A partire dalla pace di Westfalia (1648), che concluse la guerra dei 30 anni, il mito della “Res
Publica Christiana”, cioè dell'unità politica e religiosa dell'Europa, tramontò per sempre. Il
continente fu diviso in centinaia di entità indipendenti. Le relazioni interne a questa comunità
anarchica di stati sovrani dovevano essere regolate da norme giuridiche. Già dalla seconda metà del
XVI secolo, si era elaborato il Diritto delle Genti. Nonostante il richiamo allo Ius Gentium Romano,
esso era sostanzialmente il moderno diritto internazionale pubblico, inteso come un “diritto fra le
genti”, cioè tra gli stati, indipendentemente dalla morale e dalla teologia. Il suo compito consisteva
nel regolare i rapporti all'interno dell'informale “comunità internazionale” degli Stati, inizialmente
solo europei, assicurandone la coesistenza e delimitando le rispettive sfere di sovranità.
Riconoscendo reciprocamente la propria esistenza, gli stati accettavano di avere relazioni e si
aspettavano che i patti tra loro stipulati fossero normalmente rispettati. In ciascun paese, il governo
aveva il controllo della popolazione e del territorio (sovranità interna), senza che gli altri potessero
ingerirsi legittimamente nei suoi affari. Ad ognuno era assicurata l'indipendenza (sovranità esterna)
e la sicurezza. Per 300 anni, fino alla fine della seconda guerra mondiale, il principio della sovranità
dello Stato-Nazione fu il dogma su cui si fondò il sistema delle relazioni internazionali.
Nel diritto internazionale westfaliano, gli individui non erano in alcun modo soggetti del diritto, ma
solo oggetti, o tutt'al più destinatari di soccorso. La persona poteva avere dei diritti solo in quanto
era cittadino, e comunque nell'ambito dello Stato cui apparteneva. Che uno stato violasse oppure no
i diritti fondamentali dei propri cittadini, non era affare che potesse riguardare le altre potenze.
L'obiettivo primario di ogni Stato era mantenere o accrescere la propria potenza, perciò la guerra
era un mezzo del tutto lecito per realizzare questo fine.
Nel XIX e XX secolo, la diffusione di tecnologie belliche sempre più efficaci indusse le maggiori
potenze a tentare di regolamentare la condotta degli eserciti e di alleviare la condizione dei feriti. A
questo processo offri uno straordinario contributo un'organizzazione privata: la “Croce Rossa
Italiana”, fondata dallo svizzero Henry Dunant. Nel 1859, egli si trovò casualmente a Solferino, sul
campo della più sanguinosa battaglia della seconda guerra d'indipendenza, che oppose italiani e
francesi agli austriaci. In quella occasione, Dunant rimase colpito dalla condizione di atroce
abbandono nella quale vennero lasciati i feriti di entrambi gli schieramenti e, nello stesso tempo,
dalla generosità con la quale la popolazione del posto si dedicò al loro soccorso. Questa esperienza
lo indusse a proporre la creazione In ogni paese di una società volontaria di soccorso ai feriti in
guerra. Inoltre, il “Comitato Internazionale della Croce Rossa” (CICR), fondato da Dunant nel
1859, sì dette l’obiettivo di indurre i governi a sottoscrivere un trattato per la protezione dei militari
feriti e del personale sanitario.
La proposta ebbe un sorprendente successo. In effetti, nel 1863 venne convocata a Ginevra una
conferenza internazionale che, l'anno dopo produsse la “Convenzione di Ginevra per il
miglioramento delle sorti dei feriti in guerra”. Essa prevedeva che il personale sanitario fosse
considerato non belligerante, che i feriti dovessero essere curati, indipendentemente dalla
nazionalità.
Nasceva, in questo modo, il diritto umanitario, una branca del diritto internazionale il cui scopo è
regolamentare il comportamento degli eserciti, limitando le sofferenze delle vittime della guerra,
siano essi militari o civili.
Pur essendo una semplice associazione privata, composta da 25 cittadini svizzeri, il CICR agisce
ancora oggi da mediatrice tra gli stati in guerra, contribuendo a curare e tutelare feriti, prigionieri e
civili. Perciò i suoi rappresentanti sono, per certi aspetti, equiparati al personale diplomatico. Il
Movimento Internazionale della Croce Rossa comprende oltre al CICR, anche una rete di
organizzazioni di volontariato. Dal 1919 esse costituiscono la Federazione Internazionale delle
Società di Croce Rossa e Mezzaluna rossa (quest'ultima è la denominazione usata nei paesi
islamici).
Tradizionalmente si distingue tra il Diritto Umanitario in senso stretto (diritto di Ginevra) e il
Diritto Bellico, che si occupa della condotta delle operazioni militari, regolamentandone mezzi e
metodi (diritto dell'Aja). L'attuale versione della convenzione di Ginevra, a cui aderiscono quasi
tutti gli stati del mondo, è del 1949. Consiste di quattro trattati, con alcuni protocolli aggiuntivi (2
del 1977 e 1 del 2005). Il primo trattato si riferisce alla protezione dei feriti e malati nelle truppe di
terra, il secondo alla marina militare, il terzo ai prigionieri di guerra, il quarto alla protezione dei
civili in tempo di guerra. I protocolli si riferiscono alle vittime di conflitti internazionali e di quelli
interni.
La creazione dell'ONU e del Diritto Internazionale dei diritti umani avrebbe dovuto rendere
obsoleto il vecchio diritto umanitario. Non è stato così: i due sistemi tendono a convergere, ma
poiché il fenomeno della guerra non è stato abolito, il diritto umanitario resta drammaticamente
d’attualità. Negli ultimi anni, la necessità di salvaguardare l'incolumità dei civili esposti a crimini
internazionali è stata la motivazione di numerosi interventi militari. Questo tipo di “interventi
umanitari” ha diviso l'opinione pubblica, i giuristi e i governi, tra chi ne ha colto l'aspetto
imperialista e chi ha, invece, sottolineato l'esigenza di salvare le popolazioni minacciate, anche a
costo di strappi alla legalità internazionale. Una profonda divisione nell'opinione pubblica
internazionale si è verificata, in particolare, in occasione dei bombardamenti della NATO contro la
Jugoslavia (1999), avvenuti senza l'autorizzazione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
In “Progetto per una pace perpetua”, Kant aveva proposto di assicurare al mondo un futuro di pace,
mediante l'istituzione di una Lega Internazionale di Stati. Si doveva quindi creare un'organizzazione
nella quale ciascuno stato, mantenendo la propria sovranità, accettasse di sottoporsi al controllo di
un organo federale. In questa nuova forma di comunità politica, ogni uomo che si fosse recato
all'estero avrebbe avuto il diritto di godere “dell’ospitalità universale”. Per raggiungere questo
obiettivo, occorreva che ciascuno degli Stati membri fosse organizzato in base ad una “Costituzione
Repubblicana”. Si trattava di creare un nuovo diritto, nemmeno internazionale, ma transnazionale.
L'individuo, e non più solo lo Stato, doveva diventare soggetto di questo ordinamento.
La fine della prima guerra mondiale sembrò offrire un'imprevista opportunità di realizzare la
vecchia utopia kantiana. Nel 1918 il presidente americano Wilson espose un programma (“i
quattordici punti”) per il riassetto degli equilibri politici mondiali, dopo la conclusione delle ostilità.
Egli sostenne l'idea di creare una Società delle Nazioni, allo scopo di regolare pacificamente i
conflitti tra gli stati, punendo gli atti di aggressione mediante sanzioni collettive, di carattere
economico e militare.
Il patto istitutivo della Società delle Nazioni (SdN) fu incluso nel trattato di pace di Versailles del
1919. La Società delle Nazioni avrebbe avuto il compito di proteggere le minoranze nazionali
(colpite dalla dissoluzione degli imperi austro-ungarico, tedesco e turco e dalla creazione di
numerosi nuovi Stati), nonché tutelare le popolazioni delle colonie.
Gli USA, e parallelamente anche l'appena nata Russia di Lenin, proposero che i rimaneggiamenti
territoriali, conseguenti alla dissoluzione degli imperi, rispettassero il più possibile l’esistenza dei
“popoli”, con lingue, culture e religiose omogenee. All'inizio dell'anno seguente, la Società delle
Nazioni era pronta ad operare nella sua sede a Ginevra. Qualche anno dopo, il patto Briand-kellogg
(1928), cui aderirono 63 stati, sanciva la rinuncia al ricorso alla guerra per il regolamento delle
controversie internazionali.
Il Trattato di Versailles istituì anche “l'Organizzazione Internazionale del Lavoro” (OIL), nella
quale erano rappresentati i governi, le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali. Essa aveva
il compito di proporre trattati internazionali e leggi a tutela del lavoro dipendente, nonché di
prendere in esame i rapporti sulle condizioni dei lavoratori, che i governi erano tenuti a presentare.
L'organizzazione sopravvisse alla Società delle Nazioni, confluendo nel sistema dell'ONU, e
continuando a svolgere un'importante opera per il riconoscimento dei diritti economico-sociali.
La Società delle Nazioni intervenne a favore delle minoranze e dei rifugiati, che vennero affidati a
un “Alto Commissario”. Fu creato il cosiddetto “Passaporto Nansen”, essenziale per la tutela dei
rifugiati privi di documenti e degli apolidi. Infatti, il frazionamento degli imperi sconfitti, il
cambiamento dei confini e la creazione di nuovi stati determinarono l'espulsione di milioni di
persone, ad esempio dalla Grecia alla Turchia e viceversa. Venne istituita una “Corte Permanente di
Giustizia Internazionale”, per arbitrare le controversie tra stati. Ma nel complesso, la Società delle
Nazioni non fu all'altezza delle aspettative. L'obiettivo principale, impedire la guerra,
trasformandola in un crimine internazionale, venne mancato.
Un problema di fondo fu che Wilson non ottenne dal Parlamento americano l'adesione alla Società
delle Nazioni, il che indebolì molto l'organizzazione. Un altro limite serio fu rappresentato dal
meccanismo decisionale creato dal Trattato di Versailles. Gli interventi coercitivi contro i
trasgressori dovevano ottenere l'approvazione unanime dei membri del Consiglio della Società delle
Nazioni. Il risultato fu che quando il Giappone invase la Manciuria, e poi la Cina (1931-1932), non
ci furono reazioni. Quando l'Italia invase l'Etiopia (1936), le sanzioni economiche si rivelarono
inefficaci.
Infine, la Società delle Nazioni non fu mai capace di legare la propria azione a un ideale umanitario,
capace di acquisire una credibilità e un consenso realmente universali. Quando il Giappone, durante
la discussione dello Statuto della Società delle Nazioni, suggerì di partire dal principio
dell'eguaglianza del genere umano, la sua proposta fu respinta con vero sdegno dalle potenze
occidentali, comprese la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Francia. Se si fosse accettato un
principio del genere, si sarebbero messi in discussione gli imperi coloniali di paesi come Francia,
Gran Bretagna e Italia, la discriminazione razziale negli USA e il principio della superiorità della
razza bianca, cui tutti sinceramente aderivano. Con poche eccezioni, anche chi credeva nella
fratellanza universale, o si proclamava sostenitore dei diritti dell'uomo, continuava a riferirsi al
maschio bianco, senza avvertire alcuna contraddizione.
5. La Dichiarazione Universale
7. Europa e i diritti
Nel 1993, la “Conferenza di Vienna” dell’ONU confermò la natura universale dei diritti umani: non
erano un lusso da paesi ricchi, come spesso obiettavano i governanti di diversi regimi autoritari del
terzo mondo, né un prodotto culturale buono solo per l'occidente.
L'ONU voleva in particolar modo contestare il relativismo culturale della “Dichiarazione di
Bangkok” dello stesso anno, con la quale Cina, Singapore, Indonesia e Malesia avevano affermato
l'esistenza di specifici “valori asiatici” incompatibili con la Dudu.
L'universalità dei diritti umani non esclude, però, che si possano concepire sistemi diversi di
protezioni, con ambiti territoriali e presupposti culturali differenziati. Al sistema universale
dell'ONU, corrispondono dei sistemi “regionali”, che tutelano i diritti umani in alcune grandi aree
geo-politiche: l’Europa, le Americhe, l'Africa, i paesi arabi e quelli islamici.
Di “Europe” che tutelano i diritti umani ce n'è più di una: oltre l'Unione Europea, esiste il Consiglio
d'Europa (CdE), Senza contare l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa - svolge attività di tutela delle minoranze e della libertà di informazione).
Il Consiglio d'Europa fu fondato con il “Trattato di Londra” del 1949, allo scopo di “realizzare
un'unione più stretta tra i suoi membri al fine di salvaguardare gli ideali e di favorire il progresso
economico e sociale”. Comprendeva inizialmente 10 membri; attualmente è composto da 49 stati,
fra i quali tutti i membri dell'Unione Europea, più la Russia, la Turchia ed altri paesi, sia europei
che asiatici. È un'organizzazione internazionale, con sede a Strasburgo, che ha il compito di
proteggere i diritti umani. Entrare a farne parte è un prerequisito indispensabile per chiedere di
aderire all'Unione Europea.
Il più importante contributo del Consiglio d'Europa fu la promozione di importanti strumenti
internazionali tra i quali: la “Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle
Libertà Fondamentali” (CEDU), del 1950, la “Carta Sociale Europea” (del 1961, riformata nel
1996), la “Convenzione Europea contro la Tortura” (1987), la “Convenzione sui Diritti dell'Uomo e
la Biomedicina” (1987).
La CEDU è senza dubbio lo “strumento regionale” più importante per la protezione dei diritti umani
ed un elemento centrale dell'ordine pubblico europeo. Ben prima del “Patto dell'ONU”, essa
riconosceva valore giuridico ai principi della Dudu in materia di diritti civili e politici. Con la
CEDU, ciascuno stato contraente poteva denunciare le violazioni commesse dagli altri (il che
accade molto raramente). Soprattutto, “ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o
gruppo di privati che pretenda di essere vittima di una violazione da parte di una delle altre parti
contraenti dei diritti riconosciuti nella convenzione o nei suoi protocolli” può fare ricorso alla Corte
Europea dei Diritti Umani di Strasburgo (art 34). Per la prima volta nella storia, un individuo di un
qualsiasi paese, anche non firmatario della CEDU, poteva adire un organo giudiziario
internazionale, chiedendo la condanna di uno Stato.
Le sentenze della Corte Europea che accertano la violazione di diritti protetti dalla CEDU
determinano l'obbligo per lo stato che risulta soccombente, di rimuovere le conseguenze della
violazione e risarcire il danno morale o materiale al ricorrente. Spesso l'esecuzione della sentenza
comporta anche l'obbligo di prendere misure che evitino il ripetersi di casi analoghi. In casi estremi
di gravi e ripetute violazioni, può essere sospeso o espulso dal Consiglio d'Europa.
Le Corti Costituzionali dei paesi del Consiglio d'Europa tendono a conformare la loro
giurisprudenza in materia di diritti fondamentali ai contenuti della CEDU. Il sistema della
“Convenzione” è divenuto un elemento qualificante dell'ordine pubblico europeo. In Italia, il nuovo
art 117 della Cost. prevede che la legislazione regionale e quella nazionale debbano essere conformi
all'ordinamento comunitario e ai vincoli imposti dall'ordinamento internazionale, quindi anche alle
norme della CEDU.
Alla convenzione si sono aggiunti diversi “protocolli addizionali”, tra i quali il n.13 del 2000
(entrato in vigore nel 2003) che proibisce la pena di morte in ogni circostanza, e la “Convenzione
per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti Inumani e Degradanti” (1987).
Quest'ultima prevede controlli senza preavviso nelle carceri ad opera di un comitato di esperti. Di
importanza pratica minore è la “Carta Sociale Europea” firmata a Torino nel 1961, ed entrata in
vigore nel 1965, per garantire diritti economici e sociali quali lavoro, equa retribuzione, tutela
sindacale, sciopero, salute, assistenza sociale e medica, ecc. Il controllo dell'attuazione della Carta
è rimesso a procedure di tipo politico.
Quanto all'Unione Europea, in origine essa non aveva tra i suoi obiettivi dichiarati la difesa dei
diritti umani. Eppure, tra i suoi membri, aderivano al Consiglio d'Europa, riconoscendone
pienamente i principi. A partire dal 1969, la “Corte di Giustizia Europea” di Lussemburgo si
interessò sempre più del problema della violazione dei diritti fondamentali da parte degli organi
comunitari. In assenza di normative specifiche, la Corte emanò una serie di sentenze che facevano
riferimento ai principi generali dell'ordinamento comunitario ed alle “tradizioni costituzionali
comuni”. Col Trattato di Maastricht del 1992, la tutela dei diritti fondamentali enunciati nella
CEDU divenne, infine, un obiettivo dell'Unione Europea. L'ordinamento dell'Unione Europea
appariva potenzialmente in grado di assicurare forme molto efficaci di tutela. Infatti le norme
europee vengono direttamente applicate nei paesi membri e prevalgono su quelle interne. sembrò,
quindi, svilupparsi un vero e proprio costituzionalismo europeo, che offriva un'ampia gamma di
rimedi giudiziari contro le violazioni dei diritti fondamentali, nei singoli stati e a livello
comunitario.
Il Trattato di Amsterdam (1997) riconobbe che la libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani
e lo stato di diritto erano il fondamento dell'Unione. Infine, nel 1999, il Consiglio Europeo elaborò
la “Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea”. Essa venne ufficialmente proclamata il 7
dicembre 2000 a Nizza. Avrebbe dovuto costituire la prima parte della Costituzione Europea, che
non entrò mai in vigore, perché fu respinta dai referendum francese e olandese. Il “Trattato
costituzionale” di Lisbona (2007) ne ha, però, ripreso buona parte dei contenuti.
Gli articoli della carta di Nizza non sono divisi in generazioni, per sottolineare il concetto
dell'indivisibilità dei diritti. Sono raggruppati per “capi”, ciascuno dei quali è intitolato ad un valore
etico politico, che è insieme anche un principio giuridico: la dignità (artt 1-5), la libertà (artt 6-19),
l'uguaglianza (artt 20-26), la solidarietà (artt 27-38), la cittadinanza (artt 39-46), la giustizia (artt 47-
50), oltre ad alcuni articoli di disposizioni generali (artt. 51-54).
La Carta contiene delle rilevanti innovazioni nel campo dei “nuovi diritti”: divieto di pratiche
eugenetiche, della clonazione umana, della compravendita di organi umani (art. 3); protezione dei
dati (art. 8). Compaiono i diritti dei disabili (art. 26) e quelli dei consumatori (art. 38). La tutela
dell'ambiente (art. 37) viene espressa come direttiva politica, più che come diritto. Il diritto al
lavoro viene depotenziato e ridotto a semplice “diritto a lavorare” (art. 15).
8. Altri “sistemi regionali”
I “diritti della terza generazione”, ovvero “diritti di solidarietà”, sono generalmente legati a quattro
grandi questioni che preoccupano il mondo contemporaneo: la pace, l'ambiente, la fruizione del
patrimonio comune dell'umanità e lo sviluppo sostenibile. La metafora delle generazioni rende
conto del fatto che sono stati riconosciuti dopo i diritti civili e politici (“diritti di libertà”) e quelli
economici, sociali e culturali (di carattere egualitario e consistenti soprattutto in richieste di
prestazioni pubbliche).
Non è chiaro se essi siano dei principi generali oppure dei veri e propri diritti soggettivi, e non è
chiaro chi sia il titolare di questo genere di diritti: una persona, un gruppo sociale, un popolo, o
addirittura l'intera umanità. Di conseguenza non si sa bene chi siano i titolari dei doveri
corrispondenti: altri individui, lo Stato, la Comunità Internazionale?
Dalla conferenza di Rio su ambiente e sviluppo, il tema del diritto all'ambiente si combina, oltre che
con la qualità della vita, anche con quello dello sviluppo, dando vita alla proposta di un diritto allo
sviluppo sostenibile (è sostenibile lo sviluppo che soddisfa le esigenze della generazione presente,
senza compromettere quelle delle generazioni future). L'assemblea Generale delle Nazioni Unite,
con la “Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo” (1986), affronta risolutamente la questione della
titolarità di diritti e doveri, riconoscendo che lo sviluppo economico, sociale e politico è un diritto
inalienabile dell'individuo. L'essere umano è il soggetto centrale dello sviluppo e deve dunque
essere “partecipe, attivo e beneficiario del diritto allo sviluppo” (art 2). Gli stati, dal loro canto,
hanno il dovere di impostare politiche di cooperazione allo sviluppo e di consentire alle persone
l'accesso alle risorse di base, all'educazione, alla sanità, all'alimentazione, all’alloggio e ad una
ripartizione equa del reddito.
i nuovi diritti (o “diritti di quarta generazione”) riguardano due problematiche: la creazione di
biotecnologie in grado di determinare manipolazioni genetiche e la diffusione di tecnologie
innovative nell'ambito dell'informazione e della comunicazione.
La Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea stabilisce all'articolo 3:
“Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e
della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona
interessata, secondo le modalità definite dalla legge; il divieto delle pratiche eugenetiche, in
particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; il divieto di fare del corpo
umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; il divieto della clonazione riproduttiva
degli esseri umani.”
Quanto alle tecnologie informatiche, la “persona elettronica” è sempre più dipendente da esse e,
nello stesso tempo, sempre più esposta a manipolazioni e intrusioni da parte di privati e istituzioni.
Quindi i nuovi diritti riguardano tanto l'accesso alle tecnologie (connessione a Internet,
alfabetizzazione informatica), quanto la difesa da esse (protezione dei dati sensibili, il cosiddetto
“habeas data”). Si può concepire, in realtà, questo genere di diritti come delle classiche libertà,
positive o negative.