illecito
commesso dal secondo contro il primo), dal sistema delle “Potenze protettrici” (uno Stato terzo
che sorveglia sul rispetto del DIU, accettato dai belligeranti. Manda delegati che verifichino il
rispetto dei DIU. Le loro prerogative includono: l’accesso di questi ai prigionieri di guerra, agli
internati civili, l’inoltro dei soccorsi umanitari. Nella prassi l'applicazione è difficoltosa), dalle
Commissioni per l’accertamento dei fatti (meccanismo del tutto inutilizzato), dai tribunali
penali internazionali e a volte dai tribunali sui diritti umani (che possono imporre un
risarcimento).a
CRIMINI INTERNAZIONALI
Sulla base dei “principi di Norimberga” tratti dallo Statuto del Tribunale di Norimberga, dopo
WW2 e soprattutto dopo la Guerra Fredda, si è affermata nella prassi la repressione dei “crimini
internazionali”, ovvero gravissime violazioni dei DU compiute da privati o individui-organi. Di
questi crimini rispondo le persone (repressione individuale) che li commettono o li agevolano o
non adottano le misure in loro potere per impedirli. Il regime dei crimini internazionali
attribuisce obblighi internazionali agli individui, per questo è usato per sostenere la soggettività
internazionale degli individui, insieme ai DU.
L’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga distingue i seguenti crimini internazionali:
crimini di guerra (violazioni del DI umanitario)
crimini contro l’umanità (es. sterminio)
crimini contro la pace (es. aggressione)
genocidio (progressivamente affermatosi dopo WW2 come figura autonoma)
Tuttavia, è difficile fornire una definizione generale di crimine internazionale, per questo non è
ben chiaro quali atti esattamente vi rientrino.
CRIMINI DI GUERRA
La categoria dei crimini di guerra viene storicamente ricondotta al c.d. Codice Lieber, una
codificazione del diritto di guerra adottata nel 1863 dal presidente A. Lincoln. Fu poi inserita
nell’art. 6 del Tribunale di Norimberga. In passato i crimini di guerra riguardavano solo conflitti tra
Stati, mentre oggi si ritiene che possano essere commessi sia in conflitti internazionali che non.
I crimini di guerra consistono in una violazione grave del DI umanitario (sia diritto dell’Aja che
diritto di Ginevra). È indispensabile che vi sia un conflitto (internazionale o non) e che il crimine
sia ad esso collegato. Il crimine può essere commesso da civili o da militari nei confronti di
civili o militari purché appartenenti alle forze armate nemiche, quale che sia la loro nazionalità.
La responsabilità personale sorge anche per atto omissivo (es. comandante che non impedisce ai
subordinati di commettere il crimine o non lo punisce).
Mentre lo Stato risponde per qualsiasi violazione del DI umanitario, l’individuo risponde solo per
quelle particolarmente gravi. Tuttavia non è semplice stabilire quali violazioni siano gravi. Le
Convenzioni di Ginevra del 1949, il Protocollo di Ginevra del 1977 e gli Statuti dei Tribunali penali
internazionali individuano alcune violazioni come gravi, es. atti compiuti contro civili, prigionieri
di guerra e militari malati o feriti, attacco a località indifese, uccisione del nemico fuori
combattimento, attacco a monumenti storici, ecc.
In mancanza di altri criteri, per stabilire se un fatto è sufficientemente grave da poter essere
considerato crimine di guerra, su può far riferimento a manuali militari e ai principi generali del
diritto penale comuni alla generalità degli Stati.
È difficile elencare tutte le condotte (actus reus) che possono dar luogo insieme all’intento (mens
rea) ai crimini di guerra. Come prima approssimazione, si può far riferimento all’elenco dei crimini
di guerra dell’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale.
CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ
I crimini contro l’umanità si fanno risalire a una dichiarazione del 1915 di Russia, Francia e
Gran Bretagna che dichiaravano tutti i membri del governo ottomano personalmente
responsabili per le uccisioni di massa degli armeni nell’impero Ottomano.
Questi crimini vennero poi inseriti nell’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga come una
categoria di reati nuova, che dunque poneva il problema del rispetto del principio di legalità (non
si possono punire crimini che non erano considerati crimini quando sono stati commessi).
Lo Statuto del Tribunale di Norimberga affermava che i crimini contro l’umanità dovessero essere
connessi ad un conflitto armato, ma oggi nella prassi non è più così: secondo il DI generale odierno,
i crimini contro l’umanità non richiedono né un conflitto armato, né un intento
discriminatorio (come invece afferma lo Statuto del Tribunale penale per il Ruanda).
I crimini contro l’umanità richiedono l’esistenza di un “attacco esteso e/o sistematico nei confronti
della popolazione civile con la consapevolezza dell’attacco”. L’attacco non deve necessariamente
essere connesso a un conflitto armato e può consistere anche in un maltrattamento che
provochi sofferenze fisiche o mentali. Per popolazione civile si intende un gruppo di persone di
qualsiasi nazionalità o apolidi che può comprendere anche alcuni non-civili. Per esteso si intende
che cagioni un alto numero di vittime e per sistematico che faccia parte di un piano di
un’organizzazione che abbia un’autorità esclusiva (es. Stato, gruppo insurrezionale). I crimini
contro l’umanità di solito corrispondono a violazioni dei DU.
Le condotte materiali (actus reus) che possono dar luogo a crimini contro l’umanità sono
numerose (es. omicidio volontario, sterminio, schiavitù, deportazione, stupro, persecuzione,
tortura, ecc.) e devono risultare compiute con l’intento e la consapevolezza (mens rea) di
commettere il crimine.
Dal 2014 i crimini contro l’umanità sono stati inclusi nei lavori della Commissione del diritto
internazionale, che ha adottato 10 articoli relativi alla prevenzione e punizione dei crimini contro
l’umanità, nei quali sono elencate 11 fattispecie. È previsto l’obbligo generale degli Stati di
prevenire e punire queste fattispecie e di inserire i crimini contro l’umanità nella propria
legislazione penale.
GENOCIDIO
Il genocidio non è espressamente menzionato dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga.
Fu l’Assemblea generale ONU, con una risoluzione del 1946, a definire il genocidio come “rifiuto
del diritto all’esistenza di interi gruppi umani”. Da quel momento il genocidio venne configurato
come un crimine autonomo, distinto dai crimini contro l’umanità.
La sua autonomia fu confermata con la Conferenza di New York del 1948.
͐ All’art. I gli Stati contraenti si impegnano a prevenire e punire il crimine di genocidio,
riconosciuto come un crimine internazionale, sia che venga commesso in tempo di pace che
in tempo di guerra. L’obbligo per gli Stati di prevenire e reprimere il genocidio da parte di
individui sotto la loro influenza implica anche l’obbligo di non commetterlo essi stessi.
L’obbligo è erga omnes, pertanto vi è una quasi universalità della giurisdizione (tutti i
giudici degli Stati contraenti possono processare e punire un individuo per genocidio anche
in assenza di contratti con il foro).
͐ L’art. II definisce l’actus reus e la mens rea richiesti affinché il reato si configuri. La
condotta può consistere in 5 diversi tipi di atto che provocano uccisione o lesioni ad un
gruppo, mentre l’intento deve essere quello di aver commesso gli atti con intenzione di
distruggere, in tutto in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Se manca
l’intento di distruggere il gruppo in quanto tale, si configurano altri crimini, quali lo
sterminio (uccisione di persone su larga scala, aka crimini contro l'umanità). Non devono
necessariamente verificarsi uccisioni, purché ci sia l’intento di distruggere fisicamente il
gruppo, a prescindere dal fatto che l’intento si realizzi o meno. La convenzione non
considera genocidio il “genocidio politico” (distruzione di avversari politici) né il
“genocidio culturale” (distruzione di simboli culturali di un gruppo). La pulizia etnica
(espulsione di un gruppo da un’area geografica) non sembra rientrare nel reato di genocidio.
Secondo la Convenzione il genocidio non richiede la presenza di una prassi estesa o
sistematica, anche se difficilmente il genocidio può essere compiuto attraverso atti isolati o
sporadici.
Nella sentenza Tolimir del 2015 è stato per la prima volta individuato l’actus reus di genocidio in
atti diversi dall’uccisione. Il Tribunale per l’ex Jugoslavia ha concluso che i musulmani di
Srèbrenica avevano sofferto varie forme di lesioni mentali genocidiarie (le lesioni mentali
costituiscono genocidio se causano danni durevoli). Il trasferimento forzato di civili può dar luogo
a condizioni di vita tese a distruggere il gruppo, ma nel caso di specie il Tribunale ha concluso che
le espulsioni forzate delle popolazioni da Srebrenica e Žepa non furono condotte in circostanze
dirette a causare la distruzione fisica dei musulmani espulsi.
Nel 2016 la Commissione indipendente d’inchiesta sulla Siria ha dichiarato che l’ISIS è
responsabile di genocidio della popolazione degli Yazidi, nei confronti della quale ha perpetrato
varie forme di lesione e uccisioni, avendo espresso con affermazioni pubbliche e la propria
condotta la chiara volontà di distruggere il gruppo.
͐ L’art. III prevede che siano puniti oltre al reato di genocidio anche le forme incoative di
crimine: la concertazione intesa a commetterlo, l’istigazione a commetterlo, il tentativo e la
complicità. L’art. III non si applica solo ai fini della responsabilità personale degli
individui, ma anche alla responsabilità dello Stato i cui organi abbiano commesso
genocidio.
͐ Secondo l’art. V della Convenzione le parti contraenti si impegnano a conformare il proprio
diritto interno a quanto stabilito dalla Convenzione, prevedendo sanzioni penali efficaci.
L’Italia l’ha fatto con diverse leggi, che prevedono tra l’altro la possibilità di estradare un
individuo accusato di genocidio e identificano il negazionismo (della Shoah, dei crimini di
genocidio, contro l’umanità e di guerra) non come reato autonomo, ma come aggravante.
A parte la Convenzione di NY esistono nella prassi numerosi manifestazioni a favore del carattere
consuetudinario del divieto di genocidio, che si ritiene faccia parte dello jus cogens.
CRIMINI CONTRO LA PACE
È la categoria più controversa, nella quale rientra sostanzialmente l’aggressione. L’art. 6 elenca
alcuni atti ritenuti aggressivi, senza fornire una definizione generale. I tipici atti di aggressione sono
invasione, bombardamento, blocco dei porti, ecc. Il crimine di aggressione non rientra nella
giurisdizione dei Tribunali penali internazionali, ma può rientrare in quella della Corte penale
internazionale.
Nella Conferenza di Kampala (Uganda) del 2010 è stato definito il crimine di aggressione in
termini di “pianificazione, preparazione, scatenamento o esecuzione, da parte di una persona che
sia effettivamente in grado di controllare o di dirigere l’azione politica e militare dello Stato, di un
atto di aggressione che, per carattere, gravità e portata, costituisca una manifesta violazione della
Carta delle Nazioni Unite”. Per atto di aggressione si intende sostanzialmente l’uso della forza
armata contro un altro Stato.
Come per il genocidio, va distinto il crimine di aggressione per il quale è penalmente responsabile
l’individuo, dall’illecito internazionale per cui è responsabile lo Stato sul piano internazionale.
SICUREZZA GLOBALE
(CAPITOLO VII)
Gli Stati per proteggere le persone che si trovano entro il loro territorio o giurisdizione adottano
misure preventive e repressive. Vista però la molteplicità di Stati e il fatto che i trasgressori possano
spostarsi da uno all'altro, gli Stati devono cooperare per reprimere la criminalità interna e
transnazionale (se connessa a più Stati).
Con la globalizzazione la criminalità transnazionale è in crescita, sia per i minori costi dei trasporti
e delle comunicazioni, sia perché gli Stati sono sempre meno capaci di contrastarla. La
globalizzazione incentiva il jurisdictional shopping, ovvero la scelta dello Stato più conveniente in
cui commettere un reato. È dunque necessario intensificare la cooperazione tra Stati, soprattutto
nell'ambito delle OI.
Ancora oggi vale il principio secondo cui la cattura dei delinquenti e la repressione della
criminalità spetta allo Stato territoriale. Uno Stato non può catturare un delinquente in uno Stato
straniero e il ricorso alla forza militare a questo fine è vietato. L'unica via ammessa è
l'estradizione, che dipende dalla presenza di trattati tra i due Stati e/o dal diritto interno.
Gli unici trattati in materia di criminalità transnazionale impongono solamente l'obbligo di adottare
norme interne e di cooperazione.
L'estradizione (consegna di un accusato o condannato alle autorità di un altro Stato per essere
sottoposto a processo o scontare una pena) è stabilita esclusivamente da trattati ed è la forma più
importante di mutua assistenza penale tra Stati.
Vi sono alcuni principi comuni che regolano l'estradizione:
- principio di specialità: l'estradando può essere processato dallo Stato richiedente solo per un
reato per il quale è stata richiesta l'estradizione
- principio di della doppia previsione (o incriminazione) del reato: se il fatto commesso è un
reato in entrambi gli ordinamenti l'estradizione può essere rifiutata
- principio del ne bis in idem: se c'è già Stata una sentenza o l'estradando abbia già scontato la
pena inflittagli dallo Stato richiedente, vige l'obbligo di rifiutare l'estradizione
Di regola ogni trattato ha diverse eccezioni per cui lo Stato richiesto può rifiutare l'estradizione, tra
cui il carattere politico del reato. È importante oggi il divieto di estradizione a rischio di pena di
morte, tortura o trattamenti inumani.
L'ONU nel 1990 ha adottato con una risoluzione il "Modello di trattato sull'estradizione", non
vincolante ma contenente linee guida sulle disposizioni tipiche riscontrabili nei trattati di
estradizione.
Questa norma, apparentemente semplice, solleva numerosi problemi nel suo intersecarsi con le altre
norme internazionali relative ai due versanti del dedere o del judicare. Spesso ci sono norme
internazionali che escludono una delle due alternative, dunque spesso gli Stati devono adottare
internamente norme che gli permettano di adottare l'altra.
Si discute se tale regola possa essere considerata una norma di DI consuetudinario o addirittura
cogente, ma la tesi affermativa è debole. La prassi convenzionale non è uniforme e spesso viene
disattesa; inoltre la regola si giustifica proprio per l'assenza di una volontà internazionale di punire
i reati più gravi.
TERRORISMO INTERNAZIONALE
La sua definizione giuridica è una questione controversa in campo internazionale:
secondo gli Stati occidentali si tratta di atti compiuti da privati "sponsorizzati da Stati";
secondo gli Stati afro-asiatici e arabi si tratta ANCHE di atti compiuti da Stati, in
particolare dalle Potenze coloniali contro i popoli in lotta per l'autodeterminazione.
L'accordo non è ancora stato raggiunto perché la qualificazione di atti di resistenza armata nella
lotta per l'autodeterminazione continua ad essere un punto di divergenza.
È noto che il termine "terrorismo" viene utilizzato da avversari politici per screditarsi
reciprocamente; inoltre è noto che atti considerati terroristici da uno Stato possono non esserlo
in altri, o che in base all'epoca storica smettano di essere considerati tali.
Certamente è necessaria una definizione condivisa universalmente, ma il punto sulla lotta per
l'autodeterminazione di cui sopra continua a creare divergenze. Il terrorismo, distinto dai reati
comuni, è una qualificazione unilaterale utilizzata da ciascuno Stato per indicare chi mina il
PROPRIO ordine politico. I terrorismo ha rilievo internazionale nella misura in cui l'ordine
costituzionale dei singoli Stati influenza l'ordine globale.
La comunità internazionale può convergere su casi concreti di "terrorismo", ma non su una
definizione astratta valida sempre. Il Consiglio di sicurezza decide autoritativamente quali
individui o gruppi di individui siano terroristi (Bin Laden, Al Qaeda, talebani, ISIS), ai fini di
adottare misure repressive. Il CdS identifica gli attentatori sia a livello internazionale che
interno, sul presoppusto che la pace internazionale dipenda da entrambi. Da notare che il CdS
dunque si assume il potere di decidere internamente ad uno Stato quali aspiranti al potere
siano legittimi e quali tirannici.
Vi sono numerosi trattati, di OI (come l'ICAO, l'IMO e l'AIEA) e altrettante risoluzioni CdS e
AG ONU. Gli obblighi sono di due tipi:
prevenzione: prevenire i reati in oggetto, anche scambiando informazioni e coordinando
le attività amministrative
repressione: criminalizzare tali reati sul piano interno nel caso in cui manchino norme
Statali (improbabile vista la gravità)
Spesso è prevista la giurisdizione "quasi universale", nel senso che hanno titolo di giurisdizione
lo Stato territoriale, lo Stato del presunto reo e altri Stati connessi in vario modo. È comune il
principio "aut dedere aut judicare". Inoltre i reati disciplinati dal trattato devono rientrare nei
trattati inter-partes sull'estradizione, già conclusi o da concludere in futuro o nella loro legislazione
interna.
A volte esiste in alcuni casi la clausola di "eccezione politica", secondo cui l'estradizione va
esclusa per "reati politici", ma spesso viene esclusa anche perché spesso i reati associati al
terrorismo hanno finalità politiche.
Proprio il rispetto dei diritti umani nel reprimere il terrorismo pone un problema dinanzi ai
giudici nazionali. Per esempio, è sorto questo problema quando il CdS ha redatto una lista di
individui e organizzazioni ritenute associate ad Al-Qaeda da sottoporre a sanzioni, senza che questi
potessero far valere le loro ragioni.
La Corte di giustizia UE nel 2005 si espresse negativamente nei confronti delle risoluzioni del CdS
(caso Kadi e Yusuf), ritenendo che violassero diritti fondamentali sanciti dal diritto comunitario.
Le misure correttive del CdS (che davano per esempio l'opportunità agli interessati di contestare
l'inserimento) erano poco significative. Misure più efficaci sono state adottate con una risoluzione
nel 2009, che prevede meccanismi di "delisting" e con una risoluzione del 2011 che introduceva
disposizioni per la pubblicità delle ragioni dell'inserimento nelle liste delle sanzioni contro Al-
Qaeda.
Si discute se è legale l'uso della Forza armata quando si subisce un attacco terroristico?
Il terrorismo è un crimine internazionale (in altre parole, è un crimine anche quando non è
configurabile come crimine di guerra, contro l'umanità o genocidio)? Analizzando i lavori
preparatori della Corte penale internazionale, no, dato che questa non l'ha considerato di sua
competenza. Successivamente però in un'altra sentenza ha cambiato idea, dicendo che "si è
formata una consuetudine di DI riguardante il crimine internazionale di terrorismo, almeno in
tempo di pace". La scelta è stata critica, secondo il Foca giustamente, in quanto esercizio di
"creatività giudiziaria".
IL DIVIETO DELLA MINACCIA E DELL’USO DELLA FORZA ARMATA NELLA CARTA ONU E NEL
DI GENERALE
Il divieto generale dell’uso della forza si è affermato nel XX secolo, in particolare grazie alla
Carta ONU, che lo prevede all’art. 2. L’articolo non si riferisce alla guerra ma solo alla forza.
La Carta non precisa se si intenda solo forza militare o anche forza politica ed economica, ma la
prassi è nel senso unicamente della forza militare.
L’art. vieta anche la minaccia dell’uso della forza, senza chiarire cosa effettivamente costituisca
una minaccia. La CIG ha sostenuto che è vietata ogni minaccia della forza il cui uso è vietato, ad
es. la dissuasione nucleare è una minaccia se è diretta contro uno Stato o se, usata come strumento
di difesa, viola i principi di proporzionalità e necessità.
La forza è vietata “nelle relazioni internazionali”, quindi solo tra Stati. L’espressione è
controversa, ma si ritiene che deve trattarsi della forza esercitata al di là del territorio dello Stato
o all’interno del territorio ma solo nei confronti di truppe straniere stanziate legalmente. È
certo che non sia vietata la forza per reprimere gli insorti o contro agenti diplomatici stranieri.
L’articolo vieta inoltre la forza impiegata sia “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza
politica di qualsiasi Stato” sia “in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle
Nazioni Unite”. Non è chiaro se tali espressioni limitino il divieto (che varrebbe solo per attacchi
limitati e temporanei compiuti in un altro Stato) o lo enfatizzino (per cui il divieto vale sempre ma
soprattutto in presenza di tali circostanze).
La norma che vieta l’uso della forza corrisponde al DI generale, appartiene allo jus cogens e
contempla un obbligo erga omnes, quindi tutti devono rispettarla, non solo i membri ONU.
LEGITTIMA DIFESA INDIVIDUALE E COLLETTIVA
Ai sensi dell’art. 51, che corrisponde al DI generale, nessuna disposizione della Carta pregiudica il
diritto alla legittima difesa (reazione armata ad un attacco armato) sia individuale (dello Stato che
ha subito l’attacco) sia collettiva (di Stati terzi in difesa dello Stato che ha subito l’attacco).
Ci si chiede se l’art. 51 preveda anche la minaccia preventiva, cioè la reazione armata a una mera
minaccia. In uno scambio di note con lo UK, il Segretario di Stato americano Webster si espresse a
favore della legittima difesa preventiva, ma solo contro un attacco imminente. Nella prassi del
secondo dopoguerra gli Stati hanno ripetutamente sostenuto che la legittima difesa preventiva è
vietata. La CIG non si è pronunciata in merito.
Il dibattito è stato riacceso in tempi recenti dagli USA (es. guerra in Iraq). La soluzione che
sembra prevalere in dottrina è allineata alla formula Webster, per cui la legittima difesa
preventiva è ammessa, ma solo se l’attacco è già iniziato o vi sono prove certe che sia
imminente, non quando è una mera ipotesi.
In un rapporto del 2016, Obama ha chiarito che gli USA riconoscono tre situazioni in cui non è
vietato l’uso della forza: se lo Stato è autorizzato dal CdS, se agisce in legittima difesa e se
l’uso della forza avviene con il consenso dello Stato territoriale.
Nel 2017 anche lo UK ha espresso la sua posizione, in un discorso dell’Attorney General J. Wright,
secondo il quale l’uso difensivo della forza (anche contro attori non statali) è ammesso solo in caso
di attacco imminente. A sua detta la verifica dell’imminenza dell’attacco fa parte della valutazione
sulla necessità di ricorso alla forza.
Per ricorrere alla legittima difesa è necessario che sia in atto un attacco armato, ma non è chiaro
di che tipo. Nella sentenza sulle Attività militari in Nicaragua, la CIG ha distinto tra forme di
attacchi più gravi e meno gravi: alcuni attacchi minoris generis (seppur vietati dall’art. 4
sull’uso della forza) non giustificano la legittima difesa, gli attacchi devono avere una certa “scala
ed effetti”. La legittima difesa è ammessa in risposta “all’aggressione armata indiretta”, ovvero
l’attacco di uno Stato con gruppi armati che non fanno parte delle sue forze regolari. Inoltre, atti
che presi singolarmente non giustificherebbero la legittima difesa, se attuati in serie possono
giustificarla (dottrina dell’accumulazione degli eventi).
Dopo gli attacchi dell’11 settembre e con l’ISIS si è posto il problema della legittima difesa contro
attori non statali, ovvero attacchi armati di privati provenienti da uno Stato straniero che però non
ha legami con l’attacco. L’uso della forza extra-territoriale contro attori non statali ha scarso
supporto nella prassi.
L’art. 51 contempla anche la legittima difesa collettiva, che quindi non deve essere
necessariamente prevista da trattati ad hoc, anche se ne esistono sia di bilaterali che di multilaterali
che la prevedono. La NATO ultimamente tende ad effettuare operazioni militari non previste dal
Trattato né autorizzate dal CdS. Si tratta di operazioni multilaterali in ambito NATO, ma unilaterali
in rapporto all’ONU e alla comunità internazionale.
La reazione armata a titolo di legittima difesa deve svolgersi rispettando tre criteri non previsti
dall’art. 51 ma dal DI generale:
- Necessità: è ammessa solo se non esistono altre vie pacifiche per risolvere l’attacco
- Proporzionalità: è ammessa solo la forza necessaria a respingere l’attacco e
ripristinare lo status quo ante
- Immediatezza: la forza può essere impiegata solo mentre l’attacco è in corso o
comunque in tempi ragionevoli
L’art. 51 prevede però l’obbligo per gli Stati membri di informare il CdS delle azioni di legittima
difesa intraprese. Inoltre, gli Stati devono interrompere l’uso della forza in caso di intervento
del CdS. In caso di legittima difesa collettiva, gli Stati diversi da quello attaccato devono
aspettare il consenso dello Stato attaccato per agire, non possono farlo unilateralmente.
Interventi per la democrazia: alcuni Stati (vedi USA) hanno in tempi recenti attuato
interventi militari con la scusa di voler stabilire o ristabilire la democrazia nello stato
dell’intervento. Gli altri Stati hanno sempre contestato la motivazione, che non è quindi
avallata dal DI.
Cap. VIII (52-54): Disciplina l’intervento militare delle organizzazioni regionali sotto la
direzione del CdS
L’idea di fondo è di sottrarre il ricorso alla forza militare agli Stati e accentrarla al CdS, che
agisce in loro nome. Il suo impiego nei confronti di uno Stato trasgressore è equiparabile ad
un’azione di polizia legittimata dalla comunità internazionale. Le norme della Carta inoltre
definiscono norme procedurali che il CdS deve seguire.
Alcune competenze minori (non comprendenti misure coercitive o decisioni vincolanti) sono
esercitate dall’AG e dal Segretario Generale.
L’art. 39 (Cap. VII) stabilisce che il CdS deve constatare una:
minaccia alla pace - più difficile da circoscrivere delle altre. Solitamente sono situazioni di
carattere interno agli Stati (es. apartheid, genocidio, guerra civile, anarchia con violazioni di
DU, ecc.)
violazione della pace
atto di aggressione
DISARMO
Le probabilità di dover ricorrere alla guerra si possono ridurre tramite l’imposizione di obblighi
internazionali di disarmo (riduzione della produzione e vendita) e distruzione di armi pre-
esistenti.
Non esiste un vero e proprio obbligo di disarmo nella Carta ONU, benché l’AG abbia il potere di
adottare raccomandazioni in materia e il CdS possa formulare piani per la disciplina degli
armamenti. La principale sede di negoziazioni è la “Conferenza del disarmo” (indipendente
dall’ONU); è anche importante il Foro di Cooperazione per la Sicurezza, all’interno dell’OSCE.
Il disarmo non è un obbligo previsto dal DI consuetudinario ma solamente pattizio.
Non si occupa di disarmo né di non profilerazione, ma ha comunque il fine di ridurre le armi il
trattato sul commercio di armi (Arms Trade treaty) del 2013 adottato dall’AG ONU sotto la spinta
di numerose ONG. Il suo scopo è “prevenire ed eliminare il commercio illecito di armi
convenzionali e di prevenire la loro diversione verso il mercato illecito”.
La materia delle armi di DDM è disciplinata anche dalla risoluzione n.1540 (2004) del CdS relativa
alla non proliferazione di armi nucleari, chimiche o biologiche, attraverso misure di controllo
interno. Essa è imposta anche agli Stati che non hanno ratificato trattati sulla materia. È stato
istituito il Comitato 1540, competente a monitorarne l’attuazione.
Il CdS ha adottato numerose sanzioni contro L’Iran e la Corea del Nord, ritenendo che le attività
di sviluppo di armi nucleari costituiscano una minaccia alla pace ai sensi dell. art. 39.
Tali Stati hanno violato più volte il regime sanzionatorio. Inoltre nel 2013 il CdS ha condannato
l’uso di armi chimiche in Siria e le ha imposto di non usarle, produrle, acquisirle, immagazzinarle
o trasferirle in altri Stati.
Non esistono giudici o arbitri internazionali per ogni tipo di controversia e se ci sono
spesso sono incompetenti ratione materiae
Anche se ce ne sono, potrebbero non pronunciarsi per mancanza di consenso tra le
parti
I vari tribunali non hanno un'organizzazione integrata o gerarchica e non c'è una
divisione di competenze fissata da norme comuni
Non sempre si possono impugnare le sentenze internazionali, benché questa sia la
tendenza
I giudici internazionali solitamente sono scelti politicamente e non in base alle loro
competenze (nel 90% dei casi in cui lo Stato della loro nazionalità è coinvolto, votano a suo
favore);
Non hanno legittimazione politica, né capacità esecutiva.
Ci sono due orientamenti riguardo l'accertamento e la creazione giudiziaria internazionale:
- Judicial activism: chi sostiene che i giudici creino le norme con la loro interpretazione
- Self-restraint: Chi vede nella funzione giudiziaria la funzione di accertamento di norme vigenti
I giudici propendono per la seconda ma a volte hanno possono scegliere l'interpretazione di una
norma che più si confà a quelle che ritengono le esigenze di giustizia.
Funzione consultiva: i pareri della Corte possono essere richiesti dall’AG, dal CdS, dagli
organi ONU e dagli istituti specializzati, non da Stati e individui. La Corte può riservarsi il
potere di non renderli se ci sono forti ragioni per rifiutare.
I pareri della Corte non sono giuridicamente vincolanti, cioè non è obbligatorio richiederli né
conformarvisi. Hanno però valore come opionio juris ac necessitatis nella formazione di nuove
norme consuetudinarie. I pareri possono eccezionalmente essere vincolanti, se così stabilito da
un accordo concluso tra le parti.
I pareri possono avere ad oggetto “qualsiasi questione giuridica” se chiesti da AG e CdS o
“questioni giuridiche sorte nell’ambito delle rispettive attività” se richieste da ONU o
istituti specializzati.
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI (CHE NON C’ENTRA CON L’UE MA COL CONSIGLIO
D’EUROPA!)
La parte innovativa della Convenzione europea sui DU (1950) era la presenza di due organi che
controllano il rispetto dei DU: La commissione europea dei DU e la Corte europea dei DU.
La prima valutava ricorsi inter-statali (presentati da uno Stato contro un altro) che ricorsi individuali
(da privati contro uno Stato).
Con il Protocollo n.11 del 1994 (in vigore dal 1998) è stata istituita una Corte unica e
permanente che svolge le funzioni di entrambe, nonché quelle del Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa. La Corte attuale è competente ad esaminare ricorsi individuali e statali.
Con individui si intende “ogni persona fisica, ogni ONG o gruppo di privati” vittima di
violazione della Convenzione. Le ONG devono essere esse stesse vittime e non possono ricorrere
facendo valere gli interessi di altri.
I ricorsi devono essere presentati entro 6 mesi dalla sentenza interna definitiva, sia per Stati che per
individui, inoltre ci sono altre condizioni per la loro ricevibilità (pag. 588 Foca)
Ci sono 47 giudici (uno per Stato contraente), eletti per 9 anni e non rieleggibili. Ci sono 4
formazioni di giudizio e una formazione plenaria.
giudice unico - decide se i ricorsi individuali sono ricevibili o cancellabili dal ruolo
comitato (3 giudici) - decidono sulla ricevibilità, sulla cancellazione, anche se la questione è
già oggetto di una giurisprudenza consolidata della Corte.
Camere (7 giudici) - decidono su ricevibilità ricorsi individuali (se non si è pronunciato il
comitato) e su tutti i casi Statali, anche nel merito mediante sentenza impugnabile
Grande camera (17 giudici) - decide con sentenza definitiva, oltre che in caso di declinatoria di
competenza e di impugnazione delle sentenze delle Camere, sulle questioni di interpretazione.
La corte in assemblea plenaria fa elezioni interne.
Le decisioni di ricevibilità dei Comitati e le sentenze nel merito della Grande camera sono
definitive. Le sentenze delle camere sono impugnabili dinanzi alla Grande Camera. Tutte le
sentenze hanno efficacia vincolante. Il Comitato dei Ministri ne sorveglia l’esecuzione. In
sostanza la “Grande Camera” è una sorta di corte d’appello, se si presenta una questione
interpretativa grave.
Le sentenze hanno effetto di “res judicata” e la domanda non può essere reiterata dinanzi ad altri
giudici. La corte non è vincolata dai suoi precedenti ma li segue per assicurare prevedibilità alle sue
decisioni. Le sentenza non sono costitutive ma dichiarative: gli Stati a loro discrezione scelgono
quali misure adottare per rispettarle.
Solitamente lo stato ingiunge un risarcimento alla vittima; in altri casi lo Stato può essere
condannato ad adottare “misure generali”, quando la violazione è “strutturale” e non “generale” (es.
caso Torreggiani, sovraffollamento delle carceri).
Alla luce di due sentenze della Corte Costituzionale (somogy e Dorigo), ora in Italia si permette la
riapertura di un processo che ha già avuto una sentenza definitiva se la CEDDU ha condannato
l’Italia per violazione del diritto all’equo processo sancito dalla Convenzione Europea.
L’esecuzione delle sentenze della Corte è problematica in Stati come la Russia, dove per la prima
volta nel 2016 una sentenza è stata dichiarata impossibile da applicare, in quanto contraria alla
costituzione russa esercitando un potere stabilito da una legge che essa stessa sembra
incostituzionale, che stabilisce la prevalenza dei trattati sul diritto interno.
chiedere protezione diplomatica al suo Stato nazionale, ma questo può non avere
interesse a proteggerlo sul piano nazionale
rivolgersi ai giudici dello Stato ospitante per ottenere giustizia in loco, ma c’è il rischio di
parzialità o di scarsa competenza tecnica nel settore investimenti da parte dei giudici
locali
rivolgersi ai giudici del proprio stato, che però probabilmente dovranno accordare
l’immunità allo Stato straniero, che difficilmente vi rinuncerà
attivare direttamente la procedura internazionale di conciliazione o arbitrato
prevista dal contratto di investimento: è la soluzione migliore e più diffusa nei trattati dagli
anni 70, che hanno clausole per cui l’investitore può scegliere la procedura da attivare tra:
ICSID, regime della Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale
internazionale, regime della Camera di Commercio Internazionale o altri. Se è presente la
clausola della “biforcazione della strada”, una volta attivato uno di questi meccanismi
non se ne potranno più attivare altri.
Tribunale di prima istanza. Dal 1989 affianca la Corte di giustizia, con competenze a
conoscere in prima istanza ricorsi per annullamento di atti delle istituzioni o in carenza.
Secondo il Trattato dovrebbe avere anche competenza pregiudiziale, ma fino ad ora non l’ha
esercitata. Le sue sentenze possono essere impugnate di fronte alla Corte di giustizia. Il
Parlamento e il Consiglio possono istituire tribunali specializzati da affiancare al Tribunale.
Tribunale della funzione pubblica. Opera nell’ambito della Corte di giustizia per
controversie in materia di lavoro tra Unione Europea e i suoi agenti. Le sue sentenze
possono essere impugnate di fronte al Tribunale di prima istanza.
DIPLOMAZIA
Una controversia può risolversi anche ricorrendo a mezzi che non sfociano in decisioni vincolanti,
che nel DI potrebbe venire rispettate dagli Stati più di quelle vincolanti. è indubbio che le
controversie debbano risolversi con mezzi pacifici (il DI prevede obbligo di risoluzione pacifica
delle controversie), in particolare quelli diplomatici. I mezzi diplomatici più comuni sono:
negoziati: le parti possono negoziare tra loro un accordo che risolva la controversia. I
negoziati devono svolgersi in buona fede, ovvero con la genuina intenzione di arrivare a un
risultato positivo
buoni uffici: prevedono l’intervento di un terzo che induca le parti alla negoziazione
mediazione: prevede l’intervento di un terzo che partecipi attivamente ai negoziati fra
le parti (es. mediazione della Santa Sede nella controversia sul canale di Beagle tra Cile e
Argentina)
inchiesta: prevede l’intervento di un terzo che ha competenza all’accertamento
vincolante dei fatti affinché poi le parti raggiungano un accordo
Conciliazione: prevede l’intervento di un terzo competente ad esaminare la
controversia sia in fatto che in diritto e a formulare una proposta non vincolante di
soluzione affinché le parti raggiungano poi un accordo
Si parla di conciliazione obbligatoria quando il ricorso alla conciliazione può essere
attivato unilateralmente da una delle parti e l’altra è automaticamente obbligata a
sottoporsi al procedimento conciliativo. Meccanismi di questo tipo sono previsti dalla
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati e dalla Convenzione di Montego Bay.