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Libertà civili in tempo di guerra: la prospettiva americana

Relazione di Geoffrey R. Stone


(Harry Kalven, Jr. Distinguished Service Professor of Law, The University of Chicago)

(traduzione a cura di Andrea De Petris)

Dall’11 settembre 2001 in poi gli Stati Uniti hanno compiuto una serie di passi decisivi per proteggere la
sicurezza della popolazione americana. Molte di queste misure sollevano dei seri problemi riguardo
all’equilibrio tra sicurezza e libertà. Il Governo statunitense ha segretamente arrestato e imprigionato
oltre un migliaio di individui privi di cittadinanza americana; ha deportato centinaia di non cittadini con
azioni segrete; ha attenuato le limitazioni imposte da lunga data dal Ministero della Giustizia alla
sorveglianza dell’FBI su attività politiche e religiose; ha significativamente esteso il potere degli agenti
federali di invadere la privacy del servizio di prestito bibliotecario e delle trasmissioni via e-mail; ha
incarcerato per più di un anno un cittadino americano, arrestato sul territorio americano, e lo ha tenuto
segregato, senza alcun accesso ad un avvocato difensore e senza sottoporlo ad alcun effettivo
procedimento giudiziario; ed ha instaurato dei tribunali militari probabilmente privi delle adeguate tutele
processuali necessarie.

Ciò che intendo discutere oggi è come gli Stati Uniti hanno risposto nel passato a tali crisi e cosa
possiamo imparare da quelle esperienze. Io sostengo una tesi semplice: in tempi di guerra, noi
rispondiamo con eccessiva severità in termini di restrizione delle libertà civili, e poi, successivamente, ci
pentiamo del nostro comportamento. Per verificare questa tesi passerò molto rapidamente in rassegna
l’esperienza degli Stati Uniti nel 1798, nella Guerra Civile, nella I Guerra Mondiale,  nella II Guerra
Mondiale, nella Guerra Fredda e nella Guerra del Vietnam. Quindi presenterò alcune osservazioni.

Nel 1798 gli Stati Uniti si ritrovarono coinvolti nel conflitto europeo che all’epoca infuriava tra Francia ed
Inghilterra. Un aspro dibattito politico e filosofico divise gli americani. I Federalisti, guidati da Alexander
Hamilton, sostenevano gli inglesi; i Repubblicani, guidati da Thomas Jefferson, preferivano i francesi. I
Federalisti, allora al potere, avviarono una serie di severi provvedimenti che condussero gli Stati Uniti ad
uno stato di guerra non dichiarata con la Francia.

I Repubblicani si opposero fieramente a queste misure, portando i Federalisti ad accusarli di slealtà. Il


Presidente John Adams, ad esempio, dichiarò che i Repubblicani “affonderebbero la gloria del nostro
paese e sottometterebbero le sue libertà ai piedi della Francia.” Contro questa prospettiva i Federalisti
emanarono gli Alien and Sedition Acts del 1798. L’Alien Act autorizzava il Presidente a deportare
qualunque straniero egli ritenesse pericoloso per la pace e la sicurezza degli Stati Uniti. La legge non
riconosceva agli stranieri alcun diritto ad essere ascoltati in giudizio, alcun diritto alla presentazione di
prove ed alcun diritto ad un giudizio.

Il Sedition Act proibiva la critica contro il Governo, il Congresso o il Presidente con lo scopo di arrecare
loro oltraggio o discredito. La legge fu applicata con grande vigore, ma solo contro i sostenitori del partito
repubblicano. Furono avviati dei procedimenti giudiziari contro tutti i giornali repubblicani e contro la
maggior parte dei critici dell’amministrazione federalista.

Sebbene a quel tempo la Corte Suprema non si pronunciò sulla costituzionalità del  Sedition Act, una
schiera di giudici federalisti ritennero l’atto costituzionale. Questa fu la prima dimostrazione che persino
dei giudici di nomina vitalizia non necessariamente sono indipendenti. Questi giudici, compresi dei singoli
componenti della Corte Suprema, spesso agivano come partigiani del partito federalista nella loro
gestione di questi procedimenti. Essi respinsero le richieste di rinvio, esclusero delle legittime prove a
favore della difesa, intervennero nella selezione dei giurati, e si adoperarono aggressivamente per
ottenere delle condanne.

Nelle elezioni del 1800 i Repubblicani rimpiazzarono i Federalisti alla guida del paese. Il nuovo Presidente,
Thomas Jefferson, graziò tutti coloro che erano stati condannati attraverso la legge citata, e quaranta
anni dopo il Congresso risarcì tutte le ammende comminate. Il Sedition Act rappresentò un fattore
decisivo nella sconfitta elettorale del partito Federalista, e la Corte Suprema degli Stati Uniti non ha mai
perso occasione negli anni successivi per osservare come il Sedition Act del 1798 sia stato giudicato
incostituzionale dal “tribunale della storia.”

Durante la Guerra Civile americana la nazione affrontò la sua sfida più seria. Si verificarono vincoli di
fedeltà nettamente divisi, mutevoli legami militari e politici, facili opportunità di spionaggio e sabotaggio,
e più di 600.000 vittime tra le forze armate. In tali circostanze e di fronte alla diffusa e spesso aspra
opposizione alla guerra, alla coscrizione e alla proclamazione dell’emancipazione, il Presidente Abramo
Lincoln fu costretto a bilanciare gli interessi conflittuali delle necessità militari e della libertà individuale.

Nel corso della Guerra Civile Lincoln sospese il diritto di habeas corpus in otto occasioni distinte1. La più
estrema di queste sospensioni, che fu applicata all’intera nazione, proclamò che “tutte le persone …
colpevoli di qualunque azione sleale … saranno sottoposte alla corte marziale.” Sotto questa autorità
agenti dell’esercito arrestarono e imprigionarono almeno 38.000 civili, senza alcun procedimento
giudiziario o verdetto. Si riporta come il Segretario di Stato William Steward abbia commentato di fronte
al Ministro britannico a Washington: “Posso suonare un campanello alla mia destra ed ordinare l’arresto
di un cittadino in Ohio. Posso suonare il campanello di nuovo e disporre la carcerazione di un cittadino a
New York, e nessun potere sulla terra all’infuori del Presidente può rilasciarli. La Regina d’Inghilterra può
dire altrettanto nei suoi domini?”

Agli inizi della Guerra Civile il magistrato Roger Taney, sedendo come giudice in un dibattimento2 sancì
che la sospensione dell’habeas corpus di Lincoln rappresentava un’incostituzionale usurpazione di
autorità, poiché secondo la Costituzione solo il Congresso poteva sospendere tale diritto. Lincoln
semplicemente ignorò la deliberazione di Taney, difendendo la propria azione come necessaria per
salvare l’Unione dalla distruzione.

La maggior parte degli arresti militari fu causata da presunti reati di renitenza alla leva, sabotaggio ed
accordi con il nemico. Relativamente pochi individui furono arrestati per loro opinioni o manifestazioni di
posizioni politiche. Tra quelli arrestati per discorsi eversivi, poche erano persone influenti. L’esempio più
eclatante fu quello di Clement Vallandigham, un ex deputato del Congresso dell’Ohio che fu il più vigoroso
portavoce dei democratici contrari a Lincoln. Vallandigham fu condannato da un tribunale militare e
successivamente esiliato da Lincoln per aver tenuto un discorso in Ohio in cui descriveva la Guerra Civile
come “malvagia, crudele ed inutile” ed incitava i cittadini ad usare “le urne” per cacciare “Re Lincoln dal
suo trono.”

Nel 1886, un anno dopo la conclusione della Guerra, in Ex parte Milligan3la Corte Suprema stabilì che
Lincoln aveva ecceduto la sua autorità costituzionale, sostenendo che secondo la Costituzione il
Presidente non poteva sospendere il diritto di habeas corpus, persino in tempo di guerra, se le corti civili
ordinarie erano aperte e funzionanti. La Corte spiegò, e cito:

La Costituzione … è una legge per i governanti e per il popolo, sia in tempi di guerra che di pace, e copre
con lo scudo della sua protezione tutte le classi di uomini, in ogni tempo e in qualunque circostanza. Mai
fu concepita dall’intelletto umano una dottrina con conseguenze più deleterie di quella che implica come
ogni sua disposizione possa essere sospesa nell’ambito di una qualunque esigenza di rilievo del governo.
Una tale dottrina conduce direttamente all’anarchia o al dispotismo…

La storia delle libertà civili durante la I Guerra Mondiale è per molti aspetti ancora più inquietante.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nell’aprile 1917, c’era una forte opposizione sia alla guerra che
alla leva. Moli cittadini, tra cui socialisti, anarchici, pacifisti ed internazionalisti, sostenevano con
veemenza che il nostro obiettivo non era, come affermava il Presidente Woodrow Wilson, “rendere il
mondo sicuro per la democrazia”, ma proteggere gli investimenti dei ricchi.

Wilson ebbe poca pazienza per il dissenso. Egli ammonì che la slealtà “deve essere eliminata” e che essa
“non era un argomento sul quale c’è spazio per un … dibattito.” I soggetti eversivi, egli spiegò, “avevano
sacrificato il loro diritto alle libertà civili”. Poco dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il Congresso
approvò l’Espionage Act del 1917. Sebbene il provvedimento non fosse diretto contro il dissenso in
generale, degli aggressivi procuratori federali e dei giudici federali compiacenti presto lo trasformarono in
un divieto generale di espressioni sediziose. L’intento dell’amministrazione in questo ambito fu reso
evidente nel novembre 1917, quando il Procuratore Generale Charles Gregory, riferendosi agli oppositori
del conflitto, dichiarò: “Che Dio abbia pietà di loro, poiché essi non possono aspettarsi di riceverne da un
popolo oltraggiato e da un governo vendicativo.”

In effetti il governo lavorò duramente per creare un “popolo oltraggiato”. Dal momento che non c’erano
stati attacchi diretti agli Stati Uniti, e nessuna minaccia diretta alla nostra sicurezza nazionale,
l’amministrazione Wilson doveva produrre un senso di necessità e rabbia onde esortare gli americani ad
arruolarsi, a contribuire finanziariamente ed a compiere i tanti sacrifici che la guerra richiede. A questo
scopo Wilson istituì il Comitato per l’Informazione Pubblica, che produsse una serie di pamphlet,
informazioni, discorsi, editoriali e filmati sediziosi e spesso ingannevoli, tutti diretti ad instillare un odio
verso tutto quello che era tedesco e contro tutte le persone la cui “lealtà” potesse essere messa in
dubbio.

Durante la I Guerra Mondiale il governo condannò più di 2.000 individui dissenzienti per essersi opposti
alla guerra o alla leva, ed in un’atmosfera di paura, isteria e clamore la maggior parte dei giudici furono
rapidi a comminare pene pesanti – spesso da 10 a 20 anni di prigione – a chi veniva considerato
colpevole di slealtà. Sebbene pochi giudici federali resistettero coraggiosamente a questa ondata di
repressione, la grande maggioranza seguì energicamente la corrente. Il risultato fu la soppressione di
ogni sincero dibattito sui meriti, la moralità e lo sviluppo della guerra.

Ma nemmeno questo era abbastanza. Un anno dopo, il Congresso emanò il  Sedition Act del 1918, che
proibiva espressamente qualunque espressione sleale, scurrile od offensiva contro il governo, la
Costituzione, la bandiera, l’uniforme o le forze armate degli Stati Uniti. Nemmeno l’armistizio concluse
questa fase, dal momento che la Rivoluzione russa innescò un periodo di intensa paranoia pubblica negli
Stati Uniti, oggi conosciuta come il “terrore rosso” del 1919-1920. Il Procuratore Generale A. Mitchell
Palmer sguinzagliò una serie di agenti segreti per infiltrarli in cosiddette organizzazioni radicali, e nell’arco
di soli due mesi il governo arrestò più di 5.000 cittadini americani, deportando con procedimenti sommari
oltre un migliaio di stranieri per “sospetta” appartenenza a movimenti radicali.

La storia della Corte Suprema in quest’epoca è dolorosa da raccontare. In una serie di decisioni nel 1919
e 1920 la Corte Suprema confermò la condanna di individui che avevano promosso azioni di protesta
contro la guerra e la leva – individui sconosciuti come Mollie Steimer, un’emigrata ebrea russa di 20 anni
che aveva gettato volantini in Yiddish contro la guerra dal tetto di un edificio nel basso East Side di New
York, ed individui noti come Eugene Debs, che aveva ottenuto circa un milione di voti nel 1912 come
candidato del Partito Socialista alla Presidenza degli Stati Uniti. Queste decisioni non lasciarono alcun
dubbio sulla posizione della Corte Suprema: mentre la nazione era in guerra la critica severa e ficcante
non rientrava nella tutela costituzionale. Queste sentenze rappresentavano una lugubre prova di quanto
l’umore della società poteva penetrare nei tribunali. La condotta della Corte fu semplicemente orrenda4.

Nel dicembre 1920, dopo che gli animi si erano sopiti, il Congresso ritirò tranquillamente il Sedition
Act del 1918. Tra il 1919 ed il 1923 il governo rimise in libertà ogni individuo che era stato condannato
tramite l’Espionage ed il Sedition Acts. Dieci anni dopo il Presidente Franklin Roosevelt sancì un’amnistia
per tutti questi individui, ripristinando i loro pieni diritti politici e civili. Nel mezzo secolo successivo la
Corte Suprema annullò tutte le proprie decisioni assunte durante la I Guerra Mondiale, affermando il
principio che ciascuno degli individui imprigionati o deportati in quel periodo per il loro dissenso era stato
punito per dichiarazioni che avrebbero dovuto essere protette dal Primo Emendamento.5

Il 7 dicembre 1941 il Giappone attaccò Pearl Harbor. Due mesi dopo, il 19 febbraio 1942, il Presidente
Franklin Roosevelt firmò l’ordine esecutivo 9.066, che autorizzava l’esercito ad “individuare delle aree
militari” da cui “ogni persona poteva essere esclusa.” Sebbene le parole “giapponese” o “giapponese
americano” non comparivano mai nel provvedimento, era sottinteso che esso venisse applicato solo a
persone di origine giapponese.

Negli otto mesi successivi, 120.000 individui di discendenza giapponese furono costretti ad abbandonare
le loro case in California, Washington, Oregon ed Arizona. Due terzi di questi individui erano cittadini
americani, che rappresentavano quasi il 90% di tutti i giapponesi americani. Non furono emesse accuse a
carico di questi individui; non ci furono audizioni; essi non sapevano dove stavano andando, per quanto
tempo sarebbero stati detenuti, quali condizioni avrebbero affrontato o quale sorte li attendeva. Molte
famiglie persero tutto.

Su ordine della polizia militare questi individui furono trasportati in uno dei dieci campi di isolamento
collocati in aree isolate in deserti battuti dal vento o in ampie zone paludose. Uomini, donne e bambini
furono collocati in stanze sovraffollate in cui l’unico mobilio era costituito da brande. Si ritrovarono
circondati da filo spinato e polizia militare, e lì rimasero per tre anni.

In Korematsu v. United States6, deciso nel 1944, la Corte Suprema approvò l’iniziativa del Presidente con
una sentenza assunta a maggioranza di sei giudici contro tre. La Corte offrì la seguente spiegazione:

Noi non ignoriamo le sofferenze imposte ad un ampio gruppo di cittadini americani. Ma le sofferenze sono
parte della guerra, e la guerra è un’insieme di sofferenze. Korematsu non è stato cacciato dalla Costa
Occidentale per ostilità contro la sua razza, ma perché le autorità miliari hanno deciso che l’urgenza della
situazione richiedeva che tutti i cittadini di origine giapponese venissero deportati da quella zona. Noi non
possiamo affermare – concedendoci la calma prospettiva di un giudizio a posteriori – che queste iniziative
fossero ingiustificate.

Nel 1980 il Congresso istituì la Commissione per la Segregazione di Civili in Tempo di Guerra per
riesaminare l’internamento dei giapponesi americani. La commissione era composta da ex membri del
Congresso, della Corte Suprema e del governo, nonché da eminenti privati cittadini. Nel 1983 la
Commissione concluse all’unanimità che i fattori che provocarono la segregazione “furono il pregiudizio
razziale, l’isteria ed il fallimento della leadership politica”, più che le necessità militari7.

Poco tempo dopo una corte federale di grado inferiore stabilì un principio straordinario nel
caso Korematsu, accertando che gli agenti del governo sapevano all’epoca della decisione della
segregazione che non sussisteva alcuna esigenza militare, e che nel 1944 gli agenti del governo avevano
deliberatamente ingannato la Corte Suprema sulla questione. Nell’annullare la condanna del Sig.
Korematsu di 40 anni prima in quanto conseguenza di una “manifesta ingiustizia”, il giudice federale
Marilyn Hall Patel enfatizzò la necessità di una responsabilità dell’Esecutivo e di un cauto potere
giudiziario:8

[Korematsu] mostra la costante cautela con cui in tempi di guerra o di dichiarata emergenza militare le
nostre istituzioni devono vigilare nel proteggere le garanzie costituzionali. Mostra l’attenzione con cui in
tempi di pericolo le giustificazioni delle necessità militari e della sicurezza nazionale non debbano poter
essere usate per proteggere azioni del governo da una scrupolosa analisi ed attribuzione di
responsabilità. Mostra la cautela con cui in periodi di ostilità ed antagonismo internazionale le nostre
istituzioni legislative, esecutive e giudiziarie devono essere preparate ad esercitare la loro autorità per
proteggere [le nostre libertà costituzionali] dai gretti timori e pregiudizi che così facilmente vengono
sollevati.

Diversi anni più tardi, il Presidente Ronald Reagan sottoscrisse il Civil Liberties Restoration Act del 1988,
che esprimeva le scuse ufficiali della Presidenza ed accordava un risarcimento a tutti i giapponesi
americani segregati che avevano patito discriminazioni, perdita della libertà, delle loro proprietà e
umiliazioni personali a causa dell’iniziativa del governo degli Stati Uniti.

Quando la II Guerra Mondiale si andava avvicinando alla conclusione, gli Stati Uniti entrarono quasi senza
soluzione di continuità nella Guerra Fredda. Nel momento in cui il legame della nostra alleanza bellica con
l’Unione Sovietica cominciò a sgretolarsi, il Presidente Harry Truman finì sotto l’attacco crescente di una
coalizione di politici conservatori che tentavano di suscitare timori di un’aggressione comunista. Come
dichiarò il capo del Partito Repubblicano Joe Martin alla vigilia delle elezioni di medio termine del 1946,
“la gente domani sceglierà “tra il comunismo” e “la conservazione dello stile di vita americano.” Il giorno
successivo il Partito Democratico del Presidente Truman patì una devastante sconfitta elettorale.

Da allora in poi i partiti presero a rimpallarsi reciprocamente accuse sulla veridicità della loro lealtà alla
nazione. Nel 1948 il Presidente Truman si vantava di aver imposto al servizio civile americano il più
estremo programma di lealtà dell’intero “mondo libero”. Ma c’erano limiti all’anticomunismo di Truman.
Nel 1950 egli pose il veto sull’Internal Security Act di McCarren, che prevedeva la registrazione di tutti i
comunisti. Truman spiegò che il provvedimento era il prodotto dell’”isteria pubblica” e che avrebbe
condotto ad una “caccia alle streghe”. Il Congresso approvò la legge superando il veto di Truman. Quattro
anni dopo il Congresso emanò il Communist Control Act del 1954, che privò il Partito Comunista di “tutti i
diritti, i privilegi e le immunità”. Solo un Senatore osò votare contro il provvedimento. Un commentatore
di un giornale protestò contro “i tumulti del Congresso che … calpestava … la libertà in nome della
distruzione del suo nemico.”

Un’isteria per la “minaccia comunista” invase la nazione e produsse un’ampia serie di restrizioni federali,
statali e locali della libertà di espressione e di associazione, compresi dei vasti programmi di obbligo di
lealtà per impiegati del governo; piani di detenzione d’emergenza per presunti “sovversivi”; discrezionali
azioni di investigazione miranti a punire mettendo alla berlina il destinatario del provvedimento; liste nere
pubbliche e private di coloro che erano stati “scoperti”; e la condanna penale dei vertici e dei membri del
Partito Comunista degli Stati Uniti.

La risposta della Corte Suprema fu eterogenea. La decisione chiave fu Dennis v. United States9, che
coinvolse la diretta condanna dei capi del Partito Comunista americano. Con una decisione assunta con il
favore di sei giudici contro due, nel 1951 la Corte sancì che i ricorrenti potevano essere condannati per le
opinioni da loro espresse in considerazione di un chiaro ed immediato danger test10, sebbene la Corte
ammettesse subito dopo che il pericolo non fosse né chiaro né immediato. Fu un gioco di prestigio
giudiziario memorabile. In vari anni successivi la Corte ammise delle ampie azioni investigative ai danni
di organizzazioni e singole persone “sovversive”, e l’esclusione di membri del Partito Comunista dalla
professione forense, dalle cariche elettive e dal pubblico impiego. Così facendo la Corte appose
esplicitamente il suo consenso su una serie di provvedimenti che noi oggi consideriamo esempi di
Maccartismo.11

Come una volta il Giudice Douglas osservò in merito al caso Korematsu, i giudici “non sono esenti dalle
paure e dalle convinzioni” del loro tempo. Quindi, era naturale per i giudici della Corte Suprema trarre dal
prevalente clima anticomunista negli Stati Uniti una sorta di “tratto di riferimento” per le loro decisioni.
Per i magistrati di quell’epoca resistere alle pressioni ideologiche ed emotive dell’invadente
anticomunismo avrebbe richiesto un coraggio, una saggezza ed un’equanimità straordinari, qualità che
erano al di là delle capacità della maggioranza dei giudici di quel periodo. Essi si sentirono quindi obbligati
dall’umore nazionale a cercare risultati spesso non supportati da fatti, e tendevano ad accettare senza
discussioni una generica “prova” della natura sediziosa del comunismo americano.

Nei tardi anni ’50, comunque, la Corte Suprema cambiò corso. Con vari mutamenti nella composizione
della Corte, e cambiamenti significativi negli assetti mondiali e nazionali, la Corte finì per esercitare un
ruolo cruciale nel portare a conclusione questo periodo12.

Nella guerra del Vietnam, come nella Guerra Civile e nella I Guerra Mondiale, ci fu una sostanziale
opposizione sia al conflitto che alla leva. Affinché non dimentichiamo le tensioni di quegli anni,
permettetemi di citare brevemente la testimonianza oculare di Theodore White sulla Convention
democratica del 1968 a Chicago:

I dimostranti cantano “Pace ora” mentre si avvicinano alla linea di sbarramento della polizia di Chicago.
Poi, come un pugno, una colonna di poliziotti sopraggiunge fragorosamente. E’ una scena tratta dalla
Rivoluzione russa. Esplodono delle granate a gas. I dimostranti si inginocchiano e cominciano a cantare
“America the Beautiful”. Gli sfollagente calano a picchiare. “Il mondo intero guarda.”

Nei vari anni a venire, la nazione entrò in un periodo di profonda e spesso violenta tensione. Dopo che il
Presidente Nixon annunciò l’”incursione” americana in Cambogia, le occupazioni studentesche chiusero un
centinaio di università. Il Governatore Ronald Reagan, interrogato sui militanti dei campus, replicò: “Se ci
vuole un bagno di sangue, togliamoci il pensiero.” Il 4 maggio, agenti della Guardia Nazionale
nell’Università statale di Kent risposero agli scherni ed ai lanci di pietre sparando con i loro fucili M-1 su
una folla di studenti, uccidendone quattro e ferendone altri nove. Proteste e occupazioni esplosero in più
di 12.000 college ed università della nazione. Trenta uffici del ROTC furono dati alle fiamme o colpiti da
ordigni nella prima settimana di maggio. La Guardia Nazionale fu mobilizzata in sedici stati. Come
osservò successivamente Henry Kissinger, “la struttura del governo stava letteralmente cadendo a pezzi.”

  Malgrado tutto questo, non ci fu nessuno sforzo sistematico durante la Guerra del Vietnam di perseguire
degli individui per la loro opposizione alla guerra. In confronto alla I Guerra Mondiale la repressione dei
tardi anni ’60 e dei primi anni ’70 fu leggera. Ci sono molte ragioni per questo, compreso, naturalmente,
il fatto piuttosto rilevante che la maggior parte dei dissenzienti di questo periodo erano figli e figlie della
classe media, e quindi non facilmente etichettabili come “diversi”. Ma le corti, e specialmente la Corte
Suprema, svolsero un ruolo decisivo in quest’epoca. Nel 1969 in Brandenburg v. Ohio13 la Corte
revocò Dennis ed affermò che propugnare una condotta illegale non può essere punito a meno che ciò
consista nell’incitare ad un’”imminente azione illegale.” La Corte aveva compiuto un lungo percorso in
cinquanta anni dai tempi della I Guerra Mondiale.

Ma la Corte non si fermò lì. In altre decisioni essa sostenne che la Camera dei Rappresentanti della
Georgia non poteva legittimamente negare il suo seggio ad un deputato regolarmente eletto per via della
sua espressa opposizione alla coscrizione alla leva; che un’università pubblica non poteva negare il
riconoscimento ad un’organizzazione studentesca radicale perché essa si rifaceva ad una filosofia di
violenza; che gli scolari avevano diritto a protestare contro la guerra anche negli edifici scolastici; che il
governo non poteva punire un individuo per aver recato vilipendio alla bandiera americana; che il
governo non poteva condurre intercettazioni a tutela della sicurezza nazionale senza previa approvazione
giudiziaria; e che il governo non poteva legittimamente vietare la pubblicazione dei Pentagon Papers,
anche se il Dipartimento della Difesa sosteneva che la pubblicazione avrebbe messo in pericolo la
sicurezza nazionale14.

Ciò non vuol dire che il governo non trovò altre vie per impedire dissenso. Il più importante di questi fu
l’intenso sforzo dell’FBI per “scoprire, distruggere e neutralizzare in altro modo” presunte organizzazioni
“sovversive”, da gruppi per i diritti civili a varie fazioni del movimento contro la guerra. In questa
operazione COINTELPRO l’FBI compilò dei dossier politici su più di mezzo milione di americani. Quando
queste attività vennero alla luce, furono severamente condannate dai membri del Congresso, ed il
Ministro della Giustizia Edward Levi dichiarò tali pratiche incompatibili con i nostri valori nazionali. Nel
1976 egli istituì una serie di orientamenti miranti a restringere le attività di sorveglianza politica da parte
dell’FBI.

Cosa possiamo imparare da queste vicende? Io presento sei osservazioni:

Primo, noi abbiamo raggiunto il consenso su due questioni chiave: la Costituzione si applica in tempo di
guerra, ma le particolari esigenze belliche possono condizionar l’applicazione della Costituzione.
Ciononostante, noi abbiamo respinto le posizioni più estreme – ovvero che la Costituzione è irrilevante in
tempo di guerra, e che il tempo di guerra è irrilevante per l’applicazione della Costituzione. Ciò in pratica
vuol dire che al momento di porre in essere lo standard costituzionale applicabile in ogni particolare
ambito del diritto, anche davanti ad un pericolo imminente e concreto, che investe l’interesse del
governo, causa probabile o meno, è opportuno tenere in considerazione le speciali circostanze della
situazione bellica nel determinare se il governo dispone delle giustificazioni necessarie per limitare i diritti
costituzionali. Cosa che non vuol dire, comunque, che le Corti dovrebbero abdicare alle loro responsabilità
di fronte all’invocazione della sicurezza nazionale o delle esigenze militari.

Secondo, gli Stati Uniti hanno una lunga e sfortunata storia di reazioni sproporzionate ai pericoli percepiti
in tempo di guerra. Di volta in volta noi abbiamo permesso alle nostre paure di prendere il meglio di noi
stessi. Io non intendo sostenere che ciò sia evitabile facilmente. La guerra produce una potente psicologia
di massa che minaccia profondamente le libertà civili. L’emozione prende il sopravvento; spie, sabotatori
e terroristi sono in agguato ad ogni angolo; la paura alimenta la paura. Noi mettiamo in pericolo i nostri
figli. Qualunque cosa accresca il rischio per la nazione o per i nostri soldati è disprezzato. Il patriottismo
regna supremo. “Giusto o sbagliato, è il mio paese!” “Amalo o lascialo!” “O sei con noi, o sei contro di
noi!” “Gott mit uns!“ „Dieu et mon Droit!“ „Chiaro destino!“ „Per Dio, per l’Inghilterra, per San Giorgio!“
“Per la Patria!” La “Madre di tutte le guerre.” La “guerra per porre fine a tutte le guerre.” E’ questo il
terreno fertile per l’isteria e le reazioni eccessive.

Terzo, spesso si sostiene che a confronto con i sacrifici che imponiamo di compiere ad alcuni cittadini
(specialmente ai soldati) in tempo di guerra, chiedere ad altri di sacrificare alcune delle loro libertà
godute in tempo di pace per sostenere lo sforzo bellico è un piccolo prezzo. Come sostenne la Corte
Suprema in Korematsu, “le sofferenze sono parte della guerra, e la guerra è un’insieme di sofferenze.”
Questo è un argomento seducente, ma pericoloso. Per combattere una guerra con successo è necessario
che i soldati rischino la loro vita. Ma non è necessariamente “necessario” per altri rinunciare alle proprie
libertà. Questa necessità deve essere dimostrata in maniera convincente, non semplicemente presunta. E
questo è vero specialmente quando, ed è il caso abituale, gli individui i cui diritti sono sacrificati non sono
quelli che fanno le leggi, ma delle minoranze, dei dissidenti e degli stranieri. In tali circostanze “noi”
prendiamo la decisione di sacrificare i “loro” diritti – un modo non molto prudente di equilibrare gli
interessi in gioco.

Non sembra avere nemmeno alcuna importanza che questo argomento sia particolarmente insidioso
quando è in ballo la libertà di espressione. Una funzione critica della libertà di espressione in tempi di
guerra è quella di aiutarci ad assumere decisioni sagge sulla conduzione della guerra, se i nostri leader
stanno governando bene, se concludere la guerra, e così via. Queste domande non possono essere
sospese durante una guerra. La libertà di espressione in questo contesto non è semplicemente un diritto
dell’individuo, ma un interesse fondamentale della nazione che è essenziale per l’effettiva esistenza di un
procedimento decisionale democratico in tempo di guerra.

Quarto, la Corte Suprema conta. Spesso si dice che i presidenti fanno quello che vogliono in tempo di
guerra. Il Ministro della Giustizia Francis Biddle una volta osservò che “la Costituzione non è mai
interessata particolarmente ad alcun Presidente in tempo di guerra”, e il Giudice della Corte Suprema
William Rehnquist ha sostenuto che “non c’è alcuna ragione di pensare che i futuri presidenti in tempo di
guerra agiranno differentemente da Lincoln, Wilson o Roosevelt.”

In effetti, comunque, i dati sono più complessi di quanto ciò suggerisca. Sebbene il Presidente può
ritenersi più vincolato da limiti politici che costituzionali in tempo di guerra, i due aspetti sono collegati.
Lincoln non propose un Sedition dAct, Wilson respinse le richieste di sospendere il diritto di habeas
corpus, e Bush non ha richiesto giuramenti di fedeltà. Il fatto è che persino in tempo di guerra i presidenti
non hanno osato restringere le libertà civili di fronte a dei precedenti consolidati della Corte Suprema.
Anche se i presidenti spesso proveranno a tirare la corda laddove la legge non è chiara, essi non
sovvertiranno una dottrina costituzionale consolidata.
Forse è perché loro rispettano la legge. Forse è perché non vogliono avviare uno scontro con la Corte
Suprema nel mezzo di una guerra. Ma qualunque sia la spiegazione, il fenomeno è inequivocabile ed
importante. La Corte Suprema non è priva di poteri nell’influenzare queste materie. Come ha notato il
Giudice Rhenquist, una decisione “in favore delle libertà civili costituirà un precedente per disciplinare
future iniziative del Congresso e dell’Esecutivo in guerre future.”15 I dati lo confermano.

Ciò che questo suggerisce è che in fasi di relativa calma la Corte dovrebbe costruire coscienziosamente
delle dottrine costituzionali che forniranno una guida ferma ed inequivocabile per successivi periodi di
tensione. Delle chiare disposizioni costituzionali che non siano facilmente aggirate o manipolate da
procuratori, giurati, presidenti di giuria e persino giudici costituzionali sono essenziali se vogliamo
preservare le libertà civili di fronte alla paura ed all’isteria dei tempi di guerra. Principi malleabili, equilibri
espandibili e standard vaghi possono servire bene in periodi di tranquillità, ma è facile che vengano meno
quando più abbiamo bisogno della Costituzione.16

Quinto, spesso si dice che la Corte Suprema non deciderà un caso in senso contrario al Governo su una
questione di sicurezza militare durante un periodo di emergenza nazionale. Le decisioni più spesso citate
a sostegno di questa teoria sono, naturalmente, Korematsu e Dennis. In realtà, tuttavia, ci sono molti
esempi contrari. Durante la II Guerra Mondiale la Corte Suprema sostenne i diritti costituzionali di fascisti
americani in una serie di giudizi penali e di procedimenti di denaturalizzazione (privazione della
cittadinanza), ponendo un freno concreto ai tentativi del Governo di punire tali individui 17. Durante la
Guerra Fredda la Corte respinse il tentativo del Presidente Truman di porre sotto controllo l’industria
dell’acciaio18, ed alla fine aiutò a concludere l’era del Maccartismo19. E durante la Guerra del Vietnam la
Corte respinse ripetutamente delle richieste per la sicurezza nazionale da parte dell’Esecutivo. Così,
sebbene sia vero che la Corte Suprema tende ad essere cauta nel non “ostacolare” una guerra in corso se
non ce ne sia bisogno, è altrettanto vero che la Corte vanta dei dati significativi nell’adempiere alla sua
responsabilità costituzionale di proteggere le libertà individuali – persino in tempi di guerra.

Infine, vorrei dire una parola sugli avvocati. In ciascuno di questi episodi gli avvocati hanno svolto un
ruolo determinante, sia nel foggiare le restrizioni a libertà civili, sia nell’opporsi ad esse. Al momento sono
più interessato alle ultime. Albert Gallatin portò degli argomenti eccellenti in opposizione all’Alien ed
alSedition Acts. Gilbert Roe difese i diritti di libera espressione di dissenzienti nella I Guerra Mondiale. I
Professori Ernst Freund e Felix Frankfurter svolsero un ruolo cruciale nel porre in evidenza le violazioni
dei diritti civili durante il Terrore Rosso successivo alla I Guerra Mondiale, e aiutarono a concludere
quell’epoca. Il Ministro della Giustizia Francis Biddle svolse un ruolo coraggioso all’interno
dell’Amministrazione Roosevelt durante la II Guerra Mondiale, opponendosi sia alla segregazione
giapponese che alla condanna di fascisti americani. Joseph Welsch, un avvocato di Boston, umiliò
pubblicamente il Senatore Joseph McCarthy con le sue domande ficcanti durante le audizioni Esercito-
McCarthy del 1954, che portarono alla caduta di McCarthy. Ed un gruppo di avvocati di Chicago aiutò a
concludere un’era di sorveglianza di dissidenti politici da parte dell’FBI durante la guerra del Vietnam
citando in giudizio la “Squadra Rossa” della città di Chicago, il Federal Bureau of Investigation ed il
Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Degli avvocati dediti alla protezione delle libertà civili possono
fare la differenza.

Tornando al nostro tempo: la minaccia del terrorismo è reale, e noi ci aspettiamo che il nostro Governo ci
protegga. Ma abbiamo visto degli elementi inquietanti e fin troppo ben conosciuti nelle iniziative
dell’Amministrazione Bush. Alcuni giudici federali hanno sollevato delle questioni importanti; mentre altri
hanno mostrato troppo velocemente accondiscendenza alle richieste dell’Esecutivo. Per raggiungere il
giusto equilibrio oggigiorno abbiamo bisogno di avvocati che si sollevino rapidamente contro le furie della
loro epoca; esperti accademici che ci aiutino ad osservare noi stessi con chiarezza; un pubblico informato
e tollerante che consideri non solo le proprie libertà, ma anche le libertà degli altri; e giudici con la
saggezza di riconoscere gli eccessi quando ci sono, ed il coraggio di proteggere le libertà quando sono
minacciate. Staremo a vedere.

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