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Leonard Lawlor e Valentina Moulard-Leonard

Il concetto della molteplicità,


dalla voce Henri Bergson nella Stanford Encyclopedia of Philosophy

Il Saggio sui dati immediati della coscienza può essere visto come una critica della filosofia di
Kant.
Secondo Kant la libertà appartiene ad un dominio estraneo allo spazio ed al tempo (il dominio
noumenico), ma Bergson ritiene che Kant abbia confuso e mescolato assieme spazio e tempo, con il
risultato di concepire l’azione umana come determinata dalla causalità naturale1.
Bergson vuol dare una risposta a tale confusione.

1
Nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) Bergson svolge la sua prima (ma anche definitiva)
elaborazione del concetto di durata.
Lo scopo generale del saggio era, però, una difesa dell’idea della libertà umana (quella che viene di solito,
ma talvolta impropriamente chiamata “libero arbitrio”, la nostra capacità di autodeterminarci e di agire in
modo “spontaneo” e responsabile).
I positivisti, che applicavano all’uomo e ai fatti che lo riguardano i concetti ed il metodo di indagine proprio
delle scienze naturali, ritenevano in genere che il concetto di libero arbitrio fosse illusorio. Il comportamento
umano, secondo loro, era solo un aspetto dell’intera realtà naturale e perciò doveva essere spiegato tramite
leggi causali. Erano, in altre parole, sostenitori del determinismo: tutto ciò che accade si può spiegare tramite
delle cause precedenti secondo leggi costanti.
Anche Kant aveva sostenuto, com’è noto, la tesi della libertà del volere umano, che aveva posto come
fondamentale postulato della Ragione Pratica (il famoso “devi dunque puoi”). Ma Kant riteneva che tutti i
fenomeni conoscibili siano caratterizzati dalla legge di causa effetto, e quindi dal determinismo. Secondo lui
tutto ciò che conosciamo scientificamente è natura, e quindi ha un ordine causale rigoroso ed indefettibile
(anche se solo “fenomenico”; noi non conosciamo il “noumeno”).
In accordo con ciò la sua giustificazione del libero arbitrio era basata sul porre la libertà del volere sul piano
noumenico, ossia fuori dal mondo dei fenomeni.
Bergson non considera soddisfacente questa soluzione kantiana. Egli trova che la libertà non vada collocata
fuori dal campo dei fenomeni spaziotemporali, ma che si possa comprendere se si capisce qual è la natura
autentica della vita interiore della coscienza, della quale la libertà è una manifestazione.
Questo si può anche dire così: per Bergson non si deve mettere la libertà fuori dallo spazio e dal tempo, ma
solo fuori dallo spazio, perché il tempo è creazione e libertà.
Secondo Bergson, infatti, il rapporto causa-effetto è un legame che il nostro intelletto analitico pone tra
fenomeni separati “spazialmente”.
Ma – proprio per quel motivo – se riusciamo a mostrare che per la vita interiore (che è tempo e durata) non
vale il principio di separazione dei suoi momenti, ma si realizza la continuità, allora non ci sono elementi
separati da porre in rapporto di causa-effetto, e di conseguenza la nozione di determinismo non ha motivo di
essere applicata alla vita interiore dell’essere umano. La libertà va allora interpretata come atto di creatività
nel divenire.
Riassumendo: sia Kant che Bergson ritengono che la visione deterministica della vita umana sia sbagliata,
entrambi difendono nelle loro filosofie il concetto di libertà.
 Ma Kant ritiene che il determinismo sia valido nell’indagine della natura e di tutto il mondo fenomenico;
perciò giunge alla conclusione che la libertà sia un dato noumenico, che possiamo riconoscere a partire
dalla nostra esperienza morale (imperativo categorico), ma non posiamo intuire e rappresentare nel,
mondo dei fenomeni. Essa si realizza come causa noumenica di quegli atti che compiamo con la sola
motivazione del dovere morale.
Si ripropone:
1. di sciogliere la “mescolanza” mostrando la diversa natura di tempo e spazio, e più precisamente
mostrando che il tempo tende ad essere misconosciuto e indebitamente interpretato come una
sorta di “spazio”, secondo Bergson occorre ripristinare la consapevolezza della differenza e
della peculiarità del tempo;
2. il dimostrare che la nostra coscienza, nei suoi dati immediati (ossia nel suo autentico modo di
manifestarsi a sé stessa) è temporale, che è essenzialmente “durata”.
Nella durata non c’è giustapposizione di eventi, perciò non c’è causalità. È nella durata che
possiamo collocare la nostra esperienza della libertà.

Per Bergson dobbiamo comprendere la durata come una molteplicità qualitativa, in


contrapposizione alla molteplicità quantitativa. Nel Saggio ci sono alcuni esempi di molteplicità
quantitativa. Il più facile da afferrare e probabilmente quello del gregge di pecore.
Quando guardiamo un gregge di pecore, la prima cosa che notiamo è come si assomigliano l’una
all’altra. in questo senso una molteplicità quantitativa è sempre omogenea. Ma ci accorgiamo anche
che, nonostante la loro omogeneità, possiamo numerare le pecore. Possiamo numerarle perché
ciascuna di esse è spazialmente separata dalle altre, ossia giustapposta alle altre; in altre parole:
ciascuna occupa una posizione spaziale distinguibile.
Perciò possiamo dire che le molteplicità quantitative sono omogenee e spaziali. Inoltre, poiché una
molteplicità quantitativa è omogenea, possiamo rappresentarla tramite un simbolo, per es. la cifra
“25”.

In contrasto, le molteplicità qualitative sono eterogenee e temporali; questa è un’idea difficile,


perché spontaneamente ci verrebbe da pensare che se c’è eterogeneità c’è giustapposizione. Ma
nella durata l’eterogeneità non implica la giustapposizione (o la implica solo retrospettivamente).
Anche qui Bergson ci dà molti esempi; il più facile da comprendere (ma anche il più significativo) è
quello del sentimento morale della pietà.

“Esso consiste in primo luogo nel porsi attraverso il pensiero, al posto degli altri, nel soffrire
la loro sofferenza. Ma se non fosse nient’altro che questo, […] allora ci spingerebbe a
rifuggire gli sventurati piuttosto che ad aiutarli, poiché la sofferenza ci fa naturalmente
orrore.

 Bergson ritiene, invece, che Kant sbagli nel ritenere che la causalità sia lo schema fondamentale di
conoscenza dei fenomeni. Essa è una modalità di funzionamento dell’intelletto analitico, e perciò non si
applica alla vita interiore, che – non essendo divisibile in momenti separati (essendo durata e continuità)
– non è soggetta al determinismo. Non si possono, infatti, in essa distinguere eventi causa ed eventi
effetto, poiché non ci sono eventi separati che poi si debbano ricongiungere tramite una relazione
esteriore come quella di causa effetto. Perciò la libertà non va collocata “al di là dei fenomeni” come
faceva Kant (che continua a pensare in termini di “cause-effetti”) ma va vista nel dispiegasi della
temporalità vissuta.
È possibile che questo sentimento d’orrore si trovi all’origine della pietà; ma subito si
aggiunge un nuovo elemento, un bisogno di aiutare i nostri simili e di alleviare le loro
sofferenze”.

Può anche essere vero, osserva Bergson, che questo si verifichi quando noi comprendiamo che se se
non aiutiamo lo sventurato che ci causa tale sentimento, la conseguenza del nostro comportamento
sia che nessun ci aiuterà quando ne avremo bisogno. Ci sarebbe quindi, alla base della pietà, una
sorta di sottile modificazione psicologica di un sentimento egoistico.

“Può darsi che in qualche modo la paura rientri effettivamente anche nella compassione che
i mali degli altri ci ispirano; ma si tratta sempre di forme inferiori della pietà.
La vera pietà consiste nel desiderare, più che nel temere la sofferenza. Desiderio leggero,
che si spera appena di vedere realizzato e che tuttavia si forma nostro malgrado, come se la
natura commettesse una grande ingiustizia e fosse necessario allontanare ogni sospetto di
una nostra complicità con essa. L’essenza della pietà consiste dunque in un bisogno di
umiliarsi, in una aspirazione a scendere più in basso.
D’altronde questa aspirazione dolorosa ha un suo fascino, in quanto accresce la stima che
abbiamo di noi stessi, e ci fa sentire superiori a quei beni sensibili che il nostro pensiero
abbandona momentaneamente.
La crescente intensità della pietà consiste dunque in un progresso qualitativo, in un
passaggio dal disgusto alla paura, dalla paura alla simpatia, e dalla stessa simpatia alla
pietà”.

La frase finale del brano riportato va letta con attenzione: Bergson parla di un “progresso
qualitativo”. Lo scopo della breve analisi è infatti quello di dimostrare che quello che ci appare
come il differenziarsi di un sentimento in gradi di intensità è, invece, un mutamento qualitativo2.
Ciò che rende questa descrizione bergsoniana così tipica (la sua particolare genialità) consiste nel
fatto che c’è una eterogeneità di sentimenti successivi, ma non si potrebbe pensarli come
giustapposti o dire che uno di essi nega l’altro. Nella durata non ci sono negazioni. I sentimenti
sono continui uno rispetto agli altri, si compenetrano l’uno con l’altro, anche se tra il primo e
l’ultimo c’è un’opposizione (quella tra i bisogni di tipo inferiore e quelli superiori).
Questo è, infatti, un esempio di molteplicità qualitativa:
 è eterogeneo (ogni momento è singolare e differenziato),
 continuo (ogni momento si compenetra con il precedente),
 implica un’opposizione ai due estremi (iniziale e finale),
 è progressivo (ossia temporale: c’è un fluire irreversibile, che non è dato tutto in una volta;
quest’ultima caratteristica viene chiamata da Bergson anche “mobilità”).

2
Le pagine di apertura del Saggio sui dati immediati della coscienza sono dedicate all’analisi critica
dell’idea corrente, che all’epoca faceva da guida ai tentativi di misurazione da parte degli psicologi
sperimentali, secondo la quale ai fatti della vita interiore si possa applicare una quantificazione basata
sull’intensità.
Poiché una molteplicità qualitativa è eterogenea ma allo stesso tempo compenetrata, non può venire
rappresentata adeguatamente da un simbolo; infatti, secondo Bergson, la molteplicità qualitativa è
inesprimibile.
Per Bergson, e questa è forse la sua più importante intuizione, la libertà è mobilità.

Nella sua Introduzione alla metafisica (§2 Durata e coscienza), Bergson ci dà tre immagini3 per
aiutarci a pensare alla durata, e in tal modo alle molteplicità qualitative.
La prima è quella dei due gomitoli col filo che scorre in essi, nell’uno si svolge e nell’altro si
riavvolge. La durata si assomiglia a quest’immagine, secondo Bergson, perché, mano a mano che
invecchiamo, il nostro futuro si fa più piccolo e il nostro passato più grande. Il vantaggio di
quest’immagine è nel fatto che presenta una continuità di esperienze senza giustapposizione.
Ovviamente l’immagine ha anche i suoi difetti, perché presenta la durata come se sia omogenea, e
come se si possa avvolgere – come il filo – sopra le proprie parti ossia come se diverse parti di essa
siano sovrapponibili e perciò capaci dei essere identiche. Ma Bergson dice che “non esistono due
momenti identici in un essere cosciente”. La durata, per Bergson, è continuità del progresso
nell’eterogeneità. Ma oltre alle cose già dette, l'immagine in questione ci suggerisce che la durata
implica la conservazione del passato.
Per Bergson la memoria conserva il passato e questa conservazione non implica che nel ricordare si
faccia esperienza di una medesimezza (della stessa cosa tramite un riconoscimento), ma di una
differenza.

La seconda immagine della molteplicità quantitativa è quella dello spettro dei colori.
Parlando dell’immagine precedente abbiamo detto che c’è costante di differenza ed eterogeneità.
L’immagine dello spettro ci aiuta a capire meglio questo aspetto, perché la molteplicità ci si
manifesta come sfumatura e gradazione. In questa immagine è dunque evidente la l’eterogeneità,
ma anche questa ha un difetto, perché nonostante il loro carattere sfumato i colori dello spettro sono
giustapposti e così perdiamo il carattere della “compenetrazione” che spetta alla durata. La pura
durata, infatti, secondo Bergson “esclude ogni idea di giustapposizione, esteriorità reciproca ed
estensione”. Quella dello “spettro” è pur sempre anch’essa un’immagine spaziale della temporalità.

La terza immagine è quella dell’elastico che viene allungato. Bergson ci dice anzitutto di
immaginare l’elastico contratto fino ad un punto matematico, che rappresenta l’adesso, il momento
attuale della nostra esperienza.
Poi si inizi a tenderlo, per farne una linea sempre più lunga; Bergson ci avverte di no portare la
nostra attenzione sulla linea, ma sull’azione che la disegna. Se concentriamo l’attenzione
sull’azione di tracciare la linea, riusciamo a vedere che il movimento non è solo continuo e
differenziato, ma è anche indivisibile.

3
Questa parte del paragrafo è da usare per capire meglio la pagina bergsoniana a cui fa riferimento. Se il
testo di Bergson risulta già di per se stesso più chiaro, si può fare a meno di questa parafrasi.
Possiamo sempre inserire delle interruzioni nella linea spaziale che rappresenta il movimento, ma il
movimento stesso è indivisibile. Per Bergson c’è sempre una priorità del movimento rispetto alle
cose che si muovono. La cosa è sempre un’astrazione rispetto al movimento.
L’elastico allungato è, quindi, un’immagine della durata più esatta delle precedenti, ma è anch’essa
incompleta, perché nessuna immagine può rappresentare la durata. Un’immagine è immobile,
mentre la durata è pura mobilità. Più tardi, nell’Evoluzione Creatrice, Bergson criticherà la nuova
arte cinematografica, per il fatto che presenta immagini mobili del movimento4.

4
Secondo Gilles Deleuze, Bergson non riuscì a comprendere la novità del cinema, del quale avrebbe potuto
apprezzare la capacità di mettere in movimento le immagini (n. d. A.).
In ogni modo l’animazione cinematografica è un’immagine quasi perfetta di quello che Bergson considerava
il modo di operare dell’intelletto analitico: scompone la durata in frammenti statici (in sezioni istantanee,
basate sulla simultaneità, come dei fotogrammi) e poi cerca, senza potervi riuscire, perché è un compito
impossibile, di riprodurre il senso del movimento tramite la successione degli istanti isolati. Per es. si
considerino un’altra volta i diagrammi cartesiani, nei quali il valore del tempo appare come una delle
coordinate, oppure le immagini – che si trovano frequentemente nei manuali di fisica – nelle quali le
successive posizioni di un oggetto in movimento sono raffigurate attraverso degli scatti dell’apparecchio
fotografico realizzati a piccoli intervalli successivi di tempo. Secondo Bergson l’illusione di poter catturare il
movimento si manifesta nel ricorrere ad intervalli di tempo sempre più piccoli; ma tali intervalli, pur
venendo moltiplicati a piacimento, non perdono la loro natura di sezioni immobili del movimento.
Piuttosto che al cinema Bergson, forse sorprendendoci un po’, dedica la propria ammirazione alla
matematica, ed in particolare all’idea dell’analisi infinitesimale: “La matematica moderna – scrive in
Introduzione alla metafisica §7, VII – è precisamente uno sforzo per sostituire al tutto fatto ciò che si fa, per
seguire la generazione delle grandezze, per cogliere il movimento non più dall’esterno e dal dispiegarsi dei
suoi risultati, ma dall’interno e nella sua tendenza a mutare, insomma per cogliere la continuità mobile del
disegnarsi delle cose”. È vero che la matematica riprodurrà sempre un’immagine astratta del movimento e lo
farà attraverso un procedimento simbolico, ma alla base della sua idea dell’infinitamente piccolo (o meglio,
dell’intervallo “piccolo a piacere”) c’è uno sforzo – fruttuoso e felice – di cogliere il fluire continuo del
divenire.

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