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Questi aspetti della Costituzione del 1791 ne fanno un testo di compromesso con la monarchia.
I rappresentati dell’Assemblea Nazionale Costituente: borghesi del Terzo Stato, ma anche nobili ed esponenti
del clero “illuminati”, volevano l’abolizione della società per ceti e del potere assoluto del Re, ma non era nei
loro intenti un sovversione dell’intera società.
Durante il periodo di elaborazione della Costituzione c’erano stati diversi episodi di insurrezione popolare, i
primi eventi di questo genere erano stati: la presa della Bastiglia (14 luglio), l’importantissima insurrezione
contadina che aveva portato all’abolizione dei diritti feudali (luglio – agosto 1789), la marcia su Versailles dei
popolani di Parigi per costringere il Re a trasferirsi nella città (6 ottobre).
Emergeva una rivoluzione popolare, con la partecipazione di classi sociali che avevano interessi diversi e anche
opposti a quelli dei gruppi dell’alta borghesia rappresentati nell’Assemblea Costituente.
La consevazione della monarchia era anzitutto la strada percepita come la più ovvia: esisteva una tradizione di
fedeltà dei sudditi francesi ai loro sovrani e inizialmente erano pochissimi che la mettevano in discussione.
Gradualmente, però, la garanzia che non ci sarebbero state sovversioni troppo radicali – ossia che non si
sarebbero messe in discussione, dopo quelle basate sul “privilegio di nascita”, le gerarchie sociali basate sulla
ricchezza e sulla proprietà – fu il motivo per il quale gli esponenti moderati della Rivoluzione sostennero per un
certo periodo la conservazione della monarchia.
Non solo gli aristocratici “illuminati”, ma anche i rappresentanti borghesi all’Assemblea Costituente, volevano
il compromesso con la monarchia.
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La durata di una legislatura era prevista di due anni. Luigi XVI farà uso per sei volte del diritto di veto.
Il guaio, per loro, è che tale compromesso non lo volevano né il Re né quella ampia parte dell’aristocrazia che si
era sentita sconfitta e danneggiata dalla prima fase della rivoluzione borghese, e aspirava ad una
controrivoluzione che riportasse allo stato precedente. Il Re accettava apparentemente le innovazioni
rivoluzionarie, ma sempre con riluttanza; i nobili controrivoluzionari, con a capo il fratello minore del Re,
iniziavano ad emigrare nei paesi vicini e a cercare una rivincita contro la Francia rivoluzionaria.
Ciò diverrà evidente quando il Re, con la sua famiglia, prima ancora che si chiudessero i lavori dell’Assemblea
Costituente, cercherà di fuggire dalla Francia, verso il Belgio, allora sotto la sovranità austriaca (giugno 1791),
per unirsi ai controrivoluzionari.
Il conflitto era evidente, ma i rappresentanti della rivoluzione moderata non erano affatto disposti a sbarazzarsi
della monarchia, tanto che si inventò la vistosa bugia che il Re non stava fuggendo, ma era stato rapito. Non ci
credeva nessuno, ma i rivoluzionari borghesi, in larghissima maggioranza, facevano finta di crederci per non
dovere affrontare il “salto nel vuoto” di una rottura con la monarchia.
Il 16 luglio 1791, su proposta di Barnave, la Costituente votò la reintegrazione del re nella pienezza dei suoi
poteri. Votarono contro solo in cinque (tra i quali Robespierre).
Il giorno successivo, a Parigi, ci fu una manifestazione popolare contro la monarchia, ma l’Assemblea
Costituente la represse, mobilitando la Guardia Nazionale (massacro del Campi di Marte): era uno scontro tra
fazioni popolari radicali, che volevano la repubblica e un nuovo ordine sociale, e la linea maggioritaria della
rivoluzione borghese, alla quale bastavano i cambiamenti che già c’erano stati.
Ecco il primo conflitto fra le “due rivoluzioni”. Conservare la monarchia era una garanzia di stabilità. Ma
quanto poteva durare?
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Vedi, in proposito, nel libro di testo (Brancati/Pagliarani) pag. 189: “I limiti delle carte settecentesche”.
Va però precisato che durante la Rivoluzione Francese il problema della limitazione dei diritti politici su base
razziale verrà ampiamente discusso e infine risolto col rifiuto della discriminazione.
L’associazione dei piantatori bianchi delle colonie premeva (con iniziale successo) per escludere dal diritto di
voto gli uomini liberi di colore, e quindi di far entrare nella legislazione francese la discriminazione razziale
che era già in atto nelle colonie, ma suscitò una forte opposizione presso alcuni deputati (Mirabeau,
Robespierre, Grégoire e altri), presso diversi esponenti associati della categoria dei liberi di colore (Raimond,
Ogé e altri) e infine in un movimento di opinione che riuscì ad ottenere la parità dei diritti politici
indipendentemente dalla cosiddetta “razza”, ma limitatamente a coloro che fossero “liberi, proprietari e
contribuenti” (28 marzo 1792). Come avremo modo di approfondire, non era ancora stato affrontato il problema
della schiavitù, ma la discriminazione razziale di per sé (limitatamente ai soli uomini liberi) era stata
esplicitamente esclusa.
arrivassero rappresentanti diretti delle classi inferiori, ma il voto di queste ultime (quando era
concesso) fosse filtrato dalle classi benestanti.
Tutto ciò (soprattutto la condizione dei “cittadini passivi”) contraddiceva vistosamente quanto affermato, in un
momento di maggiore slancio idealistico nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino.
La Dichiarazione del 1789, infatti, affermava che “La legge è l’espressione della volontà generale” e che perciò
“tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o tramite i loro rappresentanti, alla sua
formazione” (art. 6). Arrivati alla legislazione concreta ed effettiva, la prima fase della rivoluzione “borghese”
si rimangiava le formali promesse e i principi espressi nella “Dichiarazione”.
Sappiamo che, in seguito alla guerra, lo scontro tra le forze rivoluzionarie più radicali (Giacobini, rivoluzione
popolare dei Sanculotti) e la monarchia portò alla destituzione del Re, del quale era ormai palese la connivenza
col nemico (Austria, Prussia, nobiltà francese emigrata e controrivoluzionaria). I moderati non potevano più
salvare il compromesso con la monarchia. Cercarono di farlo, fino a quando l’insurrezione popolare del 10
Agosto 1792 non costrinse l’Assemblea Legislativa (eletta – come sappiamo – a suffragio ristretto e composta in
larga maggioranza da moderati e monarchici3) a dichiarare “sospeso” il Re, e ad arrestarlo (13 agosto).
La costituzione monarchica del 1791 era perciò decaduta, occorreva scriverne un’altra, stavolta repubblicana.
Allo scopo venne sciolta l’Assemblea Legislativa, che come ultimo atto decretò l’elezione di una nuova
assemblea costituente, denominata Convenzione Nazionale.
I tempi erano cambiati, la rivoluzione popolare aveva ormai preso il sopravvento, il suffragio ristretto era
improponibile, e perciò la Convenzione Nazionale fu eletta a suffragio universale maschile. Si riunì per la prima
volta il 20 settembre 1792, come primo atto (21 settembre) proclamò la Repubblica.
Non possiamo fare qui la storia delle vicende della Francia all’epoca della Convenzione. Ci limitiamo a dire che
la nuova Costituzione fu completata e promulgata il 10 Agosto 1793, durante il governo del Comitato di Salute
Pubblica composto dai Giacobini, ma venne anche dichiarato che la costituzione sarebbe entrata in vigore solo
alla fine della guerra.
Di fatto, perciò, non venne mai applicata, ma i suoi contenuti ne fanno il modello della costituzione
repubblicana democratica, in questo senso contrapposta alla costituzione monarchica e moderata del 1791.
I diritti economico-sociali
La costituzione del 1793 è preceduta da una Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del
Cittadino rinnovata e ampliata rispetto a quella del 1789.
Poiché nasceva da un’alleanza fra i gruppi politici più radicali della rivoluzione borghese
(Giacobini) e il movimento popolare (sanculotti), la nuova dichiarazione introduce dei diritti di
nuovo genere: i diritti sociali (o meglio: economico-sociali). Essi mirano a ridurre le forme più
gravi della povertà, a garantire a tutti la sussistenza, e ad estendere l’istruzione e con essa la
partecipazione delle classi meno abbienti alla vita politica della nazione.
I diritti economico-sociali sono contenuti negli articoli 21 e 22 della nuova Dichiarazione:
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Con l’eccezione del gruppo di sinistra formato da Giacobini, Girondini e Cordiglieri (136 su un totale di 745
deputati)
Art. 21 – I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini
disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che
non sono in età di poter lavorare.
Art. 22 – L’istruzione è il bisogno di tutti. La società deve favorire con tutto il suo potere i
progressi della ragione pubblica, e mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini.
L’idea di diritti sociali, per quanto di difficile attuazione, implica il principio di un intervento dello Stato nella
vita economica, che salvaguardi la sussistenza del cittadino. Essa si collega alla politica di calmiere dei prezzi
(maximum) che il governo giacobino attuò nel periodo di più stretta alleanza con la rivoluzione popolare.
L’intervento dello Stato in economia fu invece avversato dalle forze moderate, espressione della borghesia
commerciale e imprenditoriale, che vollero il ripristino del libero mercato.
L’idea di diritti economico sociali è in generale estranea alle costituzioni del Sette e Ottocento 4. La costituzione
del 1793 fa perciò eccezione. I diritti economico sociali sono invece diventati parte integrante di molte delle
costituzioni democratiche redatte nel Novecento, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. La nostra
Costituzione repubblicana (in vigore dal 1948) ne è un tipico caso. Il diritto al lavoro è affermato nell’articolo 4,
il diritto all’istruzione di base pubblica e gratuita nell’articolo 345.
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Essa è per es. assente nella attuale Costituzione degli Stati Uniti d’America, che è stata approvata nel 1787
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La gamma dei diritti della Costituzione della Repubblica Italiana è molto ampliata. Nelle sezioni dedicate ai
rapporti sociali e ai rapporti economici sono contenuti, distinti in due gruppi, i diritti sociali nel senso stretto
della parola: diritti alla famiglia (artt 29, 30, 31), diritto alla salute (art 32), diritto allo studio (art 34), e i diritti
economici: diritto al lavoro (art 35), diritto all'assistenza sociale pubblica (art 38), diritto di organizzarsi in
sindacati (art 39), diritto di sciopero (art 40), libertà di iniziativa privata (art 41)
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L’unico rapporto di lavoro e di servizio ammesso e legittimo è quindi quello derivante da un contratto libero
tra individui, col lavoro svolto in cambio di un salario.
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Nel periodo tra la promulgazione della Costituzione e il decreto del 4 Febbraio i proprietari delle piantagioni
sperarono che si potesse proseguire con la pratica schiavistica perché la costituzione non era ancora in vigore.
Nel frattempo (Agosto/Settembre 1793) i Commissari della Repubblica nella colonia di Saint-Domingue,
Sonthonax e Polverel, avevano, di loro iniziativa e all’insaputa di ciò che accadeva a Parigi (le notizie
arrivavano con un ritardo di c/a 2 mesi), dichiarato abolita la schiavitù nella colonia.
LA COSTITUZIONE DEL 1795
Con la caduta della dittatura giacobina (27 luglio 1794, arresto di Robespierre e dei suoi seguaci) di fatto cadde
anche la rivoluzione popolare. La guida della Francia rivoluzionaria (o post-rivoluzionaria) e repubblicana passo
di nuovo nelle mani dei moderati, espressione degli strati più elevati e più abbienti della borghesia.
Timorosi sia della ripresa delle agitazioni popolari, sia del ritorno della monarchia (che avrebbe messo in
questione i diritti acquisiti e anche i numerosi arricchimenti tramite l’acquisto dei beni confiscati alla Chiesa e
alla nobiltà emigrata), i nuovi dirigenti moderati misero a punto una nuova costituzione, che venne completata e
approvata il 22 agosto del 1795.
Fra i principi fondamentali viene ribadito il ruolo della proprietà privata: “È sul mantenimento delle proprietà
che riposano la coltivazione delle terre, tutte le produzioni, ogni mezzo di lavoro, e tutto l'ordine sociale”.
La Costituzione del 1795 non faceva più menzione di diritti economico-sociali, cancellati con la caduta del
governo giacobino Conservava, invece, il divieto della schiavitù (art. 15), dato ormai per acquisito 8.
La separazione dei poteri era affermata (a parole) in modo scrupoloso e il Direttorio era soggetto ad una
continua rotazione, per evitare un eccessivo accentramento di poteri. In pratica, però, data la situazione di
incertezza in cui il nuovo sistema politico si trovò ad operare, rimase una forte instabilità e il rispetto della
legalità costituzionale fu sostituito da una sequenza di lampanti violazioni e veri colpi di Stato:
l’8 settembre 1797 il Direttorio annullò le elezioni che avevano dato una maggioranza monarchica,
l’8 maggio 1798 destituì 106 deputati neo-giacobini legittimamente eletti e distribuì i loro seggi a deputati
moderati,
il 18 giugno 1799 furono costretti alle dimissioni due componenti del Direttorio stesso.
Questa serie di violazioni crea i presupposti per il colpo di Stato del 18 brumaio anno VIII (9 novembre 1799)
col quale Napoleone Bonaparte abbatterà il sistema del Direttorio ed instaurerà la dittatura.
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La schiavitù nelle colonie verrà, però, ripristinata da Napoleone con decreto del il 18 maggio 1802