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1.

LE RIVOLUZIONI DEL 1848


UNA RIVOLUZIONE EUROPEA

Il 1848 è stato un anno difficile, per tutta l’Europa, infatti da allora il termine ’48 è usato per indicare uno
“sconvolgimento improvviso e radicale”. Numerose furono le rivolte che investirono tutto il paese, caratterizzate sia
da una grande espansione sia da una notevole rapidità: solo la Russia e la Gran Bretagna restarono fuori da tutto ciò,
la prima perché era molto arretrata mentre la seconda perché era molto sviluppata. Un moto così ampio si è
sviluppato perché c’erano dei fattori comuni:

- Situazione economica: nel biennio 1846-47 l’Europa era in piana crisi. Il primo a essere colpito fu il settore
agricolo, poi quello industriale e poi quello commerciale, provocando ovunque carestie, miseria
disoccupazione.
- Tradizione rivoluzionaria: l’azione consapevole svolta dai democratici, che riguardava soprattutto gli
intellettuali, i quali affondavano i loro ideali nella rivoluzione francese. I moti del ’48 possono essere collegati
a quelli precedenti del ’20-’21 e del ’30, dato che con essi avevano in comune il contenuto: richiesta di
libertà politiche e di democrazia, l’emancipazione nazionale. Simile fu anche la dinamica dei moti, i quali si
svilupparono con lo stesso schema delle giornate rivoluzionarie. Esse prevedevano iniziali dimostrazioni
popolari e poi veri e propri scontri armati.
- Partecipazione popolare: l’intervento delle masse popolari ha fatto si che nascessero nuovi obiettivi sociali
oltre che politici. Artigiani e operai di tutte le città europee ebbero un ruolo importante nelle rivolte.

Poche settimane prima dei moti si era diffuso il testo di Marx ed Engels, “Manifesto dei comunisti”, il quale era
destinato a diventare il testo-base della rivoluzione proletaria. Per questo motivo il ’48 è stato scelto sia come anno
della nascita del movimento operaio, sia come anno di passaggio tra la stoia moderna e quella contemporanea.

LA RIVOLUZIONE DI FEBBRAIO IN FRANCIA

Centro del moto rivoluzionario: Francia. La “monarchia liberale” di Luigi Filippo di Oleans era uno dei regimi meno
oppressivi, tuttavia era pieno di contraddizioni, motivo per cui si creò un fronte di opposizione. L’obiettivo principale
dei democratici era ottenere il suffragio universale, ovvero concedere il diritto a tutti i cittadini maschi, senza
distinzione di reddito o classe sociale. Questo era visto come mezzo necessario per far sì che la volontà del popolo
fosse attuata, oltre che come mezzo migliore per realizzare gli ideali di giustizia. I democratici erano però in netta
minoranza in Parlamento, motivo per cui usarono la cosiddetta “campagna dei banchetti”, essa consisteva in riunioni
private nelle quali si faceva propaganda per la riforma elettorale, il tutto tramite l’aggiro dei divieti governativi. Fu
proprio il divieto di uno di questi banchetti che diede in via alla crisi rivoluzionaria a Parigi. Lavoratori e studenti
organizzarono una grande manifestazione, alla quale il governo rispose con l’intervento della Guardia nazionale, un
corpo volontario di cittadini armati. Essa rappresentava la borghesia cittadina ed era spesso usata per reprimere
agitazioni e sommosse operaie. Questa volta però, dovendo difendere una fazione più impopolare, finì col fare causa
comune con i dimostranti. Gli insorti divennero in breve padroni della città: Luigi Filippo abbandonò la città. Si
costituì un governo che era a favore della repubblica, ma non solo, esso annunciava la prossima convocazione
dell’Assemblea costituente che sarebbe stata eletta a suffragio universale. Nell’Assemblea furono aggiunti per la
prima volta due rappresentanti dei lavoratori, oltre che socialisti e capi dell’opposizione democratico-repubblicana.
Ci si avviava così verso la Seconda Repubblica:

- fu abrogata ogni limitazione alla libertà di riunione


- sorsero nuovi giornali e si moltiplicarono i club e le associazioni di ogni colore
- fu abolita la pena di morte per i reati politici
- fu rifiutata la proposta di sostituire al tricolore la bandiera rossa, simbolo della rivoluzione sociale
- si rinunciò a propagandare la rivoluzione in tutta Europa.
Il tutto era quindi molto moderato, e questo non piaceva alle correnti più estremiste repubblicane, le quali
puntavano non solo a un coinvolgimento europeo ma anche a decisioni economiche, politiche e sociali più drastiche.
Già alla fine di febbraio il governo provvisorio aveva stabilito:

- 11 ore: durata massima della giornata lavorativa


- Principio del diritto del lavoro: estremamente importante. Si costruirono anche officine nazionali, i cui operai
svolgevano lavori di pubblica utilità.

L’intervento dello stato era ormai inevitabile anche se fortemente discusso. Il 23 aprile del 1848, in seguito
all’Assemblea Costituente, ci fu una prima sconfitta dell’estrema sinistra. Il suffragio universale permise anche al
popolo rurale di votare, e questo si dimostrò molto più conservatore di quanto ci si aspettasse. I veri vincitori furono
i repubblicani moderati, che daranno quindi origine al nuovo governo. Molti furono però gli oppositori, i quali però
furono tenuti a bada dal governo, tramite la chiusura delle officine e tramite l’arruolamento obbligatorio per i
giovani disoccupati. Il 23 giugno oltre 50.000 persone scesero in piazza per protesta, tuttavia migliaia di insorti
andarono incontro alla morte. Le giornate di giugno segnarono una svolta per la breve Seconda Repubblica: tutta
l’Europa iniziò a preoccuparsi per il generale malcontento, oltre che per la diffusione del comunismo, motivo per cui
tornò a prendere piede un forte istinto conservatore. A novembre l’Assemblea costituente affermò a grande
maggioranza un costituzione democratica inspirata al modello statunitense. Essa prevedeva un presidente, eletto
direttamente dal popolo, che restava in carica per 4 anni, e un’unica assemblea legislativa eletta anch’essa a
suffragio universale. Al momento delle elezioni però, i repubblicani si presentarono divisi al loro interno, per questo
motivo la maggioranza votò per Luigi Napoleone: si chiudeva così la fase democratica della Seconda Repubblica.

LA RIVOLUZIONE NELL’EUROPA CENTRALE

Come già accennato, in seguito al comune malcontento, gli animi rivoluzionari si diffusero in tutta Europa. Qui però
lo scontro era tra borghesia liberale e strutture politiche dell’assolutismo. Vienna: 13 marzo. Primo episodio di
rivolta. Un’insurrezione di lavoratori e studenti fu duramente repressa dall’esercito. In seguito furono colpite anche
Venezia, Milano, Berlino, Budapest, Praga. In queste ultime due città finalmente terminarono i vincoli feudali e si
affermo anche qui un vero Parlamento eletto a suffragio universale. Nel caso degli austriaci però, il governo
asburgico doveva mantenere il dominio, per questo il Parlamento doveva avere poteri molto limitati. In Germania si
stabilì la nascita di un’Assemblea con sede a Francoforte. Tuttavia essa non aveva a forza necessaria per eseguire i
suoi compiti. Nacquero ulteriori contrasti tra: i grandi e i piccoli tedeschi. I primi puntavano a un’unione di tutti gli
stati tedeschi contro l’Austria imperiale, mentre i secondi a uno stato più compatto il cui modello di riferimento
doveva essere la Prussia. Prevalse la tesi dei piccoli tedeschi, i quali cercano subito l’appoggio della Prussia ma
questa rifiutò, dato che il governo era gestito da rivoluzionari. Questo rifiuto segnò la fine della Costituente di
Francoforte.

LA RIVOLUZIONE IN ITALIA E LA PRIMA GUERRA DI INDIPENDENZA

Anche l’Italia non restò estranea a questa situazione, infatti primo e fondamentale obiettivo comune a tutte le
correnti politiche era la concessione di costituzioni (o statuti) fondate sul sistema rappresentati. Il primo da cui si
ottenere una costituzione fu il Regno delle Due Sicilie. La concessione di Ferdinando II però, non fece altro che creare
maggiori agitazioni. Piano piano in molti concessero delle costituzioni che erano ispirate al modello francese del
1830. Il più importante fu lo Statuto promesso da Carlo Alberto, che sarebbe diventato la legge fondamentale del
Regno d’Italia. Esso prevedeva una camera dei deputati, un senato di nomina regia e una stretta dipendenza del
governo dal sovrano. Tuttavia, in seguito alla insurrezione austriaca, insorsero presto anche Venezia e Milano. Nella
prima si instaurò una Repubblica mentre nella seconda si svolsero le famose 5 giornate. Borghesi e popolani
combatterono fianco a fianco contro il governo austriaco: obiettivo comune era l’unificazione d’Italia. Le operazioni
militari furono dirette da Carlo Cattaneo. In breve anche il Piemonte si convinse a combattere al fianco dei milanesi
per scacciare gli austriaci anche se oi si finì per temere un eccessivo potere lombardo. La situazione era dunque
molto critica, anche perché il sogno di liberare l’Italia persisteva. A breve questa si trasformò in una guerra di
indipendenza nazionale e federale, dato che arrivarono in soccorso del Piemonte truppe da diverse località italiane.
Ma tra le maggiori preoccupazioni di Carlo Alberto c’era senza dubbio quella di annettere il regno lombardo-veneto a
quello del Piemonte: vedendo l’ambizione del sovrano molti altri sovrani ritirarono le loro truppe, compreso il papa
Pio IX. Rimasero e si unirono a questa guerra numerosi volontari, tra cui Garibaldi. Dopo modesti successi iniziali, le
truppe di Carlo Alberto furono sconfitte definitivamente a Custoza, nei pressi di Verona, ed egli dovette accettare
l’armistizio con le truppe asburgiche.

LOTTE DEMOCRATICHE E RESTAURAZIONE CONSERVATRICE

Dopo la sconfitta del Piemonte restarono a combattere solo i democratici ungheresi e italiani che fino ad allora erano
stati tenuti alla larga dal conflitto.

- Sicilia: aveva un proprio governo democratico


- Venezia: resta in mano agli insorti come Repubblica
- Toscana: si era creato un ministero democratico
- Roma: il papa fuggì e presero potere i democratici. Si tennero poi l elezioni per una nuova Costituente della
quale avrebbero fatto parte Mazzini e Garibaldi.

Roma divenne una repubblica, il cui potere non spettava più ai papi in quanto divenne una democrazia. Quando la
guerra riprese in Piemonte, Carlo Alberto fu sconfitto nuovamente nei pressi di Novara, e decise quindi di abdicare
per lasciare il posto al figlio, Vittorio Emanuele II., il quale firmò un armistizio con gli austriaci. Gli austriaci potevano
ora procedere alla restaurazione dell’ordine in tutta la penisola. Gli austriaci hanno ripreso possesso di Brescia, di
Venezia, delle Legazioni pontificie (Bologna, Ferrara, la Romagna e le Marche settentrionali). Ferdinando di Borbone
si è ripreso invece la Sicilia. Per quanto riguarda la Repubblica romana, essa si può considerare più duratura: cercò di
portare avanti l’opera di laicizzazione dello stato e quella di rinnovamento politico e sociale. Furono quindi aboliti i
tribunali ecclesiastici e fu decretata la confisca dei beni del clero. Fu varato un progetto di riforma agricola (Primo e
unico caso italiano): esso prevedeva la concessione di parte dei fondi confiscati in affitto perpetuo alle famiglie più
povere. Pio IX, che era in esilio a Gaeta, chiese aiuto alle potenza cattoliche affinché potesse riappropriarsi dei suoi
territori. In molti risposero al suo appello ma Bonaparte si riservò il ruolo principale nella restaurazione pontificia,
inviando nel Lazio un corpo di 35.000 uomini. Sul piano militare era però impossibile sconfiggere i francesi. Garibaldi
cercò di rifugiarsi a Venezia. La stessa Ungheria cercò di ribellarsi agli austriaci e, seppure inizialmente sembrò
riuscirci, quando intervennero i russi fu la fine per i magiari. Cause della sconfitta democratica:

- Profonde fratture che si intensificano sempre più: democratico-radicali VS liberal-moderati


- I democratici lasciati però soli erano destinati a soccombere
- I liberal-moderati si riavvicinarono all’antico regime

LA FRANCIA DALLA SECONDA REPUBBLICA AL SECONDO IMPERO

In Francia, dopo l’elezione di Bonaparte, durante la prima Assemblea legislativa si arrivò a una maggioranza clerico-
conservatrice nella Camera. Una delle prime decisioni fu quella di organizzare un intervento immediato contro la
Repubblica romana, anche se di lì a breve sorsero manifestazioni da parte dei democratici che erano contrari. Essa
non andò a buon fine ma numerosi furono gli attacchi successivi. Una nuova legge elettorale privò del voto oltre 3
milioni di cittadini nullatenenti. Delicati erano i rapporti tra la Camera e Napoleone. In seguito a un colpo di stato di
Bonaparte, si liberò sia della maggioranza moderata sia dell’opposizione democratica. Si capì ben presto che la
Repubblica era tale solo per il nome, infatti fu abolita nel 1852, e venne ripristinato l’Impero. Luigi Napoleone
assumeva il nome di Napoleone III, con il diritto di trasmettere il titolo imperiale ai suoi eredi.

2. SOCIETA’ BORGHESE E MOVIMENTO OPERAIO


BORGHESIA EUROPEA

Le rivoluzioni del ’48-’49 avevano avuto un esito del tutto fallimentare: i regimi assolutistici avevano ripreso il loro
posto, tornando così in un clima di conservatorismo puro. Tuttavia una rivoluzione, seppure piccola, c’è stata: essa
ha coinvolto il modo di pensare dei borghesi e, anche seppure in maniera ridotta, anche i proletari. Nel ventennio
successivo al 1848 la borghesia ha conosciuto un periodo di grossa crescita, è riuscita ad avviare una graduale
trasformazione, sia nel campo dello sviluppo economico, sia nel progresso scientifico e nell’innovazione tecnica, ma
è anche riuscita a favorire la libera iniziativa e la concorrenza. Con il termine borghesia ci si riferiva a una gamma
molto ampia: dagli artigiani ai contadini – piccoli proprietari, ai grandi magnati dell’industria. Tra questi due poli
venivano inclusi i ceti “emergenti” (imprenditori, banchieri e grossi commercianti), i ceti “tradizionali” (avvocati,
medici), i gradi medio-alti della burocrazia statale, ma anche impiegati, insegnati, piccoli commercianti ovvero tutti
coloro che venivano considerati ceto medio/piccola borghesia. Nonostante la borghesia fosse in principio poco
sviluppata, si possono identificare degli elementi comuni a tutti i borghesi europei, che possono essere sintetizzati
nello stile di vita borghese: esso è incentrato sulle manifestazione esteriori (abbigliamento e arredamento, che si
distingueva da quello aristocratico perché puntava anche alla funzionalità). I valori fondamentali dell’etica e della
cultura borghese restavano invariati: austerità, moderazione, propensione al risparmio, repulsione degli istinti. La
componente moralistica e puritana si rifletteva soprattutto sulla famiglia, dove il capofamiglia aveva ogni autorità e il
ruolo della donna era quello di subordinazione (la donna non lavorava ma si occupava di casa e figli).
Apparentemente è una contraddizione, perché se la borghesia si basa su principi di moderazione e liberazione ha poi
questo atteggiamento oppressivo e di sottomissione nei confronti della donna? Probabilmente proprio perché,
credendo in una società aperta, dove non ci sono garanzie a priori, almeno in famiglia doveva avere una “sicurezza”.
La povertà era vista come peccato o come colpa ereditaria, così come la delinquenza, l’alcolismo e la prostituzione.

OTTIMISMO BORGHESE E CULTURA POSITIVA

Il borghese credeva fermamente nel progresso dell’umanità. Quest’ottimismo poggiava su due pilastri: lo sviluppo
economico e il progresso scientifico (chimica, fisica e biologia subirono dei miglioramenti). Sugli sviluppi della scienza
si fondò la nuova corrente del positivismo, che divenne in breve anche il metodo generale di ricerca e
interpretazione della realtà. Il positivismo era innanzitutto un principio filosofico secondo il quale la conoscenza
scientifica, basata su dati reali, positivi, consisteva in una sola valida verità che applicava i metodi delle scienze
naturali allo studio di tutti i campi dell’attività umana (arte, psicologia, politica, economia). Il rappresentante più
significativo di questa corrente è Charles Darwin, il quale formulò una teoria dell’evoluzione, secondo la quale la
natura è soggetta a un incessante processo evolutivo, guidato da un meccanismo di selezione naturale che
determina la sopravvivenza e la riproduzione degli individui più attrezzati/forti, e la scomparsa di quelli più deboli.
Questa teoria, tuttavia, contraddiceva le credenze religiose sulla creazione dell’uomo legata all’opera di Dio. In
questo modo l’uomo veniva distaccato dalla sfera della sacralità religiosa e legato a quella naturale. A livello
ideologico-politico il positivismo dava risultati differenti, fortemente conservatori (come per Comte) o apertamente
progressisti (come per Stuart Mill). Il darwinismo può essere letto sia in chiave positiva, in quanto legato al progresso
della specie umana, sia in chiave negativa, in quanto l’essere più forte prevale sul più debole (lo stesso può avvenire
tra classi e stati).

SVILUPPO ECONOMICO

A partire dalla fine degli anni ’40: aumento dei prezzi, dei salari e dei profitti. Tutti i settori dell’economia furono
coinvolti nei progressi, compreso quello agricolo. Miglioramenti furono fatti anche nel settore dei trasporti (ferrovie)
e soprattutto nell’industria, che subì un vero e proprio boom. Germania e Francia si eguagliarono alla Gran Bretagna.
I settori di maggiore sviluppo sono quello siderurgico e quello meccanico, che si misero allo stesso piano di quello
tessile, sia a livello quantitativo che a livello qualitativo. Tra le maggiori innovazioni ci furono quelle della macchina a
vapore, dei filatoi e dei telai meccanici. Si moltiplicarono anche le società per azioni, favorendo quindi un clima di
maggiore euforia. Si ebbero solo due crisi, di breve durata, che non intaccarono il processo di sviluppo. 5 sono i
motivi che resero possibile il boom degli anni ’50-’60:

1- Molte leggi ristrettive per le attività economiche furono abrogate.


2- Furono abrogate leggi giuridiche che non permettevano la libera circolazione.
3- Scoperta di nuovi giacimenti minerari.
4- Scoperta di nuovi giacimenti auriferi.
5- Sviluppo dei trasporti.

RIVOLUZIONE DEI TRASPORTI E DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE

Incremento dei trasporti: grande sviluppo delle ferrovie, che coinvolse in poco tempo non solo l’Europa ma anche
l’America. Cambia la concezione di viaggiare, si viaggia per motivi differenti. Progressi furono fatti anche nel campo
navale, con il miglioramento delle navi a vela, e nel campo della comunicazione, con l’invenzione del telegrafo
elettrico, che permise anche un cambiamento del settore giornalistico.

LA CITTA’ MODERNA

Europa dell’800: grande sviluppo dei centri urbani, si crea così un fenomeno chiamato urbanesimo, per il quale la
popolazione tendeva a spostarsi dalle campagne alle città. Inizialmente fu la Gran Bretagna (Londra) a svilupparsi
maggiormente, seguita da Francia (Parigi) e Germania (Berlino). Le cause per cui si arrivò a questo furono molteplici:
primo tra tutti lo sviluppo industriale, che portò nuove occasioni di lavoro, così come lo sviluppo dei traporti. A causa
del flusso migratorio, le città ebbero presto problemi di sovrappopolamento, con conseguente sviluppo di gravi
malattie infettive che portò ad un aumento della mortalità. Si procedette quindi ad una inevitabile trasformazione
dei nuclei urbani, dove luoghi come stazioni ferroviarie, tribunali o centri commerciali divennero punti essenziali. A
causa del sovrappopolamento si svilupparono in breve anche le grandi periferie dove si ritiravano a vivere i cittadini
meno abbienti, incrementando così la differenza tra classi borghesi e classi operaie. L’intervento dei poteri pubblici,
come lo stato, migliorò la situazione risolvendo parte dei problemi igienici, dell’approvvigionamento di acqua, di
illuminazione. Tuttavia quest’intervento non era ancora abbastanza, lo squilibrio c’era ed era molto sentito.

IL MONDO DELLE CAMPAGNE

Il mondo delle campagne, nonostante i numerosi progressi raggiunti, non subirono grossi sviluppi. I redditi erano
bassi, l’alimentazione povera, l’analfabetismo diffuso, tutto era incentrato su vecchie consuetudini e l’unico reale
miglioramento fu quello realizzato grazie al sistema dei trasporti che permise a molti contadini di emigrare.

IL PROLETARIATO URBANO E IL MOVIMENTO OPERIO DOPO IL ‘48

Gli operai di fabbrica erano in netta minoranza, ma il loro vantaggio rispetto ai contadini era il maggior salario, anche
se entrambi erano vittime della precarietà. Cominciò così a maturare una vera e propria coscienza di classe e si
svilupparono anche le prime forme di associazioni operaie (prima del ’48) che coinvolgevano i lavoratori più evoluti e
meglio pagati. In Gran Bretagna, il movimento operaio si riunì nelle Trade Unions, delle vere e proprie organizzazioni
sindacali di mestiere. Peggiore era la situazione in Francia, divisa tra comunismo e federalismo, così come in
Germania, scossa dal movimento socialista di origine marxista.

MARX E IL CAPITALE

Marx dedicò gran parte del suo tempo allo studio dell’economia politica, infatti l’analisi economica divenne sempre
più importante per il suo socialismo scientifico, che sarà alla base del nuovo soggetto rivoluzionario: il proletariato
industriale. Fondamentale è la teoria del valore-lavoro: teoria per cui il valore di scambio di una merce è dato dalla
quantità di lavoro mediamente impiegato per produrla. La sua caratteristica è quella di produrre un valore superiore
ai propri costi di produzione e di rendere quindi più di quanto non costi. Per Marx il capitalismo doveva essere solo
una fase, la concentrazione del capitale in poche mani si accompagna alla formazione di una massa proletaria
sempre più numerosa e sempre più misera. Sono dunque le stesse leggi della produzione capitalistica a determinare
la crisi finale del sistema. Il socialismo venne identificato dagli operai come loro “dottrina”, in quanto metteva in
risalto le contraddizioni della società capitalistica e mostrava il proletario come necessario per il processo
rivoluzionario. Questo non fece altro che creare nuovi scontri. (VEDI LIBRO PER APPROFONDIRE)

L’INTERNAZIONALE DEI LAVORI: MARXISTI E ANARCHICI

La varietà delle ideologie e delle forme organizzative danno vita a un’esigenza di collegare il movimento
internazionale a livello internazionale. Nel 1864, due anni dopo l’Esposizione universale di Londra, si tenne la
riunione inaugurale della nuova organizzazione (sempre a Londra), che prese il nome di Associazione internazionale
dei lavoratori. Essa divenne un punto di riferimento per i lavoratori di tutta Europa, anche se la sua capacità di
rappresentare realmente le organizzazioni operaie fu di fatto scarsa. Si crearono scontri tra socialisti e proudhoniani:
quest’ultimi furono sconfitti e al loro posto subentrarono gli anarchici di Bakunin, sostenitori del comunismo (VEDI
LIBRO PER APPROFONDIRE). Marx optò quindi per trasferire lontano dall’Europa gli organi centrali, cosa che decretò
la morta della Prima Nazionale (come fu in seguito chiamata l’associazione). La scelta di Marx si sarebbe rivelata
corretta solo a lungo termine. Il bakuninismo si adattava meglio del marxismo in quei paesi in cui i ceti sociali non
avevano ancora conosciuto la rivoluzione industriale: questa fu la sua forza ma al tempo stesso la sua causa di
declino.

IL MONDO CATTOLICO DI FRONTE ALLA SOCIETA’ BORGHESE

Socialisti e anarchici non furono i soli a protestare contro le regole borghesi, si mosse anche il mondo cattolico, che
finora era stato accusato di basarsi su superstizioni e credenze popolari. Capofila di questa crociata ideologica fu
papa Pio IX, il quale si preoccupò principalmente di riaffermare una rigida ortodossia e incoraggiare le tradizionali
pratiche di devozione. La classe borghese da parte sua, tollerava i movimenti cristiano-sociali (ma non quelli
cattolico-liberali), che si svilupparono in Francia, Belgio, Austria e Germania. I primi esperimenti si ebbero quindi con
l’associazionismo cattolico, fondato sulle unioni di mestiere, sulle cooperative, sulle casse rurali e artigiane.

3. L’UNITA’ D’ITALIA
LA SECONDA RESTAURAZIONE

Il fallimento delle rivoluzioni del 1848-’49 ha portato a una seconda restaurazione, le cui conseguenze furono gravi:
mancata evoluzione delle strutture politiche, mancato sviluppo economico, ristrettezza dei mercati e scarsezza delle
vie di comunicazione. Il Lombardo-Veneto, fino ad allora considerata la regione più avanzata economicamente, fu
sottoposto a un regime di occupazione militare. Aumentava maggiormente il divario tra monarchia e popolazioni
italiane, così come aumentava quello tra le corti e l’opinione pubblica borghese. Lo Stato pontificio fu riorganizzato
secondo il vecchio modello teocratico-assolutistico, i democratici e i liberali furono perseguitati e il potere restò nelle
mani di una stretta oligarchia, composta dai prelati con al vertice il segretario di Stato cardinale Antonelli. Anche nel
Regno delle due Sicilie il ritorno all’assolutismo fu drastico, in campo economico, la politica dei Borbone mirava a un
gretto conservatorismo. I dazi doganali erano alti così da svantaggiare le esportazioni agricole, inoltre venivano
sacrificati i settori dell’istruzione e delle opere pubbliche. Arretratezza economica e sociale + durezza della
repressione = modello negativo del Regno delle due Sicilie. Questo pesante isolamento fu uno dei motivi principali
per cui lo Stato borbonico crollò nel 1860.

L’ESPERIENZA LIBERALE IN PIEMONTE E L’OPERA DI CAVOUR

Diversa fu la sorte che toccò al Piemonte sabaudo, al quale fu concesso lo Statuto albertino. Il regno di Vittorio
Emanuele II iniziò con un acceso scontro tra la Corona e la Camera elettiva, composta per lo più da democratici. La
Camera infatti rifiutò la pace di Milano che stipulava un accordo con l’Austria; stando a questo accordo il Piemonte
pagava un’indennità di guerra senza però dover cedere dei territori. La Corona e il governo, presieduto dal moderato
Massimo D’Azeglio, decisero di sciogliere la Camera e di istituirne una nuova costituita da moderati, i quali
approvarono la pace di Milano. La crisi istituzionale fu evitata e l’esperimento liberale poté proseguire. D’Azeglio
portò così avanti un’opera di ammodernamento dello Stato, la cui tappa fondamentale fu la legge, presentata nel
febbraio 1850, del ministro della Giustizia Siccardi, che prevedeva di riordinare i rapporti tra Chiesa e Stato, ponendo
fine ai privilegi di cui godeva ancora il clero nel Regno sabaudo. Questa legge vide chiaramente l’opposizione del
clero, ma al tempo stesso vide emergere una figura molto forte quanto valida, di stampo liberal-democratico:
Camillo Benso di Cavour, un aristocratico uomo di affari e al tempo stesso un battagliero direttore del giornale “Il
Risorgimento”. Tra le sue caratteristiche c’erano il cosmopolitismo culturale e l’intraprendenza borghese. Secondo
lui bisogna allargare le leggi dello Statuto albertino a tutto il Paese, in modo da creare un sistema monarchico-
costituzionale. Questo era l’unica soluzione per la rivoluzione e il disordine sociale. Il liberalismo di Cavour era quindi
più moderno e pragmatico, e poneva grande fiducia nelle virtù della libertà economica. Nell’ottobre del 1850 entrò a
far parte del Gabinetto D’Azeglio, come titolare del ministero dell’Agricoltura e Commercio. Due anni dopo, quando
D’Azeglio dovette dimettersi per problemi con il re, fu Cavour a sostituirlo e a formare il nuovo governo. Prima di
assumere questa carica, Cavour era stato artefice del “connubio”, una piccola rivoluzione parlamentare che,
promuovendo un accordo tra l’ala più progressista della maggioranza moderata (centro-destro) e la componente più
moderata dell’ala sinistra democratica (centro-sinistro). Questo gli consentì una piccola rivoluzione in ambito politico
ed economico. Con lui si attuò a pieno lo Statuto che prevedeva una collaborazione (fiducia) tra il sovrano e la
maggioranza in Parlamento. Uno dei suoi tratti caratteristici fu la linea liberoscambista, la quale gli permise di
stringere rapporti con la Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna. Abolì il dazio sul grano e le barriere doganali,
avvantaggiando soprattutto la produzione di riso (la produzione arrivò alla pari di quella lombarda). Progressi nelle
opere pubbliche, costruzione di strada e canali, sviluppo delle ferrovie (che ebbe vantaggi sull’industria siderurgica e
meccanica: nuove aziende per la lavorazione del ferro), sono solo alcune tra le grandi opere di Cavour. Non
mancavano certo ritardi e squilibri, anche a causa del peso delle imposte indirette.

IL FALLIMENTO DELL’ALTERNATIVA REPUBBLICANA

Le sconfitte del ’48-’49 non fermarono Mazzini e i mazziniani. Numerose furono però le perdite a livello umano,
molti colpi aggiuntivi furono poi inflitti dagli austriaci. I milanesi cercano di ribellarsi ma questo provocò solo un
ulteriore strage da parte degli austriaci. Mazzini era convinto che il suo fallimento fosse dovuto alle carenze
organizzative, per questo fondò il Partito d’azione nel 1853, a Ginevra, una nuova formazione politica. Molte furono
le critiche mosse a Mazzini tra cui quella di avere adoperato una strategia troppo intransigente. Nonostante le
divergenze ideologiche tra Pisacane e Mazzini, questo non gli impedì di collaborare per progettare un’insurrezione
nell’Italia Meridionale. Nel giugno del 1857, Pisacane guidò le truppe verso la Campania, dopo aver liberato dei
prigionieri dei Borboni, cercò di attaccarli a Sapri, ma a causa dello scarso coinvolgimento dei contadini locali,
l’insurrezione fu fermata e Pisacane si ritirò e si uccise per non cadere prigioniero. Manin, capo del governo
repubblicano di Venezia, propose di unire le forse per creare la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. Tra
tutti quelli che aderirono alla proposta di Manin, ci fu Garibaldi, che dopo essere tornato dall’America istituì una
struttura organizzativa chiamata Società nazionale.

LA DIPLOMAZIA DI CAVOUR E LA SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA

L’obiettivo primario di Cavour non era quello di unificare l’Italia, ma quello di allargare i confini settentrionali del
Piemonte a scapito degli austriaci. Prima di tutto Cavour cercò di avvicinare il suo Piemonte agli stati europei, in
modo tale da renderlo una vera potenza. Per questo nel 1855 accettò l’invito di Francia e Inghilterra di associarsi alla
guerra contro la Russia: inviò in Crimea 18.000 uomini comandati dal generale La Marmora. Rientrando negli stati
vincitori il Piemonte poté partecipare alla conferenza di Parigi. Cavour aveva bisogno sia dell’agitazione patriottica
(Società nazionale), sia del sostegno della Francia di Napoleone III. Nel gennaio 1858, grazie all’intervento isolato di
un mazziniano si affrettarono le alleanze con la Francia: Felice Orsini lanciò tra bombe contro la carrozza
dell’imperatore (attacco alla Repubblica romana), ma l’obiettivo fallì. Cavour ebbe così la strada spianata verso
un’alleanza franco-piemontese, sancita con un accordo segreto a Plombieres (1858). Secondo gli accordi, la penisola
italiana doveva essere divisa così:
- Alta Italia: comprendente il Piemonte, il Lombardo-Veneto e l’Emilia-Romagna, sotto la casa sabauda.
- Italia Centrale: formato dalla Toscana e dalle province pontificie.
- Italia Meridionale: composto dal Regno delle due Sicilie liberato dai Borbone

Al Papa sarebbe spettato il territorio di Roma e province. Cavour cercava in tutti i modi di provocare i vicini austriaci
in modo che questi lo attaccassero: 23 aprile 1859, ultimatum dell’Austria, Cavour rifiuta. Montebello: primo scontro
con gli austriaci. Battaglia di Magenta: sconfitta definitiva degli austriaci. Vista la situazione favorevole, Napoleone
propose un armistizio agli austriaci (11 luglio a Villafranca): con l’accordo l’Impero asburgico rinunciava alla
Lombardia. La notizia dell’armistizio non ferì solo i cittadini italiani ma anche Cavour che si dimise e lasciò il posto a
La Marmora. Napoleone si era ritirato per due motivi principali: la scarsa approvazione popolare in quanto le vittime
continuavano ad aumentare, i costi finanziari aumentavano e inoltre temeva un intervento della Confederazione
germanica a fianco dell’Austria. Molte furono le insurrezioni come a Firenze e a Bologna (ma furono controllate).
Pace di Zurigo, stipulata con l’Austria, Napoleone decise di accettare il fatto compiuto. Cavour tornò a capo del
governo nel gennaio 1860, cedette Nizza e Savoia alla Francia. Nel marzo dello stesso anno alcune regioni tra cui la
Toscana furono chiamate a scegliere se essere indipendenti o se passare sotto il dominio del Piemonte.

GARIBALDI E LA SPEDIZIONE DEI MILLE

Lo Stato sabaudo, cedendo i suoi territori d’oltralpe e allargando i suoi confini verso la Lombardia e l’Italia centrale, si
avviava a diventare uno Stato nazionale e non più dinastico. Nel frattempo ci si preparava ad attaccare nuovamente
l’Italia meridionale, ma non più in Campania, bensì in Sicilia. I due mazziniani siciliani coinvolti, esuli in Piemonte,
sono Francesco Crispi e Rosolino Pilo, i quali, a differenza di Pisacane, organizzarono un attacco/coinvolgimento dei
cittadini siciliani prima del loro sbarco. Ai primi di aprile del 1860, un’insurrezione popolare scoppiava a Palermo.
Mentre Pilo, dopo aver suscitato un moto, fu represso insieme agli altri, Crispi cercò l’aiuto di Garibaldi, unico leader
capace di unificare attorno a sé le diverse componenti dello schieramento patriottico e unitario (dai democratici ai
liberali). La spedizione con Garibaldi fu organizzata in fretta, con pochi mezzi finanziari: scarso equipaggiamento e
pessimo armamento. Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, con poco più di mille volontari provenienti da regioni
diverse, principalmente dal nord, e di varia estrazione sociale, in larga parte veterani delle campagne del ’48-’59,
partirono da Quarto (vicino a Genova), dopo essersi impadroniti di due navi, il Piemonte il Lombardo. Pochi giorni
dopo sbarcarono a Marsala e furono accolti dall’intera popolazione. Dopo una prima battaglia, a Calatafimi, vinta dai
mille anche se erano in minoranza, avvenne la liberazione di Palermo con precedente insurrezione della città.
Garibaldi proclamò così la fine della monarchia borbonica. Si formò così un governo provvisorio con Crispi, che
tentava di attuare la prima riforma sociale. Dal nord arrivarono altri 15.000 volontari guidati da Bertani e, il 20 luglio,
a Milazzo, fecero scappare definitivamente le truppe borboniche. Poco dopo però si ribellarono numerosi contadini
siciliani che volevano liberarsi dalla struttura arcaica, semifeudale. Lo scontro con i patrioti giunti dal nord furono
molto accesi e a Bronte, su ordine di Nino Bixio (braccio destro di Garibaldi), furono uccisi alcuni ribelli. Vista la
situazione i proprietari terrieri guardavano sempre di più a una possibile annessione al Piemonte.

L’INTERVENTO PIEMONTESE E I PLEBISCITI

Per tutta l’estate del 1860, l’iniziativa restò in mano di Garibaldi, poi finalmente riuscì a sbarcare in Calabria dove
risalì la penisola fino a Napoli. Temendo però che la città diventasse il quartier generale dei democratici e quindi la
base per una spedizione nello Stato pontificio, il governo piemontese decise di intervenire: le truppe regie
sconfissero l’esercito pontificio, mentre Garibaldi batteva gli ultimi Borboni nella battaglia di Volturno. Il Parlamento
piemontese approvò, quasi all’unanimità, che qualunque regione poteva annettersi al Piemonte (senza condizioni)
facendo un semplice plebiscito. Il 21 ottobre si tennero i plebisciti in tutte le province meridionali e in Sicilia (a
suffragio universale maschile) e la maggior parte optò per entrare a far parte dello Stato sabaudo. Garibaldi, dopo
l’arrivo dei piemontesi, si ritirò in esilio a Caprera e il 17 marzo 1861, il primo Parlamento nazionale, proclamava
Vittorio Emanuele II re d’Italia (per volere di Dio e della nazione).
LE RAGIONI DELL’UNITA’

L’Unità d’Italia iniziò a coinvolgere tutti i ceti, che seguivano la scia dello stato più avanzato e liberale (il Piemonte).
Essa è stata possibile grazie a una combinazione attiva dall’alto (politica di Cavour e monarchia sabauda) e dal basso
(insurrezioni in Italia e spedizione di Garibaldi).non va però dimenticato che gli interventi internazionali hanno avuto
il loro ruolo, infatti, la Gran Bretagna è rimasta neutrale, così come l’Impero asburgico, mentre la Francia aveva dato
il suo contributo in passato.

4. L’EUROPA DELLE GRANDI POTENZE (1850-1890)


LA LOTTA PER L’EGEMONIA CONTINENTALE

Nei decenni successivi al congresso di Vienna (1814-1815) si affermarono le cosiddette 5 grandi potenze, ossia quegli
stati che erano economicamente saldi, abbastanza vasti e molto forti a livello militare. Essi erano: Gran Bretagna,
Francia, Germania, Prussia e Russia. Nel ventennio 1850-’70 ci furono però dei dissidi tra queste superpotenze,
infatti la Francia di Napoleone III, temendo che la Prussia potesse espandersi troppo e acquisire sempre maggiore
potenza, decise di dichiararle guerra, sperando così di evitare un’unione tedesca. Fu però la Germania ad avere la
meglio, e si instaurò così un giro di alleanze mirato a isolare la Francia. Anche per quanto riguarda le politiche interne
ci furono dei cambiamenti (tranne che per la Russia zarista): la Gran Bretagna potenziò le sue istituzioni liberali, la
Francia dopo la sconfitta divenne una repubblica ed entrambe (Francia e Gran Bretagna), come la Germania, diedero
maggiore peso agli organi elettivi, allargando l’area di voto.

LA FRANCIA DEL SECONDO IMPERO E LA GUERRA IN CRIMEA

In Francia, quando si instaurò il Secondo Impero, si vide subito che, anche se aveva qualche tratto in comune con il
precedente, era principalmente differente. Napoleone III creò un sistema politico nuovo, incentrato sul
bonapartismo, ovvero un omaggio formale al principio della sovranità popolare (tramite plebisciti), che legittimava in
realtà un potere fondato sulla forza delle armi. Altra caratteristica del suo dominio era il centralismo autoritario,
unito però a un riformismo sociale e al conservatorismo borghese. Per mantenere il suo autoritarismo, Napoleone III
univa la pratica del paternalismo al consenso popolare, ottenuto tramite elezioni regolari della Camera a suffragio
universale. Non mancavano certo le campagne politiche, con le quali voleva riscuotere sempre più successo,
soprattutto tramite l’emergente borghesia, che diveniva sempre più importante. Si ebbe un grosso sviluppo delle
banche, costruzione di ferrovie e anche di grandi opere pubbliche. Napoleone III si avvicinò molto anche ai tecnici,
come gli scienziati, gli ingegneri, gli esperti di economia e finanza, che erano per loro una vera e propria risorsa
ancora da scoprire. Sebbene avesse principi pacifisti, questi erano in netto contrasto con la sua politica: basti vedere
come lui è salito al potere (per il suo nome e tramite le armi). Questo suo lato bellicoso emerge fin dal 1853-1854
quando ci fu uno scontro, tra la Francia (supportata dalla Gran Bretagna e in seguito dallo stesso Piemonte, l’Austria
decise invece di restare neutrale) e la Russia, per la famosa “questione d’oriente”. Quest’ultima voleva impossessarsi
dell’Impero ottomano che diveniva sempre più debole. Napoleone III vide subito l’occasione di potersi estendere,
quindi non esitò ad attaccare la Russia, sbarcando a Crimea e assediando la piazzaforte di Sebastopoli (1854). Gli
scontri veri e propri non furono molti, ma ciò non impedì alla Francia di vincere (1855). L’obiettivo di Napoleone III
non venne però raggiunto, infatti si mantennero i principati autonomi di Serbia, Moldavia e Valacchia, sempre sotto il
dominio dell’Impero ottomano. Ciò non toglie che la Francia ha accresciuto molto il suo potere, motivo per cui si
sentiva sicura l’indomani della guerra con il Piemonte contro gli Asburgo. Dopo questa guerra, seppure la Francia
ottenne un altro successo, ne uscì indebolita, motivo per cui il tentativo di uno stato liberale fallì nel giro di poco
tempo, interrotto anche dall’attacco contro la Prussia (1870).

IL DECLINO DELL’IMPERO ASBURGICO E L’ASCESA DELLA PRUSSIA

Negli anni ’50 lo stato degli Asburgo tentò di riorganizzarsi sulla base del vecchio sistema assolutistico. Tra i suoi
punti di forza c’erano il centralismo amministrativo, che fu rafforzato, e un centralismo burocratico, che contribuiva
però ad esasperare il problema della monarchia asburgica, ovvero la presenza di numerose nazionalità che
cercavano di coabitare. Altre due mosse astute furono senza dubbio l’abolizione della servitù della gleba e l’alleanza
con la Chiesa cattolica (1855) che permisero così di avere l’appoggio sia dei contadini che della Santa Sede. Così
facendo però si trascurava la borghesia produttiva (alla quale venivano imposte tasse sempre più alte): così facendo
l’Austria non ebbe né uno sviluppo economico né vittorie militari. Lo stesso valeva per la Prussia, la quale aveva
un’agricoltura prevalentemente agricola, basata sulla grande proprietà terriera. Nonostante fossero stati aboliti gli
ordinamenti feudali, il potere dell’aristocrazia latifondista (Junker) era intatto. Gli Junker erano un gruppo ristretto,
compatto, conservatore, ed avevano un ruolo importante nella vita dello Stato, infatti si occupavano sia degli ufficiali
di carriera sia dei più alti gradi dell’amministrazione statale. Lo stesso sistema elettorale era nelle loro mani, in
quanto erano la maggioranza. Tuttavia il Parlamento non aveva un reale potere sul Governo, infatti quest’ultimo
rispondeva direttamente al sovrano. Proprio l’autoritarismo politico e il conservatorismo sociale si rivelarono le due
carte vincenti per la ripresa prussiana. La Germania aveva una modernità che era sconosciuta agli altri stati europei:
in ambito ferroviario, nell’ambito dell’istruzione elementare e persino a livello di tradizione nazionale. A tutto ciò
seguì anche un’adeguata forza militare. Proprio su quest’ultimo punto si focalizzò il re Guglielmo I, il quale voleva
avviare una riforma per rafforzare il loro esercito. Il Parlamento però, fortemente contrario, negò la riforma, cosa
che costrinse il re a nominare cancelliere (ovvero capo del governo) il conte Otto von Bismarck, appartenente all’ala
più reazionaria degli Junker. Appena salì al potere, Bismarck attuò la riforma dell’esercito e si impegnò fin da subito
per risolvere il problema dell’unità nazionale. Tramite l’uso della forza e una grande abilità diplomatica riuscì nel suo
intento. Il primo ostacolo di questa unificazione era costituito dall’Austria che, in quanto Stato Tedesco, faceva parte
della Confederazione Germanica (all’interno della quale aveva un ruolo primario). Nel 1864-65 ci fu una guerra tra
Prussia e Austria per alcuni ducati della Danimarca: Bismarck risolse tutto grazie all’alleanza con il Regno d’Italia e
grazie alla neutralità della Russia e della Francia. Nel 1866 scoppiò così la guerra, durata appena tre settimane, vinta
dalla Prussia grazie alla forza del suo esercito e al loro efficiente sistema ferroviario (prima guerra di movimento).
Con la Pace di Praga si cedette il Veneto all’Italia e si creò una nuova Confederazione germanica, della quale
facevano parte solo i paesi a nord del Meno, quelli a sud restarono indipendenti (Confederazione della Germania del
nord, diretta da Guglielmo I). L’Impero asburgico subì un ulteriore colpo nel 1867 quando venne diviso in due Stati,
quello austriaco e quello ungherese: avevano un unico sovrano ma parlamenti e governi differenti. Il trionfo di
Bismark diede così l’avvio a una nuova corrente nazional-liberale, tuttavia, a differenza degli altri stati, era il sovrano
ad avere il vero potere e non gli organi elettivi.

LA GUERRA FRANCO-PRUSSIANA E L’UNIFICAZIONE TEDESCA

Bismarck avviò l’ultima fase del suo programma: l’unificazione di tutti gli Stati dell’ormai ex Confederazione
germanica, ad esclusione dell’Austria, in un Reich tedesco sotto la corona degli Hohenzollern. L’ultimo ostacolo era
rappresentato dalla Francia. Napoleone III temeva che Bismarck potesse distruggere il trattato di Westfalia del 1648
che aveva distrutto l’unità politica della Germania. Nel 1868 arrivò l’occasione propizia, quando il trono di Spagna
restò vacante dopo un colpo di Stato militare. Il governo provvisorio spagnolo aveva offerto la corona a Leopoldo, un
parente del re di Prussia. Subito Napoleone III vide il pericolo di un accerchiamento e riuscì a far rifiutare il trono a
Leopoldo. Dopo un incontro tra i rappresentanti di Francia e Prussia, e in seguito a un voluto equivoco da parte di
Bismarck, la Francia, pienamente sostenuta e incitata dai cittadini, mosse guerra alla Prussia (19 luglio 1870). I
francesi non erano pronti militarmente, erano in minoranza e anche meno organizzati, per questo vennero sconfitti a
Sedan e, in pochi giorni, si creò un governo provvisorio nella capitale, ormai sotto assedio dei prussiani. Nel
frattempo gli stati tedeschi che avevano ancora dubbi ad unirsi alla Prussia si convinsero, visti i risultati in guerra. Il
28 gennaio del 1871 si ottenne finalmente l’armistizio e Guglielmo I fu incorato a Versailles imperatore tedesco del
nuovo Reich (impero). Il 10 maggio dello stesso anno Bismarck fece firmare il trattato di Francoforte, che era una
vera e propria umiliazione per la Francia in quanto, oltre ad essere stata sconfitta, doveva cedere Alsazia e Lorena
(economicamente vantaggiose) al Reich, fu costretta a una pesante indennità di guerra e finché non l’avrebbe
ripagata doveva tenere sul suole francese truppe del Reich.

LA COMUNE DI PARIGI
Nella primavera del 1871, prima dell’armistizio, la Francia dovette affrontare anche grossi dissidi interni, a livello
politico e sociale. Era nata infatti la Guardia nazionale, un “organo” che si pensava potesse ristabilire l’ordine dopo la
battaglia di Sedan. Se da una parte i cittadini della capitale erano pronti a combattere, i contadini e i cittadini dei
centri minori erano volenterosi di accettare l’accordo di pace. L’8 febbraio 1871 ci furono le elezioni della nuova
Assemblea nazionale, composta per la maggioranza da moderati e conservatori, e fu chiamato Thiers a presiedere il
governo. Appena preso il potere, il governo avviò le trattative per la pace, ma viste le durissime condizioni
dell’accordo, il popolo scontento decise di insorgere. La capitale era abbandonata a se stessa e quando il governo
ordinò la consegna delle armi, la Guardia nazionale si rifiutò e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune.
“Comune” dovrebbe rappresentare un organo di autogoverno cittadino ma ricorda anche la Comune giacobina,
infatti anche questa assunse ben presto tratti molto rivoluzionari. Il potere restò nelle mani dell’estrema sinistra e si
avviò un’esperienza molto radicale di democrazia diretta: fu abolita la differenza tra potere esecutivo e legislativo,
l’esercito fu sostituito da milizie popolari armate, tutti i funzionari erano elettivi e removibili al tempo stesso. Solo
alcuni aspetti erano considerati socialisti (molto pochi), tra cui quello che stabiliva l’uguaglianza di salario tra
impiegati e operai. Il movimento appena nato però, era isolato e limitato alla sola capitale, tutti gli altri piccoli centri
e le campagne erano escluse, un ulteriore motivo per cui quest’esperienza fallì nl giro di poco tempo. Tra il 21 e il 28
maggio dello stesso anno, ci fu la cosiddetta “settimana di sangue”, nella quale la comune fu repressa e il movimento
rivoluzionario francese subì un’altra sconfitta.

LA SVOLTA DEL 1870 E L’EQUILIBRIO BISMARCKIANO

Con Bismarck si affermava una nuova ideologia di pura politica di potenza, fondata sullo sviluppo di eserciti
permanenti e di armamenti di terra e mare. Si sviluppò anche una nuova politica economica che prevedeva il
protezionismo e non più i liberi scambi. Tutto questo, anche se in apparenza è negativo, ha contribuito invece a
rendere stabile il paese per molto tempo. Inoltre, un altro fattore che favorì la pace, fu lo spostamento dei conflitti,
che si concentro principalmente nell’area balcanica o addirittura fuori dall’Europa. L’Impero tedesco, il più forte in
ambito numerico, militare ed economico, dopo aver sconfitto la Francia cercò di mantenere l’equilibrio europeo. Il
cancelliere Bismarck voleva fare di tutto affinché la situazione di isolamento della Francia rimanesse tale, e il suo
scopo fu raggiunto: la Gran Bretagna si manteneva come sempre lontana dai conflitti, e l’Impero tedesco aveva
stretto delle alleanze con la Russia, l’Austria-Ungheria e anche con l’Italia. Nel 1873 fu stipulato il patto dei tre
imperatori tra Germania, Austria e Russia, fondato sulla solidarietà dinastica tra i tre interessati. L’alleanza aveva
però un grosso punto debole, ovvero l’interesse che avevano Russia e Austria sulla penisola balcanica. Nel 1877
scoppiò una guerra tra i turchi e i paesi balcanici, visto il grande interesse della Russia, quest’ultima decise di
intervenire per scacciare i turchi. Dopo la vittoria, la Russia impose il trattato di Santo Stefano, nel quale si creava lo
Stato bulgaro, si dichiarava l’indipendenza della Serbia e del Montenegro, e l’autonomia di Bosnia ed Erzegovina.
Questo accordo provocò subito grossi timori nell’Austria e nell’Inghilterra. Per placare lo scontento generale,
Bismarck convoca a Berlino un congresso tra le grandi potenza (1878) nel quale decide di affidare provvisoriamente
Bosnia ed Erzegovina all’Austria, e di cedere Cipro all’Inghilterra. Dopodiché decise di ristabilire la pace tra Russia e
Austria, ridividendo la zona dei Balcani tra le due potenze e stipulando, nel 1882, la Triplice Alleanza, un accordo tra
Germania, Austria-Ungheria e Italia. L’equilibro di questo accordo però era nuovamente messo in discussione, sia
dalla storica inimicizia tra Italia e Austria per il Trentino e il Friuli, sia per la solita area balcanica, per la quale sorsero
nuovi contrasti tra Austria e Russia. Questi dissidi fecero capire al cancelliere che era impossibile un accordo tra le
due, per questo decise di mantenere il suo accordo con l’Austria e di stipularne uno nuovo con la Russia (trattato di
contro-assicurazione) nel quale la Germania prometteva di non affiancare l’Austria in un’eventuale guerra contro la
Russia, e la Russia prometteva di non aiutare la Francia in una possibile guerra contro la Germania. Dopo questo
ultimo eccellente accordo, le doti di Bismarck subirono qualche calo, fino a doversi dimettere tre anni dopo.

LA GERMANIA IMPERIALE
Il Reich, dal punto di vista istituzionale, era un organismo molto complesso. I 25 Stati che lo componevano avevano
ciascuno un proprio governo e un proprio parlamento, i cui poteri erano però limitati in campo amministrativo. Le
grandi decisioni spettavano infatti al governo centrale, presieduto da un cancelliere che era responsabile solo di
fronte all’imperatore (e non al parlamento). Il potere legislativo era esercitato da una Camera eletta a suffragio
universale e da un Consiglio federale, composto dai rappresentanti dei singoli stati, che aveva il compito di ratificare
o meno le leggi della Camera. Quest’ultima aveva quindi un potere molto ridotto. Il potere del cancelliere era dovuto
a un’alleanza tra il mondo industriale e bancario, ma anche con l’aristocrazia terriera e militare. Fu proprio nel Reich
che sorsero i primi movimenti di massa e nuove fazioni politiche. Nel 1871 sorse il Centro, un partito di dichiarata
ispirazione cattolica, mentre nel 1875 sorse il Partito socialdemocratico tedesco, che causerà grossi problemi a
Bismarck. La socialdemocrazia trova il suo appoggio nell’adesione operaia, mentre il Centro nei contadini e nei ceti
medi urbani, per lo più di Stati cattolici. Bismarck inizia una lotta contro i cattolici, emanando anche leggi per rendere
laico lo stato e per poterli controllare meglio. Questo non fa altro che accrescere il numero dei cattolici, e quindi il
cancelliere si vede costretto ad attenuare la sua linea politica. Dopo aver fallito con i cattolici si ritrova a dover
combattere con la minaccia della socialdemocrazia. Emana leggi eccezionali per i socialdemocratici, che prevedono
per esempio la limitazione della libertà di stampa e di associazione. Ma al tempo stesso cerca di proteggere i
lavoratori, istituendo delle assicurazioni obbligatoria in caso di infortuni, malattie o vecchiaia: questo aspetto è molto
innovativo in quanto prima era una prerogativa di provati o della Chiesa. Tutto questo ha in realtà lo scopo di attrarre
a sé i socialisti, in modo da avere un ulteriore supporto. I socialdemocratici però non si lasciano abbindolare e, alla
fine degli anni ’80, creano un forte movimento sindacale. Questi due (caso dei cattolici e caso dei socialdemocratici)
sono esempi di come le doti del cancelliere stessero ormai scemando.

LA TERZA REPUBBLICA IN FRANCIA

Dopo essere stata duramente sconfitta, la Francia fa di tutto per riorganizzarsi. Nel 1872 instaura il servizio militare
obbligatorio, in modo da poter rafforzare il suo lato militare (che si è dimostrato molto scarso). Paga in anticipo
l’indennità di guerra e a fine anni ’70 ha quasi scacciato tutte le truppe del Reich. Grazie al forte patriottismo dei
cittadini e alla forte pressione fiscale è riuscita a sollevare la sua economia in poco tempo. Non si può dire lo stesso
dell’aspetto politico, che era decisamente più critico: l’Assemblea nazionale, che aveva il compito di scegliere la
forma di governo più adatta, puntava a restaurare la monarchia, ma grazie alle divergenze tra legittimisti (fautori del
ritorno dei Borbone) e orleanisti (sostenitori degli eredi di Luigi Filippo), optò per una costituzione repubblicana,
stilata nel 1875. La costituzione della Terza Repubblica prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato da una
Camera eletta a suffragio universale e da un Senato, costituito da membri vitalizi ed elettivi. C’era poi il presidente
della Repubblica, capo dell’esecutivo, che veniva eletto dalle camere riunite e al quale spettavano grossi poteri (in
teoria). Ad avere la meglio, nei primi anni della repubblica, furono i moderati, detti anche opportunisti, i quali
avevano un solido legame con l’elettorato “medio” dei commercianti, impiegati e piccoli agricoltori. Aspiravano al
progresso senza però dimenticarsi delle loro tendenze sociali conservatrici. Proprio in merito a questo punto
nascono le critiche dei repubblicani più avanzati, o radicali. Dopo aver riportato il parlamento a Parigi, fu approvata
un’amnistia per i comunardi incarcerati o deportati, che permise così al movimento operaio francese di ricostruire le
sue file. Il Senato fu reso completamente elettivo e furono vagliate tre leggi molto importanti:

- Libertà di associazione sindacale


- Ampliazione autonomie locali, stabilendo l’elettività dei sindaci
- Introduzione del divorzio

L’operato dei repubblicani puntava non solo a un governo laico, ma anche a un’istruzione laica, e per questo fu
introdotta l’istruzione laica elementare, obbligatoria e gratuita (ciò non toglie che i gruppi clericali e conservatori
erano comunque molto forti). Un grava male della Terza Repubblica fu però la corruzione, diffusa nelle alte sfere, e
che aveva contaminato ogni ambiente.

L’INGHILTERRA VITTORIANA
Nel periodo successivo al 1848, la Gran Bretagna visse un periodo di lunga stabilità politica e tranquillità sociale, oltre
che prosperità economica. Ebbe un periodo di intenso sviluppo l’industria, così come il sistema ferroviario e la flotta
mercantile. L’Inghilterra era il centro commerciale e finanziario cui facevano capo i traffici di tutti i continenti.
L’impero era già molto vasto, e nonostante questo decise di proseguire con la sua politica coloniale. Godeva inoltre
di uno dei sistemi politici più liberali: dal 1848-66 fu caratterizzato da un governo liberale, con un consolidamento del
sistema parlamentare, che era nato proprio in Inghilterra e che vedeva il Parlamento come “capo supremo”. Alla
corona spettava invece un ruolo per lo più simbolico, occupato dal 1837-1901 dalla regina Vittoria. Il sistema
parlamentare non era però sinonimo di democrazia, infatti alla Camera alta (Camera dei Lords) si accedeva per
nomina regia o ereditaria, mentre la Camera elettiva (Camera dei Comuni) era espressione solo del 15% della
popolazione, in quanto era la piccolo percentuale con diritto di voto. Ci fu una vera e propria lotta per l’allargamento
del suffragio universale: primo tra tutti a battersi per questa causa fu Gladstone, liberale, il cui progetto fu però
respinto di moderati, motivo per cui il governo cadde e il potere tornò in mano ai conservatori. Venne eletto Disraeli,
il quale continuò la riforma elettiva (Reform Act) aumentando il diritto di voto a un milione di lavoratori urbani (con il
reddito più elevato), la maggior parte dei quali era però liberale, motivo per cui tornò al governo Gladstone. Con lui
ci furono numerose riforme: nell’istruzione pubblica, dove fu ridimensionato il ruolo della Chiesa,
nell’amministrazione pubblica, dove furono reclutati nuovi soldati e vietate le compravendite di cariche, nell’ambito
politico fu vietato il voto palese, che aveva favorito molto l’aristocrazia terriera. La stagione delle riforme fu però
interrotta dal ritorno di Disraeli, il quale mutò l’orientamento della politica estera. Diede priorità all’espansione
coloniale, non dimenticandosi di ricercare il consenso delle masse popolari. Furono approvate leggi importanti per i
lavoratori e per le Trade Unions. Il suo lavoro terminò quando fu criticato per la sua “alleanza” con i Turchi in merito
alla questione orientale. Gli successe nuovamente Gladstone, il quale ritirò il suo coinvolgimento con i Turchi e
allargò ancora il suffragio universale. Il problema più grande che dovette affrontare fu quello dell’Irlanda, un paese
per lo più agricolo, che aveva subito grosse perdite a causa della crisi. Era un paese molto arretrato, dove non
mancavano azioni terroristiche dell’ala estremista e repubblicana. Gladstone, per risolvere la questione, cercò prima
di avviare una riforma agraria, poi, rendendosi conto che non era sufficiente, decise di proporre una Home Rule,
ovvero che l’Irlanda diventasse indipendente, ottenendo un’autonomia politica. Il Parlamento rifiutò e il governo
tornò in mano ai conservatori.

LA RUSSIA DI ALESSANDRO II

A differenza dell’Inghilterra, la Russia era il paese più arretrato, a livello economico, civile e militare. All’inizio degli
anni ’50 infatti, esisteva ancora la servitù della gleba (VEDI LIBRO). L’organizzazione del lavoro era fondata sui mir,
ossia comunità di villaggio dove assemblee composta da i capofamiglia assegnavano ai contadini i fondi da coltivare
e curavano le imposte dovute ai signori. Il potere era quindi in mano all’aristocrazia terriera. Oltre ad essere enorme,
l’impero zarista era anche privo di vere e proprie istituzioni. L’immobilismo delle strutture sociali e politiche faceva si
che i soli progressi erano quelli riscontrati nella vita intellettuale. Gli intellettuali discutevano di ogni genere di
argomento, ed erano divisi in due correnti contrapposte: gli occidentalisti, che vedevano nell’adozione di modelli
politici e culturali offerti dai paesi più avanzati il mezzo ideale per risollevare il paese, e gli slavofili, che erano contro
ogni coinvolgimento con gli altri paesi in favore delle tradizioni/religioni/antiche istituzioni russe. Il cambiamento
avvenne quando salì al trono Alessandro II, che varò una serie di leggi per modernizzare il paese, nella burocrazia,
nella scuola, nel sistema giuridico e nell’esercito. Creò anche un decentramento amministrativo, grazie alla creazione
di consigli distrettuali elettivi, ma la vera grossa riforma fu l’abolizione della servitù della gleba. Inizialmente
quest’atto riscosse molto successo ma, ben presto, i contadini si resero conto che non gli conveniva affatto, in
quanto le terre a loro disposizione erano di meno, e per averle dovevano pagare molto più denaro di quanto si
aspettassero. Per questo motivo il malcontento dilagò molto in fretta e portò numerose rivolte e insurrezioni, tra le
quali si ricorda quella dei polacchi, che fu (come le altre) repressa con l’uso della forza. Si passò quindi a una politica
forzata di russificazione del paese, cosa che fece aumentare i controlli polizieschi e vari tipi di censura. Aumentò il
contrasto tra stato e borghesia colta, e si diffuse anche il “populismo russo”, formato dagli intellettuali rivoluzionari
che volevano in qualche modo educare e al tempo stesso svegliare il popolo. Questo periodo di ribellioni terminò
con l’attentato ad Alessandro II, che morì per mano di un attentatore anarchico.
5. I NUOVI MONDI: STATI UNITI E GIAPPONE
SVILUPPO ECONOMICO E FRATTURE SOCIALI NEGLI STATI UNITI

Intorno alla metà del XIX secolo, gli Stati Uniti rappresentavano uno dei paesi più sviluppati: la popolazione era in
costante aumento, soprattutto grazie al flusso migratorio proveniente dall’Europa, e il paese era in crescente
espansione. La produzione agricola progrediva regolarmente, sia guadagnando sempre più territori, sia sviluppando
una produzione più moderna e capitalistica nel Midwest (stati del vicino Ovest). Nella costa est invece, al nord,
crescevano sempre più rapidamente numerose industrie. Profonde erano però le fratture interne, che spaccarono il
paese in tre diverse società, diverse a livello economico, di tradizioni e valori.

- Stati del Nord-Est: dove c’erano le prime colonie britanniche e quindi nucleo originario. Era la zona più ricca,
progredita, con i maggiori centri urbani (come NY e Boston). Qui si concentravano i commerci principali con
l’Europa e anche il flusso migratorio. I valori su cui si basava erano quelli del capitalismo imprenditoriale.
- Stati del Sud: società agricola, tradizionalista, fondava la sua economia sulle grandi piantagioni di cotone. La
maggior parte della manodopera era costituita da schiavi neri, mentre il ceto dei grandi proprietari contava
solo una ristretta minoranza, che aveva però in mano la vita politica, sociale, militare: era una sorta di
aristocrazia.
- Stati dell’Ovest: erano abitati da liberi agricoltori e allevatori di bestiame, la loro era una società in
evoluzione: creavano aziende stabili, lo scambio in natura e l’autoconsumo cedevano il posto a
un’agricoltura mercantile in grado di fornire derrate alimentari, soprattutto cereali per gli Stati a Nord-Est. I
loro valori e la loro etica, erano però strettamente legati alla frontiera, quindi basati su iniziativa individuale,
indipendenza e uguaglianza delle opportunità.

L’economia delle piantagioni rappresentava una vera fonte produttiva, funzionante e molto redditizia, che
permetteva anche i commerci con l’Europa. Inizialmente il prodotto più prodotto/venduto era il cotone, poi si
sviluppò molto anche quello meccanico e il primo perse un po’ di importanza. I rapporti tra Nord-Est e Ovest erano
molto fitti: quest’ultimo riusciva a vendere molto bene i suoi prodotti nella zona urbana industriale, mentre l’Est
forniva ai contadini macchine agricole più avanzate e quindi più utili. Un problema che si sentì molto fin dal principio
è quello della schiavitù: non era messa in discussione la sua presenza, bensì il fatto che potesse esportata o meno nei
nuovi terreni colonizzati. Se da una parte c’era il sud che voleva estendere nei nuovi territori le piantagioni (e quindi
la schiavitù), dall’altra c’era il nord che puntava invece a una produzione intensificata di cereali. Questo argomento
fu discusso anche in politica, dove da una parte c’erano i democratici, con gli ideali della democrazia rurale, del
liberismo economico e del rispetto dell’autonomia dei singoli Stati, che riscuoteva successo tra piccoli e medi
agricoltori, ma anche tra i grandi piantatori del Sud e gli immigrati al Nord-Est. C’era poi il partito whig che era
sostenuto invece dalla borghesia del nord che puntava invece alla tradizione del federalismo e quindi al
rafforzamento del potere centrale. Quest’ultimo era però diviso da due correnti: una conservatrice e una
progressista, mentre la prima scomparve, dalla seconda nacque nel 1854 una nuova formazione politica: il Partito
repubblicano, il quale si affermò come antischiavista e pronto a difendere le rivendicazioni degli industriali (dell’Est)
e i coloni dell’Ovest. I repubblicani acquisirono sempre più successo, finché nel 1860 non fu eletto il classico uomo
dell’Ovest, un avvocato dalle solide convinzioni democratiche di nome Abraham Lincoln.

LA GUERRA DI SECESSIONE E LE SUE CONSEGUENZE

Lincoln, come quasi tutti quelli del suo partito, non era un abolizionista, infatti non volle rimuovere la schiavitù dove
esisteva già, ma favorendo gli interessi industriali e rafforzando il potere centrale, si sarebbe giunti a un isolamento
degli stati schiavisti. Per questo motivo, tra il ’60 e il ’61, 11 stati del sud decisero di staccarsi dell’Unione e costituire
una loro Confederazione indipendente, con capitale Richmond (Virginia). Essendo gli stati del nord fortemente
contrari, la guerra fu inevitabile: ebbe inizio nell’aprile del ’61 quando le forze confederate attaccarono la piazzaforte
di Fort Sumter (Carolina del Sud), occupata dall’esercito unionista. Il Sud puntava di ricevere aiuti dalla Gran
Bretagna (grande acquirente del loro cotone), oltre che sulla loro migliore qualità delle forze armate, il Nord invece
puntava sia alla superiorità numerica, sia alle loro grandi risorse economiche, che gli permisero di sostenere una
guerra. Inizialmente i confederati guidati da Robert Lee erano in vantaggio, ma visto la durata della guerra, gli
unionisti ottennero presto la meglio grazie alle loro riserve. Nel ’63 gli unionisti sconfissero il generale Grant e due
anni dopo, quando gli unionisti occupavano ormai gran parte del sud, i confederati si arresero. Pochi giorni dopo
Lincoln fu ucciso da un attentato di un sudista. Questa fu considerata la prima guerra totale, in quanto combattuta
con nuove tecnologie (come ferrovia e telegrafo), grandi energie economiche e politiche. Il numero delle vittime fu
davvero molto alto, per entrambi gli schieramenti. Nel 1862, Lincoln approvò una legge per assegnare gratuitamente
ai cittadini che ne facessero richiesta, una parte di terra del demanio statale. L’anno dopo fu decretata l’ormai vicina
liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud. Poco tempo dopo però, la legge per la distribuzione delle terre fu
revocata, e gli schiavi liberati non erano in una situazione poi tanto diversa da quelli russi ai tempi di Alessandro II.
Nonostante la vittoria del Nord, le disuguaglianze e i pregiudizi raziali continuavano a persistere, soprattutto al Sud.
Pochi anni dopo, il Sud fu occupato dai militari e governata da uomini repubblicani dell’ala radicale. Il risultato, una
sorta di rigetto, si dimostrò palese con la formazione del Ku Klux Klan, un’organizzazione paramilitare e razzista, che
era il culmine di una serie di lotte clandestine. Solo alla fine degli ’70 questi dissidi vennero placati, riportando però i
bianchi in una situazione di supremazia e i neri a una segregazione di fatto. Nonostante tutti questi avvenimenti, gli
Stati Uniti uscirono comunque compatti, con un’economia ancora solida e con un’intatta capacità di egemonia nei
confronti degli Stati vicini.

NASCITA DI UNA GRANDE POTENZA

Negli ultimi decenni dell‘800, gli USA conobbero un rapido sviluppo territoriale e uno slancio alla colonizzazione dei
territori dell’Ovest, favorito dallo sviluppo della ferrovia. Intorno al 1890, la conquista del West era ormai terminata.
Principali vittime di questi nuovi insediamenti furono i pellerossa, che si videro costretti a vivere nelle riserve, spazi
che divennero via via più ridotti. Gli indiani cercarono in tutti i modi di resistere, e ottennero anche qualche successo
(Little Big Horn), ma nel 1890, dopo la battaglia di Wounded Knee, ogni resistenza cessò. Nonostante questo
mantennero un discreto mercato interno grazie alle loro risorse naturali. Nel 1882 le frontiere furono aperte a tutti,
vista la necessità di manodopera, e sempre in questo periodo ci fu un grosso sviluppo dei centri urbani, grazie agli
ideali di progresso e competizione che si stavano spargendo in tutto il Paese. Incerta restò invece la situazione
sociale, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con il sud, che oltre ad essere limitati erano per lo più passati nelle
mani degli inglesi che si stavano stanziando in Brasile. Gli unici scontri con l’estero si ebbero intorno ai primi anni del
’60, quando Napoleone III, vista la guerra civile che stava dilagando in Messico, cercò di approfittarsene, ma vista la
situazione gli altri Stati non tardarono a mandare soccorsi e, dopo aver cacciato Napoleone III offrirono il governo
provvisorio del Paese agli austriaci, fin quando il Messico tesso non si ribellò uccidendo Massimiliano d’Asburgo.

LA CINA, IL GIAPPONE ELA PENETRAZIONE OCCIDENTALE

Intorno alla metà del XIX secolo, sia la Cina che il Giappone si videro costretti a uscire dal loro perenne isolamento
per contrastare le forze europee che cercavano di conquistarli. Diverse furono le reazioni: in Cina si aggravò la crisi
interna che era già presente, mentre il Giappone radunò le sue forze e si modernizzò. La Cina era già allora lo stato
più popoloso. Il potere era nelle mani dell’imperatore (potere centrale) e rappresentato in tutto il paese da una
classe di potenti funzionari (mandarini), provenienti per lo più dalla nobiltà. L’agricoltura, dotata di un complesso e
avanzato sistema di irrigazione, era legata alla burocrazia imperiale. Fino ad allora era rimasta inaccessibile, ad
eccezione del porto di Canton, nella Cina meridionale. Questo isolamento mascherava infatti debolezze molto
grosse, dato che non erano stato in grado di modernizzarsi da quando, nel ‘500, erano uno tra i primi paesi per
avanzamento tecnologico. Il ceto burocratico non aveva la minima intenzione di cambiare, di evolversi, e per questo
dal primo scontro con l’Occidente la Cina ne uscì devastata. Il primo vero contrasto si ebbe alla fine degli anni ’30 con
la Gran Bretagna, in merito al commercio di oppio. La Cina era chiaramente contraria, e lo dimostrò sequestrando i
carichi di oppio, ma l’Inghilterra, contrariata, non esitò a dichiararle guerra. L’Inghilterra vinse e ottenne anche di
aprire altri 4 porti cinesi, oltre che Hong Kong (“prima guerra dell’oppio”). Negli anni 1850-60 la Cina dovette
affrontare la rivolta dei Taiping (contadini) e un nuovo scontro con l’Inghilterra, sostenuta dalla Francia (“seconda
guerra dell’oppio”), che permise di aprire le vie per i commerci con l’Occidente. Una vicenda analoga è quella che è
toccata al Giappone, che era anch’esso isolato nel suo sistema feudale. L’imperatore aveva per lo più un potere
religioso e simbolico, il governo era invece in mano a una dinastia di feudatari, che trasmettevano per via ereditaria
la carica di shogun, una carica militare suprema, che permetteva di legare a sé i grandi feudatari, a cui spettava di
controllare parte del terreno. Quest’ultimi avevano ciascuno un proprio esercito e una propria burocrazia (non erano
molti). Infine c’erano i samurai, la piccola nobiltà un tempo dedita alle armi, che privati della loro funzione sociale
erano molto irrequieti. Mercanti e artigiani erano deboli e politicamente emarginati, le poche industrie erano dedite
alle armi e alle navi da guerra, mentre l’attività più diffusa era l’agricoltura, soprattutto del riso visto il complesso
sistema di irrigazione. Anche in questo caso, uno solo era il porto aperto con i commerci internazionali. Il paese
viveva quindi in una situazione arcaica, motivo per cui, quando gli USA mirarono ad avviare commerci con il
Giappone, il paese si trovò impreparato e non poté che accettare (1858).

LA “RESTAURAZIONE MEIJI” E LA NASCITA DEL GIAPPONE MODERNO

Con la firma dei trattati ineguali del ’58, sia i samurai che i grandi feudatari si aizzarono contro lo shogun,
responsabile dell’accaduto. Essi si rafforzarono sempre di più, anche grazie ai loro eserciti, e finirono per distaccarsi
dal potere centrale. Nel ’68 le forze dei 6 maggiori feudi occuparono Kyoto, dichiararono decaduto lo shogun e
nominarono il loro “imperatore illuminato”, un ragazzo di appena 15 anni. Al potere c’erano quindi intellettuali,
militari e funzionari, che erano finalmente coscienti della loro situazione di arretratezza, sia a livello economico che
sociale. Si ebbe così la trasformazione da uno stato feudale a uno moderno, grazie alla dichiarazione di uguaglianza
giuridica dei cittadini, all’abolizione dei diritti feudali, trasformazione dei feudi in circoscrizioni amministrative. Fu
indotto l’obbligo dell’istruzione elementare obbligatoria, venne unificata la moneta, fu creato un sistema fiscale
moderno, fu organizzato un esercito nazionale con circoscrizione obbligatoria. Non mancò la modernizzazione
economica: sia nell’agricoltura che nell’industria, grazie alla rapida importazione di tecnologia straniera. Si ebbe un
miglioramento delle infrastrutture e unna crescita del prodotto nazionale. La rivoluzione, in questo caso, era
avvenuta dall’alto, dai nobili, dalle classi dirigenti, senza il contributo delle classi inferiori. Rinunciarono a dei proprio
diritti, senza però perdere la loro posizione, divennero quindi un’oligarchia industriale e finanziaria.

6. LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE


IL CAPITALISMO A UNA SVOLTA: CONCENTRAZIONI, PROTEZIONISMO, IMPERIALISMO

Negli ultimi trent’anni del secolo XIX sono avvenuti cambiamenti tali da poter parlare di “seconda rivoluzione
industriale”, infatti si modificano le tecniche produttive e nascono nuove banche dell’industria. Cambiarono sia i
settori della produzione sia il rapporto con l’economia in generale. La Gran Bretagna fu superata dalla Germania e
dagli Stati Uniti. La nuova fase dell’economia ebbe inizio con un’improvvisa crisi di sovrapproduzione, scoppiata nel
1873, che provocò una caduta dei prezzi per un lungo periodo, chiamato “grande depressione”. La caduta dei prezzi
fu un prodotto delle trasformazioni organizzative e delle innovazioni tecnologiche che permisero di ridurre
progressivamente i costi di produzione. Non ci fu un arresto dell’economia, solo un rallentamento, che giovò ai
lavoratori salariati (visto l’abbassamento dei prezzi), ma penalizzò le piccole industrie. Non c’era più una libera
concorrenza, i prezzi calavano sempre di più ed era necessario aumentare gli investimenti, per questo motivo
nacquero le grandi consociazioni (holdings) per il controllo finanziario di diverse imprese; i consorzi (cartelli) tra
aziende dello stesso settore che si accordavano sulla produzione e sui prezzi; le vere e proprie concentrazioni tra
imprese (trusts). Esse potevano essere orizzontali, se coinvolgevano aziende dl medesimo settore, o verticali, se
comprendevano più settori affinché si arrivasse alla produzione di un prodotto. Un ruolo decisivo fu svolto dalle
istituzioni finanziarie, infatti solo le grandi banche, o associazioni di banche, avevano a disposizione un costante
flusso finanziario necessario per dar vita a colossi industriali siderurgici o meccanici, i quali profitti (da soli) non
bastavano a creare un capitale di investimento. Tra banche e imprese vi è quindi uno stretto rapporto di
compenetrazione, infatti le banche controllavano i pacchetti azionari delle industrie, ma i magnati dell’industria
avevano spesso un posto nel consiglio di amministrazione delle banche. Questo stretto legame tra le due fu
chiamato capitalismo finanziario, e divenne in breve il centro motore dell’intero sistema economico. Il tramonto dei
principi liberisti si fece sentire anche nell’azione dei poteri pubblici. Condizionati dalla pressione crescente dei grandi
gruppi di interesse (industriali e agricoli), ma preoccupati di favorire la produzione interna a scapito di quella dei
paesi concorrenti, i governi allargarono man mano l’area dei loro interventi. Con l’aumento delle tariffe doganali, si
cercava di favorire la produzione interna a discapito delle importazioni. Per questo in breve molti paesi decisero di
adottare la stessa strategia protezionistica di Bismarck: Russia, Italia, Francia, Usa, ma non la Gran Bretagna, che
restava fedele al suo liberoscambismo. Questo la portò ad avere sempre meno commerci, motivo per cui decise di
concentrarsi sulle colonie e sulla conquista di nuove terre. In poco tempo tutti i paesi cercarono di trovare nuovi
mercati per i prodotti, nuovi rifornimenti di materie prime fuori dalle aree industrializzate, nuovi sbocchi per
l’investimento di capitali. Questa corsa ai nuovi mercati assunse, già dagli anni ’70, il nome di “età dell’imperialismo”.

LA CRISI AGRARIA E LE SUE CONSEGUENZE

Il settore dell’economia europea che sentì maggiormente la caduta dei prezzi fu quello agricolo. Negli ultimi decenni
dell’800, l’agricoltura realizzò importanti progressi tecnici: dall’uso di concimi, ai primi parziali esperimenti di
meccanizzazione, dall’estensione dell’opera di bonifica, a una nuova ingegneria idraulica per l’irrigazione,
dall’introduzione di nuove colture ai sistemi più perfezionati di rotazione. Questi progressi interessarono soprattutto
la Gran Bretagna, la Germania, il Belgio e i Paesi Bassi. Ad Oriente invece, il vecchio sistema feudale e la povertà dei
coltivatori indipendenti, fece si che restarono in una situazione più difficile e arretrata, dovuto anche alla situazione
sociale. Anche l’agricoltura europea era mossa da squilibri, ma negli anni ’70-’90 i prezzi calarono bruscamente,
provocando una situazione favorevole per i consumatori, ma un declino per molte aziende, piccole e grandi.
Conseguenze imminenti della crisi furono l’aumento delle tensioni sociali entro il mondo rurale e l’intensificazione
dei movimenti migratori verso le aree industriali dell’America del Nord. Gli emigranti, che inizialmente erano
soprattutto inglesi e irlandesi, divennero poi latini e slavi. Questo fenomeno permise ai lavoratori della terra una
maggiore forza contrattuale, avendo meno manodopera a disposizione. I dazi doganali non fecero altro che
peggiorare la situazione, aggravando la situazione del mondo agricolo.

SCIENZA E TECNOLOGIA

Tra il 1870 e il 1900 furono introdotti strumenti, macchine e oggetti di uso domestico molto importanti per la nostra
vita quotidiana. Per questo si è parlato di seconda rivoluzione industriale, una rivoluzione che sebbene fosse meno
radicale della prima, fece comunque sentire i suoi effetti, mutando in meglio le nostre abitudini. Alla base di questi
progressi realizzati dalle scienze fisiche e chimiche c’era lo sviluppo della cultura positiva, che esaltava la scienza e il
progresso. Tra le scoperte più importanti ricordiamo:

- Onde elettromagnetiche, Hertz, 1885


- Esperimenti di telegrafia senza fili, Marconi, ultimi anni del’800
- Esperimenti sui raggi X, Rontgen, 1895

Ma la vera novità consistette nell’applicare queste innovazioni al campo dell’industria, il rapporto tra scienza,
tecnologia e produzione divenne via via più stretto. Mentre nella prima rivoluzione erano coinvolti imprenditori e
dilettanti, ora vennero coinvolte tutte le energie del mondo scientifico: scienziati, ingegneri, chimici e fisici.

LE NUOVE INDUSTRIE

Nessun settore produttivo rimase fuori da questa trasformazione, ma quelle che la sentirono maggiormente erano le
neonate industrie della chimica e della produzione di acciaio, insieme a quella elettrica. L’acciaio è una particolare
lega di ferro e carbonio, utile per la sua elasticità e la sua robustezza. Grazie all’invenzione di nuove macchine fu
possibile produrre questa nuova risorsa a costi relativamente bassi. Fu utile nel settore ferroviario, delle navi, degli
utensili da cucina, ma anche per la costruzione di ponti. La chimica poteva essere applicate a diverse produzioni:
carta, vetro, medicinali, concimi, gomma, ma anche nella cosiddetta chimica applicata, come nel caso della
metallurgia. Si diffusero i “prodotti intermedi”, destinati ad essere usati come reagenti chimici in altre lavorazioni,
come nel caso dell’acido solforico. La chimica venne inoltre usata per:

- Coloranti artificiali, 1870, Germania e Inghilterra


- Dinamite, 1875, Alfred Nobel
- Fibre tessili artificiali
- Uso farmaceutico
- Uso alimentare (per conservare e refrigerare meglio i cibi, in modo da poter evitare carestie)

MOTORI A SCOPPIO ED ELETTRICITA’

La seconda rivoluzione industriale è stata caratterizzata dall’invenzione del motore a scoppio e dall’utilizzo sempre
maggiore dell’elettricità. Grazie al motore a scoppio, nei primi del ‘900 è stato possibile avviare la costruzione delle
prime automobili. Ruolo importante lo aveva anche il petrolio, usato per lubrificare, scaldare e illuminare, anche se
tuttavia era molto costoso. Il progresso in campo elettrico fu tra i più importanti, infatti permetteva di distribuire
l’energia prodotta da altri fonti primarie come il vapore. Ad essa sono legate le invenzioni della telegrafia via filo,
delle batterie, dei motori elettrici e della lampadina. All’inizio degli anni ’80 nacquero le prime centrali elettriche,
capaci di fornire energia ed illuminazione (che in seguito divenne anche pubblica). L’energia elettrica venne usata per
i mezzi di trasporto e per usi industriali. Vennero costruite centrali idroelettriche, soprattutto in paesi come l’Italia
del Nord, che erano ricchi del cosiddetto “carbone bianco”, ovvero dell’acqua (progetto inizialmente troppo
ambizioso). Altre invenzioni utili furono: il telefono (Meucci, 1871), il cinematografo (fratelli Lumiere, 1895) e il
grammofono (Edison, 1876).

LE NUOVE FRONTIERE DELLA MEDICINA

Negli ultimi decenni del XIX secolo anche la medicina subì una grossa evoluzione. Fino alla metà dell’800, la cura e
l’idea stessa della malattia erano legate a concetti quale la superstizione, la tradizione popolare e anche una forte
ignoranza diffusa. Anche le condizioni degli ospedali erano pessime, erano luoghi dove i malati veri, gli incurabili, i
poveri e i trovatelli vivevano nella stessa stanza. La trasformazione scientifica della medicina fu possibile grazie a:

- Diffusione di pratiche igieniste, inizialmente in Francia, che permisero prevenire determinate malattie.
- Sviluppo della microscopia ottica, che permette di identificare i microrganismi responsabili delle malattie
infettive, come la peste, il colera, la tubercolosi (nuovi studi sulle cellule).
- Progressi della chimica, soprattutto per quanto riguarda la farmacologia: si iniziò a praticare l’anestesia
chirurgica e si creò la nostra attuale aspirina.
- Nuova ingegneria sanitaria, con la conseguente costruzione di grandi policlinici, divisi a seconda delle
terapie, ogni paziente era quindi nel suo reparto specializzato, a seconda delle malattie e delle conseguenti
norme igieniche.

BOOM DEMOGRAFICO

La rivoluzione tecnologica avvenuta nel XIX secolo, non cambiò solo la qualità della vita ma anche allungò
notevolmente la sua durata media. Il boom demografico colpì sia l’Europa che l’America in seguito alla rivoluzione
industriale, soprattutto grazie agli sviluppi in medicina e nell’industria alimentare. Epidemie e carestie sembravano
finalmente solo un brutto ricordo. La mortalità si ridusse e, a causa dell’invenzione dei metodi contraccettivi,
diminuirono anche le nascite. Asia e Africa mantennero invece un alto tasso di mortalità, ma ebbero anche un
incremento della popolazione.

7. IMPERIALISMO E COLONIALISMO
LA FEBBRE COLONIALE
Negli ultimi decenni del XIX secolo, si sviluppò la tendenza delle potenze europee ad estendersi su scala
internazionale. Questo movimento raggiunse il suo apice alla fine dell’800 con dimensioni e obiettivi del tutto nuovi a
quelli della colonizzazione tradizionale. Inizialmente questa era un’idea di privati e di compagnie mercantili, ma poi
divenne un obiettivo di politica nazionale da parte dei governi. Alla penetrazione commerciale, subentrò un
assoggettamento politico e uno sfruttamento economico. Gran parte dei territori dell’Africa e dell’Asia divennero,
per questo motivo, colonie o protettorati. Questa nuova politica, che inizialmente interessò moltissimo la Gran
Bretagna, ben presto divenne una prerogativa anche di Francia, Germania, Belgio, Italia, Stati Uniti e Giappone. Non
tutti erano però favorevoli, infatti per Disraeli, in principio, le colonie erano solo un peso. All’origine di questa spinta
coloniale c’erano vari motivi: accaparramento di materie prime a basso costo, nuovi sbocchi commerciali, molto utili
in un’epoca dove il protezionismo era molto sviluppato, accumulazione di capitali finanziari disponibili per
investimenti ad alto profitto nei territori oltremare. Oltre a motivazioni economiche, c’erano anche ragioni politico-
ideologiche, che trovavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo, politica di potenza, razzismo e spirito
missionario. Si diffuse presto il mito secondo il quale gli europei dovessero esportare la loro cultura, oltre quello del
“flagello dell’uomo bianco” (Kipling), secondo il quale era necessario redimere ed educare le popolazione indigene.
Altri motivi furono poi legati alle esplorazioni in sé, alla curiosità scientifico-geografica e alla moda dell’esotismo. Non
mancarono poi i fattori occasionali, come la necessità di prevenire e controbattere le iniziative delle potenze
concorrenti.

COLONIZZATORI E COLONIZZATI

L’Europa portò in tutto il mondo la sua civiltà, sebbene i primi aspetti ad essere esportati furono quelli più negativi,
come l’uso sistematico e indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene. Questo avvenne soprattutto
nell’Africa nera, dove gli europei erano in netta superiorità a livello di armi tecnologiche, cosa che portò a vere e
proprie stragi. Dal punto di vista economico però, la colonizzazione ebbe degli effetti positivi sui paesi coinvolti:
vennero messe a coltura nuove terra, introdotte tecniche agricole, costruite infrastrutture, avviate attività
commerciali e industriali, migliorati i sistemi amministrativi e finanziari. Tuttavia ci fu un vero e proprio
depauperamento delle risorse umane e materiali, un vero e proprio sfruttamento. L’impatto culturale della
colonizzazione ebbe quindi tanti aspetti positivi quanti però lo erano quelli negativi, infatti a volte riuscivano ad
amalgamarsi, altre c’erano scontri irrisolvibili (se non con la violenza). Sul piano politico però, l’espansione portò a un
risveglio di nazionalismi locali, con la conseguente formazione di nuovi quadri dirigenti nel quale si concentravano
ideali democratici e principi di nazionalità.

L’ESPANSIONE IN ASIA

In Asia si stabilirono presto molte colonie europee: gli inglesi si insediarono in India, ma anche a Hong Kong e
Singapore, oltre che nell’Oceano Indiano e nel Sud-Est asiatico; gli olandesi nell’arcipelago indonesiano; i portoghesi
sia in Cina che in India; la Spagna possedeva le Filippine; la Russia puntava alla Siberia e all’Asia Centrale, la Francia
alla penisola indocinese. Nel 1869 fu aperto il canale artificiale che, tagliando l’istmo di Suez, mette in rapido
collegamento il Mar Rosso con il Mediterraneo. La nuova via dell’acqua era gestita da una compagnia internazionale
controllata da Francia e Inghilterra. Le tre direttrici erano però: Gran Bretagna, Francia e Russia. La Gran Bretagna
ottenne già nel ‘700 ottenne l’India e la fece governare dalla Compagnia delle Indie Orientali, una compagnia privata
che agiva però come vero e proprio governo. Gli scambi tra i due paesi erano molto intensi, soprattutto a livello
commerciale. L’India si manteneva grazie all’agricoltura, che era però molto arretrata e povera (risentì molto
dell’interscambio con la madrepatria), a livello sociale era invece divisa in caste, gestite inizialmente dal moghul, e
poi da signori locali e sacerdoti, che dovevano rispondere direttamente all’Impero britannico in quanto in India
mancava il solido potere imperiale. L’Inghilterra, da parte sua, cercò di migliorare il paese modernizzandolo,
diffondendo la propria lingue e cultura, e cercando di mettere fine a pratiche barbariche legate alla loro religione
induista. Questo non fu per niente facile, e scaturì anche dei conflitti e delle rivolte (rivolta dei Seypos),la quale fu
però soppressa con grande violenza in poco tempo, portando però alla soppressione della Compagnia delle Indie
(1858) e alla presenza di un viceré, a cui fu affidato il compito di sistemare sia l’esercito che la burocrazia. Nel 1876, a
coronamento di quest’opera di riorganizzazione, la regina Vittoria fu proclamata imperatrice dell’India. I motivi
principali che spinsero la Francia a conquistare la penisola indocinese furono quelli di concorrenza ed emulazione
della Gran Bretagna. L’Indocina era di religione buddista, divisa in una serie di regni, che erano sotto l’Impero cinese.
L’espansione francese fu graduale, infatti prima si limitò a stabilire stazioni commerciali e a svolgere missioni
religiose cattoliche, e fu proprio questa la scusa (persecuzione contro i missionari) che usarono per poter intervenire
militarmente nel 1862 e istituire il protettorato della Cambogia. Sia la Francia che l’Inghilterra erano in continua
espansione: la prima ottenne il Laos, la seconda il regno di Birmania e, di comune accordo, decisero di usare il Siam
come stato “cuscinetto”. La Russia invece, aveva due linee direttrici, una in Siberia e una verso l’Asia centrale. La
prima non fu un problema, fu ben presto modernizzata grazie all’incremento di attività commerciali e produttive. La
Russia dovette però cedere, per questioni economiche, l’Alaska, agli USA. Russia e Gran Bretagna si fronteggiarono a
lungo per alcuni territori nell’Asia centrale, solo nel 1885, raggiunsero un accordo con quale riuscirono a definire le
frontiere tra il Turchestan e il regno di Afghanistan (indipendente ma comunque sotto la sfera inglese). La Gran
Bretagna conquistò Australia, Nuova Zelanda, isole Fiji, le Salomone e le Marianne, mentre la Nuova Guinea fu
spartita tra i tedeschi e i francesi. Nel 1894 sorsero molti contrasti per la Corea, che era sotto il dominio cinese ma
era anche motivo di interesse per il Giappone. Dopo lo scontro la Cina dovette cedere al Giappone anche altri
territori tra cui l’isola di Formosa. Le potenze occidentali non poterono che approfittare della debolezza della Cina
per sottrarle altri territori. Vista la continua degenerazione del paese, sorsero delle rivolte, tra le quali spiccarono per
la loro estrema violenza, quelle compiute dai boxers, una società segreta a carattere paramilitare, che portarono ad
un intervento delle grandi potenze europee tra cui USA e Giappone. In due settimane le rivolte furono sedate e
Pechino invasa dalle truppe alleate.

LE ORIGINI DELL’IMPERIALISMO AMERICANO

Quando si parla di imperialismo americano ci si può riferire anche al cosiddetto “imperialismo formale”, fondato
essenzialmente sull’esportazione di merci e di capitali. Verso la fine del secolo si formò un gruppo di opinione che
riteneva che gli USA avessero diritto di esportare in tutto il mondo i propri principi e la propria organizzazione
sociale, oltre che le proprie merci. L’espansionismo USA si indirizzò in due linee: una verso il Pacifico, una sorta di
prolungamento ideale della appena terminata corsa “all’Ovest”, e un’altra verso l’America Latina, che era visto più
come un diritto di penetrazione economica e tutela politica sull’intero continente. Il primo intervento avvenne, nel
1895, a Cuba, dove era in atto una violenza contro i dominatori spagnoli. Ci fu una durissima repressione, dovuta
principalmente alla preoccupazione degli USA per le sue piantagioni canna da zucchero. Tre anni dopo, nel porto
dell’Avana, ci fu l’affondamento di una nave americana, fatto che portò all’inevitabile guerra con la Spagna. Dopo
esser stata sconfitta sia nelle Antille che nel Pacifico, Cuba divenne indipendente e la Spagna dovette cedere agli USA
sia le Filippine che Portorico. Dopo aver ottenuto il controllo dei caraibi (molto importante per i commerci) e di una
parte di Asia orientale, gli USA ottennero anche il controllo delle Hawaii.

LA SPARTIZIONE DELL’AFRICA

Dalla fine dell’800 è iniziata la vera e propria conquista dell’Africa da parte degli europei: i francesi occupavano
Algeria e Senegal, i portoghesi Angola e Mozambico, gli inglesi la Colonia del Capo (= parte meridionale), il tutto in
meno di 40 anni. Quando la conquista ebbe inizio, non restò molto delle antiche tribù locali, che erano già in crisi per
la decadenza commerciale, le guerre e la tratta degli schiavi. Anche i regni musulmani entrano lentamente in declino.
Il componente cristiano era invece costituito dall’Etiopia, il più vasto e solido tra gli stati. Elementi di coesione
politica e religiosa erano invece del tutto assenti in gran parte degli stati africani, dove le civiltà commerciali e più
fiorenti erano il bacino del Congo e quello dello Zambesi. Per il resto erano solo delle tribù disaggregate, dedite alla
caccia, alla pastorizia, ma principalmente nomadi, con un’agricoltura primitiva. Nel 1881, i francesi occuparono la
Tunisia e gli inglesi l’Egitto. Entrambi i paesi erano già sulla via della modernizzazione, che era però stata ostacolata
dalle scarse risorse e dall’inefficiente amministrazione corrotta. Per tutelarsi da un’eventuale bancarotta, Francia e
Inghilterra, che erano i maggiori investitori dei due stati, decisero di intervenire militarmente. La prima a farlo, dopo
aver ottenuto il permesso dal congresso di Berlino, fu la Francia, che in seguito a un incidente avvenuto
precedentemente a Tunisi, ne approfittò per mandare il suo esercito e instaurare un regime di protettorato. Nell’82,
in seguito a dei moti insorti ad Alessandria, l’Inghilterra, per volere di Gladstone, inviò il suo esercito per far sì che,
anche se potesse divenire indipendente, l’Egitto sarebbe comunque rimasto una semi-colonia britannica. Vicino
all’Egitto, e quindi agli inglesi, c’era però il Sudan, altro paese pieno di tumulti che dovettero essere fermati. Per
quanto riguarda invece la ricca zona del Congo, fu oggetto di mira del Belgio, in particolare del re Leopoldo II, il quale
con la scusa di fornire aiuti umanitari costruì invece una sorta di impero personale, che si poteva arricchire grazie ai
giacimenti minerari. Anche la questione del Congo fu sottoposta al congresso di Berlino, il quale dopo aver dato una
prima sanzione decise quali fossero le regole per spartirla, prima tra tutte quella dell’effettiva occupazione, usata
appunto per legittimare il possesso del territorio. La conferenza riconobbe quindi la superiorità belga, su quello che
prenderà il nome di Congo belga, concedendo al re anche uno sbocco sull’Atlantico. Alla Francia andarono i territori
sulla riva destra del fiume, la Germania ottenne il protettorato del Togo e del Camerun, mentre l’Inghilterra ebbe il
basso Niger. Quest’ultima puntò anche all’Africa sud-orientale, importante per avere il controllo dell’Oceano
Indiano: si impadronì del Kenya e dell’Uganda. Questo progetto si scontrò però con la Germania, solo dopo un
accordo nel 1890 si stabilì che alla Germania spettasse l’Africa Orientale, e all’Inghilterra Zanzibar. Proprio con
questo nuovo progetto, gli inglesi entrarono in collisione con i francesi, i quali però non erano pronti per una guerra
e decisero di ritirarsi. All’inizio del ‘900 la conquista era quasi del tutto terminata, ad eccezione della Liberia, Etiopia,
Libia e Marocco che erano (solo per il momento) indipendenti.

IL SUD AFRICA E LA GUERRA ANGLO-BOERA

Gli avvenimenti che hanno portato alla colonizzazione dell’Africa sono avvenuti principalmente perché l’imperialismo
europeo, in questo caso quello britannico, si scontrò con un nazionalismo locale (di origine sempre europea in
quanto boero), provocando un conflitto tra due popoli entrambi bianchi e cristiani. I boeri infatti erano discendenti
degli agricoltori olandesi, caduti sotto il dominio inglese al tempo delle guerre napoleoniche. Molti per evitarlo si
traferirono al Nord, dove fondarono le due repubbliche dell’Orange e del Transvaal. In quest’ultima zona c’erano
però grandi giacimenti di diamanti che fecero gola agli inglesi, i quali lasciarono mano libera alla politica aggressiva
della classe dirigente inglese della Colonia del Capo. A capo di questa classe dirigente c’era Cecil Rhodes il primo
ministro della Colonia. Dopo la scoperta di nuovi giacimenti auriferi nell’Orange e nel Transvaal, i boeri si videro
nuovamente a rischio colonizzazione, o comunque temevano che il loro sistema, compreso di schiavi indigeni,
potesse cambiare. Nel 1899 il Presidente del Transvaal dichiarò guerra agli inglesi e perse, dovendo così annettere
entrambe le repubbliche all’Impero britannico. I boeri combatterono fino all’ultimo e tentarono invano di difendersi,
alla fine però ottennero uno statuto di autonomia, simile a quello di Citta del Capo, al quale poi saranno uniti per
formare l’Unione Sudafricana. Inglesi e boeri trovarono così il modo ci collaborare, sia nello sfruttamento delle
risorse che nella politica, il tutto a scapito degli schiavi indigeni.

8. STATO E SOCIETA’ NELL’ITALIA UNITA


L’ITALIA NEL 1861

Al tempo dell’unità di Italia, l’analfabetismo era molto alto, raggiungeva infatti il 78% della popolazione. Era uno dei
paesi con maggior numero di città, tra cui i centri più importanti erano Milano, Roma, Torino, Genova, anche se la
maggior parte dei cittadini viveva in campagna e nei piccoli centri rurali, mantenendosi quindi con le attività agricole.
L’agricoltura occupava il 40% della popolazione agricola, contro il 18% dell’industria e solo il 12% del settore
terziario. L’agricoltura italiana non era affatto favorita dalle condizioni naturali, era povera e aveva una grossa varietà
di colture. Solo nella zona della pianura padana si erano sviluppate, a fine secolo, le aziende agricole moderne, che
univano all’agricoltura l’allevamento di bovini, ed essendo condotte da criteri capitalistici usavano per lo più
manodopera salariata. In tutta l’Italia centrale dominava invece la mezzadria. La terra era divisa in poderi, di piccole
e medie dimensioni, dove le colture cerealicole si mescolavano a quelle arboree. Ognuno di essi produceva il
necessario per il mantenimento della famiglia e per il pagamento del canone al signore. Il contratto mezzadrile era
infatti basato sulla ripartizione degli oneri e dei ricavi tra il proprietario e il coltivatore: questi gli dava metà del suo
raccolto e doveva anche partecipare ai lavori di manutenzione del fondo, alle spese del bestiame e degli attrezzi
agricoli (più oneri aggiuntivi che erano sempre sfavorevoli per il contadino). In questo modo però, la mezzadria
rappresentava un ostacolo per l’innovazione tecnica e per lo sviluppo di un’agricoltura moderna. Le campagne
meridionali e insulari portavano un’evidente impronta del latifondo: grandi distese coltivate per lo più a grano, con la
popolazione concentrata in pochi e grossi borghi rurali. Le tracce dell’ordinamento feudale si facevano sentire
pesantemente nei contratti agrari, che erano molto arcaici e basati sullo scambio in natura. Autoconsumo e scambio
in natura erano quindi una realtà molto vivida. La nutrizione non era delle migliori, infatti erano diffuse molte
malattie da denutrizione come la pellagra. Condizioni abitative pessime: sovraffollamento e scarso igiene. La classe
dirigente non era all’oscuro della situazione ma di sicuro non pensava fosse così grave. Inoltre mancava un sistema di
comunicazioni rapide tra le varie parti del Paese: una rete ferroviaria nazionale era ancora inesistente.

LA CLASSE DIRIGENTE: DESTRA E SINISTRA

Poche settimane dopo l’unità di Italia, moriva a Torino l’esponente della classe moderata per eccellenza, Cavour. I
suoi successori si attennero alla sua politica nelle linee principali: una politica rispettosa delle libertà costituzionali e
al tempo stesso accentratrice, liberista in campo economico, laica in materia di rapporti tra Stato e Chiesa. A loro
però mancava la capacità di iniziativa che era tipica di Cavour. Il nucleo centrale era composto da piemontesi, cioè
dalla vecchia maggioranza della camera subalpina. Si erano uniti poi i gruppi moderati lombardi, emiliani, toscani e,
anche se in presenza nettamente minore, i meridionali. Essi rappresentavano un gruppo abbastanza omogeneo, sia
dal punto di vista sociale, sia da quello politico. Nei primi parlamenti dell’Italia unita, la maggioranza si collocava a
“Destra” (il nome preso quindi dalla posizione in parlamento). Essa rappresentava però più che altro un gruppo
centrale moderato: la vera destra (di clericali e di nostalgici dei vecchi regimi) si era però autoesclusa, dato che non
riconosceva la legittimità delle istituzioni. Una cosa simile avvenne per la sinistra democratica: qui i mazziniani e i
repubblicani intransigenti rifiutarono di partecipare all’attività politica. In parlamento, insieme alla vecchi sinistra
piemontese, si aggiungevano man mano i mazziniani che volevano la svolta. La sinistra aveva una base meno
omogenea, costituita da gruppi piccolo-medio borghesi delle città. Soprattutto nei primi anni la sinistra combatté per
il suffragio universale, il decentramento amministrativo e soprattutto il completamento dell’Unità, da raggiungere
con l’iniziativa popolare. Entrambe erano però espressione di una classe dirigente molto ristretta. La legge elettorale
piemontese, estesa a tutto il Regno, concedeva il diritto di voto solo ai quei cittadini che avessero compiuto 25 anni,
sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all’anno. Nelle prime elezioni dell’Italia unita
votava solo il 7% dei maschi adulti, e molti di coloro che avevano diritto al voto si rifiutarono. Era così evidente il
carattere oligarchico e personalistico della vita politica, mancavano inoltre veri e propri partiti organizzati in senso
moderno, oltre che una vera e propria lotta politica basata su programmi definiti. A tutto questo si aggiungeva poi la
facile corruzione del governo, che non faceva che peggiorare la situazione.

LO STATO ACCENTRATO, IL MEZZOGIORNO, IL BRIGANTAGGIO

I leader della Destra erano disposti a riconoscere un sistema decentrato, basato sull’autogoverno delle comunità
locali. Nei fatti però, prevalsero le esigenze pratiche e immediate, che spingevano i governanti a stabilire uno stretto
controllo e ad orientarsi quindi verso uno stato accentrato, molto vicino a quello napoleonico: basato cioè su
ordinamenti uniformi per tutto il regno e su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro. Salito al potere
La Marmora, emanò nuove leggi, tra cui: legge Casati sull’istruzione, che creava un sistema scolastico nazionale e
stabiliva il principio dell’istruzione elementare obbligatoria; c’era poi la legge Rattazzi sull’ordinamento comunale e
provinciale, che affidava il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio ristretto e a un sindaco di nomina
regia, le province invece diventavano le circoscrizioni amministrative più importanti, sotto il controllo dei prefetti. Il
motivo principale per cui venne abbandonato il proposito di decentramento era la situazione nel Mezzogiorno: nelle
province meridionali infatti era appena avvenuta la liberazione del governo borbonico, ma ciò nonostante c’era
grande agitazione sia per il malessere delle masse contadine, sia per la diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico. I
disordini divennero sempre più frequenti, fino a diventare un moto di rivolta, incoraggiato in parte dal clero e
sovvenzionato dalla corte borbonica in esilio a Roma. Ben presto si diffusero bande di irregolari, dove i briganti mi
mescolavano con contadini insorti, cospiratori ed ex borbonici. Le bande assalivano i piccoli centri, ma la risposta del
governo fu comunque repressiva, aumentando la presenza dei militari al sud. Le forze impegnate nel sud arrivarono
a rappresentare la metà dell’esercito italiano, e in seguito venne passata anche una legge che prevedeva
l’affermazione del regime di guerra: vennero istituiti tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazioni immediata
per chi avesse opposto resistenza con le armi. Sia per le misure repressive, che per la stanchezza della popolazione,
la rivolta fu sedata in pochi anni. Alla politica di destra mancava la capacità di attuare un vero e proprio progetto di
miglioramento del Sud, dove i principali motivi del malcontento erano:

- Divisione dei terreni demaniali: questa proposta non era mai davvero andata a fondo, ed era già presente
prima dei Borbone.
- Vendita dei terreni dell’asse ecclesiastico: non migliorò la situazione dei contadini senza terra.

Come risultato il divario tra Nord e Sud si accentuò pesantemente.

LA POLITICA ECONOMICA: I COSTI DELL’UNIFICAZIONE

Altro problema della destra era quello di affrontare l’unificazione economica del paese, bisognava quindi unificare il
sistema monetario e quello fiscali, che erano diversi, bisognava inoltre rimuovere barriere doganali tra i vecchi stati,
costruire un efficiente rete di comunicazione, con strade e ferrovie (si svilupparono molto in fretta), premessa
indispensabile per l’unificazione del mercato nazionale. Un vantaggio si ebbe nell’agricoltura, che subì alcuni
progressi, anche in termini di produzione, soprattutto per l’esportazione delle colture specializzate. Nessun
vantaggio immediato ebbe invece il settore industriale, che fu anzi penalizzato: il settore tessile diminuì le sue
produzioni, mentre quelli della siderurgia e della meccanica erano ancora deboli. La decisione di un commercio
liberista mostrò gravi conseguenze nel mercato del Mezzogiorno, che con la caduta dei dazi perse una protezione. La
scommessa liberista ebbe degli effetti positivi, come una rapida integrazione dello stato nel contesto economico
europeo. Inoltre con l’abbattimento dei dazi, si ebbe un’accumulazione di capitali anche se limitata. Questi capitali
sono stati prelevati dallo Stato, in parte come entrate fiscali, in parte per la costruzione di infrastrutture. Nonostante
qualche cambiamento, il paese era però ancora molto arretrato. Responsabile di questa situazione era anche la
durissima politica fiscale, che doveva coprire i costi dell’unificazione. Grosse spese avevano coinvolto il campo della
comunicazione, dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione e dell’esercito. Ci fu così una pressione tributaria, che
prevedeva sia le imposte dirette (come quella sulla ricchezza mobile = redditi, e quella fondiaria), sia quelle indirette
(che colpivano i consumi ma anche gli affari e i movimenti di capitale). La situazione si aggravò dopo la guerra con
l’Austria, motivo per cui si accelerarono le operazioni di incameramento e liquidazione dell’asse ecclesiastico, si
introdusse il corso forzoso, ossia la circolazione obbligatoria della carta-moneta emessa dalle banche autorizzate.
Furono infine inasprite le imposte indirette, introducendo la tassa sul macinato. La tassa sul pane, il consumo per
eccellenza colpì le classi più povere, le quali non poterono restare indifferenti e nel 1869 avviarono le prime
agitazioni sociali. La repressione fu durissima. La politica del duro fiscalismo e dell’inflessibile rigore finanziario era
legata soprattutto al nome di Quintino Sella, ministro delle Finanze nel gabinetto Lanza. Le condizioni del bilancio
statale migliorarono fino ad arrivare all’obiettivo del pareggio. Ma la protesta dei ceti popolari, le misure del
fiscalismo e del centralismo amministrativo, aggiunte alle pressioni degli industriali e dei gruppi bancari non fecero
che portare alla caduta della Destra.

IL COMPLETAMENTO DELL’UNITA’

Tra i compiti della Destra c’era anche quello di portare a termine l’unità, annettendo il Veneto, il Trentino, Roma e il
Lazio. La Sinistra invece, mentre la Destra puntava all’inserimento graduale, restava fedele all’idea di guerra
popolare e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma, un’occasione per un rilancio dell’iniziativa democratica. Un
problema spinoso era rappresentato dalla figura del papa, che aveva a Roma i militari francesi pronti a difenderlo. Il
clero rappresentava in molte zone rurali l’unica presenza organizzata e l’unico punto di riferimento culturale, infatti
si occupavano anche della scuola pubblica. I primi governi seguirono la strada di Cavour, per questo proposero un
accordo al papa, che gli garantiva la piena libertà di esercitare il suo potere spirituale, in cambio però doveva
rinunciare a quello temporale, riconoscendo il nuovo Stato. Il papa in carica era però Pio IX, intransigente e in piena
rotta con il movimento nazionale italiano la civiltà liberale. Nel giugno del 1862, Garibaldi torna in Sicilia e rilancia il
progetto di una spedizione contro lo Stato pontificio. Quando Napoleone III seppe dell’impresa, si fece acceso
difensore di Roma, e per questo Vittorio Emanuele II dovette sconfessare la spedizione. Ma Garibaldi procedette con
la sua impresa, e fu fermato dalle truppe francesi sull’Aspromonte, in seguito venne arrestato. Nel 1864, con la
cosiddetta “convenzione di settembre” si ottenne il ritiro delle truppe francesi da Roma, in cambio della promessa di
mantenere i confini papali. La capitale fu poi spostata a Firenze. Altro obiettivo era la liberazione del Veneto. L’Italia
si alleò così con la Germania contro l’impero asburgico nella speranza di ottenere il Veneto. Anche se vinsero la
guerra, gli italiani furono battuti a Custoza e a Lissa, gli unici successi si ottennero grazia a Garibaldi. Una volta
raggiunti i suoi obiettivi, la Prussia avviò le trattative di pace, nell’ottobre 1866, con la pace di Vienna, l’Italia ottenne
solo il Veneto, senza il Trentino e la Venezia Giulia. L’esito lasciò però delusi gli italiani che decisero di farsi sentire:
Mazzini intensificò la propaganda e Garibaldi riprese la sua marcia contro Roma, sostenuto da molti più volontari, ma
nonostante questo, appresa la notizia dell’imminente attacco, la Francia mandò subito le sue truppe. Garibaldi fu
sconfitto un’altra volta, presso Mentana. Ma gli italiani non demordono e nel 1870, avendo annullato l’accordo preso
in precedenza con il papa, decisero di attaccarlo, Pio IX rifiutò ogni possibile accordo e il 20 settembre le truppe
italiane entravano a Roma, presso Porta Pia, accolti dai romani, i quali votarono per annettere Roma e il Lazio.
Avvenne anche il trasferimento della capitale a Roma, e furono avviate leggi di trattative con la Santa Sede. La prima
ad essere approvata fu quella “delle guarentigie”, cioè delle garanzie, in quanto con essa il Regno d’Italia si
impegnava unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni del libero svolgimento della sua funzione spirituale.
Gli venivano riconosciute prerogative simili a quelle dell’imperatore, tra cui gli onori sovrani e la possibilità di avere
una scorta armata. Pio IX non era però soddisfatto della situazione, per questo nel 1874, emanò la formula del “non
expedit”, che impediva ai cattolici di partecipare alla vita politica e alle elezioni.

LA SINISTRA AL POTERE

Nella prima metà degli anni ’70, si verificarono importanti cambiamenti, tra cui l’aumento del numero dei deputati
che non si collocavano né a destra né a sinistra e per questo si definirono il “centro”. Si accentuarono le fratture
interne nella Destra, sempre più divisa sulla base di gruppi regionali. La Sinistra invece, si avvicinò molto di più a
posizioni moderate. Accanto alla vecchia sinistra, la sinistra storica di De Pretis, si aggiunse quella nuova, espressione
di una borghesia moderata, poco sensibile alla tradizione democratico-risorgimentale e più vicina a tutelare i suoi
interessi. Nel 1876 la Destra si divise per una discussione sulla gestione statale delle ferrovie: in seguito a questa
spaccatura il governo fu costretto a dimettersi lasciando il posto alla sinistra di De Pretis, che ebbe una netta
maggioranza nelle elezioni successive. nel frattempo scomparivano grandi personaggi come Mazzini, Vittorio
Emanuele II, Pio IX e anche Garibaldi. Arrivata al potere la Sinistra non era più del tutto radical-democratica ma si era
allargata a fasce più moderate e persino conservatrici. Non perse di vista il suo lato democratico e riuscì ad andare
incontro alle esigenze della borghesia. Protagonista indiscusso fu De Pretis che rimase al governo per ben 10 anni,
mazziniano in gioventù, si avvicinò poi a posizioni più moderate: riuscì a unire presenze progressiste a quelle
conservatrici. Il suo programma si basava su pochi punti fondamentali:

- Allargamento del suffragio elettorale


- Riforma dell’istruzione elementare, che divenne gratuita e obbligatoria
- Sgravi fiscali soprattutto per le imposte indirette
- Decentramento amministrativo (progetto ben presto accantonato)

Nel 1877 passò la legge Coppino che prevedeva l’obbligo della frequenza scolastica fino a 9 anni, aggiungendo
sanzioni per i genitori inadempienti. La nuove legge elettorale invece, fu approvata nel 1882, essa concedeva il diritto
a tutti i cittadini che avessero compiuto il 21esimo anno di età e avessero dimostrato di saper leggere e scrivere. Le
prime elezioni a suffragio allargato videro l’ingresso alla Camera del primo deputato socialista, Andrea Costa. Con
l’allargamento del diritto al voto però, De Pretis temeva un rafforzamento dell’estrema sinistra, per questo fece un
accordo con il leader della destra, Minghetti, che prese il nome di “trasformismo”, esso prevedeva delle rinunce da
parte di entrambi i partiti (nel caso della sinistra di un punto essenziale del suo programma). A un modello bipartitico
subentrava invece quello basato su un grande centro, che prevedeva quindi lo sviluppo delle forze moderate a
scapito di quelle estremiste. La maggioranza non era quindi basata su dei “programmi” ma su compromessi, motivo
per cui si arrivò a un sostanziale immobilismo dell’azione di governo, oltre che a un netto schieramento in ambito
politico. Nella sinistra venne così a crearsi una forte spaccatura, che vedeva i più moderati in contrasto con i
progressisti che volevano invece un maggiore equilibrio nel sistema elettorale e una politica anticlericale sempre più
forte. Questo gruppo prese il nome di “radicale”, e rappresentò negli anni ’80 il gruppo più combattivo contro le
maggioranze trasformiste.

CRISI AGRARIA E SVILUPPO INDUSTRIALE

Se per la Destra, una delle cause della sua caduta fu il malcontento provocato dalla sua politica economica, per la
Sinistra non fu facile andare incontro a questi problemi, ma riuscì prima a ridurre la tassa sul macinato e poi ad
abolirla del tutto, nell’84. Fu contemporaneamente aumentata la spesa pubblica per coprire le accresciute spese
militari e per accontentare le richieste dei vari gruppi di interesse. Se da un lato questa politica portò a un successivo
sviluppo dell’industrializzazione, portò anche a un crescente deficit nel bilancio statale, senza riuscire a far fronte agli
innumerevoli problemi agricoli. Gli sviluppi nel settore agricolo erano più a carattere quantitativo che qualitativo. I
miglioramenti riguardavano solo i settori più progrediti:

- Nella Pianura Padana furono aumentati i lavori di bonifica


- Nel Mezzogiorno migliorarono le colture specializzate

Nel resto di Italia però la situazione non era delle migliori, nemmeno per i contadini. Nel 1877 fu deliberata
un’inchiesta agraria, con la quale si decisero dei lavori di bonifica, di irrigazione, di avvicinamento a nuove colture,
incentrandole su in sistema più differenziato. L’Italia risentì molto della crisi agricola, che portò a un brusco
abbassamento dei prezzi (cereali), un calo della produzione e gravissimi disagi sociali. Aumentarono i conflitti in
campagna e anche le migrazioni, sia verso i centri urbani che verso l’estero. Se da un lato la crisi portò a un ritardo
dello sviluppo industriale, dall’altro lo favorì: la crisi non solo distolse capitali dal settore agricolo, indirizzandoli verso
altri settori, ma fece cadere la disillusione di un progresso economico. Per la Sinistra lo stato doveva astenersi dalla
situazione economica, ma nel frattempo cambiò idea, prendendo esempio dalla Germania. Nel 1887, con De Pretis,
ci fu il varo di una nuova tariffa generale che metteva al riparo dalla concorrenza straniera importanti settori
dell’industria nazionale, colpendo le merci con grandi dazi di entrata. Questa tariffa poneva le basi per un nuovo
blocco di potere economico, fondato sull’alleanza tra industria protetta e grandi proprietari terrieri, e sull’intreccio
tra i maggiori gruppi di interesse e i poteri statali. L’industria non ottenne grossi miglioramenti, sia quella meccanica
che quella tessile. L’agricoltura, colpita dalla tassa sul macinato, non aveva una vita più semplice nel Mezzogiorno
dove, ad essere penalizzate furono le colture specializzate. La tariffa dell’87 ebbe infatti come conseguenza una
rottura commerciale, degenerata poi nella guerra commerciale contro la Francia.

LA POLITICA ESTERA: LA TRIPLICE ALLEANZA E L’ESPANSIONE COLONIALE

In campo di politica estera, il progetto di De Pretis cambiò, infatti mentre prima si preferiva un rapporto
“preferenziale” con la Francia, ora decise di instaurare un’alleanza con Germani e Austria-Ungheria, siglando il
trattato della Triplice Alleanza. Questo, non solo non era ben accolto dalla popolazione italiana ma rappresentava
anche una rottura con la tradizione risorgimentale. L’Italia voleva uscire dalla condizione di isolamento in cui si
trovava, per farlo nel 1881, emerse l’affare tunisino. L’Italia considerava la Tunisia, sia per vicinanza geografica, sia
per quantità di italiani presenti là, come il naturale sbocco di una sua eventuale azione coloniale. Ma non aveva
potuto far nulla quando la Francia decise di muoversi contro di essa , se non allearsi con le due grandi potenze.
Quest’alleanza aveva un carattere difensivo, infatti l’Italia sarebbe stata aiutata in caso di attacco dalla Francia, ma
doveva rinunciare alle terre irredente (non redente, non liberate). Questa situazione, anche se non era molto a cuore
allo stato, lo era invece per alcuni insorgenti. La situazione migliorò nel 1887 quando venne rinnovata la triplice
alleanza, inserendo due nuovo clausole: la prima prevedeva che eventuali modifiche nel campo dei Balcani
sarebbero toccate all’Italia e all’Austria, la seconda prevedeva invece l’intervento della Germania in soccorso
dell’Italia se fosse stata attaccata dai francesi dal Marocco o dalla Tripolitania. L’Italia cercò di conquistare una parte
dell’Africa orientale, conquistando così la Baia di Assuan. Questa zona era in prossimità dell’Etiopia, il più grande e
potente stato cattolico. Dopo che gli italiani cercarono di allargare i loro orizzonti, la popolazione fu del tutto
sterminata, ma ciò non gli impedì di creare nuovi insediamenti su quella costa.

MOVIMENTO OPERIAIO E ORGANIZZAZIONI CATTOLICHE


La crescita del movimento operaio organizzato fu rallentata, della popolazione attiva infatti, la maggior parte erano
lavoranti nelle botteghe artigiane, operai che si alternavano tra il lavoro in fabbrica e quello nei campi e, molto
diffuso nel campo tessile, era il lavoro a domicilio. Fino agli inizi degli anni ’70, la società che aveva un minimo di
importanza era la società di mutuo soccorso., controllato in parte dai mazziniani e in parte dagli esponenti moderati.
Erano veri e propri strumenti per educare il popolo, avevano scopi di solidarietà e rifiutavano la lotta di classe. Man
mano però si andava diffondendo il partito socialista, una nuova minaccia all’orizzonte. La crescita del movimento
internazionalista si doveva soprattutto a grandi agitatori, facendo leva sul proletariato delle campagne. La svolta si
ha nell’estate dell’81, quando il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che doveva essere una premesse per il
Partito socialista italiano. Questo però non aveva legami con gli operai, lo avrà la società di miglioramento e le leghe
di resistenza, che cercavano di rivendicare i lavoratori. Nell’82 nasce il Partito operaio italiano, che si presentò come
rigidamente classista. Ci furono scioperi agricoli molto grandi (nel Mantovano e nelle Polesine). L’anno dopo sorsero
camere del lavoro (le prime), le federazioni di mestiere: la soluzione politica non era comunque delle più facili.
Labriola contribuì alla formazione del pensiero di Marx in Italia ma, la vera svolta si ebbe con Turati, principale
esponente della classe intellettuale milanese ma anche fondatore del Partito socialista italiano. Da giovane aveva
militato nelle file della democrazia radicale, ma su di lui ebbero anche una grossa influenza l’esule russa Kuliscioff, il
contatto con l’ambiente milanese, con il mondo operaio e con il mondo socialista. La sua posizione fu molto chiara
nelle scelte di fondo:

- Affermazione dell’autonomia del movimento operaio dalla democrazia borghese


- Il rifiuto dell’insurrezionismo anarchico
- Riconoscimento del carattere prioritario delle lotte economiche
- Esigenza di collegare le lotte economiche con quelle politiche
- Obiettivo finale: socializzazione dei mezzi di produzione

Nel 1892 a Genova si riunirono le leghe contadine e i circoli politici, si delineò così la frattura tra una maggioranza
favorevole all’immediata costituzione di un partito e una minoranza contraria, formata da anarchici e aderenti al
Partito operaio. Vista l’impossibilità di arrivare a un accordo, la maggioranza, capitanata da Turati lasciò la sala del
congresso e si riunirono in un’altra sede per dar vita al Partito dei lavoratori italiani. L’anno seguente il partito prese
il nome di “Partito socialista dei lavoratori italiani” e infine nel 1895 quello di “Partito socialista italiano”. Mentre
c’era chi temeva i socialisti, quest’ultimi temevano l’atteggiamento della massa dei cattolici militanti, fermi nella loro
fedeltà al papa e nel conseguente rifiuto di partecipazione alla vita politica (ma non alle elezioni amministrative). I
cattolici non organizzavano scioperi o insurrezioni ma erano comunque pericolosi, infatti nel 1874 riuscirono a creare
un’organizzazione nazionale chiamata “Opera dei congressi”, controllata dal clero e con il compito di convocare
regolarmente congressi per le associazioni cattoliche attive, assicurandone un collegamento a livello nazionale. Il
programma prevedeva una forte ostilità per il liberalismo laico, la democrazia, il socialismo. Qualche segno di
apertura si ebbe solo dopo il 1878, con l’avvento al pontificio di papa Leone XIII, il cui cercò di ampliare il suo
consenso sociale tra le masse. Man mano che il gruppo cresceva lo Stato si rendeva conto del grosso successo che
riscuoteva e si rese conto che era necessario un accordo con la Chiesa.

LA DEMOCRAZIA AUTORITARIA DI FRANCESCO CRISPI

Dopo la morte di De Pretis (1887), fu la volta del suo successore Crispi, il quale era il ministro degli Interni. Sicialiano,
poteva vantare grosse simpatie da parte di garibaldini e mazziniani, riscuotendo successo sia a sinistra sia tra i
conservatori. Accentuò le spinte autoritarie e repressiva ma si fece anche promotore di una riorganizzazione dello
Stato a livello amministrativo. Nel 1888 approvò una legge per ampliare ulteriormente il voto per le elezioni
amministrative, in modo che potessero votare tutti coloro che erano maggiorenni, sapessero leggere e scrivere, e
pagassero almeno 5 lire di imposte all’anno. Rendeva inoltre elettivi i sindaci dei piccoli comuni. L’anno seguente fu
approvato il codice Zanardelli che prevedeva l’abolizione della pena di morte e non vietava lo sciopero , il che faceva
si che lo ammettesse. Tuttavia Crispi lasciò grande libertà alla polizia il che fece presto inasprire i rapporti con la
maggioranza fino ad ottenere un distaccamento della sinistra più estremista, dato che questa perseguiva, anche
ingiustamente, cattolici, operai e irridentisti. Non negò mai il suo interesse per la triplice alleanza, in particolare
l’ammirazione per la Germania, che non fece altro che peggiorare i rapporti con la Francia. Decise di intraprendere
una nuova campagna in Africa e conquistò nuove terre come la Colonia Eritrea e non disdegnava una nuova
spedizione verso la Somalia. La politica coloniale di Crispi però suscitava molte perplessità, dato che era molto
costosa e lo Stato era in un periodo di grave crisi economica. Messo in minoranza dalla Camera, Crispi si dovette
dimettere nel 1891. L’anno dopo, salvo un breve intermezzo di Rudinì, lo Stato passò nelle mani del piemontese
Giolitti.

GIOLITTI, I FASCI SICILIANI E LA BANCA ROMANA

Giolitti nacque nel 1842, era quindi troppo giovane per partecipare alle lotte risorgimentali, avviò la sua carriera
nell’amministrazione statale e divenne un critico severo della politica economica della Sinistra. In politica finanziaria
mirava a una più equa ripartizione del carico fiscale affinché gravasse sui redditi più alti (progressività delle imposte).
Anche in politica interna aveva idee molto avanzate: si astenne infatti dal prendere misure repressive verso il partito
operaio e verso le organizzazioni popolari. Non venne a meno nemmeno a questa linea quando in Sicilia insorsero
delle associazioni popolari in un vasto movimento di protesta sociale, organizzazioni che presero il nome di Fasci dei
lavoratori e si diffusero sia in campagna che in città a causa delle tasse troppo alte e del malgoverno. Nonostante la
pressione della classe dirigente affinché Giolitti prendesse misure più forti, lui era contrario, e, dopo lo scandalo
politico-finanziario della Banca romana la sua caduta era tutta in discesa. La Banca romana era uno dei maggiori
istituti di credito italiani, uno dei 5 che insieme alla Banca internazionale aveva il diritto/privilegio di stampare
biglietti a corso legale. Si era trovata al centro di una febbre speculativa che, in seguito alla crisi, portò al fallimento
di molte imprese debitrici nel settore delle costruzioni. Per uscire da questa situazione, i dirigenti avevano commesso
gravissime irregolarità. Deputati e giornalisti erano stati finanziati dalla Banca romana per ottenere anticipazioni di
denaro per poter influenzare la stampa e l’opinione pubblica durante le campagne elettorali. Accusato di aver
coperto queste irregolarità durante il governo di Crispi, Giolitti dovette dimettersi. Fu accusato in parte
ingiustamente, dato che la situazione fu manovrata proprio dallo stesso Crispi per poter riottenere il suo posto, cosa
che avvenne.

IL RITORNO DI CRISPI E LA SCONFITTA DI ARDUA

Nel 1893, Crispi tornò al governo e dovette far fronte a una situazione economica e sociale molto grave. Avviò una
politica di risanamento del bilancio, riorganizzò il sistema bancario, con una legge che istituiva la Banca d’Italia, legge
già proposta da Giolitti. Questa avrebbe ottenuto sia il permesso per l’emissione che la possibilità di svolgere compiti
di controllo sull’intero sistema bancario (solo nel 1947). Nel 1894 non esitò a dichiarare lo stato di assedio in Sicilia,
che portò a una durissima repressione militare, accompagnata da opere della polizia contro leghe e organizzazioni
del Partito socialista, che pure non aveva responsabilità dirette nel moto siciliano. Venne limitata la libertà di
stampa, di riunione, di associazione. Leggi che vennero definite “anti-anarchiche” che avevano come obiettivo
principale il Partito socialista, il quale fu infatti dichiarato fuori legge. Gli effetti non furono quelli sperati, infatti si
costituì un’alleanza dei democratici, i quali accettarono alleanze con i progressisti e ottennero di far eleggere ben 12
dei loro candidati. La questione morale contro Crispi gravava sempre di più, fino al totale fallimento a causa del
tentativo di conciliare la politica di austerità finanziaria col mantenimento di un alto livello di spese militari, e con
una ripresa della campagna coloniale. Già nel suo primo governo ottenne una forma di protettorato sull’Etiopia,
peccato che il documento fu redatto in due versioni differenti, motivo per cui gli italiani pensavano di aver ottenuto
un protettorato, mentre gli etiopi solo una collaborazione. Crispi non esitò a muovere guerra contro l’Etiopia ma fu
accerchiato e sconfitto, per ben due volte, la seconda, definitiva, avvenne ad Ardua e ebbe come conseguenza la
caduta di Crispi. Gli successe il leader dell’opposizione di destra, Rudinì, che affrettò il trattato di pace con l’Etiopia.

9. VERSO LA SOCIETA’ DI MASSA


CHE COS’E’ LA SOCIETA’ DI MASSA
Con il termine “di massa” ci si riferisce a una moltitudine indifferenziata al suo interno, dove i singoli tendono quindi
a scomparire. Solo alla fine dell’800, con la diffusione dell’industrializzazione, e della conseguente urbanizzazione,
nei paesi più economicamente solidi, si viene a creare un principio di “società di massa”. In questo tipo di società, la
maggioranza dei cittadini vive in grandi e medi agglomerati urbani, entrano più spesso in comunicazione tra di loro,
ma i rapporti sono anonimi e impersonali. Gli apparati statali diventano grandi istituzioni nazionali. Il grosso della
popolazione esce dalla concezione di autoconsumo e sono ormai tutti produttori o consumatori di beni e servizi nel
circolo dell’economia di mercato. Questa è una realtà molto complessa, risultato di un intreccio di processi
economici, trasformazioni politiche e mutamenti culturali. Non poche sono le reazione contro questo nuovo sistema,
l’avvento della società di massa è un fenomeno che ha segnato come pochi altri la storia degli ultimi 100 anni.

SVILUPPO INDUSTRIALE E RAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA

Nel ventennio precedente alla prima guerra mondiale, l’economia dei paesi industrializzati conobbe una fase di
espansione intensa, con una breve crisi. Si sono affermati poi i settori giovani, come l’acciaio, la chimica e l’elettricità,
soprattutto nelle nuove potenze industriali come la Germania e gli USA. Il livello dei salari e del reddito pro-capite
aumentò, provocando così l’allargamento del mercato. La domanda assumeva gradualmente dimensioni di massa, si
venivano a creare così prodotti in serie, nuovi canali di vendita a domicilio e per corrispondenza, con nuove forme di
pagamento rateale. Le esigenze della produzione in serie furono soddisfatte dalle imprese che erano in grado di
accelerare i processi di meccanizzazione e di razionalizzazione produttiva, solo nel 1913 sarà introdotta nel mercato
la prima catena di montaggio, per le officine automobilistiche Ford, di Detroit. Così facendo si possono ridurre
notevolmente i tempi di lavoro, frammentando il processo produttivo in serie di piccole operazioni, ciascuna affidata
a un singolo operaio, che rendeva così il lavoro ripetitivo e spersonalizzato. Il cosiddetto “metodo Taylor” venne
realizzato grazie all’introduzione di nuove macchine, e si basava sullo studio sistematico del lavoro in fabbrica, sulla
rilevazione dei tempi standard necessari per compiere singolo operazioni e sulla fissazione, in base ad essi, di regole
e ritmi cui gli operai avrebbero dovuto uniformarsi, eliminando le pause ingiustificate e gli sprechi di tempo. Con
questo metodo si assicurarono notevoli progressi in termini di produttività e permisero alle imprese che le
adottarono di innalzare il livello delle retribuzioni. I taylorismo creò però anche grande ostilità, soprattutto per coloro
che si sentivano oppressi dalle macchine.

LE NUOVE STRATIFICAZIONI SOCIALI

La stratificazione sociale era quindi uniformata, e la classe operaia vedeva accentuarsi la distinzione tra manodopera
generica e lavoratori qualificati. L’espansione del settore dei servizi e la crescita degli apparati burocratici facevano
aumentare la consistenza di un ceto medio urbano che andava sempre più distinguendosi dagli strati superiori della
borghesia. La crescita dei lavoratori autonomi fu dovuta in parte alla moltiplicazione degli esercizi commerciali e in
parte all’emergere di nuove attività. La categoria di dipendenti pubblici si allargava di pari passo con l’aumento delle
competenze dello stato e delle amministrazioni locali in materia di sanità, istruzione, trasporti e altri servizi. Più
rapidamente cresceva la massa degli addetti al settore privato, ovvero coloro che non svolgevano mansioni manuali,
come tecnici e impiegati, che erano quindi chiamati “colletti bianchi”. Essi oltre che ad aumentare, venivano sempre
più retribuiti. Se le differenze economiche sembravano appianarsi, quelle sociali erano ancora molto nette, infatti i
ceti medi rifiutavano l’identificazione con le masse lavoratrici. Gli ideali operai erano la solidarietà, lo spirito di classe,
l’internazionalismo, mentre la borghesia puntava all’individualismo, alla rispettabilità, alla proprietà privata, al
risparmio, al senso di gerarchia e al patriottismo. Il “ceto di confine” era invece la piccola borghesia che aveva però
un ruolo importante nell’economia, in quanto era la principale destinataria di una serie di beni di consumo prodotti
dall’industria, ma anche a livello politico in quanto elettorato di massa.

ISTRUZIONE E INFORMAZIONE

Un ruolo fondamentale per i lineamenti della nuova società spettava alla scuola. Questa doveva essere infatti
un’opportunità, un servizio per la comunità al quale nessuno doveva essere escluso. Non era sufficiente l’impegno
della Chiesa, era necessario un intervento laico da parte dello stato e delle amministrazioni locali. La scolarizzazione
poteva quindi essere un modo per una pacifica promozione sociale, un mezzo per educare e ridurre la criminalità,
ma anche uno strumento di nazionalizzazione delle masse. A partire dagli anni ’70 in Europa, si ottenne l’istruzione
elementare obbligatoria e gratuita, per sviluppare quella media superiore e per portare l’insegnamento sotto il
controllo pubblico. Il processo di laicizzazione e di statizzazione del sistema scolastico ebbe risultati diversi. Un
effetto comune fu però l’aumento generalizzato della frequenza scolastica e una riduzione del tasso di alfabetismo.
Strettamente legato ai progressi dell’istruzione fu l’incremento nella diffusione della stampa quotidiana e periodica.
Aumentarono sia le pubblicazioni che i lettori, si allargava così la presenza di coloro che contribuivano all’opinione
pubblica, i cittadini potevano così accedere da soli alle informazione e farsi una loro idea, per poi far pesare le loro
opinioni sulle scelte di parlamenti e governi.

GLI ESERCITI DI MASSA

Un contributo notevole venne anche dalle riforme degli ordinamenti militari. Il principio su cui esse si basavano era
quello del servizio militare obbligatorio per la popolazione maschile, ossia la trasformazione degli eserciti a lunga
ferma, composti da professionisti. Due ostacoli erano però:

- A carattere economico: in quanto le risorse finanziarie degli stati non erano sufficienti a mantenere, armare
e addestrare per un congruo numero di anni tutti gli uomini giudicati abili: da qui la permanenza di criteri di
scelta arbitrari, basati sul privilegio economico.
- A carattere politico: come e per quanto tempo le classi dirigenti moderate avrebbero potuto negare il diritto
di voto a coloro ai quali lo stato chiedeva di mettere a repentaglio la propria vita? Inoltre tra i borghesi si
sviluppava una tendenza a riluttare la figura del soldato, vista la sua dura condizione: la truppa era quindi di
estrazione popolare, spesso contadina.

Si arrivò a una trasformazione dell’esercito perché:

- Carattere politico-militare: senza le masse non si poteva avere un esercito in grado di assolvere la funzione
deterrente, che ne faceva uno strumento indispensabile anche in tempo di pace.
- Grazie alle nuove industrie e alle nuove tecnologie era possibile armare eserciti interi.
- Grazie alle ferrovie gli spostamenti erano più veloci.

Nacquero, grazie anche all’interesse del governo, veri e propri eserciti di massa, che saranno appunti i futuri
protagonisti della prima guerra mondiale.

SUFFRAGIO UNIVERSALE, PARTITI DI MASSA, SINDACATI

Società di massa: questo termine spesso è stato associato a cose negative. Si può affermare che, in Europa, tra la fine
dell’800 e l’inizio del ‘900, il cammino verso la società di massa si accompagnò alla tendenza costante verso una più
larga partecipazione alla vita politica. Segno più evidente di questa tendenza fu l’estensione del diritto di voto. Nel
1890 il suffragio universale maschile era praticato solo in Francia, Germania e Svizzera. In Italia, seppure con molte
limitazioni, si ottenne solo nel 1912. Con l’allargamento del voto, cambiarono fin da subito le forme organizzative e i
meccanismi della vita politica, i conservatori soprattutto, dovettero scovare nuovi modi per trovare il consenso
popolare. Si affermò un nuovo modello di partito: quello proposto per la prima volta dai socialisti, basato
sull’inquadramento di larghi strati di popolazione attraverso una struttura permanente, articolata in organizzazioni
locali e facente capo a un unico centro dirigente. Rapida fu in seguito la crescita di organizzazioni sindacali. I
sindacati, fondati sull’esempio delle Trade Unions inglesi, erano organi nazionali. Tra le più importanti ci fu la
Confederazione generale del lavoro (Cgl), costituita in Italia nel 1906. Grande diffusione ebbero anche le associazioni
cattoliche e le organizzazioni a guida liberale o conservatrice.

LA QUESTIONE FEMMINILE

In questo periodo non mancò la discussione per la “questione femminile”. Il problema dell’inferiorità economica,
politica e giuridica della donne era rimasto, con poche eccezioni, estraneo, sconosciuto. I primi movimenti nacquero
alla fine del ‘700 nella Francia giacobina e nell’Inghilterra della rivoluzione industriale. Alla fine dell’800 le donne
erano escluse in ogni sfera, dall’elettorato passivo a quello attivo, senza poter accedere agli studi universitari e alle
professioni. Grazie alle agitazioni sociali, ad esperienze collettive, le donne lavoratrici ebbero una maggiore
coscienza dei loro diritti e delle loro rivendicazioni verso la società. Non in tutti i paesi questo movimento ebbe
successo con in Inghilterra dove, le suffragette, con dimostrazioni in piazza, merce sul Parlamento e scioperi della
fame e attentati ad edifici pubblici riuscirono a vincere la loro battaglia. Nel 1918, le donne inglesi poterono
finalmente votare. Molti però avevano paura di questa nuova concessione, in quanto temevano che, almeno
all’inizio, le donne appoggiassero la Chiesa. Inoltre altri dirigenti ritenevano ancora che il ruolo delle donne era a
casa. Quasi dappertutto i movimenti femminili furono lasciati da soli a combattere le loro battaglie. Restavano infatti
fortemente discriminate sui luoghi di lavoro.

RIFORME E LEGISLAZIONE SOCIALE

Solo perché si ottenne l’estensione del suffragio universale, non vuol dire che le forze progressiste ottennero la
maggioranza. Furono istituiti sistemi di assicurazione contro gli infortuni e di previdenza per la vecchiaia, in alcuni
casi anche sussidi per i disoccupati. Si stabilirono controlli sulla sicurezza e sull’igiene anche se spesso poco
attendibili. Fu proibito ai bambini in età scolare di lavorare, furono introdotte limitazioni agli orari dei operai e fu
anche istituito il diritto di riposo settimanale. All’azione dei governi si affiancò poi quella delle amministrazioni locali:
importante fu infatti l’estensione dei servizi pubblici (acqua, gas) ad opera degli stessi comuni. La loro iniziativa
coinvolse ben presto anche campi come l’istruzione e l’edilizia popolare. Vennero introdotte nuove forme di
imposizione fiscale: si aumentarono le imposte dirette (sul reddito o sul patrimonio di persone e società) mentre si
diminuirono quelle indirette (quelle che colpiscono i consumi e le attività economiche, gravavano soprattutto sui ceti
popolari). Venne infine introdotto il principio di progressività: si aumentavano delle aliquote fiscali in relazione
all’aumento della base disponibile.

I PARTITI SOCIALISTI E LA SECONDA INTERNAZIONALE

Inizialmente i movimenti socialisti erano minoranze isolate, che puntavano allo sconvolgimento rivoluzionario. Verso
la fine dell’800 invece, iniziarono a mostrarsi come gruppo organizzato, grazie alla nascita di partiti socialisti infatti, si
iniziò a vedere la situazione da una prospettiva nazionale. Furono proprio i partiti socialisti a proporre l’idea di
“partito di massa”. Il primo a nascere fu il socialdemocratico tedesco, nel 1875, ma ancora molti paesi non vedevano
di buon occhio il nuovo partito, soprattutto quelli in cui i movimenti operai erano ancora molto legati alla tradizione.
In Gran Bretagna, unico paese dove era attivo il movimento sindacale, i gruppi marxisti non riuscirono a imporsi.
Acquisì sempre più successo invece, la Società fabiana, formata soprattutto da intellettuali, che appoggiavano una
strategia gradualista e temporeggiatrice. Furono gli stessi dirigenti delle Trade Unions a prendere l’iniziativa di creare
una formazione politica che fosse espressione dell’intero movimento operaio. Nel 1906, nacque così il Partito
laburista, che era composto dalle organizzazioni sindacali ed era privo di una caratterizzazione ideologica ben
definita. Tutti i partiti operai europei si proponevano il superamento del sistema capitalistico e la gestione sociale
dell’economia, tutti si ispiravano a ideali internazionalisti e pacifisti, tutti tendevano a crearsi una base di massa tra i
lavoratori e partecipare attivamente alla lotta politica nel proprio paese, tutti facevano riferimento a
un’organizzazione socialista internazionale, erede di quella che si era dissolta negli anni ’70. La nascita della Seconda
Internazionale risale al 1889, quando i rappresentati dei partiti, per lo più marxisti, si riunirono a Parigi e
approvarono alcune importanti deliberazioni, fra cui quella che fissava come obiettivo primario del movimento
operaio la giornata lavorativa di otto ore e proclamava a tale scopo una giornata mondiale di lotta per il primo
maggio di ogni anno. La ricostruzione della Seconda Internazionale fu sancita a Bruxelles, nel 1891. Essa era più che
altro una federazione di partiti nazionali autonomi e sovrani. Aveva un’importante funzione di coordinamento e i
suoi congressi rappresentavano un importante luogo di incontro per la discussione di problemi che riguardavano
tutti. In questi anni, il movimento operaio ebbe una dottrina: il marxismo, riadattato alle necessità dell’Europa. Tra gli
obiettivi:

- Partecipazione alle elezioni


- Lotte per democrazia e riforme
A lungo andare però, vennero a crearsi due schieramenti: da un lato la fazione che era consapevole dei cambiamenti
avvenuti in campo politico e sociale e voleva valorizzare l’aspetto democratico-riformistico dell’azione socialista,
dall’altro invece c’era chi voleva riprendere l’impostazione originaria rivoluzionaria del marxismo, e quindi bloccare
le tentazioni legalitarie e parlamentaristiche. Secondo Bernstein, il proletariato non si impoveriva, ma migliorava
lentamente la sua condizione, il capitalismo rivelava una insospettita capacità di modificarsi e superare la crisi,
mentre lo stato borghese diventava sempre più democratico. La società socialista non poteva nascere da una rottura
rivoluzionaria, ma tra una trasformazione graduale realizzata grazie al lavoro quotidiano delle organizzazioni operaie
e soprattutto del movimento sindacale. Secondo Lenin invece, il compito doveva essere assegnato a una ristretta
élite, in grado di essere una guida intellettuale e di avanguardia per le classi lavoratrici. Quando nel 1903, a Londra,
le tesi di Lenin ottennero una seppur ristretta maggioranza, il partito si spaccò in due correnti: quella bolscevica
(maggioritaria) guidata da Lenin e quella menscevica (minoritaria) guidata da Martov. In Francia ebbe poi origine una
dissidenza di sinistra, che prese il nome di sindacalismo rivoluzionario. I sindacati francesi si muovevano però su una
linea anarchico rivoluzionaria, lontana dai principi della Seconda Internazionale. Qui emerge la figura di Sorel, che
esaltò la funzione liberatoria della violenza proletaria e insistette sull’importanza dello sciopero generale come mito
capace di trascinare gli operai alla lotta. Il sindacalismo rivoluzionario non si instaurò nei partiti socialisti, ma ebbe
una grossa influenza su molti intellettuali.

I CATTOLICI E LA “RERUM NOVARUM”

La Chiesa di Roma e il mondo cattolico reagirono in modo articolato all’avanzata dell’industrialismo: rifiutarono la
tradizione della società industriale, condannarono sia l’individualismo borghese che le ideologie socialiste e vi fu
anche il tentativo di lanciare una missione della Chiesa. Per quanto riguarda le pratiche religiose ci fu un declino dei
culti e delle devozioni locali, ma al contrario si svilupparono nuove pratiche più individuali, e allo stesso tempo
meglio controllate dalla gerarchia della Chiesa. A livello sociale, la Chiesa si trovò un po’ spiazzata, ma fu anche
l’unica in grado di porre rimedio ai fenomeni di disgregazione sociale, per farlo istituì le parrocchie, le associazioni
caritative e i movimenti di azione cattolica. L’esistenza di queste strutture permise ai cattolici di impegnarsi di più, e
con un discreto successo nell’inquadramento dei lavoratori in organismi di massa. Leone XIII si mostrò più duttile,
infatti favorì il riavvicinamento tra cattolici e classe dirigente, incoraggiò la nascita di nuovi partiti, ma soprattutto
cercò di dare un nuovo aspetto alla Chiesa nell’ambito sociale. Nel maggio 1891 venne emanata da Leone XIII
l’enciclica “rerum novarum”, dedicata ai problemi della classe operaia. Ribadiva la condanna al socialismo,
riaffermava invece l’idea di concordia tra le classi. Gli operai avevano doveri quali la laboriosità, la frugalità e il
rispetto delle gerarchie, ma gli imprenditori dovevano retribuirli bene, rispettarne la dignità umana, non trattarli
come merce. Ma la parte più interessante riguardava però il movimento associativo dei lavoratori, si creavano infatti
società operaie e artigiane ispirate ai principi cristiani, al quale tutti i cittadini erano invitati a partecipare. Così
facendo si apriva la strada ai movimenti cattolici, anche se fu difficile mettere in atto questo piano, dato che anche i
sindacati cattolici si svilupparono sulla base delle classi, che però erano diverse e addirittura quasi incompatibili con
quelle dei sindacati socialisti. Verso la fine dell’800 venne a delinearsi soprattutto in Italia e in Francia, la democrazia
cristiana, una nuova tendenza politica che mirava a conciliare la dottrina cattolica con l’impegno sociale, non
tralasciando le prassi democratiche. La nascita di questo movimento può essere ricollegato alla nascita di una
riforma religiosa che prese il nome di modernismo, in quanto voleva riproporre la dottrina cristiana in chiave
moderna. Aveva quindi scopi simili a quelli che la democrazia cristiana aveva in ambito politico: conciliare
l’insegnamento della Chiesa, depurato dai rigidi dogmi, con progresso filosofico e scientifico, ma più in generale con
la civiltà moderna. Tutta questa tolleranza terminò non appena, nel 1903, salì al soglio pontificio papa Pio X, più
simile a Pio IX che a Leone XIII. Ai democratici-cristiani venne proibita ogni azione politica che non fosse dettata dalla
Chiesa stessa, il modernismo fu addirittura colpito da una scomunica.

IL NUOVO NAZIONALISMO

Nell’Europa dell’800, la nazione intesa come insieme di valori politici e culturali aveva un ruolo molto importante. Tra
il 1815 e il 1870, il nazionalismo era stato motivo di ispirazione per i movimenti di liberazione che combattevano
contro l’ordine costituito. Spesso il concetto venne però visto come sinonimo di lotta al socialismo, motivo per cui si
legò sempre più spesso alle correnti di destra di matrice per nulla illuministica o democratica. Il successo del nuovo
nazionalismo è strettamente legato agli strumenti tipici della società di massa (stampa, comizi) e a tecniche di lotta
prese a prestito della tradizione sovversiva. In Inghilterra non assunse un tono polemico contro le istituzioni liberali,
mentre in Francia ebbe diverse origini, che portarono alla polemica contro la classe dirigente moderato-
repubblicana, considerata mediocre e corrotta. Il nazionalismo infatti non era orientato tanto verso la politica estera,
quanto verso i cosiddetti nemici interni: protestanti, immigrati ma soprattutto ebrei, spesso collegati all’affarismo e
alla speculazione bancaria. Una forte componente antiebraica, unita a un’impostazione popolareggiante ( + aggiunta
di vena antiborghese) fu presente anche nei movimenti nazionalisti dei paesi di lingua tedesca, dove l’antisemitismo
si appoggiava su presupposti apertamente razzisti. Questo movimento ebbe origine nei movimenti pangermanisti di
Wagner, che prevedevano la riunificazione di tutti gli stati di lingua tedesca sotto uno solo. Movimento opposto, ma
al tempo stesso simile a quello di Wagner fu il panslavismo, nato in Russia a fine ‘800, che si basava su ideologie
tradizionaliste e leggermente intrise di antisemitismo. Aveva profonde origini popolari e nell’Impero russo era
addirittura sancito da leggi discriminatorie e ufficialmente tollerato, spesso incoraggiato proprio dalle autorità. Da
qui ebbero origine i pogrom, ossia delle periodiche e impunite violenze contro i beni e le persone ebree. A fine ‘800
nascerà invece, grazie allo scrittore ebreo Herzl, il sionismo, un movimento che si proponeva di restituire un’identità
nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo, affinché si potesse istituire un nuovo stato unico, in
Palestina. Era un movimento complesso, a livello religioso, politico e sociale, che fece molta fatica ad affermarsi
(affermazione avvenuta solo all’inizio del ‘900).

LA CRISI DEL POSITIVISMO

Il periodo compreso tra la fine dell’800 e la prima guerra mondiale è un’epoca di cambiamenti. Il positivismo si
dimostrò inadatto a spiegare questi mutamenti, economici, sociali, ma soprattutto politici, fu inoltre inadatto per una
visione del mondo legata all’idea di un progresso necessario e costante. Anche sul piano filosofico ci furono
cambiamenti, come la nascita di nuovi correnti irrazionalistiche e vitalistiche, diverse ma riconducibili a principi di
volontà o slancio vitale. Tra questi si fece strada Nietzsche, che alla concezione lineare del tempo oppose quella
ciclica “dell’eterno ritorno”, alle filosofie borghesi contrappose l’idea dell’uomo nuovo “superuomo”, nato dalle
ceneri della vecchia civiltà e capace di esprimere la propria individualità al di fuori della morale corrente. Anche in
Italia all’inizio del ‘900 ci fu una rinascita idealistica, da Croce a Gentile. Croce partì da una critica del materialismo
marxista, e giunge a elaborare una teoria che risolveva tutta la realtà nella storia, Gentile invece elaborò l’attualismo,
che riconduceva tutta la realtà all’”atto pesante del soggetto”. In Inghilterra e USA si diffuse invece la corrente del
pragmatismo, i cui rappresentati europei più noti sono James e Dewey. Per questa corrente era determinante il
rapporto di reciproca verifica tra teoria e pratica e tra individuo e natura, rivalutava quindi le scienze pratiche come
la psicologia e la pedagogia. Anche gli sviluppi delle “scienze esatte”, come la fisica, subirono progressi come per la
teoria della relatività di Einstein. Altri importanti cambiamenti sono dovuti alla teoria psicanalitica di Freud, che
portava alla scoperta dell’analisi (vedi pag. 188 per approfondimenti). Un’ulteriore riflessione sulla relatività e sulla
soggettività della conoscenza ha permesso di studiare e rappresentare il fenomeno osservato in maniera diversa.
Ultimo cambiamento importante fu quello di Weber per quanto riguarda il metodo delle scienze sociali, che ha
segnato insieme a tutti gli altri un cambiamento in ambito politico. Decisiva fu anche la teoria della classe politica di
Mosca, che era però in netto contrasto con la dottrina democratica della sovranità popolare. Per lui il potere doveva
comunque restare nelle mani di una ristretta minoranza di politici di professione, motivo per cui crebbe la sfiducia e
lo scetticismo verso la politica, e per questo si mossero i primi passi verso una società di massa.

10. L’EUROPA TRA I DUE SECOLI


LE NUOVE ALLEANZE

A partire dal 1890, anno in cui Bismarck diede le sue dimissioni, gli equilibri cambiarono e si venne a creare un
assetto bipartitico fondato sulla contrapposizione di due blocchi di potenze. A mettere in crisi il vecchio sistema
furono principalmente:
- La scelta del nuovo imperatore tedesco Guglielmo II in favore di una linea più dinamica e aggressiva.
- La crescente difficoltà della Germania nel tenere uniti i suoi alleati, la Russia e l’Austria, che trovavano nei
Balcani un continuo motivo di scontro.

I successori di Bismarck decisero quindi di favorire l’alleanza con l’Austria, ritenendo che la Russia non si sarebbe mai
affiancata alla Francia repubblicana. Ma seppure molto diverse tra loro, queste due potenze avevano entrambe
bisogno di un alleato, per questo nel 1891 sottoscrissero un primo accordo franco-russo, che tre anni dopo divenne
una vera e propria alleanza militare. La Francia concedette alla Russia moltissimi prestiti affinché potesse avviare il
suo processo di industrializzazione. Se da un lato si veniva a meno alla decisione di isolamento francese presa da
Bismarck, dall’altro la Germania stava inasprendo i rapporti anche con la Gran Bretagna, dato che stava costruendo
una potente flotta in grado di sfidare quella indiscussa inglese. L’Inghilterra, temendo di perdere il suo posto di
superiorità navale, avviò una vera e propria corsa agli armamenti navali, processo che durò fino allo scoppio della
prima guerra mondiale. Inoltre la Gran Bretagna, per assicurarsi un alleato in più contro la Germania, decise di
stipulare l’Intesa cordiale con la Francia, un’alleanza che, anche se non a carattere militare, rappresentava una
sconfitta per la Germania. Quest’ultima aveva quindi un’alleanza solo con Austria e Italia, TRIPLICE ALLEANZA,
mentre Russia, Inghilterra e Francia diedero vita alla TRIPLICE INTESA, che aveva risorse nettamente maggiori.
Tendenze aggressive non erano poi estranee all’estero, soprattutto negli USA, che come tutti risentivano del clima
internazionale molto teso.

LA “BELLE EPOQUE” E LE SUE CONTRADDIZIONI

Vista la situazione che stava attraversando l’Europa, era inevitabile l’aumento delle spese militari e della spesa
sociale. Alle correnti militari si opponevano però quelle pacifiste, di origine orientale. Ci fu un sostanziale aumento
della partecipazione popolare nella vita politica, gli intellettuali erano sempre positivi, sia per lo slancio ottenuto
dall’economia, sia da un progresso materiale che non è trascurabile. Per questo motivo gli anni precedenti alla prima
guerra mondiale furono detti “bella epoque”, essa corrispondeva a un periodo di crescita per la società europea,
nonostante fosse attraversata da contrasti politici e sociali. Anche se ottenuti con la lotta e la violenza, i ceti popolari
riuscirono a ottenere dei miglioramenti.

LA FRANCIA TRA DEMOCRAZIA E REAZIONE

Negli ultimi anni del ‘900, la Francia compì grossi progressi in campo democratico. Ciò nonostante restavano vive le
forme repubblicane e quelle di nazionalismo esasperato, le quali si riunirono in forze moderate, mettendo
seriamente a rischio la Terza Repubblica. Caso Dreyfus: ufficiale ebreo condannato ingiustamente ai lavori forzati
perché accusato di aver ceduto dei documenti riservati all’ambasciata tedesca. Lo scandalo non fu suscitato tanto
dall’errore giudiziario, quanto dal fatto che una volta scoperto le autorità abbiano proseguito con le loro accuse.
Questo non fece che dividere l’opinione pubblica francese: da una parte c’erano i socialisti, i radicali e una parte di
repubblicani moderati che si battevano perché venisse riconosciuta l’innocenza di Dreyfus, dall’altra invece c’erano
clericali, monarchici e nazionalisti di destra che volevano proseguire con l’accusa. Lo scontro si spostò anche sul
piano politico e, solo grazie alla decisione presa dal presidente della repubblica, Dreyfus fu liberato. In seguito, alle
elezione, vinsero i progressisti, che formarono una “coalizione repubblicana”, dotata anche di un esponente
socialista. Finalmente si ebbe una rivincita sulla destra: alcune associazioni clericali vennero chiuse, vennero epurati
gli alti gradi dell’esercito, riprese la battaglia contro le posizioni di potere ancora detenute dal clero cattolico, che
portò allo scioglimento di oltre cento congregazioni religiose e alla conseguente rottura tra Francia e Santa Sede.
Stato e Chiesa divennero ufficialmente separati, cosa che fece rafforzare i gruppi radicali cattolici. La Francia era
quindi molto avanti in quanto Stato laico, ma era indietro sul piano della legislazione e su quello dell’ordinamento
fiscale. Furono proposte importanti riforme sociali, che però non vennero mai approvate, motivo per cui ci furono
anche delle rivolte da parte della classe lavoratrice, per nulla soddisfatta della situazione. Lo spostamento a sinistra
del movimento sindacale portò alla rottura tra socialisti e radicali, e alla lunga ridiedero spazio alle correnti
repubblicano-moderate.

IMPERIALISMO E RIFORME IN GRAN BRETAGNA


Negli anni a cavallo tra i due secoli, l’Inghilterra fu governata dalla coalizione tra i conservatori e i liberali “unionisti”,
con Chamberlain, che fu definito il ministro per le Colonie. Furono varate leggi importanti:

- Per gli infortuni sul lavoro


- Per gli aumenti ai finanziamenti per le scuole elementari e medie
- Per i lavoratori disoccupati

A mettere però in crisi la politica di Chamberlain fu il progetto, voluto da una parte degli industriali, di introdurre il
protezionismo doganale, sotto forma di tariffa imperiale, sconvolgendo così la tradizione libero-scambista. Al
momento delle elezioni i liberali ebbero molto successo ed entrarono per la prima volta alla camera un gruppo di
laburisti. I governi liberali erano meno orientati alla lotte per la conquista di nuove colonie, preferendo invece
l’attuazione di riforme sociali: riduzione dell’orario a 8 ore per i minatori, istituzione di uffici di collocamento,
assicurazioni per la vecchiaia a totale carico dello stato. Il vero tentativo innovativo sta però nel tentare di sopperire
alle spese per le riforme con una politica fiscale fortemente progressiva, mirate a colpire soprattutto i grandi
patrimoni. Questa proposta di legge chiaramente non fu accettata dalla Camera dei Lords, che avevano una sorta di
diritto di veto per tradizione, anche se non era scritto da nessuna parte, tuttavia questo diritto non poteva essere
esercitato in campo finanziario, altrimenti ci sarebbe stato il blocco della macchina statale. Quando i Lords non
rispettarono le regole per il diritto di veto, scoppiò una guerra tra le due camere che portò i liberali a proporre un “
progetto di legge parlamentare”, che negava ai Lords il diritto di respingere le leggi di bilancio e lasciava loro, per
tutte le altre leggi, solo la facoltà di rinviarle due volte alla Camera dei Comuni. Dopo due anni di dure lotte, i Lords si
trovarono costretti a cedere. Oltre a questi problemi, c’erano anche le agitazioni mosse dalle suffragette e la tanto
discussa questione irlandese: fu proprio Gladstone ha proporre la Home Rule, affinché Irlanda e Ulster diventassero
autonomi, essa fu bocciata ma, in seguito a rivolte armate, venne accetta anche se dovette poi essere sospesa a
causa dello scoppio della guerra.

LA GERMANIA GUGLIELMINA

Dopo Bismarck, ogni speranza di un governo liberale andò perduta, l’imperatore infatti, dopo le prime volontà
democratiche, mostrò subito uno spirito autoritario. Nessuno dei suoi successori riuscì però a imporsi come faceva
lui sull’imperatore. Si mantenne la continuità degli equilibri di potere ma ci furono cambiamenti in fatto di politica
estera. La “Weltpolitik” permise di rinsaldare i rapporti tra la casta agraria e quella militare, e gli ambienti della
grande industria, che era sempre più dominata da cartelli e imprese giganti. Così facendo aumentarono però le
coscienze nazionaliste e imperialiste. Pur essendo un paese ricco di risorse naturali, non avendo a disposizione un
vasto impero coloniale, si ritrovava ad averne meno dell’Inghilterra o degli USA. Da qui il desiderio di espandersi,
anche se, dato che i confini erano appena stati definiti, significava guerra aperta. Durante l’impero di Guglielmo II
l’opposizione era costituita dalla socialdemocrazia, che restava tuttavia isolata anche se continuava ad aumentare il
numero dei suoi partecipanti. A lungo andare però, cambiarono un po’ le loro idee, e si ammorbidirono, in modo tale
da poter entrare finalmente nella vita politica del paese. Quella della socialdemocrazia nella Germania di Guglielmo II
fu considerata un’integrazione negativa, in quanto poteva portare a vantaggi materiali solo per le classi operaie (una
parte ristretta) e non alla classe dirigente.

I CONFLITTI DI NAZIONALITA’ IN AUSTRIA-UNGHERIA

Nel decennio precedente allo scoppio della guerra, l’Austria vide la sua situazione, economica e sociale, aggravarsi
notevolmente. Il paese era principalmente agricolo, con piccole zone urbanizzate. In questo periodo si svilupparono
però grandi partiti di massa, socialdemocratici e cristiano-sociali, che facevano riscontro soprattutto nelle regioni di
lingua tedesca dove il sistema politico era ormai immobile, e le strutture sociali erano sempre le stesse, legate alle
tradizioni contadine, dominate dalla Chiesa e dai grandi proprietari. Il principale motivo della crisi era però legato ai
contrasti nazionali. Mentre il nazionalismo rappresentava per la Germania un elemento di coesione, in Austri-
Ungheria le divisioni etniche, molto persistenti, non facevano che portare lo Stato a una disgregazione. La monarchia
asburgica aveva scelto la strada del compromesso con il gruppo nazionale. Fino alla fine del secolo XIX, lo stato riuscì
a tenere a bada la situazione grazie all’aristocrazia agraria, ma i movimenti nazionali erano in continua crescita: tutti
erano di per sé l’uno contro l’altro, ma erano accomunati dall’ostilità verso il centralismo imperiale e dalla tendenza
a radicalizzarsi, scivolando dal piano delle rivendicazioni autonomistiche a quello dell’indipendentismo. I più
irrequieti erano gli slavi, che nell’ultimo decennio dell’800 avevano dato vita al movimento dei giovani cechi, che si
batteva contro la politica di germanizzazione del governo di Vienna. Tendenze simili si svilupparono poi per gli slavi
del sud, serbi e croati, che erano soggetti al dominio ungherese. Persino il gruppo magiaro, considerato
“privilegiato”, insorse. In una situazione tale, il compito del potere centrale diventava molto complicato.

LA RUSSIA TRA INDUSTRIALIZZAZIONE E AUTOCRAZIA

Tra le potenze europee la Russia era l’unica che, alla fine dell’800, si reggeva ancora su sistema autocratico. Furono
per questo ridotti i poteri degli organi di autogoverno locale, principale punto di riferimento per la borghesia e per
l’aristocrazia. Fu rafforzato il controllo sulla giustizia e sull’istruzione. Fu intensificata l’opera di russificazione verso le
minoranze e si aggravava sempre di più la situazione degli ebrei. Mentre sul piano politico il paese era in stallo, cercò
di svilupparsi a livello industriale:

- Sviluppo di ferrovie
- Aumento delle misure protezionistiche e moltiplicazione degli investimenti pubblici per aiutare la produzione
locale
- Incoraggiamento dell’afflusso di capitali stranieri per la repressione dei conflitti sociali

Nonostante uno sviluppo industriale fosse evidente, la situazione sociale non cambiò. L’agricoltura era ancora molto
arretrata, la popolazione non era affatto contenta, e per questo nacquero scioperi, atti terroristici e proteste, che
nonostante furono represse con la forza, portarono correnti sempre più rivoluzionarie tra i ceti popolari. Mentre la
classe operaia subiva l’influenza del Partito socialdemocratico, tra i contadini riscuoteva successo anche il Partito
socialista rivoluzionario, nato dalla confluenza di gruppi anarchici e populisti, legati alle tradizioni russe.

LA RIVOLUZIONE RUSSA DEL 1905

Non avendo canali legali con cui esprimersi, la protesta russa sfociò in un moto rivoluzionario: il più ampio e
sanguinoso dalla Comune parigina. A far precipitare gli eventi fu la guerra col Giappone (1904), che provocò tra le
altre cose, un forte aumento dei prezzi. L’anno seguente, a Pietroburgo, quando un corteo di 150.000 persone
insorse verso il Palazzo d’Inverno, residenza dello zar, per presentare a sovrano una petizione, egli rispose col fuoco,
provocando numerose vittime. La brutale repressione della “domenica di sangue” scatenò in tutto il paese grandi
sommosse, che aumentavano man mano che si ottenevano esiti negativi in guerra. Il paese attraversò un periodo di
semi-anarchia, in cui nacquero nuovi organismi rivoluzionari, come i soviet, che tentavano di ristabilire il potere
laddove quello centrale aveva fallito. I soviet erano delle rappresentanze popolari elette sui posti di lavoro e
costituite da membri continuamente revocabili, secondo un principio di democrazia diretta. Il soviet più importante
era quello di Pietroburgo, che era quello con maggiore potere in Russia. A ottobre lo zar sembrava finalmente
disposto a cedere a qualche compromesso, ma nel frattempo le autorità incoraggiavano segretamente la formazione
di movimenti paramilitari di estrema destra (centurie nere) e organizzavano spedizioni punitive contro i rivoluzionari
e pogrom anti-ebraici. Terminata la guerra con il Giappone, e tornato l’esercito, il governo cercò di sopprimere con la
forza i rivoluzionari. Dopo lo zar convocò come d’accordo la Duma, un’assemblea rappresentativa che avrebbe
dovuto aprire il paese a nuove libertà. I bolscevichi credevano che al potere ci doveva essere la classe operaia e
quando questo non avvenne le aspettative furono nuovamente deluse. Dopo aver eletto la prima Duma, composta
da proprietari terrieri, non appena fu chiaro che rappresentava comunque un ostacolo per il ritorno al regime
assolutistico fu abolita. Stessa cosa successe alla seconda Duma, motivo per cui si vennero a creare alee estremiste.
Il governo optò quindi per creare una nuova assemblea costituita da membri dell’aristocrazia, a causa della quale la
Russia tornava ad essere un regime assolutista. Artefice principale di questa restaurazione fu Stolypin, il quale oltre a
reprimere le sommosse con la violenza, si rese conto che il consenso popolare era necessario, motivo per cui avviò
una riforma agraria. Con questa riforma i contadini potevano uscire dalle comunità di villaggio e diventare
proprietari della terra che coltivavano, così facendo poteva svilupparsi una piccola borghesia rurale, che fosse al
tempo stesso fattore di modernizzazione economica e di stabilità politica. La riforma riuscì solo in parte perché la
maggioranza dei nuovi piccoli proprietari non fece ingrossare il numero dei contadini ricchi o relativamente agiati
(kulaki), mentre alcuni non trovarono nel loro piccolo appezzamento il necessario per vivere. Tutto ciò provoca non
solo un inasprimento delle tensioni sociali, ma anche un esodo dalla campagne.

VERSO LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Nei decenni precedenti lo scoppio della grande guerra, ai vecchi motivi di contrasto, se ne aggiunsero di nuovi, primo
tra tutti quello tra Germania e Inghilterra in merito alla supremazia navale. Due furono i punti più delicati:

1. La situazione nei Balcani


2. Il Marocco, un terreno indipendente ma voluto dalla Francia e quindi motivo di scontro con la Gran Bretagna

Alla fine, grazie ai suoi alleati, a Francia ottenne il protettorato del Marocco, mentre la Germania ottenne in cambio
una parte del Congo francese. I pericoli maggiori venivano però dall’area balcanica, dove il pretesto fu dato dalla
rivoluzione dei giovani turchi (1908), un gruppo di intellettuali e ufficiali che erano stanchi della loro condizione di
arretratezza. Ottennero dal sultano una costituzione, con la quale speravano di modernizzare il paese, ma puntando
a un regime accentrato e autoritario quanto inefficiente, non risolsero nulla, se non di attirare l’attenzione
dell’Austria-Ungheria che pensò di poter approfittare di quella situazione di debolezza conquistando la Bosnia e
l’Erzegovina. Questo provocò l’ira della Serbia che voleva unificare gli slavi del Sud, e con questo anche della Russia.
Grazie all’appoggio della Germania, l’Austria riuscì però a farsi valere. Questo non solo portò alla nascita di nuove
tendenze nazionaliste, ma vide l’Italia estromessa ancora una volta dall’affare dei Balcani. Pochi anni dopo però,
l’Italia tornò alla ribalta e ottenne la Tripolitania da una guerra con la Turchia. Sostenuti dalla Russia, Serbia,
Montenegro, Grecia e Bulgaria si coalizzarono per sconfiggere l’Impero ottomano. Quando c’era però da spartire gli
stati, questa alleanza venne a meno. Il bilancio finale delle guerre balcaniche risultò sfavorevole per gli stati centrali.
La Serbia nel frattempo, aveva raddoppiato il suo territorio, cosa che preoccupava sempre di più l’Austria, che da
parte sua voleva chiudere i conti una volta per tutte.

11. IMPERIALISMO E RIVOLUZIONE NEI CONTINENTI EXTRAEUROPEI


IL RIDIMENSIONAMENTO DELL’EUROPA

Nel primo periodo del ‘900 si avvertirono i cambiamenti dei confini. A preoccupare gli stati europei, non era tanto
l’ascesa degli USA, quanto quella del Giappone, lanciato verso una politica imperiale, ma anche la Cina, sempre più
sofferente per la sua situazione di semi-soggezione. Nuove preoccupazioni erano poi date dallo sviluppo
demografico, il tasso di mortalità era in calo mentre la natalità in aumento. Ma d’altro canto proprio l’aumento
demografico in Oriente, spaventava moltissimo i Bianchi dell’occidente: il “pericolo giallo” (espressione coniata da
Guglielmo II) faceva sempre più paura.

LA GUERRA RUSSO-GIAPPONESE

Il contrasto tra Russia e Giappone prese avvio a fine ‘800 quando quest’ultimo, alla conquista della Cina, si vide a
scontrarsi con l’impero zarista. Dopo essersi assicurati l’appoggio della Gran Bretagna (1903), il Giappone propose un
accordo alla Russia per la spartizione della Manciuria, questa rifiutò e il Giappone mosse guerra. La flotta nipponica
sconfisse quella russa la quale, su consiglio degli USA, dovette accettare il trattato di Portsmouth, secondo il quale al
Giappone spettava la Manciuria, e si vedeva riconosciuto il protettorato sulla Corea. Fu in seguito a questa sconfitta
che la Russia si vide costretta ad affrontare la rivoluzione nel 1905. Per la prima volta un paese asiatico batteva una
potenza europea, mettendo così in discussione anche la supremazia dell’uomo bianco.

LA REPUBBLICA IN CINA

La vittoria del Giappone diede il via anche alle lotte nazionali e anticoloniali dei popoli asiatici, oltre che a movimenti
indipendentisti. Nell’India britannica nacque un’organizzazione formata per lo più da notabili e professionisti che
chiedevano una maggior partecipazione dell’elemento indigeno nella vita coloniale, questa associazione prese il
nome di Congresso nazionale indiano. Fu soprattutto la Cina a risentire dell’influsso del Giappone, sia come minaccia
sia come modello d’ispirazione. In Cina, dopo numerosi dissidi interni, si aprì la speranza per l’affermazione di un
movimento di ispirazione democratica. Un medico del Canton istituì la Lega di alleanza giurata che prevedeva un
programma basato sui tre principi del popolo:

1. Indipendenza nazionale
2. Democrazia rappresentativa
3. Benessere del popolo

Il medico riscosse un discreto successo, soprattutto tra intellettuali, ufficiali dell’esercito e nuclei del proletariato
urbano. Lo stato cercò, troppo tardi, di avviare un programma di modernizzazione, affidando le opere di istituzione
della ferrovia statale ad un’industria francese, cosa che provocò numerose proteste, che terminarono con la
sconfitta della dinastia in carica e la conseguente elezione del medico come presidente della Repubblica. Molti
furono però i problemi, che portarono all’elezione di un nuovo presidente, che sciolse il Parlamento, mandò in esilio
il medico e avviò una dittatura personale. Cominciò così una grande stagione di lotte civili terminata solo nel
1949 con l’istituzione del regime comunista.

IMPERIALISMO E RIFORME NEGLI STATI UNITI

Gli USA non facevano che collaudare la propria posizione di egemonia: evidente era lo sviluppo economico e
industriale (siderurgia, meccanica, petrolio). Per evitare il monopolio e il conseguente innalzamento dei prezzi, fu
istituita una legge che vietava accordi tra imprese operanti nello stesso settore. Il risultato fu però che le imprese
avviarono vere e proprie fusioni. Progressi furono fatti in agricoltura e allevamento: la rivoluzione agricola portò gli
USA a diventare il “granaio del mondo” (Midwest). Nonostante questo però non mancavano le tensioni sociali per il
rigido protezionismo, che portò alla nascita del partito populista, di estrazione contadina, che si ispirava a ideali
democratici ed egualitari. Notevole sviluppo ebbero anche le organizzazioni operaie, i sindacati e altri gruppi di
ispirazione socialista e rivoluzionaria (anche se più limitati). Una svolta in politica si ebbe con Roosevelt, esponente
dell’ala progressiste del Partito repubblicano, mostrò grande interesse nella difesa degli interessi americani nel
mondo, alternando la pressione economica alle minacce di interventi armati. La più importante occasione per
mostrare la sua tattica fu quella della questione del canale di Panama, infatti ottenne dalla Colombia il permesso per
creare l’istmo di Panama che mettesse in collegamento l’Oceano Pacifico con il Mare dei Caraibi. Ma al momento di
ratificare l’accordo Panama si rifiutò, motivo per cui Roosevelt avviò una sommossa che portò Panama a diventare
una repubblica indipendente sotto tutela americana. Per quanto riguarda la politica interna, Roosevelt si preoccupò
molto per i problemi sociali, sia per quanto riguarda la legislazione sociale, sia per i primi interventi dello Stato
nell’economia. Cercò inoltre di limitare i poteri dei grandi trusts per avvicinarsi alla piccola e media borghesia
urbana. Dopo che ebbe lasciato la presidenza, il suo partito si spaccò: l’ala più progressista che lo aveva appoggiato
non si riconobbe nella politica più conservatrice di Taft, e, per questa divisione, nelle seguenti elezioni vinse il
democratico Wilson, che da Roosevelt riprese l’impegno sociale anche se con modalità diverse. Infatti non rafforzò il
potere federale, ma in quanto democratico puntò all’autonomia di ogni singolo stato. Lottò contro i grandi monopoli
sull’abbassamento delle tariffe protettive, che furono considerevolmente ridotte. In politica estera si dimostrò più
rispettoso e nel 1917 portò per la prima volta il paese a combattere in un conflitto tra potenze europee.

L’AMERICA LATINA E LA RIVOLUZIONE MESSICANA

Nel trentennio precedente la prima guerra mondiale, i paesi dell’America Latina subirono molti progressi grazie
all’esportazione di materie prime e prodotti agricoli, ma anche grazie alla crescita dei centri urbani. L’agricoltura era
basata sulla monocoltura specializzata, che era quella richiesta dal mercato: persistevano il latifondo e le condizioni
semiservili. Assente quasi del tutto era l’industria manifatturiera, l’oligarchia terriera finiva col detenere il potere. Dal
punto di vista istituzionale, c’erano regimi parlamentari e repubblicani, che mascheravano un gran corruzione e una
totale esclusione delle masse dalla vita politica. Questa sorta di equilibrio fu però rotto dalle agitazioni in Argentina e
in Messico. In Argentina si ebbe un rivolgimento pacifico, originato dall’introduzione del suffragio universale, e dalla
successiva ascesa al potere dell’Unione radicale, espressione delle classi medie di orientamento progressista. In
Messico invece, la spinta alla democratizzazione portò a una lotta rivoluzionaria, tra le più lunghe e sanguinose. La
rivolta contro il regime semidittatoriale di Diaz, mossa da Madero, portò a un’insurrezione anche dei contadini. Diaz
fu costretto ad abbandonare il posto di Presidente che passò a Madero, non mancarono le spaccature sul fronte
rivoluzionario: i borghesi e moderati spingevano per una liberalizzazione delle istituzioni politiche, mentre i contadini
puntavano a una riforma agraria. Madero fu eliminato da un colpo di stato di Huerta, la guerra civile riprese con
numerosi colpi di stato finché il progressiste Obregon non aprì le strade per una costituzione laica e democratica,
aperta alle istanze di riforma sociale (1921).

12. L’ITALIA GIOLITTIANA


LA CRISI DI FINE SECOLO

Negli ultimi anni del XIX secolo l’Italia fu protagonista di una gravissima crisi: anche qui ci fu l’evoluzione del regime
liberale verso forme più avanzate di democrazia, e anche qui si affermarono le forze progressiste, non in maniera
definitiva ma in maniera sufficiente da far evolvere la vita del paese. La caduta di Crispi (1896) non segnò la fine di
governi che volevano restringere le libertà anzi, con Rudinì ci fu un vero e proprio ritorno alle forze conservatrici, le
quali erano divise circa le soluzioni da prendere in politica estera e sulle questioni coloniali. Diffusa era anche la
tendenza a ricomporre un fronte comune, in grado di fronteggiare le minacce portate dai socialisti, repubblicani e
clericali. Questa tendenza fu evidente perché ci fu una restrittiva dello Statuto, lasciando alle camere i solo compiti
legislativi, e anche una ripresa dei metodi di Crispi nel sopprimere ogni tipo di protesta sociale. L’apice si raggiunse in
primavera quando il prezzo del pane arrivò alle stelle e, di conseguenza, ci fu un’insurrezione popolare generale, che
fu repressa, ma che portò il governo a dichiarare lo stato di assedio. A Milano delle truppe arrivarono a sparare alla
folla, provocando centinaia di morti. Una volta ristabilito l’ordine, moderati e conservatori poterono spostare lo
scontro dalle piazze all’aula di Parlamento, dove il progetto di Rudinì fu bocciato e lui fu costretto a dimettersi. Il suo
successore, Pelloux, avviò dei provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e le stesse libertà di
stampa e di associazione, i gruppi di estrema sinistra (socialisti, repubblicani, radicali) risposero mettendo in pratica
la tecnica dell’ostruzionismo, che ostacolava il governo in quanto continuava a proporre accuse e prolungamenti
delle discussioni in grado di paralizzare l’azione della maggioranza. Pelloux, non riuscendo a venire a capo
dall’ostruzionismo, sciolse la camera ma, alle elezioni seguenti, perse moltissimi seggi, guadagnati invece dai
socialisti. Nonostante la maggioranza, il presidente optò per dimettersi e lasciare il posto a Saracco. Il re Umberto I
era cosciente del fallimento, ma appena un mese dopo fu vittima di un attentato da parte di un anarchico.

LA SVOLTA LIBERALE

Il governo di Saracco avviò una fase di distensione, possibile grazie al buon andamento dell’economia. Il nuovo re,
Vittorio Emanuele III si dimostrò molto favorevole alle forze progressiste, e quando Saracco fu costretto a dimettersi
per alcuni comportamenti incerti e contraddittori che aveva avuto durante un grande sciopero generale, fu chiamato
il leader della sinistra, Zanardelli, che affidò il ministero degli Interni a Giolitti. L’idea di Giolitti era molto
rivoluzionaria per quegli anni, infatti favoriva le organizzazioni operaie, senza reprimere le loro attività, anzi
favorendole. In quasi tre anni di vita il ministero Zanardelli-Giolitti fece delle riforme molto importanti:

- Furono estese le norme già varate da De Pretis sulle limitazioni del lavoro minorile e femminile nell’industria
- Fu migliorata la legislazione, introducendo assicurazioni per gli infortuni sul lavoro
- Fu costituito un Consiglio superiore del lavoro, organo consultivo per la legislazione sociale, al quale
partecipavano i funzionari governativi, rappresentanti espressi dalle categorie economiche, compresi
esponenti delle organizzazioni sindacali socialiste
- Fu approvata la legge che autorizzava i comuni all’esercizio diretto di servizi pubblici come trasporti ed
elettricità

Giolitti mantenne poi una linea di rigorosa neutralità nel settore privato, e le conseguenze furono subito evidenti. Le
organizzazioni operaie e contadine, cancellate o ridotte alla clandestinità nel ’98 si svilupparono molto rapidamente.
Al nord si costituirono le Camere del lavoro, mentre crescevano anche le organizzazioni di categoria, nacquero anche
le organizzazioni dei lavoratori agricoli (fenomeno tipicamente italiano costituito da braccianti). Nelle province
padane le leghe rosse si riunirono nella Federazione italiana dei lavoratori della terra (Federterra, 1901). I salari
aumentarono, gli orari di lavoro furono ridotti, vennero istituiti uffici di collocamento, il tutto seguito però da
un’impennata degli scioperi. Tutti questi sviluppi dovuti alla nuova politica liberale vanno però inseriti in un contesto
di sviluppo economico.

DECOLLO INDUSTRIALE E PROGRESSO CIVILE

Solo verso la fine del secolo XIX l’Italia conobbe un decollo industriale. La costruzione ferroviaria aveva permesso gli
sviluppi dei processi di commercializzazione dell’economia. La scelta protezionistica aveva reso possibile la nascita di
un’industria siderurgica, e infine il riordino del sistema bancario aveva permesso una struttura finanziaria solida ed
efficiente. Vennero inoltre istituite nel 1894 due nuovi istituti di credito, Banca commerciale e Credito italiano,
ispirati al modello della banca mista. Anche il settore tessile conobbe degli sviluppi, soprattutto nell’industria
cotoniera. Il settore agro-alimentare ebbe una rapida crescita dell’industria protetta, soprattutto dello zucchero.
Sviluppi importanti si ebbero anche nel settore chimico e meccanico: sia per il materiale ferroviario che per quello
degli armamenti. Nel 1899 a Torino venne fondata la Fiat, da Giovanni Agnelli, una delle prime aziende
automobilistiche. Da non tralasciare l’industria elettrica che come le altre permise di innalzare il tenore di vita. La
qualità di vita migliorò e questo fu evidente soprattutto nelle città, dove si svilupparono i servizi pubblici (come
l’illuminazione), gestite dai comuni. Le condizioni abitative erano ancora precarie, nonostante i miglioramenti
nell’edilizia. La diffusione dell’acqua corrente e lo sviluppo della rete fognaria permise l’abbassamento della
mortalità dovuto a malattie infettive. Anche la mortalità infantile era in calo, così come l’analfabetismo, ma ciò non
permise di migliorare di gran lunga il divario tra l’Italia e gli altri paesi, infatti il tasso di emigrazione verso l’estero era
ancora molto elevato. Questo fenomeno ebbe qualche aspetto positivo come l’allentamento della pressione
demografica, anche se di base rappresentava un impoverimento di forza lavoro e di energie intellettuali.

QUESTIONE MERIDIONALE

Ancora un volta gli effetti del progresso economico non si distribuirono uniformemente nel paese, ma si fecero
sentire soprattutto al Nord dove si sviluppò il triangolo industriale Torino, Milano, Genova. Ma il divario con il Sud
era ancora molto forte, pochi sono i progressi fatti in agricoltura e nel miglioramento delle tecniche agricole fatti al
Nord, al Sud erano praticamente impercettibili. I problemi principali del meridione erano: la disgregazione sociale,
l’analfabetismo, la mancanza di una classe dirigente, la subordinazione della piccola borghesia agli interessi della
grande proprietà terriera, il carattere personalistico della lotta politica e la forte disoccupazione.

I GOVERNI GIOLITTI E LE RIFORME

Nel 1903 Giolitti fu chiamato alla guida del governo, dopo le dimissioni di Zanardelli, e cercò di portare avanti
l’esperimento liberal-progressista, ma anche di allargarne le basi, offrendo un posto nella compagine governativa a
Turati. Il leader socialista rifiutò l’offerta, così Giolitti finì per costituire un governo più orientato verso il centro e
aperto ai conservatori. Questo perché Giolitti era sempre molto attento alla continuità degli equilibri anche se
questo voleva dire significare parti importanti del suo programma, come per esempio il caso della riforma fiscale, che
fu abbandonata nonostante fosse uno dei cardini del programma giolittiano. Nel 1904 furono invece introdotte leggi
importanti per il Mezzogiorno, “leggi speciali”: volte a incoraggiare la modernizzazione dell’agricoltura, lo sviluppo
industriale tramite stanziamenti e agevolazioni fiscali e creditizie. A queste leggi fu aggiunta la statalizzazione delle
ferrovie, progetto criticato sia dalla destra che dalla sinistra dato che prevedeva il divieto di scioperare per i ferrovieri
una volta diventati dipendenti pubblici. Viste le difficoltà incontrate, Giolitti si dimise con un pretesto e la sciò il
governo a Fortis, secondo una tattica che prevedeva di abbandonare il governo proprio nei momenti difficili, per
tornare una volta che questo si sarebbe stanziato. Fortis restò al governo meno di un anno, il tempo di portare a
termina la statalizzazione delle ferrovie, poi, per soli tre mesi, salì al governo Sonnino, il più grande antagonista di
Giolitti in campo liberale, che non aveva però una maggioranza solida. Nel 1906 Giolitti tornò al governo per tre anni
e mezzo: fu realizzata la cosiddetta conversione della rendita, ossia la riduzione del tasso di interesse versato dallo
Stato ai possessori di titoli del debito pubblico, un provvedimento che serviva a ridurre gli oneri gravanti sul bilancio
statale. L’operazione ebbe grande successo, alla quale però seguì un periodo di crisi delle banche, cisi che fu
superata in breve tempo grazie all’intervento della Banca d’Italia. Le lotte però si inasprirono: gli industriali si
riunirono in associazioni padronali e diedero vita alla Confederazione italiana dell’industria (Confindustria), anche se
a loro si contrapponevano le classi operaie. Nel 1909 Giolitti attuò una seconda ritirata strategica, lasciando il posto a
Sonnino, seguito da Luzzati che avviò un’importante riforma scolastica. Nel 1911 Giolitti tonava al governo con un
programma decisamente orientato a sinistra, il cui cardine era ancora una volta l’estensione del diritto di voto (tutti i
maggiorenni che sapessero leggere o scrivere o che avevano fatto servizio militare). Altro punto importante era
l’istituzione di un monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi sarebbero serviti a finanziare il fondo
per le pensioni di invalidità e vecchiaia per i lavoratori. Queste due leggi non solo vennero approvate ma riscossero
molto successo, anche se furono messe in ombra dalla decisione di procedere alla conquista della Libia.

IL GIOLITTISMO E I SUOI CRITICI

Quella di Giolitti è stata spesso paragonata alla dittatura parlamentare di De Pretis, anche se più aperta nei
contenuti. Giolitti infatti sostenne le forze più moderne della società italiana, il tentativo di condurre nell’orbita
liberale i gruppi e i movimenti che fino a poco fa erano considerati nemici delle istituzioni, la tendenza al allargare il
diritto dello stato nell’intervenire in questioni sociali. Il controllo del Parlamento era però ottenuto tramite vecchie
tattiche trasformiste e un intervento costante e spregiudicato nelle lotte elettorali, soprattutto nel Mezzogiorno. Per
i socialisti rivoluzionari e i cattolici democratici Giolitti era colpevole di corruzione, di attentare alle tradizioni
risorgimentali, venendo a patti con i nemici. A questa accuse vennero aggiunte quelle del sud, che lo accusava di
favorire l’economia nel nord, screditando quella al sud. Giolitti dovette quindi fare i conti sia con la crescente
impopolarità che con il distacco tra classe dirigente e opinione pubblica, fattori che, uniti alla questione della Libia lo
porteranno a lasciare il governo. Il fatto di procedere alla conquista della Libia venne infatti vista come una
concessione verso i conservatori, per bilanciare gli effetti del suffragio universale.

LA POLITICA ESTERA, IL NAZIONALISMO, LA GUERRA IN LIBIA

Nel 1898 si arrivò a un accordo con la Francia, che poneva fine alla guerra doganale, e fu seguita da un’equa
ripartizione dell’Africa: l’Italia ottenne la Libia, la Francia il Marocco. Questa cessione marocchina però, non piacque
ai tedeschi, e meno ancora all’Austria-Ungheria che rispose annettendo la Bosnia-Erzegovina. Il clima era molto
agitato, in Italia sorse anche un movimento nazionalista, l’Associazione nazionalista italiana, alla quale se ne
contrappose una imperialista e conservatrice. I nazionalisti trovarono alleati nel cattolico-moderati e in particolare
nel Banco di Roma, che da anni voleva penetrare in Libia. Lo sviluppo finale fu però dato dalla seconda crisi
marocchina, nel 1911, quando la Francia affermò la sua supremazia sul Marocco e l’Italia fece lo stesso con la Libia,
visto il precedente accordo. I turchi però erano molto forti e non disposti a cedere, ma alla fine l’Italia ottenne la
sovranità politica sulla Libia. A livello economico non fu un buon affare, i costi della guerra furono pesanti in tutti i
sensi e le ricchezze ricavate dal terreno non erano molte. I socialisti erano contrari a questa guerra, ma l’opinione
borghese sosteneva Giolitti.

RIFORMISTI E RIVOLUZIONARI

Il grande sviluppo delle organizzazioni operaie e contadine sembrò dimostrare come il movimento operaio fosse
l’unico capace di assicurare il consolidamento dei risultati appena ottenuti. Le tesi di Turati incontravano sempre più
oppositori, che facevano emergere i limiti del programma liberale di Giolitti. Nel congresso di Bologna del 1904, le
correnti rivoluzionarie riuscirono a strappare ai riformisti la guida del partito. In seguito fu inaugurato uno sciopero
generale nazionale, il primo, che diede vita sia a manifestazioni violente che a un vero trauma per la borghesia, non
mancarono le pressioni su Giolitti affinché intervenisse militarmente. Lui era però contrario, e aspettò che si
esaurisse da sola, per mettere poi in luce i suoi difetti, ovvero una distribuzione territoriale squilibrata, la mancanza
di coordinamento tra le forze organizzatrici locali, l’assenza di un organo sindacale centrale capace di guidare le
agitazioni. Per questo nel 1906 nacque la Confederazione generale del lavoro (Cgl), controllata da riformisti come il
segretario Rigola. La corrente più estremista, quella sindacalista-rivoluzionaria, fu progressivamente emarginata. I
riformisti assunsero il controllo del partito, ma ebbero anche le prime divisioni interne. Si creò una tendenza
revisionista, che puntava a una trasformazione del Psi in un partito del lavoro privo di connotazioni ideologiche
troppo nette e disponibile a collaborare con le forze democratico-liberali. Nel 1912, nel Congresso di Reggio Emilia, i
rivoluzionari riuscirono a imporre l’espulsione dal Psi dei riformisti di destra, che diedero vita al Partito socialista
riformista italiano. I riformisti rimasti furono ridotti in minoranza e la guida del partito tornò nelle mani degli
intransigenti, fra i quali emerse Mussolini, il quale divenne direttore dell’Avanti e portò nella propaganda socialista
uno stile nuovo, basato sull’appello diretto alle masse e sul ricorso a formule agitatorie prese dal sindacalismo
rivoluzionario.

DEMOCRATICI CRISTIANI E CLERICO-MODERATI

Anche il movimento cattolico, nell’età giolittiana, subì delle trasformazioni: primo tra tutti fu l’affermazione del
movimento democratico-cristiano, il cui leader era Murri. Avevano un’intensa attività organizzativa, fondarono
riviste e circoli politici. Se tollerato da Leone XIII, questo movimento fu ostacolato da Pio X, che non esitò a
scioglierla, creando al suo posto tre organizzazioni:

1. Unione popolare
2. Unione economico-sociale
3. Unione elettorale

Esse saranno riunite da un organo di coordinamento chiamato Direzione generale dell’associazione cattolica, motivo
per cui Murri fu sconfessato. Queste associazioni avevano l’appoggio di coltivatori, piccoli proprietari e mezzadri. In
Sicilia il movimento si sviluppò grazie a Sturzo. Il papa e i vescovi erano molto preoccupati per le tendenze clerico-
moderate, mentre Giolitti vedeva in questo atteggiamento nuovi alleati. La linea clerico-moderata vinse le elezioni
del 1913 quando Gentiloni invitò i militanti ad appoggiare quei liberali che professavano di tutelare l’insegnamento
privato, l’opposizione al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche (erano le prime elezioni a
suffragio universale maschile). Il “patto Gentiloni” rappresentò una battuta di arresto, per questo fortemente
criticato dei democratici-cristiani. Con queste elezioni però, i cristiani mostravano per la prima volta la loro influenza
sulla classe dirigente.

LA CRISI DEL SISTEMA GIOLITTIANO

A parte il “patto Gentiloni”, l’allargamento del suffragio non ebbe risultati sconvolgenti. I liberali conservavano infatti
un’ampia maggioranza, ma nel 1914 Giolitti consegnò le dimissioni per lascia il posto a Salandra, un pugliese liberale
di destra. La situazione era molto cambiata in 5 anni: la situazione in Libia aveva inasprito i contrasti politici, la
situazione economica era peggiorata, alterando quelli sociali. Lo scontro tra una destra conservatrice, rafforzata dai
clerico-moderati e nazionalisti, e una sinistra in cui le correnti rivoluzionarie prendevano il sopravvento su quelle
riformiste e gradualiste. Un sintomo fu la settimana rossa del giugno 1914, in cui la morte di tre dimostranti, in uno
scontro con la forza pubblica durante una manifestazione antimilitarista provocò un’ondata di scioperi. Guidata da
anarchici e repubblicani, ma appoggiata dai socialisti rivoluzionari e dall’Avanti di Mussolini, assunse un carattere
insurrezionale. Priva di sbocchi concreti e non appoggiata dalla Cgl, si esaurì nel giro di pochi giorni. Come risultato si
rafforzarono le forze conservatrici nella classe dirigente. Gli echi della settimana rossa non si spensero nemmeno con
la grande guerra che portò il paese a una svolta irreversibile, dove venne alla luce la politica debole di Giolitti, che
anche con i suoi successi si mostrò alla fine inadeguata alla nascente società di massa.

13. LA PRIMA GUERRA MONDIALE


DALL’ATTENTATO DI SARAJEVO ALLA GUERRA EUROPEA

Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco uccise l’erede al trono austriaco, Francesco Ferdinando e sua moglie,
mentre attraversavano la città di Sarajevo (Bosnia). L’attentatore faceva parte di un’associazione irredentista con
base in Serbia. Fu proprio il pretesto che mise in moto una catena di reazioni a livello internazionale, che sfoceranno
nella grande guerra. Nell’Europa del 1914 c’erano tutte le premesse per una guerra: rapporti tesi tra le grandi
potenze, divisione in blocchi contrapposti, corsa agli armamenti, spinte belliciste all’interno dei singolo paesi.
L’Austria compì la prima mossa inviando alla Serbia un ultimatum molto duro, la quale però, essendosi assicurata
l’appoggio della Russia, accettò solo in parte questo accordo, rifiutando soprattutto di tenere funzionari austriaci sul
suo territorio per svolgere le indagini sull’attentato, cosa che fece arrabbiare l’Austria che dichiarò guerra alla Serbia.
Subito il paese ordinò la mobilitazione delle forze armate, una vera e propria premessa di guerra, le quali però
vennero estese, per volere dei russi, fino al governo occidentale. Questo preoccupava molto la Germania, che inviò a
sua volta un ultimatum alla Russia, obbligandola a rinunciare. Questa rifiutò e la Germania le dichiarò guerra. Le
Francia, alleata della Russia, mobilitò le sue forze armate, ricevette per questo un ultimatum
dalla Germania e, dopo averlo rifiutato, una conseguente dichiarazione di guerra. Fu quindi la
Germania a far degenerare la situazione, principalmente perché soffriva da tempo di un
complesso accerchiamento, sentendosi quindi limitata a livello internazionale. La strategia tedesca consisteva
nell’attacco rapido e a sorpresa, che aveva già previsto un attacco su due fronti e che aveva già elaborato un piano.
Avrebbe attaccato prima a Francia per poi concentrare tutte le sue forze contro la Russia, ma ciò implicava un rapido
attacco da parte della Francia, che avrebbe portato la Germania ad attaccare passando tramite il Belgio, anche se era
di fatto neutrale. Quest’invasione di territorio sconvolse molto l’opinione pubblica, soprattutto quella britannica, sia
perché non voleva che la Germania si rafforzasse, sia perché non voleva che venisse violata la volontà di un paese
che si affacciava sulle coste della Manica. La Gran Bretagna dichiarò così guerra alla Germania, sconvolgendone i
piani. Tutti i paesi avevano sottovalutato la portata di un tale conflitto, e le forze pacifiste interne ai paesi non erano
abbastanza numerose. Nemmeno i socialisti che puntavano alla pace e all’internazionalismo sapevano rifiutarsi
davanti a un clima di unione sacra.

DALLA GUERRA DI MOVIMENTO ALLA GUERRA DI USURA

Grazie alla circoscrizione obbligatoria e alle accresciute possibilità dei mezzi di trasporto, i paesi coinvolti riuscirono a
creare eserciti di grandi dimensioni in tempi relativamente brevi. La Gran Bretagna era la sola a non disporre di un
esercito di leva, ma ciò non la fermò. Molte erano le novità a livello tecnologico, prime tra tutte le mitragliatrici
automatiche. Con l’introduzione di nuovi armamenti fu possibile una guerra di movimento, come si erano già
immaginati i tedeschi che ottennero al principio dei grossi successi: si recarono lungo il corso della Marna dove
sconfissero i francesi, si recarono poi verso oriente, dove assestarono qualche duro colpo ai russi, che stavano per
cedere. Ma ecco i francesi, che prendono alla sprovvista i tedeschi, il cui piano fallì e si ritrovarono costretti ad
arretrare. In appena 4 mesi di guerra il numero dei morti, per non contare quello dei feriti, era altissimo. La guerra di
movimento raggiunse però una situazione di stallo, dando vita a una nuova fase della guerra, che nessuno si
aspettava: una guerra di logoramento, di usura, che vedeva le due schiere praticamente immobili, affrontarsi in
attacchi sterili quanto sanguinosi, alternati da lunghi periodi di stasi. Diventò qui importante la Gran Bretagna che,
insieme alla Russia, mostrava di avere moltissimi uomini, cosa ben più importante delle abilità militari mostrate nella
prima parte del combattimento. Molte potenze minori temevano però che, quando sarebbe stato il caso di ridividere
i confini, sarebbero state a loro volta escluse, o spartite, e per questo decisero di dare il loro contributo
intervenendo. In questo modo la guerra assunse dimensioni planetarie. Nell’agosto del 1914 fu la volta del Giappone
che, in quanto alleato della Gran Bretagna, dichiarò guerra alla Germania, con la speranza di approfittarsi dei territori
tedeschi in Estremo Oriente. Nello stesso anno, la Turchia, legata alla Germania con un accordo segreto, intervenne
in aiuto degli stati centrali. Poco dopo, nel maggio 1915, fu la volta dell’Italia, che entrava in guerra contro l’Austria-
Ungheria. A fianco degli imperi centrali intervenne la Bulgaria, mentre nel campo opposto il Portogallo, la Romania e
la Grecia. Decisivo fu l’intervento a favore dell’Intesa da parte degli Stati Uniti.

(TRIPLICE INTESA)FRANCIA, INGHILTERRA, RUSSIA + SERBIA, GIAPPONE, ITALIA, PORTOGALLO, ROMANIA, GRECIA,
STATI UNITI

GERMANIA, AUSTRIA-UNGHERIA, BULGARIA, TURCHIA

L’ITALIA DALLA NEUTRALITA’ ALL’INTERVENTO


La decisione dell’Italia di entrare in guerra fu molto contrastata, sia come decisione in quanto tale, sia perché si è
unita all’Intesa, avendo però preso in precedenza accordi con l’Austria-Ungheria. Quando il 2 agosto 1914 era
scoppiata la guerra, il governo di Salandra si definì neutrale. Questa decisione fu motivata dallo scopo difensivo della
Triplice Alleanza. Ben presto però, si vide la possibilità di portare finalmente a termine l’operazione risorgimentale di
unione dello stato, e per farlo era necessario schierarsi contro l’Austria. Portavoce di questa linea interventista
furono soprattutto i gruppi e partiti della sinistra democratica: repubblicani, custodi della tradizione garibaldina, i
radicali e i socialriformisti, fortemente legati alla Francia, senza contare le associazioni irredentiste. A questi si
aggiunsero poi esponenti delle alee più estremiste ed eretiche del movimento operaio. Anche i nazionalisti erano
convinti dell’entrata in guerra, ma per motivi differenti, infatti speravano che l’Italia potesse affermare la sua
vocazione di grande potenza imperialista. Più prudente e graduali fu invece l’intervento dei gruppi liberal-
conservatori. Salandra e Sonnino erano però molto preoccupati, soprattutto della possibile sconfitta. L’ala più
consistente dello schieramento liberale si era però schierata dalla parte di Giolitti, ovvero quella neutralista. Per lui
infatti, non solo l’Italia non era pronta a una guerra di logoramento, ma avrebbe addirittura potuto ricevere dagli
stati centrali dei territori come riconoscimento per la sua neutralità. Contrari alla guerra erano sia il mondo cattolico,
che il Psi e Cgl, unica defezione fu quella dell’Avanti di Mussolini, che per questo motivo fu espulso dal partito e
dovette creare un nuovo giornale, “Il Popolo d’Italia”. Anche se la maggioranza votava per rimanere neutrali, questi
schieramenti non erano omogenei, mentre il fronte interventista era unito sia dal fatto di poter finalmente unificare
il paese, sia dal mettere fine al potere di Giolitti. Ma ciò che permise di decidere per la guerra fu l’atteggiamento del
capo del governo, del ministro degli Esteri e del re. Salandra e Sonnino avviarono accordi segreti con l’Intesa,
stipularono infatti il patto di Londra che, in caso di vittoria, assicurava all’Italia, il Trentino, il Sud Tirolo, la Venezia
Giulia e l’intera penisola istriana. Restava quindi da ottenere l’appoggio della Camera, ma quando venne fuori questo
accordo di cui Giolitti non sapeva nulla, fu chiesto a Salandra di dimettersi. Ma il re stesso rifiutò queste dimissioni,
mostrandosi quindi a favore del suo progetto, così come lo erano tutti i manifestanti che scendevano in piazza. La
Camera alla fine cedette, nonostante i voti contrari dei socialisti, e il 23 maggio entrò in guerra.

LA GRANDE STRAGE (1915-16)

Tutti pensavano che sarebbe stata una guerra “lampo”, ma ben presto videro le loro previsioni fallire. Per quanto
riguarda il conflitto con l’Austria-Ungheria, ebbe 4 sanguinose offensive, presso il fiume Isonzo, dove gli austriaci
erano in netta minoranza. Molti furono i morti, così come lo erano quelli sul fronte francese. I tedeschi riuscirono a
battere i russi e poi la Serbia, quando fu la volta della Francia avviarono una lunghissima guerra, presso Verdun, il cui
scopo non era raggiungere l’obiettivo ma dissanguare i francesi che, dal canto loro, riuscirono a resistere fino
all’arrivo degli inglesi, che organizzarono una controffensiva sul fiume Somme, che si trasformò in una vera e propria
carneficina. Nel frattempo l’esercitò austriaco colse di sorpresa quello italiano, che però riuscì ad arrestarli ad Asiago;
Salandra fu costretto a dimettersi. Furono combattute altre 5 sanguinose battaglie presso il fiume Isonzo, che non
impedirono ai russi di attaccare nuovamente sul fronte orientale, con l’aiuto della Romania che, però, fece la stessa
fine della Serbia: sconfitta e privata delle sue risorse. La vita nelle trincee proseguiva lentamente, erano molto
rischiosa, monotona, in quanto poteva restare inattivi per settimane. Le condizioni igieniche erano pessime, erano
esposti alle intemperie e ai bombardamenti, uscivano solo per perlustrare la zona di notte. Gli attacchi, che
iniziavano già dalle prime ore del mattino, fecero passare in fretta il grande entusiasmo patriottico iniziale.
Nell’esercito c’erano due atteggiamenti diversi: quello fedele e patriottico degli ufficiali di complemento, e quello
poco motivato delle truppe. Gran parte dei soldati semplici non sapeva nemmeno perché combatteva. Le truppe
d’assalto (= arditi italiani) avevano il ruolo più pericoloso, obbligati a combattere in ogni caso perché c’erano gravi
punizioni per i disertori. Molti puntavano all’autolesionismo per poter lasciare il campo, altri a ribellioni collettive,
scioperi militari che crebbero, raggiungendo l’apice nel 1917.

LA NUOVA TECNOLOGIA MILITARE

Questa guerra fu senza dubbio anche la guerra delle nuove tecnologie militari, dettate sia dal progresso scientifico,
che da quello economico. Vennero introdotte le nuove armi chimiche, come i gas che erano estremamente letali. La
guerra stimolò anche settori quali l’aeronautica e la radiofonia. Il perfezionamento delle telecomunicazioni permise
infatti di migliorare il coordinamento dei movimenti; senza contare lo sviluppo dei mezzi motorizzati, che consentiva
il rapido spostamento di un gran numero di soldati dalle retrovie al fronte. L’aviazione ebbe sviluppi molto
importanti anche se, non sentendosi ancora del tutto sicuri su questi nuovi mezzi, si preferiva usare gli aerei solo per
perlustrazioni, e non direttamente in battaglia. Lo stesso valeva per il carro armato, il cui uso era all’inizio limitato
alle sole strade. Scoperta importante fu quella del sottomarino che permise hai tedeschi di affondare le navi nemiche
e anche quelle neutrali che portavano rifornimenti all’Intesa. Ma quando un sottomarino tedesco affondò la
Lusitania, una nave britannica con a bordo moltissimi civili americani, gli Stati Uniti si sentirono chiamati in causa e
obbligarono i tedeschi a sospendere l’attacco con i sottomarini.

LA MOBILITAZIONE TOTALE E IL “FRONTE INTERNO”

Durante il primo conflitto, i civili non ne restarono esclusi: caso limite fu quello degli armeni in Turchia, vittime di
massacri e persecuzioni perché sospettati di infedeltà verso lo stato, oltre un milione di loro furono deportati e
sterminati. Grossi cambiamenti investirono il settore industriale, che doveva passare di continuo forniture belliche.
Tutto ciò impose una riorganizzazione dell’apparato produttivo e una continua dilatazione dell’intervento statale.
Interi settori dell’industria finirono sotto il dominio dello stato per potere assicurare materie prime ai paesi in guerra.
La manodopera fu sottoposta a disciplina militare o semi-militare. Anche la produzione agricola mutò, dato che c’era
il razionamento dei beni di consumo di prima necessità. In Germania si arrivò addirittura a parlare di socialismo di
guerra. Ovunque il potere esecutivo si rafforzò a spese degli organi rappresentativi, poco adatti allo stato di guerra.
La vita sociale così come quella politica era in breve sottoposta al pieno controllo militare. Uno strumento essenziale
lo aveva la propaganda, che non si rivolgeva solo alle truppe ma anche ai civili. Vennero creati manifesti giganti,
manifestazioni, incoraggiamenti per la nascita di nuove associazioni per la resistenza interna. Nel 1915 e nel 1916 si
tennero in Svizzera due conferenze socialiste che ribadivano la condanna della guerra, alle quali parteciparono sia i
paesi neutrali sia le minoranze pacifiste dei paesi in guerra. Tutti i gruppi socialisti erano d’accordo sul fermare la
guerra, ma diverse erano le decisioni che si volevano prendere nel post-guerra. In una di queste conferenze, il
bolscevico Lenin, capo del suo partito, aveva affermato che gli operai dovevano approfittare di questa situazione di
debolezza per prendere il controllo del sistema capitalistico. La spaccatura tra riformisti e rivoluzionari non faceva
che aumentare.

LA SVOLTA DEL 1917

Nei primi mesi del 1917, alcuni episodi cambiarono lo svolgimento della guerra: primo tra tutti lo sciopero generale
degli operai russi che manifestarono contro lo zar a Pietroburgo e lo costrinsero ad abdicare, fattore che portò al
collasso militare della Russia. Poco tempo dopo, gli USA entrarono in guerra, dato che la Germania non aveva
mantenuto fede alla promessa sulla sospensione della guerra sottomarina: mentre gli USA entravano, la Russia si
ritirava per problemi interni. Il crollo dello zar aveva portato alla disgregazione dell’esercito, la Germania era riuscita
a penetrare al suo interno e si era assicurata che non desse più sostegno ai suoi alleati. Alle difficoltà militari si
aggiunsero quelle psicologiche, che mostravano grande insofferenza per la guerra, e che portarono il paese a
ribellarsi. Il trattamento dei soldati fu migliorato, affinché la situazione non degenerasse del tutto. Anche la
situazione dell’Austria-Ungheria era molto critica, soprattutto a causa delle minoranze presenti al suo interno, che
aumentavano le preoccupazioni dell’imperatore, il quale, come avrebbe fatto papa Benedetto XV, tentò di avviare un
trattato di pace con l’Intesa, ma fu respinto.

L’ITALIA E IL DISASTRO DI CAPORETTO

Anche per l’Italia il 1917 fu un anno molto critico, segnato da molte sconfitte, il malcontento dilagava, sia tra i soldati
che erano sempre più insubordinati, sia tra la popolazione, che vedeva i prezzi aumentare a dismisura. Fu proprio di
questa situazione che l’Austria volle approfittare, sferrando un nuovo attacco all’Italia. Dopo aver superato il confine
dell’Isonzo, gli austriaci arrivarono fino a Caporetto, procedendo con la tattica dell’infiltrazione, ovvero entrare il più
possibile senza consolidare i terreni presi. La tattica funzionò e solo due settimane dopo l’Italia riuscì a ricostruire un
esercito, visto che il primo era stato dimezzato. Questa situazione fu causata dalla scarsa organizzazione del
comandante Cadorna, che infatti lasciò il posto a Diaz, anche se il tutto fu aggravato da una stanchezza generale.
Paradossalmente dopo la sconfitta di Caporetto, il senso di difesa, di unione e di patriottismo tornò più vivido che
mai negli italiani. Il tutto fu seguito nel 1918 da un’opera di propaganda, attraverso la diffusione di giornali di trincea
e tramite la creazione del servizio P (cioè propaganda). Ci avviava così verso una guerra più “democratica”, come
dimostrerà Wilson.

RIVOLUZIONE O GUERRA DEMOCRATICA?

Un’insurrezione russa di bolscevichi, nel 1917, rivoltava il governo provvisorio. Il potere passò così a un governo
rivoluzionario, con a capo Lenin, che decise di porre fine alla guerra, proponendo l’armistizio agli stati centrali. Le
condizioni furono però gravissime, e comprendevano la perdite di un quarto del loro territorio. L’idea di una guerra
più democratica coinvolse molto Wilson, che dichiarò di lottare, non per estendere i suoi territori, ma per ridare la
libertà dei mari tolta dai tedeschi, per difendere le nazioni oppresse, per instaurare un nuovo accordo basato sulla
pace tra “paesi liberi”. Nel 1918 emanò i famosi 14 punti di Wilson, che prevedevano:

1. Abolizione della diplomazia segreta


2. Ripristino delle libertà di navigazione
3. Abbassamento delle barriere doganali
4. Riduzione degli armamenti
5. Piena reintegrazione del Belgio
6. Piena reintegrazione della Serbia e della Romania
7. Istituzione dello stato polacco
8. Evacuazione dei territori russi occupati dai tedeschi
9. Restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena
10. Sviluppo autonomo per i popoli soggetti all’Austria-Ungheria
11. Sviluppo autonomo per i popoli soggetti alla Turchia
12. Regolamento liberale per le materie coloniali
13. Rettifica dei confini italiani secondo le nazionalità
14. Istituzione della Società delle nazioni, un nuovo organismo internazionale, per assicurarsi la convivenza tra i
popoli

L’ULTIMO ANNO DI GUERRA

Nonostante il mondo fosse diviso in due blocchi, c’era una situazione di stallo sul piano militare. La Germania
continuava la sua offensiva in Francia, l’Austria-Ungheria in Italia. Mentre la prima fu sconfitta alla Marna
dall’esercito anglo-francese, la seconda sconfisse gli austriaci sul fiume Piave. L’Intesa era ormai superiore sia
numericamente che in fatto di mezzi perciò passò alla controffensiva, battendo una volta per tutti i tedeschi ad
Amiens. I soldati tedeschi capirono che per loro era finita e non poterono che fare intervenire i politici per avviare le
condizioni dell’armistizio, che furono molto repressive, per volere della coalizione democratica, appoggiata da
socialdemocratici e cattolici. A mani a mano crollarono tutti gli stati: Bulgaria, Turchia, Austria. Cecoslovacchia e Slavi
diedero vita a stati indipendenti, mentre le truppe tedesche lasciavano il fronte. La situazione in Germania e Austria
degenerava man mano che passava il tempo, per questo anche i cittadini, stanchi di quella situazione, decisero di
ribellarsi. Tra le condizione a cui dovevano sottostare i tedeschi c’erano:

- Consegna dell’armamento pesante e della flotta


- Ritiro delle truppe al di là del Reno
- Annullamento dei trattati con Russia e Bulgaria
- Restituzione unilaterale dei prigionieri

La Germania perdeva così una guerra che lei stessa aveva fatto scoppiare.

TRATTATI DI PACE E NUOVA CARTA D’EUROPA


Gli stati si ritrovarono così presso Versailles, dove erano impegnati con la conferenza di pace (1919). Quando la
conferenza si aprì, si pensava che bisognava tenere fede ai 14 punti di Wilson, che in precedenza avevano riscosso
tanti successi quanti insuccessi. Tuttavia in Europa convivevano molte etnie, e per questo non era facile basarsi sui
principi di autodeterminazione; inoltre non sempre con questo metodo si riusciva a punire gli sconfitti e privilegiare i
vincitori. Questo fu evidente soprattutto quando bisognava stabilire le condizioni per i tedeschi, infatti la Francia non
si accontentava di riavere l’Alsazia-Lorena. Questo però non era possibile perché se no tutto il potere si sarebbe
concentrato nelle mani di un solo stato, quindi la Germania non vide dimezzati i suoi territori, ma le condizioni erano
comunque talmente gravi da estrometterla dalle grandi potenze. Venne costruita la Polonia, circondata da stati
cuscinetto, la Germania perse le sue colonie, che vennero spartite tra Francia, Giappone e Inghilterra. Ma le
condizioni più gravi erano sul piano economico-militare: in quanto responsabile, doveva pagare una cifra ancora da
definire (per poter sistemare i paesi vincitori), doveva abolire il servizio di leva, rinunciare alla marina da guerra e
doveva smilitarizzare la valle del Reno (zona molto ambita perché molto ricca), che passava in mano agli avversari,
non tutta alla Francia come lei sperava, ma anche all’Inghilterra e al Belgio. L’Austria vide ridotto, anche se di poco, il
suo territorio e venne “affidata” al controllo della Società delle nazioni, per evitare che si unificasse con lo stato
tedesco. L’Ungheria invece perse tutte le regioni slave e i magiari. A prendere il controllo dell’impero asburgico, oltre
all’Italia, furono proprio i popoli slavi. I polacchi ottennero la Polonia, i boemi e gli slovacchi della Repubblica di
Cecoslovacchia, gli slavi del sud si unirono a Serbia e Montenegro, per dar vita alla Jugoslavia. La Romania veniva
ingrandita, la Bulgaria rimpicciolita e il restante dell’impero ottomano rimase allo stato turco. Restava il problema
della Russia, della sua situazione interna, dove venne abolito il trattato di Brest-Litovsk (non ne riconobbero però la
repubblica, anzi cercarono di abbatterla). Vennero riconosciute repubbliche indipendenti, come Finlandia, Estonia,
Lettonia e Lituania. La Russia era così circondata da stati cuscinetto che le erano del tutto ostili. Nel 1921, con la
conferenza di Parigi, venne anche riconosciuto lo Stato libero d’Irlanda, con una semi-indipendenza, al quale però
non faceva parte l’Ulster protestante. Il nuovo organismo sovranazionale nasceva però tra molte contraddizioni,
prima tra tutte l’esclusione della Russia che non poteva essere operativa. Ma il colpo più grave fu subito proprio dagli
USA, il paese che doveva essere il pilastro della Società delle nazioni. Il Senato americano respinse l’adesione alla
Società e dichiarò decaduto Wilson, e portò così gli USA a una situazione di isolamento, mentre la Società delle
nazioni era controllata da Francia e Inghilterra, anche se non era in grado di prevenire nessuna delle crisi
internazionali che avrebbero colpito gli stati membri negli anni a cavallo tra le due guerre.

14. LA RIVOLUZIONE RUSSA


DA FEBBRAIO A OTTOBRE

Già prima dello scoppio della prima guerra mondiale, si vociferava in Russia che non era più accettabile un regime
zarista, ma che fosse necessario uno più moderno. Nel 1917 lo zar fu cacciato dalla rivolta degli operai e dei soldati di
Pietrogrado, e il governo provvisorio di orientamento liberale, costituito per iniziativa della Duma, venne affidato al
principe L’vov. L’obiettivo era quello di proseguire la guerra al fianco dell’Intesa e di modernizzare il paese, a livello
economico e politico. A condividere questa idea erano sia i liberal-moderati che facevano capo al partito dei cadetti,
sia i menscevichi, che si ispiravano al modello del socialdemocrazia europea, e i socialisti rivoluzionari, che avevano
radici nella cultura rurale russa e tra le masse contadine. I socialrivoluzionari erano divisi in correnti omogenee
(democratico-radicali, anarchici), ma quasi tutti ritenevano inevitabile il passaggio attraverso una fase democratico-
borghese. Per questo accettarono con i menscevichi, di far parte del secondo governo provvisorio costituito da L’vov
nel ’17. Gli unici a rifiutare furono i bolscevichi, convinti che solo la classe operaia, alleata agli strati più poveri delle
masse rurali, avrebbe potuto assumere la guida del paese. Il potere legale del governo si era affiancato fin da subito
a quello dei soviet, soprattutto quello della capitale, che agiva come una specie di parlamento proletario. Questa era
la situazione quando, nel ’17, Lenin rientrò dalla Svizzera, e diffuse un documento in dieci punti (“tesi di aprile”) in
cui rifiutava ogni possibile fase borghese della rivoluzione e puntava alla presa del potere rovesciando la teoria
marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata prima nei paesi più industrializzati, come
risultato delle contraddizioni del sistema capitalistico giunto al suo stadio finale: era invece la Russia, in quanto stato
debole, a offrire il terreno giusto per il cambiamento. L’obiettivo era quello di conquistare la maggioranza nei soviet
e di lanciare la parola d’ordine della pace. Man mano si inasprivano però i rapporti con gli altri socialisti che avevano
accettato di partecipare al governo di coalizione e di collaborare nella guerra. Il primo episodio di esplicita ribellione
si ebbe a Pietrogrado, quando degli operai armati e dei soldati scesero in piazza per impedire la partenza al fronte di
alcuni reparti. I bolscevichi, che all’inizio non avevano approvato l’iniziativa, cercarono poi di assumerne il controllo.
L’insurrezione fallì per l’intervento delle forze del governo, che costrinsero alcuni, tra cui Lenin, a scappare. Questo
fu l’ultimo successo del governo provvisorio, perché poi L’vov si dimise per lasciare il posto a Kerenskij, il quale era
però screditato dal fallimento dell’offensiva contro gli austro-tedeschi, e al quale i moderati contrapponevano il
comandante dell’esercito Kornilov. Quest’ultimo lanciò un ultimatum al governo, affinché cedesse i poteri alle
autorità militari, ma Kerenskij reagì facendo appello alle forze socialiste, compresi i bolscevichi, i quali coinvolsero la
popolazione, grazie alla quale il colpo di stato di Kornilov fu evitato. I veri vincitori furono i bolscevichi, che ottennero
l’approvazione dei soviet di Pietrogrado e di Mosca. Lenin rientrato da clandestino, si preparava invece per il suo
colpo di stato.

LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE

A voler rovesciare il governo di Kerenskij furono i bolscevichi, che appoggiarono però ben poco Lenin, preferendogli
Trotzkij, proveniente dalla sinistra menscevica, eletto presidente del soviet di Pietrogrado e organizzatore e mente
militare dell’insurrezione. Kerenskij cercò di correre ai ripari, ma fu inutile dato che non ebbe l’appoggio delle sue
truppe, mentre Trotzkij aveva conquistato i punti strategici della città per poi procedere alla presa di Palazzo
d’Inverno, insieme ai soldati rivoluzionari e alle guardie rosse (milizie operaie armate), conquistato la sera stessa.
Mentre cadeva l’ultima resistenza del governo, si riuniva a Pietrogrado il Congresso panrusso dei soviet, cioè
l’assemblea dei delegati del soviet di tutte le province dell’ex impero russo. La coincidenza delle date era voluta dai
bolscevichi, che speravano così di sanzionare l’avvenuta presa del potere tramite il congresso, dove essi erano in
netta maggioranza. Il congresso approvò due decreti di Lenin, il primo faceva appello a tutti i popoli dei paesi
belligeranti, affinché venisse stabilita una pace equa, senza annessioni o indennità, mentre il secondo stabiliva in
forma lapidaria che la grande proprietà terriera era abolita immediatamente. Il nuovo potere poteva così contare
sull’appoggio o sulla neutralità delle masse contadine, accontentate nelle loro aspirazioni imminenti e semplici.
Venne così istituito un nuovo governo rivoluzionario, composto da bolscevichi, a capo del quale c’era Lenin,
chiamato Consiglio dei commissari del popolo. Non mancarono le opposizioni a questo nuovo governo, menscevichi,
cadetti e socialrivoluzionari non si limitarono a manifestazioni di sabotaggio ma convocarono l’Assemblea
costituente, le cui elezioni erano fissate per la fine di novembre. Alle elezioni ci fu una grande delusione per i
bolscevichi e, siccome menscevichi e cadetti erano quasi scomparsi, restarono i socialrivoluzionari, che vinsero grazie
all’appoggio dell’elettorato rurale. I bolscevichi non vollero rinunciare al potere appena acquisito, per questo
sciolsero con la forza la Costituente, ma così facendo il potere rompeva con le altre componenti del socialismo e con
la tradizione democratica occidentale, avviandosi così verso una dittatura di partito.

DITTATURA E GUERRA CIVILE

Era stato facile assumere il potere per i bolscevichi, ma era difficile gestirlo: bisognava amministrare un paese
immenso, governare una società arretrata e complessa, affrontare i problemi ereditati dal vecchio regime e la
questione della guerra. Non avevano alcun aiuto, erano soli, dato che si era verificato il più grande fenomeno di
emigrazione politica. Convinti di poter assumere in poco tempo la fiducia delle masse popolari, i bolscevichi
dichiararono di voler agire come per la Comune di Parigi, secondo il modello di Lenin “Stato e rivoluzione”. Secondo
questo modello lo stato doveva essere lo strumento di dominio di una classe che prevaleva sulle altre, e una volta
scomparso questo dominio, lo stato si sarebbe avviato a una rapida estinzione. Nella società creata le masse si
sarebbero autogovernate, secondo i principi di democrazia diretta sperimentati nei soviet. L’idea invece che avevano
della guerra, “pace equa senza annessioni e indennità” era invece impossibile. La pace con la Germania, conclusa nel
1918, e siglata con la firma di un accordo durissimo, quello di Brest-Litovsk, era per i bolscevichi una scelta obbligata.
Per imporla Lenin dovette far fronte a numerosi oppositori, dai suoi stessi compagni ai socialrivoluzionari, compresa
la corrente di sinistra che ritirò i suoi rappresentanti del Consiglio dei commissari del popolo. Perdendo gli unici
alleati rimasti, i bolscevichi erano ormai isolati. Ma l’Intesa considerava questa pace un tradimento, motivo per cui
cominciò ad appoggiare forze anti-bolsceviche. Nella primavera del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi
nel Nord della Russia e poi anche sul Mar Nero, mentre Giappone e USA penetravano nella Siberia. L’arrivo dei
contingenti stranieri servì a rafforzare le opposizioni ai bolscevichi, soprattutto quella dei monarchico-conservatori, i
cosiddetti bianchi, e anche ad alimentare la guerra civile nel paese. La prima minaccia veniva da est dove, per paura
che venissero liberati dai controrivoluzionari, si preferì sterminare la famiglia zarista, per ordine del soviet locale.
Ancora più caotica era la situazione in Ucraina, che era un protettorato tedesco. Nel frattempo il regime
rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari, arrivando a creare la Ceka, una sorta di polizia locale, col compito di
far cessare chiunque non rispettasse gli ordini del governo contadino, anche se più di una volta venne usata per
giustiziare oppositori e nemici dei bolscevichi. Nel 1918 tutti i partiti di opposizione vennero messi fuori legge, e fu
reintrodotta la pena di morte. Si procedeva anche alla riorganizzazione dell’esercito, formando l’”Armata rossa degli
operai e dei contadini”, il cui artefice principale fu Trotzkij. Per garantire maggiore fedeltà al governo vennero
introdotti dei commissari politici, distaccati dal partito presso singole unità combattenti. La formazione così forte
dell’esercito le permise di battere i numerosi avversari; ma le forze controrivoluzionarie erano divise e mal
coordinate, motivo per cui i contadini non riuscivano a fidarsi di loro. Nella primavera del ’20, a parte qualche
resistenza minima, le armate bianche erano ormai state sconfitte, e la guerra civile poteva dirsi conclusa. Quando il
pericolo interno era passato, fu la volta di quello esterno: la Polonia, che non era affatto soddisfatta dell’accordo di
Versailles, voleva riprendersi i vecchi territori, motivo per cui decise di invadere la Russia. I bolscevichi riposero fin da
subito reprimendo le armate polacche e, le armate rosse, si spinsero fino a Varsavia, dove però subirono una battuta
di arresta dai polacchi. Nel ’20 si giunse così a un armistizio, che concedeva alla Polonia i vecchi territori della
Bielorussia e dell’Ucraina. Questa guerra aveva però attivato nella Russia istinti di coesione nazionale, riavvicinando
anche gli oppositori più duri al regime sovietico.

LA TERZA INTERNAZIONALE

Con l’insurrezione di ottobre e con la vittoria della guerra civile, i bolscevichi fecero nascere il primo stato socialista
in un paese profondamente arretrato. All’inizio del ’19, nonostante la sconfitta in Germania, la prospettiva di una
rivoluzione europea sembrava ancora possibile. Fu in questo clima che Lenin decise di sostituire la vecchia
Internazionale socialista a una nuova Internazionale comunista, che coordinasse gli sforzi dei partiti rivoluzionari in
tutti i paesi, e rappresentasse una rottura definitiva con la socialdemocrazia europea. Già nel marzo del ’18, i
bolscevichi presero il nome di Partito comunista (bolscevico) di Russia. La riunione costitutiva dell’Internazionale
comunista o della Terza internazionale ebbe luogo a Mosca. La sua struttura e i suoi compiti furono però decretati
nel secondo congresso, che si tenne sempre a Mosca. I problema centrale venne dai singoli partiti che, per
partecipare, dovevano sottostare all’Internazionale comunista. Fu Lenin a stabilire nei suoi “ventun punti” a fissare le
condizioni di ammissione: bisognava ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome in quello di Partito
comunista, difendere sempre la Russia sovietica, rompere con le correnti riformiste espellendo i principali esponenti.
L’obiettivo era quindi quello di fare della Russia il centro del comunismo, la patria del socialismo per tutti i movimenti
rivoluzionari. Fu invece mancato l’obiettivo di coinvolgere tutte le masse operaie dei vari partiti. In tutta Europa, i
partiti comunisti, che erano legati alla Russia da un rapporto di dipendenza politico-organizzativa, e vincolati dalle
strategie tracciate nel II congresso, rimasero minoritari rispetto ai socialisti.

DAL COMUNISMO DI GUERRA ALLA NEP

Quando i comunisti salirono al potere, la situazione economica della Russia era già molto grave, dato che si crearono
migliaia di piccole aziende predisposte per l’autoconsumo. Ancora più difficile era la situazione delle banche che,
dopo essere state nazionalizzate, videro cancellati i debiti dell’estero. Si tornò così al baratto e alle retribuzioni in
natura. Il governo cercò così di avviare una politica più energica e autoritaria, che prese il nome di comunismo di
guerra: si cercò di risolvere il problema degli approvvigionamenti delle città, dove la fame si faceva sentire. Vennero
quindi istituiti comitati per la distribuzione di derrate, squadre di operai e contadini poveri percorsero le campagne
requisendo il grano agli agricoltori benestanti, vennero istituite fattorie sovietiche, gestite direttamente dallo stato o
da soviet locali. In campo industriali il comunismo venne inaugurato con la nazionalizzazione dei settori più
importanti, con lo scopo di normalizzare la produzione. Vennero così reintrodotte nelle fabbriche i criteri di efficienza
in netto contrasto con i principi di egualitarismo salariale. Le città si erano spopolate per la disoccupazione e per la
fame, nelle campagne i raccolti dei cereali erano dimezzati, ma il voler controllare il razionamento dei generi
alimentari non fu risolto con grande successo. Per far fronte alle necessità, le autorità procedevano spesso con
requisizioni indiscriminate, non facendo altro che aumentare il generale malcontento. Alle sommosse si aggiunse poi
una terribile carestia che colpì sia la Russia che l’Ucraina, provocando moltissime morti. Gli operai erano stanchi delle
pessime condizioni in cui vivevano, senza contare che c’erano forze armate anche sui posti di lavoro. A questa
situazione seguirono moltissime rivolte, tra cui una a Pietrogrado che portò all’invocazione di elezioni libere,
maggiore libertà politica e sindacale: la risposta del governo fu una durissima repressione. A Mosca si tenne il X
congresso comunista, dove sul piano politico si arrivò a vietare tutto ciò che non era conforme con il governo, in
materia economica fu abbandonato il comunismo di guerra, e fu avviata una parziale liberalizzazione nella
produzione e negli scambi. La nuova politica economica (NEP) aveva come obiettivo principale quello di stimolare la
produzione agricola, ai contadini si consentiva di vendere sul mercato le eventuali eccedenze, dopo aver consegnato
una quota fissa allo stato. La liberalizzazione si estese anche alle piccole industrie e ai loro commerci. Lo stato
mantenne comunque accordi con le banche i maggiori gruppi industriali. Questo sistema sembrava andar bene,
questo perché la situazione del paese era tra le peggiori. Nelle campagne ci fu una ripresa produttiva dei piccoli
coltivatori, mentre per i contadini ricchi (kulaki), il mercato crollò. La liberalizzazione portò alla nascita di una nuova
classe di trafficanti, che commerciava però beni di consumo nuovi e più ricchi, che erano in contrasto con il resto
dell’economia. Man mano che le piccole industrie si affermavano, lo stato cercava in tutti i modi di controllarle. Ma
così facendo l’industria non poteva crescere, aumentavano i disoccupati, i salari erano sempre più bassi, e fu proprio
la classe operaia quella che, a conti fatti, fu la più colpita dalla NEP.

L’UNIONE SOVIETICA: COSTITUZIONE E SOCIETA’

La prima costituzione russa, varata nel ’18, in piena guerra civile, rispettava gli ideali bolscevichi. Essa prevedeva che
il nuovo stato avesse un carattere federale, che rispettasse le minoranze etniche. Nel 1922, il congresso dei soviet
delle singole repubbliche diede vita all’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS). La nuova costituzione
URSS venne approvata nel 1924, dava vita a una complessa struttura istituzionale, il cui potere era affidato al
congresso dei soviet dell’unione. Il potere reale era però nelle mani del partito comunista, era il partito a decidere le
linee politiche ed economiche, era il partito a controllare la polizia politica, a proporre i candidati dei soviet, il suo
potere era sovrapposto a quello stato, motivo per cui si parla di rigido centralismo. Il suo sforzo si concentrò
sull’educazione della gioventù e sulla lotta alla Chiesa ortodossa (incompatibile con la dottrina marxista). La lotta per
la scristianizzazione del paese fu condotta con molta durezza e raggiunse molti dei suoi obiettivi. L’influenza della
chiesa non fu eliminata ma indebolita. Nel 1920, sempre per contrastare la chiesa, si approvarono leggi a favore del
divorzio, dell’aborto, fu proclamata la parità dei sessi, la medesima condizione dei figli legittimi e di quelli illegittimi:
si ebbe una liberalizzazione dei consumi. I maggiori progressi si ebbero però nell’istruzione, che fu resa obbligatoria
fino ai 15 anni. Si preoccuparono di iscrivere i giovani al partito, facendo largo spazio all’insegnamento delle dottrine
marxiste. Gli intellettuali molto spesso si opposero, e fu evidente soprattutto in campo artistico con lo sviluppo delle
avanguardie.

DA LENIN A STALIN: IL SOCIALISMO IN UN SOLO PAESE

Nel 1922, l’ex commissario alle Nazionalità, Stalin, fu nominato segretario del Partito comunista dell’Urss,
estromettendo Lenin, che si ammalò gravemente e morì due anni dopo. Con l’ascesa di Stalin si inasprirono i
contrasti interni, soprattutto quelli per la successione. Il primo grande scontro ebbe come motivo la
burocratizzazione del partito e degli enormi poteri che finivano, di conseguenza, nelle mani di Stalin. Il primo a
opporsi a Stalin fu Trotzkij, che riteneva che lo stato dovesse accelerare i ritmi dell’industrializzazione e al tempo
stesso estendersi sul fronte rivoluzionario nello scenario europeo capitalistico, per lui era tutta colpa di un forte
isolamento e di un conseguente arretramento del paese. Contro questa tesi, fu coniata da Stalin l’espressione
”rivoluzione permanente”, secondo la quale lo stato doveva prima raccogliere le forze necessarie per affrontare il
mondo capitalistico: solo così era possibile una vittoria socialista. Ma il principio di socialismo legato al un solo paese,
era in contraddizione con quanto affermato fino ad allora dai bolscevichi. Dopo aver sconfitto il suo avversario, Stalin
dovette affrontare una nuova spaccatura all’interno del suo partito, questa volta in campo di politica economica. Ci
fu un’opposizione di sinistra, che tentò di ostacolarlo, ma ormai era inutile: Stalin era sempre più forte. I leader
furono allontanati e addirittura espulsi dal partito. Trotzkij fu esiliato in Asia. Si chiudeva così la prima fase
comunista, con la sconfitta della sinistra, e iniziava una fase dove Stalin acquisiva sempre più potere tentando di
portare l’Urss alla condizione di grande potenza industriale e militare.

15. L’EREDITA’ DELLA GRANDE GUERRA


LE TRASFORMAZIONI SOCIALI

Oltre a un’enorme perdita di vite, la prima guerra mondiale, fu anche simbolo della prima grande esperienza di
massa. Le persone erano ormai assuefatte dall’uso delle armi, dalla svalutazione della vita umana, per questo
quando i soldati tornarono alla loro vita normale, si dovettero imbattere in una realtà molto diversa. Il ruolo delle
donne era evidentemente cambiato: l’assenza del capofamiglia era stata molto lunga, e per questo le tradizioni
familiari erano cambiate, le donne lavoravano, l’abbigliamento e i costumi erano più liberi, i giovani erano più
interessati a divertirsi e i lavoratori chiedevano più tempo libero, il tutto perché avevano dovuto sopportare le
sofferenze recate dalla guerra. Uno dei primi problemi che bisognava affrontare era quello dell’inserimento dei
reduci, dato che avendo rischiato di continuo la propria vita, erano tornati molto più coscienti dei propri diritti.
Nacque allora una nuova mentalità, chiamata “combattentistica”, tipica del reduce di guerra. Sorsero dappertutto
nuovi gruppi di agitazione, grosse associazioni di ex combattenti, pronti a difendere i loro valori e i loro interessi. I
governanti, dal canto loro, non fecero che fare grosse promesse hai combattenti, anche se di fatto, vista la precaria
situazione, non erano in grado di rispettarle. La guerra aveva dimostrato l’importanza del principio di organizzazione
applicato alle masse, e ora nel postguerra era evidente come, per valere i propri diritti, era necessario associarsi a
gruppi numerosi, cosa che portò a una rapida massificazione della politica. Di fronte alla crescita di queste
associazioni, persero invece importanza quelle tradizionali dell’attività politica liberale, come quelle che si
svolgevano nei circoli ristretti dei notabili e che culminavano nell’azione parlamentare. Acquisivano sempre maggior
peso le manifestazioni pubbliche (comizi, cortei) basate sulla partecipazione diretta dei contadini. Tutti erano in
attesa di nuove soluzioni: l’aspirazione a un ordine nuovo era comune a tutti gli europei. Le soluzioni concrete erano
però, di fatto, molto poche. Anche l’idea di cambiamento era diversa: per molti intellettuali e lavoratori doveva
coincidere con il nuovo sviluppo della Russia (secondo le minoranze), mentre c’era chi puntava semplicemente a un
progetto di pace e di giustizia sociale (la maggioranza), una società più equa che si fondasse sui principi wilsoniani.

LE CONSEGUENZE ECONOMICHE

A parte gli Stati Uniti, tutti i paesi che avevano partecipato alla guerra, vincenti o perdenti che fossero, avevano
subito perdite gravissime, umane quanto economiche. Le spese erano enormi, e per questo gli stati non poterono
che aumentare le tasse. Aggiungendo il problema dei debiti, che si dovevano tra stato e stato, l’unica soluzione fu
quella di stampare carta moneta in eccedenza, mettendo così in moto un rapido processo inflazionistico. I prezzi
crebbero, gli unici a guadagnarci qualcosa erano gli speculatori e alcuni industriali: l’inflazione distruggeva posizioni
economiche solide ed erodeva i risparmi dei ceti medi. Gli operai riuscivano a difendere meglio i loro salari rispetto a
impiegati o dipendenti pubblici, tutti fattori che aggravavano le tensioni sociali. Non fu facile passare da un’economia
di guerra a una di pace: alcuni paesi (Giappone e USA) aumentarono le loro esportazioni, altri persero partner nelle
loro trattive come Francia e Inghilterra), mentre il progetto wilsoniano risveglio in alcuni paesi un forte nazionalismo
economico e al tempo stesso un protezionismo doganale, soprattutto in quegli stati che volevano affermare la loro
industria. L’intervento statale era necessario in una situazione così grave, era impossibile ricreare un’economia di
mercato, per questo era necessario mantenere solidi apparati burocratici e la capacità dello stato di intervenire su
materie che un tempo erano riservate alle libertà delle parti sociali. Così facendo l’industria ebbe un primo discreto
incremento che fu però arrestato dalle continue tensioni sociali e della nascita di una nuova fase depressiva, che fece
aumentare il numero dei disoccupati. Una vera stabilizzazione dell’economia europea, si ebbe solo negli anni ’20,
anche se, come nel caso della Germania, la ripresa poggiava su basi instabili, principalmente perché aveva ancora un
grosso debito di guerra.

IL BIENNIO ROSSO

Tra il 1918 e il 1920, il movimento operaio europeo, uscito dalla forzata compressione degli anni di guerra, iniziò a
far parte della vita politica anche se assunse toni molto rivoluzionari. I partiti socialisti ottennero nuove adesioni in
tutti i paesi, i lavoratori invece si muovevano in continue agitazioni per ottenere retribuzioni migliori, una riduzione
delle ore lavorative a 8 h giornaliere. La grande ondata di lotte operaie del biennio rosso non si esaurì, però, nelle
rivendicazioni sindacali: la situazione della Russia, non fece che accrescere aspirazioni più radicali. Mentre in Francia
e in Gran Bretagna, le pressioni del movimento operario furono contenute dalla classe operaia, in Austria, Ungheria e
in Germania si dovette ricorrere una vera e propria repressione armata, dato che a questo malcontento si
aggiungeva quello di un nuovo regime. La rivoluzione d’ottobre in Russia, non aveva fatto altro che aumentare la
frattura tra le avanguardie e il resto del movimento operaio, legato a partiti socialdemocratici. Fu proprio la scissione
del partito operaio a dare il via a una forte spinta conservatrice.

RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE NELL’EUROPA CENTRALE

Già nel momento della forma dell’armistizio, lo Stato tedesco si trovava in una situazione tipicamente rivoluzionaria.
L’esercito si disgregò e il governo legale era esercitato da un Consiglio di commissari del popolo, presieduto da Ebert,
e composto da socialisti. Ma nelle città i veri padroni erano i consigli operai e dei soldati, che occupavano i vari posti
di lavoro, come le fabbriche. Per questo motivo la popolazione berlinese, stanca della situazione, insorse, un po’
come in Russia ma con sostanziali differenze: i vincitori erano già posti lungo la linea del Reno, pronti a intervenire se
la situazione fosse precipitata, non c’era la mobilitazione delle masse rurali, la classe dirigente era molto radicata. I
leader socialdemocratici erano contrari a una rivoluzione di tipo sovietico, era più propensi, vista la loro
organizzazione, a un approccio più democratico. Tra gli obiettivi c’era quello di smantellare le strutture militari, per
questo si creò un’obiettiva convergenza tra i capi della Spd e gli esponenti della vecchia classe dirigente, che
vedevano nella socialdemocrazia l’unico mezzo per arginare la rivoluzione. I capi dell’esercito decisero così di
scendere a patti con i socialrivoluzionari, affinché le gerarchie dell’esercito venissero mantenute. La linea moderata
della Spd portava però a uno scontro con le correnti più radicali del movimento operaio tedesco, tra cui gli
indipendenti dell’Uspd e i rivoluzionari della Lega di Spartaco. Questi ultimi non volevano la convocazione della
costituente ma di semplici consigli, loro però erano la minoranza. Quando i berlinesi scesero in piazza per
combattere per i loro diritti, gli spartachisti cercarono di incoraggiare anche il proletario berlinese attraverso la
violenza, ma la risposta non fu quella sperata e il governo, non avendo un esercito ma avendo volontari armati,
schiacciò con la violenza l’insurrezione e uccise i leader spartachisti. Poco dopo si tennero le elezioni della
costituente, alla quale erano assenti i comunisti, e si affermarono i socialdemocratici, i quali cercarono l’appoggio dei
cattolici del centro. L’accordo tra socialisti, cattolici e democratici, rese possibile l’elezione di Ebert a presidente della
Repubblica. Venne applicata una nuova costituzione, più democratica, che prevedeva il mantenimento dello stato
federale, il suffragio universale maschile e femminile, un governo responsabile di fronte al parlamento, e un
presidente della repubblica eletto direttamente dal popolo. Né la Costituente, né l’applicazione della costituzione di
Weimar, servirono però a riportare la pace: ci furono nuovi tentativi rivoluzionari, i comunisti continuavano le loro
agitazioni in piazza. Ma la minaccia più grande veniva dall’estrema destra, dove i militari smobilitati sollecitavano una
rapida conclusione dell’armistizio, diffondendo la leggenda della pugnalata alla schiena, secondo la quale il paese ha
perso proprio a causa di una parte di tedeschi, che avrebbero tradito il paese. La sconfitta dell’Spd fu inevitabile, che
cedettero il potere ai cattolici. Anche in Austria la situazione non era delle più facili, infatti anche qui erano
subentrati i cattolici al posto dei socialdemocratici, i comunisti invece non avevano gran peso. In Ungheria la
Repubblica democratica durò pochissimo, fu seguita da un Repubblica sovietica e una dura repressione verso
borghesia e aristocrazia. Il paese si trovò, dopo un’ondata di terrore bianco (attacco da parte dei rumeni, appoggiati
da inglesi e francesi), ad essere governato dai cattolici.

LA STABILIZZAZIONE MODERATA IN FRANCIA E IN GRAN BRETAGNA

Scampato il pericolo rivoluzionario, la classi dirigenti cercarono di ricostruire una solida base politica e ed economica.
Sia la Francia che la Gran Bretagna riuscirono a stabilizzarsi, almeno internamente: in Francia il governo passò nelle
mani del centro-destra, molto conservatore, che faceva pesare la situazione soprattutto alle classi popolari. Grazie a
una coalizione di sinistra, il governo passò nelle loro mani per un breve periodo ma, a causa della crisi finanziaria,
tornò alla destra molto in fretta, che riuscì a stabilizzare il corso della moneta e risanare il bilancio statale, e al tempo
stesso a rilanciare la produzione. Più difficile fu la ripresa per la Gran Bretagna, il cui apparato si dimostrava sempre
più invecchiato. Anche qui erano i conservatori a guidare la situazione, ad eccezione di una parentesi del partito
laburista, con una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari, che portò a molti scontri con i
sindacati. Vietarono gli scioperi e la partecipazione alle Trade Unions, così da poter destabilizzare ancora di più i
laburisti.

LA REPUBBLICA DI WEIMAR

La Repubblica di Weimar rappresentava, tutto sommato, un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata,
tanto è vero che la Germania divenne il centro culturale europeo. Nonostante il clima di grandi libertà, il paese era
però turbato da un’accentuata frammentazione dei gruppi politici, che rendevano instabili le maggioranze del
governo. Le fratture nella società erano sempre più pesanti: l’unica in grado di poter fare qualcosa, sembrava essere
la Spd che, grazie all’unione con Uspd, riuscì ad allargare i suoi consensi, senza però ottenere quelli dell’elettorato
operaio. Le classi medie, che ormai occupavano uno spazio consistente nella repubblica tedesca, si riconoscevano in
parte nel centro cattolico e in parte nella destra conservatrice e moderata, che dava vita al Partito popolare tedesco-
nazionale e al Partito tedesco-popolare. Un terzo partito, che però si ridusse in fretta, fu quello democratico-tedesco.
Per le classi medie, l’età imperiale era quella di pace e tranquillità, mentre quella della Repubblica era associata alla
sconfitta di Versailles. La situazione degenerò quando, il prezzo da pagare per la guerra, fu stabilito a un quarto del
prodotto nazionale: questo portò a ondate di proteste, come quella dell’estrema destra nazionalista, guidata da
Hitler, alla quale seguirono poi molti colpi di stato. I primi governi che si succedettero optarono per ripagare le prime
rate dell’accordo, senza gravare sui cittadini con ulteriori tasse, ma mettendo così in moto il processo inflazionistico.

LA CRISI DELLA RUHR

Nel 1923 furono mandate truppe francesi e belga nel bacino della Ruhr: il governo invitò tutti i cittadini a una
resistenza passiva, affinché non venissero privati delle loro risorse, gli operai smisero di lavorare e organizzarono
anche attentati alle truppe straniere. La situazione era tra le più gravi: il valore del marco era stato annullato, lo stato
stampava troppe banconote, non mancò però lo sviluppo delle grandi industrie, soprattutto quelle di esportazione,
che riuscirono così a risollevare la loro economia, ad essere avvantaggiati furono anche i possessori reali, come i
contadini. Nello stesso anno però, la classe dirigente dovette far fronte al problema della nascita di un governo
basato sulla coalizione di tutti i gruppi costituzionali, e presieduto da Stresemann. Secondo lui era necessario
riallacciare rapporti con le potenze vincitrici, come la Francia, cosa che non era molto apprezzata dai
nazionalsocialisti che, guidati da Hitler, insorsero a Monaco, dove però furono anche repressi. Venne introdotta una
nuova moneta, il marco di rendita, e venne anche avviata una politica deflazionistica. Una soluzione fu trovata grazie
al piano elaborato da un finanziere americano, Dawes, che spiegò come, per poter ripagare il suo debito, la
Germania dove prima rimettersi in sesto al meglio, riprendendo per esempio la Ruhr, e con rate graduate in più
tempo avrebbe potuto saldare il suo debito. Contrarie a questo progetto erano però le alee estremiste, che
riscossero un discreto successo.

LA RICERCA DELLA DISTENSIONE IN EUROPA


Visto l’isolamento degli USA e la scelta della Gran Bretagna di non allargarsi, la Francia si sentiva in qualche modo
tradita, e voleva cercare nuove alleanze in quei paesi che erano usciti comunque vincitori dal trattato di Versailles,
come la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania, creando così nel 1921, una sorta di piccola intesa. Ma
la Francia temeva ancora molto la Germania, per questo spinse affinché pagasse quanto doveva e fosse messa una
volta per tutte in ginocchio. La Francia, in un primo momento occupò la Ruhr, poi decise di scendere a patti con la
Germania per il bene della sicurezza collettiva. Nel 1925 venne istituito un accordo franco-tedesco, l’accordo di
Locarno, che prevedeva sia il riconoscimento dei confini dettati da Versailles, sia l’impegno di Gran Bretagna e Italia a
farsi garanti di eventuali insubordinazioni. La Germania rinunciò all’Alsazia-Lorena, e dopo un anno, fu ammessa alla
Società delle nazioni. Un altro finanziere americano elaborò un piano per la Germania e, in seguito, fu liberata la
Renania e, la Germania stessa, promise di mantenerla smilitarizzata. La firma del Patto di Parigi e il piano di Young
(secondo finanziere americano) rappresentarono un momento di distensione a livello mondiale, che fu però
interrotto dalla crisi economica mondiale, motivo che spinse la Francia a fortificare la linea di confine con la
Germania, costruendo la linea Maginot.

16. IL DOPOGUERRA IN ITALIA E L’AVVENTO DEL FASCISMO


I PROBLEMI DEL DOPOGUERRA

Dopo la guerra, in Italia, i problemi non erano affatto pochi: l’economia era in crisi postbellica, alcuni settori
industriali conobbero uno sviluppo abnorme sconvolgendo il flusso commerciale, il deficit del bilancio statale era
sempre più grave, l’inflazione galoppava. La classe operaia era tornata alla libertà sindacale: chiedeva più libertà
nelle fabbriche e miglioramenti economici, i contadini tornavano dal fronte consapevoli dei loro diritti e
pretendevano quindi un trattamento migliore dalla classe dirigente, i ceti medi erano pronti a difendere i loro
interessi e i loro valori patriottici. I problemi più evidenti in Italia erano dovuti però alla fragilità delle strutture
politiche. La classe dirigente si trovava tuttavia, contestata e isolata, motivo per cui finì per perdere la sua indiscussa
egemonia; risultavano però favorite le forze cattoliche e socialiste.

CATTOLICI, SOCIALISTI E FASCISTI

I cattolici, nel 1919, decisero di uscire dalla loro posizione astensionistica, e crearono il Partito popolare Italiano (Ppi).
Il nuovo partito ebbe come segretario Sturzo, aveva un programma di impostazione democratica, ma era comunque
strettamente legato alla Chiesa e alle sue strutture organizzative. Nelle file del partito c’erano anche gli eredi della
democrazia cristiana, i capi delle leghe bianche, gli esponenti delle correnti clerico-moderate. Altra grande novità fu
la crescita impetuosa del Partito socialista: schiacciante era la corrente di sinistra, chiamata massimalista, su quella
riformista, che aveva comunque un gruppo di forza sia a livello parlamentare che a livello economico. I massimalisti,
il cui leader era il direttore dell’Avanti, Serrati, avevano come obiettivo immediato l’instaurazione della repubblica
socialista, fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano entusiasti ammiratori della rivoluzione bolscevica,
anche se di fatto, avevano ben poco in comune con i russi. Si sviluppò però, all’interno del Psi, un gruppo di giovani
estremisti, che si battevano con costante impegno rivoluzionario per una stretta adesione all’esempio dei comunisti
russi. Tra questi gruppi c’erano quello napoletano di Bordiga e quella torinese di Gramsci (Ordine nuovo = rivista).
Mentre il primo era più orientato a creare un partito rivoluzionario in perfetto stile russo, Gramsci e i suoi alleati
(come Togliatti) lavoravano a contatto con gli operai, erano affascinati dall’esperienza dei soviet, visti sia come
contrattacco alla società borghese, sia come embrioni della società socialista. Il Partito socialista era quindi su una
linea rivoluzionaria, ma gli operai vennero lentamente emarginati, anche se di fatto i socialisti non volevano cedere
alla collaborazione con i borghesi, in quanto vedevano la minaccia di una possibile dittatura operaia. Fra questi
movimenti ebbe vita breve quello creato da Mussolini, “Fasci di combattimento”, schierato politicamente a sinistra,
propenso per le riforme sociali e favorevole alla repubblica, ma al tempo stesso professava un forte nazionalismo e
una forte avversione verso i socialisti. Inizialmente il fascismo raccolse scarse adesioni, ma si fece notare fin da
subito per lo stile politico aggressivo e violento. Caso più evidente fu l’incendio all’Avanti, che non fece che inasprire i
contatti con i socialisti.
LA “VITTORIA MUTILATA” E L’IMPRESA FIUMANA

Dopo la guerra l’Italia vide ridimensionati i suoi confini, in senso positivo, e vide anche l’allontanamento del nemico
asburgico. La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, fece emergere problemi che non erano stati discussi nel Patto di
Londra, il quale stabiliva che la Dalmazia fosse annessa all’Italia e che la città di Fiume fosse data invece agli Asburgo.
Il presidente del consiglio Orlando, seguito dal ministro degli esteri Sonnino, chiesero nella conferenza di Versailles
che Fiume fosse annessa all’Italia, ma sentendo il secco “no” del presidente americano Wilson, decisero di
abbandonare la conferenza anche se poi fu inevitabile il loro ritorno. Questo fatto segno l’insuccesso del governo
Orlando, al quale segui Nitti, un economista e meridionalista di orientamento democratico, il quale subentrò nella
fase in cui il malcontento per la cosiddetta “vittoria mutilata” era molto alto: essa consisteva, come spiegò
D’Annunzio che coniò il termine, in una vittoria parziale, in quanto il territorio italiano non fu unificato per intero. Lo
stesso D’Annunzio si unì poi al gruppo che decise, nel 1919, di occupare Fiume e dichiararla annessa all’Italia.

LE AGITAZIONI SOCIALI E LE ELEZIONI DEL ‘19

In concomitanza con l’azione fiumana, l’Italia si apprestava a passare un periodo non del tutto semplice: i prezzi
aumentarono, i tumulti diventavano sempre più violenti, le agitazioni sindacali aumentavano man mano che
aumentava il costo della vita. Anche nel settore dei trasporti aumentarono gli scioperi, infatti si parlò di vera e
propria “scioperomania”. Non mancarono poi le lotte dei lavoratori agricoli che, oltre alla Bassa Padana, dove
prevaleva il bracciantato e dove le leghe rosse avevano il monopolio della rappresentanza sindacale, le agitazioni
coinvolsero anche il Centro-Nord, zone in cui dominavano la mezzadria e la piccola proprietà e in cui erano attive le
leghe bianche cattoliche. Entrambe le leghe si battevano per gli stessi motivi ma, le rosse insistevano sulla
socializzazione della terra, mentre le bianche puntavano allo sviluppo della piccola proprietà contadina. Ci furono poi
ulteriori agitazioni per l’occupazione di terre incolte e latifondi da parte dei contadini poveri, spesso ex combattenti.
Mancava tuttavia un vero collegamento. Le prime elezione del postguerra, 1919, misero in evidenza le fratture
sociali e politiche. Furono le prime con il metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista, metodo
che prevede il confronto tra le liste di partito, e che gli assicurava un numero di seggi proporzionati ai voti ottenuti,
favorendo così i gruppi su base nazionale. L’esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente, si affermarono
socialisti e popolari, ma il Psi rifiutava ogni accordo con i borghesi, perciò la maggioranza era basata sull’accordo tra
popolari e liberal-democratici.

GIOLITTI, L’OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE E LA NSCITA DEL PCI

Quando ormai in ministero Nitti si era esaurito, fu nominato ancora una volta Giolitti, il quale aveva un programma
molto avanzato, nel quale proponeva la nominatività dei titoli azionari (ossia l’obbligo di intestare le azioni al nome
del possessore, permettendone la tassazione, progetto mai andato in porto) un’imposta straordinaria sui
“sovrapprofitti” realizzati dall’industria bellica. Nel corso dell’anno in cui restò al potere diede ancora una volta prova
della sua grande energia: i risultati più importanti si ebbero in politica estera, imboccando l’unica strada possibile per
risolvere la questione adriatica: un negoziato diretto con la Jugoslavia, che si concluse con la firma del trattato di
Rapallo, che prevedeva la cessione della Dalmazia alla Jugoslavia, salvo la città di Zara che rimase italiana, il
mantenimento di Trieste, Gorizia e di tutta l’Istria, mentre Fiume era dichiarata, con non poche opposizioni, città
libera. Le difficoltà maggiori si ebbero in politica interna, dove il governo impose, nonostante le proteste, la
liberalizzazione del prezzo del pane, e avviò il risanamento del bilancio statale. Il progetto che però fallì più di tutti fu
quello del tentativo di ridimensionare le spinte rivoluzionarie del movimento operaio, accogliendone in parte le
istanze di riforma. Il popolo era scontento: socialisti su posizioni differenti e popolari troppo forti per piegarsi,
portarono all’occupazione delle fabbriche, dovuta all’agitazione dei metalmeccanici. Da una parte c’erano gli
industriale che si erano fatti forti con l’industria bellica, mentre dall’altro c’erano i sindacati aderenti alla Cgl (come la
Fiom), che avevano però visto svilupparsi anche consigli di fabbrica: organismi eletti direttamente dai lavoratori e
ispirati all’Ordine nuovo torinese. Anche se il movimento occupò in breve tutte le fabbriche metallurgiche, non seppe
andare al di fuori di esse. Fu allora la volta dei dirigenti della Cgl che proposero di prendere loro il controllo
economico, tramite il controllo sindacale sulle aziende. Giolitti li appoggiò e diede a una commissione paritetica
l’incarico di elaborare un progetto per il controllo sindacale. Se da una parte gli operai poteva dirsi della vittoria
sindacale, dall’altro c’era un’ala riformista della Cgl che accusava i dirigenti di essersi svenduti, di aver svenduto la
rivoluzione per un accordo sindacale. A queste si aggiunsero le caratteristiche necessarie per entrare
nell’Internazionale comunista, come il fatto di assumere il nome di Partito comunista e l’espulsione degli elementi
riformisti e centristi, che non erano affatto ben viste. Nel 1921 a Livorno si tenne un congresso nel quale, i riformisti
non furono espulsi, ma fu la minoranza di sinistra a lasciare il Psi per dar vita al Partito comunista d’Italia, ispirato
fortemente a quello di Lenin.

IL FASCISMO AGRARIO E LE ELEZIONI DEL ‘21

L’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno, decretarono la fine del biennio rosso. La classe operaia
accusava ora i colpi della lotta precedente, primo fra tutti quello della disoccupazione, al quale seguì uno sviluppo
improvviso del fascismo agrario. Quest’ultimo però cambiò, accantonò infatti il programma radical-democratico per
lasciare spazio a strutture paramilitari (squadre d’azione) e puntare a una lotta spietata verso il movimento
socialista. Questa situazione va ricollegata alle campagne padane, dove si sviluppò il fascismo agricolo, zone in cui la
presenza delle leghe rosse era forte. Esse in due anni di scioperi, tra cui quello famoso di Bologna, ottennero grossi
vantaggi sui salari, controllavano il mercato del lavoro, una fitta rete di cooperative e anche buona parte delle
amministrazioni comunali. Questo sistema, apparentemente privo di autorità, nascondeva grossi problemi: primo tra
tutti il contrasto tra la difesa dei salariati senza terra e gli interessi delle categorie intermedie, come i mezzadri, che
aspiravano a diventare proprietari. L’atto di nascita del fascismo agrario venne individuato nei fatti di Palazzo
d’Accursio, a Bologna, nel 1920, quando i fascisti si mobilitarono per impedire la nuova amministrazione comunale
socialista. Vi furono scontri e sparatorie, da entrambe le parti. I proprietari terrieri scoprirono nei Fasci lo strumento
necessario per combattere le leghe, infatti si aggiunsero presto nuove reclute, tra cui dei piccolo borghesi. Il
fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le province italiane, arrivando addirittura fino in Puglia. Obiettivo delle
spedizioni fasciste erano i municipi e le camere del lavoro, sedi delle leghe. Molte leghe si dimisero, altre vennero
addirittura sciolte. Il movimento operaio nel 1921-22 si trovò a combattere una lotta impari contro il nemico, che
aveva il sostegno della classe dirigente e degli apparati statali. Nelle elezione del maggio del ’21, furono favoriti i
candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi costituzionali si unirono
per impedire l’affermazione dei partiti di massa. I fascisti ottennero così l’appoggio della classe dirigente, senza
dover rinunciare ai loro metodi illegali. Tuttavia i socialisti non subirono grosse perdite, i popolari si rafforzarono e i
liberal-democratici non ottennero la maggioranza parlamentare ma l’ingresso alla camera di 35 fascisti.

L’AGONIA DELLO STATO LIBERALE

Il successore di Giolitti fu l’ex socialista, Bonomi, che tentò di porre una tregue alla guerra civile. Nel 1921 venne
firmato un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti. Entrambi rinunciavano alla violenza, i socialisti accettavano di
sconfessare la formazione degli arditi del popolo, ossia quei gruppi militanti di sinistra che si erano organizzati
spontaneamente per opporsi allo squadrismo. Così facendo, Mussolini puntava a infiltrarsi nel gioco politico ufficiale.
I Ras però, rifiutarono questo patto di pacificazione, e arrivarono a mettere in discussione il loro leader, Mussolini, il
quale alla fine cedette e annullò l’accordo. I Ras lo riconobbero come leader e trasformarono il loro gruppo in un
partito, il Partito nazionale fascista. Mentre fascisti riscuotevano sempre più successo, al governo si succedettero
vari capi, da Giolitti a Facta. Il fascismo scagliò così la sua offensiva su due tavoli, quello della violenza armata e
quello della manovra politica, alla quale i socialisti non seppero controbattere. Il 1 agosto dichiararono anzi uno
sciopero generale legalitario, in difesa delle liberà costituzionali, i fascisti approfittarono di questa occasione per
attaccare di nuovo i socialisti, che si trovarono attaccati per ben una settimana dalle camice nere. Il movimento
operaio era moralmente distrutto. Nel ’22, un congresso tenuto a Roma, stabilì che i rifomisti guidati da Turati, erano
pronti a lasciare il Psi per fondare il Partito socialista unitario.

LA MARCIA SU ROMA

Sbaragliato il problema del movimento operaio, per i fascisti restava però quello dello Stato. Mussolini giocò ancora
su due tavoli: da una parte avviò le trattative con tutti gli autorevoli esponenti liberali in vista di una partecipazione
fascista al governo, rassicurò la monarchia proclamando la sua avversione per la repubblica, si guadagnò le simpatie
degli industriali; dall’altra parte lasciò che l’apparato militare del fascismo si preparasse apertamente alla presa del
potere mediante un colpo di stato. Cominciò così a prendere piede il progetto di una marcia su Roma per ottenere il
potere centrale. Vittorio Emanuele III rifiutò di dichiarare lo stato di assedio, e di cedere quindi i potere alle autorità
militari, motivo per cui Mussolini marciò su Roma e ottenne di essere dichiarato lui stesso presidente del governo.
Quasi nessuno si era però accorto di come quel cambio di governo stava invece per diventare un vero e proprio
regime.

VERSO LO STATO AUTORITARIO

Assunta la guida del governo Mussolini alternava la linea dura con quella morbida, dalle promesse di
normalizzazione alle minacce di una seconda ondata rivoluzionaria. Nel dicembre del ’22 fu istituito il Gran consiglio
de fascismo, che aveva il compito di indicare le linee guida del programma fascista, e di servire da raccordo tra
partito e governo. Le squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, un corpo
armato di partito che aveva come scopo dichiarato quello di proteggere gli sviluppi della rivoluzione, ma che in realtà
doveva limitare il potere dei Ras. Non mancavano poi le persecuzioni fisiche agli oppositori, soprattutto comunisti,
che venivano prelevati in pieno giorno. Anche i salari continuavano a ridursi, diminuirono anche gli scioperi, visto le
violente depressioni che ne seguivano. Furono alleggerite le tasse gravanti sulla imprese, abolito il monopolio statale
delle assicurazioni sulla vita, il sevizio telefonico fu privatizzato, i licenziamenti erano in netto aumento. Con la
politica liberista di De Stefani si riuscì a pareggiare il bilancio statale, e ad aumentare la produzione agricola e
industriale. Un appoggio Mussolini lo ebbe anche da papa Pio XI e dalla chiesa, che aveva spinte sempre più
conservatrici, questo perché vedeva nei fascisti la forza necessaria per allontanare la rivoluzione socialista., e per
aver restaurato il principio di autorità. Mussolini riconobbe la missione universale della chiesa, introdusse una
riforma scolastica, che oltre che prevedere l’esame di stato al termine di ogni ciclo di studi, introduceva anche
l’insegnamento della religione. Il primo partito ad essere abolito fu il Partito popolare, e il leader Sturzo lasciò la
segreteria del Ppi. Per rafforzare la sua maggioranza, Mussolini introdusse una legge elettorale maggioritaria, la
quale avvantaggiava la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa, assegnandole due terzi dei seggi disponibili.
Le forze antifasciste erano però molto divise, socialisti, comunisti, popolari e liberali si presentarono con le proprie
liste, motivo per cui le liste nazionali ottennero il 65% dei voti (grande successo riscosso soprattutto nel
Mezzogiorno).

IL DELITTO MATTEOTTI E L’AVENTINO

Il 10 giugno 1924, Matteotti, allora segretario del Partito socialista unitario, fu rapito a Roma da un gruppo di
squadristi, caricato su un’auto e ucciso a pugnalate. Il corpo fu trovato solo due mesi dopo, ma questo non gli impedì
di suscitare l’indignazione popolare. Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla Camera una
durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandole le violenze e contestando la sua validità elettorale. I giornali
antifascisti aumentarono le loro vendite, tutto il regime fasciste parve sul punto di crollare. Ma l’opposizione non era
in grado di affrontare Mussolini, né militarmente né in Parlamento. L’unica iniziativa concreta fu quella di astenersi
dal Parlamento, e di riunirsi separatamente finché non fosse stata ristabilita la legalità democratica. La secessione
dell’Aventino aveva un indubbio significato ideale, ma era priva di efficacia. I partiti aventiniani si limitarono a
coinvolgere l’opinione pubblica, il re non intervenne e i fiancheggiatori (destra e cattolici) continuavano a sostenere
il governo. Per venire incontro alla situazione politica, Mussolini accettò di dimettersi come ministro degli Interni.
L’ondata antifascista rifluì e Mussolini decise di contrattaccare, dichiarò infatti chiusa la questione morale e minacciò
apertamente di usare la forza sugli oppositori. L’ondata di arresti, persecuzioni e sequestri colpì gli oppositori, la crisi
Matteotti aveva quindi determinato la disfatta dei partiti democratici, sancendo il passaggio a una dittatura.

LA DITTATURA A VISO APERTO

Dopo il 1925, la decisione era con o contro il fascismo, dittatura o liberta (= morte). Molti intellettuali sentirono la
necessità di mantenersi neutrali, ma altri, come Gentile e Croce, si schierarono contro il fascismo. Molti antifascisti
furono costretti all’esilio, gli organi di stampa antifascisti furono proibiti, ma il colpo mortale venne con il patto di
Palazzo Vidoni, con cui Confindustria si impegnava a riconoscere la rappresentanza dei lavoratori ai soli sindacati
fascisti. Il fascismo avviò anche nuove leggi, per stravolgere definitivamente lo stato liberale:

- Legge costituzionale per rafforzare i poteri del capo del governo, sia rispetto agli altri ministri, sia rispetto al
parlamento
- Legge sindacale proibì lo sciopero e stabilì che solo i sindacati fascisti potevano stipulare contratti collettivi
- Furono sciolti tutti i partiti antifascisti
- Furono dichiarati decaduti i deputati aventiniani
- Fu reintrodotta la pena di morte
- Fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello stato
- Introduzione della lista unica, che poteva essere approvata o respinta in blocco
- Il Gran consiglio diventò un organo di stato, dotato di prerogative importanti come preparare le liste
elettorali

Le leggi fascistissime del ’26 avevano messo fine allo stato liberale dando vita a un regime a partito unico, in cui la
separazione dei poteri fu abolita e tutte le decisioni erano concentrate nelle mani di un solo uomo.

17. LA GRANDE CRISI: ECONOMIA E SOCIETA’ NEGLI ANNI ‘30


CRISI E TRASFORMAZIONE

Alla fine degli anni ’20, sia l’Europa che il mondo intero stavano attraversando una fase di distensione: il problema
tedesco sembrava essere risolto, l’economia capitalista guidata dagli USA era in netta ripresa. Tuttavia nel 1929
scoppiò, dapprima negli USA, una grave crisi, che ebbe effetti anche sulla politica e sulla cultura, sconvolse i vecchi
assetti europei e diede l spinta decisiva al crollo dell’Europa liberale. Si affermò il capitalismo diretto (ossia
programmato dall’alto), che portò anche uno sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e una crescita delle classi
medie.

GLI ANNI DELL’EUFORIA: GLI STATI UNITI PRIMA DELLA CRISI

Durante la grande guerra gli USA avevano rinsaldato la loro posizione di primo paese produttore, ma avevano anche
concesso grandi prestiti ai loro alleati in Europa, divenendo esportatori di capitali. Il dollaro era la nuova moneta
dell’economia mondiale, che tra il ’20 e il ’21 conobbe, insieme al sistema economico in generale, un periodo di
grande prosperità. Il sistema del taylorismo favorì l’aumento della produttività, grazie alla sua razionalizzazione del
lavoro in fabbrica. Il numero dei disoccupati era però molto elevato, soprattutto a causa della disoccupazione
tecnologica: la produzione aumentava, ma quasi tutti i passaggi erano svolti dalle macchine, l’intervento dell’uomo
era quasi inutile. Andava invece crescendo per l’espansione delle funzioni organizzative e burocratiche,
l’occupazione nel settore dei servizi. Notevoli mutamenti erano evidenti anche nell’organizzazione della vita
quotidiana. Gli anni ’20, politicamente parlando, furono segnati dall’egemonia del Partito repubblicano, sostenitori
di un rigido liberismo economico e convinti che un’accumulazione delle ricchezze fosse necessario per una maggiore
prosperità, i repubblicani attuarono una politica fortemente conservatrice: ridussero le imposte dirette aumentando
quelle indirette, favorirono la crescita di grosse corporations industriali e finanziarie, non preoccupandosi del forte
squilibrio economico che divideva ancora la popolazione. Vennero poi introdotte leggi limitative dell’immigrazione,
per tutelare la popolazione, e nel sud si inasprirono i pregiudizi nei confronti della popolazione di colore, dove la
setta del Ku Klux Klan raggiunse le dimensioni di un’organizzazione di massa razzista. Nel 1920 fu anche introdotto il
proibizionismo, cioè il divieto di fabbricare e vendere bevande alcoliche, poiché l’ubriachezza era considerata un
vizio tipico dei neri e dei proletari. Non mancò lo sviluppo di ottimismo e speculazione sulla borsa di New York, dove
la speculazione era consistente, anche se basata su fondamenta assai fragili. La domanda sostenuta di beni di
consumo durevoli aveva fatto sì che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata alle
capacità di assorbimento del mercato interno: possibilità limitate sia dalla particolare natura dei beni consumo sia
dalla crisi del settore agricolo. Gli USA avevano quindi aumentato le esportazioni nel vecchio continente: le economie
dei due mondi, per una questione di importazioni/esportazioni reciproche, erano ormai molto legate, motivo per cui
anche l’Europa risentì del crollo di Wall Street, 1928.

IL “GRANDE CROLLO” DEL 1929

Il crollo della borsa di New York ebbe effetti catastrofici sul mondo intero. Il corso dei titoli a Wall Street raggiunse i
livelli più elevati all’inizio del settembre 1929, al quale seguirono alcune settimane di incertezza, periodo in cui
agirono gli speculatori per liquidare i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni fin allora ottenuti. Il 24
ottobre è ricordato da tutti come “giovedì nero”, giorno in cui ci furono ben 11 suicidi a NY (speculatori e agenti di
borsa): furono scambiati 13 milioni di titoli, ci fu una corsa alle vendite, la caduta del valore dei titoli fu rapida, ogni
ricchezza era andata perduta. I primi ad essere colpiti furono i ceti ricchi e benestanti, tutto il mondo ne risentì, ma il
problema principale fu che gli USA si rifiutarono di assumersi le proprie colpe, cercarono di diffondere la loro
produzione, aumentando il protezionismo, ma al tempo stesso sospesero l’erogazione di crediti all’estero. Attraverso
la contrazione degli scambi, la recessione economica si diffuse in tutto il mondo, ad eccezione dell’Urss. Le industrie
chiudevano i battenti perché prive di ordini, licenziarono i dipendenti, i lavoratori dovevano ridurre i loro consumi, il
mercato diventava sempre più asfittico. Anche il settore agricolo non fu risparmiato, i prezzi caddero ovunque:
lavoratori urbani e rurali furono colpiti da un grande stato di incertezza e sfiducia.

LA CRISI IN EUROPA

Il declino delle attiva produttive e la crisi finanziaria erano sempre maggiori. In Austria e in Germania si arrivò al
collasso del sistema bancario, questo preoccupò molto anche la Gran Bretagna che, esaurite le riserve della sua
Banca, dovette sospendere la convertibilità della sterlina e la valuta inglese fu svalutata. La Gran Bretagna non era
più il banchiere del mondo. Le autorità politiche non erano affatto pronte ad affrontare la situazione, quando la crisi
ebbe inizio tutti i governi dei paesi industrializzati ritennero di potersi affidare al pareggio del bilancio. La spesa
pubblica venne tagliata e vennero imposte nuove tasse, la ripresa fu molto lenta: il rilancio produttivo si ebbe solo
alla fine del decennio grazie anche all’incremento delle spese militari. In Germania ad andare in crisi non fu soltanto
il sistema economico, ma anche quello politico, infatti il governo dei socialdemocratici fu sostituito da quello del
Centro cattolico. Anche la Francia applicò misure molto restrittive, soprattutto perché la crisi coincise con un periodo
di grave instabilità politica, durante il quale si succedettero ben 17 governi. In Gran Bretagna, il ministro laburista
Mac Donald, cercò di fronteggiare la crisi attuando un drastico taglio del sussidio dei disoccupati. Ma le Trade Unions
erano fortemente contrarie, motivo per cui Mac Donald arrivò a lasciare il suo partito, anche se una parte di essi lo
seguì per trovare un accordo con i liberali e i conservatori, che presero poi potere al governo, di cui Mac Donald
divenne presidente. La Gran Bretagna abbandonò la sterlina e adottò una politica più protezionistica, commerciando
quindi principalmente con il Commonwealth, motivo per cui riuscì per prima a uscire dalla crisi.

ROOSEVELT E IL “NEW DEAL”

Nel novembre 1932 si tennero le elezioni negli USA e dopo che Hoover, non solo non era riuscito a uscire dalla crisi
ma aveva creato anche un clima di forte scoraggiamento, la sconfitta fu evidente, il posto passò al deputato
democratico Roosevelt. Non aveva un programma organico da proporre ma seppe instaurare un rapporto basato
sulla comunicazione con le masse, sapeva inoltre infondergli grande speranza. Già nel suo discorso di apertura,
Roosevelt annunciò di voler iniziare il “new deal” nella politica economica e sociale, che prevedeva quindi l’interventi
dello stato nei vari processi economici. Avviò una sorta di provvedimenti come “terapia d’urto” per arrestare la crisi:
il sistema creditizio fu ristrutturato, fu svalutato il dollaro per rendere più competitive le esportazioni e promosse
anche leggi:

- Agricultural adjustment act (Aaa), che prevedeva la limitazione della produzione nel settore agricolo,
assicurando premi in denaro a coloro che avessero ridotto le coltivazioni e gli allevamenti.
- National industrial recovery act (Nira), che imponeva tasse operanti nei vari settori dei codici di
comportamento, volti a evitare le conseguenze di una concorrenza troppo accanita, ma anche a tutelare i
diritti e i salari dei lavoratori.
- Tennessee valley authority (Tva), un ente che aveva il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino
del Tennessee, producendo energia a buon mercato a vantaggio degli agricoltori, ed era anche impegnato
nell’opera di sistemazione del territorio e di conservazione della natura.

Le contraddizioni erano però molte, nonostante il successo che fu riscosso: i codici Nira per esempio, suscitavano
molte perplessità nei piccoli e nei medi operatori, mentre la riduzione prevista per l’Aaa arrestò i prezzi, ma causò
l’espulsione di moltissimi contadini dalle campagne, senza aver più alcun lavoro. Il governo varò così nuovi
programmi in grado di fornire lavoro ai disoccupati, e allargò anche il flusso della spesa pubblica. L’azione del
governo si intensificò anche per quanto riguarda le riforme sociali: si concesse infatti ai lavoratori la possibilità della
contrattazione collettiva. Persino la corte suprema cercò di fermare le riforme di Roosevelt (almeno alcune), dato
che anche se da un lato smentiva i dogmi liberisti, dall’altra non riuscì a ridare slancio all’iniziativa economica dei
privati. Fu solo durante la seconda guerra mondiale che ebbe un nuovo sviluppo e una piena occupazione, grazie allo
sviluppo della produzione bellica.

IL NUOVO RUOLO DELLO STATO

L’intervento pubblico nell’economia dei singoli stati fu necessario per uscire dalla crisi, dall’intensificazione delle
tradizionali misure di sostegno esterno alle attività produttive si passò alle radicali misure di controllo, e alla fine
all’intervento vero e proprio dello stato nella vita economica. La grande trasformazione attraversata dal capitalismo
rimase comunque un fenomeno interno al sistema. I sistemi del capitalismo liberale furono sostituiti da quelli del
capitalismo diretto, che comportava alcune limitazioni alle scelte dei privati. Il primo e più importante sforzo di
sistemazione teorica delle trasformazioni in corso, giunse nel 1936, quando venne un cambiamento importante nella
storia della scienza economica, che era distinto per la sua critica all’osservanza dogmatica dei principi del liberismo.
Con questa crisi si è smentito il fatto che il mercato tende a produrre spontaneamente l’equilibrio tra domanda e
offerta per la raggiungere la piena occupazione delle unità di lavoro disponibili (IL RUOLO DELLA SPESA PUBBLICA,
VEDI LIBRO). Condizione necessaria era però l’abbandono del mito del bilancio in pareggio: la spesa pubblica poteva
essere finanziata anche col ricorso ai deficit di bilancio e con l’aumento della quantità di moneta in circolazione. Le
linee proposte dall’economista Keynes, simili a quelle di Roosevelt, sarebbero poi state proposte in tutti gli stati.

I NUOVI CONSUMI

Nonostante il generale impoverimento, dopo il 1929, si affermarono anche nuovi modelli di consumo: la popolazione
urbana non smise mai di accrescere, così come fu lo stesso per il settore edilizio (che ebbe grossi miglioramenti sulla
qualità della vita). Importanti furono l’introduzione di acqua corrente, elettricità, trasporti pubblici e motorizzazione
privata. Migliori erano anche le retribuzioni e anche i risparmi. Negli anni ’30 si diffusero anche i consumi di massa,
anche se in forma ridotta. Non mancò poi la diffusione di veicoli a motore ed elettrodomestici.

LA COMUNICAZIONE DI MASSA

I primi apparecchi per la trasmissione del suono senza l’ausilio di fili vennero trasmessi a fine ‘800. La tecnica
radiofonica aveva fatto grossi progressi, anche se il vero salto di qualità si ebbe dopo la guerra, dato che la radio
divenne un mezzo di comunicazione di informazione di svago, vennero anche tramessi i primi programmi radiofonici
e crebbe notevolmente la vendita di questi apparecchi, soprattutto in Inghilterra. I notiziari radiofonici erano molto
apprezzati, soprattutto perché erano più tempestivi dei giornali e non richiedevano grandi abilità se non quella
dell’ascolto. Per recuperare un po’ di profitti, si iniziarono a distribuire anche riviste stampate, che erano accessibili a
un pubblico più ampio. Si sviluppò anche un altro mezzo di comunicazione, che era quello del cinema, usato sia per
proporre nuovi modelli di vita che per fare della vera e propria propaganda, oltre che a quella implicita.

LA SCIENZA E LA GUERRA

Il boom delle comunicazioni di massa portò anche a un conseguente sviluppo della tecnologia, che non poté non
coinvolgere il campo bellico. Molto importanti furono le scoperte fatte dai fisici circa gli studi e gli esperimenti sul
nucleo dell’atomo: scoprendo che la scissione poteva essere provocata artificialmente, e che era quindi possibile
liberare grandi quantità di energia, si arrivò alla creazione di un’arma estremamente potente. Solo nel 1942,
l’italiano Enrico Fermi, insieme al suo equipe realizzò il primo reattore nucleare. La corsa alla costruzione della
bomba atomica fu rapida e dalla conseguenze disastrose. Non mancarono importanti sviluppi nella tecnica aviatoria,
dove i voli divennero più rapidi e più sicuri. Gli aerei venivano usati sia in guerra, sia per il trasporto dei civili (anche
se era molto costoso). L’aeronautica militare svolse un ruolo decisivo nella seconda guerra mondiale.

LA CULTURA DELLA CRISI

Le maggiori scuole di pensiero sorte dopo la crisi furono: neopositivismo, esistenzialismo, spiritualismo cattolico e
fenomenologia, tutte molto diverse e non influenzabili l’un l’altra. In letteratura si ebbe una rottura con i canoni
classici e con il conseguente sviluppo delle avanguardie. Non mancarono le nuove correnti artistiche, come il
surrealismo. Il romanzo borghese andò in crisi per lasciare spazio alle rappresentazioni dei problemi dell’uomo, che
consistevano in una generale rottura con gli ideali borghesi. Molti intellettuali restarono imparziali mentre altri
preferirono far sentire la loro voce. In Germania, con l’avvio del totalitarismo, molti dovettero emigrare, intellettuali
e non, soprattutto ebrei, molti scelsero proprio gli USA, culla del liberalismo, ideologico e culturale. Il centro culturale
si stava quindi spostando oltreoceano.

18. L’ETA DEI TOTALITARISMI


L’ECLISSI DELLA DEMOCRAZIA

Nel corso degli anni ’30, la democrazia europea aveva subito una netta ricaduta: tra i problemi principali di questo
periodo c’erano senza dubbio la grande crisi e i successi del nazismo in Germania, che portarono l’opinione pubblica
a ritenere che la democrazia non rappresentava più una valida difesa per i cittadini. Ormai si temeva che le
alternative possibili fossero o il comunismo sovietico o i regimi autoritari. Questi ultimi in questo periodo
riscuotevano un buon successo: era una delle loro caratteristiche quella di proporsi come artefici di una rivoluzione
in grado di dare un nuovo assetto politico e sociale. Sul piano dell’organizzazione politica, il fascismo prevedeva di
riunire tutto il potere nelle mani di una sola persona, e di controllare sia l’informazione che la cultura. Sul piano
economico e sociale, il fascismo si vantava di aver creato una terza alternativa, anche se di fatto non prese mai corpo
perché significava soppressione della dialettica sindacale e un rafforzamento nell’intervento statale in economia.
Questo progetto fu ben visto dagli strati sociali intermedi, mentre quelli popolari si trovarono costretti ad accettare i
nuovi regimi e la classe borghese era più propensa ad accettare visto i benefici che ne ricavava. A tutti faceva poi
piacere il fatto di appartenere a una comunità, anche se non erano ancora per chiare le successive conseguenze,
questo perché non si rendevano ancora conto del processo di massificazione che in realtà era in atto. Se da un lato si
cerva di evitare l’omologazione del sistema di massa, dall’altro era evidente come certi suoi aspetti venivano esaltati.
Il fascismo seppe capire a fondo le realtà in cui viveva la società di massa e, riuscendo a controllare anche i suoi
meccanismi, era in grado di inserirsi al suo interno senza che nemmeno si accorgessero di come stessero entrando
nel regime totalitarista.

LA CRISI DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR E L’AVVENTO DEL NAZISMO

Nel novembre 1923, dopo essere uscito di prigione, Hitler era un uomo politico di secondo piano, capo di una piccola
organizzazione, chiamata Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, a metà tra uno paramilitare e uno
nazionalista. Hitler, di origini austriache, ebbe il compito di formare il governo nel gennaio 1933, in seguito all’uscita
dalla grande crisi. Il partito nazionalsocialista (= nazista) aveva, fino al ’29, pochi seguaci, perché usava
sistematicamente la violenza contro gli avversari politici, e faceva ricorso alle SA (= reparti d’assalto). Anche se di
fatto Hitler aveva rinunciato, dopo il fallito attacco a Monaco, ad alcune sue rivendicazioni, non era intenzionato a
“sistemare” le dure condizioni che derivarono dal trattato di Versailles. I suoi progetti vennero chiaramente esposti
in un libro, dove professava tra i suoi cardini il razzismo e il nazionalismo. Fin da giovane credeva nell’esistenza di
una razza superiore, quella ariana, che si era “inquinata” con le razze inferiori”. Per lui gli unici ariani erano i popoli
del nord, soprattutto i tedeschi che avrebbero dovuto conquistare e dominare il mondo. Per realizzare questo
proposito era necessario schiacciare i nemici interni, in primis gli ebrei, che non avendo un posto loro occupavano
quello dei tedeschi. Loro sarebbero il simbolo della disfatta del capitale finanziario e della decadenza della civiltà
europea. L’unico modo per rimediare a questa situazione era ottenere il proprio spazio vitale, espandendosi verso
oriente, e caccio i popoli slavi che erano considerati anch’essi popoli minori. I tedeschi ottennero nel giro di poco
tempo la maggioranza, dato che i cattolici di destra non esitarono a rifiutare la repubblica visto lo stato in cui si stava
riducendo, mentre la sinistra stava iniziando a rinnegare la classe dirigente della socialdemocrazia per poter
finalmente realizzare la rivoluzione. Hitler offriva a tutte le classi sociali una scappatoia alla terribile condizione in cui
stavano vivendo, proposte sicuramente molto allettanti vista la situazione. L’agonia della repubblica di Weimar iniziò
nel 1930: i partiti favorevoli alla repubblica subirono grosse sconfitte, mentre i nazisti ebbero un grosso incremento.
Due anni dopo si raggiunse l’apice, mentre la disoccupazione dilagava, i nazisti ingrossavano le loro fila e riempivano
piazze con comizi e cortei. Gli scontri tra comunisti e nazisti sfociavano nel sangue, violenza e morti andavano di pari
passo con il crollo politico. Nel marzo 1932 si iniziò a tentare di sbarrare la strada a Hitler, anche se si riuscì a batterlo
nelle elezioni, in seguito a numerose pressioni militari, Hitler ottenne di essere convocato come presidente della
repubblica e accettò di capeggiare il governo anche se la maggioranza spettava ancora alla destra conservatrice e
tradizionale.

IL CONSOLIDAMENTO DEL POTERE DI HITLER

Per ottenere quello che Mussolini ottenne in 4 anni, a Hitler bastarono pochi mesi. L’occasione per poter abusare
della violenza, gli fu offerta da un comunista olandese che appiccò il fuoco al parlamento, con questa scusa Hitler
iniziò la sua campagna di persecuzioni contro i comunisti, grazie all’aiuto della polizia. Prese delle vere e proprie
misure speciali che gli permisero di limitare sia il diritto di stampa che di riunione. Alle elezioni successive Hitler non
ottenne la maggioranza ma riuscì a far passare, visti tutti i supporti che godeva in parlamento, una legge che
prevedeva l’abolizione del parlamento, e il conseguente passaggio di tutti i poteri al governo, compreso quello di
poter modificare la costituzione. Nel 1933. La Spd fu sciolta definitivamente, con l’accusa di alto tradimento, e
questo significava che il partito operaio, che da sempre lottava con molta determinazione, era stato sconfitto. A
breve furono resi illegali tutti i partiti: alcuni furono sciolti, altri diedero le dimissioni, come risultato il partito
nazionalsocialista finì con l’essere l’unico riconosciuto. Nonostante avesse risolto abbastanza rapidamente il
problema della politica interna, restavano ancora due questioni da sistemare: una era quella degli estremisti nazisti,
che volevano a tutti i costi avviare una seconda ondata di rivoluzione e quindi di terrore, e anche la destra cattolica,
che cercava ancora in tutti i modi di opporsi per tentare di frenare la rapida ascesa dei nazisti. Hitler, che già da
qualche anno temeva le SA (= SS, squadre di difesa), decise di risolvere il problema nel modo più drastico possibile:
avvenne quella che tutti ricorderanno come la “notte dei lunghi coltelli”, in cui Hitler commise un vero e proprio
colpo di mano, che, dopo aver ucciso sia il capo della SS sia i suoi rappresentanti, lo portò ad ottenere le cariche di
cancelliere e di capo dello stato. Hitler aveva in sé tutti i poteri e nel febbraio del ’38 assunse personalmente il
comando delle forze armate.

IL TERZO REICH

Con l’assunzione della presidenza, da parte di Hitler, scomparvero tutte le tracce repubblicane, per lasciare spazio al
Terzo Reich: il capo non era soltanto colui al quale spettavano le decisioni più importanti, ma anche colui che era la
fonte suprema del diritto, il rapporto tra capo e popolo doveva essere diretto senza alcuna mediazione. Esisteva solo
l’organo unico e gli organi ad esso collegati, come per esempio il Fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati,
che aveva il compito di unificare i cittadini contro la razza inferiore, ovvero gli ebrei. Essi erano in netta minoranza,
tuttavia occupavano posizioni alte nella scala sociale, avevano lavori ben retribuiti e spesso per questo venivano
considerati degli usurai. La discriminazione verso questa popolazione cresceva molto in fretta: dapprima furono
passate le leggi di Norimberga, 1935, che tolsero agli ebrei i diritti conquistati e vietarono i matrimoni misti. Ci fu
un’emarginazione dalla vita sociale, seguita da vere e proprie violenze, come la “notte dei cristalli”, nella quale i
negozi ebrei vennero completamente distrutti. Molte erano le minacce e le percosse rivolte a loro ogni girono, fin
quando Hitler non realizzò che l’unica soluzione possibile era la deportazione di massa e la conseguente
sterminazione di tutti gli ebrei. Per “difendere la razza” si arrivò a compiere atroci sterilizzazioni sui malati e vennero
anche soppressi i malati di mente.

REPRESSIONE E CONSENSO DEL REGIME NAZISTA

Mentre i comunisti erano stati quasi del tutti sconfitti, i socialdemocratici, impreparati a una battaglia simile, finirono
col emigrare. Per quanto riguarda i cattolici, se in un primo momento accettarono il nazismo, dato che gli permise di
praticare liberamente la loro religione, quando salì al soglio pontificio Pio XI, che iniziò a rifiutare sistematicamente
le pratiche naziste, considerate eccessive e pagane, il governo nazista sconfessò il cattolicesimo. Anche la chiesa
protestante finì con il piegarsi, anche se una piccola minoranza si oppose, motivo per cui finì coll’essere perseguitata.
L’opposizione conservatrice era una delle più forti, ciò non toglie che Hitler usò anche con lei politiche molto severe
e molto repressive. Seppure fosse il regime totalitario più severo mai visto prima, riscosse decisamente molto
successo, per diverse ragioni:

1. Abilità di Hitler in politica estera


2. Riportò la Germania ad essere una potenza nella politica europea
3. Grazie a lui si ebbe una notevole ripresa economica
4. Molti lavori pubblici andarono in porto, come la costruzione di autostrade
5. La disoccupazione divenne solo un brutto ricordo
6. Vennero incoraggiate le iniziative private
7. Vennero istituite leggi per tutelare la piccola e media proprietà terriera
8. I lavoratori videro i loro stipendi aumentare, così come il loro benessere, mentre il costo della vita diminuiva
9. Fondò il mito di come fosse in grado di liberare le masse e gli oppressi
10. Difese e tutelò i contadini, offrendogli l’utopia di una stabile e felice situazione rurale in cui poter vivere,
anche se questo era in netto contrasto con la sua volontà di creare un impero industriale, urbano
11. Avviò una tradizione culturale basata sul legame tra terra e sangue
12. Riuscì a monopolizzare la stampa e la propaganda, un modo diretto per influenzare i cittadini e manipolarli
13. Tutti i momenti pubblici importanti erano sanciti da feste e cerimonie pubbliche, in modo da alleviare, anche
se per poco, la pesantezza in cui erano costretti a vivere
14. Religione laica: il culto cattolico, che da sempre era per molti un problema, non esisteva più

IL CONTAGIO AUTORITARIO

Il fascismo non ebbe successo solo in Italia, si diffuse infatti dapprima negli stati dell’Europa orientale, dove il
parlamento era molto debole, e le forza conservatrici potevano affermarsi, come nel caso dell’Ungheria. Qui le
libertà politiche ed sindacali vennero lentamente abolite, un po’ come successe in Polonia dove si instaurò un regime
semidittatoriale. Non meno agitata era la situazione negli stati balcanici:

- In Grecia, dopo la sconfitta con la Turchia, venne abolito il regime repubblicano perché non era in grado di
contrastare i continui attacchi militari avversari
- In Bulgaria l’esperimento democratico fu interrotto da un colpo di stato militare
- In Jugoslavia c’erano numerosi conflitti tra i diversi gruppi etnici: per domare la protesta dei croati, che si
sentivano oppressi da serbi, fu messo in atto anche qui un colpo di stato

Questi regimi non erano esattamente fascisti, bensì autoritari di tipo tradizionale, sostenuti dall’esercito e dai
conservatori, e privi d una propri base di massa, molto simili a quelli che si svilupparono anche nella penisola iberica.

- Anche in Spagna fu attuato un attacco di stato, 1923, dal generale Primo de Rivera, con l’appoggio del
sovrano Alfonso XIII. Ma il regime semidittatoriale di Rivera non durò molto a causa delle forti proteste,
motivo per cui dovette dimettersi e l’anno seguente vinsero i repubblicani e i democratici, che formarono
una Repubblica (di breve durata e molto travagliata).
- In Portogallo furono i militari a interrompere l’esperienza della fragile democrazia parlamentare, fu
l’economista cattolico Salazar ad avviare un regime autoritario, cattolico e corporativo.

Con la vittoria di Hitler, ci fu un crisi dei regimi autoritari, anche se molti gruppi che si ispiravano a lui divennero
sempre più estremisti.

- In Austria, dove la democrazia sembrava avere radici più solide, i cristiano-sociali e i conservatori cercarono
di modificare le istituzioni in senso autoritario, scontrandosi con l’opposizione della socialdemocrazia. Ben
presto però, questi ultimi vennero messi fuori legge e a nuova costituzione era di ispirazione clericale e
corporativa, molto vicina al modello fascista.

L’UNIONE SOVIETICA E L’INDUSTRIALIZZAZIONE FORZATA

Negli anni di affermazione del fascismo, non mancavano gli stati che preferivano guardare al modello russo, dove si
affermava il socialismo a discapito del fascismo. Se i paesi, come gli USA, erano stati fortemente colpiti dalla crisi,
l’Urss, essendo stata isolata, non era affatto stata colpita dalla crisi, anzi, stava attraversando un periodo di grande
sforzo di industrializzazione. La decisione di porre fine alle Nep fu presa da Stalin, tra il ’27 e il ’28, subito dopo la
sconfitta dell’opposizione di sinistra. Quasi tutti i comunisti avevano sempre considerato la Nep come un ripiego:
aspiravano, non solo a una forte industrializzazione, ma a un deciso impulso all’industria pesante, che avrebbe fatto
diventare una grande potenza militare l’Urss. Per fare questo, lo stato doveva prendere il controllo dell’aspetto
economico, a discapito della Nep. Il primo ostacolo a questo progetto era rappresentato dai kulaki, i contadini
benestanti, accusati di arricchirsi alle spalle del popolo. Stalin prese delle misure che si rivelarono inefficaci, per
questo nel ’29, optò per un’imminente collettivizzazione del settore agricolo e addirittura per l’eliminazione dei
kulaki come classe. Nonostante ci furono delle opposizioni, in quanto c’era chi ancora riteneva importante l’appoggio
dei contadini, Stalin diede il via alla collettivizzazione forzata, alla quale non mancarono sanguinose repressioni. Non
solo i contadini ricchi, ma tutti quelli che che si opponevano alle requisizioni e resistevano al trasferimento nelle
fattorie collettive furono ritenuti “nemici del popolo”. In migliaia furono fucilati o deportati in Siberia, chiusi in campi
di lavoro forzati. Dopo la cosiddetta “rivoluzione dall’alto”, i kulaki furono eliminati, non solo come classe sociale, ma
anche come persone fisiche. La disorganizzazione, l’inefficienza e l’opposizione dei contadini, portarono a una vera e
propria carestia. Il vero scopo della collettivizzazione era quello di favorire l’industrializzazione del paese, obiettivo
che seppure non con i mezzi migliori fu raggiunto. Questo fu possibile grazie all’enorme prelievo di ricchezza a spese
dell’intera popolazione, ma anche grazie al forte entusiasmo popolare. I cittadini erano motivati sia a livello
materiale che morale: i lavoratori che contribuivano in misura maggiore alla crescita della produzione venivano
promossi e insigniti di onorificenze. Si sviluppò così un movimento di massa basato su un rapporto competitivo, che
prese il nome di stachanovismo. Questo modello fu molto ammirato anche all’estero, visto che il paese si era
risollevato nel giro di un decennio. Tutti però, Urss compresa, sembravano ignorare i gravi danni umani e politici che
erano stati generati, si sviluppò un clima di esaltazione collettiva e al tempo stesso di dura repressione.

LO STALINISMO

Stalin riscuoteva grande successo, di venne una guida infallibile per il suo popolo: era l’autorità politica per
eccellenza. Tutto doveva ruotare attorno alla lui, ogni mezzo era buono per fare propaganda. Tutto doveva essere
sotto il suo rigido controllo, come dimostravano le forti misure di censura. Diverse furono le interpretazioni dello
stalinismo:

- Forma inedita di dispotismo industriale = scorciatoia autoritaria funzionale all’esigenza di un rapido sviluppo
economico
- Deviazione di destra della rivoluzione
- Legame con la tradizione centralistica e autocratica del regime zarista
- Premesse presenti nel pensiero di Lenin
Tutte queste teorie hanno delle verità al loro interno, è inevitabile comunque, che già nel primo piano quinquennale
era evidente come la macchina del terrore avesse cominciato a funzionare. Anche se i primi ad essere colpiti furono i
contadini, nessuno fu escluso, nel 1934 iniziò il periodo delle “grandi purghe”. L’assassinio di Kirov (avvenuto per
mano dello stesso Stalin), esponente di punta del gruppo dirigente dei comunisti, fornì il pretesto per una serie di
arresti. Da quel momento presero il via una serie innumerevole di purghe, accusando tutti di essere nemici o
traditori dello stato: avvenne una vera e propria repressione poliziesca. Peggiore fu però la sorta di coloro che
dovettero subire veri e propri processi pubblici, durante i quali gli furono estorte confessioni fatte solo perché sotto
tortura. Molti dei vecchi nemici di Stalin, come Bucharin, furono così eliminati, perfino Trotzkij, esule dal ’29 in
Messico, fu ucciso da un sicario di Stalin. Nessuno fu immune alla strage di Stalin, furono colpiti anche i membri della
polizia che Stalin non riteneva adatti a tali ruoli: si conta che tra le purghe e la seconda guerra mondiale furono uccisi
10-11 milioni di persone (nell’Urss). Seppure tutto il mondo Occidentale si fosse fatto una certa idea delle purghe,
delle deportazioni di massa e dei processi degli anni ’30, nessuno intervenne, principalmente per motivi politici, dato
che in molti vedevano un solido alleato nell’Urss.

LA CRISI DELLA SICUREZZA COLLETTIVA E I FRONTI POPOLARI

Tra i primi interventi decisivi di Hitler, ce ne furono due, attuati in politica estera, che fecero molto scalpore: il primo
venne attuato nel 1933, quando decise di ritirare la Germania dalla conferenza internazionale di Ginevra, dove le
grandi potenze erano intente a studiare come ridurre gli armamenti, un secondo conseguente provvedimento fu
quello di ritirare la Germania dalla Società delle nazioni. Entrambe le decisioni provocarono grande allarme in tutta
Europa, persino nell’Italia fascista. Nel ’34, un gruppo di nazisti di Berlino attaccarono l’Austria, uccidendo il
cancelliere e tentando l’unificazione con la Germania: Mussolini, preoccupato, istituì subito 4 divisioni al confine
italo-austriaco, ma Hitler non era pronto per la guerra, motivo per cui fu costretto a fare marcia indietro. Meno di un
anno dopo però, Italia, Francia e Gran Bretagna, si riunirono a Stresa per esprimere il loro disappunto sul governo
tedesco, ma questo fu l’ultimo momento di alleanza delle tre grandi potenze, dato che da quando l’Italia attaccò
l’Etiopia ruppe il fronte Stresa e trovò un alleato nella Germania. Nel settembre del ’34 si ebbe una svolta anche per
l’Urss che finora era rimasta lontana anche dal trattato di Versailles, ma poiché Hitler era sempre stato molto chiaro
con i suoi progetti inerenti lo stato russo, decise di entrare a fare parte della Società delle nazioni e di stringere
un’alleanza militare con la Francia. Questa nuova decisione porto lo stato Occidentale a schierarsi contro il fascismo,
diventato improvvisamente il primo pericolo. I partiti comunisti dovettero così ricercare un’alleanza sia negli operai
che nelle forze democratico-borghesi, che presero il nome di “fronti popolari”. In tutti i paesi era evidente questa
nuova alleanza, soprattutto in Francia, quando fu avviata una marcia sul Parlamento per evitare un governo di
estrema destra: fu questa la svolta che avrebbe portato ai patti di unità d’azione tra socialisti e comunisti. Questa
nuova alleanza tuttavia, non fermò l’Italia dall’attacca l’Etiopia, e Hitler dal violare un’altra clausola del trattato di
Versailles, che prevedeva il rientro delle truppe tedesche nell’ormai smilitarizzata Renania. Nelle elezioni seguenti, i
socialisti, in seguito alle loro nuove alleanze, trovarono la vittoria, sia in Spagna che in Francia, dove grazie agli
accordi di Palazzo Matignon, ottennero anche la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore e la concessione di 15
giorni di ferie pagati. Questi accordi tuttavia, crearono anche grosse difficoltà nell’economia francese che non si era
ancora ripresa del tutto dalla grande depressione. L’aumento dei prezzi portò a un rapido incremento inflazionistico,
con conseguente fuga di capitali all’estero. Per questo motivo già nel ’38 l’esperienza del Fronte popolare al governo
poteva dirsi conclusa.

LA GUERRA CIVILE IN SPAGNA

Tra il 1936 e il ’39, mentre in Francia si consumava l’esperienza del Fronte popolare, in Spagna ci fu una terribile
guerra civile: un vero e proprio scontro tra democrazia e fascismo. Le origini sono però nazionali, legate a contrasti
nati già agli inizi degli anni ’30. Dopo la fine della dittatura di Primo De Rivera, la Spagna aveva attraversato un
periodo di grave instabilità economia e sociale, che aveva visto succedersi un fallito colpo di stato militare e una
sanguinosa insurrezione anarchica, gravemente repressa. A questo si aggiungeva il fatto che la Spagna era un paese
molto arretrato, basato sull’agricoltura, fortemente legato alle tradizioni. La Spagna era l’unico paese al mondo in cui
la maggior centrale sindacale (Cnt) fosse ancora controllata dagli anarchici. Inoltre il 40% delle terre coltivate erano
sotto il dominio dell’aristocrazia terriera, che era strettamente legata alla Chiesa. Nel febbraio del ’36, le sinistre si
allearono nel Fronte popolare e si insediarono alla elezioni politiche. Le masse proletarie vissero la vittoria come
inizio di una rivoluzione sociale: un’autentica esplosione di collera popolare si rivolse contro i grandi proprietari, i
nobili conservatori e il clero cattolico. La reazione della vecchia classe dominante si espresse con la violenza
squadristica messa in atto dai gruppi fascisti della Falange. Iniziata nel luglio del ’36, la ribellione ebbe il suo punto di
forza nelle truppe coloniali di stanza nel Marocco spagnolo e fu organizzata da una giunta di cinque generali: fra essi
Francisco Franco, nel ruolo di capo degli insorti. I ribelli assunsero inizialmente il controllo della Spagna: le prime fasi
dello scontro parvero però favorevoli al governo repubblicano che, grazie all’appoggio popolare e all’aiuto delle forze
armate, poté mantenere il controllo delle zone più ricche ed industrializzate. Ciò che fece avvantaggiare Franco,
furono i comportamenti delle Grandi potenze europee. Mentre Mussolini e Hitler (che voleva sperimentare la forza
dell’aviazione tedesca) mandarono un grande contingente in aiuto dei fascisti, le potenze europee democratiche
non mandarono alcun aiuto. L’Inghilterra si mantenne neutrale, mentre i francesi dl Fronte popolare non vollero
immischiarsi. L’unico a dare un valido aiuto fu l’Urss, che non solo inviò un rifornimento di armamenti ma avviò
anche la formazione di Brigate internazionali: reparti volontari composti in buona parte da comunisti e antifascisti,
come Hemingway, Orwell, non mancarono poi gli italiani sollecitati da Rosselli. L’intervento ebbe grossi successi, non
tanto militari (anche se in parte non mancarono), ma principalmente morali. Tuttavia, le grandi divisioni interne tra i
popolari erano sempre più forti, soprattutto quelle contro gli anarchici, mentre dall’altra parte Franco acquisiva
sempre un maggiore appoggio: dalle gerarchie ecclesiastiche, dall’aristocrazia terriera, dalla borghesia moderata,
che riuniva tutte le destre nella cosiddetta Falange nazionalista. Nella primavera del ’37, gli anarchici arrivarono a
scontrarsi con i comunisti del regolare esercito repubblicano, a Barcellona. Questi ultimi adottarono un regime simile
a quello di Stalin, che portò alla scomparsa di un intero partito anarchico. La distrutta dei repubblicani era ormai
vicina, sancita definitivamente nel ’38, quando i nazionalisti divisero Madrid dalla Catalogna. All’inizio del ’39, i
nazionalisti sferrarono l’offensiva finale che si concluse con la caduta di Madrid. Tre anni di guerra portarono a
500.000 morti (accertati), 300.000 emigrati politici e una situazione economica a dir poco disastrosa. Rappresentò un
po’ l’anteprima del secondo conflitto mondiale, non solo per la guerra in senso “ideologico”, quanto per l’uso di
metodi e tecniche (bombardamenti in centri abitati, rappresaglie e rastrellamenti) che si sarebbero manifestati poi,
su scala più ampia, in tutta Europa.

L’EUROPA VERSO LA CATASTROFE

Il fatto che Gran Bretagna e Francia rimasero ferme a guardare, senza dare il loro aiuto, fece accelerare il programma
di Hitler, che prevedeva prima la distruzione dell’assetto europeo uscito da Versailles, con la riunione di tutti i
tedeschi in un unico “grande Reich”, poi l’espansione verso est ai danni della Russia. Anche Hitler, per quanto
contraddittorio, ha sperato fino all’ultimo di poter ottenere ciò che voleva senza dover ricorrere all’uso delle armi,
soprattutto visto che in Inghilterra c’era Chamberlain, con la sua politica dell’appeasement: che prevedeva sia di
sostenere Hitler nelle sue richieste più ragionevoli, sia in qualche modo di ripagarlo da ciò che aveva subito con il
trattato di Versailles. Questa politica, seppure apertamente pacifista, era impossibile da attuare dato che non
c’erano richieste ragionevoli di Hitler. La più coerente opposizione inglese venne da una minoranza conservatrice,
che faceva capo a Churcill, secondo i quali l’unico modo per fermare Hitler era quello di opporsi a tutte le sue
pretese, anche rischiando di scatenare la guerra. La situazione della Francia era molto critica: il paese non voleva che
si scatenasse una nuova guerra viste le gravi perdite della precedente. La paura era maggiore nei confronti della
Germania che non della Gran Bretagna, così la Francia adottò una politica timida e oscillante, subalterna a quella
della Gran Bretagna. Il primo successo, Hitler lo ottenne nel ’38 con l’adesione al Reich tedesco dell’Austria. A questa
decisione non si opposero né la Gran Bretagna, né l’Italia. Dopo una prima vittoria, Hitler puntava a una nuova
rivendicazione fondata su motivi etnici: quella riguardante i sudeti, ovvero i 3 milioni di tedeschi che vivevano entro i
confini della Cecoslovacchia. Seppure inizialmente il governo ceco sembrava accettare alcune dure condizioni di
Hitler, presto si rese conto che lo scopo era quello di distruggere lo stato: uno stato democratico, industrializzato,
abbastanza forte militarmente e legato da trattati di alleanza con Francia e Urss. Ma quest’ultima sarebbe
intervenuta solo a farlo sarebbe stata anche la Francia, legata alla Gran Bretagna, la quale sembrava disposta ad
assecondare “l’ultima richiesta” di Hitler. Poco prima dello scoppio della guerra, Hitler decise di accettare l’incontro
con le grandi potenze (Urss esclusa), tenuto a Monaco nel settembre del ’38, dove Inghilterra e Francia si
dimostrarono favorevoli, come l’Italia, al progetto di Hitler. L’accordo, che prevedeva anche la definitiva annessione
della Cecoslovacchia, era solo l’inizio del grande conflitto che a breve sarebbe scoppiato.

19. L’ITALIA FASCISTA


IL TOTALITARISMO IMPERFETTO

A metà degli anni ’20, mentre in Germania si stava ancora affermando il nazismo, in Italia era già avviato uno stato
totalitario: le adunate di cittadini in uniforme, le campagne propagandistiche orchestrate dell’autorità, la parola capo
oggetto di un vero e proprio culto. Caratteristica del regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie
parallele: quella dello stato monarchico (vecchio stampo) e quella del partito con le sue numerose ramificazioni. Il
punto di unione tra le due strutture è rappresentato dal Gran consiglio del fascismo, organo di partito dotato anche
di importanti funzioni costituzionali. Al di sopra di tutti c’era la figura di Mussolini, capo del governo e duce del
fascismo. In Italia il ruolo dello stato si mantenne sempre, soprattutto tramite l’intervento dei prefetti. A controllare
l’ordine pubblico e a reprimere il dissenso era invece la polizia di stato, mentre la Milizia aveva un compito ausiliario.
Il partito fascista continuò ad aumentare la sua presenza nella società civile. Mentre l’iscrizione non era più per
l’elite, ma era quasi un obbligo, una funzione importante venne svolta dal alcune organizzazioni “collaterali” al
partito: come l’Opera nazionale dopolavoro (che si occupava del tempo libero dei cittadini), o il Comitato olimpico
nazionale, o ancora le organizzazioni giovanili come i Fasci giovanili o i Gruppi universali fascisti, nate per diffondere
il fascismo anche tra i ragazzi. L’ostacolo maggiore era rappresentato dalla Chiesa: consapevole della situazione
religiosa, Mussolini aveva cercato un accordo con la Chiesa che fu siglato nel febbraio del ’29, quando vennero
stipulati i patti lateranensi, che si articolavano in tre parti distinte:

1. Trattato internazionale con cui la Chiesa riconosceva l’autorità dello stato e quest’ultimo le riconosceva la
sovranità sullo stato del Vaticano
2. Una convenzione finanziaria, con cui lo stato si impegnava a pagare il papa di una forte indennità per la
perdita dello stato della Chiesa
3. Un concordato che regolava i rapporti interni tra la Chiesa e lo Stato: i preti erano esonerati dal servizio
militare, l0insegnamento cattolico era alla base dell’istruzione, i preti spretati erano esclusi dagli uffici
pubblici…

Questi patti ebbero un grosso successo propagandistico, Mussolini riscuoteva sempre maggiore successo, infatti
nelle prime elezioni plebiscitarie, nel marzo del ’29, si registrò un afflusso alle urne senza precedenti, la maggioranza
era chiaramente favorevole al regime fascista. Mentre lo stato ottenne da questi accordi risultati immediati, la chiesa
li ottenne più duraturi, riscuoteva inoltre grande successo nell’area di maggiore interessa per i nazisti, quella
giovanile. Oltre alla chiesa, anche lo stato monarchico rappresentava un ulteriore ostacolo per il fascismo: il re
restava comunque la più alta carica dello stato (non come in Germania, dove invece era Hitler). A lui spettava il
controllo delle forze armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e di revoca del capo del governo.

IL REGIME E IL PAESE

L’Italia ruotava ormai intorno al fascismo, e grazie alla propaganda questo aveva raggiunto ogni ambito. Diverse
furono le conseguenze a questa nuova tendenza: maggiore urbanizzazione, aumentarono i lavoratori dell’industria a
discapito dei contadini, si era sviluppato il commercio e i servizi della pubblica amministrazione, ma nonostante
questi cambiamenti, alla vigilia della seconda guerra mondiale, l’Italia poteva considerarsi ancora un paese
fortemente arretrato. L’arretratezza economica e civile della società era tuttavia in linea con la tendenza fascista
orientata a una tradizione conservatrice, che spingeva i cittadini a fare ritorno alle campagne, anziché favorire
l’urbanizzazione. Vennero esaltati, anche per volere della chiesa, il matrimonio e la famiglia, i quali vennero
incoraggiati tramite assegni familiari e nuove assunzioni per i padre famiglia. Sempre per questi motivi, il regime
ostacolò il lavoro delle donne e la loro emancipazione. Anche le donne avevano le loro organizzazioni, come i Fasci
femminili o le piccole italiane, che però erano strettamente legate a virtù domestiche. Se da un lato c’erano tutte
queste conservatrici, dall’altra c’era però la voglia di creare un “uomo nuovo”, un sistema totalitario moderno,
affinché l’uomo fosse inserito nelle strutture del regime, anche se tutto ciò, vista l’arretratezza, non era facile.
Mancavano parecchie risorse, e non bastava certo una Carta del lavoro in cui si parlava di uguaglianza giuridica tra
imprenditori e prestatori d’opera a sistemare la situazione. I salari diminuirono, e i successi erano legati alla media e
piccola borghesia, i quali sentivano più di tutti l’entusiasmo e la carica del fascismo (perché favoriti dalle scelte
economiche del regime). Anche l’alta borghesia ne fu esclusa, motivo per cui le strutture sociali non furono del tutto
stravolte.

CULTURA, SCUOLA, COMUNICAZIONE DI MASSA

Capendo fin dal principio quanto le motivazioni culturali e ideologiche fossero importanti, il fascismo si dedicò con
grande interesse al mondo della cultura e della scuola. La riforma Gentile, nel 1923, aveva già rivoluzionato la scuola,
ispirandosi ai principi della pedagogia idealistica, che cercava di accentuare la severità degli studi e sanciva il primato
delle discipline umanistiche su quelle tecniche. Una volta consolidato il regime, ci si preoccupò di fascistizzare
l’istruzione, attraverso un forte controllo su insegnanti e libri (introduzione dei libri unici per le elementari). Non ci
furono grandi opposizioni a queste novità, forse perché, nonostante gli ordini, molti insegnanti proseguirono di fatto
con il loro metodo. L’università aveva maggiori libertà, ciò nonostante non le usò per contestare il regime anzi, tutti i
docenti erano sottoposti al giuramento di fedeltà al regime. Molti aderirono per reale interesse, altri semplicemente
per fare il loro lavoro e ricevere gratifiche materiali, altri ancora si opposero. Per quanto riguarda i mezzi di
comunicazione di massa la situazione era diversa: la stampa politica si intensificò, così come aumentarono le censure
e la sorveglianza di stampa, gestita direttamente da Mussolini. Il controllo fu ampliato a tutti i campi, dalle
trasmissioni radiofoniche, con conseguente diffusione della radio, persino nelle scuole, al cinema (che ricevette
grosse sovvenzioni per mostrare i cinegiornali all’inizio di ogni spettacolo), il quale raggiungeva un numero di
cittadini sempre maggiore e, visti i costi non eccessivi, raggiungeva un target molto ampio.

IL FASCISMO E L’ECONOMIA. LA “BATTAGLIA DEL GRANO” E “QUOTA NOVANTA”

Per far fronte ai vari problemi economici e lavorativi, si cercò di attuare un nuovo corporativismo. Esso trova le sue
origini nelle corporazioni medievali, e avrebbe dovuto significare una gestione diretta dell’economia da parte delle
categorie produttive, organizzate appunto in corporazioni distinte per settori di attività. Questo sistema non trovò
mai la vera attuazione. Nei suoi primi anni di governo (1922-25) il fascismo adottò una linea liberista e produttivista,
volta a favorire l’iniziativa privata. Questa però, oltre ad aumentare la produttività, portò ad un aumento
dell’inflazione e a un deterioramento della lira. Nel ’25 però, con Volpi, si passò a una linea protezionistica, il cui
primo intervento importante fu il dazio sui cereali, la quale fu accompagnata da una campagna propagandistica detta
battaglia del grano, il cui scopo era il raggiungimento dell’autosufficienza nel settore dei cereali (raggiunto). A
discapito di questo incremento furono però altri settori, come quello dell’allevamento. La seconda battaglia di
Mussolini-Volpi fu quella per la rivalutazione della lira, per cui venne fissato l’obiettivo quota novanta (90 lire per una
sterlina). Con lo scopo di ottenere una stabilità finanziaria, grazie a grandi concessioni di capitale anche dalle banche
americane, l’obiettivo fu raggiunto. A rimetterci furono i lavoratori dipendenti, che videro tagliati i loro stipendi, e le
industrie che lavoravano per l’esportazione (prodotti poco competitivi). A uscirne favorite furono invece le grandi
imprese e i processi di concentrazione aziendale. Stessa situazione di crisi toccò anche ai contadini e a molte piccole
e medie aziende, che risentirono molto delle restrizioni di credito.

IL FASCISMO E LA GRANDE CRISI: LO “STATO-IMPRENDITORE”

Le conseguenze della grave crisi non tardarono a farsi sentire anche in Italia dove, a sentirne, erano un po’ tutti i
settori: il commercio, l’agricoltura, le industrie, la disoccupazione in generale crebbe moltissimo. Due furono le
direttrici assunte per far fronte alla crisi: lo sviluppo dei lavori pubblici, in modo da poter attutire le tensioni sociali, e
l’intervento diretto o indiretto dello stato, a sostegno dei settori in crisi. Furono realizzate nuove strade, nuovi edifici
pubblici. Fu avviato il risanamento del “centro storico” della capitale, a discapito dei quartieri della “vecchia Roma”,
e la bonifica integrale (attuato in realtà solo parzialmente, sia per i costi che per l’opposizione dei grandi proprietari).
A distanza di tre anni: bonifica dell’Agro Pontino. Ad essere colpite dalla crisi furono le grandi banche miste (caduta
della borsa). Per far fronte a questa situazione, il governo creò inizialmente un istituto di credito pubblico, poi optò
per la creazione dell’Istituto per la ricostruzione industriale, che ebbe talmente successo da passare da semplice
organo transitorio a vero e proprio ente permanente. Lo stato si legò quindi sia alle industrie che alle banche, in
modo da divenire uno stato imprenditore oltre che uno stato banchiere. Non si può parlare né di economia fascista,
dato che per fare questo Mussolini non si servì del suo partito, né di economia statizzata. Se da un lato lo stato si
riprese molto velocemente dal questa crisi, dall’altro, appena ci fu la ripresa, Mussolini avviò una serie di dispendiose
campagne militari che accentuarono l’isolamento economico del paese, le uniche a ricavarci qualcosa erano le
industrie belliche. Cominciava per l’Italia un periodo di economia di guerra, destinata a durare fino al secondo
conflitto mondiale.

L’IMPERIALISMO FASCISTA E L’IMPRESA ETIOPICA

Fin dall’inizio era presente nel progetto fascista una forte componente nazionalistica. L’Italia non aveva delle pretese
da poter avanzare per rivendicare vecchie terre (come poteva fare invece la Germania), per questo si limitò fin dagli
anni ’30 a contraddire l’assetto generale uscito dal trattato di Versailles. Se da un lato rischiava di scontarsi con la
Francia, dall’altro aveva l’indifferenza della Gran Bretagna, per questo mentre tutti erano presi a contestare il riarmo
tedesco, Mussolini si preparava ad attaccare l’Etiopia. L’intento nasceva dalla voglia di risvegliare la politica
colonialista e al tempo stesso di mobilitare il paese affinché non si concentrasse più sui problemi economico- sociali.
Se in parte, sia Inghilterra che Francia, sostenevano l’Italia, dall’altra, per via dell’opinione pubblica, non potevano
permettere che uno stato indipendente della Società delle nazioni venisse attaccato, per di più “senza motivo”.
L’Italia attaccò senza nemmeno una dichiarazione di guerra, motivo per cui gli altri paesi dovettero opporsi a questa
situazione, proponendo delle sanzioni per l’Italia, la quale, oltre che non rispettarle, si dichiarò vittima di una
congiura internazionale. Fu in un momento come questo che il popolo improvvisamente si unì, tutti volevano
rivendicare quel territorio, trovando scuse come il razzismo o al contrario la volontà di liberare quei popoli della
schiavitù e dalla corruzione. L’esercito etiope era molto arretrato rispetto a quello italiano, motivo per cui Badoglio,
nel maggio del ’36 vinse senza molte difficoltà. Si può dire che dal lato economico, viste le risorse dell’Etiopia, fu un
grande successo, ma ancora più grande fu sul piano politico, con conseguente affermazione del fascismo, che
mostrava ancora una volta quanto fosse forte, anche se in realtà l’Italia non era affatto pronta ad affrontare una
guerra con una delle grandi potenze. Aveva vinto solo perché l’Inghilterra aveva deciso di non intromettersi. Proprio
per aumentare l’astio tra i tedeschi e gli anglo-francesi, Mussolini firmò l’asse Roma-Berlino, nel ’36, rafforzato sia
dalla guerra civile in Spagna sia dall’adesione italiana al cosiddetto Patto anticomintern, stipulato tra Germania e
Giappone, che prevedeva un impegno dei due paesi nella lotta contro il comunismo. Questo patto non aveva
garanzie militari, cosa che ebbe invece il patto d’acciaio, stipulato nel ’39 sempre tra le due potenze, e che
prevedeva non solo un più ampio legame con la Germania ma, visti i precedenti alla firma di questo accordo, anche
una sottomissione del duce a Hitler.

L’ITALIA ANTIFASCISTA

A partire dagli anni ’25-’26 quando il dissenso divenne punito con la legge, molti cittadini furono incarcerati,
condannati all’esilio o alla clandestinità. Altri liberali invece, che trovarono una guida in Benedetto Croce, optarono
per il silenzio, in modo da non dover subire le conseguenze di una eventuale opposizione. Quelli che più di tutti
sfruttarono la clandestinità per compiere vere e proprie agitazioni furono i comunisti. Altri furono le associazioni
segrete antifasciste, la più importante si sviluppò in Francia e prese il nome di Concentrazione antifascista: non solo
mantenne contatti con gruppi antifascisti all’estero, ma riuscì anche a riunificare schieramenti separati. Un’altra
associazione simile fu quella fondata da Rosselli e da Lussu, Giustizia e Libertà, che rappresentava un punto di
accordo tra socialisti, repubblicani e liberali, e che voleva unire gli ideali di libertà politica e quelli di giustizia sociale,
ricomponendo la frattura tra marxisti e liberisti. A queste due associazioni si opponevano però i comunisti, che
avevano sede a Parigi, ma che erano capitanati da Mosca. Togliatti, che prese il posto di Gramsci (arrestato nel ’26),
guidò il partito negli anni dell’esilio e della clandestinità. A metà degli anni ’30, la svolta dei fronti popolari avviò
anche per l’antifascismo una nuova fase, che vide il Pci riannodare i legami con l’opposizione e stringere nel ’34 un
patto di unità d’azione con i socialisti. Tuttavia tutto questo entusiasmo, sia in Francia, che in Spagna e in Italia durò
appena due anni, perché fu sconvolto dall’avvento della guerra. L’antifascismo in Italia non ebbe grosse vittorie, se
non a livello morale, dato che il paese preferiva perdere la guerra piuttosto che piegarsi ai fascisti.

APOGEO E DECLINO DEL REGIME FASCISTA

Nonostante un prima grande entusiasmo per la campagna coloniale in Etiopia, presto i forti costi militari che si
facevano sentire, iniziavano a non convincere più la popolazione. Mussolini optò così per rilanciare la politica di
autarchia degli anni ’20, consistente in una ricerca sempre maggiore di autosufficienza economica, soprattutto nel
campo di prodotti e materie indispensabili per la guerra. I suoi risultati non furono brillanti, soprattutto perché c’era
una forte perplessità nei confronti di una politica che implicava uno stretto controllo governativo sulla produzione.
L’obiettivo, seppure ci furono dei minimi miglioramenti, non fu raggiunto, cosa che provocò sempre maggiore
sconforto per la politica estera. L’amicizia con la Germania non favoriva certo l’immagine di Mussolini, senza contare
che nella sua politica non c’erano risultati soddisfacenti immediati, per questo si iniziava ad auspicare per
un’imminente pace. Ma il duce voleva tutto il contrario, ovvero uno stato guerriero, motivo per cui faceva di tutto
per incitare i cittadini, anche con l’uso della forza. Il regime doveva diventare più autoritario, da qui la necessità di
nuove misure istituzionali che culminarono nel ’38 con l’introduzione delle leggi discriminatorie nei confronti degli
ebrei, leggi che ricalcavano quelle naziste del’ 35, che colpirono sia l’ambito lavorativo che quello sentimentale
(matrimoni misti = proibiti). Il successo riscosso non era certo quello sperato, si parlava infatti di insuccesso, dato che
la comunità ebrea era relativamente piccola e ben inserita nella società. Tutto ciò scandalizzò non solo l’opinione
pubblica, ma la Chiesa che finora era un’alleata. L’unico settore dove queste idee trovarono una base solida era
quello giovanile, poiché era cresciuto legato alla mentalità fascista. Solo con lo scoppio della guerra e con le relative
conseguenze, prima tra tutte l’evidente insuccesso della politica fascista, fu chiaro anche ai giovani come il fascismo
fosse una semplice illusione, e come fosse in realtà negativo, oltre che contraddittorio.

20. IL TRAMONTO DEL COLONIALISMO. L’ASIA E L’AMERICA LATINA


IL DECLINO DEGLI IMPERI COLONIALI

Nella pausa tra le due guerre, le potenze vincitrici Gran Bretagna e Francia, pensavano di aver mantenuto la loro
posizione di forza, soprattutto considerando l’isolazionismo degli Usa e l’espansione coloniale inglese e francese.
Durante la guerra i rapporti con le rispettive colonie erano molto intensi, principalmente perché servivano di
continuo uomini e risorse, motivo per cui in Africa e in Asia si svilupparono nel giro di poco tempo movimenti
indipendentisti. Non bisogna poi trascurare la Russia, che sosteneva gli stati non russi sotto il suo dominio e i
movimenti anticoloniali. A tutto ciò si aggiungeva poi uno dei punti di Wilson, che affermava il diritto di
autodeterminazione dei popoli. Senza contare che, nella conferenza post guerra, gli Usa affidavano sì i territori alle
potenze vincitrici, ma solo temporaneamente, per far sì che imparassero ad essere autonomi e indipendenti.

IL NODO DEL MEDIO ORIENTE

Le spinte autonomistiche erano state sostenute fin dai tempi della guerra, sia in Africa settentrionale (dove la
Germania pressava affinché si ribellassero ai francesi) che nell’area mediorientale, sotto il dominio dell’Impero
ottomano. Gli inglesi per esempio, si allearono con lo sceriffo della Mecca, affinché questi, in cambio di
collaborazione militare contro l’Impero ottomano, potessero ottenere un grande regno arabo indipendente.
Chiaramente le intenzioni inglesi erano ben diverse, infatti non appena vinsero la guerra si spartirono i territori con la
Francia e, come “ricompensa” crearono due nuovi stati: Iraq e Transgiordania. In Palestina, il governo inglese aveva
riconosciuto il movimenti sionista, con creazione di una sede nazionale per il popolo ebreo. Dopo questo
riconoscimento, non mancarono i primi scontri con gli arabi, che si sentivano minacciati.

RIVOLUZIONE E MODERNIZZAZIONE IN TURCHIA


Dopo la sconfitta dell’Impero ottomano, che riuniva diversi popoli e diversi stati, a risentirne di più fu l’Impero turco.
Mentre le potenze europee pensavano a come spartirsi il territorio, c’era chi, dall’interno, pensava a liberarlo.
Inghilterra e Francia rinunciarono ai loro progetti espansionistici e lasciarono la Grecia a vedersela con i nazionalisti
turchi. Questi ultimi vinsero e videro riconosciuta la loro sovranità. Si avviava così la trasformazione della Turchia in
stato laico, repubblicano e nazionale. Il generale Kemal, che aveva gestito la situazione fin qui, si preoccupò anche di
modernizzare il paese. Non mancarono le opposizioni dei musulmani tradizionalisti, che furono però placate finché
Kemal non fosse in vita.

L’IMPERO BRITANNICO E L’INDIA

La Gran Bretagna fu la prima potenzia coloniale a capire che la sua posizione doveva essere ridimensionata. Mentre
la Francia reagiva con violenza a ogni tentativo di opposizione, la Gran Bretagna arrivò a rinunciare al protettorato
egizio, molto ricco, mantenendo però il controllo del canale di Suez. Importante fu la conferenza imperiale che si
tenne a Londra nel ’26, nella quale i dominions bianchi (Canada, Sud Africa, Australia) furono dichiarate libere e
autonome, potevano partecipare liberamente al Commonwealth, associazione da sempre importante per mantenere
buoni rapporti tra colonie e madrepatria. Il diverbio si accese maggiormente per la questione dell’indipendenza
dell’India, il paese senza dubbio più ricco e più utile agli inglesi. Qui non mancavano le spinte nazionaliste, che furono
represse con la violenza inizialmente. Mentre nel 1920 si formò il Partito del congresso, un’associazione indiana che
lottava per la prorpia indipendenza, in parallelo si sviluppava anche la figura di Gandhi. Anche lui si opponeva ma con
la resistenza passiva, la non violenza, promuovendo sia un distacco dai dominatori che dalle caste attuali: fu così che
in breve tempo il movimento indiano divenne un movimento di massa. Gli inglesi risposero a tutto ciò alternando
interventi repressivi con concessioni moderate, infatti nel ’21 con il Government of India Act, fu dato maggiore
spazio agli indiani anche nei ranghi amministrativi. In seguito fu allargato anche il diritto al voto e l’autonomia delle
province.

NAZIONALISTI E COMUNISTI IN CINA

Le conseguenze della crisi Occidentale si riversarono presto anche su Cina e Giappone, ma mentre quest’ultimo era
abbastanza forte, la Cina era lacerata già da diversi anni. Dopo il regime imperiale, quella che doveva essere una
repubblica in grado di far fronte ai vari problemi, si rivelò invece una semianarchia. Il governo non aveva la forza
necessaria per imporsi sulle province. Seppure fu una delle potenze vincitrici, fu sacrifica e ceduta in parte al
Giappone. La situazione era difficile e precaria, motivo per cui non mancarono le tendenze nazionaliste. Si riunirono
così tutti coloro che erano contrari sia all’imperialismo che all’affermazione dei signori della guerra. A sostenerli c’era
anche il neonato partito comunista cinese (1921) che era sostenuto a sua volta dall’Urss, sia economicamente che
militarmente. Ma alla morte di colui che gli aveva guidati in questa impresa, la situazione di alleanza tra nazionalisti e
comunisti finì, e quest’ultimi dopo diverse lotte sanguinose, furono dichiarati fuori legge. Vennero sconfitti sia
l’opposizione operaia che il governo di Pechino, e si avviò una riforma dell’economia. Non era facile, in quanto il
paese era molto grande e difficile da gestire, senza dimenticare che le forze comuniste non erano scomparse del
tutto, così come non erano spariti i signori della guerra con le loro spinte autonomistiche sostenute dal Giappone.
Nel ’31, con una scusa, i giapponesi conquistarono la Manciuria, da tempo nel loro mirino. I comunisti tornarono così
all’attacco perché non volevano vedersi sottrarre un altro stato, e nel loro attacco coinvolsero anche un gran numero
di contadini. Il governo optò per affrontare prima la minaccia interna, poi in un secondo momento i giapponesi, per
questo sconfisse i comunisti. Anche i governi successivi cercarono di combattere i comunisti ma, grazie anche
all’intervento dell’Urss, si resero conto ben presto che era necessario fare un fronte unito contro il Giappone.
Quest’ultimo passo a breve al contrattacco e, nonostante le forze cinesi si dimostrarono unite, non era successivo
per ostacolare l’estensione giapponese.

IMPERIALISMO E AUTORITARISMO IN GIAPPONE

Il Giappone, con la sua posizione durante il primo conflitto, rafforzò la sua struttura produttiva e conquistò nuovi
mercati. Ci fu una crescita industriale, demografica e anche politica, che non fecero altro che rafforzare la sua
posizione a livello mondiale. Nonostante le spinte imperialistiche, il Giappone non perse il suo carattere liberale,
anche se già negli anni ’20 nacquero i movimenti autoritari di destra, in parte ispirati ai fascismi occidentali, in parte
legati alla cultura tradizionalista. Alla fine degli anni ’20, queste tendenze si erano diffuse, in parte come
conseguenza alla crisi, in parte in quanto si stava sviluppando una preoccupazione generale verso le tendenze
progressiste della classe dirigente. Piano piano si affermava anche in Giappone un forte autoritarismo, che
inizialmente non si dimostrò legato alle tendenze fasciste. Ciò non toglie che, nel piano di attacco era prevista una
guerra contro la Cina.

DITTATURE MILITARI E REGIMI POPULISTI IN AMERICA LATINA

Negli anni ’20-’30 anche l’America latina risenti della situazione europea, della grande crisi. Dato che i commerci
furono ridotti, tutti i paesi che vivevano di questi si ritrovarono in una situazione molto difficile. Altri svilupparono
l’industria manifatturiera e quella pesante che, vista la situazione, era sempre molto richiesta. A risentire di questa
situazione economica, era anche la situazione politica, che vedeva alternarsi al potere l’oligarchia terriera e le
diverse dittature. Non mancò poi la diffusione e affermazione del partito operaio che portò anche a inevitabili
contrasti sociali. In Argentina, primo paese in cui ci fu di fatto una democratizzazione, ci fu anche un colpo di stato
che portò a una serie di governi conservatori gestiti dalle oligarchie terriere. In Brasile invece, ci fu una rivolta contro
queste ultime, che portò a un regime autoritario e populista, basato sul rapporto diretto tra capo e masse, su un
acceso nazionalismo ma al tempo stesso anche sulla concessione di una legislazione sociale abbastanza avanzata per
i lavoratori urbani.

21. LA SECONDA GUERRA MONDIALE


LE ORIGINI E LE RESPONSABILITA’

Gli undici mesi precedenti allo scoppio della guerra mostrano una “falsa pace”. E’ chiaro inoltre che, mentre nella
prima guerra il movente dello scoppio fu solo un pretesto (l’uccisione dell’arciduca), nella seconda era evidente che
la responsabilità era dovuta alla politica di conquista e di aggressione della Germania nazista. Le democrazie
occidentali si erano illuse, a Monaco, di aver placato la Germania con la cessione dei Sudeti. In realtà Hitler puntava
da diverso tempo all’occupazione della Boemia e della Moravia, cosa che avvenne nel ’39. In seguito a questo
attacco, la Gran Bretagna pose fine alla sua politica di appeasement, e insieme alla Francia cercò quanti più sostegni
possibili per contrastare la Germania, per questo strinse alleanze con Belgio, Olanda, Grecia, Romania, Turchia, ma la
più importante fu quella della Polonia, che era nelle mire di Hitler, il quale aveva rivendicato il possesso di Danzica e
il diritto di passaggio attraverso il corridoio che univa la città al territorio polacco. Inghilterra, Francia e Polonia si
allearono quindi affinché quest’ultima non subisse la stessa sorte della Cecoslovacchia. Mussolini da parte sua, cercò
di occupare il regno di Albania, considerato una base per un’ulteriore penetrazione nei Balcani. Mussolini, convinto
di una superiorità della Germania nella guerra, decise di firmare il patto d’acciaio, che prevedeva l’intervento in caso
di un qualsiasi attacco. Già nel maggio del ’39, la Germania progettava di invadere la Polonia. Un’incognita era però
rappresentata dall’Urss, alla quale la Polonia non voleva comunque dare libero accesso al corridoio. I sovietici si
convinsero che i governi occidentali non avevano intenzione di offrire nulla in cambio del loro aiuto e cominciarono a
prestare maggiore attenzione alle offerte di intesa che stavano intanto giungendo da parte di Hitler. Nell’agosto
1939, i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, firmarono a Mosca un patto di non aggressione tra i due paesi.
Questo accordo fece molto scalpore, anche se in effetti portava grossi vantaggi a entrambi: l’Urss, non solo vedeva
arginate la minaccia tedesca, ma tramite un protocollo segreto ricevette un riconoscimento territoriale nei confronti
degli stati baltici, della Romania e della Polonia. Il 1° settembre del 1939 le truppe tedesche attaccarono la Polonia,
due giorni dopo Gran Bretagna e Francia dichiaravano guerra alla Germania, mentre l’Italia dichiarava un patto di
non belligeranza. Le dinamiche dello scoppio erano simili a quelle della prima guerra mondiale (volontà della
Germania di espandersi), ma questa volta il conflitto avrebbe influito su una scala nettamente maggiore. Nuove
tecniche di guerra e nuove armi furono adottate e ad esserne coinvolti furono anche i cittadini (civili).

LA DISTRUZIONE DELLA POLONIA E L’OFFENSIVA AL NORD


Le prime settimane della guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia, oltre che per
dimostrare al mondo la sua efficienza bellica, accompagnata da micidiali bombardamenti aerei. Fu questa la prima
applicazione della guerra-lampo, un nuovo metodo di combattere che si basava sull’uso congiunto dell’aviazione e
delle forze corazzate, affidando a queste ultime il peso maggiore. Grazie all’uso dei carri armati era possibile
impadronirsi di vasti territori nel giro di poco tempo. Fu esattamente quanto accadde nella campagna in Polonia:
mentre nel giro di un mese la Germania riuscì ad insediare Varsavia, stando all’accordo segreto, l’Urss si
impossessava della zona orientale. Mentre l’intera Polonia era ormai stata occupata, il resto dell’Europa era in una
situazione di stallo per quanta riguarda la guerra. Fu l’Urss a prendere l’iniziativa contro la Finlandia, colpevole di
aver rifiutato alcune modifiche sui confini, l’attacco durò tre mesi e alla fine la Finlandia dovette cedere anche se
riuscì a mantenere la sua indipendenza. Fu poi la volta della Germania, che attaccò la Danimarca e la Norvegia: la
prima si arrese senza combattere, la seconda, nonostante gli aiuti ricevuti, finì per capitolare.

L’ATTACCO A OCCIDENTE E LA CADUTA DELLA FRANCIA

L’offensiva tedesca sul piano occidentale ebbe inizio nel 1940, e il conflitto si svolse talmente velocemente che la
vittoria della Germania sembrava ormai prossima. La Francia era molto forte, oltre che numericamente molto
grande, tuttavia l’organizzazione fu tra le peggiori, cosa che la portò a subire numerose sconfitte. La Germania invase
diversi paesi neutrali, Belgio, Olanda e Lussemburgo, procedette alla sua avanzata e sconfisse i francesi nonostante
l’intervento inglese. I tedeschi dovettero prendersi una pausa, per fare rifornimenti e per stabilire un decisivo attacco
della Francia, senza però intaccare la Gran Bretagna, con la quale Hitler voleva invece stringere un accordo. Quando
divenne primo ministro Petain, di destra, non fece altro che avviare le trattative per un armistizio immediato con la
Germania. Con questo accordo alla Francia non restava che la zona centro-meridionale del Paese, il resto venne
occupato dai tedeschi. Con questo crollo francese, crollò anche la Terza Repubblica. L’opinione pubblica non era poi
tanto contraria alla pace, anche se questo portò a un inevitabile ritorno all’ancien regime, con conseguente culto
dell’autorità, difesa della religione e della famiglia, organizzazione sociale di stampo corporativo. Ogni contatto con
la Gran Bretagna fu interrotto, l’ultima flotta francese fu attaccata dagli inglesi per evitare che cadesse in mano ai
tedeschi.

L’INTERVENTO DELL’ITALIA

In seguito alle imprese in Spagna e in Etiopia, le riserve (economiche e militari) italiane erano davvero scarse, motivo
per cui decise di dichiarare la propria non belligeranza. Insufficienti erano anche le scorte di materie prime, ma vista
la situazione della Francia, l’Italia di Mussolini era sempre più decisa a prendere una posizione. Anche l’opinione
pubblica, convinta dallo stesso duce, decise di voler entrare in guerra, pensando di poter ottenere grossi vantaggi
con pochi sforzi. Il 10 giugno 1940 l’Italia entra così in guerra affianco della Germania. Nonostante lo scontro con la
Francia non si rivelò dei più efficienti, quest’ultima vista la situazione generale chiese l’armistizio. Le cose non
andarono meglio contro gli inglesi, infatti nel Mediterraneo la flotta italiana subì ben due sconfitte. L’Italia dovette
anche interrompere la sua offensiva in Africa contro gli inglesi, poiché Mussolini era sempre più convinto di dover
combattere la sua guerra in parallelo a Hitler, motivo per cui rifiutò il suo aiuto.

LA BATTAGLIA DELL’INGHILTERRA

Dal giugno 1940, la Gran Bretagna fu costretta a combattere da sola contro la Germania e i suoi alleati. Hitler
puntava a un accordo, ma l’Inghilterra, ancora forte per quanto riguardava la sua flotta marina e sostenuta dal
Commonwealth non era disposta a cedere. Con Churcill come ministro la linea intransigente contro le pretese di
Hitler divenne ancora più forte, motivo per portò quest’ultimo ad attaccare la Gran Bretagna per via aerea, visto che
quest’ultima godeva della superiorità sui mari. Questa fu considerata la prima vera e propria battaglia aerea dato
che, a contrastare i tedeschi, c’era la Royal Air Force, dotata di un ottimo sistema di informazione e di avvistamento
radar. Nonostante le gravi perdite inglesi, il paese non era intenzionato a cedere, motivo per cui l’operazione tedesca
(chiamata leone marino) fu sospesa. Questa rappresentava per i tedeschi una prima sconfitta, anche psicologica.

IL FALLIMENTO DELLA GUERRA ITALIANA: I BALCANI E IL NORD AFRICA


Il 28 ottobre del ’40, l’esercito italiano attaccò improvvisamente la Grecia, motivazioni dettate principalmente da
ragioni di concorrenza con la Germania, che aveva appena iniziato la sua penetrazione in Romania. Ma i greci,
nonostante furono presi alla sprovvista reagirono bene all’attacco e seppero difendersi. Le notizie sulla scarsa
organizzazione fecero in breve tempo il giro del paese, con conseguente sconforto.: Badoglio dovette dimettersi. Nel
dicembre del ’40 gli inglesi erano passati al contrattacco, conquistarono la Cirenaica (Libia orientale) e sconfissero
l’Italia, che fu costretta a chiedere aiuto alla Germania. Mentre una parte dell’Africa cadeva lentamente in mani
inglesi, i tedeschi si ripresero la Cirenaica grazie alla loro abilità militare. Jugoslavia e Grecia furono sconfitte nel ’41
solo grazie all’intervento dei tedeschi. L’unico problema era quello del nord Africa, anche se Hitler pensava di più a
conquistare il suo “spazio vitale” ad est, ai danni della Russia.

L’ATTACCO ALL’UNIONE SOVIETICA

Nell’estate del ’41, iniziò l’attacco tedesco all’Urss. Seppure il volere di Hitler non era un mistero, l’Urss non si
aspettava un attacco così improvviso, motivo per cui fu colta del tutto impreparata, e vide la penetrazione delle
truppe tedesche. Ma, nonostante l’intervento delle truppe di Mussolini, l’attacco fu sferrato troppo tardi, infatti a
inizio ottobre, il clima cominciava già ad essere molto rigido, e gli europei non erano abituati. Se da un lato i tedeschi
non potevano muoversi a causa delle condizioni climatiche, dall’altro la controffensiva russa si dimostrò molto
efficace. L’Urss riuscì in breve a rifornirsi delle gravi perdite umane subite e trasformò la guerra in una guerra
d’usura, il cui elemento decisivo era stabilito dalla capacità di compensare rapidamente il logorio egli uomini e dei
materiali. La Germania perse così il suo vantaggio iniziale (l’attacco a sorpresa).

L’AGGRESSIONE GIAPPONESE E IL COINVOLGIMENTO DEGLI STATI UNITI

Anche se gli Stati Uniti si erano sempre dichiarati contrari ad intervenire negli affari europei, quando Roosevelt fu
eletto per la terza volta, decise di dare un aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, poiché era rimasta sola a
combattere la guerra contro la Germania. Fu approvata una legge, detta degli affitti e dei prestiti, che concedeva
grande fornitura bellica a tutti quegli stati ritenuti “necessari” per gli Stati Uniti. Il patto fu suggellato da un incontro
tra Roosevelt e Churchill, che firmarono la carta atlantica: un documento di otto punti dove veniva ribadita la
condanna al fascismo, e fissavano le linee per definire un nuovo ordine democratico una volta terminata la guerra.
Se da un lato gli Usa stavano per entrare in guerra poiché sembrava una guerra contro il fascismo, dall’altro vi ci fu
tirata dentro da un improvviso attacco del Giappone, che colpì al largo del Pacifico. Quest’ultimo si era legato con
Italia e Germania firmando il patto tripartito. Poiché quest’ultimo mirava ad espandersi, dato che solo la Cina non era
sufficiente, attaccò l’Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni
verso il Giappone. L’impero asiatico era tenuto a scegliere: piegarsi alle richieste degli occidentali o scatenare una
guerra che gli avrebbe permesso di ottenere le materie prime necessarie alla sua politica di grande potenza. Il
governo optò per la guerra e il 7 dicembre del ’41 l’aviazione giapponese attaccò, senza una dichiarazione di guerra,
la flotta degli Usa ancorata a Pearl Harbor, nelle Hawaii, distruggendone una buona parte. Avendo raggiunto, nei
mesi successivi, la superiorità navale, il Giappone raggiunse gli obiettivi che si era prefissato: controllo di Filippine,
Malesia, Birmania britannica, Indonesia francese, e puntavano già all’India e all’Australia. Pochi giorni dopo l’attacco,
anche Italia e Germania dichiararono guerra agli Usa.

IL “NUOVO ORDINE”. RESISTENZA E COLLABORAZIONISMO

Se da un lato era considerata una guerra combattuta da Germania, Giappone e Italia, si può dire che, mentre la
prima ricopriva il ruolo più importante, il secondo si espandeva rapidamente , la terza aveva un ruolo per lo più
marginale. Molti erano gli stati coinvolti nell’Asse: Ungheria, Serbia, Romania, Bulgaria, Slovacchia, la Francia di
Vichy, Olanda, Norvegia, Boemia. Sia la Germania che il Giappone cercarono di costruire, nei territori sotto il loro
controllo, un nuovo ordine basato sulla supremazia della nazione e sulla rigida subordinazione degli altri popoli.
Mentre il Giappone, per affermare il suo progetto, si basò sulle rivendicazioni indipendentistiche, la Germania non
fece alcun tipo di concessione. Un trattamento molto duro e inumano fu riservato ai popoli slavi, considerati dei
semischiavi, senza contare che tutto il mondo doveva diventare una colonia del Reich, ogni traccia di
industrializzazione e di modernizzazione doveva essere cancellata, nessuno era superiore al Reich. Oltre 6 milioni di
ebrei, considerati una razza inferiore, vennero sterminati, senza contare l’esilio forzato di molti altri. Gli ebrei, che
furono i più perseguitati, furono rinchiusi nei ghetti, discriminati, costretti a indossare una stella gialla per essere
riconosciuti, furono deportati nei lager, dove venivano sfruttati fisicamente fino al limite estremo, poi usati come
cavie, in altri casi condotti direttamente alle camere a gas. Il progetto di Hitler prevedeva l’eliminazione fisica di tutti
gli ebrei. Questo piano, per quanto inaccettabile, porta grossi vantaggi alla Germania: una inesauribile forza-lavoro,
con un costante flusso di materie prime e di ricchezze provenienti dai deportati. Questi provvedimenti costrinsero
però la Germania a mandare costantemente dei contingenti armati per mantenere il controllo in queste zone, inoltre
l’opinione pubblica stava lentamente prendendo coscienza della situazione e iniziava ad opporsi. Inizialmente ci si
limitava a non fare propaganda, poi si passo alla formazione di veri e propri gruppi fascisti, grazie anche all’aiuto
degli inglesi, e si passava al sabotaggio vero e proprio. Non sempre i piani di Resistenza attuati andavano a buon fine,
questo perché, anche se c’era un obiettivo comune, di fatto c’era una grande divisione interna, poiché in molti
temevano l’affermazione del comunismo, dato che Stalin aveva già sciolto il Comintern. Molti erano i governi che, chi
per pura convinzione, chi per semplice opportunismo, decisero di intervenire.

1942-43: LA SVOLTA DELLA GUERRA E LA “GRANDE ALLEANZA”

Il primo segnale di svolta di ebbe quando, nel maggio del ’42, l’avanzata del Giappone nel pacifico venne arrestata
grazie a due battaglie, quella del Mar dei Coralli e quella delle isole Midway: le prime battaglie dove le flotte si
affrontarono a grandi distanze, senza nemmeno vedersi, con terribili bombardamenti. Quando nel ’43, i Marines,
ovvero le truppe americane, sbarcarono all’isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono all’offensiva e puntarono
a difendere i terreni ottenuti fino ad allora. Anche la Germania continuava a combattere la sua guerra, a livello
navale, infatti nell’Atlantico non perdeva occasione per attaccare le navi inglesi e americane, che portavano
solitamente approvvigionamenti, ma che erano al tempo stesso molto preparate grazie a radar sempre più
perfezionati, bombe in profondità e razzi antisommergibile. L’episodio definitivo si verificò però con la Russia,
quando i tedeschi nel ’42 iniziarono il loro attacco a Stalingrado m finirono per essere chiusi in una morsa, ma
anziché ordinare la ritirata Hitler votò per la resistenza, facendo sì che l’armata venisse così decimata. Quello per la
Germania rappresentava un punto di svolta, mentre Stalingrado divenne il simbolo della riscossa. Nel frattempo,
un’altra battaglia veniva combattuta nel Nord Africa tra italo-tedeschi e inglesi, questi ultimi, superiori sia in fatto di
numeri che nei mezzi, costrinsero gli altri alla ritirata, alla quale seguì anche lo sbarco degli alleati nel ’42 in Algeria e
in Marocco. Era sempre più vicina la necessità di elaborare un piano in grado di sconvolgere una volta per tutte il
fascismo e al tempo stesso un progetto post guerra: già nella conferenza che si tenne a Washington, alla quale
parteciparono le tre grandi potenze e i membri del Commonwealth, venne elaborato il patto delle Nazioni unite,
dove i partecipanti giuravano fedeltà alla carta atlantica e si impegnavano nella lotta al fascismo. Anche se già in
questo momento vennero fuori le grosse perplessità circa l’Urss e il suo capo, Stalin, si preferì puntare a una
risoluzione dei problemi in Africa, con conseguente sbarco in Italia, come venne stabilito nella Conferenza di
Casablanca (gennaio ‘43). La guerra sarebbe quindi continuata con il principio della resa incondizionata, ovvero con
l’intenzione di continuare fino alla vittoria, senza alcun patteggiamento con la Germania o con i suoi alleati.

LA CADUTA DEL FASCISMO E L’8 SETTEMBRE

La campagna in Italia ebbe inizio il 12 giugno del ’43 con la conquista dell’isola alleata di Pantelleria, un mese dopo
avvenne lo sbarco in Sicilia, e in seguito conquistarono tutta la penisola, dove già precedentemente si erano verificati
numerosi episodi antifascisti: dagli scioperi operi, al disagio popolare a quelli alimentari. A determinare la caduta di
Mussolini, non fu però il semplice volere popolare, fu infatti una vera e propria congiura messa in atto dal re in
persona, infatti Vittorio Emanuele III lo aveva convocato e invitato a rassegnare le dimissioni, in seguito lo fece
arrestare dal maresciallo Badoglio. L’annuncio dell’arresto di Mussolini provocò grande entusiasmo tra la folla e il
suo partito scomparve improvvisamente. Mentre Hitler inviava nuove truppe in Italia, Badoglio si ritrovò costretto a
firmare un armistizio immediato che però, di fatto, non dava alcuna garanzia per il futuro, visto la linea intransigente
adottata dagli anglo-americani. Se da un lato il desiderio di pace era molto forte, dall’altro quando venne comunicata
la notizia dell’armistizio si scatenò il caos e il re fuggì a Brindisi. I tedeschi proseguirono così la loro avanzata senza
trovare grandi opposizioni, anche perché laddove ci fossero (come nel caso dell’isola di Cefalonia) gli avversari
venivano sterminati. Dal momento in cu, l’8 settembre fu reso noto l’armistizio, il paese era in forte subbuglio, e la
situazione sembrava non voler migliorare.

RESISTENZA E LOTTA POLITICA IN ITALIA

L’Italia poteva ormai considerarsi spezzata in due, da un lato (a sud) risorgeva il governo monarchico, mentre
dall’altro (a nord) risorgeva il regime fascista. I tedeschi liberarono Mussolini, prigioniero al Gran Sasso, il quale
dichiarò di voler creare un nuovo stato fascista che avrebbe preso il nome di Repubblica sociale italiana (Rsi), con
capitale a Salò. La credibilità del duce non era alta, poiché dipendeva chiaramente dai tedeschi, inoltre prese forti
misure nei confronti dei mille ebrei (circa) presenti a Roma, senza contare il numero di risorse umane ed economiche
che spendeva nel tentare di rianimare la sua immagine. La principale funzione del governo di Salò fu quella di
reprimere e combattere il movimento partigiano. Per quanto consisteva in una vera e propria guerra civile, i
partigiani cercavano di agire in maniera isolata, per non coinvolgere altri innocenti, anche se spesso i loro attacchi a
sorpresa finivano con l’essere sconfitti da dure rappresaglie, tra cui quella del ’44, a Roma, dove furono fucilati alle
Fosse Ardeatine 335 detenuti, ebrei, antifascisti e sostenitori di Badoglio. Dopo una prima unione casuale, le truppe
partigiane si riunirono sulla base dell’orientamento politico: le Brigate Garibaldi, che erano le più numerose e
formate per lo più da comunisti, Giustizia e Libertà, legato ai movimenti degli anni ’30 e le Brigate Matteotti,
socialiste. Nei 45 giorni che intercorsero tra l’annuncio dell’armistizio e la fine del fascismo, sorsero parecchie nuove
formazioni antifasciste, come per esempio la Democrazia cristiana, che prese il posto del Partito popolare, seguita
dal Partito liberale, da quello repubblicano e da quello socialista, non mancavano poi i comunisti. I vari partiti si
riunirono dopo l’8 settembre a Roma, nel comitato di liberazione nazionale, per prendere decisioni circa
l’opposizione al fascismo, ma anche al governo Badoglio, che invece riscuoteva grande successo tra gli alleati, motivo
per cui arrivò a dichiarare guerra alla Germania. Tornato dall’Urss, il comunista Togliatti, propose di creare un fronte
comune antifascista, dimenticando, almeno temporaneamente le varie differenze politiche, che distraevano soltanto
dalla causa principale. Questa decisione, anche se contrastata, permise di creare il primo governo di unità nazionale,
presieduto da Badoglio. Nel luglio del ’44, dopo che Roma fu liberata degli alleati, Vittorio Emanuele III cedette il suo
posto al figlio Umberto, mentre Badoglio si dimise per lasciare il suo posto a Bonomi (fondatore della Democrazia del
lavoro). i partigiani acquisivano sempre più adesioni, sempre più successi, sempre più città venivano liberate in
alcune si instaurava persino Repubbliche partigiane. Nonostante il difficile inverno ’44-’45 durante il quale i partigiani
si bloccarono sulla linea gotica, tra Rimini e La Spezia, in primavera si riuscì finalmente a battere il contingente
tedesco: la Resistenza era ormai pronta a promuovere l’insurrezione generale.

LE VITTORIE SOVIETICHE E LO SBARCO IN NORMANDIA

Tra il ’43 e il ’44, l’Urss riprese il suo attacco nel versante orientale e spinse, grazie all’aiuto dell’Armata rossa, fino
alle porte di Berlino. Il ruolo della potenza sovietica, sempre più forte, fu affrontato nella conferenza interalleata di
Teheran, dove i tre grandi rappresentanti Stalin, Roosevelt e Churchill concessero al primo uno sbarco in forze sulle
coste francesi, da attuarsi nella primavera del ’44. L’operazione, che prese il nome di Overlord era gestita dal
generale Eisenhower che, seppure tra diverse difficoltà, riuscì a sbarcare al nord, in Normandia. Dopo due mesi di
intensi combattimenti, gli alleati riuscirono a sfondare le difese tedesche e a spingersi nel Nord della Francia. I
tedeschi si dimostrarono impreparati ma, a causa di una serie di errori degli alleati, i tedeschi ottennero un po’ di
tempo per riorganizzarsi.

LA FINE DEL TERZO REICH

Nell’autunno del ’44, la Germania poteva dirsi sconfitta. Romania e Bulgaria avevano cambiato fronte, mentre
Finlandia e Ungheria chiesero l’armistizio. I russi entrarono a Belgrado, gli inglesi in Grecia. Il territorio del Reich non
era ancora stato toccato da eserciti stranieri, se non sotto bombardamenti. Gli alleati erano inarrestabili, dopo aver
sconfitto le basi militari tedesche, si rivolsero a quelle industriali e infine persino ai civili. L’intransigenza di Hitler era
sempre più forte: non voleva arrendersi, puntava ad armi “segrete” o a una possibile rottura degli equilibri tra gli
alleati. Nella conferenza di Mosca del ’44, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d’influenza dei paesi
balcanici, che però non teneva alcun conto dell’interesse dei paesi in causa. Nel febbraio del ’45, le grandi potenze si
riunirono a Yalta, in Crimea, dove decisero che la Germania sarebbe stata divisa in 4 zone e sottoposta a un processo
di denazificazione. L’Urss si impegnò poi per entrare in guerra contro il Giappone. Nonostante l’ultima offensiva
tedesca, nelle Ardenne, la fine del Reich era ormai sempre più vicina, grazie all’attacco su più fronti tutti i paesi
venivano lentamente liberati. Il 25 aprile, dopo un’insurrezione generale italiana, Mussolini tentò di scappare ma fu
preso e fucilato. Prima di suicidarsi nel suo bunker sotterraneo, prima dell’arrivo degli alleati (30 aprile), Hitler lasciò
il suo posto a Dönitz che avviò l’armistizio. Il 7 maggio del ’45, nel quartier generale alleato a Reims, fu firmato l’atto
di capitolazione delle forze armate tedesche. Dopo più di 5 anni la guerra era giunta alla sua fine, ad eccezione
dell’estremo oriente.

LA SCONFITTA DEL GIAPPONE E LA BOMBA ATOMICA

A partire dal ’43, gli Usa aveva iniziato a riprendersi i territori nel Pacifico, avvalendosi della superiorità numerica, dei
mezzi e dei bombardamenti strategici. Il Giappone non dava segno di arresa, anzi, ricorreva addirittura ai kamikaze
pur di attaccare il nemico, motivo per cui il nuovo presidente Truman decise di impiegare contro il Giappone la
bomba atomica, che era appena stata messa a punto dagli scienziati e provata in un deserto del Messico. Questa
decisione fu dettata sia dalla voglia di mettere fine alla guerra, durata ormai da troppo tempo, sia per dimostrare la
superiorità americana. Il 6 agosto ne fu sganciata una a Hiroshima, tre giorni dopo a Nagasaki. Gli esiti furono
disastrosi, sia per il numero di morti, sia perché tutto fu raso al suolo, sia perché non mancarono gli effetti
conseguenti dovuti a contaminazioni da radiazioni. L’imperatore nipponico finì con l’arrendersi e il 2 settembre 1945
si concludeva il secondo conflitto mondiale.

22. IL MONDO DIVISO


LE CONSEGUENZE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

La seconda guerra mondiale ha rappresentato, non solo una linea spartiacque che ha dato vita a nuovi confini, ma
anche la fine del nazifascismo e, cosa non meno importante, un vero e proprio punto di rottura, di crisi: anche le
potenze vincitrici non potevano essere definite tali, in quanto le perdite a livello economico e umano erano
moltissime. Le superpotenze rimaste, e che potevano definirsi tali, erano gli Stati Uniti e l’Urss. Il primo era superiore
sia militarmente che economicamente, le seconda, nonostante le gravissime perdite, riusciva a uscire da vincitrice.
Entrambe sono società nuove, non corrispondono più alla vecchia idea di stato: sono multietniche, hanno moltissime
risorse naturali, un solido apparato industriale, entrambe avevano interessi di dimensione mondiale, ciascuna era
portatrice di una propria cultura, che era a sua volta contrapposta a quella dell’altra. Il messaggio americano era
quello dell’espansione della democrazia liberale, in regime di pluralismo politico, di concorrenza economica e di
ampia libertà individuale, in base a un’etica del successo a sfondo individualistico. Il messaggio sovietico invece era
invece quello della trasformazione del vecchio assetto politico-sociale in nome del modello collettivistico, fondato sul
partito unico e sulla pianificazione centralizzata, nonché su un’etica anti-individualista della disciplina e del sacrificio.
Si arrivò così a un evidente distacco mondiale, incentrato su due poli e detto quindi bipolare, da una parte la società
capitalista, dell’altra quella socialista. Sul piano psicologico e morale, la guerra ebbe danni molto significativi: prima
cosa che sconvolse la popolazione fu il numero delle vittime, oltre 50 milioni di morti, di cui due terzi erano civili,
seconda cosa sconvolgente fu la scoperta dei crimini nazifascisti che vennero commessi, terza fu l’introduzione della
bomba atomica, e la conseguente presa di coscienza di come stavano prendendo piede molto velocemente le armi di
massa. Per questo si sentì la necessità di ridare stabilità, oltre che di dare una nuova fisionomia all’Onu. Venne poi
applicato per la prima volta un cambiamento nel diritto internazionale, fu infatti incluso un settore penale, applicato
al processo di Norimberga (1945-46), nel quali i capi nazisti responsabili del genocidio vennero processati e
condannati a morte. Primi tra tutti a farsi promotori di questo processo furono gli Stati Uniti, che a breve divennero
promotori persino di valori ideali e culturali. Proprio per le varie certezze che l’America riusciva a dare, si venne
creando il mito americano.
LE NAZIONI UNITE E IL NUOVO ORDINE ECONOMICO

Di ispirazione americana fu la creazione dell’Onu, avvenuta con la conferenza di San Francisco (1945), al posto
dell’ormai vecchia e screditata società delle nazioni, e con l’obiettivo di evitare un’ulteriore guerra e promuovere il
progresso economico e sociale di tutti i popoli. Ispirato ai principi della Carta atlantica, lo statuto dell’Onu ha due
importanti concezioni:

1- Utopia wilsoniana democratica


2- Utopia rooseveltiana della necessità di un direttorio delle grandi potenze come unico efficiente strumento di
controllo per gli affari mondiali

I principi di uguaglianza e di universalità sono rispecchiati dall’Assemblea generale degli Stati membri, che si riunisce
annualmente e che ha il potere di adottare, a maggioranza semplice, risoluzioni che sono però vincolanti. Il Consiglio
di sicurezza ha invece il ruolo di direttore, un organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di
prendere decisioni vincolanti per gli stati e di adottare misure che possono giungere fino all’intervento armato. Il
consiglio è composto da 15 membri: le 5 maggiori potenze vincitrici (Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina) sono
membri permanenti, mentre gli altri 10 vengono scelti a turno. Per le 5 grandi potenze, su richiesta dell’Urss che si
sentiva in netta minoranza, fu introdotto il diritto di veto, col quale si aveva la possibilità di rifiutare ogni decisione
qualora la si ritenesse inadatta o non consona con i propri interessi. Altri organi dell’Onu sono:

- Consiglio economico e sociale, da cui dipendono le agenzie specializzate per la cooperazione nei vari campi
- Corte internazionale di giustizia, cui spetta di dirimere le controversie tra gli stati che vi si rimettono
volontariamente

Anche se rappresentava un importante punto di incontro, di fatto, l’Onu si è dimostrato molto spesso inadempiente
ai suoi doveri e non in grado di risolvere la crisi come invece aveva sentenziato. Il vero fulcro dell’organizzazione
erano però gli Stati Uniti, che ridimensionarono i vincoli protezionistici, soprattutto per quanto riguarda l’impero
britannico. Con gli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, fu creato il fondo monetario internazionale, con lo
scopo di costituire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali e di assicurare la stabilità nei cambi di
monete. Di fatto la moneta più importante divenne il dollaro, a seguire la sterlina. Al fondo fu affiancata la Banca
mondiale, col compito di concedere prestiti a medio-lungo termine ai singoli stati per favorirne la ricostruzione e lo
sviluppo. Sul piano commerciale, un sistema fondamentalmente liberoscambista fu instaurato dall’Accordo generale
sulle tariffe e sul commercio, che prevedeva un generale abbassamento dei dazi doganali. Gli Stati Uniti, che di fatto
detenevano il potere sull’economia mondiale riuscirono anche a far sì che gli altri stati potessero svilupparsi.

LA FINE DELLA “GRANDE ALLEANZA”

L’atteggiamento delle due superpotenze dopo la vittoria era nettamente diverso: gli USA puntavano a una rapida
ricostruzione, economica, politica e sociale. Volevano risollevare i commerci. Mentre l’Urss, che aveva subito gravi
danni e devastazioni, puntava perlopiù a scagliarsi sugli stati che avevano perso, infliggendogli quindi ulteriori pene.
Stalin voleva espandersi, e Roosevelt, che voleva mantenere pacifici i rapporti con l’Urss e che, al tempo stesso,
riteneva legittime alcune richieste di Stalin, optò per concedergli alcuni stati orientali che erano già stati di fatto
sovietizzati. Mentre Roosevelt credeva che le due superpotenze potessero essere grandi insieme, per Truman
(successore di Roosevelt) non era così. Già alla conferenza di Potsdam emersero chiaramente i fondamentali nodi del
contrasto: i futuri sviluppi della Germania dove stava già lentamente prendendo piede il disegno di Stalin.
Quest’ultimo cercò tramite l’affermazione dei partiti comunisti e persino tramite il ricorso all’esercito, di imporsi in
Germania, cosa che non faceva affatto piacere alla potenze occidentali. Dopo il discorso tenuto da Churchill la fine
dell’alleanza era ormai vicina. Alla conferenza di Parigi vennero risolti molti problemi legati sia ai nuovi confini, sia ai
provvedimenti e agli accordi da prendere con gli stati vinti ma restò ancora di fatto irrisolto il problema della
Germania.

LA “GUERRA FREDDA” E LA DIVISIONE DELL’EUROPA


La conferenza di Parigi fu di fatto l’ultima collaborazione tra Urss e stati occidentali. Nell’agosto del ’46 ci fu anche
uno scontro tra Urss e Turchia circa la questione dello stretto dei Dardanelli. Convinto che con questa cessione l’Urss
avrebbe ottenuto il potere su Turchia e Grecia, decise di intervenire, mandando una flotta americana nel mar Egeo a
sostegno dei turchi. Fu la prima applicazione della teoria del containment, che sosteneva la necessità di contenere
l’espansionismo dell’Urss facendole sentire l’unica voce che si riteneva in grado di intendere, quella della forza.
Questa politica, basata sulla dottrina di Truman, fu ufficializzata in un discorso tenuto da Truman e significava aprire
un confronto globale con l’Urss. Nel giugno del ’47, gli Usa avviarono un programma di aiuti economici, che prese il
nome di Piano Marshall, e che infastidì moltissimo l’Urss, in quanto ci vedeva la possibilità di ostacolo, motivo per cui
si rifiutò, insieme ai suoi stati “satellite” di accettare questi aiuti. Di fatto questo piano ebbe esiti positivi, dato che
permise la ricostruzione degli stati, il loro rientro nei commerci e l’adozione di una linea più moderata, soprattutto
da parte degli stati con politica protezionistica. Un nuovo motivo di tensione fu causato dalla formazione di un Ufficio
d’informazione dei partiti comunisti (Cominform): una sorta di riedizione in tono minore della Terza Internazionale,
che era stata sciolta in omaggio dell’alleanza antifascista. Ebbe così inizio quella che fu definita Guerra Fredda, così
chiamata perché le due superpotenze non avevano più alcun contatto, e non ricorsero alle armi. A risentirne furono
tutti i partiti comunisti che si trovavano negli stati occidentali, come per esempio in Italia e in Grecia. Il più
importante terreno di scontro fu la Germania, divisa in 4 zone di occupazione. Berlino, che si trovava in zona
sovietica, era a sua volta divisa in 4 zone. Mentre gli Usa con l’aiuto della Gran Bretagna continuavano a sostenere le
zone di loro competenza, l’Urss optò per un blocco di Berlino. Impedendo così di far arrivare i rifornimenti, ma
tramite la costruzione di un ponte aereo si riuscì a sbloccare la situazione, l’Urss decise di rimuovere il blocco e,
senza dover ricorrere alle armi, si decise che le tre zone occidentali della Germania sarebbero state unificate sotto il
nome di Repubblica federale tedesca, mentre quella orientale prese il nome di Repubblica democratica tedesca.
Nell’aprile del ’49 venne firmato un accordo tra le potenze occidentali, che prese il nome di Patto atlantico, il cui
scopo non era solo il reciproco sostegno, difesa ma anche una comune professione della cultura occidentale. Venne
inoltre introdotta la Nato (organizzazione del trattato del nord atlantico), che aveva invece carattere militare. l’Urss
dal canto suo stipulò il patto di Varsavia con i suoi stati satellite, un’alleanza che garantiva la difesa. Se per
convenzione il periodo della guerra fredda si fa terminare nel ’53, con la morte di Stalin, di fatto è andata aventi per
molto più tempo, infatti ci si riferisce all’inasprimento dei rapporti con l’Urss, che non cambiò dopo la morte del loro
leader.si avviò una rapida corsa agli armamenti, proprio perché si temeva che da un momento all’altro si rischiasse di
ritrovarsi in guerra. A oriente si instaurarono in fretta regimi repressivi, comunisti, soggetti a frequenti interventi
armati (alcuni di essi presenti anche nei paesi americani).

L’UNIONE SOVIETICA E LE “DEMOCRAZIE POPOLARI”

La vittoria in guerra non portò all’Urss una situazione di allentamento, anzi, Stalin intensificò le sue misure
repressive, così come aumentò le purghe. Anche se ufficialmente l’Urss non riceveva aiuti esterni in capitale, di fatto
ne riceveva sotto forma di riparazioni, dalla Germania dell’est, dall’Ungheria, dalla Romania e dalla Cecoslovacchia.
La ricostruzione del paese avvenne in maniera abbastanza rapida, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo
dell’industria pesante, legate principalmente alla costruzione di nuove armi. L’Urss si stava iniziando ad affermare,
sia come potenza industriale, sia come potenza militare, tanto è vero che nel ’49 arrivò a costruire la sua prima
bomba atomica. Per quanto riguarda la politica estera, optò per una radicale trasformazione dei paesi sotto il suo
dominio, che, anche se divennero democrazie popolari, di fatto era solo una scusa per mascherare l’applicazione
dello stesso regime che c’era nell’Urss. Un caso particolare è svolto dalla Polonia: per gli inglesi era un punto di
onore, in quanto erano entrati in guerra proprio per difenderla, mentre per Stalin era un pericolo, poiché per ben
due volte in 30 anni erano entrati in Russia passando di lì. Stalin voleva quindi mantenere un certo controllo sul
paese, cosa che finì per ottenere. Se all’inizio venne instaurato un regime socialista, segretamente manovrato dai
comunisti, nelle elezioni successive i comunisti non si fecero problemi ad assumere il maggiore controllo. In Bulgaria
e in Romania il regime comunista si affermò molto velocemente, mentre l’Ungheria tentò fino all’ultimo di
combattere. Caso ancora più critico fu quello della Cecoslovacchia, economicamente e socialmente sviluppata, non
ostile all’Urss. Qui prevaleva l’alleanza tra i partiti di sinistra, che però fu presto sciolta poiché le decisioni circa il
piano Marshall erano differenti: i socialisti volevano accettarli, i comunisti no. Per questo motivo questi ultimi
optarono per una violenta campagna, con minaccia di una vera e propria guerra civile. I comunisti finirono col
prevalere anche qui. In Albania e nella Jugoslavia di Tito il comunismo si affermò per volontà propria. La
collettivizzazione forzata portò a un decollo dell’industrializzazione nei paesi dell’est, i latifondisti furono cacciati e la
collettivizzazione coinvolse anche l’agricoltura. Proprio per la grande importanza che si dava costantemente
all’industria e non all’agricoltura, gli agricoltori finirono col diminuire, mentre gli operai aumentarono a dismisura.
Tuttavia, l’economia degli stati satellite era tutta in base a quella dello stato guida, venne per questo istituito il
Consiglio di mutua assistenza economica. Lo stile di vita si abbassò enormemente, motivo per cui l’Urss dovette
affrontar la situazione con maggiore rigidità, per evitare disordini interni. Il primo ad opporsi, con successo, ai metodi
di Stalin fu Tito, che non era propenso alla divisione del lavoro all’interno del blocco orientale. Stalin lo condannò e
lo escluse dal Cominform. La Jugoslavia non si arrese e sotto la guida del suo leader riuscì ad avviare una sorta di
autogestione delle imprese, si concentrava quindi sulla politica interna, escludendo i due poli mondiali. Direzioni
aziendali e consigli di fabbrica avevano grande rilevanza nel progetto di Tito, e il sistema si basava su una reciproca
concorrenza in un sistema di prezzi liberi. Il progetto prendeva sempre più forma, si ampliava, e per paura che altri
stati comunisti potessero esserne attratti, Stalin decise di avviare una grande epurazione, e tramite il sistema delle
purghe riuscì a ristabilire l’ordine.

GLI STATI UNITI E L’EUROPA OCCIDENTALE NEGLI ANNI DELLA RICOSTRUZIONE

Gli Stati Uniti non avevano nulla da ricostruire, ma si dovevano concentrare sulla riconversione: il sistema economico
doveva essere riorientato a scopi di pace. In questa fase, alla guida del paese c’era Truman, di notevoli capacità
decisionali ma non con lo stesso carisma del suo predecessore. Il suo Fair Deal si proponeva di portava avanti la
politica di Roosevelt, anche se incontrò non poche opposizioni, soprattutto per quanto riguardava l’integrazione
raziale. Il costo della vita aumentò, ci furono rivendicazioni e agitazioni, motivo per cui venne approvata la Taft-
Hartley Act, che concedeva di scioperare solo alle industrie di interesse nazionale. Venne salvaguardato il piano
originario del New Deal e vennero incrementati i programmi di assistenza sociale. In America prese il via una vera e
propria campagna anticomunista, avviata dal senatore repubblicano McCarthy, il quale fece passare la legge per la
sicurezza interna che costituiva lo strumento giuridico per epurare o emarginare tutti coloro che erano anche solo
sospettati di filocomunismo. Per queste sue eccessive accuse indiscriminate, il suo sistema gli si ritorse contro
quando arrivò ad accusare l’esercito. In tutti i paesi si era sviluppata una forte spinta democratica e riformista. In
Inghilterra, Churchill fu battuto nel ’45 dal partito laburista di Attlee, che avviò una serie di riforme:

- Nazionalizzazione della banca d’Inghilterra


- Nazionalizzazione di industrie carbonifere e siderurgiche
- Nazionalizzazione dei trasporti
- Introduzione del salario minimo e del Servizio nazionale sanitario
- Estensione della sicurezza sociale

Tutte queste riforme portarono alla formazione del Welfare State, che, anche se di fatto era una grande innovazione
e poteva riscuotere molto successo, fu avviato nel momento sbagliato, poiché venivano richiesti troppi sacrifici ai
cittadini, motivo per cui nel ’51 favorirono i conservatori. Nella Francia di De Gaulle si erano sviluppati tre grandi
partiti di massa, tra loro coalizzati: il Partito comunista, la Sfio e il movimento repubblicano popolare, di ispirazione
democratico-cristiana. Nel ’46 venne approvato un piano quadriennale, di ispirazione liberista, ma che di fatto
manteneva la vecchia costituzione. De Gaulle non era soddisfatto e, dopo aver lasciato il governo fondò il suo
partito, in modo da poter elaborare una sua riforma della costituzione. Nel frattempo l’alleanza tra i tre partiti si
ruppe e i comunisti vennero estromessi. La Germania, anche se di fatto era il paese che maggiormente fu colpito dal
postguerra, fu anche quella che riuscì a risollevarsi più in fretta, garantendo una stabilità economica e politica già nel
’51. Numerosi erano i problemi che aveva dovuto affrontare, ma, mentre l’ala orientale, sotto il dominio dell’Urss era
in una situazione di stallo, se non quasi di arretramento, quella occidentale cresceva rapidamente. Era entrata a tutti
gli effetti nell’ambiente capitalista.

LA RIPRESA DEL GIAPPONE


Anche il Giappone, così come la Germania, subì uno sviluppo molto rapido nonostante fosse un paese uscito
sconfitto dal secondo grande conflitto. Anche qui gli americani avviarono un modello di organizzazione politica e
sociale di tipo liberale e occidentale. Nel ’46 venne imposta una nuova costituzione, redatta da funzionari americani,
che trasformava l’autocrazia imperiale in una monarchia costituzionale e introduceva un sistema parlamentare.
Unico freno a questa situazione era mosso dai ceti conservatori. Con la guerra di Corea, il Giappone era diventato
base logistica e fornitore dell’esercito americano, il che favorì una rapida ripresa economica, favorita dall’assistenza
degli Stati Uniti, che oltre a stabilità politica davano al paese anche una vera e propria egemonia dei gruppi moderati,
raccolti nel Partito liberal-democratico. La quasi completa assenza di spese militari imposta dal trattato di pace,
assieme a una politica economica fondata sul contenimento dei consumi e sul rilancio produttivo, consentì già negli
anni ’50 un notevole investimento. I settori più sviluppati dell’industria furono quelli della siderurgia, della
meccanica, della tecnologia e dell’automobile. Negli anni ’60 si può affermare che il Giappone sia diventato
ufficialmente la terza potenza economica mondiale, dopo Usa e Urss.

LA RIVOLUZIONE COMUNISTA IN CINA E LA GUERRA IN COREA

Nel 1949 si ebbe un punto di svolta nella lotta tra “mondo socialista” e “mondo capitalistico”, infatti ci fu l’avvento
dei poteri comunisti in Cina. Questo fenomeno è dovuto sia alla guerra fredda che al processo di decolonizzazione
che si verificava un po’ ovunque. Non solo prese piede una rinascita della Cina come stato indipendente e come
grande potenza, ma s affermava anche un modello comunistico ben diverso da quello russo. La precaria alleanza tra i
comunisti di Mao Tse-Tung ei nazionalisti ebbe vita breve. Questi ultimi, che erano al governo, non seppero
affrontare i nemici americani, anche se di fatto per contrastarli avevano messo da parte la loro guerra con i
comunisti, che invece dimostrarono grande potenza e organizzazione, riuscendo infatti a sconfiggere gli americani
che tentavano di occupare anche i loro territori, senza contare il grande successo che stavano riscuotendo,
soprattutto grazie all’avvicinamento con le masse contadine. Quando lo scontro principale tornò ad essere quello tra
comunisti e nazionalisti, quest’ultimi sapevano che avevano ancora diversi aiuti ricevuti dagli alleati, infatti in un
primo momento riuscirono a vincere gli scontri, anche se ben presto, nel ’49, Mao riuscì a imporsi, anche se godeva
di uno scarso appoggio dell’Urss, diventando anche una grande potenza a livello militare. I nazionalisti optarono così
per ritirarsi nell’isola di Taiwan, con l’aiuto degli americani. Il 1° ottobre del ’49 fu proclamata a Pechino la nascita
della Repubblica popolare cinese, riconosciuta da Urss e Gran Bretagna ma non dagli Usa. La nuova repubblica
procedette con rapide socializzazioni, lasciando fuori in un primo momento il privato. Nel ’50, Mao stipulò un
accordo con l’Urss che prevedeva un’amicizia e una mutua assistenza. La situazione si aggravò sempre di più e fu
evidente quando la Corea fu divisa in due zone, a Nord c’erano i comunisti, al Sud gli americani. Lo scontro fu
inevitabile: in un primo momento sembrano vincere i comunisti, poiché aiutati dall’Urss, ma a sua volta gli Usa
mandarono rifornimenti e riuscirono così a penetrare nella Corea del Nord, ma quando intervenne la Cina, la disfatta
degli americani era evidente, senza contare che, accettando l’accordo, si mostrava come il regime comunista stesse
lentamente prendendo piede. Così facendo, non solo i rapporti Asia-America andavano in crisi, ma la minaccia
comunista divenne sempre più forte e costrinse l’America a fare ingenti rifornimenti, soprattutto riguardo alla
marina navale.

DALLA GUERRA FREDDA ALLA COESISTENZA PACIFICA

Il ’52 fu l’anno in cui può dirsi conclusa la guerra fredda, infatti Stalin morì e Truman terminò il suo mandato. Nel
periodo immediatamente successivo non ci furono grandi aperture tra le due superpotenze, anzi, ci furono grosse
rivolte a Berlino est, che furono però represse duramente. La presidenza americana passò nelle mani di Eisenhower,
che finì con l’accentuare il rapporto di sfida con l’Urss anziché migliorarlo. Nonostante le avversità, sembrava quasi
che una coesistenza pacifica fosse vicina, infatti l’Urss riconobbe la grande stabilità americana, gli Usa ammisero il
grande sviluppo sovietico. Nel ’55, con il sovietico Kruscev, venne firmato il trattato di Vienna, col quale i sovietici si
ritiravano dalla città austriaca, a patto che americani la tutelassero e ne garantissero la neutralità.

IL 1956: LA DESTALINIZZAZIONE E LA CRISI UNGHERESE


Dopo la morte di Stalin, un gruppo di suoi stretti collaboratori presero il potere del paese anche se, in breve tempo,
se ne affermò uno dotato di grande carisma, Kruscev. Quest’ultimo, oltre a firmare il trattato di Vienna, si impegnò a
riconciliarsi con i comunisti slavi, sciogliere il Cominform, ad avviare una gestione centralizzata dell’economia e a
rilanciare l’agricoltura. Il nuovo leader non si fece problema nel demolire la figura di Stalin, non tutta, ma la parte
che, molto spesso ha commesso gravi errori, primo tra tutti quello di promuovere il “culto del capo”. Questa
affermazione provocò grande tensione, soprattutto perché gli stati satellite iniziavano a vedere una possibilità di
cancellazione dell’egemonia sovietica. In Polonia, questa tendenza venne soprattutto dagli operai, appoggiati dalla
Chiesa, le cui agitazioni terminarono nel grande sciopero di Poznan. Questo fu represso con la forza, ma quando, ad
esso, ne seguirono altri, l’Urss optò per un cambiamento nel governo del paese. Situazione analoga avvenne in
Ungheria, dove dopo una serie di scioperi e ribellioni, si costituirono consigli operai e l’Urss si ritirò. Nonostante
questo, il comunismo riuscì a prendere il sopravvento e, quando si tentò di fare uscire la Polonia dal trattato di
Varsavia, venne richiesto l’intervento dell’Urss per reprimere la sommossa. Se da un lato il progetto di
destalinizzazione cadde in fretta, dall’altro l’Urss tornò ad affermarsi.

L’EUROPA OCCIDENTALE E IL MERCATO COMUNE

Nel corso degli anni ’50, la situazione per gli alleati dell’Usa non era facilissima, poiché questi dipendevano da lei in
tutto e per tutto. Mentre la Francia, soprattutto per le questioni algerine, non era soddisfatta della situazione, la
Gran Bretagna era più aperta e disponile. Anche se qui c’erano ormai i prevalenza governi conservatori, il Welfare
State non venne rimosso del tutto ma nonostante questo era evidente il declino dell’economia britannica. I risultati
migliori, soprattutto considerato il punto di partenza, furono quelli che si ottennero nella Germania federale, dove i
governi a economia sociale di mercato si svilupparono moltissimo grazie alla guida cristiano-democratica. Alla base
del miracolo tedesco vi erano diversi fattori:

- Grande manodopera fornita dai profughi


- Moderazione dei sindacati
- Stabilità politica, garantita sia dai piccoli interventi presi nei confronti dei partiti per evitare inutili crisi, sia
dagli interventi legislativi che misero fuori legge il partito comunista.

Si svilupparono due grandi partiti, quello liberale coalizzato con quello cristiano-democratico, contro quello
socialdemocratico. Caso diverso era quello della Gran Bretagna, che perduto il suo impero continuava a sentirsi
esclusa dall’Europa e legata solo al Commonwealth. L’idea di un’Europa unita non era scomparsa del tutto, infatti la
prima manifestazione evidente fu la realizzazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), 1951,
che aveva il compito di coordinare produzione e prezzi in quelli che erano i grandi settori dell’industria. Nel ’57, dopo
anni di trattative fu firmato il trattato di Roma, firmato dai rappresentati di Francia, Italia, Germania federale, Belgio,
Olanda e Lussemburgo, che istituirono le CEE, comunità economica europea. Scopo primario era quello di creare un
mercato comune, mediante l’abbassamento delle tariffe doganali e la libera circolazione della forza-lavoro e dei
capitali, ma anche attraverso il coordinamento delle politiche industriali e agricole. Organi principali della CEE erano:
la commissione, organo tecnico con il compito di proporre piani di intervento e di disporne l’attuazione; il consiglio
dei ministri, cui spettano le decisioni finali; la corte di giustizia, incaricata di gestire le controversie tra due stati; il
parlamento europeo, con funzioni consultive. Il mercato comune ebbe effetti positivi sull’economia, un po’ meno
sulla politica.

LA FRACIA DALLA QUARTA REPUBBLICA AL REGIME GAULLISTA

La Francia fu l’unica a subire una grave crisi istituzionale dopo la guerra. Dopo la rottura tra l’alleanza tra i tre grandi
partiti di massa, il paese fu preso in mano da governi instabili. Il culmine della crisi fu dettato dalla questione
algerina, durante la quale fu chiamato a redigere un nuovo governo il generale De Gaulle. La nuova costituzione, con
la quale nasceva la Quinta Repubblica, manteneva le strutture democratico-rappresentative, pur introducendo un
rafforzamento dell’esecutivo. Il capo dello stato poteva eleggere il capo del governo, sciogliere le camere, sottoporre
al referendum questioni per lui importanti. Stroncando ogni tentativo di sedizione, De Gaulle fece cadere tutte le
aspettative riproposte su di lui. D’altro canto però, De Gaulle voleva che la Francia si affermasse in maniera
indipendente, senza dover dipendere sempre dagli Usa, motivo per cui avviò una propria produzione nucleare e si
ritirò dalla Nato. Inoltre contestò il valore assoluto del dollaro, voleva avere il diritto di veto circa l’entrata della Gran
Bretagna nel Mec, si oppose a molti progetti di integrazione della CEE, che non erano in linea con la sua politica.

23. LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO


I CARATTERI GENERALI DELLA DECOLONIZZAZIONE

Tra i fenomeni più importanti del XX secolo ci sono sicuramente la decolonizzazione e l’accesso all’indipendenza dei
popoli afroasiatici. Preparato già dal primo dopo guerra il processo di decolonizzazione ricevette la spinta definitiva
nel secondo conflitto mondiale. Anche in un posto come il Giappone dove, inizialmente, lo stesso governo aveva
favorito le spinte indipendentistiche affinché combattessero contro francesi e inglesi, queste avevano finito col
rivolgersi contro il dominio coloniale. Altro fattore importante per questo fenomeno fu la spinta di Usa e Urss a far sì
che gli europei lasciassero Africa e Asia per tornare ai loro vecchi confini. In realtà le due superpotenze volevano
impossessarsi loro di queste terre, ma ciò non toglie che rappresentano un fattore importante per la
decolonizzazione. Inoltre come ricorda la carta atlantica del ’41, ogni popolo gode del principio di
autodeterminazione. Nonostante fosse un fenomeno oramai inevitabile, non era facile da attuare, soprattutto per i
forti nazionalismi che si erano creati, inoltre paesi come la Gran Bretagna, seppure non molto convinti, volevano
procedere per gradi, in modo da rendere gli stati capaci di essere indipendenti e, in un secondo, liberi di decidere se
far parte del Commonwealth. In altri paesi, come invece la Francia, la madrepatria non voleva che le colonie si
distaccassero anzi, voleva che restassero uno stato unico, anche se avrebbe concesso maggiori diritti. Il rapporto con
l’Europa sarebbe comunque continuato, non solo a livello commerciale, infatti nelle colonie restavano ormai
impresse culture, lingue, tradizioni e abitudini del paese madre. A livello politico però era difficile instaurare una
democrazia, sia perché il paese era molto arretrato sotto ogni aspetto, sia perché c’erano dei gruppi locali che
avevano il dominio sugli altri, per questo si sviluppò più un regime autoritario, spesso dittature militari, che già
conoscevano perché era quello attuato dalla madrepatria.

L’EMANCIPAZIONE DELL’ASIA

Il continente asiatico fu il primo a decolonizzarsi, seguito a distanza di 10 anni dall’Africa, questo perché l’Asia era più
avanzata e aveva avuto un ruolo più rilevante nella guerra, che quindi le aveva conferito maggiore forza. Il caso
dell’India prese avvio quando si sviluppò il Partito del congresso e quando si affermò la figura di Gandhi. A guerra
finita la Gran Bretagna avviò le pratiche per la decolonizzazione anche se, mentre Gandhi puntava a un’unione tra
indù e musulmani, il governo inglese optò per dividere le due comunità, come loro stesse avevano richiesto visti i
numerosi conflitti. Vennero creati così due stati, uno indù, l’Unione indiana, e uno musulmano, il Pakistan, tra i quali
le lotte non si affievolirono di certo. Non mancavano poi problemi interni a entrambi, come la povertà o il
sovraffollamento. Se in India si riuscì, grazie anche alla figura di Gandhi, a instaurare delle istituzioni democratico-
parlamentari, in Pakistan vigeva la dittatura militare. Nel sud-est asiatico, oltre al problema dell’emancipazione,
bisognava affrontare quello dei partiti, dove da una parte c’erano le forze nazionaliste, dall’altra i comunisti. In
Birmania e Malesia prevalsero le forze nazionaliste, così come in Indonesia. In Thailandia prevalevano i moderati,
alternati però a governi miltari. Nelle Filippine, rese indipendenti dagli Usa nel ’46, prevalse un regime totalitario. I
comunisti invece si svilupparono negli stati disciolti dall’Indocina francese, il Vietnam di Ho Chi-Minh, il quale a
guerra finita dichiarò la Repubblica democratica del Vietnam, ma i francesi non riconobbero il nuovo stato e si
presero il sud del paese. Lo scontro tra le due fazioni fu inevitabile, ma i francesi ne uscirono sconfitti nel ’54. In
seguito agli accordi di Ginevra, i francesi dovettero ritirarsi anche dal Laos e dalla Cambogia, lasciando che il Vietnam
si dividesse in due stati: uno comunista al nord e uno filo-occidentale al sud.

IL MEDIO ORIENTE E LA NASCITA DI ISRAELE


Il Medio Oriente è da sempre una regione molto importante a livello economico, che ha visto svilupparsi nel corso
del XX secolo un movimento nazionale arabo molto solido. In questo movimento confluivano due tendenze: una
tradizionalista, che puntava a una reislamizzazione della civiltà, e una laica e nazionalista, più attenta alle esigenze di
modernizzazione economica. Quest’ultima, sostenuta sia dai capi di governo che dalle borghesie locali, finì con il
prevalere. Anche qui la seconda guerra mondiale accelerò il processo di emancipazione, costringendo le potenze
europee a scendere a patti. Nel ’46 la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza della Transgiordania e la Francia ritirò
le sue truppe dalla Siria e dal Libano. Nel ’32 l’avevano ottenuta anche Iraq, Egitto, Arabia Saudita e Yemen, che
unendosi avevano formato nel ’45 la Lega degli Stati arabi, con scopi di cooperazione politica ed economica e con
ambizioni di integrazione federalista che sarebbero peraltro rimaste sulla carta. Restava il problema della Palestina,
che nel ’39 la Gran Bretagna si era impegnata a rendere indipendente entro dieci anni, ma che di fatto ancora non lo
era, ed era contesa tra arabi ed ebrei. Qui nel frattempo proseguiva la formazione di uno stato ebraico, sostenuto sia
dagli Usa, sia dall’opinione pubblica visto cosa era successo agli ebrei nei campi di concentramento. L’Inghilterra era
però un po’ ostile a questa decisione, soprattutto perché temeva di inimicarsi gli stati arabi. Nel frattempo gli ebrei
passarono alla lotta armata, sia contro gli arabi che contro gli inglesi. Visto come procedeva la situazione, l’Inghilterra
decise di tirarsi fuori e di lasciare il compito di gestire la situazione alle Nazioni unite. L’Onu approvò il piano di
spartizione in due stati, che venne però respinto dagli stati arabi. Nel ’48, gli ebrei proclamarono la nascita dello
stato di Israele e gli stati della Lega araba reagirono subito attaccandolo militarmente. La prima guerra arabo-
israeliana (maggio ’48-gennaio ‘49) si risolse con la sconfitta degli arabi, mal equipaggiati e mal coordinati, cosa che
segnò definitivamente l’affermazione dello stato ebraico. Lo stato moderno si ispirava ai modelli delle democrazie
occidentali, dotato di strutture sociali e civili molto avanzate, che erano in contrasto con la complessiva arretratezza
dell’area meridionale, e a un’organizzazione economica in cui il capitalismo conviveva con le comunità agricole. La
forza di Israele derivava sia dalle risorse provenienti dall’estero che dalla preparazione e dall’intraprendenza dei suoi
dirigenti, oltre che dal forte patriottismo dei suoi cittadini. Con la guerra del ’48, lo stato ebraico si ingrandì e occupò
anche la parte occidentale di Gerusalemme. Mentre la Transgiordania, che nel frattempo cambiò nome in Giordania,
sottrasse i territori destinati allo stato arabo, poiché questo non aveva accettato l’accordo.

LA RIVOLUZIONE NASSERIANA IN EGITTO E LA CRISI DI SUEZ

All’inizio degli anni ’50, il nazionalismo arabo trovò una guida nello stato d’Egitto, molto forte sia per la sua posizione
per la sua tradizione, il quale però, in seguito a un accordo con gli inglesi per ottenere l’indipendenza aveva dovuto
rinunciare al controllo sul canale di Suez. Tuttavia, di fatto, l’Egitto era ancora legato, anche politicamente
all’Inghilterra, finché un Comitato di ufficiali liberi non rovesciò la monarchia, dove ormai dilagava la corruzione. La
ribellione aveva due guide, Nasser era la più estremista, motivo per cui, dopo aver scacciato il compagno più
moderato, decise di istituire delle riforme in senso socialista e di promuovere un processo di industrializzazione. In
politica estera, non volle che il paese subisse le influenze della madrepatria e puntava inoltre a ottenere il controllo
degli stati arabi, per poi combattere contro Israele. Ottenne lo sgombere degli inglesi dalla zona del Canale di Suez e
strinse accordi militari ed economici con l’Urss per ricevere aiuti. Vista la situazione, gli Usa bloccarono il loro
consueto finanziamento, impedendo la costruzione della diga di Assuan, necessaria per l’elettrificazione del paese.
Nasser rispose nazionalizzando la compagnia del canale di Suez, dove sia inglesi che francesi avevano grossi interessi.
Si aprì una crisi internazionale: Israele attaccò l’Egitto e lo sconfisse, mentre inglesi e francesi occupavano il canale.
Gli usa non diedero alcun appoggio alla missione, anzi la condannarono e con lei tutte le potenze partecipi, ma così
facendo si rafforzò la figura dell’Egitto e di Nasser. Quest’ultimo riscosse grande successo tra il suo popolo, anche tra
la borghesia, motivo per cui la Siria decise di unirsi a lui formando la Repubblica araba unita (esperimento di breve
durata). Ispirandosi all’Egitto, la Libia nel ’69 avviò una rivoluzione che depose la monarchia e portò al potere il
colonnello Gheddafi, il quale nazionalizzò le compagnie petrolifere straniere ed espulse la comunità italiana
presente, per poter formare un’idea di socialismo islamico, una politica che lo avrebbe portato ad appoggiare la
causa di tutti i movimenti di guerriglia anti-imperialisti, e a inserirsi nei conflitti tra gli stati africani, mettendo
tensione sia tra loro che con gli Usa.

L’INDIPENDENZA DEI PAESI DEL MAGHREB


All’inizio degli anni ’50, nei paesi del Maghreb (la parte occidentale del Nord Africa, comprendente Marocco, Tunisia
e Algeria), lo scontro tra nazionalismo arabo e colonialismo era sempre molto forte. Nei tre paesi l’indipendentismo
era molto forte, motivo per cui i francesi furono costretti a concedere, nel ’56, la piena indipendenza, che avrebbero
mantenuto una posizione moderata, filo-occidentale in politica estera. Ma per l’Algeria, la lotta alla liberazione, fu
decisamente più dura: se da un lato non mancavano le spinte indipendentiste che avevano come modello l’Egitto,
dall’altra non mancava nemmeno un forte nazionalismo francese che non era intenzionato a cedere, per questo si
creò il Fronte di liberazione nazionale, disposto a trovare un compromesso (in realtà era un’organizzazione
clandestina che puntava alla piena indipendenza). Lo scontro culminò nel ’57 con la battaglia di Algeri, che ebbe esiti
disastrosi. Alla fine i francesi riuscirono a piegare la rivoluzione, seppure con metodi talmente brutali da suscitare
l’indignazione pubblica. Se da un lato i rivoluzionari non sembravano voler cedere, dall’altra il governo francese
tornò nelle mani di De Gaulle che voleva a tutti i costi porre fine ad un’ulteriore guerra. Dopo anni di trattative il
governo francese si accordò con l’Fln per proporre un progetto di indipendenza all’Algeria. Gran parte dei francesi
emigrarono e gli altri votarono per l’indipendenza, ottenendo un governo autoritario e centralizzato, con
un’economia stabile, senza rinunciare agli accordi commerciali con la Francia.

L’EMANCIPAZIONE DELL’AFRICA NERA

Nell’Africa a sud del Sahara, il processo di decolonizzazione fu decisamente più tardivo ma meno conflittuale. Alla
fine degli anni ’50, le potenze si erano ormai arrese al processo di decolonizzazione e finirono con l’assecondarlo. La
grande stagione dell’emancipazione africana si aprì con l’indipendenza del Ghana (’57, colonia inglese), seguita dalla
Guinea (colonia francese). Nel 1960 ottennero l’indipendenza ben 17 nuovi paesi tra cui: Nigeria, Senegal, Somalia.
Non solo il processo fu pacifico, ma si riuscì a stabilire con le ex colonie un rapporto sia economico che culturale. Più
difficile fu invece raggiungere l’indipendenza nei paesi dove c’erano più coloni bianchi o dove c’erano interessi
economici più importanti in ballo, come in Kenya, dove prima di ottenere l’indipendenza ci fu una campagna
terroristica da parte degli inglesi. Ultima roccaforte del potere bianco era l’Unione Sudafricana, dove venne
addirittura inasprito il regime di apartheid (separazione e discriminazione in tutti gli ambiti), tra il ’50 e il ’60. Anche
se i bianchi erano in netta minoranza avevano il monopolio della forza e non erano intenzionati a cedere le ricche
risorse minerarie del paese. Altro caso critico fu quello del Congo, poiché era stato lasciato in una situazione di grava
arretratezza dal Belgio, qui infatti l’indipendenza fu concessa senza una vera preparazione politica o istituzionale,
motivo per cui fu seguita da una sanguinosa guerra civile. Tutto sommato l’Africa dimostrò come in tutti gli stati, chi
più chi meno, le istituzioni statali fossero molto deboli e precarie, come quelle politiche, motivo per cui nel giro di
pochi anni dall’indipendenza molti stati finirono col diventare dei regimi militari. A tutto ciò si univa poi l’instabilità
economica, che rischiava di creare una dipendenza dai paesi industrializzati, dai quali avevano tanto cercato di
distaccarsi, ma ricevendo aiuti economici e commerciali finirono per avviare una sorta di neocolonialismo. Non
mancano poi paesi come la Tanzania o il Benin che si staccarono completamente e drasticamente dall’Occidente
industrializzato, puntando invece sul mercato interno. Angola e Mozambico, dopo essersi liberati del Portogallo nel
’75, avviarono un processo di seconda decolonizzazione. In ogni caso, problemi come le carestie, l’emarginazione dal
mercato mondiale e la disgregazione sociale non furono mai del tutto risolti.

IL TERZO MONDO, IL “NON ALLINEAMENTO” E IL SOTTOSVILUPPO

I paesi di nuova indipendenza pensarono che, una volta decolonizzati potessero godere dell’eredità comune, ma ben
presto si resero conto che ciò non era possibile. Si sviluppò presto il termine “non allineamento” per indicare come,
di fatto, non fossero alla pari delle superpotenze, senza contare che loro divennero presto il terzo mondo, ben
diverso dall’Occidente capitalista o dell’Est comunista. La consacrazione ufficiale di questo indirizzo si ebbe nel ’55,
con la conferenza afroasiatica di Bandung, Indonesia, a cui parteciparono 28 stati, compresa la Cina. Venne
proclamata l’uguaglianza tra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti in lotta contro il colonialismo e il rifiuto delle
alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze. Nacque così, oltre al movimento de non alleati, il cosiddetto
terzomondismo, una tendenza a individuare proprio nei paesi di nuova indipendenza il principale fattore di
mutamento e di rinnovamento a livello mondiale. Bandung non doveva rappresentare solo una piattaforma
ideologica ma anche un vero e proprio punto di partenza per una politica di neutralismo attivo, destinata ad erodere
l’egemonia delle superpotenze e a sottrarre il mondo dalla morsa della guerra fredda. Il movimento dei non allineati
andava via via ingrossandosi, aggiungendo sempre più stati: oltre ai filo-occidentali si legavano anche gli stati in
stretto rapporto con l’Urss, come per esempio il Vietnam del nord. La realtà del non allineamento divenne tuttavia
una realtà molto varia, poiché alcuni paesi si stavano legando perlopiù all’Urss. I problemi inoltre erano molto
differenti da paese a paese. Così come il non allineamento rappresentava un carattere distintivo dei paesi del Terzo
mondo, ben presto lo divenne anche il sottosviluppo. I motivi del sottosviluppo economico erano da sempre
strettamente legate ai problemi sociali. Alcune caratteristiche comuni erano:

- Carenza di strutture industriali


- Arretratezza nell’agricoltura
- Crescente emarginazione negli scambi internazionali
- Sproporzione tra risorse disponibili e continuo aumento della popolazione

Dal 1960, tutti i paesi considerati “in via di sviluppo” erano quelli dove il reddito pro capite era di dieci volte inferiore
rispetto a quello dei paesi industrializzati. Altri problemi sorsero quando il paese si trovò a subire la tanto attesa
decolonizzazione e poi, visti i risultati ottenuti, sopraggiunse la necessità di una nuova colonizzazione.

DIPENDENZA ECONOMICA E INSTABILITA’ POLITICA IN AMERICA LATINA

I problemi dell’America latina meritano un discorso a parte poiché riguardavano sia lo sviluppo socio-economico che
i problemi legati alla diffusa arretratezza e, in aggiunta, alla forte dipendenza dagli Stati Uniti. Gli atteggiamenti degli
USA furono differenti, infatti mentre verso il Messico contribuirono alla crescita industriale, in altri paesi del centro-
America trovarono alleati nelle oligarchie terriere locali per combattere ogni forma di rinnovamento. Generalmente
gli USA si limitarono a tutelare gli stati, infatti crearono l’Organizzazione degli stati americani, che aveva scopi di
sostegno economico tra i vari paesi, ma anche scopi politici, come impedire l’aggravarsi dell’instabilità politica e la
penetrazione del comunismo. Il periodo della guerra fu, tutto sommato, considerato un periodo di sviluppo, poiché
questi paesi non erano direttamente coinvolti, inoltre i loro atteggiamenti politici cambiarono: si affermarono i ceti
medi (su molti fronti, compreso quello economico) e si svilupparono movimenti come il populismo, il liberalismo e
l’autoritarismo. Di stampo autoritario-populista era il regime instaurato nel ’46 in Argentina dal colonnello Peron. Si
concentrò sull’industria, aumentò i salari, lottò contro i monopoli e nazionalizzò i servizi pubblici. Si guadagnò il
consenso delle classi medie e di quelle popolari, soprattutto tra i sindacati operai. Non mancava però una politica
autoritaria, che ricordava per molti aspetti quella dei regimi fascisti: violenze contro le opposizioni, censura sulla
stampa, culto carismatico della figura del capo. Sul piano economico la sua politica era però confusa e maldestra.
Aumentò l’inflazione, ci fu una grave crisi agricola e una diminuzione delle esportazioni. Peron, dopo il colpo di stato
militare, dovette lasciare l’Argentina. A lui si susseguirono dei governi civili e, quando sembravano tornare all’attacco
i seguaci di Peron, fu attuato un altro colpo di stato e venne instaurata una ferrea dittatura di destra. Simili alle
vicende dell’Argentina furono quelle del Brasile, il cui protagonista era Vargas. Anche lui fu colpiti da ben due colpi di
stato che lo portarono ad allontanarsi, e poi addirittura a suicidarsi. I suoi successori tentarono di mantenere una
politica estera di non allineamento e di modernizzare il paese, il quale però era troppo arretrato, motivo per cui non
riuscì a risollevarsi. Dopo diversi problemi, economici, politici, ma anche sociali, fu la volta di un nuovo colpo di stato
appoggiato dagli USA, che portò al potere i militari. Si sviluppò un miglioramento ma, di fatto, gli squilibri sociali
erano ancora molto gravi. Altri regimi militari vennero attuati in Venezuela e in Colombia, ma anche in Paraguay,
Perù, Bolivia. I soli paesi dove c’erano istituzioni democratiche erano Uruguay, Cile e Messico, dove la stabilità
politica era garantita dal Partito rivoluzionario istituzionale. A Cuba, una grande svolta si ebbe quando nel ’59 fu
rovesciata la dittatura di Batista, da un movimento rivoluzionario guidato da Castro. Inizialmente su posizioni
democratico-liberiste, Castro avviò una riforma agraria che colpì direttamente il monopolio esercitato dalla United
Fruit sulla coltivazione della canna da zucchero. Gli USA, che inizialmente avevano riconosciuto questo regime, ben
presto assunsero un atteggiamento ostile. Castro fece così riferimento all’Urss, rompendo ogni accordo diplomatico
con gli Usa e avvicinandosi al socialismo. Venne istituito quindi un regime a partito unico. Per la prima volta un paese
di protezione americana se ne distaccò per avvicinarsi a un orientamento marxista e filosovietico. A lui si oppose Che
Guevara che tentò in tutti i modi di sollecitare la popolazione affinché si ricongiungesse con gli Usa. I suoi tentativi
rivoluzionari vennero messi in atto con le armi e questo gli costò molto caro. Nel ’61 fu lanciata un’alleanza per il
progresso, un programma di aiuti latino-americani che non bastava comunque a compensare lo strapotere
economico esercitato dagli Usa su buona parte del continente.

24. L’ITALIA DOPO IL FASCISMO


UN PAESE SCONFITTO

Liberata e riunificata, nella primavera del ’45, dall’avanzata degli alleati e dall’insurrezione partigiana, l’Italia si trovò
ad affrontare diversi problemi. Gli stabilimenti si erano salvati, ma la produzione era diminuita. L’agricoltura aveva
subito gravi danni, così come il patrimonio zootecnico. Ad aggiungersi alla lista c’era anche il problema degli
approvvigionamenti alimentari e quello della crescente inflazione. Il sistema di trasporto era disarticolato, non
mancavano poi i danni alle merci. Sfollati, disoccupati ed affamati contribuivano a rendere l’ordine pubblico precario,
instabile. Nell’Italia del nord, la guerra aveva provocato un nuovo slancio alle lotte sociali, soprattutto da parte della
sinistra. Difficile era la situazione per gli ex partigiani, che erano molto riluttanti all’idea di deporre le armi. Nel
Mezzogiorno i problemi non mancavano, a partire dall’occupazione di terre incolte e latifondi, e del conseguente
tentativo di “legalizzarlo”, ma soprattutto dalla malavita comune, legata soprattutto al contrabbando e alla borsa
nera. In Sicilia il fenomeno mafioso era molto diffuso, in alcuni casi sostenuto anche dagli alleati. Ad esso si
aggiunsero dei movimenti indipendentisti, legati agli agrari e alla vecchia classe prefascista, condizionati dalla
presenza mafiosa. La disgregazione morale e politica aveva toccato livelli altissimi, se da un lato c’era chi voleva
seguire la linea degli alleati, con conseguente ripresa della monarchia, dall’altra c’era chi voleva opporsi e preferiva
un cambiamento più netto e più drastico, visto quello che avevano passato prima e durante la guerra. Man mano che
le differenze tra nord e suda aumentavano ci si rendeva conto di come fosse difficile che il paese venisse travolto
dall’entusiasmo partigiano: l’Italia era un paese distrutto e occupato militarmente, dipendente dagli aiuti degli
alleati. Risollevarsi non era facile.

LE FORZE IN CAMPO

Per quanto di fatto le forze politiche non erano poi tanto diverse da quelle che si erano affermate dalla fine della
prima guerra alla dittatura, era cambiata la situazione interna del paese, si era aggravata, ma ciò non toglie che la
partecipazione politica era aumentata. Il dopoguerra apparteneva quindi ai partiti organizzati su basi di massa,
soprattutto quelli della sinistra operaia. In particolare il Partito socialista, con il suo leader Nenni. Il partito era però
ancora una volta diviso, poiché c’erano gli estremisti rivoluzionari che non perdevano occasione per avvicinarsi ai
comunisti, e fazioni invece più moderate, a cui si avvicinavano i borghesi. Il comunismo di Togliatti diveniva via via
sempre più forte, non solo perché era visto come una forza antifascista ma anche perché si presentava come una
forza nazionale. Era un autentico partito di massa, che non aveva il consenso dei soli operai ma anche dei contadini e
dei ceti medi, persino degli intellettuali. Era pronto a inserirsi attivamente nelle istituzioni democratico-parlamentari,
senza tuttavia dimenticare il suo legame privilegiato con l’Urss. L’unico, tra gli altri partiti, che sembrava in grado di
poter competere con i comunisti e socialisti, era la Democrazia cristiana, ben organizzata a livello di masse. La DC
ereditava da Sturzo il programma, la pase contadina e piccolo-borghese. Il partito era costituito sia dal gruppo
dirigente, come De Gasperi, sia da nuove leve prese dall’Azione cattolica. La differenza principale dal partito
popolare di Sturzo era che la DC era più riconosciuta dalla Chiesa, motivo per cui era anche più esplicitamente
moderata. Il Partito liberale aveva tra i suoi sostenitori la classe dirigente prefascista, la grande industria e i
proprietari terrieri. Ma il rapporto tra leader e base elettorale era fortemente compromesso. Tra i partiti laici, quello
repubblicano si distingueva per l’intransigenza sulla questione istituzionale. In una posizione al confine tra l’area
liberal-democratica e quella socialista, era il Partito d’azione, nel quale non solo c’erano nomi illustri tra gli
antifascisti, ma anche tra intellettuali e militanti ex partigiani. Il Pda si mostrava come una forza nuova, moderna, in
grado di rivoluzionare il paese tramite riforme sociali e istituzionali. Il partito era però privo di una base di massa, e
faticava a trovare una reale identità, viste le differenze presenti al suo interno. I partiti di destra erano chiaramente
indeboliti, i neofascisti erano quasi del tutto assenti, anche se di fatto quelli rimasti tendevano a unirsi alla DC o al Pli,
sostenendo sempre e comunque la monarchia. Si sviluppò un nuovo movimento chiamato qualunquista, che
rifiutava un’etichetta ideologica e puntava a difendere l’uomo comune, il cittadino medio che doveva affrontare, con
non poche difficoltà la situazione post-fascista. Un ruolo economico importante lo ebbe la Cgil, che fu ricostruita su
basi unitarie, e riuscì a ottenere il riconoscimento delle commissioni interne, ovvero la rappresentazione del
sindacato all’interno delle aziende, l’introduzione di un adeguamento dei salari al costo della vita e una nuova e più
rigida disciplina per i licenziamenti.

DALLA LIBERAZIONE ALLA REPUBBLICA

La prima vera disputa tra partiti, si presentò quando si dovette scegliere il successore di Bonomi. Dopo un lungo
braccio di ferro tra socialisti e democristiani, i partiti si accordarono sul nome di Parri, leader di una formazione
minore come il Partito d’azione, ma investito di un grande prestigio dato che era uno dei capi militari della
Resistenza. Formò un ministero con la partecipazione di tutti i partiti del Cln, cercò poi di promuovere la
normalizzazione del paese, mettendo al primo porto il problema dell’epurazione (applicata a tutti gli ambiti,
compreso quello economico, che era stato compromesso dal fascismo). Applicò poi una serie di provvedimenti
affinché venissero colpite dalla grossa tassazione solo le industrie maggiori e non quelle piccole e medie. Così
facendo però, Parri, suscitò l’opposizione delle forze moderate, in particolare del Pli, che togliendo la sua fiducia ne
decretò la fine. Venne eletto De Gasperi, che ripropose un ministero in cui ci fossero tutti i partiti del Cln, ma applicò
importanti cambiamenti. Tra quelli più rilevanti ci fu la sospensione dei progetti delle riforme economiche e un
rallentamento dell’epurazione, cose che non erano ben viste, e che portarono non solo a una forte delusione ma
anche a manifestazioni di protesta. Il governo aveva fissato il 2 giugno 1946 come data per le elezioni dell’Assemblea
costituente: le prime consultazioni politiche libere dopo 25 anni, e le prime a cui avevano diritto di votare anche le
donne. In quello stesso giorno i cittadini sarebbero stati chiamati a votare tramite un referendum, se tenere o meno
la monarchia, in alternativa alla repubblica. Anche se il monarca Vittorio Emanuele III tentò di favorire la monarchia
abdicando in favore del figlio Umberto II, la repubblica ottenne una netta maggioranza. Umberto II partì per l’esilio in
Portogallo e la DC si affermò come primo partito. Dalle ultime elezioni era evidente come ormai i vecchi gruppi erano
stati sostituiti da veri e propri partiti di massa, e di come i gruppi della sinistra, per quanto fossero forti, non erano
però il volere della maggioranza. Da queste è anche emerso di come la frattura tra nord e sud fosse forte anche a
livello politico, infatti mentre a Nord prevaleva la repubblica e le spinte di sinistra, al Sud votarono per la monarchia
e per partiti di destra.

LA CRISI DELL’UNITA’ ANTIFASCISTA

I due che andarono dalla Costituente del ’46 alle consultazioni politiche del ’48 furono decisive, infatti l’Italia finì col
definire il suo assetto istituzionale col varo della Costituzione e riorganizzò la sua economia secondo i modelli tipici
capitalistici occidentali. Come provvisorio presidente della Repubblica fu eletto Enrico De Nicola, che diede vita a un
secondo governo De Gasperi basato sull’accordo tra i tre partiti di massa dalla DC, dei socialisti e dei comunisti (che
di comune accordo votarono la prima). I contrasti da DC e i partiti di sinistra non sembravano però placarsi, poiché lo
scontro sociale si inaspriva man mano che il presagio della guerra fredda diveniva sempre più forte. Mentre la DC
assumeva un carattere sempre più moderato, una sorta di garante, i comunisti non si facevano problemi a
propendere per le lotte agricole e operaie. A fare le spese per questa situazione fu il Partito socialista: alla fine del
’46 c’erano due schieramenti netti, composti uno da Nenni, che voleva mantenere al partito i suoi caratteri classisti e
rivoluzionari, era favorevole all’unità d’azione col Pci e puntava, a livello internazionale, a un’impossibile alleanza con
l’Urss e con le potenze occidentali di sinistra, mentre il secondo schieramento era guidato da Saragat, e si batteva
per un allentamento dei legami col Pci, non nascondendo le ostilità verso il comunismo sovietico e la politica
staliniana nell’Europa dell’Est. Nel gennaio del ’47, i seguaci di Saragat decisero di lasciare il Psiup e di riunirsi a
Palazzo Barberini per fondare un nuovo partito, chiamato Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli), e che qualche
anno più tardi, avrebbe assunto il nome di Partito socialdemocratico italiano (Psdi). Inizialmente la scissione provocò
alcuni disagi, ma ben presto la DC si sentì liberata da una sinistra, motivo per cui, dopo che De Gasperi si dimise e fu
in seguito rieletto, optò per formare un governo di sola DC.

LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
L’esclusione delle sinistra dal governo non bastò certo ad arrestarle. L’assemblea costituente era incaricata di dare al
paese una nuova legge fondamentale, dopo lo Statuto albertino di cento anni prima, iniziò nel ’46 e un anno dopo
venne approvata con la maggioranza, entrando in vigore il 1° gennaio 1948. Essa si ispirava ai modelli democratici
ottocenteschi per quanto riguardava la parte delle istituzioni e dei diritti politici, si avviava infatti un sistema di tipo
parlamentare, col governo responsabile di fronte alle due camere, titolari de potere legislativo, entrambe elette a
suffragio universale e incaricate anche di scegliere, in seduta congiunta, un capo dello Stato con mandato settennale.
Era anche previsto un Consiglio superiore della magistratura, che garantisse l’autonomia dell’ordine giudiziario, e
una Corte costituzionale che vigilasse sulla conformità delle leggi della Costituzione, tutte sottoponibili al referendum
abrogativo, dietro richiesta di almeno 500.000 cittadini. Per quanto riguarda le norme emanate per i due organi non
legislativi, queste non vennero attuate per molto tempo, e questo portò anche numerosi scontri sociali e un’ulteriore
rottura tra DC e le sinistre. Un’altra critica che fu mossa fu legata al fatto che i partiti divennero arbitri incontrastati
della vita politica, poiché il modello parlamentare unito alla legge elettorale portò a questa conseguenza.
Nonostante fosse, tutto sommato, un buon compromesso, non mancarono gli scontri, primo tra tutti quello legato
alla volontà della DC di mantenere gli accordi tra Stato e Chiesa stipulati in periodo fascista. Con grande sorpresa, pur
di non scuotere troppo le masse, il partito comunista di Togliatti finì per accettare, cosa che non fecero invece i
partiti laici e socialisti.

LE ELEZIONI DEL ’48 E LA SCONFITTA DELLE SINISTRE

Mentre per formare la repubblica le forze antifasciste si unirono, appena raggiunto l’obiettivo di disgregarono. Si
crearono due poli opposti: quello di opposizione, egemonizzato dal Pci, e quello governativo, guidato dalla Dc e
comprendente anche i partiti laici minori come il Psli. Lo scontro si accese quando il Partito socialista decise di
proporre liste comuni con Pci sotto l’insegna di Fronte popolare. Davanti a questa manovra, a sostegno della DC
intervennero sia la Chiesa, in maniera molto diretta, sia gli Usa, che minacciarono di sospendere gli aiuti concessi
tramite il piano Marshall. Se dall’altro lato socialisti e comunisti tentarono in tutti i modi di guadagnarsi la fiducia dei
lavoratori, dall’altra c’era anche un troppo stretto legame con l’Urss che faceva preoccupare molto gli elettori.
Favorivano invece la DC le speranze di pace e benessere che derivavano dall’appoggio degli Stati Uniti. Alle elezioni
seguenti la vittoria della DC fu schiacciante e, chi ci rimise maggiormente fu il Psi, che vide dimezzati i suoi seggi in
Parlamento. Non mancarono le insoddisfazioni, legate a questa scelta, tanto è vero che uno studente di destra arrivò
a compiere un attentato contro Togliatti, notizia che portò a un ulteriore tra gli operai e i militanti comunisti contro
le forze dell’ordine. Un’altra conseguenza fu una rottura definitiva con le forze politiche all’interno del sindacato. Per
questo la maggioranza social-comunista della Cgil proclamò uno sciopero generale per protesta contro l’attentato a
Togliatti, cosa che fornì alla componente cattolica l’occasione per staccarsi dal sindacato unitario e per dar vita a una
nuova confederazione, che avrebbe poi assunto il nome di Cisl. Pochi mesi dopo anche i sindacalisti repubblicani e
socialdemocratici abbandonarono la Cgil, fondando una terza organizzazione, la Uil. Svanendo così ogni strascico del
fascismo, si era definita una nuova netta divisione.

LA RICOSTRUZIONE ECONOMICA

Con le elezioni del ’48, oltre che a votare il partito politico, si votava anche per l’andamento economico che si voleva
adattare, anche a livello internazionale. Per quanto riguarda quindi la politica economica, si può affermare che i
liberali ottennero fin da subito un grande successo, riuscendo a bloccare le sinistre. In generale, i governi
nell’immediato dopoguerra evitarono di usare in modo incisivo gli strumenti di intervento sull’economia che erano
stati creati negli anni successivi alla grande crisi. A tutto questo la sinistra non seppe proporre valide alternative, se
non dando un minimo sostegno in più ai sindacati. Anche nel governo successivo, dove il ministro del Bilancio era
Einaudi, impegnato per combattere l’inflazione e risollevare il sistema monetario, le sinistre non ottennero grossi
successi, motivo per cui cercano di bloccare l’impopolare piano Marshall. Nel complesso, il progetto di Einaudi venne
attuato: la lira si risollevò, i capitali esportati tornarono in Italia, i prezzi calarono. Ma questa operazione ebbe gravi
costi a livello sociale, primo tra tutti il rapido aumento del numero di disoccupati. I fondi del piano Marshall vennero
usati per finanziare le importazioni di derrate alimentari e materie prime, ma non per sviluppare la domanda interna.
Non si ebbe nemmeno una “restaurazione liberista”. Gli strumenti di controllo dell’economia non furono cancellati,
l’Iri fu potenziato con nuovi finanziamenti, l’Agip, ente petrolifero di stato, fu rilanciato alla scoperta di nuovi
giacimenti di idrocarburi in Val Padana.

IL TRATTATO DI PACE E LA SCELTE INTERNAZIONALI

A Parigi fu firmato il trattato di pace tra Italia e alleati, ratificato poi dalla Costituente. L’Italia era a tutti gli effetti una
nazione sconfitta, doveva impegnarsi a pagare le riparazioni agli altri stati, a ridurre la consistenza delle sue forze
armate. Rinunciava inoltre a tutte le colonie, già perdute durante la guerra. L’opinione pubblica non rimase poi tanto
sconvolta, visto che probabilmente già se lo aspettava, ma si preparava a partecipare alle nuove vicende circa i futuri
confini nazionali. I problemi più delicati per il nostro stato si verificarono sul confine orientale, dove gli jugoslavi
avevano occupato buona parte della Venezia Giulia e rivendicavano la stessa Trieste. Alla fine del ’46 fu attuata una
sistemazione provvisoria, che lasciava alla Jugoslavia la penisola istriana, escluse Trieste e Capodistria, che facevano
parte del Territorio libero di Trieste. Questo territorio fu poi diviso: la zona A agli alleati, la B agli jugoslavi. Solo nel
’54 si arrivò a una spartizione che garantiva il passaggio di controllo della zona A dagli alleati agli italiani. Solo
vent’anni dopo però, si raggiungerà il trattato di Osimo, nel quale le due parti si riconoscevano reciprocamente la
sovranità sul territorio. Il contrasto tra slavi e italiani, già presente in precedenza, non fece che degenerare, finché ci
furono migliaia di esecuzione nelle quali gli italiani vennero gettati nelle foibe. La situazione era molto grave, ed era
necessario l’intervento di molti giuliani e dalmati affinché la situazione potesse migliorare. Quando nel ’48 furono
gettate le basi per il Patto atlantico, l’ipotesi di un’adesione dell’Italia suscitò non solo una dura opposizione di
socialisti e comunisti, ma anche la perplessità di una parte del mondo cattolico, e dei partiti laici di centro-sinistra.
Prevalse alla fine la volontà di De Gasperi, che vedeva nell’alleanza con il piano Marshall, una vera e propria alleanza
militare con gli Usa, anche se di fatto era solo valida sul piano economico. Nel marzo del ’49 il patto atlantico venne
approvato dal Parlamento.

GLI ANNI DEL CENTRISMO

Gli anni della prima legislatura repubblicana (1948-53) segnano il periodo di massima egemonia della DC sulla vita
politica nazionale. Nonostante avesse di fatto la maggioranza assoluto, la DC continuava a puntare sul sostegno dei
partiti laici minori: appoggiò la candidatura di Einaudi, eletto nel ’48, associò ai suoi governi dei rappresentanti del
Pri, Pli e Psdi. Fu questa la formula di centrismo della DC che escluse invece la sinistra social-comunista e l’estrema
destra monarchica e neofascista. Una caratterista del centro era quella di applicare sì delle riforme ma non del tutto
rivoluzionarie, in modo da non sconvolgere gli equilibri precari. Da questo punto di vista, la riforma più importante fu
quella agraria, che fissava norme per l’esproprio e il frazionamento di una parte delle grandi proprietà terriere di
ampie regioni geografiche. La riforma rappresentava un po’ il primo passo per affrontare il problema fondiario che
fino ad allora era stato trascurato. Questa riforma era un duro colpo per la proprietà assenteista, mentre andava
chiaramente incontro alle attese delle masse rurali del centro-sud. Se l’obiettivo imminente della riforma era quello
di placare il malcontento generale, quello a lungo termine era di incrementare la piccola impresa agricola, nel
rafforzare quindi il ceto dei contadini indipendenti, tramite la Confederazione dei coltivatori diretti. Sempre nel ’50
fu varata un’altra legge decisamente ambiziosa, ovvero quella di istituire la Cassa per il Mezzogiorno, un nuovo ente
pubblico che aveva lo scopo di diffondere lo sviluppo economico e civile delle regione del meridione tramite il
finanziamento statale per le infrastrutture. Anche se questi provvedimenti migliorarono la situazione, non servirono
certo per fare un grande cambiamento quale la modernizzazione dell’intero paese. Le riforme varate dai governi
centristi furono duramente avversate dalla destra, così come, per alcune riforme, si trovava contro anche la sinistra.
Nonostante la produzione subì un discreto miglioramento, la disoccupazione restò molto alta, i salari molto bassi. Se
da un lato la sinistra reagiva a questa situazione intensificando gli scioperi e le manifestazioni, lo stato rispondeva
aumentando le misure repressive. Venne intensificata la polizia, venne intensificato l’uso delle armi e persino ridotte
le libertà. Visti i continui attacchi sia da destra che da sinistra, De Gasperi tentò di ostruire il sistema di voti, affinché
il centro avesse sempre la maggioranza. Così facendo, creò un vero e proprio sistema costruito su misura per la
maggioranza. Questa nuova legge, definita dalla sinistra “legge della truffa” non fece passare positivamente la DC
agli occhi del popolo, infatti nelle elezioni del ’53, con grande sorpresa, De Gasperi dovette subire la prima vera
sconfitta, poiché non era riuscito ad ottenere la maggioranza.
ALLA RICERCA DI NUOVI EQUILIBRI

Dopo le elezioni del ’53, il paese era alla ricerca di un nuovo equilibrio politico, e nel mentre si attuava la ripresa
economica, basata sulla completa liberalizzazione degli scambi sia con l’Europa che con l’estero, attuata da La Malfa.
De Gasperi dovette dimettersi, e i suoi successori, sempre della DC, non erano in grado di dare una reale svolta alla
situazione. Tutti i governi erano però presi dallo sviluppo dell’economia, poiché solo così si poteva avere un reale
miglioramento. Venne poi introdotta, con una legge, la Corte costituzionale, composta in parte da magistrati e in
parte da membri nominati dal Parlamento e dal presidente della repubblica. Il suo compito era quello di adeguare i
principi costituzionali alla vecchia legislazione, ma al tempo stesso quella di far cadere le norme più obsolete e
relative al periodo fascista. Gli anni della seconda legislatura (1953-58) portarono grossi cambiamenti, anche
all’interno dei partiti più importanti, tra le quali la sconfitta di De Gasperi e l’emarginazione del nuovo gruppo
nascente legato all’Azione cattolica. La nuova generazione , legata alle problematiche del cattolicesimo sociale, era
nettamente favorevole all’intervento dello stato nell’economia, piuttosto che mantenere l’impostazione liberista.
Esponenti principali di questa generazione erano Aldo Moro, Taviani, Rumor e Fanfani. Quest’ultimo cercò di
rafforzare il potere statale e di limitare quello di Confindustria nei confronti del partito. Altra influenza politica di
questo periodo era Mattei, che insieme agli altri, svecchiava le nuove formazioni dei partiti. In questo periodo,
poiché l’Urss attaccò l’Ungheria, il partito progressista si divise, da una parte c’era chi voleva comunque restare
fedele al progetto di Stalin (Pci) dall’altra c’era chi se ne volle distaccare completamente (Psi). Il primo puntava a una
rivoluzione drastica, il secondo puntava a una serie di riforme più moderate. Alle elezioni seguenti, il Psi venne
premiato e i suoi meriti vennero riconosciuti, motivo per cui si poteva affermare che la sinistra iniziava davvero a
farsi strada.

25. LA SOCIETA’ DEL BENESSERE


IL BOOM DELL’ECONOMIA

Tra gli anni ’50 e gli anni ’60 si sviluppò un grande periodo di sviluppo. Rispetto alle altre fasi di espansione della
storia del capitalismo industriale (1850-73 e 1896-1913) questa (1950-73) fu molto più rapida. Non solo lo sviluppo
fu maggiore, ma anche più duraturo, tanto da fare apparire lo sviluppo economico e l’aumento del benessere come
una condizione di normalità. A svilupparsi, non furono solo l’America e le potenze vincitrici, ma anche quelle
perdenti che però ricevevano costanti aiuti americani. Lo sviluppo di questo periodo riguardò soprattutto l’industria,
in particolare i settori legati alle tecnologie avanzate, ma anche la produzione di quei beni di consumo durevoli, che
raggiunsero una diffusione di massa. Il settore agricolo subì uno sviluppo più lento, anche se alla fine ne fu coinvolto,
nonostante il numero degli addetti era in costante calo. Parallelamente si sviluppava sempre di più il settore
terziario, che nei paesi più avanzati aveva più lavoratori che il settore industriale. Tra i fattori che determinarono il
boom dopo la seconda guerra ci furono:

- Esplosione demografica
- Allargamento della domanda di beni di consumo, abitazioni, servizi e strutture
- Forza-lavoro più giovane ed efficiente
- Gli apparati industriali erano in grado di soddisfare l’ingente domanda poiché i prezzi erano più bassi, altre
risorse minerarie erano state scoperte (come il carbone), vennero fatte importanti scoperte scientifiche.
- Liberalizzazione degli scambi internazionali: il mercato era molto più unito grazie agli accordi di Bretton
Woods.
- Importanti accordi commerciali tra stati o gruppi di stati
- Il rinnovamento tecnologico permise una razionalizzazione produttiva e di concentrazione aziendale, sempre
più aziende che coinvolgevano diversi settori venivano allargate. Sempre in questo periodo nascono le
multinazionali, aziende che oltre alla realizzazione e distribuzione dei prodotti si occupavano anche della
produzione, tramite impianti propri che si trovavano spesso all’estero.

LE NUOVE FRONTIERE DELLA SCIENZA


Scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche furono molto importanti per lo sviluppo nel postguerra. I governi
destinarono quote crescenti alla ricerca, creando veri e propri enti specializzati. La velocità con la quale le nuove
tecnologie si diffusero era davvero impressionante. Tra i campi dove si verificarono le più importanti evoluzioni
troviamo:

- Settore chimico: largo uso delle materie plastiche e delle fibre sintetiche come il nylon
- Medicine: grandi progressi, tra cui l’invenzione degli antibiotici e della penicillina (Fleming). Vitamine,
sulfamidici, ormoni, psicofarmaci e anticoncezionali furono sempre più diffusi
- Chirurgia: nuove apparecchiature e nuovi anestetici + trapianto di organi
- Trasporti: oltre che in Usa e in Europa occidentale si diffusero anche in Giappone, sia la macchina che
l’aereo, motivo per cui vennero un po’ arginati il treno e la nave-passeggeri
- Spazio: nuove invenzioni nella missilistica, usata per la prima volta dai tedeschi. Furono i sovietici a mandare
per primi Sputnik, un satellite artificiale, nello spazio (1957) e in seguito anche il primo astronauta (Gagarin,
1961), gli Usa si misero subito al lavoro per superarli e, dopo aver formato la Nasa inviarono il primo uomo
sulla luna (1969), Armstrong e Alarin, discesi dalla navicella Apollo 11. Non mancò poi un forte interesse per
satelliti e navette spaziali. Introduzione di missili sempre più precisi e satelliti spia
- Fisica nucleare: bombe sempre più potente e introduzione del laser (1960).

IL TRIONFO DEI “MASS MEDIA”

A condizionare e trasformare fortemente la vita quotidiana, furono i mezzi di comunicazione di massa (= mass
media). Radio e cinema sonoro erano già diffusi nel periodo compreso tra le due guerre ma, dopo il secondo
conflitto, seguirono rapidi miglioramenti. Ma la vera protagonista di questo periodo fu la televisione: la prima
trasmissione avvenne in Gran Bretagna anche se il vero e proprio successo lo ottenne negli Usa. Nel corso degli anni ‘
50 si affermò anche in Europa occidentale. Gli effetti rivoluzionari dovuti al suo sviluppo non furono pochi: trasformò
radicalmente il mondo dell’informazione, portò nelle case spettacolo e creò nuove abitudini, creò una nuova cultura
di massa, dove l’immagine tende a prevalere sulla parola scritta. Ci fu anche un grandissimo boom della musica
leggera.

L’ESPLOSIONE DEMOGRAFICA

A partire dagli anni ’50 ci fu una rapida crescita della popolazione mondiale. Aumentò la vita media dell’uomo, infatti
nei paesi industrializzati sopravvivevano anche fino a 70 anni, mentre in quelli più arretrati fino a 40-50. Tutto questo
fu possibile grazie ai progressi in medicina, in chirurgia, nell’igiene e nell’alimentazione. Nel Terzo Mondo si abbassò
di poco la mortalità ma la natalità era ancora molto alta. Dopo la guerra si è parlato di baby boom, che di fatto non
durò molto, infatti ci fu presto un rapido calo della natalità. Si iniziarono controllare le nascite, questo perché
sempre più donne lavoravano, i costi per l’educazione e il mantenimento dei figli era molto alto, gli spazi abitativi
erano ristretti così come lo era il benessere materiale. La tendenza alla pianificazione familiare fu dettata anche dalla
diffusione degli anticoncezionali, che oltre a garantire una liberalizzazione dei comportamenti sessuali portò, nella
seconda metà degli anni ’60, anche a una riduzione delle gravidanze indesiderate.

LA CIVILTA’ DEI CONSUMI E I SUOI CRITICI

Il livello di vita migliorò nettamente, in particolare per le classi lavoratrici. La società del benessere o civiltà dei
consumi aveva dato il via a una crescita globale dei consumi. Si spendeva sempre meno per i bisogni essenziali, come
il cibo, per poter poi spendere nei cosiddetti bisogni inutili come l’abbigliamento, la casa, i servizi di massa come gli
elettrodomestici. Questo avvenne perché i prezzi calarono, i salari aumentavano, i messaggi pubblicitari si
moltiplicarono. Anche se ci fu questo miglioramento, non mancarono le critiche a questa società, soprattutto quelle
di standardizzazione, ovvero di omologazione. Il processo, definito anche di americanizzazione, portava la gente ad
essere costantemente insoddisfatta, principalmente per il rapido invecchiamento tecnologico. Mutò l’atteggiamento
degli intellettuali, che erano entusiasti dell’affermazione di scienze umane come la sociologia. La nuova società
venne accusata di tirannia psicologica, un posto dove contava solo lo sfruttamento economico e della persona. A
questa reazione seguì una ripresa della filosofia marxista, che criticava soprattutto l’etica della civiltà borghese, del
consumismo, tramite il pessimismo e la ribellione.

CONTESTAZIONE GIOVANILE E RIVOLTA STUDENTESCA

La contestazione maggiore veniva senza dubbio dai giovani, i quali si erano formati all’università e avevano preso
piena coscienza politica della situazione. Alcuni, come gli hippies, rifiutarono la città industrializzata e scapparono,
creando una loro cultura alternativa, fondata sulle religioni orientali, sull’idea di non-violenza, sull’uso di droghe
leggere e messaggi della nuova musica. Questo si diffuse nell’Università di Berkeley, dove si discusse a lungo anche
della guerra in Vietnam, alla quale erano contrari, così come alla segregazione razziale. Il loro carattere era pacifico,
agivano tramite molti sit-in (come Martin Luther King), ma ciò non toglie che c’era anche un gruppo di rivendicazione
chiamato black power, che era ben più aggressivo. La rivolta giovanile si estese anche in Europa e in Giappone, ma
avevano tutte in comune il fatto di rifiutare l’autoritarismo e l’imperialismo. In Germania le rivolte studentesche
colpirono soprattutto il governi, in Francia ci fu una grande rivolta del Quartiere latino di Parigi, che anche se di fatto
fu molto diffuso, fece numerose vittime. De Gaulle ottenne però grande successo anche alle elezioni seguenti, di
conseguenza finì col restringere le rivolte studentesche, affinché il paese non andasse nel caos più assoluto. Tutto
questo portò però a una maggiore presa di coscienza, si crearono comportamenti individuali e nuove forme di
mobilitazione, anche pacifiche.

IL NUOVO FEMMINISMO

Tra gli anni ’60 e ’70 ci fu una ripresa della questione del femminismo, già scattata a fine ‘800 ma ripresa poiché,
ancora una volta, mentre gli uomini erano in guerra a lavorare erano le donne, le quali ottennero il diritto al voto ed
erano pronte a lottare per ottenere diritti politici al pari degli uomini. Vennero esaltati i valori femminili, dapprima
negli Usa poi ovunque, fino a ottenere un collettivo femminista. Il movimento puntava non solo a raggiungere la
parità con gli uomini ma a rivendicare i tratti tipici delle donne, così come a ottenere un’autonomia come gruppo
politico e a rifiutare l’organizzazione tradizionale.

LA CHIESA CATTOLICA E IL CONCILIO VATICANO II

La società consumista aveva però un grande problema da affrontare, quello della Chiesa, che era contraria a questo
nuovo modo di vivere. Le pratiche religiose erano in declino anche se la comunità cristiana era ancora molto
numerosa. La Chiesa voleva agire tramite un rinnovamento interno, accompagnato da una maggiore attenzione per
la realtà che troppo spesso era legata solo alla materialità. Il papa di questo periodo era Giovanni XXIII, che emanò 2
importanti encicliche:

1. Mater et magistra (‘61), nella quale rivendicava il filone cattolico, condannava l’egoismo dei ceti privilegiati e
dei paesi ricchi
2. Pacem in terris (’63), che era dedicata soprattutto ai rapporti internazionali, proponeva la cooperazione e il
rispetto tra tutti i popoli, ognuno dei quali doveva mantenere la sua indipendenza, doveva essere disposta al
dialogo

L’atto più importante fu però il Concilio ecumenico Vaticano II (1962), il quale prendeva provvedimenti sia
nell’organizzazione interna che nella liturgia. Fu ribadita l’importanza delle sacre scritture e la Chiesa ne uscì
riformata. Nonostante i numerosi seguaci, non mancavano gli oppositori come il gruppo francese dei cattolici del
dissenso, formatisi anche in Italia, ma condannati dalla Chiesa.
26. DISTENSIONE E CONFRONTO
MITO E REALTA’ DEGLI ANNI ‘60

Gli anni ’60, come abbiamo già visto, rappresentano momenti di prosperità per l’Occidente, in quanto erano il
trionfo della civiltà del benessere. Tuttavia, in realtà, sul piano degli equilibri internazionali e interni, la situazione era
molto agitata, sia per i conflitti politici che per il rilancio di ideologie rivoluzionarie. La coesistenza di due blocchi
politico-militari non era semplice, si basava su un equilibrio degli armamenti nucleari e sulla consapevolezza che
romperli, per cercare di prevalere sul blocco opposto, significava mettere a rischio l’esistenza dell’intera umanità. Un
equilibrio di questo tipo era di fatto un equilibrio del terrore, dove le tensioni interne erano all’ordine del giorno.

KENNEDY E KRUSCEV: LA CRISI DEI MISSILI E LA DISTENSIONE

Nel 1960 scadde il mandato di Eisenhower e a seguirlo fu Kennedy, il più giovane presidente americano e il primo
cattolico a entrare alla Casa Bianca. Si riallacciò alle politiche di Wilson e Roosevelt, puntando però alla formazione di
una nuova frontiera spirituale, culturale e scientifica. In politica interna ebbe grossi successi, puntava infatti a un
incremento della spesa pubblica assorbito in parte dai programmi sociali e in parte dall’esplorazione dello spazio,
non mancò poi il tentativo di imporre l’integrazione razziale anche negli stati del sud, meno propensi. In politica
esterna invece, non ebbe un successo eguale, infatti nonostante puntasse a un clima di pace e di distensione con
l’est, di fatto era molto intransigente su questioni legate agli interessi americani nel mondo. Il primo incontro tra
Kennedy e Kruscev, avvenuto nel ’61 a Vienna, era incentrato sul problema di Berlino Ovest, che i sovietici volevano
trasformare in città libera, ma Kennedy si oppose e Kruscev rispose facendo innalzare un muro per impedire che i
cittadini dell’est potessero cambiare zona. Il confronto più grave si ebbe però circa l’America latina. Kennedy tentò
fin da subito di ostacolare il regime socialista di Castro, a Cuba, infatti mandò anche una spedizione armata nell’isola,
nel ’61. Questa si rivelò però un totale fallimento, al seguito del quale l’Urss, avendo offerto un sostegno economico
e militare all’isola, poté in cambio installare dei missili nucleari, puntati direttamente sul Nord America. L’anno
seguente Kennedy avviò il blocco navale attorno all’isola e, alla fine, Kruscev cedette. Smantellò le basi missilistiche a
patto che Kennedy si astenesse da azioni militari contro Cuba. Il compromesso, che era un successo per Kennedy,
avviò un nuovo processo di distensione, infatti nel ’63 i due stati firmarono il trattato per la messa al bando degli
esperimenti nucleari nell’atmosfera, al quale non aderirono stati come Francia e Cina, che avevano in atto delle
sperimentazioni. Venne anche installata la linea rossa, una linea diretta di telescriventi tra Casa Bianca e Cremlino
per scongiurare una “guerra per errore”. Kruscev, che assunse toni più pacifisti, propose di far vincere la guerra a chi,
tra le due superpotenze, fosse stata in grado di mantenere un maggiore periodo di prosperità e di stabilità
economica. Questo progetto, anche se nel futuro avrà vantaggi per l’Urss, nell’immediato si rivelò un fallimento e
Kruscev dovette dimettersi (1964) proprio quando il suo avversario Kennedy era morto da poco in un attentato (22
novembre 1963). A Kennedy subentrò Johnson, uomo politico di stampo rooseveltiano che si impegnò ad ampliare la
legislazione sociale, nonostante le numerose ribellioni, a dare una spinta decisiva alla segregazione raziale, ma, sarà
anche ricordato per le sue pessime decisioni nella guerra del Vietnam.

LA CINA DI MAO: IL CONTRASTO CON L’URSS E LA “RIVOLUZIONE CULTURALE”

Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 si sviluppò un altro contrasto significativo: quello tra Cina e Urss,
principalmente per divergenze politico-ideologiche. La Cina di Mao continuava a contestare il ruolo dell’Urss e ad
appoggiare tutti i vari movimenti rivoluzionari. Dalla rivoluzione del ’49, la Cina assistette a un’accentuazione dei
tratti radicali e collettivistici del regime. La Cina comunista aveva nazionalizzato i settori industriale e commerciale, si
era dotata di una sua industria pesante, aveva proceduto alla collettivizzazione dell’agricoltura. Nel ’50 aveva avviato
la prima riforma agraria, redistribuendo le terre tra i contadini, creando così una miriade di piccole aziende agricole,
che finirono poi per essere radunate in cooperative, controllate dalle autorità statali. I risultati nel settore
dell’agricoltura non furono eccellenti, infatti nel ’58 venne avviata una nuova strategia che prese il nome di “grande
balzo in avanti”, che avrebbe dovuto realizzarsi grazie a una generale razionalizzazione produttiva. Le cooperative
furono forzatamente riunite in unità più grandi, la comuni popolari, ciascuna delle quali doveva raggiungere
un’autosufficienza economica. L’intera popolazione fu sottoposta a controlli sempre più stretti, anche nel privato, e
fu mobilitata una grande campagna di propaganda. Questo però si rivelò un totale fallimento, la produzione agricola
crollò e il contrasto con l’Urss si fece decisamente più forte. Quest’ultima si rifiutò di fornirle aiuti nucleari e, dopo
diversi scontri, i confini di Cina e Urss vennero ridefiniti, a causa degli scontri armati culminati nello scontro sul fiume
Ussuri. Nel frattempo, nella Cina di Mao, si stavano sviluppando forze moderate, motivo per cui Mao tentò di
opporsi, con una forma di lotta nuova: incitava i comunisti, perlopiù i giovani, a ribellarsi a tutti coloro che ritenevano
moderati. Tra il ’66 e il ’68 la mobilitazione culminò della cosiddetta rivoluzione culturale, di tipo giovanile, che anche
se sembrava casuale era in realtà organizzata. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro si inserirono le guardie rosse,
costituite perlopiù da studenti. L’intento di Mao era quello di far sparire tutti coloro che tentavano di opporsi al
comunismo, ma la situazione gli sfuggì di mano, e dopo ben un milione e passa di morti, fu lo stesso Mao a mettere
un freno. Cercò di arginare la situazione, escludendo i più estremisti e i capi della rivoluzione. Visti i rapporti con
l’Urss cercò alleanza negli Stati Uniti, infatti entrò a far parte dell’Onu dopo un viaggio del presidente Nixon a
Pechino.

LA GUERRA DEL VIETNAM

La guerra che si combatté per oltre dieci anni, tra il ’64 e il ’75, fu uno dei momenti peggiori nello scontro tra Usa e
mondo comunista. Gli accordi di Ginevra del ’54 avevano diviso il Vietnam il due repubbliche: a nord c’erano i
comunisti Ho Chi-Minh, mentre al sud era governata dal regime semidittatoriale del cattolico Diem, appoggiato dagli
americani che cercavano di sostituire la loro influenza a quella francese. Contro il governo del sud, inviso alla
maggioranza buddista della popolazione, si sviluppò un movimento di guerriglia (Vietcong) guidato dai comunisti e
sostenuto dallo stato nordvietnamita. Preoccupati dalla prospettiva di un’Indocina comunista, gli Stati Uniti
mandarono rinforzi allo stato del sud, che durante la presidenza di Kennedy arrivarono a 30.000 uomini. Sotto la
presidenza Johnson, la presenza degli Usa in Vietnam divenne un aperto intervento bellico, infatti il numero dei
soldati arrivò a oltre mezzo milione di uomini. Nel febbraio del ’65, senza il minimo preavviso, iniziarono i
bombardamenti contro il Vietnam del Nord. Non fu però sufficiente a placare i Vietcong che erano sostenuti dalle
masse contadine, dalla Russia e dalla Cina. Gli Stati Uniti però entrarono in crisi, poiché il nemico non agiva
direttamente, ma si muoveva tra la popolazione, cosa che non fece che accrescere il disagio morale. Negli Usa
inoltre, le vicende vietnamite erano sotto l’occhio di tutti e, spesso, causavano l’indignazione americana. Si iniziò a
pensare che l’occupazione americana fosse ingiusta, per questo si verificarono importanti manifestazioni di protesta
e molti giovani si rifiutarono di arruolarsi. La presidenza americana venne lentamente isolata dato che tutti,
americani e non, sostenevano i vietnamiti. La svolta si ebbe nel ’68 quando i Vietcong scagliarono un’offensiva
contro le maggiori città del sud. Anche se di fatto potevano essere battuti, Johnson decise di non procedere, e di
avviare la ritirata, sospendendo così i bombardamenti. Il suo successore Nixon, avviò dei negoziati ufficiali con il
Vietnam del Nord e con il governo rivoluzionario provvisorio, espressione della politica del Vietcong, riducendo
progressivamente l’impegno militare americano. Solo nel gennaio del ’73, americani e nordvietnamiti firmarono a
Parigi un armistizio, che prevedeva il graduale ritiro delle forze americane. La guerra proseguì però per altri due anni,
finché i vietcong e le truppe nordvietnamite non entrarono a Saigon, capitale del sud, mentre i membri del governo
lasciarono in fretta il paese. Pochi giorni prima i comunisti avevano conquistato anche la Cambogia, rendendo così
l’intera Indocina comunista. Gli Usa dovettero registrare così la prima sconfitta.

L’URSS E L’EUROPA ORIENTALE: LA CRISI CECOSLOVACCA

Dopo l’allontanamento di Kruscev, l’Unione sovietica fu retta da una direzione collegiale formata da ex collaboratori
del leader rimosso. Il nuovo gruppo dirigente mutò molto lo stile polito di Kruscev, ma ne lasciò immutata la
sostanza. Venne repressa ogni forma di dissenso, soprattutto quella degli intellettuali. In campo economico venne
varata una riforma che accordava alle imprese più autonomia, ma al tempo stesso il governo centrale aveva più
controllo sui singoli settori produttivi. Tutto questo portò a un ulteriore distacco rispetto ai paesi occidentali. Nella
politica esterna non ci furono miglioramenti con la Cina, e la politica del riarmo prese grosse quote del bilancio. Solo
la Romania riuscì ad ottenere più indipendenze nelle scelte economiche e in quelle di politica internazionale. Lo
stesso non si può dire della situazione della Cecoslovacchia, dove nel ’68 si raggiunse il culmine con la cosiddetta
primavera di Praga. Tutto cominciò quando fu rimesso dal governo uno degli ultimi alleati di Stalin,, il quale puntava
a un processo di rinnovamento,, un vero e proprio programma d’azione varato in aprile dal partito comunista, nel
quale si cercava però di introdurre più libertà di stampa e di opinione. Erano tutte le premesse per un socialismo dal
volto umano, ma nonostante questo era comunque una minaccia per l’Urss, preoccupata da quale effetto avrebbe
avuto sugli altri stati del blocco orientale. Nell’agosto del ’68, l’Urss insieme ad altri 4 paesi del trattato di Varsavia
occuparono Praga e il resto del paese e avviò un governo filoamericano. Venne ripristinato il leader, ma di fatto il
potere era nelle mani degli occupanti. Un’altra crisi si verificò poi in Polonia, dove la situazione fu arginata
concedendo un aumento dei salari, vista la grave insurrezione che stava prendendo piede.

L’EUROPA OCCIDENTALE NEGLI ANNI DEL BENESSERE

Per le democrazie occidentali, gli anni ’60-’70 rappresentano un periodo di complessiva prosperità e di importanti
mutamenti politici. In questo periodi in Italia, Gran Bretagna e Germania occidentale presero il governo i socialisti, in
Francia invece, nonostante le opposizioni, si mantenne il governo di De Gaulle. In Germania federale, il monopolio
dei cristiano-democratici si interruppe solo nel ’66, infatti non trovando un accordo tra liberali, si formò la grande
coalizione, insieme ai socialdemocratici, guidati da Brandt. I problemi da affrontare furono principalmente legati a
nuove spinte neonaziste e alle contestazioni giovanili del ’68, che una placate, portarono i socialdemocratici a
sciogliere l’alleanza con i cristiano-democratici e ad allearsi con i liberali. Questo governo produsse diversi progressi,
anche in campo sociale, la cui politica puntava a dei rapporti tra Germania federale e paesi comunisti, che
riproponeva già il problema di riunificazione. Meno fortunata è stato il governo inglese del laburista Wilson, che
dovette occuparsi della questione irlandese. Nell’Ulster, la minoranza cattolica, la parte più povera diede inizio a una
serie di agitazioni, a veri e propri atti di terrorismo, che si mescolavano con la protesta sociale. Nel frattempo la Gran
Bretagna entrò in una crisi economica, che non sembrava migliorare nemmeno quando Wilson fu costretto ad
entrare nella Cee.

IL MEDIO ORIENTE E LE GUERRE ARABE-ISRAELIANE

Dopo la crisi del canale di Suez nel ’56, il Medio Oriente divenne un focolaio di tensione locale, le ostilità tra Israele e
i paesi arabi erano ormai permanenti. Nel ’67 il presidente egiziano Nasser chiese il ritiro delle forze dell’Onu dal
confine del Sinai, proclamò chiuso il golfo di Aqaba, vitale per gli approvvigionamenti israeliani, e strinse un patto
militare con la Giordania. Israele rispose attaccando Egitto, Giordania e Siria. La guerra, che durò sei giorni, distrusse
l’aviazione egiziana, l’Egitto perse anche il Sinai, la Giordani i territori della riva occidentale del Giordano, la Siria le
alture del Golan. Gli arabi contarono migliaia di vittime, gli israeliani poche centinaia. Alla disfatta seguì il declino di
Nasser, della sua politica di oltranzismo panarabo, indusse un atteggiamento più attento e moderato negli altri stati,
determinò anche il distacco dei movimenti palestinesi di resistenza, che si riunirono nell’Olp, guidata da Arafat, che
pose le sue basi in Giordania, fino a creare una sorta di Stato nello Stato. Il re di Giordania rispose con una terribile
repressione, e i profughi palestinesi sopravvissuti dovettero rifugiarsi nel vicino Libano. L’olp non smise però di
compiere dirottamenti e gravi attentati. Nasser morì, e il suo successore era determinato a riconquistare il Sinai, ma
le truppe egiziane, che sembravano aver sorpreso quelle israeliane, finirono con l’essere sconfitte. Il canale di Suez
venne chiuso e il blocco petrolifero messo in atto dai paesi arabi contro Israele e i suoi alleati, finì col provocare una
crisi di dimensione globale.

LA CRISI PETROLIFERA

Nel ’71 gli Usa decisero di concedere la convertibilità del dollaro in ora, che costituiva un pilastro del sistema
monetario di Bretton Woods. Era segno di un grave disagio nell’economia statunitense, esaurita dall’impegno
militare in Vietnam. Questo era solo l’inizio della grande instabilità economica e monetaria che stava prendendo
piede. Ancora più dura fu la decisione arabo-israeliana del ’73 di quadruplicare di colpo il prezzo del petrolio. Lo
shock petrolifero colpì tutti i paesi industrializzati, soprattutto quelli che avevano un costante bisogno di rifornirsi
perché non avevano materie prime proprie, come il Giappone. L’immediata recessione produttiva portò anche a una
crescita dell’inflazione. I lavoratori erano tutelati solo in parte circa l’aumento dei prezzi, questo portò ad un
aumento della disoccupazione.
27. APOGEO E CRISI DEL BIPOLARISMO
IL TEMPO DEL RIFLUSSO

Gli eventi degli anni ’70 erano un sorta di preavviso alla vera e propria crisi che è scaturita a fine anni ’80, che portò
al collasso di una superpotenza, l’Urss. In questo periodo i cambiamenti furono molti, a livello economico e politico
così come a livello ideologico e culturale. Sul piano politico era la sinistra a prevalere, sia nella versione riformista che
accettava il welfare state, sia in quella rivoluzionaria che oltre a rifiutarla contestava anche. Sempre in questo
periodo vennero a meno diverse certezze, la crisi energetica metteva infatti in crisi la prospettiva di uno sviluppo
industriale. L’Unione sovietica aveva visto l’inizio del suo fallimento già dai fatti di Praga del ’68, sia per le continue
denunce che riceveva, sia per l’intervento militare in Afghanistan, sia per gli insuccessi in campo economico. Il
modello del welfare state, che aveva mostrato solo i suoi pregi fino ad allora, iniziò a mostrare le prime debolezze: i
livelli della pressione fiscale erano molti alti, l’opinione pubblica iniziava a criticare lo Stato assistenziale, era
contraria all’eccessivo stalinismo, puntava invece a un ritorno delle dottrine liberiste e del monetarismo, cosa che
avvenne in Inghilterra con la Thatcher e in America con Reagan. Alcuni movimenti rivoluzionari estremi, non contenti
della situazione, arrivarono però ad impugnare le armi. Fu così che scoppiò il terrorismo politico, un fenomeno che
era la versione estremizzata del marxismo-leninismo, e che portava a colpire personaggi o istituzioni segni di questa
generazione (Giovani Paolo II). Tuttavia questo fenomeno era sconfitto in partenza: non aveva l’appoggio delle
masse lavorative e finirono con l’essere soppressi con la forza, anche se questo non li arrestò del tutto.

LA DIFFICILE UNITA’ DELL’EUROPA OCCIDENTALE

Gli anni che seguirono la crisi petrolifera del ’73 furono per l’Europa segnati da difficoltà economiche e mutamenti
politici. Tutti i paesi della CEE furono duramente colpiti dal rincaro dei prezzi del petrolio. A risentirne furono sia i
settori industriali, sia l’aspetto sociale, con tentazioni protezionistiche. L’istituzione nel ’79 del Sistema monetario
europeo, ossia un sistema di cambi fissi tra le singole monete nazionali, non fu sufficiente a coordinare in modo
efficace le politiche economiche dei paesi membri della comunità. L’Europa militare non solo perse gradualmente
terreno, ma era sempre più legata all’alleato americano, anche se ci fu un momento di tensione quando quest’ultimi
misero gli euromissili, pronti ad essere sparati contro l’Urss. I laburisti inglesi persero potere nel ’79 a favore dei
conservatori: il governo della Thatcher era contro le trade unions e mise in discussione il welfare state, privatizzando
i più importanti settori dell’industria. Dopo ben 11 anni di governo, lasciò il posto a Major, poiché non erano state
apprezzate alcune sue manovre fiscali. Anche i paesi scandinavi videro ostacolate le loro social-democrazie, mentre
in Germania la loro era terminò nel ’93 con la rottura dell’alleanza con i liberali e l’ascesa al governo del cristiano
democratico Kohl. Qui non fu dovuto a motivi economici ma politici, infatti venne criticata la politica estera,
soprattutto per quanto riguardava i missili. I Partiti socialisti si affermavano largamente nell’area mediterranea e
latina. In Francia l’Unione delle sinistre sembrava pronta a fare la differenza ma di fatto deluse ogni aspettativa, e a
cause delle misure eccessivamente restrittive si ebbe una rottura con il Partito comunista. Governi sotto la guida
socialista si ebbero negli anni ’80 in Europa meridionale:

- Portogallo: dove il processo di democratizzazione fu accelerato dall’insofferenza dell’opinione pubblica.


Furono i militari a compiere il colpo di stato e il potere passò pima a un gruppo di moderati, poi a un governo
di sinistra appoggiato dai comunisti. Quando i militari più estremisti vennero arginati, il potere passò nelle
mani di governi di sinistra alternati a quelli di centro-destra.
- Grecia: qui furono sempre i militare ad avviare la ribellione ma ai danni dell’opposizione democratica. La
dittatura dei colonnelli venne sospesa quando le mire vennero indirizzate a Cipro, dove però i turchi si
ribellarono e occuparono l’isola.
- Spagna: grande esempio di monarchia, il re Juan Carlos di Borbone si insediò nel ’75, dopo la morte del
generale Franco, in questo periodo ci fu finalmente un rinnovamento dell’economia, alla guida del duo
governo c’era Suarez, che tra le altre cose concesse una costituzione democratica. Nonostante l’aumento
delle azioni terroriste da parte dei militanti baschi, la monarchia si consolidò rapidamente.
I tre paesi entrarono nella CEE: la Grecia nell’81, Spagna e Portogallo nell’86.

GLI STATI UNITI DA NIXON A BUSH

Per gli Stati Uniti, gli anni ’70 rappresentano una fase tutt’altro che felice: la crisi del dollaro, la guerra del Vietnam, la
crisi interna e il caso Watergate, che ’74 costrinse il presidente Nixon a dimettersi in quanto accusato di ave coperto i
comportamenti illegali di alcuni suoi collaboratori. A lui seguì il democratico Carter, nel ’76, che cercò di risollevare il
prestigio del paese, recuperando i valori della tradizione progressista americana, su una linea di stampo wilsoniano,
fondata sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo.
Una linea un po’ incerta, che non solo lasciava aperti dibattiti con l’Urss, ma che lasciava aperti regimi ostili agli Usa
in Africa e in America latina. Tutto ciò portò alla sconfitta di Carter, al quale subentrò Reagan, del Partito
repubblicano: un programma liberista in economia e la promessa di adottare una linea più dura nei confronti
dell’Urss furono due proposte vincenti, che lo fecero rieleggere. Nonostante la ripresa economica, negli anni ’80 ci
furono anche: crisi di numerosi settori agricoli e industriali, perché privati di sussidi governativi, aumento delle
disuguaglianze sociali, incremento della disoccupazione e del deficit del bilancio dello stato. Il mantenimento di un
alto livello degli armamenti, era parte della strategia per combattere l’Urss, ma anche al tempo stesso per far sentire
la presenza americana. Reagan appoggiò l’iniziativa di difesa strategica, un costoso progetto mirante a creare una
sorta di scudo elettronico spaziale, capace di neutralizzare, mediante l’uso dei laser, qualsiasi minaccia missilistica.
Per quanto riguarda la politica estera, si alleò con l’Afghanistan contro l’Urss, fornì massicci aiuti militari ai contras
del Nicaragua, lanciò sfide al Medio Oriente, dalla Libia di Ghaddafi all’Iran di Khomeini. Nel ’86, quando venne
attribuita una serie di attentati terroristici alla Libia, Reagan reagì bombardando il quartier generale di Gheddafi.
Nell’88 riscosse grande successo visti i suoi accordi con il leader sovietico Gorbacev, avviò un nuovo processo di
distensione e terminò il suo mandato con onore. A seguirlo fu la volta del suo vicesegretario, George Bush, il quale
nell’89 fece deporre e arrestare il dittatore locale di Panama, accusato di stretti legami con i trafficanti di droga, e
quello più massiccio del ’90-’91 contro l’Iraq di Saddam Hussein.

L’URSS DA BREZNEV A GORBACEV

Per tutti gli anni ’70, anni del potere incontrastato di Breznev nell’Urss, si riuscì a mascherare i gravi problemi interni
con un accentuato dinamismo in politica internazionale. Le difficoltà economiche non furono poche, soprattutto nel
settore agricolo, senza contare la corsa agli armamenti che prese il via in un momento di debolezza degli Usa. Alla
fine del ’79 l’Urss invia in Afghanistan delle truppe, nonostante questo fosse uno degli stati cuscinetto, il costo delle
vite umane fu altissimo. La repressione e il tratto autoritario non fece che ispessirsi nell’Urss, soprattutto nei
confronti degli intellettuali dissidenti. Nel ’75 l’Urss partecipò insieme ad altri 35 paesi alla conferenza di Helsinki per
la sicurezza e la cooperazione in Europa, garantendo il rispetto per l’uomo e per i diritti umani e di libertà politica. Il
mancato mantenimento di questi accordi, avrebbe causato ulteriore motivo di protesta per i dissidenti. La svolta
avvenne nell’80 quando, dopo la morte di Breznev, seguito un breve governo da parte degli anziani, prese potere il
“giovane” Gorbacev, deciso a introdurre una serie di novità radicali, sia sul piano interno che su quello
internazionale. In politica economica, la parola chiave del nuovo leader era perestrojka, ossia RIFORMA. Propose una
serie di interventi di liberalizzazione, volti a introdurre nel sistema socialista elementi di economia di mercato. Sul
terreno delle istituzioni propose una nuova costituzione che, senza intaccare il sistema a partito unico, lasciava un
limitato pluralismo. I tentativi di riforma portarono però nuovi malumori, emersero movimenti autonomisti,
addirittura indipendentisti, le prime a muoversi furono Estonia, Lettonia, Lituania, dove non mancarono sanguinosi
scontri. Importante fu anche la liberalizzazione interna avviata secondo il principio di trasparenza, seguita da un
importante proposta a Reagan di ridurre gli armamenti. Non solo vennero limitati gli armamenti missilistici e
diminuite le armi nucleari, vennero anche ritirate le truppe sovietiche dall’Afghanistan. A Parigi venne sancito nel
1990 un accordo, non solo tra Usa e Urss, ma tra paesi della Nato e del patto di Varsavia, con l’introduzione di un
nuovo stato: la Germania.

LA CRISI DELL’EUROPA COMUNISTA, LA CADUTA DEL MURO E LA RIUNIFICAZIONE TEDESCA


Prima di provocare la dissoluzione dell’Urss, la crisi del comunismo sovietico aveva portato un risultato incredibile: il
crollo dei regimi comunisti imposti all’Europa dell’Est dopo il secondo conflitto mondiale e la conseguente perdita da
parte dell’Urss del dominio fino ad allora mantenuto. Chiaramente tutti questi fattori ebbero delle ripercussioni
anche sugli stati satellite.

- Polonia: per contrastare il comunismo, erano nati dei movimenti di opposizione che creavano scioperi e
agitazioni, all’inizio tollerati. Il segretario del Partito operaio polacco aveva attuato un vero e proprio colpo di
stato militare, assumendo i pieni poteri. Venne allentato il regime di repressione e avviato un dialogo con la
Chiesa e con il sindacato indipendente, che portò agli accordi di Danzica dell’88, dove il capo dello stato si
impegnava ad avviare una riforma costituzionale che avrebbe consentito l’anno seguente delle elezioni
libere, e la formazione di un governo di coalizione.
- Ungheria: fu il primo paese a seguire le orme della Polonia. I nuovi dirigenti comunisti avviarono il processo
riformatore per legalizzare i partiti e procedere con le elezioni libere. Vennero tolte le barriere e i controlli
con l’Austria, così facendo i cittadini della Germania orientale potevano finalmente andarsene da lì e
raggiungere la parte ad ovest. Tutto ciò mise chiaramente caos nel sistema, Gorbacev quindi decise di
legalizzare l’espatrio, permanente e non. Il 9 novembre dell’89 venne finalmente abbattuto il muro di
Berlino, poteva avvenire la riconciliazione. I comunisti vennero sconfitti a favore del partito di centro-destra.
- Cecoslovacchia: si tornò alla democrazia solo con una lunga serie di manifestazioni popolari.
- Romania: il processo di liberalizzazione fu graduale e scosso da drammatici episodi di resistenza dalla
dittatura personale. I neocomunisti riuscirono comunque a tenere il controllo. Governo di centro-sinistra.
- Bulgaria: venne avviato un graduale processo di liberalizzazione. Comunisti sconfitti.
- Albania: venne avviato un graduale processo di liberalizzazione. Comunisti sconfitti.
- Jugoslavia: grave crisi economica e istituzionale. Le spinte centrifughe puntarono a uno stato federativo.
- Slovenia: vittoria ai partiti autonomisti.
- Croazia: vittoria ai partiti autonomisti.
- Serbia: vittoria del neocomunismo nazionalista.
- Germania: dopo la caduta del muro, nelle elezioni del ’90, non vennero puniti solo i comunisti ma anche i
socialdemocratici, e i gruppi di sinistra. La vittoria andò così ai cristiano-democratici. I due governi firmarono
un trattato per l’unificazione economica e monetaria, in seguito con l’approvazione di Gorbacev firmarono
anche quello per la vera e propria unificazione.

DITTATURE E DEMOCRAZIE IN AMERICA LATINA

Anche per l’America latina fu un periodo di crisi e di trasformazioni, soprattutto in campo politico, dove lentamente
caddero le dittature militari.

- Uruguay: il regime liberale fu inizialmente indebolito e la democrazia entrò in crisi.


- Cile: il socialista Allende aveva assunto la presidenza, a capo di un governo di Unità popolare. Tentò di
realizzare un programma di nazionalizzazioni e di ampie riforme sociali, ma dovette scontrarsi con una
durissima crisi economica, oltre che con l’opposizione borghese sostenuta dall’ostilità degli Usa. Nel ’73, in
seguito a un colpo di stato il governo venne rovesciato e Allende ucciso. Il potere fu assunto dal generale
Pinochet, che diede vita a un durissimo regime autoritario. Nell’88 Pinochet fu sconfitto.
- Argentina: nel ’72 il regime militare che vigeva da ormai sei anni non riuscì a ristabilire l’economia e l’ordine
pubblico, per questo si accordo con l’ex dittatore Peron, anche se di fatto, dopo aver ottenuto la presidenza,
non concluse nulla. Dopo la sua morte la presidenza passò alla moglie Isabelita, che aggravò la situazione,
scatenando le guerriglie di sinistra, che finirono col deporre la presidentessa. Si instaurò una dittatura
militare molto rigida che eliminava anche coloro che sospettavano di essere degli oppositori. Al fallimento
economico si aggiunse quello militare quando, nell’82, tentarono di prendere possesso delle isole Malvine
(Falkland), ma vennero sconfitti e cacciati dal governo britannico. I generali furono costretti a farsi da parte e
a concedere le libere elezioni, con la vittoria del radicale Alfonsin. L’inflazione raggiunse livelli altissimi.
- Brasile: i militari avevano allentato la dittatura e concesso nell’85 le elezioni libere. L’inflazione raggiunse
livelli altissimi + crisi istituzionale.
- Paraguay: fu rovesciata la dittatura del generale in carica.
- Colombia: le istituzioni liberal-democratiche erano rimaste in piedi, nonostante le contraddizioni. La
minaccia maggiore era quella dei narcotrafficanti che, oltre a trafficare droga a livello mondiale, si
instaurarono nei partiti, con corruzione e violenza.
- Venezuela: le istituzioni liberal-democratiche erano rimaste in piedi, nonostante le contraddizioni. Fallirono
due colpi di stato militari.
- Equador: le istituzioni liberal-democratiche erano rimaste in piedi, nonostante le contraddizioni.
- Perù: movimento di guerriglia protagonista di sanguinose rivolte, un colpo di stato sospese la costituzione.
- Stati dell’America centrale: fine delle ultime dittature personali, non sempre si tradusse con l’affermazione
della democrazia. Sconvolgimenti dovuti alla situazione del Nicaragua dove, un movimento rivoluzionario di
sinistra (movimento sandinista, dal leader Sandino) prese il potere rovesciando la dittatura di Somoza. Gli
Usa che avevano sempre sostenuto quest’ultimo, non lo difesero. Ma quando il nuovo regime mostrò la sua
faccia socialista, in politica interna ed estera, intervenne Reagan che mandò delle truppe armate (contras),
che vennero ritirati solo quando vennero concesse le elezioni libere, vinte dall’opposizione antisandinista.
Cuba veniva lentamente isolata, soprattutto dal collasso dell’Urss, il regime di Castro era senza il suo
sostenitore economico. Per tutti questi stati non mancavano poi i debiti con l’estero che avviarono una vera
e propria crisi finanziaria.

ISRAELE E I PAESI ARABI

Il presidente egiziano Sadat si convinse della necessità di trovare una soluzione politica nel conflitto con Israele,
avvicinandosi agli Stati Uniti, cosa che portò a una conseguente espulsione dei membri sovietici dal paese. Il
presidente si recò poi in Israele dove propose una trattativa di pace al Parlamento israeliano. Grazie al tramite, il
presidente americano Carter, i due presidenti arabi trovarono un accordo (accordi di Camp David, ’78), che
prevedeva anche la restituzione del Sinai all’Egitto. I negoziati prevedevano anche la risoluzione della situazione
palestinese, che però non avvenne, poiché il Presidente egiziano morì per mano di oppositori, contrari agli accordi di
pace. Gli stati arabi e l’Olp videro questo gesto come un tradimento, dichiarando loro nemico l’Egitto. Si decise di
trattare con Israele, che se avesse liberato i territori occupati (Cisgiordania e striscia di Gaza), avrebbe potuto creare
lì lo stato palestinese. Ma nel frattempo gli ebrei, poiché avevano iniziato ad occupare la zona per creare un loro
stato, si opposero. I palestinesi si opposero agli occupanti, e diedero vita a una rivolta, che fu duramente repressa.
Ciò fu visto come un torto ai palestinesi, che iniziarono ad essere aiutati. Anche nel Libano c’erano forti dissidi
interni, che richiesero l’intervento di americani e francesi, alquanto inutile. Qui c’erano le basi dell’Olp, e solo la Siria,
anni dopo, riuscì a fare del Libano un suo protettorato.

IL MONDO ISLAMICO E LA RIVOLUZIONE IRANIANA

Altro scontro ce avvenne e avviene tuttora nel mondo islamico, è quello tra le forze integraliste e coloro che invece
sono aperti all’influenza occidentale. Le correnti laiche avevano da sempre la loro roccaforte in Turchia, mentre le
correnti integraliste, minoritarie ma comunque diffuse tra la popolazione, in Iran (un paese molto ricco). Qui lo scià,
prima di lasciare il governo aveva avviato una rapida modernizzazione che provocò veri e propri traumi, motivo per
cui nacquero le opposizioni, sia dalla sinistra che dal clero islamico tradizionalista. Si creò un movimento di protesta
popolare, gli Usa finirono per abbandonare il paese, dove venne a formarsi la Repubblica islamica, di stampo
teocratico, ispirata al riformismo sociale. Lo stato era antiamericano e antioccidentale, motivo per cui entrò subito in
contrasto con gli Usa, facendo prigionieri anche i membri dell’ambasciata americana di Teheran. Nell’80, l’Iran fu
attaccato dall’Iraq che voleva dei territori molti ricchi quanto in posizione strategica. La lunga carneficina durò ben 8
anni e fu interrotta dalla mediazione dell’Onu che però non servì per migliorare la situazione.

I CONFLITTI NELL’ASIA COMUNISTA


Negli anni successivi alla vittoria dei comunisti in Vietnam (1975) e alla morte di Mao (1976), l’Asia attraversò molte
trasformazioni e molti contrasti. Dopo la conquista di Saigon, i nordvietnamiti ignorarono le promesse di
autodeterminazione e riconciliazione, avviando invece una politica di puro e semplice assorbimento ed
emarginazione. La collettivizzazione dell’economia fu condotta con durezza, molti furono espropriati dei propri averi,
molti se ne andarono. Ancora più tragica era la situazione della Cambogia, dove i khmer rossi, sotto la guida di Pot
Pot, misero in atto, tra il ’76 e il ’78, una delle più dure rivoluzioni sociali. Essa prevedeva il massacro, l’eliminazione
fisica di persone, provocando la morte per fame di mezzo milione di persone. Il denaro fu abolito e molti edifici
pubblici distrutti. Questo regime ostacolava la volontà del Vietnam di rendere l’Indocina un protettorato, per questo
un gruppo di soldati vietnamiti e cambogiani, sostenuti dalla Cina, attaccarono il governo. I cinesi organizzarono una
spedizione nel Nord del Vietnam per costringerlo a ritirare le truppe dalla Cambogia, ma questo si oppose. Un
accordo si trovò grazie alla mediazione dell’Onu, che riuscirono a far ritirare i vietnamiti dalla Cambogia. Vennero
imposte le elezioni libere che, avvenute nel ’93, erano controllate dall’Onu e votare per il ritorno alla monarchia.

LA CINA DOPO MAO

Dopo la morte di Mao ci fu un processo di damaoizzazione avviata dal comunista Xiao-Ping. Avviò della profonde
modifiche nell’economia, dalla reintroduzione delle differenze salariali, all’aumento degli incentivi per i lavoratori.
Furono introdotti gli elementi dell’economia di mercato. La trasformazione provocò radicali cambiamenti della
stratificazione sociale, e l’introduzione di un modello più consumistico. Proprio il mantenimento del regime
autoritario, mischiato alla spinta eccessiva alla modernizzazione portò a una protesta, una manifestazione pacifica
organizzata dagli studenti di Pechino. Il governo, non trovando il dialogo optò per la repressione armata e la
conseguente epurazione. Dopo l’indignazione pubblica, il paese iniziò ad affermarsi economicamente e diventò un
esperimento di liberalizzazione economica, sempre sotto il governo a partito unico comunista.

IL MIRACOLO GIAPPONESE

L’esperienza di modernizzazione lo portò, nonostante la scarsità di materie prime, ad affermarsi come terza potenza
mondiale nel XIX secolo. Si rafforzò a livello commerciale, industriale e finanziario, e le cause furono diverse:

- Organizzazione, disciplina, forte coesione nazionale sono da sempre caratteri principali di questo popolo
- Alto livello di industrializzazione, scolarizzazione, istruzione tecnica
- Stabilità politica data dal Partito liberal-democratico, anche se a fine anni ’80 sarà scosso da numerosi
scandali finanziari e costretto a scindersi
- Superò in fretta la crisi petrolifera del ‘73
- Protetto dagli Usa
- Forte esercito militare
- Grande contributo alla ricerca scientifica e allo sviluppo industriale

28. L’ITALIA DAL MIRACOLO ECONOMICO ALLA CRISI DELLA PRIMA


REPUBBLICA
IL MIRACOLO ECONOMICO

Tra il ’58 e il ’63 si giunse al culmine del processo di crescita economico iniziato negli anni ’50. Furono questi gli anni
in cui l’Italia aveva un tasso di sviluppo inferiore alla sola Germania, riducendo quindi il divario che la separava dai
paesi più sviluppati, il prodotto interno loro era aumentato, così come lo era il reddito pro-capite, l’industria
manifatturiera subì un grosso sviluppo, soprattutto nei settori siderurgico, meccanico e chimico, le esportazioni
raddoppiarono e con loro la diffusione dei prodotti italiani, la lira si era stabilizzata, così come i prezzi: furono gli anni
del miracolo economico. Molti erano i fattori che avevano promosso il miracolo:
- La congiuntura internazionale favorevole
- La politica di libero scambio sancita dall’adesione alla Cee
- La modesta entità del prelievo fiscale
- Lo scarto che si venne a creare tra l’aumento della produttività e il basso livello dei salari
- Larga disponibilità di manodopera a basso costo
- L’Italia, che era da sempre un paese agricolo, era diventato finalmente un paese agricolo
- Modernizzazione delle attività agricole, anche se molto limitata
- Crescita dei consumi quando, a fine anni ’50, aumentarono le retribuzioni
- Calo della disoccupazione

Tutti questi aspetti, che hanno anche una conseguenza negativa, come l’aumento dell’inflazione, portarono alla
battuta di arresto nel ’63-’64. Gli investimenti si ridussero, l’inflazione cresceva sempre di più e la congiuntura
negativa fu superata in pochi anni.

LE TRASFORMAZIONI SOCIALI

In coincidenza con il boom industriale, si verificò anche una serie di profonde trasformazioni, prima tra tutte quella
del passaggio da un paese contadino a una civiltà dei consumi. Il fenomeno più evidente della crisi fu la migrazione
dal Sud al Nord, dalle campagne alle città. L’urbanizzazione fu rapidissima, anche se segnata da costi umani e sociali.
L’espansione delle città avvenne in maniera abbastanza caotica, senza piani regolatori e senza un adeguato
intervento pubblico, tutte cose che favorirono la speculazione e il disordine urbano. Il processo di integrazione per i
meridionali fu molto duro e avvenne con grande lentezza. Televisione e automobile furono due simboli del
cambiamento. La prima comparve a metà anni ’50, con la Rai, un ente di stato che aveva già il monopolio
radiofonico. La televisione divenne in poco tempo uno strumento di unificazione linguistica e culturale dell’Italia.
L’auto invece, divenne presto simbolo di uno nuova indipendenza, si sviluppò sempre a metà anni ’50 con la Fiat.
Poco dopo, per favorire la diffusione delle auto venne iniziato il progetto di costruzione della prima autostrada,
terminato negli anni ’70.

IL CENTRO-SINISTRA

Negli anni ’60, i socialisti entrarono nel governo, il cambiamento non fu traumatico, eppure suscitò tante speranze
quanti timori. Non furono pochi gli ostacoli all’apertura a sinistra, sia da parte della destra economica che, in parte,
dalla DC. Nel ’60 avvenne la svolta quando, il democristiano Tambroni, non riuscendo a trovare un accordo con i
socialdemocratici e i repubblicani, formò ugualmente un governo monocolore con l’appoggio determinante dei voti
del Movimento sociale, il che suscitò non poche proteste dei partiti laici e della stessa sinistra DC, i cui
rappresentanti si dimisero dal governo. La tensione esplose quando il governo autorizzò il Msi a tenere il suo
congresso nazionale a Genova: la decisione fu subito vista come il prezzo pagato da Tambroni per il sostegno
ricevuto dai neofascisti in parlamento, motivo per cui si creò una rivolta popolare: alla fine il governo cedette e il
congresso venne rimandato. La manifestazioni di opposizione non cessarono qui e Tambroni fu costretto a
dimettersi. Il suo successore, Fanfani, propose l’astensione dei socialisti in Parlamento, aprendo così la stagione
politica del centro-sinistra. La nuova alleanza fu sancita dal congresso della DC, realizzato grazie alla mediazione di
Moro, che riuscì a fare accettare al suo partito il grosso cambiamento. Andava così formandosi un governo di
coalizione tra DC, Pri, Psdi. Il programma di governo prevedeva: la realizzazione della scuola media unificata,
l’imposizione fiscale nominativa sui titoli azionari, la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Un programma quindi
che mirava a migliorare l’intervento statale nell’economia, al fine di ridurre gli squilibri sociali, soprattutto tra Nord e
Sud. La nazionalizzazione dell’industria elettrica avvenne con la creazione dell’Enel, anche se il processo non fu dei
più facili. L’attuazione delle regioni, temuta dalla DC perché pensava potesse rafforzare le sinistre a livello locale, fu
rinviata. Molti furono i contrasti circa la politica di programmazione che si dimostrò molto difficile da attuare, i
contrasti nella maggioranza portarono a una perdita di voti per la DC e il Psi nelle elezione del ’63, con rafforzamento
della sinistra e dei comunisti. Ciò nonostante si formò un nuovo governo di centro-sinistra che faceva capo a Moro.
Ci fu un blocco delle riforme, dovuto sia la presenza della crisi economica, sia all’aumento delle forze ostili al centro-
sinistra. Nonostante il coinvolgimento delle alte gerarchie militari nell’opposizione preoccupasse il governo, la vera
minaccia veniva dall’interno, dall’atteggiamento della DC di rifiuto ideologico di scelte radicali, tipiche della cultura
cristiana. Grazie al leader, Moro, la DC restò unita, ma lo stesso non avvenne per il Psi, dove i dissidi interni erano più
forti e portarono a una scissione, dove la minoranza di sinistra, non volendo rinunciare all’alleanza con il Pci, formò il
Psiup. Nella stessa maggioranza del Psi si svilupparono due linee: una di Lombardi, che sosteneva che le riforme
dovessero cambiare il sistema economico-sociale, dall’altra parte c’era invece Nenni, che sosteneva maggiormente la
modifica degli equilibri politici e mirava all’unificazione col Psdi. Nel ’64, durante un soggiorno in Urss morì, lasciando
al partito il cosiddetto memoriale Yalta, una linea che riaffermava il principio di indipendenza da Mosca. A lui
succedette il leader socialdemocratico Saragat, nonostante le opposizioni, il governo di centro-sinistra sarebbe
durato per oltre un decennio (salvo brevi interruzioni).

IL ’68 E L’AUTUNNO CALDO

La fine degli anni ’60 fu caratterizzata in Italia da una radicalizzazione dello scontro sociale, che ebbe come
protagonisti prima gli studenti, poi gli operai. La contestazione giovanile che finì coll’occupare università, piazze e
creare vere e proprie agitazioni, aveva tratti comuni a quelle nel resto nel mondo, come la lotta all’imperialismo, la
protesta della guerra in Vietnam, l’avversione alla civiltà dei consumi, ma in Italia assunse uno stampo marxista e
rivoluzionario, cresciuto nella lotta contro l’autoritarismo accademico. Il movimento studentesco divenne sempre
più avverso alla società borghese, rifiutando la politica tradizionale, esaltando invece la democrazia di base e il
movimento assemblare, dell’egualitarismo e della spontaneità. Anche se il movimento nacque di fatto proprio da
una minoranza borghese, stanca della situazione, subì poi un allargamento a tutta la classe operaia, questo perché,
oltre all’intervento di intellettuali in loro favore, tornò la presenza di seguaci marxisti. L’operaismo, per distinguersi
dai classici partiti presenti in parlamento, divenne un gruppo extra-parlamentare, così come lo erano il Potere
operaio, la Lotta continua e l’Avanguardia operaia. Un altro gruppo che si formò era quello dell’Unione dei marxisti e
leninisti, che aveva però come stato guida la Cina di Mao. Agli studenti poi, seguirono piano piano anche gli operai
che, ribellandosi nella industrie, diedero il via all’autunno caldo. Le lotte avrebbero come figura chiave l’operaio di
massa, ossia il lavoratore scarsamente qualificato, spesso immigrato, che avanzava in realtà delle pretese abbastanza
ragionevoli. Le tre maggiori organizzazioni sindacali (Cgil, Uil, Cisl) riuscirono a prendere il potere e portare quelle
semplici lotte alla conclusione di una serie di contratti nazionali molto vantaggiosi, con cospicui salari. Con le lotte
avvenute nell’autunno caldo, tornarono in pista i tre sindacati, unendosi nella Federazione unitaria, che ebbe però
vita breve. I Consigli di fabbrica, in cui i sindacati assunsero un peso crescente nella vita del paese, trattando
direttamente con il governo, e invadendo, non di rado, il campo d’azione dei partiti. Le loro attività vennero
riconosciute nel ’70 dal Parlamento con l’affermazione dello Statuto dei lavoratori, una serie di norme che
garantivano le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori all’interno delle aziende. Di fatto però, il movimento degli
studenti, non cambiò nulla nelle elezioni o nei partiti, ma avviò la liberalizzazione degli accessi alle facoltà
universitarie. Altre leggi importanti del ’68-’70 furono l’istituzione delle regioni, già previste dalla Costituzione ma
non realizzate dalla DC. Fu anche approvata la legge Fortuna-Baslini, che introduceva l’istituto del divorzio.

LA CRISI DEL CENTRO-SINISTRA

Nei primi anni ’70, la debolezza dell’esecutivo di fronte alle tensioni della società fu evidente sia dalle crisi
governative frequenti, sia dalla reazione al terrorismo politico. Il 12 dicembre del ’69, in pieno autunno caldo, una
bomba esplose a Milano, a piazza Fontana, nella sede della banca nazionale dell’agricoltura, che provocò 17 morti e
oltre 100 feriti. La stampa di sinistra puntò il dito contro l’estrema destra fascista, accusandola dell’attentato e
accusò anche la sicurezza di aver deviato le indagini verso un’improbabile pista anarchica. Si parlò allora di strategia
della tensione, secondo la quale la destra voleva minare alle basi del governi per proporre soluzioni più autoritarie.
L’esplosione delle tensioni avvenne quando Reggio Calabria non fu designata come capoluogo di regione, ci furono
quindi una serie di violente dimostrazioni guidate da esponenti del Msi. Le tensioni politiche erano quindi inevitabili,
sia tra i partiti di opposizione sia internamente, mentre la destra cercava di farsi strada, il Psi mirava apertamente a
equilibri più avanzati, cioè al progressivo coinvolgimento del Pci nelle relazioni di responsabilità del governo. Nessun
governo era in grado di fornire al momento una stabilità economica, ne tanto meno una politica. Un arresto
definitivo avvenne nel ’73, con la crisi petrolifera e il conseguente blocco, che per un paese come l’Italia, scarso di
materie prime, era essenziale. A tutto ciò si aggiungeva poi il disagio morale, provocato da una serie di scandali
secondo i quali alcuni politici erano immischiati in un giro di tangenti per finanziare i rispettivi partiti. Nel ’74 ci fu
una rapida adozione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti rappresentati in Parlamento, che però non
servì a sanare la frattura tra società politica e società civile. Nello stesso anno ci fu anche il referendum per decidere
se introdurre la legge sul divorzio che, nonostante le numerosi avversità, riuscì a passare, cosa che dimostrò che la
società era effettivamente cambiata, il ruolo della donna non era più confinato agli ambiti della casa e della chiesa,
mentre quest’ultima dimostrava di avere sempre meno influenza. Nel ’75 furono approvate altre due leggi
significative:

- Riforma del diritto di famiglia, che prevedeva la parità giuridica tra i coniugi
- Abbassamento della maggiore età: era possibile votare già dai 18 anni

Nel ’78 fu passata la legge per l’interruzione volontaria della gravidanza, che suscitò non poche polemiche. Nel ’68 il
Pci aveva condannato l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, il suo segretario Berlinguer, riteneva che era però
necessario arrivare a un accordo, tra le forze comuniste, cattoliche e socialiste, come unica possibilità per
scongiurare ogni possibile instaurazione di governi autoritari. Vennero avviate delle trattative con i comunisti
francesi e spagnoli, per creare una politica comune nell’Europa occidentale, una sorta di eurocomunismo. Come
dimostrano le elezioni, la moderazione di Berlinguer riscuote molto successo. Lo spostamento a sinistra
dell’elettorato, non fece che aumentare i dissidi con DC e Psi. Nel ’75 si arrivò al disimpegno dei socialisti, con
conseguente fine dell’esperienza di centro-sinistra. Sia DC che Pci aumentarono i loro elettori nelle seguenti elezioni,
mentre il Psi registrò una sostanziale sconfitta, che portò all’ascesa alla segreteria di Craxi, leader della corrente
autonomista.

IL TERRORISMO E LA SOLIDARIETA’ NAZIONALE

L’esito delle elezioni del ’76 lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo. Visto che i socialisti non
erano disponibili a una riedizione del centro- sinistra, l’unica soluzione possibile era quella di coinvolgere il Pci nella
maggioranza. Si giunse così a un governo monocolore democristiano guidato da Andreotti, che ottenne l’astensione
in parlamento di tutti gli altri partiti. La crisi era ancora presente e come se non bastava c’erano anche spinte
terroristiche, da entrambi i partiti, che sembravano essere casi isolati mentre invece si instaurarono in pianta stabile,
causando la disgregazione della vita politica italiana. Il tratto distintivo del terrorismo di destra furono gli attentati
dinamitardi in luoghi pubblici, che colpivano i civili, senza fare alcuna differenza. Dopo piazza Fontana vi furono altre
bombe in piazza della Loggia, a Brescia, quelle sul treno Italicus (’74), alla stazione di Bologna. Nonostante le accuse
siano chiare, i responsabili sarebbero esponenti di destra sostenuti dalle forze segrete, i responsabili non sono
ancora oggi accertati. Di fatto però, lo stato è debole, volubile alla corruzione, legato al terrorismo, sia di destra che
di sinistra. Gruppi terroristici esistono da sempre, ma in questo caso sono nuclei organizzati, lotta armata e
clandestinità erano diventati una scelta di vita totale, l’intento era quello di smuovere la classe operaia affinché si
ribellasse alla società capitalista e borghese. Da atti di terrorismo di questo tipo, si passò poi a veri e propri
rapimenti, come quelli di Sossi e Coco, avvenuti per mano delle Brigate Rosse, primo nucleo terroristico di sinistra,
estremamente pericoloso, attivo già dell’88. A tutto ciò si aggiunse la crisi economica dovuta a quella petrolifera,
all’incremento costante dell’inflazione, alla crescita della spesa pubblica. Il problema socialmente più grave era però
quello della disoccupazione giovanile, i quali sempre più insoddisfatti, si univano a gruppi terroristici o tentarono di
creare nuovi movimenti rivoluzionari, sempre nelle piazze e nelle università. Sembrava essere una rinascita del ’68,
peccato che nel ’77 mancava l’entusiasmo, e l’obiettivo dei gruppi rivoluzionari erano il Pci, i sindacati e la sinistra
tradizionale in generale, con conseguente impennata del terrorismo da parte di quest’ultima. Da allora avvenne il
caso più clamoroso di cui le Brigate Rosse sono responsabili: il rapimento di Aldo Moro (9 maggio 1978), presidente
della DC, e una prima uccisione delle sue 5 guardie del corpo. Il governo però, presieduto da Andreotti, con
l’appoggio del PCI ma con la totale disapprovazione del Psi, decise di non scendere a compromessi con i terroristi. 55
giorni dopo il rapimento il cadavere di Moro venne rivenuto in una strada di Roma. Dopo questa tragedia il governo
cercò in tutti i modi di risollevarsi, puntando al miglioramento dell’economia e all’acconsentire a moderate richieste
sindacali. Nel ’78 ci furono i primi segni di un miglioramento fiscale, grazie alla riforma fiscale del ’74, che prevedeva
un efficiente sistema della tassazione diretta. La legge del ’78 sull’equo canone aveva lo scopo di regolare il livello
degli affitti, soprattutto nelle grandi città. La riforma sanitaria varata nello stesso anno, sanciva cure gratuite per tutti,
e affidava la gestione della medicina pubblica a organi più competenti. Le aspettative sull’ingresso dei comunisti
nella maggioranza erano però tante, e non furono rispettate. Non mancarono poi scambi legati alla corruzione, come
l’eclatante caso di Leone che lasciò l presidenza a Pertini. Craxi puntava al recupero della tradizione riformista in
aperta polemica col Pci, cosa che rendeva sempre più difficile trovare un accordo nella maggioranza. I comunisti
chiedevano dal canto loro in entrare ufficialmente in Parlamento, mentre il Pci, stanco della situazione e in netta
opposizione con l’adesione al Sistema monetario europeo, abbandonò la maggioranza, cosa che portò alle elezioni
anticipate.

POLITICA, ECONOMIA E SOCIETA’ NEGLI ANNI ‘80

Il panorama politico, con le elezioni del’79 cambiò: il Pci subì una grave perdita, la DC subì a sua volta una sconfitta, il
Psi di Craxi raccolse risultati deludenti. L’unica strada da prendere era il ritorno alla coalizione dei partiti di centro-
sinistra, ma la novità importante non fu l’ingresso del Partito liberale o della forma di governo pentapartitica, ma la
DC per la prima volta cedette il governo, che fu presa prima da Spadolini e poi da Craxi. Se da un lato quest’ultimo
limitava i poteri della chiesa, dall’altro la DC cercava di rinnovarsi dopo la morte di Moro, facendo riferimento a De
Mita. Stessa sorte di sconvolgimento toccò al Pci quando nell’84 morì Berlinguer. Nell’autunno dell’80 i sindacati
subirono una prima reale battuta d’arresto, erano infatti entrati in una discussione con la Fiat, circa la riduzione della
manodopera, ma quest’ultima ne uscì vincente. Per quanto il ruolo dei partiti persistesse, fu in genere limitato. Il
diverbio si inasprì quando, nell’84, Craxi, sostenuto dalle parti non comuniste dei sindacati, varò un decreto-legge
che tagliava alcuni punti della scala mobile. Anche se di fatto quest’ultima subì delle modifiche, le parti sociali non
riuscirono a trovare un accordo generale e il problema di un nuovo modello di relazioni industriali rimase irrisolto.
L’intervento statale si ampliò moltissimo, ma non riuscì a risanare la spesa pubblica. Una ripresa si ebbe nell’84
quando il settore tecnologico iniziò a svilupparsi, permettendo il rinnovamento di alcuni settori industriali. Tutto
sommato, nonostante alcune gravi crisi, il sistema italiano ebbe una discreta economia nel periodo tra gli anni ’80 e
gli anni ’90: molte piccole imprese disseminate ovunque erano in un periodo di grande produttività, i costi erano
bassi e la capacità di adattarsi al mercato era alta. Il settore terziario mantenne una certa vitalità oltre che il primo
posto rispetto agli altri settori. Non mancava però la corruzione politica, accompagnata da un nuovo scandalo, circa
la Loggia P2, ovvero una specie di banca segreta della massoneria, sospettata di perseguire un fine (oltre che a scopo
di lucro) di ristrutturazione autoritaria dello stato (erano coinvolti sia l’ambito burocratico che quello militare). Si
svilupparono poi le associazioni mafiose, dalla mafia alla camorra, che sfidavano apertamente i poteri dello stato,
come nel caso, nell’82, dell’assassinio del generale Dalla Chiesa, un protagonista alla lotta al terrorismo. Non
mancarono attentati ai civili e giri di droga. Lo stato seppe fare ben poco contro la mafia ma seppe prendere una
linea dura contro il terrorismo di sinistra. Alcuni di essi furono arrestati e, in cambio di uno sconto della pena (legge
che fece molto discutere), denunciarono i loro collaboratori. Così si poté finalmente sconfiggere il terrorismo di
sinistra.

LE DIFFICOLTA’ DEL SISTEMA POLITICO

Il distacco tra classe politica e società civile continuava a persistere, a rafforzare la diffidenza nei confronti dei partiti,
a far salire la polemica contro le disfunzioni del sistema: lentezza delle procedure legislative, instabilità della
maggioranza, mancanza di alternative alla coalizione del governo. Nell’85 venne eletto residente della Repubblica il
democristiano Cossiga, che non riuscì a fermare il sistema pentapartitico e nemmeno il contrasto tra socialisti e
democristiani. Nell’87 prevalsero alle elezioni i membri del Psi, ma la novità fu rappresentata dai nuovi gruppi come
le Leghe regionali, formate dagli ambientalisti, che criticarono il centrismo statale, la fiscalità e la corruzione politica,
facendo anche leve sui pregiudizi xenofobi e antimeridionalisti. Nonostante ciò, la coalizione vinse ancora le elezioni
e presero il potere prima Goria e poi De Mita, esponenti della DC, che a parte la riforma dei regolamenti
parlamentari, non furono in grado di migliorare la situazione. A loro seguì il moderato Forlani, che restò poco alla
guida del paese e fu seguito da Andreotti, ma nemmeno lui riuscì a compattare la maggioranza, perdendo addirittura
il Partito repubblicano. L’intero sistema politico italiano era sotto accusa: ormai l’illusione della realizzazione delle
riforme stava svanendo, fino a quando non entrarono in crisi anche DC e Psi.

29. LA SOCIETA’ POST-INDUSTRIALE


I LIMITI DELLO SVILUPPO

La crisi petrolifera del ’73-’74 aveva portato a galla diversi problemi, non solo per il fatto che le risorse minerarie
iniziavano ad apparire come beni preziosi in quanto limitati, ma anche dal punto di vista ambientalista, poiché
l’azione degli uomini rappresentava una vera e propria minaccia per il nostro ecosistema. Il primo passo dei governi
fu quello di promuovere il risparmio energetico, dall’ambito dei trasporti a quello dell’energia, purché si usassero
fonti alternative al petrolio. Alcuni stati, come Usa e Francia, puntarono allo sviluppo delle centrali nucleari, in grado
di fornire energia ma a costi inferiori, anche se contestate dagli ecologisti visti i danni che sono in grado di fare, come
ha dimostrato il disastro di Chernobyl, dalla quale nell’86 si sprigionò una nube radioattiva che contaminò acque e
terreni provocando gravi malattie a tutti coloro che erano esposti alle radiazioni. Altrove si riscoprì il carbone o si
provò ad utilizzare l’energia solare, pulita ed inesauribile. Anche se di fatto questo fu un periodo di crisi, si può anche
considerare un periodo importante poiché vennero ricercate fonti energetiche alternative, cosa che tuttora anche
noi stiamo facendo, per creare meno danni all’ambiente in cui viviamo. I parametri finalmente cambiarono, infatti si
iniziò a parlare di sviluppo sostenibile, ovvero la crescita in rapporto all’integrità dell’ambiente e delle risorse per
realizzare uno sviluppo umano sostenibile, che recuperi la centralità dell’uomo e la qualità della vita.

LA RIVOLUZIONE ELETTRONICA

In questo periodo si assiste a un declino delle industrie che, nell’800 erano essenziali per il paese, si affermavano
invece nuove tecniche produttive, che lasciavano intravedere la speranza di un’economia ben differente. Centro di
questo cambiamento è l’elettronica, quella branca della fisica che studia il movimento degli elettroni, già dalla prima
metà del ‘900. La vera e propria innovazione risale al dopoguerra, quando venne creato il primo computer, che nel
corso degli anni venne migliorato, sia per una questione estetica, poiché era molto ingombrante, sia per una
questione di affidabilità maggiore. Venne introdotto in seguito anche il circuito integrato e, più avanti, questi
strumenti uscirono dai laboratori ed entrarono nella vita dei cittadini. Il centro propulsore della nuova tecnologia era
in Usa e in Giappone, dove vennero fatti grandi progressi: dall’invenzione del pc, a quella del condizionatore termico,
degli orologi e degli apparecchi fotografici. In seguito a tutti questi miglioramenti, anche la cultura subì uno sviluppo
con la nascita di nuove discipline, ossia l’informatica, la cibernetica e la robotica. Importante fu anche la telematica
(anni ’70), che permise di applicare l’informatica al mondo delle comunicazione e al tempo stesso di creare nuove
reti, delle quali la più importante era senza dubbio internet, nata negli Stati Uniti, per iniziativa delle forze armate.

SOCIETA’ POST-INDUSTRIALE E GLOBALIZZAZIONE

Nei paesi più sviluppati la rivoluzione tecnologica ha portato a un rapido sviluppo della società post-industriale. In
grande aumento era senza dubbio il settore dei servizi, che giovò moltissimo dalle nuove tecnologie. Nonostante gli
innumerevoli sviluppi in tutti i campi, si crearono anche impieghi sottopagati e precari, i cosiddetti macjobs. Il
motore della società stava quindi gradualmente cambiando, si stava evolvendo. Anche nelle industrie, già dai tempi
del taylorismo, la situazione era cambiata, ora non poteva che migliorare e permettere un aumento della produzione
e della ricchezza. Questo nuovo modello prese il nome di post-fordismo (avvenuto dopo Ford) e consisteva nel
superamento della produzione standardizzata e del consumo standardizzato. Flessibilità e varietà diventano due
caratteristiche sia della produzione che del consumo di massa. L’industria non ha più il ruolo portante nell’economia,
ad averlo è l’informazione. Non vennero a meno i conflitti, su vari ambiti, come quello dei movimenti delle donne. La
lingua veicolare comune divenne l‘inglese, che unito allo sviluppo costante delle tecnologie permise comunicazioni
più veloci ed economiche. Questi furono i fattori principali dell’integrazione economica e finanziaria che prese il
nome di “globalizzazione”. La Cina fece il suo ingresso definitivo sui mercati internazionali e alla fine del 2001 entrò a
far parte della World Trade Organization, organismo dell’Onu che dal ’95 ha contribuito alla liberalizzazione degli
scambi internazionali. A dimensione globale dei mercati internazionali ha offerto grandi possibilità di espansione, la
manodopera venne sempre più spesso decentrata in posti dove i costi di produzione erano inferiori. A tutti questi
progressi non mancarono però dei rischi, legati soprattutto alla possibile perdita di privilegi di un benessere protetto
che non si quanto sia in grado di durare.

LA GEOGRAFIA DELLA POVERTA’

Le grandi trasformazione hanno abbattuto molte frontiere, rendendo il mondo più unito dal punto di vista delle
informazioni, degli scambi commerciali e delle transizioni finanziarie, ma non lo hanno reso più omogeneo sotto
l’aspetto delle culture e tanto meno sotto quello della distribuzione delle ricchezze. Le disuguaglianze economiche
non fecero che aumentare, i paesi produttori di petrolio continuavano ad arricchirsi, aumentando vertiginosamente i
prezzi della materia prima che era sempre più richiesta. Stati poveri e popolosissimi riuscirono a risolvere problemi
urgenti e a svilupparsi (India). Le economie capitalistiche dei alcuni paesi del sud-est asiatico, le cosiddette “tigri”:
Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Malaysia, conobbero una crescita molto rapida, soprattutto del settore
manifatturiero, diventando molto aggressive nei mercati internazionali. Molti paesi però, soprattutto quelli africani,
andarono solo peggiorando. La modernizzazione e l’industrializzazione fallì, tentativo dopo tentativo, le economie di
sussistenza non erano pronte al grande cambiamento poiché erano molto arretrate. La popolazione continuava a
crescere e in molti stati c’era un forte sovrappopolamento, le spese militari sui bilanci statali erano molto elevate e i
ceti dirigenti impreparati e corrotti. L’analfabetismo era ancora molto diffuso, così come la mortalità infantile.
Epidemie e guerre provocavano regolarmente gravi catastrofi, senza considerare tutte le persone che morivano da
fame o di malattie infettive gravissime come l’Aids. Sia la Chiesa, sia alcuni stati, sia organizzazioni private
organizzarono diverse campagne di solidarietà internazionale, ma gli aiuti non sono mai abbastanza. Ingenti prestiti
sono poi stati fatti a moltissimi paesi bisognosi, il loro debito non fa che aumentare, anche se non mancano le
proposte per diminuirlo o addirittura cancellarlo. Nel ’99 venne istituito il movimento che prese il nome di no global,
che mirava a sollecitare i governi dei paesi più avanzati per attivare nuove forme di sviluppo economico che
rispettassero l’uomo e l’ambiente. Privo di un’organizzazione unitaria, il movimento si esprime tra momenti di
riflessione e discussione, ma anche grandi manifestazioni in piazza, in casi isolati anche violente.

LE TENDENZE DEMOGRAFICHE

Nell’ultimo trentennio del XX secolo la popolazione mondiale continuava ad accrescere fino a raggiungere, nel 2000,
la cifra di sei miliardi. Esistono due diversi regimi demografici: da un lato quello delle aree ricche e industrializzate,
caratterizzate da bassi tassi di mortalità ma anche di nascite. Dall’altro quello delle aree povere dove, la mortalità è
elevata, così come lo è la natalità. In Nord America e in Europa occidentale, il tasso di fertilità è addirittura sotto la
crescita zero. Non mancano poi le politiche demografiche, come nel caso dell’India o della Cina, dove lo stato tenta
di mantenere sotto controllo le nascite proprio per evitare un ulteriore sovrappopolamento. Laddove ci sono meno
nascite, nei paesi ricchi, non è per il controllo delle nascite ma perché spesso non si vuole rinunciare ad una
maggiore soglia di benessere, senza contare l’arrivo di nuovi modelli culturali, non più incentrati sulla famiglia. Dove
invece i paesi sono più poveri, si tenta di evitare le nascite per far sì che ci sia una parità tra risorse disponibili e
popolazione, cosa che ora non c’è. Con tutte queste nascite, e le minori morti, aumentano anche il numero degli
anziani.

LE MIGRAZIONI E LA SOCIETA’ MULTIETNICA

Tra gli squilibri economici e quelli demografici, non mancano certo i flussi migratori che, anzi, sono in continuo
aumento. Il primo vero grande flusso fu quello che vide protagonista l’America, un terreno nuovo da scoprire. Oggi si
tende a migrare verso i paesi più ricchi, ma anche per motivi politici o culturali. Non mancano poi i viaggiatori d’affari
e i clandestini, anche loro in netto aumento. Nelle chiese cristiane, così come in pochi stati, si tende a vedere
l’aspetto positivo di questo fenomeno, infatti con la presenza di immigrati non solo c’è più forza lavoro, ma anche
nuovi ideali, nuove culture, nuovi valori. La società multietnica tende molto ad essere protetta, anche se non sempre
è così. Non mancano però le preoccupazioni legate a questo fenomeno, poiché si teme un eccesso di immigrati.

RELIGIONE E SOCIETA’ CONTEMPORANEA

È evidente come in questo periodo ci sia un rapido declino delle credenze e delle pratiche religiose: ad aumentare
non sono solo gli atei ma anche le religioni “minori”, senza contare la diffusione dell’Islam. Quello religioso era e
resterà sempre un riferimento culturale, cambia però il grado della sua rilevanza. La Chiesa di Roma continua ad
essere la più sviluppata sia in Europa che in America latina, senza contare tutti i posti, come l’Africa, dove avvengono
moltissime spedizioni missionarie. Grande rilevanza ha avuto al riguardo papa Giovanni Paolo II. Da non trascurare in
questo periodo l’avanzata del movimento islamico, al di fuori delle aree tradizionali. Si sono verificate anche forme di
integralismo, ossia quella tendenza a seguire alla lettera i precetti religiosi, avviando quindi una subordinazione del
potere civile a quello spirituale. Essi rimangono una componente minoritaria, anche se diventano sempre più visibili
e aggressivi.

MEDICINA E BIOETICA

Molti dei progressi legati al XX secolo solo avvenuti in campo medico, inevitabile fu poi il contrasto tra scienza ed
etica, tra scienza e religione. Grandi sviluppi si ebbero nel campo della diagnostica, in grado di prevenire moltissime
malattie. Altri progressi avvennero nell’ingegneria genetica: nel ’53, due biologi inglesi, Crick e Watson,
individuarono la struttura del Dna, responsabile della trasmissione ereditaria dei caratteri genetici negli esseri
viventi. Questi sviluppi hanno permesso di migliorare sia l’agricoltura che l’allevamento. Hanno anche aperto nuovi
orizzonti in campo farmacologico, producendo farmaci di origine animale ed umana (insulina). Importanti scoperte
vennero fatte sui prioni, microorganismi in grado di resistere a tutti i normali trattamenti antisettici. Mentre alcune
malattie, come i tumori, subiscono progressi importanti, altre sembrano tornare dal passato, come la malaria o la
tubercolosi. Alcune sono degenerative altre arginabili. Una delle più gravi, presente già dall’81 e molto diffusa è
l’Aids. La discussione continua tra i limiti e la liceità di una serie di interventi possibili dalla scienza ha dato origine a
una nuova disciplina, a metà tra la scienza e la filosofia, chiamata bioetica. Essa affronta problemi che derivano dalla
generazione della vita nelle varie forme di procreazione assistita o quelli che investono la possibilità di riproduzione
della vita, come la clonazione (copiare un organismo partendo da una singola cellula), le cellule staminali (cellule
primitive non specializzate) e in particolare quelle embrionali, che sono in grado di curare molte malattie.

30. IL MONDO CONTEMPORANEO


NUOVI EQUILIBRI E NUOVI CONFLITTI

Il biennio che va dalla fine dell’89 (caduta del muro di Berlino) alla fine del ’91 (dissoluzione dell’Urss) è un periodo
ricco di cambiamenti politici. Nonostante l’imminente pace che sembrava derivare dagli accordi tra Gorbacev e i
presidenti americani a fine anni ’80, ben preso ci furono nuovi contrasti: le spinte centrifughe messe in moto dal
processo di liberalizzazione avviato nei paesi comunisti finirono col provocare il crollo della stessa Urss. Si aprì così
un vuoto politico e ideologico, che portò a galla vecchie tendenze, politiche e religiose, oltre che veri e propri conflitti
locali. Alla fine dello scontro tra mondo “comunista” e mondo “libero”, vennero però a galla nuovi dissidi, come
quello tra paesi ricchi e tra paesi poveri, o quello tra paesi capitalisti e democratici contro l’islam. Se da un lato si
entrava in una fase di transizione dove l’Urss scompariva lentamente, dall’altra si affermarono nuovi stati, come il
Giappone o la Germania.

LA FINE DELL’UNIONE SOVIETICA

La caduta dell’Urss ha avuto delle conseguenze, una delle quali fu l’indipendenza delle repubbliche baltiche.
Nell’agosto del ’91, quando un gruppo di esponenti del Partito comunista, del governo e delle forze armate tentò la
carta del colpo di stato, che però non solo fallì, ma si rivoltò contro i golpisti, che attaccati dal popolo dovettero
ritirarsi. Il fallimento non solo spazzò via ciò che restava del comunismo, ma accelerò la crisi dell’autorità centrale. La
riforma economica non decollò, il pluralismo politico non divenne sinonimo di democratizzazione, emersero anzi
tendenze autoritarie. Dopo le repubbliche baltiche, anche Georgia, Armenia, Moldavia e Ucraina dichiararono la loro
indipendenza. Gorbacev tentò, invano, di riunirle tutte. Il 21 dicembre del ’91, ad Alma Ata (capitale del Kazakistan), i
rappresentanti di 11 repubbliche diedero vita alla nuovo Comunità degli stati indipendenti (Csi), e decretarono la
morte dell’Urss. Dopo le dimissioni di Gorbacev, la bandiera dell’Urss presente al Cremlino, venne sostituita da
quella russa.

LA NUOVA RUSSIA

Tra le preoccupazioni maggiori dalla dissoluzione dell’Urss c’erano quelle di che fine avrebbero fatto l’esercito
militare e i rifornimenti nucleari. La Russia cercò fin da subito di prendere il ruolo dell’Urss, e, come nel caso del
seggio all’Onu, le fu riconosciuto. Nel ’93, a Mosca, venne formato un accordo tra Bush e Eltsin circa la riduzione
degli armamenti nucleari strategici. Il ruolo della Russia non era ben visto da tutte le ex repubbliche sovietiche,
soprattutto dall’Ucraina, che non volve cedere la sua quota di armi atomiche. Per quanto riguarda la Csi non era in
grado né di avere una solida organizzazione, né di mettere fine ai contrasti tra gli stati. La Russia dovette affrontare
una grave crisi, economica, politica e sociale, dovuta principalmente alla spinta troppo forte al capitalismo e
all’economia di mercato voluta da Eltsin, tutto ciò era aggravato dall’emergere di tendenze che rivolevano il
comunismo, che portarono alla nascita del Congresso del popolo, il parlamento russo eletto secondo la vecchia
costituzione. Lo scontro tra i due era inevitabile: Eltsin sciolse il parlamento, ma quest’ultimo rispose destituendolo. I
sostenitori del parlamento, sempre nel ’93, assalirono il municipio di Mosca, ma poco dopo Eltsin riprese il controllo,
anche se con molti spargimenti di sangue. Eltsin cercò di rafforzare i suoi poteri varando una costituzione che
rafforzasse i tratti presidenziali. Le elezioni portarono però a una crescita dei gruppi ultranazionalisti, e anche in
parte degli ex comunisti, nostalgici del passato. Proprio per non lasciare spazio ai gruppi nazionalisti, Eltsin decise,
contro il volere dei democratici, di intervenire militarmente in Cecenia, una repubblica autonoma situata nel
Caucaso, che aveva proclamato la sua indipendenza. L’attacco fu però mal organizzato, i ceceni resistettero, mentre i
russi avvertirono la sconfitta e, nelle elezioni del ’95, i neocomunisti divennero partito di maggioranza relativa. Nel
’96 tuttavia, Eltsin aveva ancora la maggioranza, che concesse ai ceceni più autonomie. L’economia aveva moltissimi
problemi che non le impedivano di decollare, primo tra tutti quello del calo produttivo. Ad essere avvantaggiati
erano solo gruppi ristretti, spesso legati alla malavita. L’apice venne raggiunto nel ’98 quando il rublo si deprezzò del
60%. Quando nell’ottobre del ’99, la Cecenia venne accusata di dare ospitalità a truppe di terroristi islamici, i russi
non ci pensarono su due volte prima di invaderla di nuovo. Visto l’aggravarsi della situazione, Eltsin elesse come suo
successo Putin, il quale non solo aveva una grande energia ma, dopo aver risolto con i ceceni ed essere eletto
premier, riuscì a dare una notevole spinta all’economia, nel 2000. Per quanto riguarda la politica estera, Putin cercò
di ristabilire un equilibrio con le ex repubbliche baltiche, ponendosi come un possibile sostegno, un alleato. Putin
favorì anche un avvicinamento tra la Russia e la Nato, nel quale fu firmato un accordo circa il terrorismo comune e
circa le armi di distruzione di massa. Di fatto però, Putin temeva che la Nato si espandesse nell’Europa dell’est,
motivo per cui sorsero nuovi contrasti con la Cecenia. Nel 2002 i terroristi si impadronirono del teatro di Mosca, per
poi essere sopraffatti dalle forze dell’ordine, anche se questo causò 100 morti tra gli ostaggi. Lo scontro più critico tra
terroristi e militari avvenne però nel 2004, in una scuola elementare di Beslan morirono 400 persone, molte dei quali
erano bambini.

L’EUROPA ORIENTALE E LA CRISI JUGOSLAVA

Anche se gli anni ’80 si erano chiusi per l’Europa dell’est con la speranza di riforme, democratizzazione e di
benessere, le attese vennero ben presto deluse. Proprio perché il passaggio all’economia di mercato non era mai tra
le cose più semplici, spesso, si tentò di tornare alla situazione, ridando il potere ai partiti comunisti, che nel
frattempo erano fortemente cambiati (come avvenne in Polonia nelle elezioni del ’93). In Cecoslovacchia, si
svilupparono nella minoranza slovacca tendenze separatiste, che mescolandosi con i contrasti politici ed economici,
portarono, nel ’92, a una sorta di separazione consensuale e alla creazione di due repubbliche: una ceca,
comprendente Boemia e Moravia e governata dai partiti di ispirazione liberale, e una slovacca, egemonizzata dai
gruppi ex comunisti. Più critica fu la situazione della Jugoslavia dove si arrivò a contrasti armati e alla disgregazione
dello Stato federale. Tra il ’90 e il ’91, prima la Slovenia, poi la Croazia, dichiararono la loro indipendenza, lo stesso
fece successivamente la Macedonia. Gli organi federali e i vertici militari, entrambi controllati dai serbi, accettarono
la situazione degli stati, tranne che per la Croazia, dove mobilitarono le forza armate. A partire dalla primavera del
’92, il conflitto si spostò in Bosnia, che aveva anch’essa proclamato la sua indipendenza. Abitata da una popolazione
mista (musulmani, croati cattolici, serbi ortodossi), la Serbia divenne teatro di una vera e propria guerra. Un guerra
difficile da fermare, soprattutto perché i serbi avevano messo in atto la cosiddetta “pulizia etnica”, compiendo vere e
proprie stragi. Per mettere fine a tutto questo, poiché né Onu né la Comunità europea erano in grado, vennero
chiamati a intervenire gli Usa, che agirono sotto la copertura dell’Alleanza atlantica. Nel ’95 la Nato avviò dei raid
aerei, ai quali presero parte anche gli aviatori italiani. Solo a ottobre furono avviate le trattative di pace. Il 21
novembre a Dayton, Usa, venne siglato un accordo che prevedeva il mantenimento dello stato della Bosnia, diviso
però in una repubblica serva e in una federazione croato-musulmana. Delicata poi era anche la situazione della
Jugoslavia, divisa tra spinte nazionaliste ed ex socialiste. Nel ’98 persisteva ancora il problema del Kosovo, uno dei
fattori scatenanti della guerra jugoslava. Il paese rivoleva la sua indipendenza, ma i serbi erano talmente contrari da
intensificare la pulizia etnica, molti furono i bombardamenti in risposta alle repressioni serbe, per tentare di
difendere i diritti della popolazione del Kosovo (ingerenza umanitaria). La prima ad opporsi a questa situazione fu
l’alleata di sempre della Serbia, la Russia, che in questo caso intervenne come mediatrice. Nelle elezioni del 2000 il
dittatore serbo perse contro la coalizione democratica, tentò di ribellarsi ma fu placato da una grande e pacifica
rivolta popolare che lo fece anche arrestare. Nuovo focolaio venne acceso in Macedonia, dove la minoranza
albanese era sempre più forte. Qui dal 2001 iniziarono ad esserci scontri con i guerriglieri venuti dal Kosovo, che
furono però placati dalla Nato. Altre tensioni avvennero in Albania, dove il fattore scatenante della crisi fu il
fallimento di una serie di società finanziarie che, cresciute all’improvviso, avevano raccolto i risparmi di molti
albanesi. Ne seguì un moto di ribellione dove, alla rivolta economica si aggiunse quella politica. All’inizio del ’97 si
assistette al quasi totale crollo del paese. Mentre l’Onu mandò un contingente di pace, nelle elezioni seguenti
vinsero i socialisti, che anche tra le difficoltà portarono il paese non solo a sopravvivere ma a un nuovo progresso.

GUERRA E PACE IN MEDIO ORIENTE

Nell’agosto del ’90, il dittatore dell’Iraq, Saddam Hussein già protagonista della guerra contro l’Iran, e per questo
rifornito di armamenti da molti stati, invase il piccolo e confinante Emirato del Kuwait, affacciato sul golfo Persico,
uno dei maggiori produttori di petrolio, e ne proclamò l’annessione alla repubblica irachena. Dopo questa azione, la
Nato, indignata, dichiarò l’embargo verso l’Iraq. Contemporaneamente, gli Usa, mandarono ben 400.000 uomini per
difendere il Kuwait ed eventuali altri stati attaccati da Hussein. A dare sostegno agli Usa c’erano sia molti stati
europei, sia molti arabi. Hussein giustificò il suo attacco come una rivendicazione, come avvenne per i palestinesi con
Israele. Nel ’91, dopo una sorta di ultimatum che costringeva Hussein a ritirarsi, scoppiò un vero e proprio
bombardamento di Iraq e Kuwait, non mancò poi la minaccia di Hussein di ricorrere alle armi chimiche. Dopo 40
giorni, si passò all’offensiva di terra e Hussein fu costretto a ritirarsi dal Kuwait. Visto l’appianamento della
situazione, il presidente Bush e il segretario Baker, promossero a Madrid una conferenza di pace sul Medioriente
(ottobre ’91), in cui i rappresentanti del governo israeliano incontrarono le delegazioni dei paesi confinanti ed
esponenti palestinesi dei territori occupati. Un’ulteriore spinta venne nel ’92 quando il partito laburista vinse le
elezioni politiche israeliane, contrastando l’egemonia del Fronte nazionalista. La svolta si ebbe nel ’93 quando Rabin
(nuovo primo ministro) e il ministro degli esteri presero la sofferta decisione di rimuovere il principale ostacolo che si
opponeva al progresso dei negoziati e di trattare direttamente con l’Olp. Un lungo negoziato portò all’accordo del 19
settembre ’93 a Washington, dove si avviò un graduale autogoverno palestinese nei territori occupati. L’accordo fece
sorgere molte speranze circa una fine dei conflitti israelo-palestinesi. Molte però erano ancora le questioni irrisolte,
dal destino degli insediamenti ebraici nei territori alla sorte di Gerusalemme, dichiarata capitale indivisibile,
dall’atteggiamento ostile di altri stati come Siria e Libia, all’opposizione dell’ala intransigente dell’Olp e alla destra
nazionalista israeliana. L’attività terroristica dei gruppi integralisti si intensificò col frequente ricorso ad attentati
suicidi. Questa spirale ebbe il suo culmine con l’uccisione di Rabin (4 novembre ‘95), per mano di un giovane
estremista israeliano. Nelle elezioni del ’96, crollò il partito laburista e venne sostituito da una coalizione di destra.
Nell’estate del 2000, Clinton convocò nuovamente le parti a Camp David, questa volta gli israeliani si dimostrarono
favorevoli a trattare anche su argomenti mai trattati prima, come Gerusalemme, ma la pace venne mancata ancora
una volta per le opinioni differenti, che riguardavano soprattutto i luoghi santi. A innescare lo scontro avvenuto a
fine settembre fu una visita compiuta da Sharon, leader della destra israeliana alle moschee di Gerusalemme, una
provocazione agli occhi dei palestinesi, che reagirono scatenando una nuova rivolta. La “seconda intifada” fu assai
più cruenta della prima, sia per lo scontro in sé, sia per la repressione che lo seguì. Ad essere coinvolte non furono
solo Gaza e Cisgiordania, ma molte città israeliane che erano insediate dagli ebrei. A tutto ciò seguì una crisi di
governo e, il premier successivo, fu proprio Sharon, del centro-destra, che aumentò i contrasti armati. La situazione
non faceva che peggiorare, per questo il governo di Gerusalemme decise, nel 2002, di creare una barriera difensiva,
per proteggere i confini storici di Israele dagli infiniti attentati. Altra decisione presa da Sharon fu quella di ritirare
l’esercito e smantellare le colonie nella striscia di Gaza (2005). La decisione fu molto contrastata, anche all’interno
dello stesso partito di Sharon, che infatti dovette spaccarsi, dando vita a una formazione di centro. Sia Sharon che
Arafat, leader dei palestinesi, morirono a distanza di anno. Dopo di loro, l’autorità palestinese vide l’affermazione
degli estremisti alle elezioni, fermi nel rifiuto di riconoscere Israele. Dalla striscia di Gaza, non più occupata,
continuarono a partire missili contro lo stato ebraico, che rispose con pesanti rappresaglie. Nell’estate del 2006, il
centro delle tensioni si spostò al confine con il Libano: Israele reagì con un attacco su vasta scala al rapimento di due
suoi soldati e ai continui lanci di missili sul suo territorio ad opera di un movimento sciita, Hezbollah, legato all’Iran e
alla Siria. La situazione fu temporaneamente bloccata dall’Onu ma gli equilibri erano precari.

GLI STATI UNITI E I PROBLEMI DELL’EGEMONIA MONDIALE

Con la scomparsa dell’Urss si pensava che finalmente l’occidente potesse rafforzarsi ancor di più, ma in realtà fu
attraversato da una crisi economica, produttiva e politica. Gli Usa sarebbero dovuti essere in una condizione
privilegiata viste le vittorie contro Hussein e contro l’Urss, ma così non era: Bush non sapeva fronteggiare i problemi
economico-sociali, che si diffondevano rapidamente, soprattutto per quanto riguardava la differenza tra ricchi e
poveri, questioni amministrative irrisolte e un deficit del bilancio statale sempre maggiore. Nelle elezioni del ’92,
Bush fu seccamente sconfitto dal democratico Clinton, abile nello sfruttare le debolezze dell’avversario e
nell’interpretare il desiderio di cambiamento. Se da un lato non cambiò la linea di Bush sia per quanto riguarda gli
accordi con Eltsin che con gli stati arabi, dall’altro puntava a dare un’impronta più democratica ai paesi dove ancora
non c’era, come nel caso di Haiti (1994), dove la giunta militare che aveva preso il potere nel ’91 fu costretta a
ritirarsi. L’interventismo che già prima era tipico di Bush non era ben visto dall’opinione pubblica, soprattutto per la
spedizione in Somalia che da umana divenne apertamente militare. Nonostante fossero stati presi degli accordi, le
tensioni erano molte, sia con l’Iraq, dove Hussein non rispettava a pieno tutti gli accordi, sia con la Russia, dato che
gli Usa avevano proposto un allargamento dei membri della Nato, che avrebbero incluso più stati orientali. La Russia
era preoccupata dalla possibilità di usare i nuovi stati come base di installazione di nuove armi nucleari: scongiurato
il pericolo, l’accordo venne firmato nel ’97 a Parigi. Clinton nel ’96 venne rieletto, questo perché non solo il bilancio
statale con lui non fu affatto negativo ma anche perché il sistema produttivo era migliorato, la disoccupazione scese
e il deficit del bilancio statale diminuì, anche se, per fare tutto ciò, dovette accantonare le riforme sociali, tra cui
quella inerente all’allargamento dell’intervento pubblico nella sanità. Molte furono poi le accuse rivolte al presidente
circa la sua vita privata e i suoi metodi usati durante la campagna elettorale, ma la sua popolarità interna non
diminuì, e l’economia continuava di fatto a prosperare. Nelle elezioni del 2000, a scontrarsi erano il democratico Al
Gore e George W Bush, figlio di Clinton: fu quest’ultimo a vincere per appena 100 voti. La suo politica interna era
molto conservatrice, mentre quella estera era mirata a tutelare gli interessi americani. Significativa era la scelta di
denunciare gli accordi sulla limitazione degli armamenti nucleari per rilanciare il progetto dello scudo spaziale: una
decisione che aveva lo scopo di difendere il territorio nazionale dalla minaccia dei cosiddetti stati canaglia (potenze
minori, avverse agli Usa e sospettate di volersi armare a livello nucleare, come la Corea del sud), ma che finiva con
l’irritare soprattutto le altre potenze nucleari, tra cui Russia e Cina. L’impegno di Bush non fu portato a termine
perché dovette concentrarsi sul terrorismo a livello mondiale visto quanto era successo alle Torri Gemelle.

VERSO L’UNITA’ EUROPEA

Nel febbraio del ’92, nella città olandese di Maastricht, fu firmato un trattato che faceva compiere un notevole salto
di qualità alle strutture e agli obiettivi della Cee, trasformandola in Unione europea. Il trattato di Unione prevedeva,
dal ’93, in coincidenza con l’attuazione del mercato unico (= caduta di tutte le residue barriere che ancora si
frapponevano alla libera circolazione di capitali, beni e servizi), una serie di interventi volti ad armonizzare le
legislazioni dei paesi membri in molti importanti materie, non solo economiche: forze armate, giustizia, politica
sociale, istruzione. I firmatari si impegnavano inoltre a realizzare entro il ’99 il progetto di una moneta comune e di
una banca centrale europea. Si stabiliva infine, come condizione per l’adesione all’Unione monetaria, l’adeguamento
a una serie di parametri comuni che avrebbero dovuto garantire la solidità della nuova moneta e la credibilità
finanziaria dell’Unione: tassi di inflazione contenuti, tassi d interesse uniformi. L’inizio non fu facile, poiché bisognava
coordinare le decisioni autonome dei singoli governi nazionali, e la stessa libertà di circolazione dei capitali favoriva
le operazioni speculative contro le valute deboli. Alle politiche restrittive si aggiungeva la crisi del welfare state, che
aggravava continuamente la situazione dei disoccupati. Oltre a questo problema, se ne andavano creando (o
rafforzando) degli altri: economie vecchie e poco competitive, eccesso della spesa pubblica, insostenibilità
finanziaria. Nel maggio ’98, l’Unione monetaria europea venne così inaugurata ufficialmente con la partecipazione di
undici stati: restarono fuori la Grecia, che non aveva raggiunto i parametri, e la Gran Bretagna, la Danimarca e la
Svezia, che rinviavano la decisione per loro scelta. Contemporaneamente venne istituita la Banca centrale europea e
si fissò il 1° gennaio del ’99 l’entrata in vigore negli scambi finanziari della moneta unica. Per quanto riguarda la
politica, come al solito, c’era un’alternanza dei governi: i socialisti subirono una sconfitta. In Germania, la coalizione
cristiano-democratica e liberale guidata da Kohl prevalse, in Spagna, nel marzo ’96, i socialisti di Gonzalez, dopo 15
anni di potere lasciarono il posto ad Aznar. Successivamente però, la politica si invertì: le forze socialiste e
progressiste assunsero sempre più potere in Italia, nell’aprile del ’96; in Gran Bretagna, nel maggio ’97, i laburisti di
Blair prevalsero con largo margine sui conservatori di Major; in Francia la coalizione di sinistra (comprendente anche
i comunisti) vinse le elezioni legislative anticipate del maggio-giugno ’97, portando al governo il socialista Jospin. Una
grande sorpresa fu la sconfitta dei moderati in Francia. La vittoria delle sinistre suonò come un’implicita protesta
contro un’applicazione giudicata troppo rigida delle regole stabilite a Maastricht. Nel settembre del ’98, in Germania,
la netta vittoria dei socialdemocratici di Schroder sulla coalizione democratico-cristiana e liberale, che creò un
governo con i Verdi, mise fine al governo di Kohl. Moderati e progressisti continuavano ad alternarsi: nel 2001, in
Italia, vinse il centro-destra, in Francia nel 2002 tornarono i moderati, nel 2004 in Spagna tornarono invece i socialisti
di Zapatero, promotore di radicali riforme laiche nel tempo dei diritti civili. Nel 2005 in Germania, il sostanziale
equilibrio tra i due partiti principali portò ad un accordo programmatico sulle misure necessarie per il rilancio
dell’economia e alla nascita di un governo di grande coalizione presieduto dalla cristiano-democratica Merkel. Il
problema dell’immigrazione non faceva cenno a scomparire, anzi, non faceva che aumentare. Nel 1985, con gli
accordi di Schengen (attuati 10 anni dopo), era stata decisa la libera circolazione delle persone, il che trasformò l’UE
in uno spazio aperto in cui era possibile muoversi senza controlli di frontiera. Dopo diversi accordi iniziati nel ’97, nel
2004 altri 10 stati entrarono nell’Unione: Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Slovacchia, Slovenia, Polonia,
Ungheria, Repubblica Ceca, escluse furono invece Bulgaria e Romania: con il loro ingresso, gli stati divennero 25. Nel
2001, proprio con lo scopo di riformare l’Unione, i paesi membri decisero di dar vita a una Convenzione, composta
da parlamentari e rappresentanti dei governi, con il compito di redigere una carta costituzionale dell’Ue. Nel giungo
2003, venne presentato un progetto di costituzione con un elenco dei principi generali e uno schema di riforma delle
istituzioni comunitarie. Questo doveva essere il primo passo verso una nuova e piena integrazione politica del
continente, ma in realtà non mancarono i problemi. Nel giugno 2005, gli elettori della Francia e dell’Olanda, chiamati
a decidere mediante un referendum sulla ratifica della costituzione, si pronunciarono per il no, con margini piuttosto
netti.

L’AMERICA LATINA: STABILIZZAZIONE E CRISI


Nel 1992, Stati Uniti, Canada e Messico firmarono un accordo di libero scambio, Nafta (North American Free Trade
Agreement) che sarebbe entrato in vigore due anni dopo. Nel ’91, quattro stati del sud America (Brasile, Argentina,
Paraguay e Uruguay) avevano dato vita a uno spazio commerciale comune, il Mecosur (Mercato comune del sud),
che si sarebbe successivamente allargato a Cile e Bolivia. Nonostante la tipica instabilità delle economie, si tornò alla
democrazia ma anche all’inflazione e alla crescita del debito estero.

- Argentina: qui il governo neo-peronista di Menem attuava un’energetica politica di risanamento finanziario.
Nel ’98 ci fu una nuova crisi, legata all’attenuarsi delle misure di austerità e al ritorno a politiche di spesa
facile, oltre alle continue difficoltà legate al sistema finanziario internazionale. Nel ’99 i peronisti avevano
perso il potere, a vantaggio dei radicali di De La Rua, ma il paese finì comunque in una gravissima crisi
finanziaria: la scelta, attuata già del governo Menem, di scongiurare l’inflazione ancorando la moneta
nazionale al dollaro finì col frenare le esportazioni e col rendere impossibile il pagamento del sempre più
ingente debito estero. Nel 2001, vista la gravità della situazione, il governò arrivò a bloccare i depositi
bancari. De La Rua, vista la protesta, fu costretto a lasciare la presidenza. Nel 2003 gli succedette Kirchner, e
la situazione politica e finanziaria andò stabilizzandosi. Il populismo a sfondo social-progressista andò man
mano rafforzandosi.
- Venezuela: nasce un forte movimento populista, che nel ’99 portò al governo Chavez, e consentì nell’anno
seguente, tramite un referendum, di rafforzare i poteri del presidente della Repubblica. Dopo le rielezioni del
2006, Chavez assunse sempre maggiore sicurezza e andò rafforzando la sua linea violenta in
contrapposizione agli Stati Uniti, a sostegno della Cuba di Castro. Il populismo a sfondo social-progressista
andò man mano rafforzandosi.
- Cile: nuovo slancio già avviato sotto Pinochet e basato sull’apertura agli investimenti stranieri. no tendenze
populiste. Le forze democratiche mantennero il potere nonostante molti seguaci di Pinochet si facevano
sentire mediante le proteste.
- Messico: fragilità messa in mostra nel ’94-’95 quando esplose una grave crisi finanziaria, oltre che la nascita
di un movimento di guerriglia zapatista (da Zapatero, eroe della rivoluzione messicana) animato dalle
popolazioni indie della poverissima regione del Chiapas. no tendenze populiste. Nel 2000, le elezioni
interruppero il governo che durava ormai da settant’anni del Partito rivoluzionario istituzionale,
consegnando la presidenza a Fox, candidato dei moderati.
- Brasile: si realizzò una vera e propria stabilizzazione, grazie anche alla nuova moneta, il real, con la
presidenza del socialdemocratico Cardoso. Nel ’98 ci fu una nuova crisi, legata all’attenuarsi delle misure di
austerità e al ritorno a politiche di spesa facile, oltre alle continue difficoltà legate al sistema finanziario
internazionale. Qui gli effetti della crisi furono “arginati”, grazie all’elezione alla presidenza nel 2002 del
candidato progressista Silva, ex operaio, ex sindacalista e leader del Partito dei Lavoratori. Il populismo a
sfondo social-progressista andò man mano rafforzandosi.
- Bolivia: nelle elezioni del 2005 prevalse Morales, il cui punto focale dei programma era la nazionalizzazione
delle risorse minerali ed energetiche del paese.
- Ecuador: nel 2005 si affermava l’economista progressiste Correa.
- Nicaragua: nel 2006 tornava democraticamente al potere, l’ex leader dei sandinisti, Ortega.
- Perù: no tendenze populiste. Dopo il governo semi-autoritario del presidente Fujimori, terminato nel 2000,
vinse il socialdemocratico Garcia.
- Colombia: devastata dal narcotraffico.

IL DRAMMA DELL’AFRICA

L’Africa subsahariana, afflitta da una povertà crescente, una struttura sanitaria drammatica e dalla cronica debolezza
delle strutture statali nate dalla decolonizzazione, vide i suoi mali aggravati da una lunga serie di colpi di stato e di
guerra civili, che giunsero a distruggere ogni autorità centrale.

- Nigeria: paese più popoloso e uno dei maggiori produttori di petrolio, afflitto da un’endemica povertà e
attraversato da continui conflitti interni.
- Sud Africa: dove si concluse la lunga stagione dell’apartheid. Alla fine degli anni ’80, il primo ministro de
Klerk, fin allora esponente dell’ala conservatrice del Partito nazionalista al potere, cominciò a smantellare il
regime di discriminazione razziale e aprì i negoziati con Nelson Mandela (morto il 5 dicembre 2013), leader
del movimento antisegregazionista African National Congress (Anc), liberato dal cercere nel febbraio 1990. Il
negoziato venne però ostacolato da entrambe le parti e dai violenti contrasti tra l’Anc e la più numerosa
tribù nera, gli zulu. Nel ’94 si svolsero le elezioni libere, a suffragio universale, e vennero vinte dall’Anc:
Mandela divenne capo dello stato. Un forte contributo a superare i problemi del passato fu dato
dall’istituzione, tra il ’96 e il ’98, di una Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione, davanti alla
quale i responsabili dei reati e delle violenze commesse da tutte le parti in lotta, fornirono ampie
testimonianze sull’apartheid, affinché si arrivasse all’amnistia.
- Mozambico: i conflitti trovarono una soluzione già nel ’92, grazie anche alla mediazione dell’Italia.
- Etiopia: grave crisi interna e caduta nel ’91 del regime di Menghistu, portarono alla nascita di un nuovo
stato, l’Eritrea.
- Eritrea: stato indipendente, sancito nel ’93. Dopo una convivenza pacifica con la vicina Etiopia, si arrivò allo
scontro per questioni di confine tra il ’98 e il 2000.
- Somalia: nel ’91 venne abbattuta la dittatura di Siad Barre, ma nuovi scontri tra clan e bande rivali prendono
il via, per questo l’economia appare bloccata, e la popolazione subisce una vera e propria strage. Per porre
fine al massacro intervengono le Nazioni Unite, che alla fine del ’92 inviano un contingente multinazionale,
mentre gli Usa facevano sbarcare le truppe a Mogadiscio. La missione avrebbe dovuto soccorrere la
popolazione con viveri e aiuti vari, come quelli sanitari, ma anche pacificare il paese e porre fine ai conflitti:
nel ’95 l’operazione fallì e fu quindi interrotta. In questo vuoto di potere si inserì il rapido sviluppo di un
movimento religioso (“corti islamiche”), che traendo aiuto da analoghi movimenti fondamentalisti in Medio
Oriente, intendevano applicare la legge canonica. Nel 2006 le corti, vista la grave situazione del paese,
riuscirono a riscuotere molto successo, che fu ben presto interrotto dall’intervento dell’esercito della vicina
Etiopia, poiché il paese in maggioranza cristiana temeva la diffusione dell’Islam.
- Sudan: anche qui si sviluppò una guerra civile, i cui motivi politici si mescolarono a quelli etnico-religiosi, qui
infatti la maggioranza era arabo-islamica, la minoranza cristiana e animista. Il paese, il più vasto e uno tra i
più poveri, fu segnato da carestie e scontri armati, che ebbero il loro centro in Darfur, che divenne nel 2003
teatro di una vera e propria emergenza umanitaria.
- Ruanda: è il paese più piccolo e più povero, dove nel ’94 vennero compiuti terribili massacri per mano delle
milizie hutu, ai danni degli hutu moderati e dei tutsi: migliaia furono i morti (800.000 minimo) e moltissimi i
profughi che vollero ripararsi nel paesi limitrofi.
- Zaire: qui si riparavano i profughi del Ruanda, anche se di fatto il paese stava crollando, per la corruzione e
per una mancata economia, si stava inoltre disgregando la triennale dittatura del presidente Mobutu. Nel
’97, un antico combattente per le lotte di indipendenza, Kabila, seguito da un esercito di ventura composto
per la maggioranza da profughi, prese il potere e ridiede il nome di Repubblica del Congo allo stato. Presto
però ci fu un colpo di stato e Kabila, ucciso, lasciò il posto al figlio. Non bastò a far tornare la pace, solo nel
’99, con l’intervento dell’Onu sembrò essere possibile. Molti furono i morti, molti ancora i profughi. In
questo caso, come in quello dell’Angola, le lotte etniche e tribali nascondevano scontri di interesse relativi
allo sfruttamento delle cospicue risorse naturali del paese, ma celavano anche contrasti con l’Occidente.

IL RUOLO DELL’ASIA

Tra l’85 e il ’95, quasi tutti i paesi asiatici fecero registrare tassi si crescita annua del prodotto interno largamente
superiori a quelli dell’Occidente industrializzato.

- Giappone: l’eccezione era costituita proprio dal Giappone, che andava invece verso la recessione. A partire
dal ’98-’99 il sistema bancario dovette affrontare diverse difficoltà, alla crisi economica si aggiungeva poi
quella politica, con il declino e la frantumazione del partito liberal-democratico. Una svolta si ebbe nel 2001
con l’elezione del candidato liberal-democratico, Koizumi, assai più giovane dei suoi predecessori e
appartenente all’ala progressista. Il Giappone mantenne la sua posizione di seconda potenza economica
mondiale, e continuò a rappresentare un modello per l’intero continente.
- Cina: il modello comunista, ben saldo, la stava avviando alla liberalizzazione economica. Riuscì a mantenere
alti ritmi di crescita annua e ad inserirsi nel mercato internazionale. Alla fine di giugno ’97, la Cina ristabilì la
propria sovranità sulla colonia britannica di Hong Kong, molto importante per l’economia e la finanza
mondiale. Nel ’99 fu la volta di Macao, ultima colonia portoghese presente nel territorio asiatico. Visto lo
sviluppo cinese, l’Occidente chiudeva un occhio, per motivi economici e per timore che una rapida
democratizzazione potesse portare come nel caso dell’Urss a un crollo degli equilibri continentali, sia sul
dissenso politico, sia sulla violazione di diritti umani.

A parte i regimi comunisti (Cina, Vietnam, Laos e Corea del Nord), molte dittature continuavano ad essere ben
mascherate, infatti paesi in teoria democratici avevano in realtà governi molto autoritari.

- India: la più grande democrazia del mondo, a livello numerico, dove le istituzioni ressero alle tensioni etnico-
religiose che da sempre dividevano il paese, e alla crisi del partito del Congresso, che portò alla vittoria nel
’98 di una formazione di matrice nazionalista e induista, il Partito del popolo.
- Pakistan: vicende ben più travagliate. Presenza di forti correnti integraliste islamiche, dove governi
regolarmente eletti si alternavano a veri e propri regimi militari. Fu appunto con il colpo di stato del ’98 che
venne al potere il generale Musharraf. Tra India e Pakistan c’era poi aperta una questione per il Kashmir, che
non solo era motivo di scontri, ma anche di rifornimenti di armi nucleari.
- Indonesia: nel ’98, un altro grande stato musulmano, vide cadere la triennale dittatura e avviò un processo
di democratizzazione. Non mancavano però le difficoltà economiche e quelle etnico-religiose, scontri che si
verificarono anche nelle isole, come in quella di Timor, abitata per lo più da cattolici, e dove dovette
intervenire l’Onu che permise, grazie anche a un successivo referendum, di rendere l’isola indipendente.
- Filippine: la maggioranza cattolica era costretta a fronteggiare la guerriglia di gruppi islamici, e dove
nonostante la caduta del dittatore non si arrivò alla democratizzazione.

Di fatto però, c’era una continua rinnovata aggressività asiatica, si è sempre parlato infatti del modello asiatico, che
prevede flessibilità, salari bassi, elevata produttività e repressione dei conflitti sociali. Nel ’97-98, questo modello fu
incrinato dalla grave cristi, dovuta principalmente all’eccesso della produzione e alla speculazione finanziaria. Questo
provocò timore anche per l’Occidente, che era legato all’Asia da vincoli finanziari e commerciali.

L’INTEGRALISMO ISLAMICO

Già da tempo presenti, soprattutto in Medio Oriente, la correnti integraliste furono rilanciate negli anni ’80, dagli
sviluppi della rivoluzione iraniana e successivamente dalla gloriosa resistenza all’occupazione sovietica in
Afghanistan, dove erano affluiti volontari da molti paesi musulmani. Tra il ’96-97 gruppi fondamentalisti detti
talebani (studenti delle scuola coraniche), assunsero il controllo di buona parte del paese imponendovi un duro
regime, intollerante oscurantismo, basato su una rigida interpretazione della legge islamica: vittime principali furono
le donne che non potevano più nemmeno andare a scuola o lavorare. In Turchia la situazione non fu facile: qui un
partito di ispirazione islamica si affermò nelle elezioni del ’95, assumendo la guida del governo. L’esperienza si
interruppe nel ’97 quando le pressioni dei militari, garanti della scelta filo-occidentale, convinsero i partiti laici a
formare una nuova maggioranza. Pochi anni dopo però, si affermò una nuova maggioranza islamico-moderata. Se da
un lato si cercava di avviare la modernizzazione del paese, dall’altro si era ancora molto indietro, infatti non
mancavano le sanguinose repressioni ai danni dei movimenti separatisti curdi, ulteriore motivo per non fare entrare,
nel ’97, la Turchia nell’Unione. Più drammatico è il caso dell’Algeria, dove già negli anni ’90 a detenere il potere
erano gruppi militari laici, organizzati nel Fronte di liberazione nazionale (Fln), risultava logorata soprattutto dal
disagio economico. Nel gennaio ’92, nelle elezioni, si affermò il Fronte islamico di salvezza, il governo a sua volta
annullò le elezioni, provocando l’ira degli islamici. La ferocia delle frange estreme del fondamentalismo misero in
atto una vera e propria strategia di terrore, che prevedeva massacri indiscriminati della popolazione civile,
provocando oltre centomila morti tra il ’92 e il ’97. I governanti risposero con una dura repressione, con la quale
tentarono di legittimarsi, ma fu inutile. Il problema dell’integralismo islamico, nel frattempo, si espandeva al di fuori
dei singoli stati.

TERRORISMO E CRISI INTERNAZIONALE

L’11 settembre 2001 è un giorno che non verrà mai dimenticato: due aerei si schiantarono contro le Twin Towers, un
altro contro il pentagono, a Washington, e un quarto tentò di attaccare la Casa Bianca ma cadde prima, in
Pennsylvania, probabilmente grazie alla colluttazione tra terroristi e passeggeri. I responsabili dell’attentato sono i
kamikaze di Osama Bin Laden, che lottava con ferocia contro tutti i nemici dell’Islam. Il gruppo che aveva orchestrato
l’operazione suicida era quello di Al Quaeda, un’organizzazione terroristica internazionale. Le conseguenze per gli
Usa furono chiaramente disastrose. Bush, presidente di allora, non si fece problemi a intraprendere una guerra
contro l’Afghanistan, dove il capo era presumibilmente nascosto. L’obiettivo generale era quello di isolare i regimi
più estremisti e rinsaldare i rapporti con gli stati moderati. L’operazione sostanzialmente riuscì, anche grazie
all’appoggio dei numerosi stati, tra cui Russia e Cina, ma anche altri stati arabi. Bin Laden, che voleva scatenare gli
stati arabi contro l’Occidente, fallì miseramente nel suo intento. La campagna contro l’Afghanistan prevedeva
bombardamenti aerei e un’azione via terra svolta dagli afghani che non volevano sottostare al terrorista. I talebani
furono sconfitta ma Bin Laden riuscì a scappare (morirà il 2 maggio del 2011 grazie all’azione “Operation Neptune
Spear”, supervisionata dal presidente Obama).

LA GUERRA ALL’IRAQ

Dopo aver rovesciato il regime dei talebani in Afghanistan, gli Usa si concentrarono sull’Iraq di Saddam Hussein,
accusato di fiancheggiare il terrorismo internazionale e di nascondere armi di distruzione di massa. Nel ’98, contro le
norme Onu, l’Iraq espulse gli ispettori internazionali. Nell’autunno 2001, gli Usa vollero aumentare la pressione,
l’Iraq si ostinava a non volere gli ispettori e così Usa e Gran Bretagna cominciarono a preparare l’azione militare
contro Saddam. Il mondo, nel frattempo, si era diviso in due schieramenti: Stati Uniti e Gran Bretagna, convinti che
fosse necessario un intervento imminente, mentre Francia, Russia, Germania, Cina e Stati Arabi ritenevano di dare
ancora tempo a Saddam e di trovare un accordo diplomatico, il quale nel frattempo fece entrare gli ispettori, quasi
per attutire la situazione. Il 18 marzo 2003, Stati Uniti e Gran Bretagna lanciarono l’ultimatum a Saddam. Il 20 marzo,
i primi missili colpirono Baghdad. Pochi giorni dopo, i marines prevalsero e Saddam riuscì a scappare. L’abbattimento
del regime dava la speranza all’Occidente di instaurare una democrazia. Nonostante molti sostenitori di Saddam,
compreso lui (dicembre 2003) vennero presi, non mancarono i gruppi integralisti arabi sostenitori del dittatore, che
diedero il via a un lungo stillicidio di sanguinosi attentati, per lo più suicidi, contro la truppe di occupazione (12
novembre 2003, a Nassirya morirono 12 carabinieri, 5 soldati e due civili. Tutti italiani). Si iniziò a sviluppare anche la
pratica dei sequestri di cittadini stranieri, che spesso si concludevano con barbare torture ed esecuzioni riprese con
le telecamere e messe su internet. L’Occidente continuava a dividersi, soprattutto visto che le armi non erano ancora
state trovate. L’11 marzo 2004, a due anni e mezzo esatti dall’attentato alle twin towers, se ne verificò un altro a
Madrid, che provocò 200 morti tra i passeggeri di diversi treni. Il tutto avvenne a tre giorni dalle elezioni dove, con
sorpresa, vinsero i socialisti di Zapatero, che voleva il ritiro dall’Iraq. Mentre l’opinione pubblica continuava a
dividersi al riguardo, in Iraq, nelle elezioni del 2005, si affermarono gli sciiti, che stipularono, nonostante le minacce
sunnite, un accordo con i curdi, per una costituzione federale. Tutti i progressi non bastarono a fermare i terroristi
che colpirono ancora, questa volta Londra, il 7 luglio 2005, con una serie di attentati suicidi simultanei nella rete dei
trasporti urbani, provocando oltre 100 morti. Nell’Iraq, dilaniato dalla guerra civile, non mancavano gli attentati
sunniti, contrari alla situazione politica. L’impiccagione di Saddam, avvenuta nel dicembre 2006, non fece che
aumentare l’astio e il risentimento. Nel frattempo in Iran la situazione non era migliore: aveva minacciato Israele con
rivendicazioni antisemite, e aveva annunciato, nonostante la condanna dell’Onu, la volontà di voler armare il paese
con armi nucleari. Tutto questo mentre in Libano e Palestina si rafforzavano i legami fondamentalisti islamici con
l’Iran.

31. LA SECONDA REPUBBLICA IN ITALIA


LA CRISI DEL SISTEMA POLITICO

La seconda repubblica italiana va dal 1992 al 1994 ed è caratterizzata dal crollo del sistema dei partiti, dalla nuova
legge maggioritaria, dal profondo rimescolamento e dalla nascita di un tendenziale bipolarismo. La società civile e le
istituzioni subirono un generale aggravarsi della situazione: nodi antichi e problemi nuovi, come quelli legati
all’immigrazione, vennero a galla. La crescita produttiva si interruppe nel 1990. Perfino le aziende più solide come la
Fiat sentirono la crisi, alla quale si aggiunse l’inefficienza della pubblica amministrazione. L’inflazione era in continuo
aumento, il deficit bancario non diminuiva e in più si svilupparono sempre più frequentemente gli attacchi da parte
della criminalità organizzata, in Sicilia, Calabria e Campania. Le organizzazioni criminali finivano spesso con
l’esercitare un vero e proprio controllo sul territorio, entrando nei partiti, taglieggiando le attività produttive e
bloccando lo sviluppo di un’economia non parassitaria. Sul piano della vita politica ci furono importanti mutamenti,
sia nell’Urss che nell’Europa dell’est in generale, ai quali fu legata la trasformazione del Pci nel nuovo Pds = Partito
democratico della sinistra. Fu proprio quest’ultimo che avrebbe dovuto sbloccare la principale forza di opposizione,
anche se di fatto c’erano molti punti di scontro, e lo stesso Pds era diviso al suo interno e abbandonato dall’ala più
legata all’eredità del vecchio Pci (che diede vita al partito di Rifondazione comunista). Sull’opposto versante politico,
si consolidarono nel Settentrione, i movimenti regionalisti: in particolare la Lega lombarda (1990), sull’onda di una
violenta polemica “nordista” contro lo Stato centralizzatore, il fisco e l’intero sistema dei partiti. Nel frattempo non
mancava la proliferazione di piccoli movimenti, così come non mancava l’ipotesi di una nuova legge elettorale capace
di dare maggiore stabilità all’esecutivo, senza però trovare alcun accordo né sui contenuti né sul metodo di eventuali
riforme. Nel ’91, lo schiacciante referendum abrogativo di alcune parti della legge elettorale fu promosso da un
comitato composto da diversi partiti e presieduto dal democristiano Segni: un risultato importante, per il suo
significato di protesta nei confronti del sistema vigente. Un’altra direzione inattesa veniva poi dal vertice dello Stato,
il presidente della Repubblica Cossiga, trovatosi al centro di una serie di accese polemiche, dichiarava apertamente
la sua volontà di contribuire a cambiare il sistema di cui lui stesso era il più alto rappresentante. Nel febbraio del ’92,
Cossiga scioglieva le camere e avviò le elezioni anticipate, dove DC e Pds furono seccamente sconfitti, mentre le
nuove forze politiche, tendenzialmente antisistema, avevano sempre più successo, come nel caso della Lega Nord,
guidata da Bossi. I Verdi rappresentavano la loro presenza in Parlamento, mentre un risultato più discreto lo
otteneva la Rete, una nuova formazione, polemicamente schierata contro il sistema dei partiti. Cadute le
candidature della coalizione quadripartita, un’ampia maggioranza elesse Scalfaro, democristiano, presidente della
camera, parlamentare dagli anni della Costituente, una figura che per il suo rigore morale era chiamata a
rappresentare la tradizione positiva di una classe politica ormai largamente screditata. Un nuovo scandalo era però
in agguato, che vide coinvolti diversi uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di
appalti pubblici. L’inchiesta, avviata dalla magistratura milanese, svelava un diffusissimo sistema di finanziamento
illegale dei partiti e di autofinanziamento dei politici (Tangentopoli), sostenuto dalla società e da imprenditori privati.
Destinatari principali erano i partiti di maggioranza, Dc e Psi. In una situazione già carica di difficoltà, si inseriva
l’improvvisa recrudescenza dell’offensiva mafiosa contro i poteri dello stato, il 23 maggio, mentre erano in corso alla
camera le votazioni per la presidenza della Repubblica, un attentato dinamitardo lungo l’autostrada fra l’aeroporto
di Palermo e la città uccise il magistrato Giovanni Falcone, direttore degli affari penali del ministero della Giustizia, la
moglie e i tre agenti della scorta. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e i 5 agenti della
sua scorta furono uccisi da un’autobomba in piena Palermo. Entrambi erano da sempre in prima fila per la lotta alla
mafia. Falcone era candidato a dirigere la superprocura antimafia e, dopo la sua morte, si era fatto il nome di
Borsellino. A tutto ciò si aggiungevano i problemi della crisi produttiva e della gravissima posizione debitoria dello
Stato. Dopo Scalfaro, fu la volta di Amato alla presidenza. Il nuovo governo quadripartito affrontò subito il problema
finanziario, prima con interventi di tipo fiscale sui beni mobiliari e immobiliari dei cittadini, poi con una manovra
destinata a contenere le spese, prime tra tutte quelle inerenti alla sanità. In seguito a una violenta speculazione, la
lira era uscita dal Sistema monetario europeo.

UNA DIFFICILE TRANSIZIONE

Mentre il governo Amato continuava ad essere operativo, il Parlamento non riusciva a risolvere il problema delle
riforme istituzionali. Il tema più discusso, che doveva essere risolto, era quello della legge elettorale. L’introduzione
di un nuovo sistema maggioritario uninominale sembrava a molti la via più rapida per la riforma e la moralizzazione
della politica: il voto a favore di singole personalità avrebbe ridotto al minimo l’ingerenza dei partiti e dei loro
apparati. I difensori del sistema proporzionale vigente, con il voto che tutelava al massimo il potere organizzativo dei
partiti, si limitava a suggerire una serie di correttivi in senso maggioritario. Dato il disaccordo delle forze politiche, ci
fu un altro referendum. Il 18 aprile del ’93 i cittadini approvarono un sistema uninominale maggioritario al Senato.
Per opera di altri due referendum venne abolito il finanziamento pubblico dei partiti e furono mitigate le sanzioni
penali contro i consumatori di droga introdotte da una legge varata tra molti dissensi nel 1990. Questa era
un’ulteriore secca sconfitta per il sistema dei partiti. Molti uomini politici, a causa dei reati commessi, furono
costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Indagato per tangenti era l’ex segretario della DC, Forlani e,
accusato di collusione con la mafia era invece Andreotti. Anche Amato, vista la situazione, preferì dare le sue
dimissioni. Il Presidente della Repubblica designò allora il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, per
formare il nuovo governo. Quest’ultimo inserì figure nuove, ossia tecnici ed esponenti di altre aree: lo stesso giorno
4 ministri del governo, contrari alle scelte di Ciampi, diedero le dimissioni. Ciampi riuscì a ottenere la maggioranza
quadripartita (DC, Psi, Psdi, Pli) e l’astensione del Pds, Lega, Verdi e Pri. L’impegno del nuovo esecutivo era rivolto in
primo luogo a favorire il varo di una nuova legge elettorale. Ciampi proseguì poi sulla sua linea di privatizzazioni, di
riduzione della spesa pubblica, di riforme sociali. A giugno ci furono le prime elezioni comunali in cui l’elezione del
sindaco fosse diretta. I risultati confermarono l’ascesa della Lega Nord. Ai primi di agosto vennero approvate in via
definitiva alcune leggi elettorali per la Camera e il Senato: introducevano il sistema maggioritario uninominale. Non
mancarono poi il taglio di privilegi corporativi e una maggiore equità fiscale, che portarono, insieme ad altre
motivazioni, al ritorno di gravissimi atti di terrorismo (5 autobombe, tra Roma, Milano e Firenze). Sul piano
economico, la recessione non consentiva il rilancio delle attività produttive nonostante la progressiva diminuzione
del costo del denaro, e un importante accordo con i sindacati sulla riduzione del costo del lavoro.

L’AVVIO DEL BIPOLARISMO

A partire dal 1993, alcune forze politiche, tra cui la Lega e il Pds, cominciarono a reclamare nuove elezioni, mentre i
partiti di maggioranza, soprattutto Dc, puntavano a ritardarle il più possibile. Solo una consultazione elettorale e un
Parlamento depurato dalle responsabilità e complicità con il sistema delle tangenti avrebbero potuto dare una
soluzione ai vari problemi. I partiti della vecchia maggioranza avevano avviato una trasformazione: il Psi aveva
affidato prima a Benvenuti poi a Del Turco, entrambi ex sindacalisti, la segreteria del partito, ma non sembrava in
grado di ridare credibilità alla sua immagine. La Dc, guidata da Martinazzoli, aveva deciso di tornare alle origini e
riprendere il vecchio nome di Partito popolare italiano. Ma quando un’assemblea costituente varò la rinascita del
Ppi, un gruppo di dirigenti democristiani, ostili al predominio delle sinistre nel nuovo partito, si raccolse in una nuova
formazione, il Centro cristiano democratico (Ccd). L’anno seguente, una nuova scissione nel Partito popolare diede
vita ai Cristiani democratici uniti (Cdu). Anche nella destra ci furono cambiamenti importanti. Il segretario del Msi,
Fini, avviò la trasformazione del suo partito in Alleanza nazionale, un processo che si sarebbe concluso nel congresso
di fondazione di Fiuggi nel gennaio del ’95. L’elemento di maggiore novità, era l’ingresso in politica dell’imprenditore
televisivo Berlusconi, proprietario di tre delle maggiori reti televisive private, del Milan, ma anche impegnato in
ambiti dalla finanza all’edilizia. Berlusconi aveva lasciato intendere il suo obiettivo di arginare un eventuale successo
delle sinistre, di ricostituire un centro ormai disperso, di arginare la crisi, di porsi infine come centro di aggregamento
del nuovo centro-destra. Berlusconi poteva contare su una larghissima fascia di consensi, dovuta soprattutto ai suoi
successi di imprenditore. Nel giro di qualche mese riuscì a fondare un proprio movimento, Forza Italia, e a costituire
un cartello elettorale con Lega Nord, nel settentrione, con Alleanza nazionale, nel centro-sud. Confluirono in questo
schieramento anche i radicali di Pannella, il Ccd, altri politici di centro. Sul fronte opposto il Pds coagulò intorno a sé
tutte le forze di sinistra da Rifondazione comunista ai socialisti, dai Verdi alla Rete, nonché altri gruppi di recente
fondazione come Alleanza democratica. Più isolati e più deboli apparivano il Ppi e il gruppo Segni, collocati al centro
tra i due schieramenti. Le elezioni politiche del ’94 decretarono il successo delle forze raccolte intorno a Berlusconi: il
centro-destra aveva la maggioranza in Parlamento e mancava poco per quella al Senato. I candidati eletti della Lega,
furono di più di quelli di Forza Italia. Le ragioni della vittoria di Berlusconi furono attribuite non solo al sostegno delle
sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi come unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato
via dagli scandali di Tangentopoli. Il Psi era quasi scomparso e così lo erano i partiti laici minori, lo sgretolamento del
centro e del partito cattolico si avvertirono, così come l’instaurarsi di un meccanismo di alternanza fra maggioranza e
opposizione (bipolarismo). Nel maggio del ’94 Berlusconi formava il nuovo governo con gli alleati della Lega, di
Alleanza nazionale, del Ccd e di altri esponenti del centro. Tra i maggiori problemi del passato, persistevano quelli
dell’avviare la ripresa economica, del benessere sociale e della riduzione della spesa pubblica. Berlusconi fu costretto
a dimettersi nel ’95 e a lui seguì Dini, che formava un ministero di tecnici con l’obiettivo di superare gli antagonismi
su alcuni temi nodali, come la riforma del sistema pensionistico. Nell’anno in cui rimase in carica, nonostante
l’originario connotazione tecnica, il governo divenne espressione della maggioranza di centro-sinistra che lo
sosteneva, mentre il centro-destra passava a una netta opposizione. Nel febbraio del ’95, Romano Prodi,
economista, ex presidente dell’Iri ed esponente del Ppi, si candidò come antagonista di Berlusconi e leader di una
nuova alleanza di centro-sinistra (l’Ulivo). 9 regioni andarono al centro-sinistra, 6 al centro-destra. Nei referendum di
giugno sulla riduzione delle reti concesse a un privato e sulla diminuzione delle pubblicità nei programmi televisivi ,
c’era in realtà una manovra per ridimensionare il potere televisivo di Berlusconi e la sconfitta dei proponenti fu
interpretata come un successo anche politico per l’imprenditore milanese e della sua capacità di influenzare il
grande pubblico. Avvenne, gradualmente, il ridimensionamento del fenomeno leghista, la Lega infatti, si staccò dal
Polo e si schierò con il centro sinistra nella maggioranza che sosteneva Dini, il quale però si dimise all’inizio del ’96.
Nelle nuove elezioni politiche anticipate si confrontarono la coalizione di centro-destra (Polo delle libertà) formata
da Forza Italia, Alleanza nazionale, Ccd, Cdu e radicali, e la coalizione di centro-sinistra (l’Ulivo), formata da Pds, Ppi,
ex socialisti di vari gruppi, Verdi e da una lista di centro, Rinnovamento italiano, proposto da Dini. I due schieramenti
erano guidati rispettivamente da Berlusconi e da Prodi. La Lega si presentava da sola, mentre Rifondazione
comunista aveva negoziato il suo appoggio all’Ulivo in cambio del sostegno ai propri candidati in alcuni collegi
uninominali. Nelle elezioni del 21 aprile ’96, l’Ulivo ottenne la maggioranza assoluta in Senato e quella relativa alla
Camera, dove diventava determinante l’appoggio di Rifondazione. Il primo partito era Forza Italia, il suo segretario
era Massimo d’Alema. Clamoroso fu anche il successo riscosso dalla Lega, il cui leader Bossi avrebbe condotto sulla
via di una crescente radicalizzazione, passando dall’originaria linea federalista a una apertamente separatista, con la
“dichiarazione di indipendenza della Padania”. Il nuovo governo di Prodi schierava esponenti del Pds, fra cui Veltroni
(vicepresidente), Napolitano (agli Interni), Berlinguer (Istruzione), Di Pietro (Lavori pubblici). Tra gli obiettivi del
governo Prodi c’erano quelli di riscattare i ceti meno abbienti e meno protetti, rilanciare l’economia e l’occupazione,
nonostante le difficoltà persistessero, dato che la maggioranza si estendeva dal centro all’estrema sinistra.

L’ITALIA NELL’UNIONE EUROPEA

Tra i primi obiettivi del governo c’era sicuramente quello di ridurre il deficit del bilancio statale entro il rapporto del
3% con il prodotto interno lordo. Non mancava poi la necessità di una serie di interventi fiscali e di tagli alla spesa
pubblica, che consentissero il calo dell’inflazione, per poter rientrare in un primo momento nel Sistema monetario
europeo (alla fine dal ’96) e nel maggio ’98, fare l’ingresso ufficiale nell’Unione monetaria europea. Altri problemi
erano poi legati alla revisione del Welfare State, all’eredità delle inchieste di Tangentopoli e alla questione delle
riforme istituzionali. I correttivi da introdurre nel sistema previdenziale apparivano necessari per evitare di caricare
sulla generazioni future il costo di un numero elevato di pensionati. Il sistema era a grave rischio collasso. I tentativi
di intervento del governo, solo parzialmente attuati, determinavano le resistenze dei sindacati e la risoluta
opposizione di Rifondazione comunista, il cui sostegno era invece necessario per ottenere la maggioranza alla
Camera. Altri problemi rilevanti erano quelli legati all’amministrazione della giustizia. Le inchieste giudiziarie sul
sistema delle tangenti, che avevano avviato il crollo del sistema politico della prima repubblica, pur essendosi
tradotte in un numero rilevante di processi, era ben lontane dal vedere una conclusione. Rimaneva aperto un
contenzioso spesso assai aspro fra settori dell’ordine giudiziario e settori della classe politica, il contrasto era
alimentato anche dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell’opposizione, Berlusconi. Quest’ultimo aveva
favorito la costituzione di una Commissione bicamerale per delineare in Parlamento un progetto organico di riforme
istituzionali. La commissione, presieduta da D’Alema arrivava così a definire una serie di modifiche costituzionali. La
proposta della bicamerale prevedeva l’istituzione di un sistema semi-presidenziale, caratterizzata dall’elezione
diretta da parte del popolo del presidente della Repubblica e da un capo del governo designato contestualmente alla
maggioranza; l’introduzione di una serie di elementi di federalismo e infine maggiori garanzie per gli imputati nei
procedimenti giudiziari. Ma l’improvviso acutizzarsi delle tensioni fra il centro-sinistra e il centro-destra impose la
rinuncia a ogni progetto. Il tema più controverso restava quello della legge elettorale. Agli inizi del ’98, il centro-
sinistra era governato dall’egemonia del Pds, il centro-destra da Berlusconi e Alleanza nazionale. Nel corso dell’anno
poi, Cossiga si aggregò a una nuova formazione, l’Unione democratica per la repubblica, composta prevalentemente
da parlamentari eletti nelle liste del Polo. Dopo gli ennesimi contrasti, nel ’98, la Rifondazione comunista negò
l’appoggio a Prodi, che fu costretto a dimettersi. Si formò rapidamente un nuovo governo di centro-sinistra
presieduto dal leader dei democratici di sinistra D’Alema, sostenuto dall’Ulivo, da Udr e aveva come opposizione l’ala
dissidente di Rifondazione, che aveva dato vita al Partito dei comunisti italiani, guidato da Cossutta. Nonostante il
cambiamento, persistevano microconflittualità interne al centro-sinistra, che mostravano un’alleanza priva di una
larga maggioranza parlamentare. Dai conflitti nacquero i Democratici, una nuova alleanza lanciata da Prodi, che si
proponeva di rilanciare il cartello elettorale dell’Ulivo, che aveva ancora caratteri incerti. Le contraddizioni vennero
confermate quando, il 18 aprile 1999, venne promosso il referendum per abrogare la quota proporzionale nelle
elezioni della Camera dei deputati e ridurre così il numero dei partiti. Il 91% dei votanti era favorevole, ma poiché si
recarono a votare meno del 50% degli elettori, non si poté ritenere valido. Tra i partiti maggiori c’erano Forza Italia e
i Democratici, anche se in generale si può affermare un rafforzamento del centro-destra. In due casi gli italiani si
fecero sentire con il loro diritto di voto: nel ’99 quando venne eletto Ciampi presidente della Repubblica e quando
decisero di entrare in guerra contro la Jugoslavia per il Kosovo. Dopo il successo del centro-destra, nel 2000 D’Alema
si dimise e lasciò il posto ad Amato. La principale realizzazione del centro-sinistra, nell’ultima fase della legislatura, fu
l’approvazione (marzo 2001) di una legge costituzionale che introduceva modifiche di grande portata
all’ordinamento istituzionale italiano in materia di poteri degli enti locali. Dopo aver minutamente elencato le
competenze dello stato, veniva ampliata la potestà legislativa delle regioni e venivano attribuite ampie autonomie ai
comuni, alle aree metropolitane, alle province. Veniva quindi messa in atto una vera e propria riforma federalista per
mano del centro-destra, in particolare della Lega. Tra il ’96 e il 2001 il governo era nelle mani del centro-sinistra, e
nonostante il governo fosse cambiato, certi problemi come la debolezza dell’esecutivo e la breve durata dei governi
non lo erano.

LA SOCIETA’ ITALIANA ALLE SOGLIE DEL NUOVO SECOLO

L’Italia era decisamente cambiata dagli anni ’50, soprattutto a livello demografico, anche se ormai non era più una
nazione giovane e prolifica, il binomio matrimonio-figli non sembrava essere per molti il perno intorno a cui costruire
il proprio futuro. A favorire questa rottura c’era il cambiamento del ruolo della donna, una sessualità svincolata dalla
riproduzione, il controllo consapevole delle nascite e in genere una complessiva secolarizzazione dei costumi. La
scala dei valori era cambiata, il benessere era salito in cima, vigeva una progettazione razionale e prudente della
propria vita. Il concetto di famiglia cambia, si passa ai singles (uomo o donna + figlio/figli) o alle famiglie allargate. I
modelli di consumo sono cambiati e si sono al tempo stesso omologati, anche per mezzo della televisione e dei mass
media. Le disuguaglianze sociali con gli altri paesi erano però evidenti, basta pensare alla scarsità di diplomati e di
laureati o all’inefficienza e all’improduttività di un sistema formativo che da decenni tentava di rivoluzionarsi. Tutte
queste differenze derivavano principalmente dalla differenza dei redditi. Nel paragone con l’Europa, negli ultimi anni,
emergeva un deficit di etica pubblica che appariva arduo recuperare. Alla diffusa corruzione di ampi settori della
politica, dell’amministrazione pubblica, persisteva la criminalità organizzata e anche un forte disprezzo delle regole.

DAL CENTRO-DESTRA AL CENTRO-SINISTRA

La battaglia per le elezioni politiche del 2001 era cominciata con largo anticipo e l’obiettivo primario era quello di
definire il quadro delle alleanze. Il centro-sinistra aveva il non facile compito di individuare il candidato premier in
grado di contrastare Berlusconi, alla fine nel 2000, Rutelli la ebbe vinta su Amato. Il leader di Forza Italia guidava la
coalizione della Casa delle Libertà (Cdl) composta da Alleanza nazionale, Ccd, Cdu e Lega Nord. Il centro-sinistra
riproponeva l’alleanza dell’Ulivo con i Ds, la nuova formazione della Margherita (che comprendeva i Democratici, il
Ppi, l’Udeur e Rinnovamento italiano), i Verdi, i Socialisti italiani e il Partito dei comunisti italiani. Il gruppo che faceva
capo all’ex magistrato Di Pietro, si era posto al di fuori della coalizione, uscendo dai Democratici. Nelle elezioni del 13
maggio 2001, la vittoria della Casa delle Libertà fu nettissima, significativo era però il ridimensionamento della Lega.
Le capacità di persuasione e di coinvolgimento di Berlusconi non erano più un mistero, il su il successo fu riscosso
soprattutto al sud, in Sicilia. Dalle ultime elezioni era uscito che il premier, dotato di un’investitura popolare, era solo
formalmente designato dal Presidente della Repubblica. Il governo di Berlusconi prese il via, con l’appoggio di Fini e
di Bossi, ma presto ci furono delle difficoltà: in occasione del G8 a Genova, con l’uccisione di un manifestante, si
rivelò come la polizia era incompetente e incapace di arginare la situazione di violenza che stava prendendo piede.
Ad aggiungersi a questo problema ci fu il fatto che molte delle leggi che passavano (come quella dell’attenuazione
delle pene previste per il fallimento in bilancio) sembravano volte a tutelare le posizioni del presidente del Consiglio,
che appariva sempre più imputati in procedimenti penali. In politica estera, il governo diede forte sostegno, anche
militare, alle iniziative belliche americane avviate dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Nel 2003 appoggia la
linea di intervento in Iraq. Il progetto governativo di modifica dello Statuto dei lavoratori incontrò l’aspra
opposizione della Cgil. In questo clima di forti controversie, tornarono le Brigate Rosse, che nel marzo 2003, uccisero
a Bologna Biagi, uno degli ispiratori della politica governativa nel settore dell’occupazione. Il conflitto tra Berlusconi e
la magistratura non accennava a terminare, così come non avevano intenzione di farlo i problemi relativi
all’economia e alla finanza. Nonostante a perdita di consensi di Berlusconi, il centro-destra, alla fine del 2005, impose
la riforma della legge elettorale, abolendo i collegi uninominali e reintroducendo un criterio proporzionale nella
distribuzione dei seggi, bilanciato da un premio di maggioranza per la coalizione vincente. Nel 2006, il centro-sinistra
vinse con uno scarto inferiore ai 25.000 voti alla camera e ottenne una ristrettissima maggioranza al Senato. Prodi
formò il nuovo governo e Napolitano divenne presidente della Repubblica (esponente dei Ds). Obiettivi del nuovo
governo erano la riduzione del deficit di bilancio e il rilancio dell’economia. Nel febbraio 2007 si aprì una crisi dopo
che le linee di politica estera del governo non avevano ottenuto l’approvazione della maggioranza del Senato. Prodi
si dimise, ma Napolitano rinviò l’esecutivo al giudizio delle Camere che concessero la fiducia in tempi brevi. Questa
era solo un’ulteriore conferma delle forti divisioni interne, presenti anche nel centro-sinistra.

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