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Capitolo 7

Diritti umani e comunità internazionale

1. Diritto internazionale e diritto umanitario

A partire dalla pace di Westfalia (1648), che concluse la guerra dei 30 anni, il mito della “Res
Publica Christiana”, cioè dell'unità politica e religiosa dell'Europa, tramontò per sempre. Il
continente fu diviso in centinaia di entità indipendenti. Le relazioni interne a questa comunità
anarchica di stati sovrani dovevano essere regolate da norme giuridiche. Già dalla seconda metà del
XVI secolo, si era elaborato il Diritto delle Genti. Nonostante il richiamo allo Ius Gentium Romano,
esso era sostanzialmente il moderno diritto internazionale pubblico, inteso come un “diritto fra le
genti”, cioè tra gli stati, indipendentemente dalla morale e dalla teologia. Il suo compito consisteva
nel regolare i rapporti all'interno dell'informale “comunità internazionale” degli Stati, inizialmente
solo europei, assicurandone la coesistenza e delimitando le rispettive sfere di sovranità.
Riconoscendo reciprocamente la propria esistenza, gli stati accettavano di avere relazioni e si
aspettavano che i patti tra loro stipulati fossero normalmente rispettati. In ciascun paese, il governo
aveva il controllo della popolazione e del territorio (sovranità interna), senza che gli altri potessero
ingerirsi legittimamente nei suoi affari. Ad ognuno era assicurata l'indipendenza (sovranità esterna)
e la sicurezza. Per 300 anni, fino alla fine della seconda guerra mondiale, il principio della sovranità
dello Stato-Nazione fu il dogma su cui si fondò il sistema delle relazioni internazionali.
Nel diritto internazionale westfaliano, gli individui non erano in alcun modo soggetti del diritto, ma
solo oggetti, o tutt'al più destinatari di soccorso. La persona poteva avere dei diritti solo in quanto
era cittadino, e comunque nell'ambito dello Stato cui apparteneva. Che uno stato violasse oppure no
i diritti fondamentali dei propri cittadini, non era affare che potesse riguardare le altre potenze.
L'obiettivo primario di ogni Stato era mantenere o accrescere la propria potenza, perciò la guerra
era un mezzo del tutto lecito per realizzare questo fine.
Nel XIX e XX secolo, la diffusione di tecnologie belliche sempre più efficaci indusse le maggiori
potenze a tentare di regolamentare la condotta degli eserciti e di alleviare la condizione dei feriti. A
questo processo offri uno straordinario contributo un'organizzazione privata: la “Croce Rossa
Italiana”, fondata dallo svizzero Henry Dunant. Nel 1859, egli si trovò casualmente a Solferino, sul
campo della più sanguinosa battaglia della seconda guerra d'indipendenza, che oppose italiani e
francesi agli austriaci. In quella occasione, Dunant rimase colpito dalla condizione di atroce
abbandono nella quale vennero lasciati i feriti di entrambi gli schieramenti e, nello stesso tempo,
dalla generosità con la quale la popolazione del posto si dedicò al loro soccorso. Questa esperienza
lo indusse a proporre la creazione In ogni paese di una società volontaria di soccorso ai feriti in
guerra. Inoltre, il “Comitato Internazionale della Croce Rossa” (CICR), fondato da Dunant nel
1859, sì dette l’obiettivo di indurre i governi a sottoscrivere un trattato per la protezione dei militari
feriti e del personale sanitario.
La proposta ebbe un sorprendente successo. In effetti, nel 1863 venne convocata a Ginevra una
conferenza internazionale che, l'anno dopo produsse la “Convenzione di Ginevra per il
miglioramento delle sorti dei feriti in guerra”. Essa prevedeva che il personale sanitario fosse
considerato non belligerante, che i feriti dovessero essere curati, indipendentemente dalla
nazionalità. 
Nasceva, in questo modo, il diritto umanitario, una branca del diritto internazionale il cui scopo è
regolamentare il comportamento degli eserciti, limitando le sofferenze delle vittime della guerra,
siano essi militari o civili.
Pur essendo una semplice associazione privata, composta da 25 cittadini svizzeri, il CICR agisce
ancora oggi da mediatrice tra gli stati in guerra, contribuendo a curare e tutelare feriti, prigionieri e
civili. Perciò i suoi rappresentanti sono, per certi aspetti, equiparati al personale diplomatico. Il
Movimento Internazionale della Croce Rossa comprende oltre al CICR, anche una rete di
organizzazioni di volontariato. Dal 1919 esse costituiscono la Federazione Internazionale delle
Società di Croce Rossa e Mezzaluna rossa (quest'ultima è la denominazione usata nei paesi
islamici).
Tradizionalmente si distingue tra il Diritto Umanitario in senso stretto (diritto di Ginevra) e il
Diritto Bellico, che si occupa della condotta delle operazioni militari, regolamentandone mezzi e
metodi (diritto dell'Aja). L'attuale versione della convenzione di Ginevra, a cui aderiscono quasi
tutti gli stati del mondo, è del 1949. Consiste di quattro trattati, con alcuni protocolli aggiuntivi (2
del 1977 e 1 del 2005). Il primo trattato si riferisce alla protezione dei feriti e malati nelle truppe di
terra, il secondo alla marina militare, il terzo ai prigionieri di guerra, il quarto alla protezione dei
civili in tempo di guerra. I protocolli si riferiscono alle vittime di conflitti internazionali e di quelli
interni.
La creazione dell'ONU e del Diritto Internazionale dei diritti umani avrebbe dovuto rendere
obsoleto il vecchio diritto umanitario. Non è stato così: i due sistemi tendono a convergere, ma
poiché il fenomeno della guerra non è stato abolito, il diritto umanitario resta drammaticamente
d’attualità.  Negli ultimi anni, la necessità di salvaguardare l'incolumità dei civili esposti a crimini
internazionali è stata la motivazione di numerosi interventi militari. Questo tipo di “interventi
umanitari” ha diviso l'opinione pubblica, i giuristi e i governi, tra chi ne ha colto l'aspetto
imperialista e chi ha, invece, sottolineato l'esigenza di salvare le popolazioni minacciate, anche a
costo di strappi alla legalità internazionale. Una profonda divisione nell'opinione pubblica
internazionale si è verificata, in particolare, in occasione dei bombardamenti della NATO contro la
Jugoslavia (1999), avvenuti senza l'autorizzazione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

2. La Società delle Nazioni

In “Progetto per una pace perpetua”, Kant aveva proposto di assicurare al mondo un futuro di pace,
mediante l'istituzione di una Lega Internazionale di Stati. Si doveva quindi creare un'organizzazione
nella quale ciascuno stato, mantenendo la propria sovranità, accettasse di sottoporsi al controllo di
un organo federale. In questa nuova forma di comunità politica, ogni uomo che si fosse recato
all'estero avrebbe avuto il diritto di godere “dell’ospitalità universale”. Per raggiungere questo
obiettivo, occorreva che ciascuno degli Stati membri fosse organizzato in base ad una “Costituzione
Repubblicana”. Si trattava di creare un nuovo diritto, nemmeno internazionale, ma transnazionale.
L'individuo, e non più solo lo Stato, doveva diventare soggetto di questo ordinamento.
La fine della prima guerra mondiale sembrò offrire un'imprevista opportunità di realizzare la
vecchia utopia kantiana. Nel 1918 il presidente americano Wilson espose un programma (“i
quattordici punti”) per il riassetto degli equilibri politici mondiali, dopo la conclusione delle ostilità.
Egli sostenne l'idea di creare una Società delle Nazioni, allo scopo di regolare pacificamente i
conflitti tra gli stati, punendo gli atti di aggressione mediante sanzioni collettive, di carattere
economico e militare.
Il patto istitutivo della Società delle Nazioni (SdN) fu incluso nel trattato di pace di Versailles del
1919. La Società delle Nazioni avrebbe avuto il compito di proteggere le minoranze nazionali
(colpite dalla dissoluzione degli imperi austro-ungarico, tedesco e turco e dalla creazione di
numerosi nuovi Stati), nonché tutelare le popolazioni delle colonie.
Gli USA, e parallelamente anche l'appena nata Russia di Lenin, proposero che i rimaneggiamenti
territoriali, conseguenti alla dissoluzione degli imperi, rispettassero il più possibile l’esistenza dei
“popoli”, con lingue, culture e religiose omogenee. All'inizio dell'anno seguente, la Società delle
Nazioni era pronta ad operare nella sua sede a Ginevra. Qualche anno dopo, il patto Briand-kellogg
(1928), cui aderirono 63 stati, sanciva la rinuncia al ricorso alla guerra per il regolamento delle
controversie internazionali.
Il Trattato di Versailles istituì anche “l'Organizzazione Internazionale del Lavoro” (OIL), nella
quale erano rappresentati i governi, le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali. Essa aveva
il compito di proporre trattati internazionali e leggi a tutela del lavoro dipendente, nonché di
prendere in esame i rapporti sulle condizioni dei lavoratori, che i governi erano tenuti a presentare.
L'organizzazione sopravvisse alla Società delle Nazioni, confluendo nel sistema dell'ONU, e
continuando a svolgere un'importante opera per il riconoscimento dei diritti economico-sociali.
La Società delle Nazioni intervenne a favore delle minoranze e dei rifugiati, che vennero affidati a
un “Alto Commissario”. Fu creato il cosiddetto “Passaporto Nansen”, essenziale per la tutela dei
rifugiati privi di documenti e degli apolidi. Infatti, il frazionamento degli imperi sconfitti, il
cambiamento dei confini e la creazione di nuovi stati determinarono l'espulsione di milioni di
persone, ad esempio dalla Grecia alla Turchia e viceversa. Venne istituita una “Corte Permanente di
Giustizia Internazionale”, per arbitrare le controversie tra stati.  Ma nel complesso, la Società delle
Nazioni non fu all'altezza delle aspettative. L'obiettivo principale, impedire la guerra,
trasformandola in un crimine internazionale, venne mancato.
Un problema di fondo fu che Wilson non ottenne dal Parlamento americano l'adesione alla Società
delle Nazioni, il che indebolì molto l'organizzazione. Un altro limite serio fu rappresentato dal
meccanismo decisionale creato dal Trattato di Versailles. Gli interventi coercitivi contro i
trasgressori dovevano ottenere l'approvazione unanime dei membri del Consiglio della Società delle
Nazioni. Il risultato fu che quando il Giappone invase la Manciuria, e poi la Cina (1931-1932), non
ci furono reazioni. Quando l'Italia invase l'Etiopia (1936), le sanzioni economiche si rivelarono
inefficaci.
Infine, la Società delle Nazioni non fu mai capace di legare la propria azione a un ideale umanitario,
capace di acquisire una credibilità e un consenso realmente universali. Quando il Giappone, durante
la discussione dello Statuto della Società delle Nazioni, suggerì di partire dal principio
dell'eguaglianza del genere umano, la sua proposta fu respinta con vero sdegno dalle potenze
occidentali, comprese la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Francia. Se si fosse accettato un
principio del genere, si sarebbero messi in discussione gli imperi coloniali di paesi come Francia,
Gran Bretagna e Italia, la discriminazione razziale negli USA e il principio della superiorità della
razza bianca, cui tutti sinceramente aderivano. Con poche eccezioni, anche chi credeva nella
fratellanza universale, o si proclamava sostenitore dei diritti dell'uomo, continuava a riferirsi al
maschio bianco, senza avvertire alcuna contraddizione.

3. Il colonialismo e i diritti dei popoli


L'Europa aveva vissuto secoli di conflitti, ma, prima della Prima Guerra Mondiale, le loro
conseguenze sulle popolazioni civili erano, di solito, relativamente limitate. Nel continente aveva
pieno vigore il diritto internazionale, inteso come un ordinamento che regolava i rapporti fra sovrani
europei. Esso aveva anche la funzione di rendere più “civili” le guerre e meno crudeli le loro
conseguenze, in caso di occupazione nemica. Ben differente era lo statuto giuridico dei territori
esterni, soggetti a legittima occupazione da parte degli “scopritori”. La conquista di un territorio
comportava l'appropriazione delle risorse naturali, la distruzione dell'organizzazione politica e
sociale precedente, la diffusione della schiavitù e del lavoro forzato.
Il colonialismo è la manifestazione evidente di un fenomeno più generale: l'Imperialismo, inteso
genericamente come politica di potenza, volta a dominare e sfruttare altri popoli. Le potenze
europee costruirono gran parte della propria identità politica sulla base delle politiche coloniali. Il
colonialismo, infatti, comportava anche la creazione di un’ideologia coloniale, basata su una
presunta missione politica o religiosa e su una visione stereotipata dei popoli non europei,
considerati infantili, affascinanti magari, ma comunque irrimediabilmente “diversi”.
La Società delle Nazioni riconobbe alle minoranze una serie di diritti. I quattordici punti di Wilson
e la propaganda per l'autodeterminazione dei popoli inaugurata da Lenin costituirono, ciascuno a
suo modo, i principali presupposti ideologici del processo di decolonizzazione. Al giorno d'oggi,
l'articolo 55 dello Statuto delle Nazioni Unite fonda le relazioni tra gli stati sul principio
dell'eguaglianza dei diritti e sull'autodeterminazione dei popoli. Nel 1960 l'ONU riconobbe, con la
“Dichiarazione sulla concessione di indipendenza ai paesi e popoli coloniali”, che occorreva
chiudere per sempre l'età del colonialismo. Negli anni successivi, un gran numero di paesi,
soprattutto africani e asiatici, ottenne l'indipendenza. Il legame fra il processo di decolonizzazione e
la tutela dei diritti umani venne, da allora, molte volte riaffermato. Fu per questo che i due “Patti
internazionali”, entrati in vigore nel 1976, ebbero in comune l'articolo 1: “Tutti i popoli hanno il
diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto
politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”. 
I diritti dei popoli, o quelli delle minoranze etniche e religiose, o al limite degli Stati, non sono
propriamente diritti umani. Non si tratta di diritti collettivi, bensì di diritti che spettano a delle
collettività. I diritti dei popoli, o quelli delle minoranze, possono addirittura entrare in conflitto con i
diritti delle persone: basti pensare a come possa venire stigmatizzato chi voglia abbandonare le
tradizioni religiose o culturali del proprio gruppo. In realtà, i popoli, le minoranze nazionali, le
comunità etniche, al momento attuale, sono destinatari indiretti di norme di tutela, piuttosto che
effettivi soggetti di diritto.

4. Le quattro libertà e la fondazione dell’ONU

L'elaborazione della “Dichiarazione Universale” fu un processo lungo e tormentato, risalente ad


alcuni anni prima della stessa creazione delle Nazioni Unite. Nel messaggio al congresso del 6
gennaio 1941, noto come “Four freedoms speech”, il presidente Roosevelt espose i motivi per i
quali riteneva si dovesse entrare in guerra contro le potenze dell'asse. Il “Discorso delle Quattro
Libertà” riaffermava la fede dell'America nella democrazia, e proponeva gli ideali della Rivoluzione
Americana come fondamento della comunità internazionale dopo la conclusione del conflitto,
cominciato nel 1939.
Roosevelt proponeva la visione di un mondo dove ognuno potesse godere, in un futuro molto
prossimo, di due libertà positive (di parola e di religione) e due negative (dalla paura e dal bisogno).
Questa doveva essere l'alternativa all’ 'Ordine Nuovo” che Hitler e i suoi alleati si proponevano di
realizzare. Il presidente decise di appoggiare la Gran Bretagna che resisteva ad Hitler. Ora si
trattava di cominciare la mobilitazione, per entrare in un conflitto che Roosevelt considerava
inevitabile.
Il Nemico era il totalitarismo. La polemica del discorso di Roosevelt era rivolta anche all'Unione
Sovietica di Stalin. Ad entrambi i totalitarismi, Roosevelt contrapponeva il modello americano. Il
rispetto dei diritti umani, il disarmo, la competizione pacifica sul piano economico, politico e
culturale e la cooperazione internazionale avrebbero dovuto rimuovere le cause di una nuova guerra
e costruire un ordine mondiale durevole.
Le “Quattro Libertà” vennero riproposte, pochi mesi dopo, nella “Carta Atlantica”, una
dichiarazione congiunta del presidente americano e del primo ministro britannico Winston
Churchill, in seguito firmata da 47 stati. Nel dicembre del 1941, dopo l’attacco giapponese alla
flotta americana di stanza a Pearl Harbour; gli USA entrarono in guerra. Nella “Carta Atlantica” e
nella successiva “Dichiarazione delle Nazioni Unite” (1 gennaio 1942), i governi firmatari si
impegnarono a trasformare, dopo la vittoria contro l'asse, la loro Alleanza militare in una vera e
propria organizzazione internazionale, in grado di tutelare la pace, i diritti umani e la giustizia.
Due anni dopo, USA, URSS, Francia, Cina e Gran Bretagna, lavorarono al progetto dello Statuto di
questa nuova organizzazione. La vittoria delle “Nazioni unite” era necessaria per dare vita ad una
comunità internazionale che rispettasse i diritti umani. Questa linea politica si era tradotta nel
progetto di una “Carta delle Nazioni Unite”.
La stessa idea di creare un'organizzazione per la promozione della pace, dello sviluppo e dei diritti
umani aveva caratterizzato la “Conferenza Interamericana sui Problemi della Guerra e della Pace”,
tenutasi in Messico all'inizio del 1945. La conferenza aveva proposto un progetto di “Dichiarazione
Internazionale” sui diritti umani. Subito dopo, a Bogotà, la conferenza dell'organizzazione degli
Stati Americani aveva approvato la “American Declaration on the Rights and Duties of Man”,
sicuramente uno dei testi alla base della Dudu.
La conferenza delle Nazioni Unite, alla quale aderirono inizialmente 51 paesi, sì apri il 25 aprile del
1945 a San Francisco. Non partecipavano gli sconfitti: l'Italia venne ammessa solo 10 anni dopo.
Era già chiaro cosa sarebbe stata l'ONU, quali finalità e quali rapporti di forza l'avrebbero
caratterizzata, a partire dall’egemonia istituzionalizzata dei “Cinque Grandi”. La conferenza di San
Francisco approvò la “Carta delle Nazioni Unite”, il 26 giugno 1945, poco dopo la morte di
Roosevelt, sotto la presidenza di Henry Truman. L'esistenza dell'ONU venne giustificata sulla base
di tre obiettivi: il mantenimento della pace, lo sviluppo e i diritti umani.
La Seconda Guerra Mondiale aveva obbligato la comunità internazionale a prendere atto che
esisteva uno stretto rapporto tra la pace e la tutela dei diritti umani. La guerra e le forme più gravi di
violazione dei diritti umani non potevano più essere tollerate, ma dovevano diventare dei crimini,
realizzando l'ideale del pacifismo giuridico: la “pace mediante la legge”, secondo la formula
proposta da Hans kelsen. Per questo, lo stesso concetto di sovranità doveva essere ridimensionato e
relativizzato.
Gli organi principali dell'ONU sarebbero stati: “un'Assemblea Generale, un Consiglio di Sicurezza,
un Consiglio Economico e Sociale, un Consiglio di Amministrazione Fiduciaria, una Corte
Internazionale di Giustizia e un Segretariato” (art7 carta). Il Consiglio di Sicurezza avrebbe avuto la
responsabilità di tutelare la pace. L'Assemblea Generale sarebbe stata composta da rappresentanti
degli Stati membri. Il Consiglio Economico e Sociale si sarebbe occupato della cooperazione
internazionale. All'ONU si sarebbero affiancate una serie di organizzazioni internazionali, a partire
dall' OIL, che si era messa a disposizione del progetto di Roosevelt fin del 1941.
Nell'agosto del 1945, le bombe di Hiroshima e Nagasaki, chiusero la Seconda Guerra Mondiale.
Subito dopo sorsero: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Terminato questo
periodo lungo di destabilizzazione, che durava dalla prima guerra mondiale, sembrava realizzarsi la
profezia di Roosevelt, di una cooperazione politica ed economica globale. in realtà, si stava
preparando la “Guerra Fredda” tra l'occidente e il blocco comunista, destinata a protrarsi fino alla
caduta del Muro di Berlino (1989).

5. La Dichiarazione Universale

H. Truman individuò immediatamente in Eleanor Roosevelt (1884-1962) un simbolo della


continuità politica della “Liberal Tradition”, come lei stessa definiva la corrente progressista,
umanitaria e internationalist (nel senso di “non isolazionista”) del Partito Democratico. L’ex first
lady era impegnata da decenni nella lotta contro il razzismo e per l'emancipazione delle donne. Per
l'opinione pubblica angloamericana, avrebbe perfettamente incarnato i valori espressi dal “Four
Freedom Speech”. Alla fine del 1945, Eleanor Roosevelt accettò di partecipare come delegata alla
prima riunione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a Londra (1946), posizione che
mantenne fino al 1953. Fu anche membro della Commissione dei Diritti Umani e rappresentante
americana nel III comitato dell'Assemblea Generale, che si occupava di questioni umanitarie,
educative e culturali.
Nel 1946, il Consiglio Economico e Sociale dell'ONU (ECOSOC) aveva deciso di costituire una
Commissione dei Diritti dell'Uomo, assegnandole come primo compito quello di proporre al III
comitato, e successivamente all'intera Assemblea Generale, una bozza di dichiarazione.
La Commissione dei Diritti dell'Uomo era composta da 18 membri, rappresentanti dei rispettivi
governi. Eleanor Roosevelt ne era presidente, coadiuvata da René Cassin (1887- 1976) che fu
considerato il vero padre della Dudu.
Si decise che la Commissione avrebbe redatto un documento di alto valore morale, ma non un vero
e proprio trattato. Subito dopo la sua approvazione, ci sarebbe redatto un Patto dei diritti dell'uomo,
per darle valore giuridico vincolante. Un atteggiamento così prudente si rivelò del tutto giustificato.
Stava iniziando la “Guerra Fredda” tra il blocco dell'est e quello filo-americano. Inoltre, mentre il
governo americano tendeva a ricalcare il modello della “Dichiarazione di Indipendenza” e del “Bill
of Rights”, evidenziando i diritti civili e politici, il blocco sovietico dava la prevalenza a quelli della
seconda generazione. Inoltre, i paesi comunisti ribadirono incessantemente che il compito di
tutelare i diritti fondamentali incombeva sui singoli stati, nel pieno rispetto del principio di non
ingerenza. R. Cassin avrebbe voluto attribuire alla Dudu un valore obbligatorio, considerando la
“Carta dei Diritti Umani” (Dichiarazione e Patto) come una sorta di costituzione mondiale; ma
prevalse la soluzione opposta, sostenuta da Gran Bretagna e Urss: alla Dudu doveva spettare solo la
funzione di appello morale.
La Commissione rinunziò in partenza a definire i motivi per cui, nazioni diverse per cultura,
orientamento politico, tradizioni religiose concordassero sulla necessità di tutelare i diritti umani. Sì
cercò, piuttosto, un accordo pratico. Questa scelta tagliava corto con l'obiezione proposta nel 1947
dalla “American Anthropological Association”, in un documento che aprì un dibattito sulla
relatività o universalità dei diritti umani, prima ancora della stesura della Dudu. Gli antropologi
americani criticavano la bozza della Dudu, in quanto parlava di diritti sconosciuti, in realtà, alla
maggior parte dell'umanità nel corso della sua storia: ad esempio, la personalità giuridica, la
protezione contro la disoccupazione, le vacanze. L’uomo della Dudu era un individuo generico,
estraneo ad ogni cultura. Invece, gli esseri umani veri realizzavano la propria personalità solo
all'interno della propria specifica cultura. Al contrario, secondo R. Cassin, la Dichiarazione avrebbe
dovuto chiamarsi non “Internazionale”, come previsto inizialmente, bensì “Universale”, proprio per
sottolineare il suo carattere di appello alla coscienza di ciascun essere umano, indipendentemente
dai rapporti tra i governi e anche dalle differenze culturali e ideologiche.
Nell'Assemblea Generale dell'ONU, e nella Commissione, si scontrarono fondamentalmente due
gruppi di Stati: 14 paesi occidentali e 6 del blocco comunista. Gli altri, cioè la maggioranza
dell'Assemblea (20i latino-americani, 14 asiatici e 4 africani), non erano schierati ufficialmente,
anche se appoggiavano più spesso gli occidentali.  Il blocco dell'est affermava di aderire a una
forma particolare di democrazia, diversa da quella occidentale e più avanzata, nella quale i diritti
civili e politici erano pienamente tutelati. La tradizione Liberal-democratica occidentale non
garantiva, invece, la soddisfazione dei bisogni economici e sociali fondamentali. Le critiche dei
paesi dell'Est riguardavano anche il rifiuto della maggioranza di caratterizzare esplicitamente la
Dudu in senso antifascista e antirazzista. Veniva, poi, criticato in linea di massima il fatto che la
Dudu non precisasse né i mezzi di attuazione dei diritti, né quelli di tutela. La proposta sovietica di
riconoscere i diritti delle minoranze etniche fu respinta per il timore di offrire un incentivo a
conflitti. Per questo fu anche bocciata la proposta di Cassin di riconoscere il diritto alla ribellione
contro la tirannide. Venne bloccato ogni tentativo di imporre specifiche visioni religiose.
Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea Generale, riunita a Parigi, approvò la “Dichiarazione Universale
dei Diritti dell'Uomo” con 48 voti a favore e l'astensione dei paesi del blocco orientale, dell'Arabia
Saudita e del Sudafrica (l’Unione Sovietica obiettò che la Dudu violava il principio di non
ingerenza). Queste astensioni erano l’avvisaglia di un grande problema che si sarebbe posto negli
anni a venire: la dichiarazione era davvero universale, o non piuttosto occidentale?
Il punto di partenza della Dudu è l’individuo, o meglio, la persona. Cassin aveva una visione anche
sociale, ma soprattutto liberale, dei diritti umani. Essi avevano la funzione di proteggere l'individuo
dagli abusi del potere politico, ponendo dei limiti all'esercizio della sovranità statale. L'art. 1
enuncia solennemente il principio che tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali per dignità e
diritti, riprendendo la “Dichiarazione Francese” dell'89. Il 3 attribuisce alla persona i tre diritti
fondamentali enunciati nel “Secondo Trattato” di Locke: vita, libera e sicurezza. L’impronta
occidentale è effettivamente molto visibile.
A partire dal 10 dicembre 1948 - data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la
Dichiarazione Universale - il rispetto dei diritti umani diventò un principio fondamentale del diritto
internazionale. La Dudu non era uno strumento giuridicamente vincolante, ma solo un documento
di alto valore politico, come tutte le Risoluzioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Comunque, si era aperta una nuova fase (post-westfaliana) del diritto internazionale, nella quale la
sovranità degli Stati era condizionata non solo dal divieto della guerra, ma anche dall'obbligo del
rispetto dei diritti umani. All'interno di questo tipo di diritto internazionale, venne a formarsi un
complesso di regole consuetudinarie inderogabili (“Ius Cogens”), che trovò riconoscimento nella
Convenzione di Vienna del 1969, che all'art 53 recita: “È nullo ogni trattato che, all'atto della sua
conclusione, sia in conflitto con una norma imperativa di diritto internazionale generale... accettata
e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme”.
6. La tutela internazionale dei diritti

Approvata la Dudu, rimaneva aperto il problema di come renderne vincolanti i contenuti. La


conferenza di Yalta e quella di Potsdam del 1945 avevano diviso il mondo in due aree di influenza.
La Commissione dei Diritti dell'Uomo lavorò a un “Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici”
(PDCP) e successivamente anche ad un “Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e
Culturali” (PDESC), presentando entrambi all'Assemblea Generale nel 1954. Ma fu possibile
approvare i due Patti solo nel 1966, e farli entrare in vigore 10 anni dopo. La “Carta dei Diritti
Umani” fu, dunque, completata solo nel 1976. I paesi che aderiscono ai Patti sono tenuti a
presentare rapporti periodici sulle misure da loro predisposte per attuarne le disposizioni, e sui loro
effetti. I rapporti pervengono rispettivamente al “Comitato per i Diritti Economici, Sociali e
Culturali” e al “Comitato dei Diritti dell'Uomo”.
Il Comitato dei Diritti dell'Uomo può raccogliere ricorsi anche da parte di individui che ritengano di
aver subito violazioni dei propri diritti civili e politici. Gli stati non sono più gli unici soggetti
titolari di diritti e di doveri. Per certi aspetti, persino gli individui sono diventati soggetti di diritto
internazionale. Infatti, essi sono responsabili personalmente di crimini internazionali e, viceversa
sono protetti, in quanto individui, anche contro il proprio stato.
I crimini internazionali sono violazioni gravi e sistematiche del diritto internazionale che, essendo
ritenute lesive di valori universali, determinano sanzioni a carico degli individui che le hanno
commesse. Si tratta di: crimini di guerra, cioè danni ingiustificati alle persone nel corso degli eventi
bellici (quali la tortura o la presa di ostaggi civili); crimini contro l'umanità (come deportazione e
stermini di popolazioni civili, o persecuzioni razziali); i crimini contro la pace (pianificazione o
esecuzione di una guerra di aggressione); genocidio. Quest'ultimo è il massacro volto alla
distruzione di un intero gruppo etnico, razziale o religioso. una “Convenzione per la Prevenzione e
la Repressione del Genocidio” è stata promossa dall'ONU nel 1946, e adottata dall'Assemblea
Generale dell'ONU il giorno prima della Dudu.
Nei casi più gravi, ciascuno degli Stati avrebbe il dovere di giudicare il criminale che si trovi nel
suo territorio, o in subordine estradarlo. Ma anche così, la possibilità che il crimine resti impunito è
elevatissima. per questo, dal dopoguerra ad oggi si è tentato di affrontare il problema istituendo dei
Tribunali Internazionali. Un primo tentativo di istituire una Corte Penale fu fatto con il Trattato di
Versailles del 1919, che prevedeva l'istituzione di un tribunale speciale, per giudicare i crimini di
guerra commessi da Guglielmo II, in violazione dei trattati dell'Aja. Una norma analoga era inserita
nel trattato di pace con la Turchia, in riferimento al massacro del popolo armeno perpetrato
dall'esercito turco. Nel primo caso, la Corte Internazionale non poté essere istituita, a causa
dell'opposizione degli USA, ed anche perché a Guglielmo II venne concesso asilo dall'Olanda. Nel
secondo, i responsabili del genocidio vennero quasi tutti assolti o amnistiati dal successivo “Trattato
di Losanna”. Prese piede, comunque, l’idea che fosse necessario evitare l'impunità dei responsabili
di crimini internazionali. 
Un rilancio dell'idea di un tribunale internazionale si ebbe in occasione del processo di Norimberga
(novembre 1945 - febbraio 1946), istituito dagli alleati per giudicare i crimini internazionali
commessi dai massimi dirigenti nazisti, cui venivano imputati soprattutto lo scatenamento della
guerra e l'Olocausto. Essi erano accusati di cospirazione contro la pace, guerra di aggressione,
crimini di guerra e crimini contro l'umanità.
Gli USA vollero che il processo di Norimberga si svolgesse nel rispetto formale di procedure di tipo
anglosassone, mentre la Gran Bretagna avrebbe preferito impiccare senza processo i gerarchi
nazisti. Dal punto di vista sostanziale, di fronte all'obiezione che gli imputati avevano obbedito a
ordini della legittima autorità del proprio Paese, e che non si poteva applicare una giustizia
retroattiva, fu necessario riferirsi alle regole del diritto umanitario, ma soprattutto ricorrere al
desueto concetto di diritto naturale. In realtà, non si trattò di veri e propri Tribunali Internazionali,
ma piuttosto di corti di guerra, istituite dai vincitori.
Diverso è il caso delle Corti Penali Internazionali istituite più tardi, sotto l'egida delle Nazioni
Unite. I massacri perpetrati in Jugoslavia, in particolare in Bosnia e in Kosovo, e il genocidio dei
Tutsi e la guerra civile in Ruanda portarono il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad istituire
dei Tribunali ad hoc. Essi vennero stabiliti rispettivamente nel 1993 All’Aja (Olanda) e nel 1994 ad
Arusha (Tanzania).
L'esperienza più importante e probabilmente destinata a incidere su tutto il sistema internazionale di
protezione dei diritti umani fu l'istituzione, nella Conferenza Roma del 1998, della Corte Penale
Internazionale. La competenza di questa nuova istituzione, che ha sede all'Aja, non riguardava più
avvenimenti accaduti in uno specifico tempo e ambito geografico, ma aveva carattere universale.
Il suo statuto, entrato in vigore nel 2002, prevede quattro categorie di crimini internazionali:
genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra e aggressione. La corte ha una competenza a
carattere complementare, cioè interviene solo quando il Tribunale Nazionale non intenda o non
possa giudicare. Il procedimento può essere avviato da uno Stato, dal Consiglio di Sicurezza
dell'ONU o dal Procuratore della Corte. 

7. Europa e i diritti

Nel 1993, la “Conferenza di Vienna” dell’ONU confermò la natura universale dei diritti umani: non
erano un lusso da paesi ricchi, come spesso obiettavano i governanti di diversi regimi autoritari del
terzo mondo, né un prodotto culturale buono solo per l'occidente.
L'ONU voleva in particolar modo contestare il relativismo culturale della “Dichiarazione di
Bangkok” dello stesso anno, con la quale Cina, Singapore, Indonesia e Malesia avevano affermato
l'esistenza di specifici “valori asiatici” incompatibili con la Dudu.
L'universalità dei diritti umani non esclude, però, che si possano concepire sistemi diversi di
protezioni, con ambiti territoriali e presupposti culturali differenziati. Al sistema universale
dell'ONU, corrispondono dei sistemi “regionali”, che tutelano i diritti umani in alcune grandi aree
geo-politiche: l’Europa, le Americhe, l'Africa, i paesi arabi e quelli islamici.
Di “Europe” che tutelano i diritti umani ce n'è più di una: oltre l'Unione Europea, esiste il Consiglio
d'Europa (CdE), Senza contare l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa -  svolge attività di tutela delle minoranze e della libertà di informazione).
Il Consiglio d'Europa fu fondato con il “Trattato di Londra” del 1949, allo scopo di “realizzare
un'unione più stretta tra i suoi membri al fine di salvaguardare gli ideali e di favorire il progresso
economico e sociale”. Comprendeva inizialmente 10 membri; attualmente è composto da 49 stati,
fra i quali tutti i membri dell'Unione Europea, più la Russia, la Turchia ed altri paesi, sia europei
che asiatici. È un'organizzazione internazionale, con sede a Strasburgo, che ha il compito di
proteggere i diritti umani. Entrare a farne parte è un prerequisito indispensabile per chiedere di
aderire all'Unione Europea.
Il più importante contributo del Consiglio d'Europa fu la promozione di importanti strumenti
internazionali tra i quali: la “Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle
Libertà Fondamentali” (CEDU), del 1950, la “Carta Sociale Europea” (del 1961, riformata nel
1996), la “Convenzione Europea contro la Tortura” (1987), la “Convenzione sui Diritti dell'Uomo e
la Biomedicina” (1987).
La CEDU è senza dubbio lo “strumento regionale” più importante per la protezione dei diritti umani
ed un elemento centrale dell'ordine pubblico europeo. Ben prima del “Patto dell'ONU”, essa
riconosceva valore giuridico ai principi della Dudu in materia di diritti civili e politici. Con la
CEDU, ciascuno stato contraente poteva denunciare le violazioni commesse dagli altri (il che
accade molto raramente). Soprattutto, “ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o
gruppo di privati che pretenda di essere vittima di una violazione da parte di una delle altre parti
contraenti dei diritti riconosciuti nella convenzione o nei suoi protocolli” può fare ricorso alla Corte
Europea dei Diritti Umani di Strasburgo (art 34). Per la prima volta nella storia, un individuo di un
qualsiasi paese, anche non firmatario della CEDU, poteva adire un organo giudiziario
internazionale, chiedendo la condanna di uno Stato.
Le sentenze della Corte Europea che accertano la violazione di diritti protetti dalla CEDU
determinano l'obbligo per lo stato che risulta soccombente, di rimuovere le conseguenze della
violazione e risarcire il danno morale o materiale al ricorrente. Spesso l'esecuzione della sentenza
comporta anche l'obbligo di prendere misure che evitino il ripetersi di casi analoghi. In casi estremi
di gravi e ripetute violazioni, può essere sospeso o espulso dal Consiglio d'Europa.
Le Corti Costituzionali dei paesi del Consiglio d'Europa tendono a conformare la loro
giurisprudenza in materia di diritti fondamentali ai contenuti della CEDU. Il sistema della
“Convenzione” è divenuto un elemento qualificante dell'ordine pubblico europeo. In Italia, il nuovo
art 117 della Cost. prevede che la legislazione regionale e quella nazionale debbano essere conformi
all'ordinamento comunitario e ai vincoli imposti dall'ordinamento internazionale, quindi anche alle
norme della CEDU.
Alla convenzione si sono aggiunti diversi “protocolli addizionali”, tra i quali il n.13 del 2000
(entrato in vigore nel 2003) che proibisce la pena di morte in ogni circostanza, e la “Convenzione
per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti Inumani e Degradanti” (1987).
Quest'ultima prevede controlli senza preavviso nelle carceri ad opera di un comitato di esperti. Di
importanza pratica minore è la “Carta Sociale Europea” firmata a Torino nel 1961, ed entrata in
vigore nel 1965, per garantire diritti economici e sociali quali lavoro, equa retribuzione, tutela
sindacale, sciopero, salute, assistenza sociale e medica, ecc.  Il controllo dell'attuazione della Carta
è rimesso a procedure di tipo politico.
Quanto all'Unione Europea, in origine essa non aveva tra i suoi obiettivi dichiarati la difesa dei
diritti umani. Eppure, tra i suoi membri, aderivano al Consiglio d'Europa, riconoscendone
pienamente i principi. A partire dal 1969, la “Corte di Giustizia Europea” di Lussemburgo si
interessò sempre più del problema della violazione dei diritti fondamentali da parte degli organi
comunitari. In assenza di normative specifiche, la Corte emanò una serie di sentenze che facevano
riferimento ai principi generali dell'ordinamento comunitario ed alle “tradizioni costituzionali
comuni”. Col Trattato di Maastricht del 1992, la tutela dei diritti fondamentali enunciati nella
CEDU divenne, infine, un obiettivo dell'Unione Europea. L'ordinamento dell'Unione Europea
appariva potenzialmente in grado di assicurare forme molto efficaci di tutela. Infatti le norme
europee vengono direttamente applicate nei paesi membri e prevalgono su quelle interne. sembrò,
quindi, svilupparsi un vero e proprio costituzionalismo europeo, che offriva un'ampia gamma di
rimedi giudiziari contro le violazioni dei diritti fondamentali, nei singoli stati e a livello
comunitario.
Il Trattato di Amsterdam (1997) riconobbe che la libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani
e lo stato di diritto erano il fondamento dell'Unione. Infine, nel 1999, il Consiglio Europeo elaborò
la “Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea”. Essa venne ufficialmente proclamata il 7
dicembre 2000 a Nizza. Avrebbe dovuto costituire la prima parte della Costituzione Europea, che
non entrò mai in vigore, perché fu respinta dai referendum francese e olandese. Il “Trattato
costituzionale” di Lisbona (2007) ne ha, però, ripreso buona parte dei contenuti.
Gli articoli della carta di Nizza non sono divisi in generazioni, per sottolineare il concetto
dell'indivisibilità dei diritti. Sono raggruppati per “capi”, ciascuno dei quali è intitolato ad un valore
etico politico, che è insieme anche un principio giuridico: la dignità (artt 1-5), la libertà (artt 6-19),
l'uguaglianza (artt 20-26), la solidarietà (artt 27-38), la cittadinanza (artt 39-46), la giustizia (artt 47-
50), oltre ad alcuni articoli di disposizioni generali (artt. 51-54).
La Carta contiene delle rilevanti innovazioni nel campo dei “nuovi diritti”: divieto di pratiche
eugenetiche, della clonazione umana, della compravendita di organi umani (art. 3); protezione dei
dati (art. 8). Compaiono i diritti dei disabili (art. 26) e quelli dei consumatori (art. 38). La tutela
dell'ambiente (art. 37) viene espressa come direttiva politica, più che come diritto. Il diritto al
lavoro viene depotenziato e ridotto a semplice “diritto a lavorare” (art. 15).
8. Altri “sistemi regionali”

Il riconoscimento dell'individuo come soggetto dell'ordinamento internazionale si è affermato non


solo in Europa, ma anche nel sistema Inter-americano di protezione dei diritti umani, legato alla
“Organizzazione degli Stati Americani” (OSA). Esso ebbe origine dalla “Dichiarazione Americana
dei Diritti e dei Doveri dell'Uomo”, approvata il 2 maggio 1948, 7 mesi prima della Dudu. Ad essa
seguì, nel 1969, la “Convenzione Americana sui Diritti Umani”, entrata in vigore nel 1978. La
tutela dei diritti umani nel sistema inter-americano è basata su due organi: la Commissione Inter-
americana dei Diritti Umani e la Corte Inter-americana dei Diritti Umani. Anche in questo sistema,
la Corte può giudicare su ricorsi (“comunicazioni”) individuali.
Più recente è il sistema africano di tutela dei diritti umani, creata dalla “Organizzazione per l'Unità
Africana”, oggi “Unione africana”. L’OUA approvò nel 1981 in Gambia, una “Carta Africana dei
Diritti dell'Uomo e dei Popoli”. La Carta, che si richiama alla Dudu, è caratterizzata dal richiamo ai
doveri nei confronti dello Stato, della comunità internazionale e della famiglia. La tutela dei diritti è
affidata alla Commissione Africana dei Diritti dell'Uomo e dei Popoli e alla Corte Africana dei
Diritti Umani e dei Popoli, che ha iniziato a operare nel 2004.
Nell'ambito dei paesi islamici, una “Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo nell'Islam” fu adottata nel
1990 dalla “Organizzazione della Comunità Islamica” (OCI), che raccoglie tutti gli stati musulmani
del mondo (essa non è una dichiarazione laica). Altre differenze con l'impianto della Dudu
riguardano ad esempio l'eguaglianza tra uomo e donna, o la libertà religiosa, che incontrano
notevoli limitazioni, la prescrizione dell'elemosina legale (zakat), e il principio della
“consultazione” (sura), che, pur corrispondendo in qualche modo alla “sovranità popolare”, non
comporta necessariamente l'adozione del regime democratico.
Anche la concezione islamica dei diritti umani è basata sulla dignità, insieme con la giustizia e la
libertà. L'art. 6 precisa che “la donna è eguale all'uomo in dignità umana”. Tuttavia, aggiunge che
essa “ha i suoi propri diritti di cui godere e i suoi propri doveri da osservare”.
Uno strumento molto più vicino allo spirito della Dudu è la “Carta Araba dei Diritti Umani”,
adottata dal “Consiglio della Lega Araba” nel 1994. È entrata in vigore nel 2008 fra molte
polemiche, riguardanti ancora lo statuto della donna e l'equiparazione del sionismo al razzismo. In
essa viene proclamata la fede della nazione araba nella dignità umana e la sua orgogliosa
determinazione nel diffondere i valori umani e la cultura. È improntata al principio dell'universalità,
indivisibilità e interdipendenza dei diritti umani.

9. La terza generazione e i nuovi diritti

I “diritti della terza generazione”, ovvero “diritti di solidarietà”, sono generalmente legati a quattro
grandi questioni che preoccupano il mondo contemporaneo: la pace, l'ambiente, la fruizione del
patrimonio comune dell'umanità e lo sviluppo sostenibile. La metafora delle generazioni rende
conto del fatto che sono stati riconosciuti dopo i diritti civili e politici (“diritti di libertà”) e quelli
economici, sociali e culturali (di carattere egualitario e consistenti soprattutto in richieste di
prestazioni pubbliche).
Non è chiaro se essi siano dei principi generali oppure dei veri e propri diritti soggettivi, e non è
chiaro chi sia il titolare di questo genere di diritti: una persona, un gruppo sociale, un popolo, o
addirittura l'intera umanità. Di conseguenza non si sa bene chi siano i titolari dei doveri
corrispondenti: altri individui, lo Stato, la Comunità Internazionale?
Dalla conferenza di Rio su ambiente e sviluppo, il tema del diritto all'ambiente si combina, oltre che
con la qualità della vita, anche con quello dello sviluppo, dando vita alla proposta di un diritto allo
sviluppo sostenibile (è sostenibile lo sviluppo che soddisfa le esigenze della generazione presente,
senza compromettere quelle delle generazioni future). L'assemblea Generale delle Nazioni Unite,
con la “Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo” (1986), affronta risolutamente la questione della
titolarità di diritti e doveri, riconoscendo che lo sviluppo economico, sociale e politico è un diritto
inalienabile dell'individuo. L'essere umano è il soggetto centrale dello sviluppo e deve dunque
essere “partecipe, attivo e beneficiario del diritto allo sviluppo” (art 2). Gli stati, dal loro canto,
hanno il dovere di impostare politiche di cooperazione allo sviluppo e di consentire alle persone
l'accesso alle risorse di base, all'educazione, alla sanità, all'alimentazione, all’alloggio e ad una
ripartizione equa del reddito.
i nuovi diritti (o “diritti di quarta generazione”) riguardano due problematiche: la creazione di
biotecnologie in grado di determinare manipolazioni genetiche e la diffusione di tecnologie
innovative nell'ambito dell'informazione e della comunicazione.
La Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea stabilisce all'articolo 3:

“Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e
della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona
interessata, secondo le modalità definite dalla legge; il divieto delle pratiche eugenetiche, in
particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; il divieto di fare del corpo
umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; il divieto della clonazione riproduttiva
degli esseri umani.”

Quanto alle tecnologie informatiche, la “persona elettronica” è sempre più dipendente da esse e,
nello stesso tempo, sempre più esposta a manipolazioni e intrusioni da parte di privati e istituzioni.
Quindi i nuovi diritti riguardano tanto l'accesso alle tecnologie (connessione a Internet,
alfabetizzazione informatica), quanto la difesa da esse (protezione dei dati sensibili, il cosiddetto
“habeas data”). Si può concepire, in realtà, questo genere di diritti come delle classiche libertà,
positive o negative.

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