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l'Introduzione

Nel 1948 nasce un nuovo criterio di classificazione che, rompendo con la tradizione che verrà più
avanti discussa nel testo, riesce a insediarsi su di un livello internazionale. Questa nuova categoria
sono i diritti umani, « La comunità internazionale può infatti guardare con occhi nuovi ciò che
avviene, e formulare giudizi», e per la prima volta esiste un metro di paragone globale che valorizza il
singolo cittadino come ente degno di protezione in ogni circostanza. Questa difesa dei diritti, che
affonda le sue radici nel « illuminismo; pacifismo; il “personalismo” cattolico, l’ecumenismo del
Concilio Vaticano II », è divisibile in tre parti principali: libertà civili (che consistono negli spazi
liberi che ogni governo deve garantire all'individuo non interferendo nella sua sfera privata), diritti
politici (comprende: il diritto di associarsi, di formare partiti politici, di elezione attivamente o
passivamente), i diritti economico-sociali (pretese che l'individuo vanta nei confronti dello Stato per
ovviare alle diseguaglianze sociali e economiche), i diritti delle minoranze e dei popoli
all'autodeterminazione.

PARTE I: UN DECALOGO DA 7 MILIARDI DI PERSONE

CAPITOLO 1: L’IRROMPERE DEI DIRITTI UMANI SULLA SCENA


MONDIALE

-1 L’assetto tradizionale della comunita’ internazionale

Dalla pace di Westfalia (1648) alla fine dell’Ottocento, i popoli non erano tenuti in considerazione nei
rapporti internazionali, questi ultimi erano tra entità di governo e i cittadini non possedevano nessuna
voce in capitolo o tutela. Da notare sono i tre caratteri principali della comunità internazionale di
quest’epoca:
● Gli stati vivono in uno stato di sregolatezza, nessuna istituzione comune o categorie condivise
dettano i comportamenti da tenere, l’unico strumento utilizzato è la violenza, « la guerra
primeggia assoluta, costituendo un elemento essenziale e indispensabile della comunità
internazionale».
● Le relazioni tra le nazioni erano improntate sul do ut des. Le norme tra consociati si
fondavano su accordi bilaterali, a volte multilaterali. La natura opportunistica di questo
genere di politica, dettata dal guadagno, permetteva ad ogni partecipante di abbandonare
qualsiasi relazione. Se un associato ritenesse che le condizioni di un dato accordo non fossero
più vantaggiose o se fosse sopravvenuto un cambiamento nelle circostanze su cui l’accordo
era fondato quest’ultimo può farlo terminare. La centralità dell’egoismo in questo periodo
porta le norme internazionali a non essere a tutela di interessi generali, ma solo nell'interesse
di ciascuno dei consociati. Le uniche interazioni tra le nazioni ,all’infuori di quelle dedite al
guadagno personale, erano di aggressione (sanzioni, guerre, denunce) e nessuno aveva il
diritto, o il potere, di intervenire nei rapporti tra due Stati, solo i diretti interessati danneggiati
dall’illecito potevano far valere quella violazione. «La comunità internazionale era davvero
una giustapposizione di soggetti, ciascuno preoccupato solo del suo benessere e del suo
spazio di libertà, che a tutelare interessi collettivi.»
● I popoli e gli individui non hanno alcun peso e sono oggetto del dominio dei vari sovrani. Gli
Stati sono gli unici interlocutori sulla scena mondiale. I cittadini che si recano all'estero
restano sotto la protezione dello Stato nazionale diventando beneficiari di una serie di norme
internazionali, quelle sulla protezione degli stranieri, che regolano i rapporti tra enti sovrani
ma finiscono per tutelare gli interessi dei cittadini. Questi individui restano però semplici
beneficiari di quelle norme; se i loro diritti fossero lesi da uno Stato estero la loro nazionale
può decidere di non intervenire per via diplomatica o di non intentare un’azione giudiziaria
davanti ad un arbitro internazionale qualora ritenga più vantaggioso ignorare la violazione,
essi non possono nulla contro l’inerzia delle loro autorità, non hanno diritti da far valere
all'infuori da quelli appoggiati dal proprio sovrano.

- 2 I grandi testi del passato

Lo storico appena analizzato non ci deve ingannare, documenti moderni in cui è sancita la tutela
internazionale dei diritti dell’uomo non sono invenzioni totalmente contemporanee, bensì affondano
le loro radici in un lontano passato. Ci sono infatti alcuni testi politici che hanno proclamato principi
rivoluzionari per il loro tempo, come il principio di uguaglianza o l’esistenza di diritti inalienabili,
inerenti a ogni essere umano in quanto tale. Come riferimento prendiamo le Dichiarazioni statunitensi
del 1776-89 e la Dichiarazione francese del 1789. Per questi documenti l’uomo è degno di tale nome
solo se è libero, eguale, può godere indisturbato dei suoi beni (diritto di proprietà), non è oppresso da
un governo tirannico e può liberamente realizzarsi. Esse proclamano anche una precisa concezione di
“società” : composta da liberi individui, uguali tra loro, sottomessi solo alla legge, concordata da loro
per il proprio bene. Le istituzioni politiche devono esistere solo in funzione della libertà degli
individui ed è il loro bene comune.
Colpisce poi il carattere perentorio delle Dichiarazioni, non solo per il primato dato a questa idea di
nazione, ma come l’unico metro valutativo per giudicare la legittimità di una nazione sia il rispetto di
questi diritti umani. Questi sono il criterio per giudicare se una comunità umana è da approvare o
biasimare. Si fa notare come, nonostante il carattere rivoluzionario di queste dichiarazioni, vi sono un
alto numero di “miti” politici al loro interno: l’esistenza di “diritti naturali e imprescrittibili
dell’uomo” basata sul giusnaturalismo, al tempo sicuramente influenzati dalle concezioni di Hobbes e
Locke. Il più possente di tutti è però il “mito della Legge” : la concezione è che la legge non può
errare; diviene quindi compito della legge di porre limiti alla libertà di ognuno nei confronti degli
altri. Sempre nella legge giace il criterio con cui determinare quando un uomo può essere accusato,
arrestato e detenuto, di specificare le pene che possono essere inflitte ai colpevoli. Il problema si
manifesta quando si osserva che le Dichiarazioni sono testi altamente manipolabili. L’unica barriera
che frappongono ai possibili abusi del potere politico è la legge, ma non si precisa con che criteri si
debba creare quest’ultima. Gli uomini politici del ‘700 non si posero il problema di predisporre
meccanismi di attuazione e di garanzia dei diritti sanciti nelle Dichiarazioni, che rimasero semplici
enunciati. Questo limite non è però l’unico, un’altro è che le Dichiarazioni affermano solo diritti
individuali, cioè garantiti ai singoli, tralasciando così i gruppi dalle loro tutele. Inoltre per “singoli”
dobbiamo intendere solo gli uomini, non essendoci ancora parità giuridica tra uomini e donne.
Nonostante le note problematiche che questi documenti possiedono, certamente perché scritti con
sensibilità differenti a quelle contemporanee, essi sono gli archetipi della Dichiarazione universale dei
diritti umani. Essi annunciano una nuova visione dell’uomo e della società e hanno assunto un valore
di guida per l’azione perché sono diventati leggi costituzionali di alcuni Stati moderni.

-3 I primi passi verso la tutela internazionale degli individui e dei popoli

Come detto in precedenza la comunità internazionale è rimasta lungamente ancorata alla visione
tradizionale del diritto secondo la quale gli individui, al di fuori dei confini nazionali, hanno rilievo in
quanto stranieri, e sono i beneficiari materiali di alcune norme, che regolano però rapporti interstatali,
ma non possiedono diritti propri, azzerando il loro peso giuridico. Con l’arrivo di Pasquale Mancini
questa visione viene messa in discussione. Egli sosteneva che i veri soggetti della comunità
internazionale dovessero essere le Nazioni definite come raggruppamenti umani uniti da
caratteristiche comuni quali: lingua, cultura,tradizioni e costumi, non da Stati. Importante da notare
questo cambio nella definizione della nazione, legittimata solo ad abbracciare un solo gruppo etnico e
a tutelarne le pratiche e caratteristiche. Le affermazioni di Mancini sono solo parte di un più ampio
cambiamento che, a partire dal XIX secolo, porta il diritto internazionale a interessarsi degli individui:
vengono infatti stipulate le prime Convenzioni che vietano la tratta degli schiavi, e sul finire del
secolo sono adottate anche le prime importanti Convenzioni di codificazione del diritto dei conflitti
armati, notevoli seppur di poco impatto, questi primi timidi passi verso tutele generali della persona
hanno impatti limitati. Il primo vero e proprio passo avanti verso la tutela internazionale degli
individui si è avuto a seguito della Prima Guerra Mondiale. Gli orrori del conflitto hanno indotto gli
stati a porre in essere una serie di regole, al fine di prevenire eventi simili nel futuro. Tutto ciò, nel
1919, converse nel Patto della società delle Nazioni, trattato internazionale che doveva porre le basi
per la coesistenza pacifica tra gli stati della comunità internazionale e per la prima volta provò a
creare un ambiente di discussione paritario tra gli Stati in maniera da prevenire l’utilizzo della
violenza. Allo stesso tempo, venne siglata una serie di accordi per la protezione delle minoranze
religiose, etniche e linguistiche presenti in Europa a seguito del riassetto territoriale del continente.
Sempre in questo periodo viene istituita l’ILO (organizzazione internazionale del lavoro),
un’organizzazione in cui, accanto agli stati, sono rappresentati anche imprenditori e sindacati, cioè
individui. Sotto gli auspici dell’ILO, vennero conclusi alcuni trattati internazionali per garantire
uniformità di trattamento ai lavoratori delle maggiori aree del mondo.
Sul finire della Prima guerra mondiale varie personalità politiche, primi tra tutti Lenin e Wilson,
portarono sul palcoscenico globale un nuovo termine: il diritto all’auto determinazione. I due
principali promotori di questo nuovo ideale vedevano due diverse vie di progressione: Lenin vedeva
la necessità di una radicale decolonizzazione e, conseguentemente, la nascita di nuovi stati, nel
momento in cui le popolazioni liberate avessero scelto il loro nuovo leader, Wilson invece proponeva
una maggiore attenzione da parte delle potenze coloniali delle necessità e aspirazioni dei colonizzati,
cercando di limitare gli smisurati poteri che alcune nazioni europee avevano sui loro possedimenti.
Alla conclusione questo nuovo principio trovò, seppur debole, un’applicazione nel sistema dei
mandati: una forma di blando neocolonialismo, che da una parte conservava alle potenze coloniali il
loro dominio in Africa, in Asia e nell’Oceano Pacifico australe, ma dall’altra ne attenuava il rigore e
introduceva alcuni temperamenti a favore delle popolazioni indigene. È dopo la seconda guerra
mondiale che si assiste a una vera e propria svolta nella protezione internazionale dei diritti degli
individui e dei popoli.

4- Due episodi illuminanti del dopoguerra

Come detto, nel primo dopoguerra vennero fatti due tentativi, seppur di piccola portata, di
promuovere principi di uguaglianza e libertà tra gli individui. Purtroppo ambedue furono fallimenti.
Il primo, nel 1919, fu una proposta fatta dalla delegazione giapponese in occasione della elaborazione
del patto della società delle Nazioni. La proposta provò a stabilire l’obbligo di ogni nazione verso tutti
gli stranieri che avessero la cittadinanza in uno Stato di un uguale e giusto trattamento, senza
distinzioni basate su razza o nazionalità. La proposta venne respinta con gran opposizione da Gran
Bretagna, Australia e Stati Uniti. La verità e che le maggiori potenze occidentali non volevano né
potevano accettare un principio che avrebbe intaccato gravemente le loro pratiche discriminatorie nei
confronti dei cittadini di altri di altre nazioni. La proposta giapponese purtroppo soffrì anche la
concezione tradizionale che regnava nelle potenze europee, un’idea di primato delle loro culture e il
sistema politico tra gli Stati che aveva dominato il periodo pre-guerra. Un altro tentativo di
proclamare a livello internazionale il rifiuto della discriminazione razziale venne effettuato nel 1933.
L'argomento fu portato da un cittadino tedesco di origine ebraica, Franz Bernheim. Quest’ultimo si
lamentò davanti al consiglio della società delle Nazioni delle violazioni perpetrate dalla Germania
riguardo al trattato tedescopolacco del 1922, questo proteggeva le minoranze locate nell'alta Slesia.
Questa discussione naque in luce dell’aprile del 1933, periodo in cui il governo tedesco instituì leggi
che introducevano in tutta la Germania una grave discriminazione razziale. Il delegato della Polonia
constatò i limitati poteri del consiglio nell’agire attivamente nel limitare la discriminazione che stava
avvenendo, tuttavia, il consiglio pressantò un appello al governo tedesco per chiedere di assicurare un
trattamento uguale a tutti gli ebrei tedeschi, in virtù che vi è un minimo di diritti che deve essere
garantito ad ogni essere umano, quale che sia la sua razza, religione o lingua materna.
La situazione fu messa sotto scrutinio, nominando un comitato dei giuristi, questi ultimi diedero torto
alla Germania, questo portò il consiglio a decidere di adottare un rapporto nel quale si invitava la
Germania a far cessare le violazioni. Qualche mese dopo, la Germania chiese all'assemblea della
società delle Nazioni di sottoporre a una commissione il rapporto annuale della società, nella parte
relativa alle minoranze. Si accese una discussione su una questione di principio: se in ogni Stato civile
moderno tutti i cittadini dovessero godere di un eguale trattamento. La maggior parte degli Stati
rispose affermativamente, la delegazione tedesca affermò invece che uno Stato sovrano aveva il
diritto di considerare questo problema come una questione interna, sottolineando nuovamente come la
vecchia concezione dello Stato come prevaricante sul singolo fosse ancora viva nell’europa dello
scorso secolo.

5- Il secondo dopoguerra e la svolta

Dopo la seconda guerra mondiale gli sforzi per la protezione internazionale della dignità umana si
moltiplicarono, gli individui non furono più considerati, sul piano internazionale, solo come membri
appartenenti a un gruppo, a una minoranza oppure ad altre categorie. Essi divennero oggetto di
protezione in quanto individui. A cambiare, nel secondo dopoguerra, è la ratio stessa delle norme
internazionali a tutela dei diritti umani. I paesi dell’Asse e gli Alleati si trovavano su fronti opposti di
una guerra devastante che infuriava dal 1939. Col passare del tempo, divenne chiaro che si trattava
ormai di una lotta tra governi che cercavano un’espansione imperialista aggressiva e politiche
discriminatorie e stati che proteggevano la libertà e la pace. dei popoli e delle persone. Maturò l’idea
che la causa della guerra risiedesse nel disprezzo dei diritti e delle libertà umane proclamato da Hitler
e si fece strada il concetto che, se si voleva evitare il ripetersi della tragedia provocata dal nazismo,
bisognava prendere coscienza dell’importanza del binomio pace-diritti umani e operare perché questo
binomio diventasse lo scopo di tutti gli Stati e della comunità internazionale. Così nella comunità
internazionale si insediò una nuova spinta al giusnaturalismo, portando alla conclusione che il
rispetto dei diritti umani debba costituire il punto di non ritorno della nuova comunità mondiale che
sorgerà dopo la sconfitta dell’Asse. Nel 1945 furono gli Stati occidentali a sostenere la dottrina neo
giusnaturalistica, fondata su tre grandi principi: il diritto dei popoli all’autodeterminazione, i diritti
umani e il pacifismo “armato”. Il presidente Roosevelt, degli Stati Uniti, inviò un messaggio al
Congresso, in cui designò il progetto della nuova comunità internazionale che sarebbe dovuta nascere
in seguito al conflitto. L'obiettivo principale era sostenere quattro libertà: la libertà di parola e di idee;
il diritto di praticare la propria religione; la libertà dalla fame (ovvero il diritto ai diritti economici e
sociali); e la libertà dalla paura (cioè la diminuzione delle armi per scoraggiare gli attacchi armati).
Vennero anche creati dei tribunali penali internazionali per rispondere al bisogno di ottenere
giustizia, consentendo la punizione dei criminali di guerra tedeschi e giapponesi che avevano
commesso atti disumani. Queste due impostazioni si integrarono esprimendo il desiderio di punire
chi aveva commesso atrocità e allo stesso tempo di prevenire il ripetersi di simili azioni nel futuro,
stabilendo parametri di comportamento da rispettare anche in tempo di pace.

CAPITOLO II: LA PROTEZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI

-1 La carta dell’onu

La carta dell’Onu rappresenta la prima pietra giuridica della protezione dei diritti umani a livello
universale. I principi fondamentali dell’Organizzazione furono delineati durante la Conferenza di
Dumbarton Oaks (agosto-ottobre 1944) a cui parteciparono i rappresentanti di 4 potenze: USA,
URSS, Gran Bretagna e Cina con lo scopo di delineare i caratteri fondamentali della nuova
Organizzazione che avrebbe preso il posto della “vecchia” Società delle Nazioni. Quando si passò dal
riconoscimento politico dagli ideali umanitari all’adozione di vere e proprie clausole sui diritti umani
però gli Stati Uniti si opposero, infatti nel 1945 questi avevano in vigore ancora molte leggi razziste.
Alla fine la disposizione presentata dalle 4 potenze sui diritti umani fu molto debole. Quando si svolse
la Conferenza di San Francisco (1945) a cui parteciparono ben 50 Stati si delinearono 3 schieramenti:

1) Da una parte vi era un gruppo di stati latino-americani (soprattutto Brasile, Cile, Cuba, Colombia)
che insieme ad alcuni stati occidentali (Australia, Norvegia, Nuova Zelanda) e altri paesi come
l’India, proposero emendamenti che tendevano ad affermare l’esistenza di un vero e proprio obbligo
internazionale di rispettare i diritti dell’uomo.

2) Il secondo gruppo era composto dalle maggiori potenze occidentali che, per quanto favorevoli allo
sviluppo dei diritti umani, si opponevano a un’espansione della sfera d’azione delle Nazioni Unite.
Gli Stati Uniti si opposero a un ampliamento dell’art 56 della Carta (che prevede per gli stati
contraenti l’impegno ad agire per ottenere il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali). Gli Stati Uniti volevano che il rispetto dei diritti in questione fosse
recepito dalla Carta in chiave programmatica, ossia come un fine dell’Organizzazione.

3) Un terzo gruppo di stati, composto dai paesi socialisti (Bielorussia, Cecoslovacchia, Ucraina) e
guidato dall’URSS, si distingueva per il fatto di insistere sull’importanza del diritto dei popoli
all’autodeterminazione. L’URSS formulò proposte che resero evidente l’esistenza di profonde
divergenze fra gli stati occidentali e quelli dell’europa orientale.

Leggendo risulta in modo particolare dal fatto che nonostante la Carta dell’ONU contenga ben 7
riferimenti ai diritti umani, in nessun articolo è enunciato il contenuto di questi diritti. Quello che
manca alla Carta è proprio un catalogo degli specifici diritti tutelati dall’Organizzazione.
Nell’immediato dopoguerra, infatti, quando la Carta è stata redatta, già iniziava a profilarsi lo scontro
tra due blocchi di paesi, ognuno dei quali con una propria concezione dei diritti umani: da un lato, i
paesi dell’area socialista, sotto la leadership dell’Unione Sovietica; dall’altro, il blocco dei paesi
occidentali (in senso politico), guidati dagli Stati Uniti. Questo stallo geo-politico portò
l’organizzazione ad avere poteri molto limitati e i diritti umani a non essere chiaramente definiti. Gli
unici poteri posseduti sono la possibilità di intraprendere studi e fare raccomandazioni agli stati, ma
che hanno un carattere non vincolante. Inoltre, per rispettare il principio di non ingerenza negli affari
interni di uno stato, l’Organizzazione può perseguire questo fine con delibere di carattere generale e
astratto; essa non è autorizzata a puntare il dito contro casi isolati o singoli stati che si rendano
responsabili di una violazione dei diritti umani. I poteri dell’Organizzazione per promuovere il
rispetto dei diritti umani sono quindi limitati. Nel 1945 la protezione dei diritti dell’uomo era
concepita come un fine sussidiario dell’ONU, un fine funzionale rispetto a quello principale
dell’Organizzazione: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Le disposizioni
pertinenti della Carta si ispiravano alla convinzione che il rispetto dei diritti umani andasse
considerato solo come un mezzo per la salvaguardia della pace.

-2 La dichiarazione universale

Viste le lacune della Carta dell’ONU il primo passo dell’Assemblea generale fu quello di impegnarsi
nella stesura di un catalogo internazionale dei diritti che potesse essere accettato da tutti gli Stati
membri. Nel 1946 fu creata una Commissione dei diritti umani composta da 18 stati rappresentativi
dei vari schieramenti, in maniera da poter trovare un punto in comune tra le varie potenze. I primi
dissidi si manifestarono in relazione alla natura giuridica del documento, più precisamente se il
documento fosse vincolante o meno per i firmatari. Il compromesso raggiunto fu di elaborare
entrambi i documenti a cominciare dalla dichiarazione, il cui testo finale fu adottato dall'Assemblea
generale nel 1948.
Quattro principali schieramenti discutevano nell’Assemblea generale:

1) I paesi occidentali che presero la leadership

2) L’America Latina

3) L’Europa socialista

4) Le nazioni asiatiche
Con la guerra fredda all’orizzonte, le due parti più in contrasto furono lo schieramento socialista
(comandato dall’URSS) e quello dei paesi occidentali ( con a capo gli Stati Uniti). John P Hendrick,
consigliere di Eleanor Roosevelt, affermò che la politica statunitense consisteva nel produrre una
dichiarazione identica a quella americana di indipendenza e dei diritti dell’uomo. I socialisti volevano
invece impedire all’Occidente di esportare i propri valori sul piano internazionale. Gli occidentali
proponevano di estendere a livello mondiale i solenni principi delle tre grandi democrazie in cui i
diritti umani erano nati: Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. Sostanzialmente, quindi, nella
connotazione individualistica che essi avevano creato nel Settecento e nell’Ottocento.
I paesi sovietici accettarono di collaborare alla elaborazione della Dichiarazione, però soltanto dopo
che gli occidentali sembravano disposti ad accogliere nel testo una serie di diritti economici e sociali,
inizialmente non inclusi perché sconosciuti nella concezione tradizionale. Il blocco sovietico diede
una mano alla stesura della Dichiarazione, formulando proposte ed emendamenti, che però in parte
vennero respinti. Una prima linea di azione dei socialisti consistette nel proporre l’inserimento, nella
Dichiarazione, di diritti come: il principio di eguaglianza (ossia il divieto di discriminazioni basate su
razza, sesso, colore...), il diritto di ribellione contrò autorità oppressive, il diritto delle minoranze
nazionali a veder riconosciuti e rispettati i loro diritti di gruppo, il diritto di autodeterminazione dei
popoli coloniali.
Un’altra direttrice di azione, intesa anch’essa a utilizzare la Dichiarazione come arma per criticare i
paesi occidentali, consistette nel chiedere che venissero previsti meccanismi di attuazione dei diritti
sanciti nella Dichiarazione. I paesi socialisti propugnavano un concetto secondo cui i diritti umani
vanno accordati finché’ restano nel quadro democratico. I socialisti sostennero che i diritti umani
dovevano essere concepiti in modo tale da renderli compatibili con la sovranità statale. I diritti umani
dovevano essere realizzati da ciascuno Stato nel quadro del suo sistema nazionale, ossia i parametri
sanciti a livello mondiale andavano utilizzati e attuati nel contesto di ogni stato sovrano. Questa tesi
finisce per porsi in contraddizione con le richieste, rivolte all’Occidente, di praticare effettivamente i
diritti economici e sociali.
Il risultato di questi scontri ideologici fu una dichiarazione posta su 4 pilastri fondamentali:

1) diritti della persona (di eguaglianza, alla vita, alla libertà, alla sicurezza ecc)

2) diritti che spettano all’individuo nei rapporti con i gruppi sociali a cui partecipa (alla riservatezza,
libert di movimento, religiosa, diritto di proprietà ecc)

3) diritti politici (es di pensiero e di riunione)

4) diritti economici e sociali (di lavoro ed equa retribuzione,al riposto e all’assistenza sanitaria ec)

Il punto di incontro e di raccordo di concezioni diverse dell’uomo e della società dei due schieramenti
della Guerra Fredda porta il nuovo trattato ad avere tre matrici ben distinte che coesistono al suo
interno:

a) matrice giusnaturalistica, ispirata soprattutto dall’Occidente, appare già nel Preambolo, nel quale si
parla “di dignità innata” degli esseri umani e dei loro diritti e della loro imprescrittibilità. L’art 1
proclama che tutti gli esseri umani sono nati liberi ed eguali nella loro dignità e nei loro diritti. Le
persone dovrebbero distinguersi solo per le loro doti naturali. Un’altra attenuazione della visione
giusnaturalistica consistette nel non riconoscere solo l’individuo come titolare di diritti, ma
nell’ammettere accanto all’individuo anche i gruppi sociali come “sedi” di realizzazione della
“personalità”: la famiglia, la comunità nazionale.

b) La matrice ideologica statalistica influenzò la Dichiarazione in 4 modi. Anzitutto, attraverso il


concetto che l’individuo non vive isolato, bensì vive con “gettatezza”, immerso in un certo ambiente
sociale, che ne determina o ne condiziona la vita e gli svolgimenti pratici. In secondo luogo,
l’influenza socialista si avverte nell’inserimento dei diritti economici, sociali e culturali. In terzo
luogo, i paesi dell’Europa orientale riuscirono a far passare la loro idea dei doveri dell’individuo nei
confronti della comunità in cui vive. In quarto luogo, trionfò l’idea che i diritti sono ammissibili solo
se esercitati in modo da non urtare contro i fini e i principi dell’ONU o l’esercizio dei diritti di altri
individui o gruppi.

c) La matrice nazionalistica, chiamata così perché ispirata dall’esigenza di salvaguardare quanto più
possibile la sovranità nazionale, prese corpo soprattutto nell’eliminazione del diritto di petizione, nel
non accoglimento dei diritti delle minoranze nazionali. Un altro modo in cui si cautelò contro possibili
eccessi umanitari, consistette nel decidere di non attribuire valore giuridico vincolante alla
Dichiarazione la quale appunto fu approvata come una semplice promessa reciproca e solenne, ma
non comportava obblighi giuridici per gli Stati. Anche contro questa “diminuzione di valore” si
pronunciarono i socialisti, i quali pensavano invece che un atto giuridicamente vincolante avrebbe
potuto costituire un’arma migliore nella loro campagna di accuse contro l’Occidente.

Nonostante i suoi limiti e la tribolata nascita, la dichiarazione resta un punto fermo di grande
importanza. L’impulso alla protezione internazionale dei diritti dell’uomo dato fu il primo grande
passo verso la sensibilizzazione delle nazioni. Essa ebbe tra l’altro il merito di formulare un concetto
unitario e universalmente riconosciuto dei valori che dovevano essere difesi da tutti gli stati nei loro
ordinamenti interni. Non si rivolse solo ai membri dell’ONU, ma a tutti gli stati della comunità
mondiale. La Dichiarazione ha favorito l’emergere dell’individuo, all’interno di uno spazio prima
riservato esclusivamente agli stati sovrani.

-3 I trattati internazionali a tutela dei diritti umani

Dopo l’elaborazione della Dichiarazione Universale un comitato si adoperò al fine di trasformare le


norme di natura generale contenute, in norme giuridiche vincolanti. Si trattò non di un singolo trattato,
ma di due strumenti giuridici distinti: uno sui diritti civili e politici, l’altro sui diritti economici, sociali
e culturali. Già nel 1954 la Commissione dei diritti umani aveva completato la redazione dei due
progetti di Convenzione, chiamati Patti (Covenants). Da notare i ritardi nell’implementazione di
questi obblighi sul palcoscenico mondiale, mentre i più generali principi sembrano ampiamente
concordati, gli strumenti applicativi sembrano rimanere indietro. Per capire questa situazione bisogna
tener conto del contesto internazionale. Nella seconda metà degli anni Cinquanta la contrapposizione
tra i due blocchi si è fatta più aspra. La battaglia per i diritti umani è vissuta come uno strumento di
affermazione di una superpotenza sull’altra, nel contesto della guerra fredda. A partire dagli anni
Sessanta, il processo di decolonizzazione raggiunge il suo apice, e il numero degli Stati membri delle
Nazioni Unite è più che raddoppiato. La maggioranza nell’Assemblea Generale si è rovesciata a
favore dei paesi in via di sviluppo, e un numero di stati si è trovato a esaminare per la prima volta atti
alla cui elaborazione iniziale non aveva partecipato. Ciò spiega anche la scelta di redigere due Patti
anziché uno. Vi sono 154 stati vincolati dal Patto sui diritti civili e politici e 151 vincolati da quello
sui diritti economici, sociali e culturali. Inoltre, l’adozione di due Patti si fonda sulla diversa natura
dei diritti sanciti, da cui discende una diversità nella loro applicazione e negli strumenti di controllo.
Si ritiene che i diritti civili e politici abbiano carattere precettivo, cioè siano suscettibili di immediata
applicazione all’interno degli ordinamenti statali. I diritti dell’area economico-sociale sono, d'altro
canto, ritenuti avere carattere programmatico, nel senso che la loro attuazione può non essere
immediata, richiedendo che lo stato si attivi con proprie politiche per attuare cambiamenti. Dalle
diversità di attuazione deriva anche la diversità negli strumenti di controllo. Contestualmente al Patto
sui diritti civili e politici, infatti, fu adottato un Protocollo addizionale, facoltativo, istitutivo dal
Comitato per i diritti dell’uomo. Il Comitato è al centro di un meccanismo di controllo a carattere
quasi giurisdizionale, in cui è reso possibile agli individui che si ritengano vittime di una violazione
del Patto di presentare una comunicazione al Comitato stesso. Un simile controllo non è previsto dal
Patto sui diritti economici, sociali e culturali. L’unica forma di monitoring del Patto resta l’esame di
rapporti periodici presentati dagli Stati. Essi presentano anche tratti comuni, a cominciare dal
Preambolo (in cui figura proprio un richiamo alla Carta dell’ONU e alla Dichiarazione Universale) e
dal comune art 1, in cui viene affermato il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Altre clausole
simili sono quelle che riguardano la parità giuridica e la possibilità di derogare al Patto. Altri trattati
sono stati adottati nel corso del tempo in specifici settori del diritto internazionale. Si tratta di
Convenzioni internazionali che tutelano un particolare diritto o una categoria di soggetti: le
Convenzioni sul genocidio, sulla discriminazione razziale, sulla discriminazione sulle donne, sulla
tortura. Gli stati, quando accettano di impegnarsi nell’area dei diritti umani, tendono a considerare che
il rispetto degli obblighi da essi assunti sia limitato ai cittadini sottoposti alla propria giurisdizione
all’interno del territorio nazionale. Essi ritengono che gli impegni presi operino soltanto in un ambito
territoriale circoscritto. Tuttavia, gli organi internazionali istituiti per vegliare sul rispetto dei diritti
umani hanno interpretato gli obblighi assunti in materia dagli stati come disposizioni aventi anche un
ambito di applicazione extraterritoriale.

-4 “Oltre” la carta dell’onu: l’evoluzione dell’azione internazionale sui diritti dell’uomo

Nei 111 art della Carta dell’ONU, vi sono sì 7 riferimenti ai diritti umani, ma in ultima analisi i poteri
dell’Organizzazione risultano essere blandi, spesso incontrano il cosiddetto limite del dominio
riservato. L’azione dell’Assemblea Generale ha portato all’erosione del limite del dominio riservato,
cosicché questo organo ha attualmente il potere di occuparsi di casi di flagranti violazioni dei diritti
umani perpetrate dagli Stati membri.
Nel corso degli anni le Nazioni Unite hanno cercato di respingere le obiezioni fondate sul rispetto
della sovranità statale e hanno discusso su molte questioni riguardanti il rispetto dei diritti umani. Di
solito si trattava però di violazioni su larga scala, piuttosto che di casi isolati. Le Nazioni Unite hanno
giustificato il loro intervento col motivo che queste infrazioni flagranti e massicce erano una minaccia
alla pace e alle relazioni amichevoli fra gli Stati. L’intervento dell’ONU ha assunto varie forme :
discussioni pubbliche in seno alle Nazioni Unite, adozione di risoluzioni e raccomandazioni agli Stati
membri di adottare sanzioni pacifiche contro lo Stato colpevole. Contemporaneamente al progressivo
affermarsi della normativa in materia di diritti dell’uomo, si fece però gradualmente strada, fra gli stati
membri delle Nazioni Unite, l’idea che fosse pienamente giustificato l’intervento da parte
dell’Organizzazione negli affari interni dei singoli stati, almeno nei casi di serie e gravi violazioni dei
diritti umani su larga scala, e anche quando le violazioni non costituivano una minaccia alla pace e
alle relazioni amichevoli fra gli stati.
Si sono affermate gradualmente anche alcune importanti norme consuetudinarie, ovvero norme che
vincolano tutti gli stati della comunità internazionale indipendentemente dal fatto che essi abbiano o
meno ratificato Convenzioni in materia. Tra queste, la più importante è quella che proibisce gravi,
ripetute e sistematiche violazione dei diritti umani. La pratica degli stati e una corrispondente opinio
juris dimostrano che altre regole fanno ora parte del corpus del diritto consuetudinario: quelle che
vietano la schiavitù, il genocidio, le discriminazioni razziali; la norma che proibisce il diniego, con la
forza, del diritto dei popoli all’autodeterminazione; la norma che vieta la tortura. Si sta poi lentamente
cristallizzando un’altra norma consuetudinaria: quella che vieta le discriminazioni di genere (gender
discriminations).
Bisogna notare che queste norme, impongono obblighi di natura erga omnes, ciò significa che si tratta
di obblighi che lo stato assume nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso.
Dunque, un’eventuale violazione degli obblighi a tutela dei diritti umani fa si che tutta la comunità
internazionale possa considerarsi lesa dalla violazione stessa, diventando quindi legittimo richiederne
la cessazione in quanto parte lesa.
Le norme consuetudinarie a tutela dei diritti umani hanno assunto lo status di diritto cogente ovvero
sono dotate di una particolare resistenza giuridica: nessuno stato potrà concludere un trattato in cui
rende legittima la violazione di una di quelle norme.

-5 La protezione dei diritti dell’uomo a livello regionale

Quando si passa dal piano della definizione dei diritti a quello della loro applicazione, la
regionalizzazione consente di raggiungere soluzioni più avanzate e maggiormente efficienti. La
ragione è ovvia: i diritti dell’uomo sono in stretta connessione con il sostrato sociale, culturale e di
sviluppo dei vari paesi; dunque, è più agevole predisporre meccanismi di attuazione a livello regionale
che non a livello universale, con questa idea, nel 1950 fu adottata la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa, a sua volta, ha ispirato la
Convenzione americana sui diritti umani nel1969 e della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei
popoli del 1981. .
La convenzione americana sui diritti umani è stata stipulata nel 1969 sotto gli auspici
dell’Organizzazione degli Stati americani (OSA), e attualmente è stata ratificata da 25 stati latino-
americani e dell’America centrale, incluso il Messico; né gli Stati Uniti né il Canada ne fanno parte.
Essa proclama in modo dettagliato numerosi diritti civili e politici, e istituisce un meccanismo
internazionale di garanzia incentrato su due organi: la Commissione e la Corte interamericana dei
diritti dell’uomo. Ciascuno dei due organi è composto da 7 giudici, che agiscono a titolo di esperti
indipendenti. La Commissione può ricevere petizioni individuali per presunte violazioni di diritti
umani perpetrate da uno stato membro dell’OSA. Per gli stati che non sono parte della Convenzione,
la Commissione applica la Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo, adottata a
Borgotà nel 1948. La Corte ha invece una competenza più limitata. Solo la Commissione
interamericana e gli Stati parte della Convenzione americana possono presentare ricorsi davanti alla
Corte. I procedimenti possono riguardare unicamente gli stati che abbiano ratificato la Convenzione e
che abbiano riconosciuto la giurisdizione della Corte. La Corte svolge anche una funzione consultiva:
essa infatti può emanare pareri su richiesta di uno stato membro o di un organo dell’OSA. La Corte,
quando ne faccia richiesta uno stato membro dell’OSA, può anche emettere un’opinione riguardo alla
compatibilità di una legge nazionale dello stato in questione con gli strumenti internazionali
interamericani sui diritti umani.
La carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli invece è stata adottata nel 1981 in seno
all’Organizzazione dell’Unità africana. La carta prevede un sistema di garanzia incentrato su una
commissione, che però è soprattutto un organo di monitoraggio, ancora privo di qualsiasi funzione
giudiziaria. Una vera e propria corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli è prevista dal
Protocollo addizionale alla carta africana, approvato nel 1998 ed entrato in vigore il 25 gennaio 2004.
Prima di arrivare all’adozione della Carta Araba del 1944, per molti anni si sono intrecciati i tentativi
di codificazione dei diritti umani in seno alla Lega araba e all’Organizzazione della Conferenza
islamica. Mentre il testo della Lega araba è ispirato alla Dichiarazione universale del 1948 e
all’universalismo dei diritti umani, quello della Conferenza islamica contesta anche la definizione
universalistica di diritti dell’uomo e sostiene che vi siano diritti specifici della persona araba.
In generale si può dire che il livello universale offre soprattutto una definizione dei diritti; viceversa, il
livello regionale rappresenta la soluzione ottimale per risolvere il problema della loro applicazione.
Questa interpretazione è confermata dai testi normativi finora adottati che spesso contengono un
esplicito riferimento proprio alla Dichiarazione Universale dei diritti umani.

CAPITOLO III: COSA SI INTENDE PER DIGNITA’ DELLA PERSONA UMANA


1- Il problema

Il cuore della dottrina dei diritti umani è il concetto di dignità della persona. Rispettare quei diritti
significa tutelare la dignità di ogni essere umano. Questa tutela è assurta in Francia a “principio
costituzionale”. Ma cosa si intende per dignità umana?

2- Kant

Il cuore della dottrina dei diritti umani è il concetto di dignità della persona. Rispettare quei diritti
significa tutelare la dignità di ogni essere umano. Ma cosa si intende per “dignità umana”? Molte
definizioni di questo concetto sono state date, ma l’ispirazione della concezione contemporanea
giunge dal filosofo Immanuel Kant.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi egli osservò che : “L’umanità è essa stessa una
dignità ; l’uomo non può essere trattato dall’uomo (da se stesso o da un altro uomo) come un semplice
mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine. In ciò consiste la sua dignità”. Nella
Metafisica dei costumi il filosofo ribadisce il concetto : “L’uomo, considerato nel sistema della natura
(homo phaenomenon, elemento del mondo sensibile) è un essere di importanza mediocre ed ha un
valore modesto che condivide con tutti gli altri animali. Ma, considerato come persona, egli è al di
sopra di qualunque prezzo, perché, come homo noumenon (membro del mondo intellegibile), egli non
può essere considerato un mezzo per fini altrui, ma un fine in se stesso, e cioè egli ha una dignità con
cui costringe tutte le altre creature ragionevoli al rispetto della sua persona e può considerarsi uguale
ad esse”. Kant aggiunge : “Il rispetto che ho per gli altri o che un altro può esigere da me è il
riconoscimento della dignità ,e cioè di un valore che non ha prezzo”. Kant giunge anche a dire che è
contrario al concetto di dignità punire in modo disumano l’uomo malvagio : “Non posso rifiutare
neanche al malvagio il rispetto che gli devo in quanto uomo, che non gli può essere tolto nemmeno se
con i suoi atti se ne rende indegno. Perciò ci possono essere pene infamanti, che disonorano tutta
l’umanità. Per l’uomo geloso del proprio onore queste pene non solo sono più dolorose della perdita
dei suoi beni e della vita, ma fanno anche arrossire di vergogna lo spettatore per il fatto di appartenere
a una specie che si comporta in tal modo.” La concezione kantiana pone il mio io al centro del mio
mondo, ma così devo considerare anche l’altro, che diventa così un soggetto da rispettare e difendere.

3- Il caso del nano e il consiglio di stato francese

Un caso giuridico illustra cosa debba intendersi per “dignità della persona umana”. Nel 1991 la
discoteca di un paese della provincia francese, decise di inserire nello spettacolo serale il “lancio del
nano”: doveva consistere nell’offrire agli spettatori la possibilità di lanciare un nano, per vedere chi
riuscisse a scagliarlo più lontano. Il sindaco della cittadina vietò lo spettacolo, affermando che era
contrario all’ordine pubblico e al rispetto della dignità umana. La società che gestiva lo spettacolo
fece appello al tribunale amministrativo di Versailles, che le diede ragione. Il sindaco della cittadina
impugnò però quella sentenza davanti al Consiglio di Stato, che la annullò con una decisione del
1995. Il supremo organo di giustizia amministrativa osservò che utilizzare “come proiettile una
persona affetta da un handicap fisico, e presentata come tale lede la dignità della persona umana”. Il
Consiglio ammise che nel caso di specie il nano aveva liberamente scelto di prestarsi allo spettacolo, e
che anzi invocò il principio del “diritto del lavoro” e la “libertà dell’impresa e del commercio”. Esso
però ritenne che il rispetto della dignità della persona umana dovesse prevalere sia sulla volontà del
nano sia sui diritti di libertà da lui invocati.

CAPITOLO IV: I DIRITTI UMANI SONO DAVVERO UNIVERSALI?


1- Il problema

La Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948, e i due Patti del 1966 sui diritti civili e politici
e sui diritti economici, sociali e culturali si riferiscono ai medesimi parametri di comportamento a tutti
gli stati, ma non impongono lo stesso modello di società e lo stesso modello di stato. Ogni paese è
libero di darsi gli ordinamenti istituzionali e l’assetto politico che meglio riflettono le esigenze del suo
popolo e le tradizioni nazionali. Ogni paese è libero di decidere come realizzare l’autogoverno, così
come ha il diritto di decidere in che modo far partecipare concretamente i cittadini al governo della
cosa pubblica.
Nemmeno il sistema economico-sociale prevalente in ciascun paese è intaccato dalle norme
internazionali: uno Stato può conservare la sua struttura capitalistica o socialista, o darsi un altro
orientamento economico-sociale, purché rispetti e promuova una serie di diritti nella sfera dei rapporti
socio-economici. Resta il fatto che la Dichiarazione e i due Patti consacrano parametri di portata
universale, che almeno tendenzialmente dovrebbero valere per tutti gli stati del mondo. Come
possiamo creare un’istituzione universale in un mondo così delineato da casi particolari?

2- Divergenze nelle concezioni filosofiche e nelle tradizioni culturali

L’universalità è per ora un mito. Esistono anzitutto profonde divergenze nella concezione filosofica
dei diritti umani. I paesi occidentali sono ancora legati a una visione giusnaturalistica: per essi i diritti
umani sono connaturati agli individui, sono un elemento intrinseco della “qualità di persona umana”,
e dunque precedono ogni struttura statale e devono essere rispettati dai governi. Per paesi, quali la
Cina popolare, invece, i diritti umani esistono solo nella società e nello stato, e solo nella misura in
cui sono concretamente riconosciuti. Lo Stato può dunque limitarli e circoscriverli, quando le
necessità lo esigono. Un’altra divaricazione si ha riguardo alle differenti concezioni culturali e
religiose. Per gli occidentali, proclamare i diritti umani significa soprattutto tutelare la sfera di libertà
dell’individuo contro lo strapotere di uno stato invadente. Sia per i paesi socialisti sia per quelli in via
di sviluppo sono i diritti economici, sociali e culturali che dovrebbero essere privilegiati nell’azione
internazionale. I diritti economico-sociali hanno assoluta priorità, perché solo quando essi vengono
pienamente realizzati è possibile creare quella uguaglianza di fatto che rende pienamente fruibili e
proficue le libertà civili e politiche. Ma vi sono anche ragioni ideologiche e culturali che spiegano
perché i diritti e le libertà civili siano stati posti in secondo piano dai paesi in via di sviluppo. Nella
concezione buddista la società è modellata sul regime familiare: il leader è come un padre di famiglia,
con tutti i poteri, l’autorità e le cure del pater familias. La libertà consiste nell’armonizzare quanto più
possibile l’agire dell’individuo con quello del leader, al quale l’individuo deve tendenzialmente
ubbidienza. Nel sistema etico-religioso dell’India la separazione in caste, formalmente abolita,
comporta la necessità per ogni membro di ciascuna di queste categorie sociali di accettare senza
ribellioni la sua condizione. Compito di ogni individuo è quello di adoperarsi per agire positivamente
all’interno della propria casta, in modo da poter passare a una casta superiore nella vita futura, o
comunque di non peggiorare, dopo la morte, la propria condizione sociale. Nella tradizione
confuciana, il nucleo centrale della società è la famiglia e, all’interno di questa, il ruolo fondamentale
spetta al capofamiglia, cui gli altri membri del gruppo devono rispetto incondizionato. Questa visione
patriarcale è estesa allo Stato: l’imperatore è visto come un capofamiglia, a cui si deve un ossequio
assoluto. Rimane poco spazio per i diritti umani. Lo stesso vale per la pratica dei paesi dell’Islam
allontanatisi dai principi del Corano. Nel mondo islamico l’individuo è libero nella misura in cui vive
la propria esistenza secondo i precetti della sharia, la legge islamica. Nella tradizione africana
l’individuo si realizza nella comunità; questa è diretta da un leader, alla cui autorità tutti devono
piegarsi. Il leader agisce nell’interesse della collettività. Queste differenze culturali fanno sì che molte
voci si chiedano se nella comunità internazionale, abbia senso parlare di “universalità” dei diritti
umani.

3- Divergenze in relazione dei singoli diritti umani

Ci sono inoltre notevoli differenze nel modo in cui ogni Stato concepisce i singoli diritti.

Libertà di movimento: Come può un individuo espandersi e realizzarsi, se non è libero di circolare nel
territorio nazionale, scegliendo liberamente la residenza e il luogo di lavoro? Quella libertà comporta
anche la possibilità di recarsi all’estero, o per diporto o per perfezionare le proprie capacità, o anche
per stabilirsi in un paese nel quale le proprie qualità siano maggiormente valorizzate. Secondo gli
occidentali, la libertà di circolazione è connaturata ai concetti di libertà dell’individuo, ma discende
anche da un postulato: la persona umana ha potenzialità che deve essere libera di dispiegare e
arricchire. Alla base di quella libertà vi è la concezione capitalistico-individualistica del mondo, ma
anche il concetto dell’uomo elaborato dal cristianesimo e portato a maturazione dal Rinascimento:
della persona umana come microcosmo in espansione, ricco di possibilità che necessitano di un
ambiente circostante capace di farle fermentare. Visione opposta hanno i paesi in via di sviluppo. Qui
la necessità del decollo economico rende urgente porre drastiche limitazioni alla “fuga dei cervelli”.
Quali che siano le colpe del colonialismo, i paesi ex coloniali si sono trovati con pochissimi laureati e
diplomati. Sarebbe illogico consentire l’espatrio a giovani attirati all’estero da facili guadagni o dalle
potenzialità di moderni e attrezzati centri di ricerca. Tutto ciò rende la concezione della libertà di
circolazione diametralmente opposta a quella prevalente in Occidente

Incidenza della scienza e della tecnologia sul godimento dei diritti umani: la discussione su questo
tema fu proposta dalla Francia, in seno alle Nazioni Unite, negli anni ’70. Per quello Stato si trattava
di limitare gli sviluppi nocivi che la tecnologia moderna può avere, fino a mettere in pericolo la
“riservatezza” degli individui. Ma quel problema non fu visto negli stessi termini dai Paesi non
industrializzati, per i quali lo sviluppo tecnologico è benvenuto : lungi dall’auspicare una restrizione
dell’uso dei computer, quei paesi propugnavano l’introduzione del progresso scientifico e tecnologico
nelle loro comunità.
La questione delle mutilazioni genitali femminili: oggi al centro di un acceso dibattito che divide il
fronte degli attivisti dei diritti umani tra coloro che ne proclamano l’universalità e coloro che,
viceversa, difendono con forza la tesi del loro relativismo. Quella di infliggere mutilazioni agli organi
genitali delle donne è una pratica diffusa in molti paesi africani (Somalia, Etiopia, Nigeria.) e del
Medio Oriente (Yemen, Oman.). Le ragioni di questa pratica sono molteplici; in primo luogo, la
mutilazione è un segno di identità culturale e sociale, simbolo della piena integrazione della donna
nella comunità cui appartiene. Tale pratica in Occidente è considerata una grave violazione del diritto
della donna all’integrità fisica e morale. Le mutilazioni genitali, non solo producono un irreparabile
danno fisico, ma possono essere associate a complicanze pregiudizievoli per la salute della donna
(emorragie, dolore acuto...). Le mutilazioni genitali femminili sono una pratica discriminatoria
contraria alla dignità della donna. Eppure vi sono molte donne che chiedono di essere mutilate o
infibulate in quanto spesso la mutilazione è per la donna il prezzo dell’appartenenza sociale, e il suo
rifiuto comporta l’emarginazione dal gruppo

Libertà di culto: riguardo al diritto di indossare il velo nelle scuole per le ragazze e donne di fede
islamica. Le donne musulmane indossano il velo in osservanza di un precetto contenuto nel Corano.
Nei paesi in cui vige la sharia le donne sono obbligate per legge a portare il velo in presenza di uomini
o di adolescenti di sesso maschile. I problemi si pongono per le donne di fede islamica che, vivendo in
un paese occidentale, sono costrette a fare i conti con le leggi vigenti in quel paese; leggi che, in virtù
della separazione tra Stato e Chiesa, possono arrivare a bandire il velo dalle scuole. Ciò è accaduto ad
esempio, in Francia con una legge del 2004, in cui le associazioni islamiche francesi hanno fortemente
osteggiato la legge, sostenendo che il fatto di indossare il velo è parte integrante del diritto delle
ragazze alla libertà di religione. Si tratta di un vero e proprio precetto religioso.

4- Esistono punti di convergenza

I diritti umani non si trasformano in una forma di imperialismo culturale. Esistono due tendenze in
atto, che in qualche modo temperano e addolciscono le spaccature ideologico-politiche tra gli stati.
Da una parte, la tendenza a cercare una qualche sorta di “unificazione" almeno su alcuni problemi
cruciali, dall’altra, il ripiego, di fronte alle difficoltà poste dall’ “universalità”, sulla
“regionalizzazione" dei diritti umani contemporaneamente sulla loro “settorializzazione", ossia la loro
specificazione in ordine a singoli problemi o a singole categorie di persone. Malgrado le
differenziazioni si è creato un nucleo ristretto di valori e criteri universalmente accettati da tutti gli
stati. Praticamente quasi tutti gli stati del mondo mostrano di condividere l’idea che tra le più gravi
violazioni dei diritti umani sono da annoverare il genocidio, la discriminazione razziale, la pratica
della tortura, il rifiuto di riconoscere il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Ciò significa che tutti
gli stati concordano nel ritenere fondamentali almeno due grandi valori: il principio di eguaglianza, il
diritto di non essere sottoposti a trattamenti disumani, l’autodeterminazione dei popoli. La
regionalizzazione e la settorializzazione possono essere considerate come un tentativo di pervenire
gradualmente, attraverso altri mezzi, a un'unificazione dei diritti umani. “regionalizzazione" non
significa frantumazione dei diritti umani, ma tendenza alla ripresa di concetti e interpretazioni da un
certo ambito regionale all’altro.

CAPITOLO V: DIRITTI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE EUROPEA


1- Dalla carta di Nizza alla Costituzione Europea

Il Trattato costituzionale europeo, firmato a Roma nel 2004, contiene non solo una norma generale sui
“valori dell’Unione”, tra cui è incluso il rispetto dei diritti umani, ma anche, nella Parte II, un catalogo
di 54 diritti fondamentali spettanti a “ogni persona”, cioè a tutti gli individui che abbiano la
cittadinanza dell’Unione o che si trovino in uno dei Paesi che compongono l’Unione. La
“costituzionalizzazione” dei diritti fondamentali è un’innovazione importante nel panorama
comunitario, poiché fornisce agli individui strumenti nuovi per ottenere la protezione di quei diritti
solennemente enunciati. Da ciò non si deduca che prima dell’adozione del trattato costituzionale (non
ancora entrato in vigore) i diritti fondamentali fossero estranei all’ordinamento comunitario. Questo
era comunque improntato al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Ma la novità
introdotta dalla Costituzione sta nel fatto che prima d’ora non c’era in nessun trattato un catalogo dei
diritti fondamentali, al cui rispetto gli Stati e le istituzioni comunitarie fossero tenuti ad attenersi.
Infatti la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, adottata a Nizza nel 2000 non venne
trasfusa nel Trattato di Nizza, col risultato che il Trattato di Nizza (2001) risultò, al pari dei trattati
precedenti, privo di un qualsiasi catalogo dei diritti. Il Consiglio europeo proclamò solennemente che
la Carta di Nizza era stata adottata, ma, non essendo inserita nel trattato, essa era priva di valore
giuridico vincolante. Questa Carta è stata integrata nella Parte II della Costituzione europea : quando
il trattato entrerà in vigore, essa diventerà a tutti gli effetti parametro di legittimità dell’azione degli
organi dell’Unione europea, degli atti di diritto derivato (regolamenti, direttive e decisioni) e degli atti
adottati dagli Stati membri in attuazione del diritto dell’Unione.

2- I diritti fondamentali europei: innovazione o tradizione?

I diritti fondamentali proclamati nella Costituzione europea non riguardano i rapporti tra gli Stati
europei e i propri cittadini. Essi vengono conferiti a tutti gli individui che vivono o si trovano in un
Paese dell’Unione nei confronti : 1) delle istituzioni e degli organi dell’Unione; 2) degli Stati membri,
ma limitatamente alle attività che tali Stati esplicano nell’attuazione del diritto comunitario. Quindi le
norme che pongono quei diritti fondamentali non sostituiscono le Costituzioni degli Stati membri.
Ognuna di quelle Costituzioni continuerà a disciplinare i rapporti tra individui che si trovano nel
Paese e le autorità statali. D’ora in poi però a quei diritti costituzionali si affiancheranno altri diritti
fondamentali, spettanti agli individui nei confronti sia delle istituzioni europee sia degli organi statali
che attuano normative comunitarie. Ogni individuo che vive in un Paese dell’Unione europea sarà
dunque beneficiario di due distinti sistemi normativi : il sistema costituzionale nazionale e quello
comunitario. Nell’insieme, i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione europea riprendono i diritti
enunciati nella maggior parte delle Costituzioni nazionali. Un problema serio riguarda lo standard di
tutela : le norme europee individuano un minimo comune denominatore, come fanno le norme della
CEDU, ma con una differenza sostanziale : le norme della Costituzione europea disciplinano
direttamente l’azione delle istituzioni comunitarie, mentre quelle della CEDU si indirizzano agli Stati
contraenti, vengono “filtrate” attraverso le leggi e gli altri meccanismi nazionali di adattamento e sono
state precisate dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Non mancano però norme che si
pongono all’avanguardia delle Costituzioni moderne, perché sanciscono diritti fondamentali o ignoti
ad esse o da esse poco tutelati. Di regola poi le norme costituzionali, oltre a conferire diritti
fondamentali, indicano entro quali limiti è legittimo in alcune circostanze comprimere quei diritti, ad
es. per esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale. Esse, inoltre, per la disciplina dettagliata
delle possibilità di compressione o restrizione, rinviano alla legge ordinaria, che però deve attenersi al
dettato costituzionale in materia di limitazioni. Invece le norme della Costituzione europea in molti
casi non prevedono i limiti o le restrizioni dei diritti, lasciando così la materia incompleta. Una
soluzione è fornita da due norme : l’art. II-112, par. 1 e l’art. II-112, par.3. La prima norma rileva
come criterio generale per le limitazioni ai diritti. Essa stabilisce che le restrizioni debbano essere
previste per legge. La seconda norma dispone che, quando la Costituzione europea sancisce diritti
corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, “il significato e la portata degli stessi sono uguali a
quelli conferiti dalla suddetta Convenzione”. Dunque, per le limitazioni ammissibili a quei diritti,
bisognerà far capo alla CEDU e alla sua giurisprudenza. Nella maggior parte dei casi, invece, le
norme della Costituzione europea si limitano a rinviare al “diritto dell’Unione” e alle “legislazioni e
prassi nazionali”, senza però indicare entro quali limiti esse possono restringere o limitare i diritti
fondamentali. Ciò può consentire un certo arbitrio del legislatore, ma soprattutto porta a una disparità
di trattamento a seconda della legislazione nazionale applicabile. Tale disparità è ammissibile se l’atto
o l’azione che comprimono un diritto fondamentale promanano da un organo statale che agisce in
attuazione di norme comunitarie; questa disparità è invece discutibile se l’atto o l’azione è posto in
essere da organi o istituzioni dell’Unione. Perché rapportare sempre tutto alla legge nazionale
dell’individuo che si pretende leso in un suo diritto fondamentale dall’atto comunitario? In alcune
materie sarebbe più opportuno cercare di conseguire una tutela uniforme dei diritti fondamentali, ossia
una tutela europea. Tuttavia l’art. II-112, par.4 rinvia alle tradizioni costituzionali comuni (“Laddove
la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con queste tradizioni”). Ne consegue che le
istituzioni comunitarie potranno riferirsi alle leggi nazionali non solo in materia di limiti ai diritti
fondamentali, ma anche per trovarvi una soglia minima sotto la quale il legislatore comunitario non
potrà andare. Inoltre, quel legislatore potrà anche definire uno standard europeo di protezione più alto,
in funzione delle esigenze dell’ordinamento comunitario. Infine un altro limite delle norme della
Costituzione europea che pongono diritti fondamentali era stato proposto nella clausola secondo cui
quei diritti andavano interpretati dai giudici nazionali o europei alla luce delle “spiegazioni circa la
loro formulazione che saranno preparate su iniziativa del Praesidium della Convenzione”. Era una
norma discutibile, che avrebbe potuto finire per rimettere la questione dell’interpretazione delle norme
ai tecnici che materialmente avrebbero raccolto e presentato i lavori preparatori della Costituzione”.
Questa clausola è stata però sostituita dall’art. II-112, par.7, secondo cui : “I giudici dell’Unione e
degli Stati membri tengono in considerazione le spiegazioni elaborate per fornire orientamenti per
l’interpretazione della Carta dei diritti fondamentali”. Si lascia così ai giudici un ampio margine di
manovra, anche se a danno di un’interpretazione uniforme delle norme sui diritti fondamentali.

3- Norme “prescrittive” e “programmatiche”

Vediamo ora quali norme della Costituzione europea attribuiscono diritti fondamentali effettivi e
operanti ex nunc, e quali invece si limitano a tracciare un programma di azione delle istituzioni
europee o pongono principi. Quasi tutte le norme che proclamano diritti civili e politici sono
“prescrittive”, nel senso che attribuiscono diritti che possono essere fatti valere immediatamente dai
loro destinatari. Ci sono però delle eccezioni, come l’art. II-82, secondo cui : “L’Unione rispetta la
diversità culturale, religiosa e linguistica”, norma troppo generica e imprecisa per attribuire diritti
soggettivi chiaramente enucleati. Nel settore dei diritti economici, sociali e culturali sono molte le
norme che enucleano un programma di azione per l’Unione o indicano obiettivi da perseguire.
Un’altra norma che lOMoARcPSD|3565791 enuncia una sorta di programma è l’art. II-106, secondo
cui : “Ogni cittadino dell’Unione gode, nel territorio di un Paese terzo in cui lo Stato membro di cui
ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi
Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di questo Stato”. E’ una norma che riprende quanto
già disposto dall’art. 23 TFUE. Questa norma è emblematica di una tendenza che si riscontra nella
Parte II della Costituzione europea : fare apparentemente opera di innovazione, ma in modo più “di
facciata” che reale. Infatti né nel diritto internazionale né nella maggior parte degli ordinamenti statali
è previsto un diritto dell’individuo alla protezione diplomatica e consolare; ogni Stato è perciò libero
di decidere discrezionalmente se esercitare o meno la protezione diplomatica. Ora stabilire che il
cittadino di uno Stato membro che non abbia rappresentanza diplomatica in un certo Paese possa
essere equiparato al cittadino di qualunque altro Stato membro che invece abbia rapporti diplomatici
con quel Paese significa dire tutto e nulla. Tuttavia quelle stesse disposizioni che per un verso ci
appaiono così indeterminate da essere quasi deludenti, per un altro verso devono essere valutate
positivamente. Piero Calamandrei notò che una buona costituzione deve enunciare le sue norme in
modo tale che esse non si fossilizzino col passare del tempo, ma restino aperte a nuove esperienze e
prospettive di evoluzione. Quelle norme devono offrire ciò che gli architetti chiamano
“ammorsature”, cioè quelle pietre o mattoni che si lasciano sporgenti in un muro esterno per poter
eventualmente continuare la costruzione. Nella nostra Costituzione una norma concepita in modo da
rimanere aperta al futuro è l’art. 2 Cost. : “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo”. L’espressione diritti inviolabili, non riferendosi solo ai diritti sanciti nelle altre norme
della Costituzione, è un canale aperto a future immissioni nella nostra Costituzione di valori
fondamentali relativi al rispetto della dignità umana, non ancora rilevati nel 1948. Anche le norme
della Costituzione europea contengono quelle “ammorsature” : proprio la formulazione
deliberatamente generale e vaga di molte norme consente loro di essere gradualmente riempite di
contenuti compatibili con lo spirito della Costituzione europea. Paradossalmente la debolezza della
Costituzione diviene così la sua forza. Queste norme, così deludenti dal punto di vista della loro
concreta e immediata operatività, proprio per la loro genericità si prestano ad essere integrate da
future azioni giudiziarie o legislative.
4-Quali garanzie per i diritti fondamentali europei?

Sotto il profilo dei diritti proclamati la Costituzione europea è più avanzata delle Costituzioni
nazionali; ma se dal piano dell’enunciazione dei diritti passiamo a quello della loro garanzia, notiamo
che il sistema normativo della Costituzione europea, per quanto riguarda i diritti fondamentali, gode
di minori garanzie giudiziarie. I diritti fondamentali garantiti dalle Costituzioni nazionali godono di
tutte le garanzie giurisdizionali previste dall’ordinamento interno, che possono portare fino alla Corte
Costituzionale e, dopo tale sistema di garanzia, alla Corte EDU. Invece i diritti fondamentali
proclamati nella Costituzione europea non sono assistiti da efficaci meccanismi di garanzia.
L’individuo che ritenga un suo diritto fondamentale leso da un organo comunitario o da un organo
statale che abbia agito in attuazione di norme comunitarie non potrà adire direttamente il tribunale di
primo grado. L’individuo però può sollevare una questione davanti a un giudice nazionale, che può
eventualmente rinviarla alla Corte di Giustizia in via incidentale. Egli può anche usare il ricorso per
risarcimento del danno o impugnare l’atto che violi diritti fondamentali. La norma che prevede diritti
fondamentali può avere inoltre effetti diretti negli ordinamenti nazionali e, quindi, essere applicata
direttamente dai giudici interni. Infine, se il danno conseguente a una violazione di diritti
fondamentali è stato provocato da organi nazionali, può essere richiesto il risarcimento allo Stato.
L’individuo potrà inoltre presentare al Mediatore dell’Unione europea un reclamo contro casi di
cattiva amministrazione di organi non giurisdizionali comunitari, ma non di organi statali. Un parziale
rimedio a questo stato di cose alquanto insoddisfacente sarà la futura adesione dell’Unione europea
alla CEDU. Ora la competenza dell’Unione ad aderire alla Convenzione europea è espressamente
prevista dal trattato. Tale adesione :

1) avrebbe un grande valore simbolico, perché contribuirebbe alla formazione di un’ “identità
europea”;

2) darebbe ai cittadini europei una protezione contro atti arbitrari delle istituzioni dell’Unione analoga
a quella di cui attualmente godono i cittadini europei nei confronti degli atti degli Stati;

3) sarebbe un indice di democraticità, poiché l’Unione sarebbe sottoposta a un controllo esterno;

4) consentirebbe uno sviluppo armonioso della giurisprudenza delle due Corti, quella di Lussemburgo
e quella di Strasburgo, in materia di diritti umani, evitando così contraddizioni e divergenze.

Con tale adesione, ogni individuo che si considerasse leso in un suo diritto fondamentale da un atto
comunitario potrebbe ricorrere alla Corte di Strasburgo. Esiste però un limite : non tutti i diritti
proclamati nella Costituzione europea sono anche sanciti nella CEDU. Perciò si potrebbe invocare
davanti alla Corte di Strasburgo solo una violazione simultanea della Parte II della Costituzione
europea e della Convenzione.

5- Come raccordare i due sistemi normativi ( statale e comunitario ) sui diritti fondamentali?

Come fare in modo che il cittadino europeo non si smarrisca, confuso da due sistemi normativi sui
diritti fondamentali (quello statale e quello previsto dalla Costituzione europea) con contenuto e
garanzie diverse? La necessità di un raccordo non si pone quando il legislatore nazionale emana leggi
o altri atti sui diritti fondamentali contrari alla Costituzione europea, ma non attuativi di norme
comunitarie. In questi casi, il giudice nazionale può disapplicare l’atto interno per conflitto con il
diritto comunitario. Lo stesso avviene se la legge nazionale è in contrasto con una normativa
comunitaria di attuazione della Costituzione europea : anche in questo caso prevale la norma
comunitaria e l’organo di garanzia potrà essere la Corte di Giustizia, davanti a cui la Commissione
potrà sollevare la questione del conflitto della legge italiana con la norma comunitaria. Vediamo
invece quando è necessario il raccordo. L’art. II-112, par.3 stabilisce che ove la Costituzione europea
sancisca diritti salvaguardati dalla CEDU, le norme della Costituzione vanno interpretate alla luce
della Convenzione e della giurisprudenza della Corte. In tal modo si cerca di assicurare che il
cittadino europeo goda degli stessi diritti, sia quando ha a che fare con organi statali, sia quando si
ritiene leso da atti comunitari o da atti statali attuativi del diritto comunitario. Un secondo
meccanismo cerca di armonizzare i diritti fondamentali proclamati dalla Costituzione europea con i
sistemi costituzionali dei vari Stati membri. L’art. II-112, par.4 statuisce : “Laddove la presente Carta
riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri,
tali diritti sono interpretati in armonia con queste tradizioni”. Ad es., in materia di inviolabilità del
domicilio bisognerà considerare, oltre che le limitazioni previste dalla CEDU, anche le “tradizioni
costituzionali comuni” ai vari Stati membri, e cioè le loro convergenti interpretazioni di quel diritto e
le limitazioni a cui esso può essere legittimamente sottoposto. Tuttavia le disarmonie tra i due
complessi normativi, quello tradizionale di ogni Stato e quello previsto dalla Costituzione europea)
restano gravi, sia per quanto riguarda le garanzie che i contenuti. Il problema essenziale sorge a
proposito di atti posti in essere da organi statali e che incidono sui diritti fondamentali dei cittadini; se
questi atti non sono adottati in attuazione di una normativa comunitaria, il cittadino leso nel diritto
fondamentale godrà di tutte le garanzie giudiziarie fornite dal proprio ordinamento nazionale per porre
rimedio a quella lesione. Ma se l’atto è emesso da organi statali in attuazione di normative
comunitarie, il cittadino potrà usufruire di garanzie limitate. Egli potrà deferire una questione al
giudice nazionale, davanti a cui potrà sollevare una “questione pregiudiziale di interpretazione" della
norma comunitaria; se il giudice nazionale ritiene la questione incidentale fondata, potrà ricorrere alla
Corte di Giustizia in via pregiudiziale. L’individuo può inoltre impugnare, davanti al competente
organo comunitario, l’atto che violi i diritti fondamentali. Quindi il cittadino gode di garanzie
giurisdizionali diverse a seconda della materia (comunitaria o non) nell’ambito della quale opera
l’organo statale competente.

6- Considerazioni conclusive e qualche modesta proposta

La proclamazione dei diritti fondamentali nella Costituzione europea potrebbe apparire come
un'illusione: molte promesse vengono fatte ai cittadini europei, ma quando cercano di far valere i loro
diritti, spesso si ritrovano con poche possibilità per farlo. Di seguito,sono forniti i suggerimenti
proposti per migliorare la normativa attuale.

1) Dovremmo conferire ai singoli individui il potere di portare davanti alla Corte di Giustizia i casi in
cui ritengono che istituzioni dell'Unione o organi statali che agiscono in attuazione del diritto
dell'Unione abbiano violato i diritti fondamentali non contemplati dalla Convenzione europea dei
diritti dell'uomo (CEDU) e che quindi non possono beneficiare della tutela giurisdizionale della Corte
europea dei diritti dell'uomo. Una possibile modifica potrebbe riguardare la normativa sul diritto
d'azione davanti alla Corte, consentendo una maggiore partecipazione individuale al sistema
giurisdizionale dell'Unione.

2) Sarebbe auspicabile estendere esplicitamente il "diritto d'azione in annullamento" (che spetta ai


privati davanti al tribunale di primo grado) anche alle violazioni dei diritti previsti dalla CEDU,
fornendo così agli individui ulteriori mezzi di tutela (Corte di Giustizia e Corte europea dei diritti
dell'uomo).

3) Si potrebbe potenziare alcune clausole della Parte II, come l'articolo II-106. In relazione a questa
norma, potremmo separare la protezione diplomatica da quella consolare. Si potrebbe stabilire che i
cittadini europei abbiano il diritto di rivolgersi alle istituzioni europee, le quali avrebbero l'obbligo di
promuovere un'azione diplomatica a loro favore. Ciò conferirebbe agli individui un vero e proprio
diritto fondamentale alla protezione diplomatica. Per quanto riguarda la protezione consolare,
potremmo stabilire che ogni cittadino europeo che si trova in uno Stato terzo privo di rappresentanza
consolare del suo Paese abbia il diritto di rivolgersi al console di un qualsiasi Stato membro, con
l'obbligo per quest'ultimo di fornire assistenza.
4) Sarebbe auspicabile introdurre un diritto fondamentale basato sull'articolo 28 della Dichiarazione
Universale dei diritti umani del 1948, il quale afferma: "Ognuno ha diritto a un ordine sociale e
internazionale in cui i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente
realizzati". Questa norma collega i diritti civili e politici non solo all'assetto sociale interno dello
Stato, ma anche all'ordinamento internazionale. Si sottolinea che solo un sistema sociale giusto può
garantire la piena realizzazione dei diritti civili e politici, insieme a quelli economici, sociali e
culturali. Inoltre, essa sostiene che solo una società interna democratica può contribuire a una
comunità internazionale equa e giusta, e viceversa, solo una comunità internazionale democratica ed
equa può garantire la piena realizzazione dei diritti fondamentali degli individui all'interno degli stati
nazionali.

5) Poiché la Costituzione europea già enuncia che l’azione dell’Unione deve perseguire una serie di
ideali - come la democrazia, lo stato di diritto, il rispetto della dignità umana, ma anche la pace e la
solidarietà con i paesi più poveri - non sarebbe inopportuno enunciare il diritto fondamentale in
questione. In tal modo si esprimerebbe il concetto che l’Unione europea deve sì adoperarsi per
perseguire la pace e la solidarietà tra i popoli, ma ciò non deve essere oggetto di un potere
discrezionale delle istituzioni comunitarie, ma deve essere l’oggetto di un vero e proprio diritto
fondamentale di tutti i cittadini europei, che potranno dunque esigere dagli organi comunitari che si
impegnino fattivamente in tal senso.

PARTE II: COME GARANTIRE IL RISPETTO DELLA DIGNITA’


UMANA?

CAPITOLO VI: I MECCANISMI DI GARANZIA A LIVELLO UNIVERSALE

1- Introduzione

Chi lavora nel campo dei diritti umani si confronta con una fondamentale contraddizione: spesso,
sono gli Stati stessi, che talvolta violano i diritti umani, a cui bisogna rivolgersi per cercare di ottenere
il rispetto di tali diritti. Questo si scontra nuovamente con il concetto di sovranità statale, che limita le
iniziative di un controllo internazionale sul comportamento dei singoli Stati verso i propri cittadini. La
soluzione migliore per garantire il rispetto dei diritti umani potrebbe essere l'istituzione di meccanismi
giuridici internazionali. Tuttavia, a livello internazionale, non si applica il principio della risoluzione
obbligatoria delle controversie, che dipende sempre dalla volontà delle parti coinvolte. Di
conseguenza, i meccanismi di controllo stabiliti a livello globale offrono garanzie dei diritti umani
meno rigorose ed efficienti rispetto a quelli operanti a livello regionale.
Emerge un altro fatto significativo: a livello globale, mancano meccanismi di garanzia giurisdizionale,
ovvero Corti internazionali incaricate di assicurare l'osservanza universale dei diritti umani. Quindi, in
che cosa consistono esattamente i meccanismi di garanzia a livello internazionale? Innanzitutto,
possono essere suddivisi in due categorie principali: quelli istituiti mediante trattati internazionali e
quelli stabiliti tramite risoluzioni degli organi competenti delle Nazioni Unite.

2- I MECCANISMI ISTITUITI DAI TRATTATI SUI DIRITTI UMANI


Solitamente, i trattati sui diritti umani istituiscono un "Comitato" composto da esperti agendo
individualmente, cioè senza rappresentare gli Stati. Questi Comitati prendono il nome dalla
Convenzione che li istituisce, ad esempio il "Comitato contro la tortura," creato dalla Convenzione
contro la tortura. Questi Comitati sono responsabili di vigilare sul rispetto dei diritti garantiti dalla
Convenzione attraverso tre procedure:
1) Esaminano i rapporti periodici inviati dagli Stati firmatari. Il Comitato riesamina il rapporto e invia
osservazioni allo Stato interessato, ma queste osservazioni non sono vincolanti. Questo tipo di
controllo è relativamente debole e dipende dalla volontà di collaborazione degli Stati che hanno
ratificato il trattato, ed è applicabile a tutti gli Stati firmatari.
2) Esaminano presunte violazioni dei diritti umani da parte di uno Stato firmatario su iniziativa di un
altro Stato firmatario. Questo tipo di controllo può funzionare solo nei confronti degli Stati che, oltre a
ratificare la Convenzione, hanno accettato una clausola speciale che consente questo tipo di controllo.
3) Esaminano presunte violazioni dei diritti umani da parte di uno Stato firmatario su richiesta di
individui o gruppi di individui. Anche questa procedura richiede una clausola o un protocollo
specifico. Un esempio è il "Comitato per i diritti dell'uomo," creato dal Patto sui diritti civili e politici
del 1966. Questo Comitato opera attraverso le tre procedure descritte sopra ed è responsabile di
valutare le violazioni del Patto commesse dagli Stati firmatari del primo Protocollo addizionale. Gli
Stati devono inviare al Comitato un rapporto sullo stato di attuazione del Patto ogni 5 anni, ma spesso
questi rapporti sono ritardati e vaghi.
Per quanto riguarda l'esame delle "comunicazioni" individuali, il lavoro del Comitato è molto
proficuo e porta alla formulazione di "osservazioni" che, sebbene non vincolanti, spesso criticano
fortemente lo Stato coinvolto nella comunicazione. Inoltre, il Comitato emette "osservazioni generali"
che forniscono raccomandazioni utili per garantire un'interpretazione uniforme del Patto tra gli Stati
firmatari.
Tuttavia, il Patto sui diritti economici, sociali e culturali non prevede un organo di controllo specifico,
affidando tutte le funzioni di supervisione al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite
(ECOSOC). Nel 1985, l'ECOSOC ha creato un "Comitato per i diritti economici, sociali e culturali"
sulla base del modello del Comitato per i diritti dell'uomo. A differenza di quest'ultimo, il Comitato
per i diritti economici, sociali e culturali è un organo subordinato all'ECOSOC e non un organo
istituito dal trattato. Non ha la facoltà di esaminare le comunicazioni individuali.
Complessivamente, i meccanismi di controllo istituiti dai trattati non sono particolarmente efficaci e
possono generare conflitti di competenza tra diversi organi. Ad esempio, i vari Comitati non
richiedono che i rapporti statali siano esclusivamente sottoposti a un solo Comitato alla volta, il che
significa che uno stesso rapporto potrebbe essere valutato in modi diversi da Comitati differenti.

3- I MECCANISMI ISTITUITI DA RISOLUZIONI DI ORGANI DELL’ONU.

I principali meccanismi di controllo a livello universale in materia di diritti umani sono quelli stabiliti
dall'ONU attraverso risoluzioni dell'ECOSOC (Consiglio Economico e Sociale) o dell'Assemblea
Generale. Questi meccanismi coinvolgono due organi principali: la Commissione dei diritti umani e
l'Alto Commissario per i diritti umani.
La Commissione dei diritti umani è stata istituita dall'ECOSOC nel 1946 ed è incaricata di
promuovere e monitorare l'attuazione dei diritti umani negli Stati membri delle Nazioni Unite. È
importante notare che non va confusa con il "Comitato per i diritti dell'uomo," un organo di controllo
istituito dal Patto sui diritti civili e politici. Mentre il Comitato è composto da 18 esperti che operano
in modo individuale, la Commissione è composta da 53 Stati, quindi è un organo di natura politica.
Inoltre, il Comitato esamina le violazioni del Patto commesse dagli Stati firmatari del primo
Protocollo addizionale, mentre la Commissione si occupa di violazioni gravi e persistenti dei diritti
umani, indipendentemente dalla violazione di un trattato specifico. Tuttavia, non può affrontare
violazioni isolate o sporadiche.
Inizialmente, il mandato della Commissione si limitava all'esame dei rapporti statali, ma nel 1967 è
stato ampliato per includere l'esame di comunicazioni individuali (reclami) riguardanti violazioni
gravi e persistenti dei diritti umani. Questa procedura rappresenta un notevole passo avanti poiché
consente agli individui di avviare un meccanismo di controllo a livello universale. Nel 1970, è stata
istituita un'altra procedura, che può essere attivata tramite comunicazioni di individui o gruppi di
individui. A differenza della procedura pubblica precedentemente descritta, questa procedura è
confidenziale.
In aggiunta a queste procedure, la Commissione ha gradualmente sviluppato il sistema dei Relatori
speciali per questioni specifiche o territori. La procedura tematica si occupa sia di gravi violazioni sia
di singoli casi che coinvolgono interi gruppi di diritti umani. La Commissione può nominare gruppi di
lavoro, Relatori speciali o esperti se ritiene necessario esaminare una determinata questione. Ognuno
di questi può decidere di condurre un'indagine nel Paese coinvolto. In generale, questa procedura
permette alla Commissione di delegare a gruppi di lavoro o esperti il compito di esaminare e
denunciare pubblicamente la situazione del rispetto dei diritti umani in specifici Paesi o su questioni
di interesse per l'ONU.
Ora passiamo all'altro organo responsabile di garantire il rispetto universale dei diritti umani: l'Alto
Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Questa figura è stata istituita dopo la Conferenza
mondiale sui diritti umani tenutasi a Vienna nel 1993. L'Alto Commissario deve essere una persona di
alta integrità e competenza nel campo dei diritti umani, incaricata di promuovere e coordinare le
attività dell'ONU e delle istituzioni specializzate in questo campo. Il suo ruolo è quello di promuovere
il rispetto dei diritti umani in tutto il mondo e, se necessario, formulare raccomandazioni o fornire
assistenza. L'Alto Commissario ha un ruolo significativo nell'attirare l'attenzione dell'opinione
pubblica globale sulle gravi violazioni dei diritti umani.
In ogni caso, questi meccanismi di controllo operano in un contesto in cui gli Stati, pur avendo
assunto obblighi internazionali, spesso evitano un controllo giurisdizionale internazionale. Di
conseguenza, gli organi di controllo devono adottare un approccio prudente e cercare di evitare
atteggiamenti accusatori nei confronti dei governi. Invece, preferiscono utilizzare forme di pressione e
sollecitazione. È importante notare che questi meccanismi sono spesso influenzati da considerazioni
politiche e diplomatiche, il che può limitarne l'efficacia.

CAPITOLO VII: I MECCANISMI DI GARANZIA A LIVELLO UNIVERSALE

1- La Corte: organo efficace di controllo internazionale

Nel panorama internazionale, esistono organi di controllo dedicati sia a livello globale che regionale
per monitorare il rispetto dei diritti umani. Tra questi, uno dei più efficaci è la Corte europea dei diritti
dell'uomo, con sede a Strasburgo. Questa Corte è un organo giurisdizionale, con ampi poteri per
verificare i fatti, interpretare il diritto e emettere decisioni giuridicamente vincolanti. La Corte può
essere chiamata in causa dalle vittime di presunte violazioni della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, cioè da coloro direttamente colpiti. Questo rappresenta una significativa evoluzione,
poiché in passato era impensabile che un individuo potesse citare in giudizio un paese, o addirittura il
proprio paese, per accusarlo di aver violato un suo diritto fondamentale.

Nel sistema della Corte europea dei diritti dell'uomo, gli individui non solo possono iniziare
procedimenti giuridici internazionali, ma hanno anche il diritto di parteciparvi attivamente. La Corte
mette di fronte l'accusatore (la vittima di una grave violazione dei diritti umani) e l'accusato (lo Stato),
il quale deve difendersi dalle accuse di aver violato un diritto fondamentale dell'individuo. Questo
rappresenta un'importante innovazione rispetto al passato, in cui le relazioni internazionali
riguardavano principalmente gli Stati sovrani, mentre l'individuo non aveva un ruolo centrale, se non
come cittadino di uno Stato.

Nel contesto della Corte europea dei diritti dell'uomo, un individuo può rivolgersi direttamente a un
tribunale internazionale, indipendentemente dalla sua cittadinanza. La protezione prevista dalla
Convenzione europea dei diritti dell'uomo non è limitata ai cittadini degli Stati che l'hanno ratificata,
ma si estende a tutte le persone i cui diritti sono stati violati da uno di quegli Stati. L'unico requisito è
che l'individuo, indipendentemente dalla sua nazionalità, sia stato sottoposto alla giurisdizione dello
Stato accusato al momento della violazione.

2- Com’è nata la Corte?

L'istituzione della Corte europea dei diritti dell'uomo è il risultato di un lungo processo storico. Nel
1946, Winston Churchill propose la creazione di un'organizzazione regionale europea, il Consiglio
d'Europa, basata sulla cooperazione tra le democrazie europee e fondata sui principi di giustizia,
misericordia e libertà. Questo fu un passo cruciale verso la graduale creazione degli Stati Uniti
d'Europa. Nel 1948, al Congresso dell'Europa all'Aia, emerse la necessità di promuovere i diritti
umani come parte fondamentale della nuova Europa. Nel 1950, venne adottata la Convenzione
europea dei diritti dell'uomo a Roma, che entrò in vigore nel 1953, stabilendo una Corte europea dei
diritti dell'uomo.

3- il gradualismo della Convenzione europea del 1950

La Convenzione prevedeva un graduale processo di accettazione delle disposizioni, consentendo agli


Stati di aderire progressivamente a meccanismi di garanzia dei diritti umani sempre più incisivi. Nel
1998, il Protocollo 11 segnò un punto di svolta abolendo la Commissione europea dei diritti
dell'uomo, rendendo obbligatori i ricorsi individuali per tutti gli Stati contraenti e conferendo agli
individui ricorrenti il diritto di partecipare pienamente ai procedimenti davanti alla Corte. Questo
costituisce il sistema attuale di garanzia internazionale dei diritti umani nell'ambito del Consiglio
d'Europa.

4- La giurisprudenza della Corte ( e della Commisione)

La Commissione e la Corte, quando coesistevano (e negli ultimi anni la Corte), hanno emesso
numerosi giudizi su vari aspetti dei diritti umani stabiliti nella CEDU. Ecco alcune illustrazioni
significative per evidenziare l'importanza di questa giurisprudenza.

1) Il diritto alla vita nei conflitti armati interni. Due recenti sentenze sulla guerra civile in Cecenia
sono rilevanti. Si tratta di un conflitto di lunga data tra i ribelli ceceni, che cercano l'indipendenza
dalla Russia, e le autorità di Mosca che rispondono con la forza armata. Nel primo caso, un attacco
aereo russo a un convoglio civile nel 1999 causò vittime tra i civili, e la Corte ha respinto le
argomentazioni del governo russo, stabilendo che l'uso della forza non era giustificato in base
all'articolo 2 della Convenzione. Nel secondo caso, gli attacchi aerei indiscriminati vicino al villaggio
di un ricorrente nel 2000 portarono alla morte di molte persone, e la Corte ha concluso che il governo
russo aveva violato l'articolo 2.
2) La libertà di espressione. La Corte si è concentrata sulla restrizione legittima di questo diritto
fondamentale in base all'articolo 10, paragrafo 2 della Convenzione. Un esempio coinvolge il
settimanale "Sunday Times" che ha affrontato restrizioni nel pubblicare articoli sullo scandalo della
talidomide nel Regno Unito. La Corte ha stabilito che le restrizioni erano ingiustificate e non
necessarie per proteggere l'autorità giudiziaria.

3) Il diritto a un processo equo. La Corte ha affrontato casi in cui le garanzie di un processo equo
erano state violate. Ad esempio, un caso riguardava un cittadino irlandese interrogato dalla polizia
britannica senza l'accesso a un avvocato nelle prime 24 ore di custodia. La Corte ha condannato il
Regno Unito per non aver garantito il diritto a un processo equo.

4) L'obbligo positivo degli Stati di proteggere i diritti umani da parte di individui o entità non statali.
La Corte ha affrontato casi in cui gli Stati dovevano adottare misure legislative e amministrative per
proteggere gli individui da violazioni dei diritti umani da parte di terzi. Ad esempio, la Corte ha
stabilito che i Paesi Bassi avevano violato l'articolo 8 della Convenzione quando non avevano punito
un aggressore sessuale di una giovane disabile.

5- Meriti e limiti del controllo giudiziario della Corte

La Corte europea dei diritti umani svolge un ruolo essenziale nel garantire il rispetto dei diritti umani
nei 46 Stati membri del Consiglio d'Europa. Tuttavia, vi sono alcune sfide e limiti. Le sentenze della
Corte non hanno effetti diretti negli ordinamenti interni degli Stati, ma obbligano gli Stati a "osservare
la sentenza". Il Comitato dei Ministri sorveglia l'esecuzione delle sentenze, ma non sempre gli Stati
agiscono con la dovuta sollecitudine.

Per superare questi limiti, la Corte potrebbe sforzarsi di indicare chiaramente le misure interne che gli
Stati condannati dovrebbero adottare per eseguire le sentenze. Inoltre, dovrebbe rendere le sentenze
più accessibili al grande pubblico e divulgare il loro contenuto in riviste giuridiche e nei media. Il
Comitato dei Ministri dovrebbe adottare un ruolo più incisivo nel garantire l'esecuzione delle sentenze
e, se necessario, imporre sanzioni agli Stati che non le eseguono adeguatamente.

CAPITOLO VIII: IL RUOLO DELLA SOCIETA’ CIVILE

1- I governi e le istituzioni internazionali non bastano

Nella comunità internazionale, numerosi organismi intergovernativi esercitano pressioni sugli Stati
per garantire il rispetto dei diritti umani. Tuttavia, la mera adozione di norme internazionali vincolanti
sul tema non basta, poiché persino gli Stati più democratici possono tendere a limitare o negare tali
diritti. Inoltre, anche questi enti intergovernativi spesso sono influenzati da considerazioni politiche o
diplomatiche. Pertanto, è fondamentale la presenza e l'azione incisiva di attori della società civile
internazionale, che oggi si riuniscono in numerose Organizzazioni non governative (ONG) a livello
internazionale. Queste organizzazioni si distinguono dalle organizzazioni internazionali poiché sono
composte da individui, non da Stati.

2- Le aree di intervento delle ONG

Le ONG godono di indipendenza dai condizionamenti politici ed economici, in quanto tendono ad


autofinanziarsi. Ciò consente loro di intervenire in modo tempestivo in caso di gravi violazioni dei
diritti umani, svolgendo un ruolo significativo nell'informare l'opinione pubblica e i governi.
Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, entrambe con un'ampia portata
globale, sono famose per i loro rapporti accurati che documentano le violazioni dei diritti umani.
Le ONG possono anche estendere il loro campo di azione ai conflitti armati, interni o internazionali,
valutando se le norme di diritto internazionale umanitario, specialmente quelle volte a proteggere i
civili, vengano violate. Tali rapporti si basano su una rigorosa verifica dei fatti e spesso servono da
stimolo alle organizzazioni intergovernative.
Inoltre, molte ONG svolgono attività umanitarie operative, fornendo assistenza in aree in cui i governi
potrebbero non essere in grado di farlo tempestivamente. Organizzazioni come la Comunità di
Sant'Egidio, Emergency e Medici senza Frontiere forniscono un contributo inestimabile in questo
settore.
Le ONG agiscono anche direttamente sui governi o sulle organizzazioni intergovernative, spingendoli
a intervenire in situazioni specifiche relative ai diritti umani che richiedono azioni decise. Ciò può
avvenire attraverso il lobbying diretto presso i singoli parlamentari o funzionari governativi, o
mediante documenti o interventi orali nelle organizzazioni internazionali, come la Commissione dei
diritti umani delle Nazioni Unite o l'Assemblea Generale dell'ONU.
Infine, alcune ONG si rivolgono a organi giurisdizionali, sia a livello internazionale che nazionale,
agendo in qualità di "amici curiae" per presentare opinioni e suggerimenti in forma scritta. Questo
ruolo di amicus curiae è riconosciuto in molti paesi di common law e nei tribunali internazionali.
Le ONG incarnano l'etica del volontariato e del finanziamento privato, promuovendo ideali di
assistenza disinteressata a coloro che soffrono, in linea con i principi sostenuti da alcune grandi
religioni e teorizzati da filosofi come Kant. Senza il contributo delle ONG, la società internazionale
perderebbe una fonte preziosa di idee e iniziative provenienti dalla società civile.

PARTE III: I GRANDI OLTRAGGI ALLA DIGNITA’ UMANA

CAPITOLO IX: IL GENOCIDIO: LO STERMINIO DI GRUPPI PROTETTI

1- Gli stermini del passato

Anche se il termine “genocidio” è stato coniato da Lemkin nel 1944 per designare le atrocità che
stavano commettendo i nazisti in Europa, il fenomeno non era nuovo. Sin dai tempi più antichi lo
sterminio di interi gruppi umani aventi comuni connotati etnici, nazionali, razziali o religiosi è stata
una pratica diffusa e collegata di volta in volta a uno dei 3 fattori seguenti : 1) le guerre di conquista,
il cui sbocco ricorrente era il massacro della popolazione dei Paesi vinti; 2) la religione, che ha spesso
giustificato il massacro di interi gruppi religiosi avversari; 3) il dominio coloniale delle potenze
europee in America Latina, in Asia e in Africa, che ha costituito la causa della distruzione di intere
etnie o di popoli indigeni.

2- Il genocidio degli armeni, degli ebrei e dei rom

Nel nostro secolo, sono stati perpetrati due dei più gravi massacri della storia: il primo coinvolse gli
armeni tra il 1915 e il 1916, compiuto dai leader dell'Impero Ottomano in declino, mentre il secondo
coinvolse gli ebrei e i Romani tra il 1939 e il 1945 per mano dei nazisti. Questi due episodi di
genocidio condividono alcune caratteristiche comuni. Prima di tutto, sono stati resi possibili grazie
allo Stato moderno e all'utilizzo di mezzi di comunicazione avanzati, come ad esempio i treni
utilizzati per le deportazioni. Inoltre, entrambi i gruppi bersaglio avevano una religione diversa da
quella dei perpetratori e occupavano posizioni sociali ben definite, essendo sia gli armeni che gli ebrei
coinvolti in attività commerciali e industriali, garantendo così una considerevole influenza nella
società. Un ulteriore punto in comune è che entrambi i gruppi, armeni ed ebrei, sono stati dipinti come
sleali nei confronti dello Stato e portatori di ideologie pericolose. Gli armeni furono accusati di
ribellarsi contro il governo centrale durante la guerra in cui l'Impero Ottomano era coinvolto,
sottolineando la necessità di fermarli per proteggere gli interessi dell'Impero. Gli ebrei furono
stigmatizzati come "plutocrati" o "marxisti" percepiti come nemici della maggioranza della
popolazione. Inoltre, gli autori dei due genocidi trassero vantaggio economico dai massacri,
acquisendo i beni delle vittime o subentrando nelle loro attività commerciali.

Tuttavia, i due genocidi differiscono in altri aspetti significativi. Prima di tutto, il massacro degli
armeni coinvolse la morte di membri di un gruppo etnico all'interno dello stesso Stato che commise il
genocidio, poiché gli armeni che persero la vita nel 1915-1916 erano cittadini dell'Impero Ottomano.
Al contrario, i nazisti sterminarono non solo cittadini tedeschi, ma anche ebrei e Romani provenienti
da tutti gli Stati europei occupati dalle forze naziste. Inoltre, mentre il fondamento ideologico del
nazismo si basa sull'antisemitismo razziale, l'ideologia che guidò il genocidio degli armeni fu il
nazionalismo promosso dai "Giovani Turchi" nel loro sforzo di unificare il paese. Infine, la reazione
internazionale ai due massacri fu molto diversa. Nonostante entrambi gli Stati autori dei genocidi
fossero sconfitti nella guerra in cui avevano perpetrato i massacri, la condanna internazionale nei
confronti della Turchia fu molto limitata. Nel caso della Germania, invece, la comunità internazionale
reagì duramente, processando e punendo i responsabili nazisti e promuovendo trattati internazionali,
come la Convenzione adottata nel 1948 dalle Nazioni Unite, al fine di prevenire futuri atti simili. Il
genocidio degli ebrei si distingue in quanto non solo era basato su un'ideologia ampiamente diffusa,
l'antisemitismo, ma anche per le proporzioni spaventose che assunse. La "eccezionalità" del genocidio
degli ebrei è dimostrata dal fatto che i nazisti prioritizzarono la persecuzione rispetto alle
considerazioni economiche, compiendo atti economicamente svantaggiosi pur di annientare gli ebrei.
Inoltre, utilizzarono le moderne risorse tecnologiche per scopi disumani, come l'uso dei forni
crematori per la distruzione dei corpi delle vittime.

3- La convenzione sul genocidio: luci e ombre

La Convenzione contro il genocidio fu sviluppata tra il 1946 e il 1948 in risposta alle pressioni di
gruppi ebraici e come reazione all'orrore suscitato dalle camere a gas durante l'Olocausto. Questa
Convenzione venne elaborata con l'accordo delle principali potenze dell'epoca ed adottata a New
York nel 1948. Essa stabilisce che il genocidio è proibito dal diritto internazionale, rendendo così lo
Stato responsabile a livello internazionale e gli individui coinvolti punibili penalmente per la sua
commissione. La responsabilità penale inizia principalmente nei tribunali nazionali degli Stati
firmatari ma può essere anche oggetto di giudizio da parte di una futura Corte penale internazionale,
come stabilito dalla Convenzione. Quest’ultima fornisce una definizione precisa degli atti di
genocidio vietati per la prima volta. Questi atti comprendono l'uccisione di membri di un "gruppo
protetto", lesioni gravi all'integrità fisica o mentale dei membri del gruppo e la creazione di condizioni
di vita che mirano a distruggere il gruppo. Inoltre, stabilisce chi può essere punito per tali atti e
richiede un'intenzione specifica di distruggere il gruppo come parte dell'elemento del reato. La
Convenzione definisce un "gruppo protetto" come un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.
Tuttavia, la Convenzione esclude dal genocidio gli atti commessi contro gruppi politici e il cosiddetto
"genocidio culturale". Questa esclusione dei gruppi politici è stata una decisione controversa,
principalmente promossa dall'Unione Sovietica, che sosteneva che i gruppi politici non avevano
caratteristiche stabili ed omogenee, creando un rischio di interferenza negli affari interni degli Stati.
Alcune obiezioni vennero sollevate contro questa esclusione, sostenendo che potesse aprire la porta a
interpretazioni ambigue dei reati di genocidio.

Un limite significativo della Convenzione è il requisito del "dolo aggravato", ossia l'intenzione di
distruggere il gruppo. Questo requisito offre agli Stati una scappatoia, poiché possono negare di aver
commesso atti di genocidio affermando che mancava l'elemento intenzionale. Inoltre, la Convenzione
prevede meccanismi di garanzia che, sebbene presenti, sono risultati inefficaci. Questi includono
processi davanti ai tribunali nazionali, ricorso a tribunali penali internazionali, intervento degli organi
competenti dell'ONU e ricorso alla Corte internazionale di Giustizia. Tuttavia, questi meccanismi
spesso si sono dimostrati limitati nei loro poteri e nella loro efficacia. La creazione della Corte penale
internazionale rappresenta un passo significativo verso l'eliminazione dell'impunità per i responsabili
di genocidio, ma la sua giurisdizione è limitata ai crimini commessi da cittadini di Stati contraenti o
all'interno dei territori degli Stati contraenti.

4- Gli sviluppi normativi dopo il 1948

Dopo il 1948 la divaricazione tra dimensione normativa e fattuale si accentuò. In primo luogo dopo il
1948 si è gradualmente formata una norma generale o consuetudinaria sul genocidio, ossia una norma
che vincola tutti gli Stati, anche quelli che non hanno ratificato la Convenzione. In pratica il divieto
sancito nella Convenzione si è esteso a tutti i soggetti internazionali : nessuno può oggi eccepire di
poter liberamente compiere atti di genocidio perché non è parte contraente della Convenzione; gli si
può replicare che è comunque vincolato dalla norma generale. Tale norma generale prevede obblighi
erga omnes, impone cioè a ogni Stato di non commettere atti di genocidio e al contempo dà a ogni
altro Stato il diritto di esigere che quegli atti non vengano commessi. Inoltre la norma generale ha
acquistato un rango superiore a quello della maggior parte delle altre norme internazionali : essa è
diventata parte dello ius cogens (diritto imperativo). Ciò significa che due o più Stati non possono
legittimamente concludere accordi che prevedano atti di genocidio. Si è dunque posto un limite
invalicabile al potere contrattuale e legislativo degli Stati : se essi esercitano quel potere in modo
contrario allo ius cogens i loro atti sono nulli. Il terzo progresso è che il genocidio è stato elevato a
“illecito grave di Stato”, con la conseguenza che la reazione alla sua commissione può essere diversa
da quella contro altri illeciti “ordinari” : mentre contro questi illeciti può reagire solo lo Stato
danneggiato (ed esso normalmente si limita a esigere la riparazione), contro atti di genocidio possono
intervenire tutti gli Stati. Essi possono adottare sanzioni economiche o altre sanzioni non implicanti
l’uso della forza. Il quarto elemento evolutivo è quello più importante : il genocidio come crimine
individuale è stato riconosciuto in molti trattati internazionali, precisamente in trattati che istituiscono
tribunali penali internazionali.

5- I vari casi di genocidio e la reazione internazionale

Prima del 1993, dopo l'adozione della Convenzione, si sono verificati vari casi gravi di genocidio nei
paesi del Terzo Mondo. Ad esempio, nel 1960, in Congo, durante una grave crisi politica interna,
l'esercito nazionale congolese massacrò centinaia di Baluba. Nel 1965 e nel 1972, in Burundi, il
gruppo politicamente dominante dei Tutsi, pur essendo una minoranza etnica, sterminò gli Hutu, una
maggioranza etnica. Nel 1982, in Libano, ci fu un massacro di Palestinesi da parte delle truppe
falangiste cristiane, con il coinvolgimento delle forze armate israeliane. Questi atti di genocidio si
sono verificati soprattutto in società composite e conflittuali, in cui tensioni etniche si sovrappongono
a questioni economiche e politiche complesse. Spesso, in queste società, il genocidio segue uno
"schema di sviluppo" comune, che inizia con le rivendicazioni dei gruppi minoritari, richieste di
riforma, resistenza armata, repressione e massacri da parte delle autorità governative.

Tuttavia, la comunità internazionale ha fatto ben poco per rispondere a questi casi di genocidio. Le
reazioni internazionali possono essere suddivise in due categorie principali. Nel primo caso, alcune
nazioni hanno invocato la Convenzione sul genocidio o la norma consuetudinaria durante il dibattito
sulle gravi violazioni commesse in uno stato, ma queste iniziative non hanno avuto un seguito
significativo. Nel secondo caso, pochissime misure sono state adottate a livello internazionale. Ad
esempio, in risposta al silenzio delle Nazioni Unite sugli stermini degli indiani Achè in Paraguay,
l'Organizzazione degli Stati Americani, tramite la Commissione interamericana dei diritti dell'uomo,
ha adottato una risoluzione che richiamava l'attenzione sulle violazioni dei diritti umani contro gli
Achè. Tuttavia, non fu fatta menzione di genocidio né vennero pronunciate condanne contro lo stato
coinvolto. In un altro caso, nel 1982, in seguito all'uccisione di centinaia di palestinesi nei campi di
Sabra e Shatila, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite condannò tali eventi come "genocidio".
Tuttavia, queste dichiarazioni verbali non hanno portato a ulteriori azioni significative.

Dopo il 1993, si è verificata una svolta importante con l'adozione dello Statuto del Tribunale penale
internazionale per l'ex-Jugoslavia da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Questo tribunale
aveva giurisdizione sul genocidio tra gli altri crimini internazionali. Questa decisione rappresentò la
fine dell'impunità per coloro che si erano resi colpevoli di genocidio. Un passo ulteriore è stato fatto
nel 1994 con l'adozione dello Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda. In questo
caso, il Tribunale aveva il compito di affrontare principalmente il genocidio. Nel 1998, il Tribunale
per il Ruanda ha affrontato la questione del genocidio nel caso Akayesu, stabilendo che il massacro
dei Tutsi poteva essere considerato un "genocidio" poiché i Tutsi erano membri di un "gruppo
protetto". Questi principi sono stati successivamente adottati dal Tribunale penale internazionale per
l'ex-Jugoslavia e dalla Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sul Darfur, stabilendo che i
massacri in Darfur possono essere considerati un "genocidio" in quanto coinvolgono due gruppi
etnicamente distinti.

6- Se genocidio sia una parola magica

Nel 2004, gli Stati Uniti hanno fatto pressione affinché la comunità internazionale intervenisse per
fermare la situazione di genocidio in corso nella regione del Darfur, in Sudan. Tuttavia, altri Stati
hanno evitato di qualificare i crimini commessi nel 2003 in Darfur come "genocidio". Questo, in
quanto il termine "genocidio" era stato utilizzato dai media statunitensi in modo quasi
sensazionalistico, come una sorta di parola chiave in grado di scatenare una risposta internazionale
decisa. Il genocidio è spesso associato a brutali massacri, portando con sé un senso di gravità dovuto
al fatto che mira all'eliminazione di un gruppo protetto. Tuttavia, è importante notare che anche altri
crimini internazionali possono essere altrettanto gravi. Inoltre, per quanto riguarda la risposta
internazionale, non esiste un obbligo giuridico internazionale per l'intervento collettivo o individuale
sia nel caso di genocidio che nel caso di crimini contro l'umanità. Nel 2004, il Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite ha istituito una Commissione internazionale d'inchiesta per valutare la situazione.
La Commissione ha concluso che il governo sudanese non aveva attuato una politica di genocidio,
poiché i massacri di civili non erano finalizzati all'annientamento di un gruppo protetto, ma piuttosto
miravano a distruggere i villaggi dei ribelli. Tuttavia, la Commissione ha ritenuto che i crimini
perpetrati dalle autorità sudanesi fossero altrettanto gravi e atroci di un genocidio.

7- Si potra’in futuro prevenire o almeno arginare atti di genocidio?

La maggior parte dei gravi massacri, in forma di sterminio di gruppi protetti, verificatisi dal 1948,
hanno avuto luogo nei Paesi del Terzo Mondo. In queste nazioni, gruppi antagonisti coesistono,
spesso tribù che da secoli cercano di prevalere sui loro rivali. Qui mancano strutture sociali in grado
di mitigare il conflitto e di incanalare le ostilità. Dato che i Paesi industrializzati hanno dimostrato di
essere in grado di prevenire atti di genocidio all'interno dei propri confini, ciò dovrebbe spingerli a
intraprendere iniziative a livello internazionale per assistere i gruppi vittime di massacri nei Paesi in
via di sviluppo. Tuttavia, tali Stati spesso restano passivi. Di conseguenza, i vari atti di sterminio
rimangono impuniti o vengono puniti solo quando si insedia un nuovo governo o terminano in seguito
all'intervento di uno Stato confinante, spesso mosso da interessi non umanitari. È fondamentale
riconoscere che ora esistono organi giudiziari internazionali pronti a perseguire e punire i responsabili
di genocidio. Tuttavia, reagire solo dopo che il crimine è stato commesso non è sufficiente; sarebbe
auspicabile mettere in atto meccanismi preventivi in grado di impedire lo scoppio di massacri di
massa. Questi meccanismi dovrebbero essere di natura multilaterale e focalizzati su organizzazioni
internazionali di portata universale (come l'ONU) o regionale (come l'Unione europea o l'Unione
Africana).

CAPITOLO X: GLI STATI AGUZZINI - LA TORTURA

1- La tortura degli antichi e dei moderni

La tortura è un male diffuso. Amnesty International, con i suoi rapporti, ci ha fatto conoscere la
gravità del fenomeno e la sua diffusione nel mondo. Si tratta di atti di tortura inflitti da autorità
governative (militari, poliziotti, strutture psichiatriche) che agiscono in veste ufficiale, su precise
istruzioni dei loro capi politici e militari. Recenti episodi in cui addirittura i militari statunitensi hanno
inflitto gravi torture ai detenuti a Guantànamo e i militari britannici hanno fatto altrettanto in Iraq
attestano che nemmeno sistemi democratici ben consolidati sono immuni da ricadute nella barbarie.
Perché ciò avviene? Una prima risposta la danno gli psicologi : la tortura è collegata all’impulso di
distruzione, all’aggressività che è in ognuno di noi; la crudeltà e il piacere che si trae dall’infliggere
dolore all’altro sono una componente fondamentale di ogni essere umano. La conclusione pratica è :
non facciamoci illusioni; la tortura non scomparirà, perché non possiamo sopprimere le pulsioni
distruttive dell’uomo; essa potrà tutt’al più diminuire o prendere altre forme. C’è molto di vero in
tutto ciò, eppure restiamo insoddisfatti. Anzitutto, anche sul piano psicologico, non c’è piena
concordia sul ruolo degli impulsi aggressivi. Ad es. Milgram , lo psicologo statunitense autore dei
famosi esperimenti sull’obbedienza all’autorità, accertò un punto importante attraverso quegli
esperimenti : i soggetti che infliggevano dolore alle vittime non vi erano spinti da impulsi aggressivi,
ma agivano soprattutto in ossequio all’ordine che era stato loro impartito. La tortura in passato aveva
un significato diverso. Per secoli essa è stata usata e giustificata legalmente a due fini :
1) per strappare la verità all’imputato in processi penali, quindi come strumento di prova (il reo poteva
legittimamente essere sottoposto a tortura dai giudici, per confessare i crimini ascrittigli)
2) come sanzione legale, cioè per punire il reo. Essa acquisì molta importanza nel quadro dei processi
dell’Inquisizione (a Roma e in Spagna) contro gli eretici, cioè a fini di persecuzione religiosa. Cesare
Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764) criticava la tortura non solo per la sua disumanità, ma anche
per la sua inutilità nell’estrarre la verità dagli imputati.
Grazie anche a questi scritti e all’eco enorme che suscitarono in Europa, un po’ alla volta la tortura
scomparve dai processi e venne gradualmente vietata negli Stati più progrediti. In epoca moderna essa
è riapparsa in forme diverse. Certo, essa non è più ammessa dai codici degli Stati, anzi è ovunque
severamente bandita. Tuttavia la tortura è largamente usata al di fuori di qualsiasi attività giudiziaria :
a essa ricorrono le forze di polizia o gli apparati militari di molti Stati. Attualmente essa ha assunto
una finalità nuova : è usata soprattutto come mezzo per reprimere il dissenso politico e ideologico. Un
po’ alla volta la tortura è diventata la forma più disumana di lotta contro gli oppositori politici e
coloro che non condividono l’ideologia del gruppo al potere. In breve, essa è la faccia perversa e
crudele dell’autoritarismo, è il modo più rapido di trattare con “chi non è d’accordo”. La tortura è
l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia e nasce laddove mancano tutte quelle garanzie
istituzionali e processuali che sono l’espressione della democrazia. La tortura ha costituito un
“fenomeno di massa” nei paesi dell’America Latina ed è attualmente diffusa in molti paesi africani.
Ma essa ha costituito una deviazione patologica in paesi democratici come la Francia, l’Inghilterra e
gli Stati Uniti. La tortura “classica”, come mezzo per estorcere confessioni, fu descritta da Manzoni
nella Storia della colonna infame (1842). Vi si narra un fatto storico : nel 1630 a Milano, durante la
peste, un uomo fu incolpato da una donna di aver imbrattato un muro; arrestato, fu torturato perché
confessasse; sottoposto a supplizi atroci, egli accusò altre persone, altrettanto innocenti, che furono
anch’esse torturate. Alcuni dei “rei” furono infine condannati alla pena capitale e uccisi e sul luogo
dell’esecuzione fu eretta una colonna, detta “infame” per ricordare ai posteri la mostruosità dei
crimini commessi da quei poveretti. L’altra faccia della tortura “tradizionale” (la tortura come
punizione) fu efficacemente descritta in un’opera di fantasia di Edgar Allan Poe nel racconto Il pozzo
e il pendolo, in cui sono minuziosamente dipinti i supplizi “raffinati” inflitti dall’Inquisizione a un
condannato. La tortura “contemporanea” ha trovato il suo specchio dolente nella testimonianza (La
tortura) del giornalista francese Alleg che, accusato dalle forze armate francesi di essere comunista e
filoalgerino, fu torturato ad Algeri per rivelare i nomi degli altri resistenti.

2- I Caratteri della tortura oggi

Attualmente, la tortura ha evoluto verso forme più raffinate, con l'obiettivo di rendere più difficile il
rilevamento delle prove, in particolare attraverso l'utilizzo di metodi che non lasciano segni fisici
evidenti. La tortura psicologica è diventata un mezzo comune. Ad esempio, possiamo menzionare
cinque diverse modalità di "interrogatorio" subite dai detenuti nelle carceri dell'Irlanda del Nord.
Questi individui venivano privati del cibo e dell'acqua per lunghi periodi, oppure venivano costretti a
rimanere privati del sonno per lunghe ore. Talvolta venivano costretti a stare in piedi per lunghe
sessioni di tempo, oppure venivano coperti da cappucci o esposti a suoni e rumori disorientanti prima
degli interrogatori.

Oltre all'uso di avanzamenti tecnologici, ci sono fattori storici che contribuiscono a spiegare il nuovo
ruolo assunto dalla tortura oggi. In primo luogo, la diffusione di Stati autocratici fortemente
ideologizzati e il conflitto tra ideologie radicalmente opposte hanno portato gli apparati di controllo di
questi Stati autoritari a condurre una lotta implacabile contro i dissidenti politici e ideologici.

Un altro fattore significativo è la trasformazione del moderno Stato in un sistema burocratico di


massa, in cui ogni attività è frammentata in compiti specifici e la responsabilità individuale spesso si
dissolve. Insieme a ciò, emerge la figura di un leader che assume su di sé ogni responsabilità e
compito, facilitando così la diffusione della tortura. La suddivisione dei compiti nelle stazioni di
polizia, nei quartieri generali delle forze armate o nei servizi segreti implica che l'inflizione del
dolore, sia esso fisico o psicologico, coinvolge diverse persone: una persona può essere incaricata del
sequestro del soggetto, un'altra della sua custodia, un'altra di utilizzare strumenti per infliggere il
dolore, mentre altri possono occuparsi della rimozione del corpo della vittima. Questa suddivisione
dei ruoli contribuisce anche a mitigare il senso di colpa del torturatore.

3- L’azione internazionale contro la tortura


Le azioni intraprese a livello internazionale rappresenterebbero il metodo più efficace per contrastare
la pratica della tortura. Tuttavia, questa via è anche la più ardua da percorrere, poiché la tortura oggi
viene quasi esclusivamente perpetrata con l'istigazione o il consenso dei governi, che dovrebbero, in
teoria, vietarla. Pertanto, è fondamentale che gli Stati si autoimpongano limiti per affrontare questo
problema. Risulta problematico ottenere l'adesione dei governi autoritari a trattati che istituiscono
norme rigorose contro la tortura. Questi governi spesso non riconoscono la loro complicità nella
pratica della tortura, né accettano di sottostare a normative volte a limitarne l'uso. Invece di aderire
incondizionatamente, tentano spesso di indebolire queste normative.

Fino a questo momento, il divieto della tortura è stato enunciato in vari accordi internazionali di
portata generale, come la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e il Patto dell'ONU sui
diritti civili e politici del 1966. Tuttavia, la Dichiarazione universale costituisce semplicemente una
raccomandazione agli Stati, mentre il Patto è vincolante ma manca di strumenti di controllo adeguati
per verificare il rispetto da parte degli Stati firmatari.
Strumenti internazionali specifici elaborati dagli Stati, come la Convenzione del 1984 contro la
tortura, si sono dimostrati più efficaci. Il fatto che questa Convenzione sia stata adottata rappresenta
un significativo progresso. Inoltre, essa offre una definizione dettagliata di "tortura", eliminando
l'ambiguità delle norme e impedendo agli Stati di eludere le loro responsabilità. La Convenzione non
si limita a vietare la tortura ma si estende anche a comportamenti inumani di natura meno evidente,
come i "trattamenti crudeli, disumani o degradanti".
Un elemento cruciale è il principio dell'"universalità della giurisdizione", sancito dalla Convenzione
del 1984. Ciò significa che uno Stato può perseguire i torturatori ovunque si trovino e contro chiunque
abbiano commesso atti di tortura, o estradarli a uno Stato che ne faccia richiesta e sia autorizzato a
processarli. Questo supera i vecchi criteri di territorialità o nazionalità della vittima o del colpevole.
Tuttavia, è importante notare che la Convenzione del 1984 vincola solo gli Stati che decidono di
ratificarla. Questo limite è stato in parte mitigato dall'emergere di una norma consuetudinaria che
proibisce la tortura, considerata inderogabile da qualsiasi trattato contrario.Vi sono ulteriori limiti alla
Convenzione del 1984, tra cui l'esclusione delle pene inflitte legalmente come "sanzioni legali" a
meno che non raggiungano un livello di gravità equiparabile alla tortura. Inoltre, il sistema di
controllo per verificare il rispetto della Convenzione è opzionale, basandosi sulla dichiarazione degli
Stati contraenti di accettare tali controlli. Questo sistema prevede un esame approfondito, incluso
l'analisi di "comunicazioni" riguardanti presunte violazioni della Convenzione, culminando nella
formulazione di "opinioni" da parte del Comitato. Sebbene queste opinioni non abbiano un valore
giuridicamente vincolante, godono di un'autorità morale significativa.

4- La Corte di Strasburgo

La situazione è meno cupa se dal quadro universale passiamo a quello regionale e, in particolare, al
contesto dell’Europa occidentale. La Convenzione del 1950 sui diritti umani all’art. 3 contiene un
divieto assai rigoroso; ma soprattutto esiste un meccanismo internazionale di garanzia molto efficace :
la Corte di Strasburgo. La Commissione (quando ancora esisteva) e la Corte europea hanno prodotto
una giurisprudenza enorme, perché sono state investite di una quantità eccezionale di ricorsi. Una
delle maggiori acquisizioni della Corte è stata l’elaborazione di una chiara definizione di “tortura”
(che l’art. 3 della CEDU non dava). La Corte ha precisato che la tortura è “qualunque trattamento
disumano o degradante che causa intenzionalmente una grave sofferenza fisica o mentale”. Essa ha
così differenziato la tortura dai trattamenti disumani o degradanti sotto un duplice profilo : 1) la
tortura è sempre intenzionale, mentre un trattamento degradante può risultare da un insieme di
circostanze che non sono state create deliberatamente; 2) il grado di sofferenza risultante dalla tortura
è più intenso di quello dei trattamenti disumani o degradanti.

CASO FARBTUHS C. LETTONIA (sentenza del 2004) : il ricorrente, un cittadino lettone assai
anziano, era stato condannato a 7 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e genocidio. Benchè
paraplegico, invalido e non autosufficiente, era stato incarcerato e veniva detenuto nell’ospedale del
carcere. La Corte europea concluse che egli era stato sottoposto a un trattamento degradante, perché le
sue condizioni fisiche e la necessità di dipendere da altri detenuti, data l’inadeguatezza del personale
carcerario, gli avevano causato “sentimenti costanti di angoscia, inferiorità e umiliazione”. Perciò le
autorità avevano violato l’art. 3.

CASO IRLANDA C. REGNO UNITO : nel 1976 la Commissione concluse che le “5 pratiche” sopra
accennate e a cui le autorità britanniche avevano fatto ricorso agli inizi degli anni ’70 in Irlanda del
Nord erano forme di “tortura”. Nel 1978 la Corte rettificò, statuendo che invece esse rappresentavano
un “trattamento disumano e degradante”, perché non provocarono quelle sofferenze di particolare
intensità e crudeltà che il termine tortura implica. L’Inghilterra fu condannata.

IL CASO DELLA TURCHIA : nel 1976 la Commissione europea concluse che il fatto di non fornire
abbastanza cibo e acqua e di non somministrare le necessarie cure mediche ai detenuti nella zona di
Cipro occupata dalla Turchia era un “trattamento disumano”. In casi successivi la Corte ha allargato la
portata dei divieti sanciti nell’art. 3 :
1) rilevando che i valori proclamati in quella norma sono così importanti da valere anche al di fuori
della cerchia degli Stati parte alla Convenzione;
2) rendendo i requisiti dell’art. 3 sempre più stringenti. La prima direttrice di azione, quindi, sta
nell’esigere che i valori salvaguardati dalla Convenzione abbiano un raggio di azione che va oltre gli
Stati contraenti. Ciò non nel senso che la Corte può esigere dagli Stati non parte della Convenzione di
osservare l’art. 3 ma nel senso che gli Stati contraenti non debbano rendersi “complici” di trattamenti
disumani o atti di tortura perpetrati da parte di Stati terzi.

CASO ABDULMASSIH BULLUS : esso riguarda la tentata espulsione di un siriano dalla Svezia.
Arrivato giovanissimo in Svezia con la famiglia e rimasto dopo qualche mese senza padre,
Abdulmassih visse per anni sotto la minaccia di espulsione dalla Svezia, dove insieme alla sua
famiglia risiedeva senza un regolare permesso di soggiorno. Per non essere arrestata ed espulsa, la
famiglia si rifugiò in un monastero nei pressi di Uppsala, dal quale però poco dopo la madre si
allontanò per via di gravi disordini mentali. Abdulmassih e due fratelli furono arrestati dalla polizia
svedese e dopo un po’ i due fratelli furono espulsi in Siria, mentre egli riuscì a nascondersi. Nel 1984
la Commissione europea considerò ammissibile l’affermazione del ricorrente per cui il fatto che un
adolescente sia vissuto tra l’età di 11 e 13 anni sotto la minaccia di espulsione può costituire un
trattamento disumano, in violazione dell’art. 3. Dopo questa decisione, il governo svedese preferì un
“regolamento amichevole" della questione : esso fece rientrare in Svezia i due fratelli, pagando loro le
spese di viaggio ed accordando loro un permesso di soggiorno e prolungò il permesso di soggiorno
già concesso al ricorrente; il governo inoltre pagò un indennizzo ad Abdulmassih e si impegnò a
rivedere la normativa svedese sui ricorsi contro le ordinanze di espulsione.

5- Il caso Soring in materia di estradizione

Soring, un cittadino tedesco che aveva iniziato a studiare all'Università della Virginia, era stato
coinvolto nell'omicidio dei genitori della sua fidanzata canadese, che viveva nello stato della Virginia.
Dopo aver commesso il crimine, entrambi erano fuggiti in Inghilterra, dove erano stati arrestati. La
ragazza canadese era stata estradata negli Stati Uniti, dove era stata processata e condannata a 90 anni
di carcere per complicità in omicidio. Nel caso di Soring, le autorità statunitensi avevano richiesto la
sua estradizione per essere processato per omicidio, con la minaccia della pena di morte come
conseguenza possibile in base alle leggi vigenti. Per evitare la pena di morte, il Regno Unito aveva
chiesto garanzie che Soring, in caso di condanna, non sarebbe stato condannato a morte.

Sebbene le autorità statunitensi avessero accettato di prendere in considerazione la richiesta del Regno
Unito, Soring aveva presentato un ricorso ai giudici inglesi per impedire la sua estradizione, portando
il caso successivamente davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo a Strasburgo. Nel contesto
della Corte europea, il governo britannico aveva sostenuto che l'articolo 3, che secondo il ricorrente
sarebbe stato violato con la sua estradizione, non potesse imporre una responsabilità a uno Stato
contraente per atti commessi al di fuori della sua giurisdizione.
Tuttavia, la Corte europea respinse questo argomento, osservando che, sebbene la Convenzione
imponga obblighi che devono essere rispettati dagli Stati contraenti nei territori soggetti alla loro
giurisdizione, certi valori enunciati nella Convenzione, come quelli dell'articolo 3, sono così
fondamentali che impongono agli Stati contraenti di evitare qualsiasi azione che potrebbe contribuire
a possibilità di violazioni della Convenzione. Di conseguenza, il Regno Unito aveva l'obbligo di non
estradare Soring, poiché ciò avrebbe costituito una violazione dell'articolo 3 da parte delle autorità
britanniche. Questa decisione fu adottata nel 1989 all'unanimità. Successivamente, il Regno Unito
estradò Soring solo dopo aver ricevuto assicurazioni che la pena di morte non sarebbe stata richiesta.

Sono altrettanto significative le decisioni della Corte in cui essa ha ampliato la definizione di
"tortura". Nel caso Tomasi, la Corte affrontò il caso di un giovane negoziante corso arrestato in
Francia e sospettato di coinvolgimento in un attentato. Durante la sua custodia cautelare, Tomasi fu
sottoposto a interrogatori prolungati, privazione di sonno, percosse e umiliazioni. La Corte stabilì che
se una persona in buona salute viene arrestata e presenta segni evidenti di maltrattamenti dopo la
custodia cautelare, spetta alle autorità spiegare in modo credibile perché ciò sia avvenuto, invertendo
di fatto l'onere della prova. Di conseguenza, la Corte dichiarò che il trattamento inflitto a Tomasi dalla
polizia era "disumano e degradante" e quindi contrario all'articolo 3.

Nel caso di Selmouni, cittadino marocchino e olandese arrestato a Parigi sotto l'accusa di
coinvolgimento nel traffico di droga tra Francia e Paesi Bassi, subì maltrattamenti violenti da parte
della polizia francese durante la sua detenzione. La Corte ritenne che questi maltrattamenti non solo
fossero disumani e degradanti ma anche configurassero una forma di "tortura" a causa della loro
gravità e intenzionalità. La Corte sottolineò che la Convenzione europea dei diritti dell'uomo è uno
strumento vivente e deve essere interpretata alla luce delle condizioni attuali.

6- Il comitato europeo per la prevenzione della tortura

In Europa, negli ultimi anni, si è verificato un notevole progresso in termini di controllo sulla tortura.
Nel 1987, all'interno del Consiglio d'Europa, è stata adottata una Convenzione innovativa, la
Convenzione per la prevenzione della tortura. Questa convenzione ha istituito un corpo di ispettori
internazionali con il compito di visitare i territori degli Stati europei al fine di verificare in modo
preventivo se si stanno perpetrando atti di tortura o trattamenti disumani o degradanti nelle prigioni,
nelle caserme, nelle carceri e in altri luoghi di detenzione. Questo rappresenta un progresso
significativo poiché, per la prima volta, i governi hanno accettato un trattato internazionale che
prevede un controllo preventivo dei diritti umani.

Tuttavia, vi è un punto debole in questa iniziativa, in quanto si tratta di una Convenzione


internazionale che vincola solo gli Stati che l'hanno ratificata. Finora, ben 46 Stati europei hanno
ratificato la Convenzione e il Comitato ha condotto numerose ispezioni in tutti i Paesi soggetti al suo
controllo. Le visite del Comitato possono essere suddivise in due categorie: visite periodiche, che
sono più ampie e consentono di ispezionare numerosi luoghi di detenzione all'interno dello stesso
Paese, e visite mirate, più brevi, che si concentrano su pochi luoghi di detenzione. Queste ultime
possono essere finalizzate a verificare il progresso dopo visite precedenti o ad accertare le condizioni
di detenzione in specifici luoghi come commissariati di polizia, ospedali psichiatrici o carceri
minorili. Prima di visitare un Paese, il Comitato notifica sempre la visita, ma non specifica la data o i
luoghi che verranno ispezionati. Inizialmente, la Convenzione prevedeva che i rapporti redatti dal
Comitato dopo ogni visita non sarebbero stati resi pubblici per mitigare l'implicazione del Comitato
nella sovranità degli Stati. Tuttavia, il Comitato è gradualmente riuscito a convincere i vari governi a
rendere pubblici volontariamente i rapporti. Attualmente, quasi tutti gli Stati adottano questa pratica,
consentendo all'opinione pubblica e agli altri Stati di conoscere le condizioni nelle strutture di
detenzione nei vari Paesi. Inoltre, il Comitato ha dimostrato di agire con imparzialità e competenza
nella stesura di rapporti precisi e dettagliati. La composizione diversificata del Comitato, composta da
giuristi, medici, psichiatri, e altri, ha contribuito a questa imparzialità. In terzo luogo, il Comitato ha
scelto di adottare un approccio collaborativo invece di uno punitivo, lavorando con gli Stati per
incoraggiarli a migliorare le loro strutture carcerarie. A tal fine, il Comitato ha sviluppato e reso
pubblici una serie di standard sul trattamento dei detenuti, che gli Stati possono utilizzare come
riferimento per migliorare le proprie strutture di detenzione.

7- Osservazioni conclusive

La diffusione della tortura all'interno degli Stati moderni ha provocato una reazione significativa
nell'opinione pubblica e nella comunità internazionale, che si è tradotta in una serie di "meccanismi
istituzionali" a livello globale e regionale. È fondamentale affidarsi soprattutto agli Stati aperti e
democratici affinché esercitino una costante pressione sui regimi dispotici. Inoltre, l'azione di giudici
statali, organizzazioni e gruppi privati è insostituibile poiché sono principalmente loro a denunciare e
protestare contro la tortura. L'importanza della protesta non può essere sottolineata abbastanza.

Tuttavia, è necessario affrontare apertamente alcune questioni complesse. Ad esempio, sorge la


legittima domanda se sia accettabile ricorrere a trattamenti disumani o degradanti, o addirittura alla
tortura, in situazioni di evidente emergenza. Consideriamo un esempio: durante i negoziati
diplomatici a Ginevra per l'aggiornamento delle Convenzioni di Ginevra, un colonnello raccontava ad
altri negoziatori di aver talvolta ordinato la tortura di un prigioniero nemico, consapevole che ciò
poteva fornire informazioni vitali per salvare un'intera unità militare. Un altro esempio è quando una
persona sospettata di aver posizionato una bomba in un edificio pubblico viene catturata; la necessità
urgente di ottenere informazioni può giustificare la tortura? Da parte sua, la Commissione europea dei
diritti umani ha emesso pareri contrari alla tortura, anche nel caso di terroristi. Tuttavia, c'è chi
sostiene che infliggere sofferenza a un individuo possa essere giustificato dalla necessità di salvare
molte vite umane innocenti. Queste sono questioni etiche complesse che richiedono un approfondito
dibattito e una seria riflessione sul bilanciamento tra la protezione dei diritti umani e la sicurezza
collettiva.

CAPITOLO XI: IL TERRORISMO E I SUOI IMPATTI SUI DIRITTI UMANI

1-Chi è il terrorista

Per molti anni, gli Stati hanno litigato all'interno delle organizzazioni internazionali per definire il
concetto di "terrorista". La questione principale riguardava il trattamento dei "combattenti per la
libertà", come i guerriglieri che si opponevano alle dittature latino-americane o i palestinesi che
combattevano contro le forze israeliane. Per molti Stati, soprattutto quelli in via di sviluppo e
dell'Europa dell'Est, questi individui non potevano essere considerati terroristi, nonostante
utilizzassero tattiche terroristiche. Questo perché la loro lotta era legittimata dalla loro ideologia e
dalla necessità di combattere contro forze armate oppressivi. D'altra parte, gli Stati occidentali
consideravano questi combattenti come terroristi a causa dei mezzi che impiegavano. Poiché non c'era
accordo sulle eccezioni, non è stato possibile raggiungere una definizione generale.
Oggi, invece, si è giunti a un accordo che riflette le opinioni occidentali. In base al diritto
internazionale, il termine "terrorista" si riferisce a chiunque commetta un atto criminale, come
omicidio, strage, dirottamento di aerei o sequestro di persone, con l'obiettivo di costringere un
governo, un'organizzazione internazionale o un'entità non statale, come una multinazionale,
diffondendo il terrore nella popolazione a fini politici o ideologici. Tuttavia, la "Convenzione araba
contro il terrorismo" del 1998 rappresenta un'eccezione, escludendo questa definizione per coloro che
si impegnano in una lotta, anche armata, contro l'occupazione e l'aggressione per la liberazione e
l'autodeterminazione, in conformità al diritto internazionale. Ma questa esclusione non si applica
quando tali atti minacciano l'integrità territoriale degli Stati arabi, indicando che questa definizione è
stata adattata per servire gli interessi politici dei Paesi Arabi.
Tuttavia, è importante notare che anche i terroristi violano gravemente i diritti umani. Qualsiasi
azione terroristica è contraria ai diritti umani dei civili o dei militari contro i quali è diretta. Anche se i
terroristi spesso affermano di agire in risposta a governi oppressivi che negano i diritti umani
fondamentali, l'uso del terrorismo rappresenta comunque una risposta distorta a problemi reali. Ad
esempio, per cercare di ottenere i diritti umani per i palestinesi, alcuni terroristi commettono omicidi
di civili israeliani. Questo non solo causa morte, ma rischia anche di irrigidire le autorità che cercano
di combattere il terrorismo, aumentando il loro autoritarismo.
I diritti umani dei terroristi stessi sono altrettanto importanti. Anche se rappresentano una minaccia
grave, gli Stati democratici devono rispettare i diritti umani dei terroristi, garantendo loro un processo
equo e proteggendoli da trattamenti disumani o degradanti. La degradazione morale e il rischio di
arbitrio derivanti dalla violazione dei diritti umani dei terroristi sono inaccettabili in uno stato di
diritto. Inoltre, esistono norme giuridiche internazionali che stabiliscono che alcune regole sui diritti
fondamentali non possono essere derogate nemmeno in circostanze eccezionali.
Un esempio che illustra questi principi è il caso "Mc Cann" portato davanti alla Corte europea dei
diritti dell'uomo. In questo caso, soldati inglesi uccisero tre terroristi dell'IRA a Gibilterra, temendo
che potessero far detonare un'auto imbottita di esplosivo. La Corte europea concluse che l'uso della
forza non era stato "assolutamente necessario", ma che le autorità britanniche avevano avuto
alternative per evitare la minaccia. Il caso dimostra l'importanza di rispettare i diritti umani anche nei
confronti dei terroristi.

Le convenzioni internazionali sui diritti umani includono disposizioni che consentono agli Stati parte
di eccezionare in modo straordinario da molte delle norme contenute in ciascuna di queste
convenzioni in situazioni di emergenza. Tuttavia, tali deroghe sono soggette a precise condizioni:
1. Deve trattarsi di una situazione di "guerra o di altro pericolo pubblico che minaccia la vita della
nazione" (secondo la Convenzione europea del 1950), oppure di un "pericolo pubblico eccezionale
che minacci l'esistenza della nazione e venga proclamato con atto ufficiale" (come specificato nel
Patto dell'ONU sui diritti civili e politici del 1966), oppure ancora di "una guerra, di un pericolo
pubblico o di una situazione di crisi che minacci l'indipendenza o la sicurezza di uno Stato" (come
indicato nella Convenzione americana sui diritti umani del 1969).
2. In situazioni di emergenza, non è consentito derogare da alcune norme fondamentali contenute in
ciascuna di queste convenzioni, che riguardano la tutela del diritto alla vita o il divieto di sottoporre le
persone a trattamenti disumani, degradanti o tortura.
3.Le misure adottate devono essere strettamente proporzionate alla situazione di emergenza a cui si
intendono rispondere, evitando un eccessivo uso di poteri eccezionali.
4. Qualsiasi deroga deve essere immediatamente comunicata agli altri Stati firmatari delle
convenzioni, in modo che ne siano informati.
Al di fuori di queste circostanze eccezionali, i trattati richiedono che gli Stati membri rispettino
rigorosamente tutte le norme in essi contenute, garantendo il pieno rispetto dei diritti umani.

PARTE IV: LE PROSPETTIVE


CAPITOLO XII: RIPENSARE I DIRITTI UMANI: QUALI PROSPETTIVE PER I
PROSSIMI DECENNI

1-I diritti umani nella comunità mondiale attuale

La teoria dei diritti umani ha avuto il merito di proiettare in una dimensione internazionale i testi
normativi adottati in materia negli ordinamenti nazionali di alcuni paesi avanzati. Così si è finalmente
giunti al riconoscimento universale di alcuni valori fondamentali che fino ad allora erano stati
affermati solo nel contesto nazionale di alcuni paesi. Inoltre bisogna riconoscere l’importanza
dell’azione delle Nazioni Unite nel promuovere un profondo senso di indignazione riguardo a quelle
situazioni storiche che hanno privato interi popoli dei loro diritti fondamentali. Le Nazioni Unite sono
riuscite a passare da una nozione statica di diritti umani (concepiti come un mezzo per realizzare la
pace a livello internazionale) a una nozione dinamica (che arriva al punto di incoraggiare lo scontro e
il sovvertimento dello status quo per introdurre il rispetto della dignità umana). Oggi tutti gli Stati
concordano nel riconoscere i seguenti postulati : 1) la dignità degli esseri umani è un valore primario
che ogni Stato deve proteggere; 2) bisogna porsi l’obiettivo di realizzare anche i fondamentali diritti
della collettività e dei popoli; 3) la discriminazione razziale è considerata una condizione ripugnante e
inaccettabile; 4) anche se alcuni Stati possono considerare il raggiungimento del pieno rispetto dei
diritti umani un obiettivo molto difficile, nessuno Stato è autorizzato a perpetrare violazioni gravi,
ripetute e sistematiche di tali diritti; 5) quando tali violazioni sono commesse su larga scala, la
comunità internazionale è legittimata a “intervenire” con mezzi pacifici. Sotto il profilo
dell’elaborazione normativa i progressi sono stati enormi, sia a livello universale che regionale, ma se
si esamina l’azione internazionale per garantire il rispetto effettivo dei diritti umani, il bilancio è meno
ottimistico. Nonostante siano state istituite alcune procedure di monitoraggio nel sistema delle
Nazioni Unite o in virtù di alcune Convenzioni internazionali, esse non hanno portato a grandi
risultati; peraltro esse non sono né giuridicamente vincolanti, né coercitive : la loro efficacia si risolve
nell’esercizio di una forma di pressione morale, psicologica e politica e nello stimolare l’opinione
pubblica a reagire. Tuttavia a livello regionale, in Europa, è stato istituito un sistema di garanzia molto
avanzato, che ha carattere giudiziario e offre rimedi abbastanza soddisfacenti alle violazioni dei diritti
umani perpetrate dagli Stati parte alla Convenzione del 1950.

2- Le prospettive internazionali dei diritti umani: i nodi cruciali e le prospettive di soluzione.

Oggi la lotta per il rispetto dei diritti umani soffre di gravi carenze. In primo luogo, il fronte di
battaglia è troppo esteso. Le istituzioni internazionali cercano infatti di promuovere tutti i diritti
umani, sia civili e politici, sia economici, sociali e culturali, sul presupposto che si tratta di un unicum
universale e indivisibile. Ciò indebolisce la lotta e rende più difficile raggiungere buoni risultati. In
secondo luogo, i meccanismi di controllo esistenti sono lenti e inefficaci. Inoltre le prospettive per il
terzo millennio sono tutt’altro che rosee : le tensioni sono destinate ad aumentare a causa sia del
crescente divario tra paesi ricchi e paesi poveri, sia della riluttanza degli Stati a porre fine alla
fabbricazione e alla vendita di armi. La crescente diffusione del terrorismo ha poi reso tutto più
complicato, inasprendo gli Stati che si sentono vittime potenziali di attacchi terroristici e spingendoli
verso azioni sempre più repressive e violente.

3)La necessità di una strategia plurima.

La comunità internazionale dovrebbe :


1) concentrarsi su un ristretto numero di diritti umani essenziali;
2) predisporre pochi, ma efficaci meccanismi di controllo e di garanzia dell’attuazione di tali diritti;
3) accentuare la “risposta penale” alle più gravi violazioni dei diritti umani, e cioè il perseguimento e
il giudizio penale dei responsabili di tali violazioni;
4) predisporre un meccanismo, a carattere eccezionale, di intervento armato per far cessare violazioni
su larga scala dei diritti umani (massacri, atti di genocidio).

A) Passare a un criterio selettivo

Per quanto riguarda il primo punto, la proposta che si può avanzare è che la comunità internazionale
abbandoni la retorica dei diritti umani “indivisibili” e si concentri su un nucleo ristretto di diritti
“essenziali”. Si tratta in primo luogo di alcuni diritti sociali ed economici fondamentali, la cui
realizzazione avrebbe particolare valore per i paesi più svantaggiati (ad es. il diritto all’alimentazione,
al lavoro, il diritto a un ambiente sano) e di un gruppo ristretto di diritti civili e politici (il diritto alla
vita, quello a non essere sottoposti a trattamenti disumani o a tortura, il diritto a non essere arrestati o
detenuti arbitrariamente, il diritto a non subire discriminazioni, né nello Stato di appartenenza, né in
altri Stati).

B) Garantire efficacemente, a livello internazionale, l’attuazione dei diritti umani

Circa il secondo punto, bisogna precisare cosa si intende per meccanismi di controllo e di garanzia. I
“meccanismi di controllo” sono i sistemi di monitoraggio del rispetto dei diritti umani nei vari Paesi o
aree geografiche. Si tratta di una rete fin troppo estesa di controlli, ma carente in termini di effettività.
Pertanto, senza abbandonare i meccanismi di controllo esistenti, sarebbe già un primo passo porre un
freno alla proliferazione dei sistemi di reporting nell’ambito della Commissione dei diritti umani delle
Nazioni Unite. Inoltre alcuni dei meccanismi esistenti potrebbero essere rafforzati : ciò vale in
particolare per quelli operanti nell’ambito dei due Patti delle Nazioni Unite. Gli Stati potrebbero
concordare, in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite o nel corso di una Conferenza
diplomatica degli Stati parte, di introdurre emendamenti ai due Patti per rendere i meccanismi di
controllo più incisivi. La Commissione dei diritti umani, attualmente organo altamente politicizzato,
dovrebbe essere trasformato in un organo ristretto di esperti incaricati di studiare situazioni particolari
di violazioni di diritti umani o in singoli Stati o in gruppi di Stati e di svolgere inchieste approfondite
su gravissime violazioni di questi diritti. I “meccanismi di garanzia”, invece, sono concepiti per dare
esecuzione ai diritti umani. Servirebbero procedure nuove, finalizzate a costringere gli Stati ad
attenersi agli standard internazionali sui diritti umani. Questa strategia di enforcing può essere
perseguita anche con l’uso di strumenti coattivi o sanzionatori (sanzioni economiche come il
congelamento dei beni dei rei, l’imposizione di risarcire i danni causati, ecc.) contro i singoli autori
materiali (individui-organi) di tali violazioni. La prima linea strategica mira alla dissuasione e ha lo
scopo di prevenire il coinvolgimento di singoli individui, in particolare di funzionari statali, nella
commissione di atrocità e di gravi violazioni dei diritti umani. La seconda strategia, invece, si propone
di ricorrere in via eccezionale all’uso di sanzioni (non implicanti l’uso della forza armata) per porre
fine alle atrocità.

C) Accentuare la risposta penale alle violazioni gravi dei diritti umani

Uno dei modi per prevenire gravi violazioni dei diritti umani è l’azione diretta contro gli individui
responsabili di quelle violazioni. In altri termini, invece di colpire lo Stato per cui quegli individui
hanno agito, bisogna far valere direttamente la responsabilità penale di quegli individui e trascinarli
davanti a tribunali che li possano giudicare e, se trovati colpevoli, condannare a pene detentive. Si
passa così dalla responsabilità internazionale dello Stato a quella penale dell’individuo. Se si opta per
questa “risposta”, si aprono due alternative :
1) andare davanti a un giudice statale;
2) attivare un tribunale internazionale.

–La sottoposizione degli individui responsabili di gravi violazioni dei diritti umani alla giurisdizione
penale degli stati competenti

In alcuni Paesi i tribunali interni hanno assunto un ruolo “surrogatorio”, accollandosi le funzioni dei
governi e cercando anche di supplire all’assenza di organi internazionali di attuazione coercitiva o alla
loro inerzia. Tradizionalmente gli Stati giudicano davanti ai propri tribunali i presunti responsabili di
crimini internazionali in base a uno di questi criteri : territorialità (il reato è stato perpetrato nel
territorio dello Stato); nazionalità attiva (l’accusato è cittadino dello Stato che procede penalmente);
nazionalità passiva (la vittima è cittadino dello Stato che instaura l’azione penale). Il principio
preferito è quello della territorialità, sia per ragioni ideologiche (affermare la sovranità dello Stato sul
proprio territorio), sia perché il territorio in cui il reato è stato commesso è anche il luogo in cui è più
facile raccogliere le prove; esso è dunque il forum conveniens, cioè il luogo più adeguato in cui far
svolgere il processo. Recentemente si è affermato il principio di universalità, per cui ogni Stato ha il
potere di processare le persone accusate di crimini internazionali, quali che siano il luogo di
commissione del delitto, la nazionalità dell’accusato o quella della vittima. Il principio di universalità
è pienamente legittimo dal punto di vista giuridico. La ratio di questo principio fa leva su due
considerazioni :
1) i crimini rispetto a cui tale giurisdizione può essere esercitata sono talmente gravi e di portata così
estesa da meritare una forma universale di perseguimento e di repressione;
2) l’esercizio di tale forma di giurisdizione non viola il principio di uguaglianza sovrana degli Stati, né
interferisce indebitamente negli affari interni dello Stato in cui il delitto è stato commesso. Tuttavia,
per essere applicato in modo costruttivo.
Il criterio dell’universalità deve essere inteso come criterio che attribuisce giurisdizione a uno Stato
solo a due condizioni :
1) che ci sia un qualche legame tra il crimine e lo Stato;
2) che lo Stato intervenga solo in assenza di esercizio della giurisdizione penale da parte dello Stato
territoriale o di quello di nazionalità attiva e se è chiaro che nessuno di questi due Stati intenda
procedere penalmente.
Se non si richiedesse la sussistenza di questi due elementi, ogni Stato, attraverso i suoi organi
giudiziari, potrebbe ergersi a custode della legalità internazionale e ne conseguirebbero abusi, arbìtri e
tensioni internazionali. In ogni caso, il criterio dell’universalità segna un progresso considerevole,
poiché indica che non si intende più assistere passivamente a violazioni gravissime dei diritti umani,
ma si vuole supplire alle carenze e all’inerzia degli Stati in cui vengono commessi tali crimini o i cui
cittadini commettano i crimini in questione. Così in vari casi i tribunali interni si sono pronunciati sui
presunti crimini commessi da alcuni individui, quando lo Stato di nazionalità dell’accusato o quello
territoriale non avevano esercitato l’azione penale. Quello più noto è il caso Eichmann : nella sentenza
del 1962, la Corte Suprema di Israele respinse tutte le tesi dell’imputato Eichmann, che asseriva che i
tribunali israeliani non avevano giurisdizione sui crimini di cui egli era accusato, poiché non esisteva
alcun vincolo territoriale o di nazionalità tra tali crimini e lo Stato di Israele. Questa posizione è stata
in parte ripresa da una Corte statunitense nel caso Yunis. Yunis (un cittadino libanese residente in
Libano) era accusato di aver partecipato al dirottamento di un aereo di linea giordano. Egli fu
processato negli Stati Uniti per dirottamento aereo e cattura di ostaggi, dopo essere stato arrestato
dalle autorità americane in acque internazionali. Yunis contestò la giurisdizione delle Corti
statunitensi, sostenendo che non c’era alcun nesso tra il dirottamento e il territorio degli USA (l’aereo
non sorvolò mai lo spazio aereo degli Stati Uniti). Nel 1988 la Corte distrettuale del District of
Columbia respinse le obiezioni dell’imputato e confermò la sussistenza di giurisdizione delle corti
statunitensi, affermando che i tribunali statunitensi erano competenti a giudicare atti particolarmente
odiosi e lesivi dell’umanità, se l’accusato era nella “custodia materiale” delle autorità statunitensi.
Sono gli Stati Uniti il paese in cui i tribunali interni hanno agito con maggior vigore contro i crimini
commessi all’estero, esercitando sempre più intensamente a partire dagli anni ’80 una giurisdizione
universale. Non si può negare l’importanza delle decisioni delle corti statunitensi, poiché in questi
casi esse hanno colmato una lacuna esistente sia a livello internazionale (nessun organo internazionale
aveva agito) sia a livello interno (nessuna autorità dello Stato territoriale si era attivata nei casi in
questione). Le corti statunitensi hanno perciò agito in nome della comunità internazionale per
rivendicare diritti posti a tutela della dignità umana. Occorre però anche considerare i limiti di questo
orientamento dei tribunali statunitensi :
1) innanzitutto si tratta di cause civili, in cui il presunto colpevole di gravi crimini è solo tenuto a
pagare un risarcimento; nessuna condanna è emessa a livello penale;
2) di solito l’accusato si trova all’estero quando è presa la decisione ed egli così riesce ad evitare
facilmente di dare esecuzione alla sentenza di condanna;
3) proprio perché si tratta di cause civili, la persona citata in giudizio potrebbe essere assente; dunque
non si può sempre compiere un esame approfondito delle prove. C’è dunque il pericolo che le corti
statunitensi assumano il ruolo di giudici universali delle atrocità commesse all’estero. In se stesso,
questo orientamento non solleverebbe troppe obiezioni se non fosse accompagnato dalla tendenza
dell’esecutivo statunitense ad assumere il compito di poliziotto mondiale.

–Il ricorso a tribunali penali internazionali

in aggiunta alla crescente tendenza a esercitare la giurisdizione penale e civile a livello


nazionale,basata sul principio di universalità,è anche necessario che corti penali internazionali si
facciano carico di perseguire e punire i presunti autori di gravi violazioni dei diritti umani. Dopo i
Tribunali internazionali di Norimberga e di Tokyo, due altri tribunali internazionali ad hoc sono stati
creati, nel 1993 e nel 1994 : quello per l’ex-Jugoslavia e quello per il Ruanda. Ma il fatto più
importante è che nel 1998 la Conferenza diplomatica di Roma ha approvato lo Statuto della Corte
penale internazionale (Corte dell’Aja). Lo Statuto è entrato in vigore nel 2002 e la Corte ha
concretamente iniziato a esistere nel 2003. I tribunali internazionali presentano una serie di vantaggi
rispetto a quelli nazionali. Prima di tutto, essi non soffrono del problema tipico delle corti nazionali,
poco propense a istituire procedimenti per crimini che non hanno un legame territoriale o nazionale
con lo Stato di cui sono organi. I tribunali nazionali sono ancora molto rispettosi della sovranità degli
Stati e di solito evitano di indagare, formulare accuse e istituire processi nei confronti di stranieri che
hanno commesso delitti all’estero. In parte ciò è dovuto anche alle carenze dei parlamenti nazionali,
poco inclini a votare le leggi necessarie per attribuire ai tribunali nazionali la giurisdizione universale
sui crimini internazionali. In secondo luogo, questi crimini hanno natura internazionale. Essi cioè
violano gravemente il diritto internazionale : un tribunale internazionale è quindi la sede più
appropriata per pronunciare una sentenza in tale materia, potendo offrire maggiori garanzie in tema di
conoscenza, interpretazione e applicazione del diritto internazionale. In terzo luogo, i giudici
internazionali sono nelle condizioni di essere perfettamente indipendenti e imparziali, o almeno sono
più equanimi rispetto ai magistrati nazionali. In quarto luogo, i tribunali internazionali possono
indagare più agevolmente su questi crimini, che spesso hanno ramificazioni in più paesi. Infatti in un
processo per crimini internazionali, i testimoni spesso vivono in paesi diversi, gli elementi di prova
devono essere raccolti in collaborazione con vari Stati e spesso occorre che i giudici abbiano una
competenza specifica in materia di diritto internazionale e diritto penale internazionale. Inoltre i
tribunali internazionali possono garantire una certa uniformità nell’applicazione del diritto
internazionale; invece, i procedimenti condotti davanti ai giudici nazionali possono dar luogo a
profonde disparità per quanto riguarda sia l’interpretazione e l’applicazione del diritto internazionale,
sia le pene irrogate. Infine si produce un effetto deterrente : infatti il ricorso in misura crescente ai
tribunali internazionali contribuisce a dissuadere coloro che operano negli apparati di governo statali
dal commettere flagranti e sistematiche violazioni dei diritti umani.

D) Il ricorso all’uso della forza in casi eccezionali.

Secondo la Carta delle Nazioni Unite, il fine principale dell’Organizzazione è salvaguardare la pace.
Il rispetto dei diritti umani è un fine sussidiario, tant’è che la violazione della pace e della sicurezza
internazionale sono proibite anche quando dovessero essere necessarie per garantire il rispetto dei
diritti umani. In altri termini, la Carta non autorizza gli Stati a usare la forza contro altri Stati per
arrestare la perpetrazione di atrocità. Si può ricorrere alla forza in casi di questo tipo solo quando il
Consiglio di Sicurezza accerti che la situazione è una minaccia alla pace e agisca di conseguenza,
autorizzando l’uso della forza. Non si è nemmeno formata una norma di diritto internazionale
consuetudinario che riconosca ai singoli Stati il diritto di prendere misure coercitive per indurre un
altro Stato, implicato in flagranti e sistematiche violazioni dei diritti umani, a porre fine alla
commissione di tali violazioni. Il modo migliore per coinvolgere la comunità internazionale sarebbe
passare attraverso l’organo responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale : il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Quest’organo dovrebbe essere stimolato
a rispondere in modo più pronto alle violazioni flagranti e sistematiche dei diritti umani e a prendere
misure coercitive per ottenerne la cessazione. Ciò potrebbe avvenire : 1) o usando le forze armate
degli Stati membri dell’ONU; 2) o attivando una specie di “Forza di reazione rapida" messa a
disposizione del Consiglio stesso. Ma che fare se il Consiglio di Sicurezza si dimostra incapace di
intervenire perché serie divergenze al suo interno gli impediscono di prendere una decisione o perché
non c’è accordo politico sui modi più opportuni per reagire a tali violazioni? Una strada potrebbe
essere quella di ricorrere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, chiedendo di autorizzare l’uso
della forza per porre termine a gravissime violazioni dei diritti umani. Se il ricorso all’Assemblea
Generale dovesse apparire macchinoso e incongruo a causa della lentezza delle procedure, si potrebbe
pensare alla possibile approvazione di una “norma autorizzativa", che venisse adottata dall’Assemblea
Generale con amplissimo consenso e, quindi, con una sorta di tacita “integrazione” della Carta.
L’“autorizzazione” in questione dovrebbe enunciare varie e imprescindibili condizioni. Sarebbe
necessario che : 1) fossero in corso violazioni gravissime dei diritti umani; 2) queste violazioni
fossero attestate da organi internazionali competenti, come l’“Alto Commissario dell’ONU per i diritti
umani” o organi regionali simili, nonché da ONG autorevoli, come Amnesty International; 3) il
Consiglio di Sicurezza, convocato sulla materia, risultasse paralizzato da un veto; 4) venissero
esperiti, con risultati negativi, gli altri mezzi per la risoluzione urgente di gravi crisi; 5) fossero stati
investiti della questione organismi internazionali regionali (come il Consiglio d’Europa, la Lega
Araba o l’Unione Africana) o organismi politico-militari (come la NATO), tutto ciò con risultati
negativi. Se si verificassero tutte queste condizioni, e i massacri non cessassero, uno Stato potrebbe
essere autorizzato a usare la forza purchè essa fosse : 1) limitata e mirasse solo a porre fine alle
atrocità, 2) proporzionata alla gravità delle violazioni, 3) e cessasse immediatamente appena terminate
le violazioni. Inoltre sarebbe necessario che lo Stato : 1) riferisse immediatamente al Consiglio di
Sicurezza sui motivi dell’uso della forza e fosse pronto a rendere conto delle modalità di tale uso; 2)
che risarcisse qualunque danno causato alla popolazione civile e non strettamente giustificato dalla
necessità di arrestare i massacri.

CAPITOLO XIII: CHE FARE

1- Diritti umani e diritti naturali: l’homo biologicus contro l’homi socialis

Il perseguire la realizzazione dei diritti umani è costantemente messo in discussione a causa delle
numerose forze che si oppongono ad esso, tra cui regimi autoritari, istituzioni governative oppressive
e gruppi violenti che commettono atti di violenza contro individui innocenti. Come dovremmo
procedere di fronte a questa sfida? I diritti umani rappresentano un notevole traguardo dell'umanità,
una vittoria della società sull'istinto biologico. Come sottolineato saggiamente da Jean Hamburger, un
biologo francese, l'idea che i diritti umani siano "diritti naturali," cioè intrinseci alla nostra natura, è
fallace. Gli esseri umani, in quanto esseri biologici, spesso sono portati verso l'aggressione e la
prevaricazione per sopravvivere, e l'altruismo e l'amore per gli altri sono concetti lontani dalla nostra
natura. Secondo Hamburger, i diritti umani rappresentano una vittoria dell'aspetto sociale
dell'individuo sull'istinto biologico, in quanto ci impongono di limitare i nostri impulsi e di rispettare
gli altri. In realtà, il concetto dei diritti umani rappresenta una ribellione contro la legge naturale.
Pertanto, la tensione tra queste due dimensioni dell'essere umano probabilmente non verrà mai risolta
completamente, e dobbiamo rimanere costantemente vigili affinché l'aspetto biologico non prevalga
su quello sociale.
La protezione dei diritti umani non può essere ottenuta in un breve lasso di tempo, né in un solo anno;
richiede invece un impegno a lungo termine che si misura in generazioni. Questo è un processo che
procede con alti e bassi, caratterizzato da periodi di regressione, momenti di barbarie e lunghi silenzi.

2- Come le grandi religioni del passato. i diritti umani hanno bisogno di tempi lunghi

Questa lotta condivide molte similitudini con la diffusione delle grandi religioni tradizionali, le quali
anch'esse hanno richiesto molto tempo per espandersi, spesso incontrando ostacoli, persecuzioni e
rifiuti, ma alla fine hanno plasmato il pensiero umano e influenzato il comportamento di generazioni e
generazioni di individui e Stati. Anche se i diritti umani sono spesso ignorati in molti paesi, il loro
ruolo fondamentale come etica sociale rimane invariato.

3- Le principali forze che si oppongono alla realizzazione dei diritti umani

Ora, vediamo quali sono le principali forze che si oppongono alla realizzazione dei diritti umani nella
comunità internazionale. Esistono tre categorie principali di fattori legati allo stato moderno che
contribuiscono a questa opposizione. In primo luogo, gli enti responsabili del rispetto dei diritti umani
sono proprio gli Stati sovrani, e spesso sono proprio questi Stati a calpestarli. Questa situazione è
notevolmente complessa, e la mancanza di un sistema globale di sanzioni per affrontare gli abusi
rappresenta un problema significativo. In una comunità internazionale senza una struttura di governo
centrale, ogni Stato sovrano può rompere occasionalmente i vincoli che ha accettato. Pertanto, non
dovremmo sorprenderci se spesso gli Stati ignorano gli obblighi assunti, violando i diritti e le libertà
fondamentali degli individui che governano.
Il secondo fattore è legato alla complessa struttura degli Stati moderni. Lo Stato non è una sorta di
mostro divoratore pronto a opprimere i propri cittadini alla prima occasione. Non esistono Stati
"malvagi," ma piuttosto Stati che seguono politiche oppressive o che dispongono di strutture
autoritarie che limitano le libertà degli individui. Tuttavia, anche gli Stati democratici sono diventati
così complessi da non poter più affrontare adeguatamente la moltitudine di problemi che devono
gestire. L'apparato statale moderno è fortemente burocratizzato e formalizzato, e la relazione tra il
governo e i cittadini è diventata complessa e spesso poco trasparente. Inoltre, ci sono partiti politici,
sindacati, organizzazioni regionali e gruppi economici che influenzano le decisioni del governo.
Inoltre, all'interno degli Stati, operano gruppi sovversivi, talvolta terroristici, e le autorità statali
spesso hanno difficoltà a gestire la violenza privata.
Il terzo fattore è legato alla storia specifica degli Stati che compongono la comunità internazionale.
Gli Stati occidentali, pur tendendo in generale a riconoscere i diritti umani, non sono esenti da gravi
lacune, come la partecipazione spesso puramente formale del popolo alla vita politica. Allo stesso
tempo, la Cina popolare e altri ex paesi socialisti sono ancora caratterizzati da strutture burocratiche
autoritarie, in cui la dialettica tra gruppi sociali è limitata e il governo esercita un controllo
opprimente. Per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo, spesso si trovano in una fase storica in cui
l'accentramento del potere e l'autoritarismo sembrano necessari per rafforzare le strutture economiche
e avviare processi di autosufficienza economica. Questa tendenza è spesso complicata da conflitti
etnici, autoritarismo di leader che perseguono obiettivi personali e conflitti tra caste militari. Il quadro
che emerge da tutto ciò è scoraggiante, con prevalenza di regimi militari e strutture dispotiche, se non
si arriva addirittura a vere e proprie dittature.

4- Che possiamo fare?

La lotta per i diritti umani deve coinvolgere tutti noi. È necessario un vasto esercito, anche se privo di
generali, strateghi o condottieri; deve essere composto da persone di ogni estrazione sociale che
contribuiscono in mille modi diversi e a vari livelli, impegnandosi quotidianamente con pazienza. La
"lotta per i diritti umani" richiede il contributo di tutti, anche se modesto o apparentemente
insignificante. Potremmo adottare come motto la storiella del piccolo passero: un giorno buio e
piovoso, un cavaliere incontra un piccolo passero disteso sulla strada con le zampe in aria e gli chiede
cosa stia facendo. Il passero risponde che ha sentito dire che il cielo sta per crollare. Il cavaliere ride e
chiede come possa il passero tenere su il cielo con le sue piccole zampe. La risposta del passero è:
"Ognuno fa quel che può." La lotta per i diritti umani è una battaglia senza fine, e anche le piccole
azioni possono fare la differenza. Dobbiamo mobilitare molte persone e rendere la nostra azione
contagiosa ed efficace, poiché, come sostiene Hamburger, gli uomini devono rendersi conto che i loro
diritti sono una conquista permanente, una lotta continua contro il ritorno alla condizione animale.
Nonostante le sfide e le difficoltà, contribuire a ridurre, anche se di poco, la sofferenza nel mondo può
rendere il bilancio della nostra giornata meno opprimente. Potremmo essere l'unico segno di speranza
per chi soffre, anche se siamo solo "uno che vuole portare aiuto" e protestare contro le ingiustizie del
mondo. Ogni piccolo sforzo conta, e anche le azioni individuali possono contribuire a un
cambiamento positivo nel mondo. Come conclude Hamburger, questa azione potrebbe servire a
rendere meno sconsolata l'ultima scena di quel romanzo in cui un uomo, in attesa di processo e
condannato ingiustamente, viene portato in una cava di pietra e, prima di essere ucciso, vede qualcuno
affacciarsi alla finestra e aprire le braccia come segno di compassione e solidarietà. Anche se siamo
uno solo, possiamo essere quell'uomo alla finestra, pronti a offrire conforto e sostegno a chi è in
difficoltà.
OSSERVAZIONI PERSONALI

Il testo di Cassese offre un'approfondita genealogia dei diritti umani, che apprezzo particolarmente.
L'autore è riuscito a ricostruire con precisione il quadro tecnico della Dichiarazione dei Diritti Umani
e ad inserire questo importante momento del diritto internazionale in un contesto storico. Ha
evidenziato un periodo precedente caratterizzato da pratiche molto diverse da quelle contemporanee,
ognuna giustificata dal suo contesto storico. La capacità di Cassese di fornire numerosi esempi in ogni
capitolo, mostrando le ripercussioni pratiche e i contesti reali delle tematiche discusse, rende il testo
molto accessibile, anche per chi, come me, non è esperto di materie giuridiche. Tuttavia, il testo non è
riuscito a dissipare completamente alcune delle mie principali preoccupazioni in merito al tema
trattato:

1) In particolare, ho notato una serie di problematiche applicative che meritano attenzione.


Spesso, l'autore menziona le varie istituzioni incaricate di garantire l'ordine in materia di
diritti umani e di come concetti così ampi possano essere tradotti in linee guida generali.
Tuttavia, sembra emergere un efficacia giurisdizionale dovuta alla sovrapposizione di organi
sovranazionali, nazionali, regionali e privati. Capisco che questa diversità di organi tutelanti
possa essere vista come un segno di grande impegno da parte degli individui nel proteggere i
diritti umani, ma allo stesso tempo, mi preoccupa quanto la frammentazione delle
responsabilità possa creare una situazione in cui i soggetti coinvolti siano più deboli e i loro
sforzi siano incoerenti.
2) In secondo luogo, trovo che i diritti umani siano strettamente associati al’universalizzazione
del modello di diritto liberale occidentale, piuttosto che a una base ontologica intrinseca.
Questa osservazione può sembrare una questione puramente formale, ma, dal mio punto di
vista, solleva una sfida fondamentale. Se i diritti umani non possono essere considerati
pienamente universali, come io ritengo, allora diventa complesso attuare tali diritti in modo
uniforme in tutto il mondo. I principi liberali delle democrazie occidentali sono emersi in un
contesto storico specifico, sviluppandosi per affrontare le sfide specifiche che le società
europee e anglosassoni hanno affrontato nei due secoli scorsi. La natura particolare dei diritti
espressi in questa carta dei diritti umani potrebbe consentire a chiunque di respingerli,
sostenendo che essi non rappresentano il loro sviluppo storico o i loro ideali giuridico-
culturali. Questo potrebbe dare luogo all'accusa di etnocentrismo o, come alcuni hanno
suggerito, di atteggiamenti colonialisti nel tentativo di imporre tali diritti come universali.
3) Malgrado alcune rassicurazioni fornite in alcune sezioni del testo, ritengo che le istituzioni
sovranazionali si trovino in una situazione in cui è difficile ottenere vittorie significative. La
sovranità nazionale crea circostanze in cui le corti internazionali spesso si limitano a offrire
consulenza su situazioni specifiche e non hanno il potere di intervenire in altre. Questa
limitazione non è assoluta; nei casi più gravi, le decisioni delle corti internazionali possono
ricevere il sostegno delle nazioni stesse. Tuttavia, la necessità di tale supporto implica che i
casi meno drammatici e più comuni spesso ricevono meno attenzione e sostegno.

Nonostante le mie critiche, ritengo che il testo di Cassese sia completo ed intrigante, sebbene a tratti
eccessivamente ottimista. Il testo offre una visione complessa del panorama globale dei diritti umani,
un mondo che è intrappolato tra interessi economici e culturali, limitato nei suoi poteri esecutivi e
spesso necessita di interpretazioni per essere applicato adeguatamente. Personalmente, non condivido
completamente l'ottimismo espresso nel capitolo 13 del testo, che suggerisce che il trionfo dei diritti
umani sia solo una questione di tempo. Credo che i diritti umani, come qualsiasi altro diritto, siano il
risultato di una particolare situazione storico-culturale e che non possano essere considerati
inevitabili. Tuttavia, credo fermamente che siano uno strumento cruciale per contrastare determinati
comportamenti. Il testo mette in evidenza come la nascita dei Diritti Umani abbia creato una nuova
categoria giuridica sovranazionale, offrendo a chiunque nel mondo uno strumento per denunciare
abusi e violenze. Questo è un traguardo notevole e non dovrebbe essere sottovalutato. Tuttavia, è
evidente che c'è ancora molto lavoro da fare per rendere questa categoria giuridica pienamente
efficace. Il tempo potrebbe contribuire in tal senso poiché sempre più persone in tutto il mondo
discutono dei Diritti Universali, offrendo un'ampia gamma di punti di vista e interpretazioni che
possono arricchire la visione finora prevalentemente eurocentrica e fornire nuovi strumenti specifici
alla Corte internazionale. Per raggiungere questo obiettivo, ogni individuo deve contribuire
attivamente. Inizialmente, ho trovato la conclusione del testo, come presentata nell'ultimo paragrafo
del capitolo 13, un po' inadeguata. Un testo così preciso e basato sull'empirismo sembrava concludersi
con un messaggio di speranza che poteva sembrare troppo basato su di una fiaba. Tuttavia, col tempo
ho realizzato che l'impegno individuale è ciò di cui i diritti umani hanno bisogno. Nessuna regola, per
quanto ben scritta, può essere eterna, poiché i contesti e le situazioni cambiano, e le persone soggette
a queste regole sviluppano nuove preferenze nel tempo. Ma se ciascuno di noi si impegna per i diritti
che considera fondamentali, i diritti umani possono diventare non solo una categoria giuridica ma
anche un ambito di discussione, consentendo a tutti di contribuire con nuove prospettive e
interpretazioni innovative.
La legge eterna è quella disposta a evolversi per massimizzare il bene comune al momento
dell'applicazione, ed è questo sforzo che dovremmo compiere. In questo aspetto, concordo appieno
con l'autore: ognuno di noi deve essere la persona alla finestra, portando la propria voce per
determinare ciò che è veramente giusto.

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