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Dichiarazione d’indipendenza (America, Francia e Italia)

La rivoluzione americana fu anche una guerra di liberazione nazionale contro gli inglesi
colonialisti: avvenne in minor tempo e con meno sofferenze, non essendoci in America una
nobiltà da eliminare.
I primi teorici borghesi delle rivoluzioni bisogna andare a cercarli nell'Inghilterra degli Stuart
assolutisti e anglicani, che però non arrivarono mai a elaborare dei principi “universalistici”
ma solo “nazionali”, validi anzitutto per gli inglesi. Questi teorici erano o ateo-agnostici o
calvinisti (al tempo della rivoluzione inglese dovremmo, in realtà, andare a cercare anche i
primi teorici del socialismo, in quanto in mezzo ai rivoluzionari calvinisti vi erano i cosiddetti
Livellatori e Sterratori, contrari alla proprietà privata). Sappiamo bene comunque che la
rivoluzione inglese del 1688 si concluse con un compromesso tra borghesia e nobiltà, per cui
se vogliamo trovare qualcosa di “radicale” dobbiamo rivolgerci alla rivoluzione americana e
soprattutto a quella francese.
La rivoluzione americana, essendo stata fatta da rivoluzionari calvinisti (che cominciarono a
espatriare dall'Inghilterra, perché perseguitati, sin dagli anni Venti del Seicento), vi fu come
una sorta di rivalsa contro gli inglesi anglicani, legati a una chiesa di stato, ovvero a uno Stato
confessionale.
Naturalmente la Dichiarazione d'Indipendenza americana del 1776 rappresenta un traguardo
nella storia della democrazia di tutto il mondo: la parte dedicata ai diritti inalienabili
dell'uomo è la prima trasposizione in un documento politico dei principi-base delle dottrine
illuministiche europee (inglesi, olandesi, francesi e in parte italiane) e costituisce
indubbiamente il modello della Dichiarazione francese del 1789. Significativo resta il fatto
che entrambe le Dichiarazioni vennero formulate prima di qualunque Costituzione
democratica.
LA PROCLAMAZIONE DELL’INDIPENDENZA AMERICANA
Il 4 luglio del 1776 il Congresso americano approvò la Dichiarazione d’Indipendenza dalla
madrepatria inglese, redatta soprattutto da Thomas Jeffer-son, ma anche da John Adams e
Benjamin Franklin (quest'ultimo s'ispirava alla La Scienza della Legislazione del napoletano
Gaetano Filangieri).
Gli americani rivendicano, in un certo senso, gli stessi diritti che un secolo prima erano stati
rivendicati dai puritani inglesi, ampliandoli però ed estendendoli a tutti i coloni europei,
essendo l'America un territorio di forte immigrazione. Qui infatti non vi fu bisogno di
realizzare un'intesa tra borghesia e nobiltà, per porre fine alla guerra civile, in quanto i coloni
erano già tutti borghesi, compresi i piantatori schiavisti.
L’importante documento portava l’impronta dell’entusiasmo rivoluzionario che l’aveva
generato e si differenziò sostan-zialmente da tutti i successivi, più moderati, documenti della
rivoluzione americana. Era in sostanza un manifesto antifeudale e antimonar-chico, che
proclamava le libertà repubblicane e democratico-borghesi: diritti inalienabili di natura,
eguaglianza di fronte alla legge, sovranità del popolo e suo diritto di cambiare forma di
governo.
Dal punto di vista filosofico, la Dichiarazione sottolineava due argomenti: i diritti individuali
e il diritto alla rivoluzione. Queste idee furono ampiamente condivise dagli americani e si
diffusero anche a livello internazionale, influenzando in modo particolare la Rivoluzione
Francese.
Nell’elencare i diritti naturali dell’uomo la Dichiarazione non menzionava la proprietà.
Come Rousseau e altri rap-presentanti della corrente di sinistra della teoria borghese del
diritto naturale, Jefferson collegava il concetto di “proprietà” a quello di “lavoro” e lo
collegava alla categoria dei diritti civili, non naturali, cioè lo consi-derava un istituto
storicamente transitorio. Viceversa Locke e i suoi seguaci avevano proclamato la proprietà un
diritto naturale, eterno e inviolabile. Per questo motivo nella formula borghese comunemente
accettata “vi­ta, libertà e proprietà”, Jefferson cambiò la parola “proprietà” con le parole
“aspirazione alla felicità”.
Nel suo progetto primitivo la Dichiarazione conteneva una decisa condanna della schiavitù e
del commercio degli schiavi “in quanto guerra crudele contro la stessa natura umana”; si
accusava inoltre il re “tiranno” Giorgio III, che opprimeva sia gli americani che i negri,
d’incoraggiare lo schiavismo nelle colonie.
Ma il paragrafo sulla condanna dello schiavismo fu cancellato su richiesta dei proprietari di
schiavi della Carolina del sud e della Georgia, che posero questa cancellazione come
condizione per la loro partecipazione alla guerra contro l'Inghilterra. La loro richiesta fu
appoggiata dai mercanti settentrionali e dagli armatori, che traevano profitto dal commercio
dei negri. Lo stesso Jefferson controllava 600 schiavi nelle sue piantagioni virginiane e
siccome il numero totale degli schiavi afroamericani era circa 1/5 dell'intera popolazione dei
coloni, temeva che, liberandoli, gli affari sarebbero crollati improvvisamente, rendendo le
colonie molto deboli nella guerra che si stava per fare contro gli inglesi.
LA PRIMA COSTITUZIONE AMERICANA
La prima Costituzione americana era stata votata dal Congresso nel 1777. Essa conservava la
sovranità di ogni Stato come unità statale autonoma: l’unità era in funzione della difesa
contro un comune nemico.
Alla seconda Costituzione del 1787 ci si arrivò dopo aver vinto gli inglesi e dopo che
imprenditori e piantatori, vedendo che i loro contadini, artigiani e operai volevano maggiore
democrazia e più diritti, pensarono che la cosa migliore fosse un governo federale molto
forte, che garantisse nel contempo la piena autonomia ai singoli Stati e soprattutto che la
nuova Costituzione fosse molto meno radicale dell'iniziale Dichiarazione d'indipendenza
(infatti in essa non sarà presente alcuna “dichiarazione dei diritti”).
Ma la reazione del popolo americano non si fece attendere: nel periodo 1789-91 si accettò di
ratificare la Costituzione soltanto a condizione che fosse introdotto un “Bill of rights” di dieci
emendamenti (oggi sono 27), il quale garantiva la libertà di parola, di stampa, di associazione
e personale (p.es. l'inviolabilità del domicilio, il diritto a non subire pene crudeli ecc.);
affermava il diritto di presentare peti-zioni al governo e di portare armi anche in tempo di
pace; introduceva tribunali basati su giurie, e la separazione di Chiesa e Stato; garantiva
inoltre la sovranità dei singoli Stati e negava l’esercito permanente.
Bisogna dire che questa nuova Costituzione “emendata” è rimasta sostan-zialmente invariata
a tutt'oggi, anche se, prima di abolire la schiavitù, bisognerà aspettare il 1865 e addirittura il
1870 prima di concedere il voto agli ex-schiavi e il 1920 lo stesso diritto alle donne.
Viceversa, ai nativi pellerossa non fu mai riconosciuta la proprietà della terra su cui vivevano
da secoli.
LA DICHIARAZIONE FRANCESE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL
CITTADINO
La borghesia francese nel 1789 era una classe rivoluzionaria che lottava contro il regime
assolutistico-feudale. Gli ideologi della borghesia, che capeg­giavano il “terzo stato”,
identificavano gli ideali sociali della loro classe con gli interessi di tutta la nazione francese e
addirittura di tutta l’umanità.
Il costituzionalismo aristocratico del filosofo Montesquieu, basato sulla divisione dei tre
poteri dello Stato teorizzati nello Spirito delle leggi (1748), influenzerà la prima fase della
rivoluzione francese del 1789.
Il 26 agosto 1789 l’Assemblea co­stituente approvò la Dichiarazione dei dirit­ti dell’uomo e
del cittadino, importantissimo documento della rivoluzione francese, che ebbe una portata
storica universale.
“Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti”, era detto nella Dichiarazione.
Questo princi­pio fu proclamato in un’epoca in cui quasi ovunque nel mondo l’uomo era
ancora considerato uno schiavo, una cosa, e nell’impero di Russia e negli altri Stati
assolutistico-feudali si contavano milio-ni di servi della gleba, mentre nelle colonie
dell’Inghilterra aristocratico-borghese e negli Stati Uniti fioriva il commercio degli schiavi.
I principi proclamati dalla Di-chiarazione furono una sfida molto coraggiosa al mondo
feudale-assolutistico: si affermava che la libertà personale, la libertà di parola, la libertà delle
proprie con­vinzioni, il diritto di opporsi all’oppressione sono diritti naturali, sacri,
inalienabili dell’uo­mo e del cittadino. Anche l'art. 3 è importante: "Il principio di ogni
sovranità risiede essenzialmente nella Nazione", che è il primo concetto di Stato moderno.
Tuttavia la Dichiarazione proclamava altrettanto sa-cro e inviolabile il diritto di proprietà.
Vero è che in questo si racchiudeva allora un ele-mento di progresso: la difesa della
proprie-tà borghese dagli attacchi del regime assolutistico-feudale. Esso fu in primo luogo
rivolto contro i ceti nullatenenti.
In effetti lo stridente contrasto tra i principi uma-nitari e le ampie promesse democratiche
della Dichiarazione e la politica reale dell’As­semblea costituente, gestita dal partito
costituzionale, che esprimeva gli interessi del gruppo dirigente della borghesia e della nobiltà
li-berale, si rivelò molto presto.
LA COSTITUZIONE DEL 1791
I leader del partito costituzionalista - il conte Mirabeau, l'abate Sieyès e altri - erano
sostenitori di una monarchia costitu-zionale e di riforme limitate, che dovevano rinsaldare il
dominio della grande borghesia. Infatti dopo appena cinque giorni che l’Assemblea
costituen­te aveva approvato il principio dell’uguaglianza proclamato nella Dichiarazione, si
decise nella Costituzione del 1791 di concedere i diritti elettorali solo ai cittadini in possesso
di un determinato censo, che erano meno del 20% della popolazione.
La Costituzione del 1791 aveva sicuramente un carattere progressivo rispetto al regime
feudale, prevedendo p.es. la separazione dei poteri e riconoscendo la sovranità politica alla
nazione, ma concedeva a poche persone il diritto di voto (per nulla alle donne), non abolì la
schiavitù esi-stente nelle colonie e confermò il diritto naturale alla proprietà privata.
I contadini, gli operai, gli artigiani, i piccoli proprietari restavano insoddisfatti nelle loro
esigenze sociali e po-litiche, e tendevano ad appoggiare un gruppo di deputati capeggiati da
Robespierre (1758-94), convinto sostenitore della democrazia.
Da notare che proprio nel 1791 la scrittrice Olympe de Gouges, dopo aver pubblicato, nel
1788, le Riflessioni sugli uomini negri, in cui condannava la schiavitù, redasse la
Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina in cui dichiarava l'uguaglianza politica
e sociale tra uomo e donna. Nel 1793 fu ghigliottinata perché si era opposta all'esecuzione di
Luigi XVI.
LA COSTITUZIONE DEL 1793
La Convenzione giacobina approvò e presentò al popolo per la ratifica una nuova
Costi-tuzione nel 1793, la più demo-cratica tra le Costituzioni borghesi del XVIII e XIX
secolo. Essa rispecchiava le idee di Rous-seau, il cui Contratto sociale (1762) ispirerà la
Costituzione della rivoluzione francese. Il filosofo ritiene che la democrazia debba fondarsi
sulla volontà generale, che tende al bene comune, e non sulla volontà della maggioranza.
Tuttavia, anche Rousseau ammette il criterio di maggioranza, a patto che tutti i cittadini
partecipino al voto in determinate situazioni.
Egli auspica inoltre una democrazia diretta, in cui il popolo esercita il potere legislativo
riunito in assemblea, e non una democrazia rappresentativa.
Il supremo potere legislativo apparteneva all’Assemblea legislativa, eletta da tutti i citta­dini
(maschi), che avessero compiuto i 21 anni di età; i progetti di legge più importanti dovevano
essere approvati dal popolo nelle riunio-ni primarie degli elettori.
Il supremo potere esecutivo era di competenza del Consiglio ese-cutivo, formato da 24
persone; la metà dei membri di questo Consiglio doveva essere rin-novata ogni anno.
La nuova Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dichiarava che i diritti dell’uomo
erano la libertà, l’ugua­glian­za, la sicurezza e la proprietà, e scopo della società la “felicità
generale”.
Libertà personale, reli-giosa, di stampa, di presentare petizioni, di iniziativa legislativa, diritto
all’istruzione, assi­stenza sociale in caso di inabilità al lavoro, diritto di resistere
all’oppressione (cioè il diritto all'insurrezione): questi erano i principi democratici proclamati
dalla nuova Costi-tuzione.
LA COSTITUZIONE DEL 1795
Il colpo di stato termidoriano (1794), con cui si pose fine all'estremismo giacobino, determinò
un arretramento nella rivendicazione dei diritti. Infatti la Costituzione girondina del 1795
riduce di molto la sovranità popolare e soprattutto il diritto all'insurrezione.
Bisognerà aspettare le Costituzioni francesi del 1848, 1946 e 1958 prima di veder inglobati,
come preambolo, i fondamentali articoli della Dichiarazione del 1789, facendo così
guadagnare loro l'accesso al diritto positivo dello Stato. Analoga scelta verrà fatta, nel
secondo dopoguerra, dai costituzionalisti tedeschi e italiani, nella convinzione che, così
facendo, si sarebbe potuta meglio scongiurare ogni tentazione totalitaria. Nella nostra
Costituzione gli articoli fondamentali sono i primi dodici, tra cui purtroppo il famigerato art.
7, che recepisce il Concordato fascista tra Chiesa e Stato.
Bisognerà attendere anche la fine della II guerra mondiale prima di vedere nelle Costituzioni
di tutto il mondo il rispetto dei diritti sociali riguardanti le condizioni materiali
dell'individuo, che le Dichiarazioni borghesi avevano trascurato. Nel 1948, con la
Dichiarazione dei diritti universali dell'uomo, l'Onu volle far capire che la garanzia della
dignità umana non può essere demandata esclusivamente ai singoli Stati, ma va affidata, se
necessario, anche a organismi internazionali.
Alessi Gaia Maria

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