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giampaolo calchi novati

Mediterraneo e questione araba nella politica


estera italiana

Sommario

1. La sistemazione delle colonie in Africa 3


2. Il Medio Oriente e il sistema di alleanze occidentale 12
3. Le crisi della transizione postcoloniale 21
4. La guerra dei sei giorni e la questione palestinese 36
5. La politica mediterranea della Cee 46
6. La cooperazione allo sviluppo 57
7. Dalla dimensione Est-Ovest al conflitto Nord-Sud 62

Storia d’Italia Einaudi


2 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

Da: Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squili-


bri, 1. Politica, economia, società, Giulio Einaudi Editore, Torino 1995.

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G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 3

1. La sistemazione delle colonie in Africa.

Secondo la felice sintesi di Christopher Seton-Watson, «l’obiettivo


primario della politica estera italiana durante la formazione e i primi an-
ni della Repubblica fu quello di recuperare, per quanto possibile, la po-
sizione di cui l’Italia aveva goduto prima del 1922, sia per quello che ri-
guardava le frontiere e le colonie, sia, più in generale, per rientrare a far
parte a pieno diritto della comunità internazionale»1. Fra le urgenze più
propriamente italiane (le frontiere e le colonie) e il reinserimento nel si-
stema mondiale c’era ovviamente una stretta connessione. L’Italia con-
tava di avere successo nelle istanze internazionali per ottenere soddi-
sfazione in Istria e nell’Alto Adige, o in Africa, e avrebbe lavorato sui
problemi in sospeso per migliorare la sua posizione relativa nel mondo
e anzitutto nei riguardi delle nazioni democratiche e liberali che erano
destinate a diventare i suoi partner nel nuovo assetto nato dalla scom-
posizione della «grande alleanza» di guerra. Una scissione che trovava
fra l’altro un corrispettivo nella rottura in Italia della coalizione fra le
forze politiche che avevano gestito il passaggio dal fascismo alla repub-
blica e alla restaurazione della democrazia. Si delineò una situazione per
certi versi paradossale: in un paese con un sistema politico che non pre-
sta soverchia attenzione alla politica estera, che ne trascura lo studio e
che non ha approntato una strumentazione adeguata, oscillando fra
un’esecuzione passiva e improvvisazioni velleitarie subito accantonate,

1 ch. seton-watson, La politica estera della Repubblica italiana, in r. j. b. bosworth e s. ro-


mano (a cura di), La politica estera italiana (1860-1985), Bologna 1991, p. 331.

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la politica estera è stata a lungo un fattore «dirimente», tanto che l’aval-


lo dei capisaldi della politica estera, decisa una volta per tutte e affida-
ta a organismi multilaterali che in larga misura scavalcano l’Italia, di-
venta una premessa di «legittimazione» per accedere al governo dello
Stato. Un corollario – mentre la tradizionale «pendolarità» fra Germa-
nia e Francia2 sarebbe stata in parte sostituita da quella fra Europa e
Mediterraneo – era l’abbandono definitivo dello status di grande po-
tenza perseguito nel periodo prebellico.
La questione coloniale si dimostrò particolarmente impegnativa per-
ché esponeva l’Italia sui due fronti – allora ancora non ben determina-
ti – in cui si sarebbe organizzato il sistema internazionale. Avendo per-
so le colonie durante la guerra per effetto della sconfitta militare, l’Ita-
lia doveva cercare di ottenere le protezioni giuste per essere reintegrata
almeno in parte nel loro possesso. A questo scopo, il governo coltivò le
alleanze che verosimilmente avrebbero dato i maggiori benefici, andan-
dosi a misurare inevitabilmente con gli schieramenti della guerra fred-
da in formazione e finendo per dover scegliere, anche su questo argo-
mento specifico, fra Est e Ovest. D’altro canto, la sorte degli ex posse-
dimenti africani, fra il larvato revanscismo di uno Stato che non
sembrava disposto ad assuefarsi all’idea di dover abbandonare definiti-
vamente la scena coloniale e le aspettative di emancipazione delle po-
polazioni colonizzate e per esse delle loro élite, avvicinava l’Italia alle
problematiche del confronto Nord-Sud, che avrebbe affiancato il con-
flitto maggiore in un rapporto di reciproca interferenza.
La principale linea di penetrazione del colonialismo italiano era sta-
to il Mar Rosso. Nelle varie fasi, però, il Mediterraneo si era posto co-
me un riferimento fisso e persino più attraente. Il ministro Mancini,
all’epoca della spartizione dell’Africa, aveva enunciato l’aforisma del
Mar Rosso chiave del Mediterraneo»3 per interessare un paese tutt’al-
tro che entusiasta di conquiste tanto remote4. La disfatta in Africa po-
teva anche servire per selezionare le terre che rappresentavano un obiet-
tivo più visibile e più ambito. La Libia divenne cosi, insieme all’Eritrea,
prediletta nella sua qualità di colonia primigenia, la «posta» per cui va-
leva la pena battersi. Senonché proprio la Libia e l’Eritrea erano anche
le posizioni strategiche più preziose ai fini della confrontazione globale
2 f. chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1951 e r. petrignani,
Neutralità e alleanze. Le scelte della politica estera italiana dopo l’Unità, Bologna 1987.
3 Discorso in parlamento del 27 gennaio 1885 (in c. zaghi, P. S. Mancini e il problema del Me-
diterraneo, 1884-1885, Roma 1955, p. 97).
4 G. calchi novati, Fra Mediterraneo e Mar Rosso. Momenti di politica italiana in Africa attra-
verso il colonialismo, Roma 1992.

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e l’Italia non poteva prescindere dai rapporti di forza reali con le gran-
di potenze e con gli stessi suoi alleati potenziali o attuali. A sostegno si
invocava il diritto di proseguire l’opera di «civilizzazione» ma concor-
revano anche motivi di prestigio nonché il bisogno di tenere aperta una
valvola di sfogo all’eccedenza demografica.
Mentre si apprestava a giuocare le sue carte nell’arena internazionale,
si offrì all’Italia anche la fenomenologia, in un certo modo inedita e per
la quale comunque la cultura e la politica italiana si dimostrarono larga-
mente impreparate5, implicita nel rapporto con i popoli delle colonie o ex
colonie. L’assunto iniziale del governo postfascista fu, semplicisticamen-
te, di chiedere la restituzione dei possedimenti appartenuti all’Italia pri-
ma del fascismo desistendo solo dalle conquiste successive, e quindi, in
pratica, l’Etiopia oltre all’Albania6. La distinzione era storicamente di
dubbia fondatezza, perché tutte le colonie, con la sola eccezione al più
dell’Eritrea, erano state materialmente sottomesse alla potestà italiana ne-
gli anni del fascismo, quando per lo più la titolarità era divenuta effetti-
va. Lampante era soprattutto il caso della Libia7. Per non precludersi un
recupero di sovranità o di influenza, il governo italiano si era opposto al-
la «rinuncia» ai territori che avevano fatto parte del suo impero, ma alla
fine il trattato di pace del 1947 privava il paese vinto di tutte le sue colo-
nie con questa formula non decidendo peraltro sulla destinazione finale8.
Un verdetto interlocutorio che non impedì al governo e in generale alle
forze politiche italiane di tentare un velleitario «ritorno» in Africa9.

5 a. del boca, L’Africa nella coscienza degli italiani, Bari-Roma 1992.


6 Questo argomento compare già nelle direttive rilasciate da De Gasperi il 14 luglio 1945
(Asmae [Archivio storico del ministero degli Affari Esteri, Roma], Inventario Rappresentanze di-
plomatiche, Ambasciata Parigi, b. 337). Sulla continuità della politica di De Gasperi con il passa-
to, e «il permanere di punte fortemente nazionalistiche» nel suo approccio di politica estera, cfr.
r. quartararo, Italia e Stati Uniti: gli anni difficili (1945-1952), Napoli 1986 (in particolare, pp.
32-33). Dal canto suo, il ministro Sforza aveva dichiarato sin dall’agosto 1944 che l’Italia avreb-
be rinunciato a Etiopia e Albania, ma avrebbe rivendicato le colonie prefasciste a meno che tutte
le potenze coloniali avessero consegnato i loro possedimenti a un’organizzazione internazionale (n.
kogan, L’Italia del dopoguerra, Roma-Bari 1974, p. 30). Sforza, che fu ministro degli Esteri dal
1947 al 1951, parti da posizioni anticoloniali ma si convinse ben presto della necessità di assecon-
dare le forze e i sentimenti che spingevano per preservare la presenza italiana in Africa (c. sfor-
za, Cinque anni a Palazzo Chigi, Roma 1952).
7 e. santarelli, g. rochat, r. rainero e l. goglia, Omar al-Mukhtar e la riconquista fascista
della Libia, Milano 1981.
8 La questione delle colonie è trattata nell’art. 23, che dice testualmente: «L’Italia rinuncia a
tutti i diritti e titoli sui possedimenti territoriali in Africa e cioè la Libia, l’Eritrea e la Somalia ita-
liana». Il testo del trattato di pace con l’Italia è in molte pubblicazioni, fra cui «Relazioni inter-
nazionali», 1947, n. 7, pp. 111-33.
9 Tutta la vicenda dei negoziati sulla sorte delle ex colonie italiane in g. rossi, L’Africa ita-
liana verso l’indipendenza (1941-1949), Varese 1980; g. h. becker, The Disposition of the Italian Co-
lonies, Annemass 1952 e b. rivlin, The United Nations and the Italian Colonies, New York 1950.

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La lunga trattativa che si svolse prima in sede di Consiglio dei mini-


stri degli Esteri delle potenze vincitrici e poi alle Nazioni Unite vide
l’Italia in una posizione di estrema debolezza. Non era neppure mem-
bro dell’Onu e dovette perciò agire per interposta persona quando la
questione nel 1948 approdò all’Onu essendo andato a vuoto anche l’ul-
timo round fra Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia10. Le divisioni del-
la guerra fredda avevano impedito ogni accordo e nel contempo il con-
tenzioso relativo alle ex colonie italiane, con le loro valenze strategiche,
attizzava la tensione Est-Ovest. L’Urss aveva persino avanzato la sua
candidatura a un «mandato» sulle coste africane11 e accusava Stati Uni-
ti e Gran Bretagna di discriminazione a suo danno. Costituendo basi
militari in Libia e in Eritrea, le potenze occidentali avevano già comin-
ciato a predisporre gli strumenti di quella strategia avanzata che Mosca
aveva ragione di temere, giustificando i suoi sforzi per «congelare» i ter-
ritori della cui sorte doveva decidere l’Onu. La Gran Bretagna ci era si-
curamente ostile: il rifiuto inglese era stato pronunciato da Churchill nel
1943 (l’impero italiano «è andato perduto, irrimediabilmente perduto»)
e ribadito da Eden nel 1945 («il governo italiano non ha diritto alla re-
stituzione di alcuna delle sue colonie»)12. In più, Londra doveva onora-
re gli impegni assunti con i senussiti sul futuro della Libia. L’Italia ave-
va esitato fra la tentazione di alzare il suo potere contrattuale giostran-
do tra Usa e Urss, a costo di accennare a una parvenza di «neutralità»13,
e la fiducia anticipata nella «riconoscenza» delle potenze occidentali
mettendosi al riparo del blocco che esse stavano allestendo in funzione

10 Prima di passare tutta la materia all’Onu, i ministri degli Esteri delle quattro grandi po-
tenze si incontrarono a Parigi nel settembre 1948. La conferenza si concluse con un fallimento
completo: nessun accordo, neppure sul comunicato finale. Un resoconto dei lavori nel telespresso
dell’ambasciata italiana in Francia al ministero degli Esteri del 16 settembre 1948 (Asmae, Ex Pos-
sedimenti, b. 21, f. 1).
11 La colonia a cui mirava l’Urss era la Tripolitania: Mosca si impegnava a non utilizzare il ter-
ritorio nordafricano per impiantarvi basi militari e a non esportarvi il sistema sovietico, ma piut-
tosto a servirsi dei porti sul Mediterraneo per inserirsi meglio nel commercio mondiale (dichiara-
zione del delegato sovietico a Parigi, 20 giugno 1946, FRUS [Foreign Relations of the United States]
1946, vol. II, p. 559).
12 Le due dichiarazioni erano state rese alla Camera dei Comuni rispettivamente il 1° set-
tembre 1943 e il 17 gennaio 1945 (a. sterpellone, Vent’anni di politica estera, in aa. vv., La po-
litica estera della Repubblica italiana, Milano 1967, vol. II, p. 185).
13 Proprio la questione coloniale suggeriva per esempio a Roberto Cantalupo uno scatto di di-
gnità nazionale rifiutando l’ingresso nel Patto atlantico per protestare contro il trattamento, a suo
dire ingiusto, inflitto dalle potenze occidentali (r. cantalupo, Blocco occidentale e Italia d’Affrica,
in «Affrica», 15 marzo 1948, p. 65). Alla neutralità pensava anche Manlio Brosio, ambasciatore
«politico», dalla sua sede di Mosca (m. brosio, Diari di Mosca, 1947-1931, Bologna 1986, passim).
L’Urss poteva essere ricondotta a una politica più benevola, anche sulle colonie, solo in cambio di
concessioni tangibili.

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del contenimento anti-Urss. L’esito delle elezioni del 18 aprile 1948 fe-
ce giustizia di tutte le incertezze: l’Italia aveva compiuto una «scelta di
campo» e il problema delle colonie, su cui pure i suoi alleati avevano mo-
strato un’estrema cautela, tanto da aver ricusato una dichiarazione di
sostegno sulla falsariga di quella per Trieste rilasciata alla vigilia della
consultazione14, si risolveva in quell’ambito. Il ministro degli Esteri Sfor-
za, in particolare, avrebbe messo nella ricerca dell’alleanza con l’Occi-
dente un impegno «ideologico» parlando di civiltà occidentale minac-
ciata, di civiltà cristiana, ecc., nella speranza forse di ottenere più cre-
dito presso la Gran Bretagna15. L’Urss non aveva più nessun motivo per
dover compiacere l’Italia, come aveva fatto finché c’era stata una lar-
vata possibilità che a Roma prevalessero le sinistre, permettendole for-
se di mettere «un piede» in Africa16 per il tramite di un’Italia amica, e
ricompattò la sua politica nel senso dell’anticolonialismo.
Il dibattito all’Onu rivelò i profondi contrasti che ormai l’attraver-
savano. Dopo che una commissione quadripartita aveva visitato tutte le
ex colonie italiane, l’Onu inviò a sua volta una commissione in Eritrea
per accertare gli orientamenti del territorio più contestato. Fin dal 1945
l’Etiopia aveva proclamato i suoi diritti storici sull’Eritrea e ad abun-
dantiam l’aveva pretesa per avere finalmente un accesso al mare17. Nel
maggio 1949 fallì in extremis l’accordo italo-inglese: il «pacchetto» mes-
so a punto da Bevin e Sforza non ottenne la prescritta maggioranza
all’Assemblea generale e l’Italia si dirà allora pronta ad appoggiare l’in-
dipendenza degli ex possedimenti eventualmente dopo un periodo di

14 p. pastorelli, La crisi del marzo 1948 nei rapporti italo-americani, in id., La politica este-
ra italiana del dopoguerra, Bologna 1987, pp. 123-24. La versione di Egidio Ortona, diplomati-
co in servizio a Washington, in Anni d’America, I. La ricostruzione: 1944-1951, Bologna 1984,
pp. 230-35.
15 l. graziano, La politica estera italiana (1943-1963), Padova 1968, pp. 75-76.
16 Per effetto delle preclusioni connesse con la guerra fredda, gli Stati Uniti si allinearono sul-
le posizioni rigide della Gran Bretagna diffidando dell’Italia (cfr. il memorandum del Comitato di
coordinamento dipartimento di Stato-Guerra-Marina dell’8 luglio 1947 con la nota dei capi di Sta-
to Maggiore congiunti in FRUS 1947, vol. III, pp. 592-93). Per quanto riguarda la Gran Bretagna,
un memorandum del 2 marzo 1946 sosteneva che forze occidentali erano indispensabili nel Nor-
dafrica (Future of the Italian Colonies, Pro [Public Record Office, Londra], Cab 131). Il massimo
di benevolenza dell’Urss per le posizioni ex coloniali italiane nella nota comunicata il 16 febbraio
1948 con la quale Mosca «riaffermava l’atteggiamento dell’Unione Sovietica a favore di un’am-
ministrazione fiduciaria dell’Italia sulle sue antiche colonie» («Relazioni internazionali», 1948, n.
9, p. 191).
17 Sull’Eritrea e sull’accesso al mare insistevano i memorandum consegnati da Hailé Selassié
a Roosevelt quando i due statisti si incontrarono in Egitto nel febbraio 1945 (la documentazione
essenziale nel dispaccio dell’ambasciatore americano Caldwell al dipartimento di Stato, n. 317, 27
febbraio 1945, Archivi nazionali di Washington, 59/7166; il dispaccio senza gli allegati in FRUS
1945, vol. VIII, pp. 5-7).

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preparazione con l’assistenza dell’Onu o di singole potenze delegate


dall’Onu18. Un mutamento importante di rotta, forse non propriamen-
te «anticoloniale»19 per i troppi tatticismi che l’inquinavano, ma che
permetterà all’Italia di presentarsi sulla scena mediorientale e africana
senza più l’impaccio coloniale. Per la Somalia, che di tutte le sue colo-
nie era la meno appetita e che era stata indicata dagli Stati Uniti come
«consolazione» se le ambizioni italiane altrove fossero rimaste ineva-
se20, si optò appunto per la soluzione dell’amministrazione fiduciaria,
di cui fu investita l’Italia con il termine prefissato di dieci anni per con-
durla all’indipendenza. La Libia ottenne l’indipendenza come stato fe-
derale sotto la corona di Idris, emiro della Cirenaica e capo supremo del-
la Senussia, che aveva combattuto strenuamente contro l’occupazione
italiana e che aveva passato gli anni dell’esilio in Egitto entrando nell’or-
bita inglese. La decisione sull’Eritrea fu la più tormentata e fu presa so-
lo nel 1950: l’ex colonia sul Mar Rosso fu proclamata «unità» autono-
ma e federata all’Etiopia. Una corretta relazione fra uno stato dotato di
una costituzione semidemocratica e un impero governato da un’auto-
crazia di stampo feudale si dimostrò impossibile e nel 1962 il governo
etiopico procedette all’annessione forzosa dell’Eritrea come provincia.
Tutte le delibere vennero adottate con l’opposizione o l’astensione
dell’Urss, sebbene l’astensione della Francia nel voto finale attuti l’im-
pressione di scelte corrispondenti rigidamente alle logiche di blocco.
Non solo non vennero rispettati fino in fondo i diritti delle popolazio-
ni interessate, ma la sistemazione era stata condizionata dalle posizioni
di forza che in Libia e in Eritrea avevano acquisito gli Stati Uniti e la
Gran Bretagna. Il governo americano aveva un impegno con l’impera-
tore d’Etiopia e subordinò ogni altra considerazione alla necessità di
dargli soddisfazione21. Con l’accordo militare del 1953, l’Etiopia sa-

18 Discorso di Sforza all’Assemblea generale dell’Onu, 1° ottobre 1949 (sforza, Cinque an-
ni a Palazzo Chigi cit., pp. 171-83).
19 Sul carattere anticoloniale insiste per esempio b. bagnato, Vincoli europei echi mediterra-
nei, Firenze 1991, pp. 28 sgg.
20 La Somalia era stata definita «senza valore strategico» da j. f. dulles ( War and Peace, New
York 1950, p. 59) e il governo americano si decise ad assegnarla all’Italia per ripagarla della per-
dita di Libia e Eritrea (rapporto del Consiglio per la sicurezza nazionale, 4 agosto 1949, FRUS
1949, vol. IV, pp. 575-76; appunto del 5 marzo 1949, Archivi nazionali di Washington, 59/6970).
21 L’intesa fra Etiopia e Stati Uniti, ancora allo stato informale, risaliva al già ricordato in-
contro del febbraio 1945, per il quale si rimanda a g. calchi novati, L’imperatore e il presidente:
alle origini dell’alleanza Etiopia-Stati Uniti, in «Africa», settembre 1988, pp. 360-77. In Etiopia
prestava la sua opera come consulente della corte un giurista americano, J. H. Spencer, autore di
due volumi su questa esperienza: Ethiopia at Bay, Algonac 1984 e Ethiopia, the Horn of Africa and
U.S. Policy, Cambridge (Mass.) 1977. In Eritrea gli Stati Uniti volevano garantirsi l’acquisizione
della base di Radio Marina presso Asmara (h. g. marcus, Ethiopia, Great Britain and the United

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rebbe divenuta un pilastro della strategia americana nell’importante scac-


chiere Oceano Indiano – Golfo Persico.
L’Italia uscì ampiamente delusa dall’intera procedura. La Somalia
non era un premio sufficiente. Gli interessi dei coloni in Eritrea erano
annacquati nella vastità dell’impero etiopico e la loro protezione si fa-
ceva incerta. L’opposizione accusò il governo alle Camere e sulla stam-
pa di aver «svenduto» le colonie asservendosi al carro della politica oc-
cidentale. La consapevolezza anticoloniale non aveva ancora conquista-
to le forze della sinistra. Al convegno sugli interessi italiani in Africa
che si svolse a Roma nel 1947, alti esponenti del Psi e del Pci non si fe-
cero scrupolo di prendere posizione a favore dei «diritti» italiani in Afri-
ca. In tutti i dibattiti parlamentari il governo fu messo sotto accusa ma
in una prospettiva che aveva più riguardo alla lotta interna che a una
positiva impostazione del problema coloniale. Quanto al governo, esso
aveva puntato alla costituzione di un solido sistema di alleanze ed in
questa prospettiva i sacrifici in Africa potevano trovare una giustifica-
zione valida22.
A parte i risvolti sul versante Est-Ovest, la discussione sulle sue co-
lonie ebbe per l’Italia due referenti essenziali: l’Etiopia e il mondo ara-
bo. L’Etiopia avversò in tutti i modi il reingresso dell’Italia nel Corno
d’Africa riproponendo alle sue frontiere una potenza che l’aveva sem-
pre minacciata. Ad Addis Abeba si paventava la ricostituzione di fatto
delle condizioni che in passato avevano permesso all’Italia di aggredire
l’Etiopia23. L’Etiopia non potè impedire peraltro l’assegnazione del tru-
steeship sulla Somalia all’Italia avendo avuto un successo parziale sull’Eri-

States, 1941-1974, Berkeley 1983, p. 83). Cfr. anche jordan gebre-medhin, Peasants and Nationa-
lism in Eritrea, Trenton 1989, p. 149; d. a. korn, Ethiopia, the United States and the Soviet Union,
London 1986, p. 1; cashai berane e e. williamson, Erythrée, Paris 1985, pp. 70-71; bereket
habté selassié, Conflict and Intervention in the Horn of Africa, New York 1980, p. 58.
22 Le sinistre accusavano il governo di non aver cercato di migliorare la sua posizione facen-
dosi appoggiare dall’Urss, con tutte le incongruenze di una politica che cercava di conciliare l’an-
ticolonialismo nascente e la difesa degli interessi italiani in Africa, mentre la destra lo rimprove-
rava di non aver difeso a sufficienza gli interessi italiani. Sforza (Cinque anni a Palazzo Chigi cit.,
p. 85) riteneva che non c’erano margini per un negoziato fra colonie e adesione alla Nato, che del
resto era un successo in sé. De Gasperi aveva sempre considerato con molto scetticismo la possi-
bilità di recuperare le colonie: cfr. adstans [p. canali], Alcide De Gasperi nella politica estera ita-
liana (1945-1953,), Verona 1953, p. 223. Anche Tarchiani, ambasciatore a Washington, reputa
che la causa coloniale fosse senza speranze dall’inizio (a. tarchiani, Dieci anni tra Roma e Wa-
shington, Verona 1955, p. 17). Tutto ciò non impedisce che la questione coloniale sia stata ogget-
tivamente e psicologicamente uno dei temi centrali della nostra politica estera nell’immediato do-
poguerra, addirittura il «problema numero uno» secondo Quaroni (p. quaroni, Il mondo di un am-
basciatore, Milano 1965, p. 213).
23 Così si espresse il potentissimo ministro della Penna del governo etiopico, Woldegheorghis
(rapporto di Giuliano Cora, 12 giugno 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Etiopia, b. 713).

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trea. La normalizzazione delle relazioni con l’Etiopia era una premessa


perché l’Italia riprendesse la sua politica africana. Non fu un’operazio-
ne facile; il suo perfezionamento fu subordinato alla fine del negoziato
per l’Eritrea24. Le potenze occidentali erano al corrente dell’ostilità nei
confronti dell’Italia e volevano evitare una recrudescenza della turbo-
lenza in un’area galvanizzata dalle profferte di Mosca e del Cairo. Né
l’Italia dava garanzie di avere i mezzi per tenere sotto controllo un’Eri-
trea o una Somalia eccessivamente riottose25.
Gli arabi seguirono con grande partecipazione l’iter della sistema-
zione delle colonie italiane. La Libia era a tutti gli effetti un paese ara-
bo, candidato ad aderire alla Lega araba. La Somalia era una nazione a
netta preponderanza islamica e l’Egitto l’aveva sempre ritenuta com-
presa nel raggio della sua influenza. L’Eritrea, infine, era equamente di-
visa fra una parte cristiana, teoricamente più favorevole alla fusione con
l’Etiopia, e una parte musulmana. Un’Eritrea indipendente avrebbe ve-
rosimilmente completato l’impronta «araba» del Mar Rosso (ed anche
per questo quell’ipotesi incontrò resistenze così prolungate e ostinate
un po’ ovunque), ma in generale l’indipendenza delle colonie italiane
avrebbe rafforzato il mondo arabo, interessato intanto a ridimensiona-
re l’Etiopia, suo rivale storico (a varie riprese l’Etiopia si schierò piut-
tosto con Israele). La Francia sostenne tendenzialmente l’Italia per ri-
tardare un successo del nazionalismo arabo, specialmente in Libia, che,
mentre la decolonizzazione era ancora di là da venire, avrebbe potuto
rendere indifendibili le sue posizioni nel Maghreb26.
Nonostante l’intuizione di qualche funzionario lungimirante27, l’Ita-

24 Il primo incontro fra esponenti dei governi italiano ed etiopico dopo la guerra avvenne l’in-
domani del voto sull’Eritrea, a New York l’8 dicembre 1950, fra il sottosegretario Giuseppe Bru-
sasca e il ministro Aklilou Habté Wold. Fu ancora Brusasca a compiere (settembre 1951) la mis-
sione che di fatto stabilì le relazioni fra i due paesi (comunicato finale, processo verbale e diario
della visita in Asmae, Affari politici 1950-57, Etiopia, b. 713).
25 Lettera dello Stato Maggiore della Difesa al ministero degli Affari Esteri, 18 gennaio 1948,
Asmae, Ex Possedimenti, b. 21. Questo valeva tanto più finché era incerta la natura stessa del go-
verno italiano prima delle elezioni del 1948 (nota dello Stato Maggiore americano, 8 luglio 1947,
FRUS 1947, vol. III, p. 593).
26 La Francia temeva il contagio del nazionalismo per i suoi possedimenti del Nordafrica e nel
settembre 1945 propose che l’Italia fosse reinsediata nei suoi territori (FRUS 1945, vol. II, pp.
109-10; la proposta fu ufficializzata nel 1946, FRUS 1946, vol. II, pp. 155-63). Il governo france-
se, se possibile, voleva tenere lontane sia la Gran Bretagna che l’Urss. De Gaulle avrebbe detto a
Nenni: «Preferisco nel Mediterraneo gli italiani agli inglesi, gli arabi ai russi» (la conversazione eb-
be luogo il 15 gennaio 1946 ed è riferita in p. nenni, I nodi della politica estera italiana, a cura di D.
Zuccaro, Milano 1974, pp. 26-27). Sui rapporti fra Italia e Francia con riguardo alla questione co-
loniale cfr. bagnato, Vincoli europei cit., pp. 113 sgg.
27 In una nota al presidente del Consiglio un ex governatore di colonia (probabilmente Ric-
cardo Astuto), partendo dalla premessa che le colonie erano perdute per sempre, aveva raccoman-

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G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 11

lia non prese mai seriamente in esame la possibilità di puntare sulla «car-
ta araba» per dare un significato diverso all’abbandono delle colonie.
Invano i delegati della Lega araba e dei governi arabi più presenti sulla
scena mondiale si appellarono al principio di autodeterminazione pro-
spettando un percorso convergente con la politica di Roma28. Per di-
fendersi dalle pressioni occidentali, l’Egitto lasciò intendere che pote-
va rivalersi sulla Libia29. L’Italia stimava comunque di non avere un con-
tenzioso aperto con gli arabi; anche il mandato sulla Somalia era un segno
di collaborazione30. Se c’era, l’occasione andò perduta. Un osservatore
attento come Basilio Cialdea aveva scritto:
Queste constatazioni dovrebbero suggerirci un’iniziativa di revisione della no-
stra sovranità: e non a beneficio dei Quattro Grandi, ma delle popolazioni stesse già
sottoposte alla nostra occupazione. Tale iniziativa, specialmente nel caso libico, po-
trebbe venir preparata razionalmente mediante diretti contatti con la Lega araba,
per assicurare la tutela dei nostri interessi, quale fondamento di sviluppi ulteriori non
solo nella Libia ma in tutto il mondo arabo del Medio Oriente. Non si dovrebbe te-
mere la perdita di un dominio anacronistico, se ciò ci fa acquistare un formidabile
credito in tutto il mondo arabo, favorisce la ripresa ed intensificazione di scambi
commerciali, e offre la possibilità di contribuire sostanzialmente mediante le nostre
capacità produttrici e tecniche al progresso di quei popoli. Per la libertà del mondo
arabo e contro gli imperialismi che si preparano a combattere ancora una battaglia
per l’acquisto delle nostre colonie. Questa formula rivoluzionaria è forse l’unica che
ci si offra come fonte di sviluppi, cui l’evoluzione del mondo arabo è propizia31.

Viste le compromissioni con gli alleati, probabilmente l’Italia non ave-


va la sufficiente libertà di manovra: «È dubbio se saremo in grado di re-
sistere alle pressioni degli occidentali», scriveva una fonte ministeriale32;
e un’altra: «La nostra politica araba dovrebbe essere di non averne»33.

dato un atteggiamento più da «politica estera» che da «politica coloniale», impostando rapporti a
tutto campo con i protagonisti della scena mondiale (relazione 29 settembre 1946, Asmae, Ex Pos-
sedimenti, b. 1, f. 1). Spingendosi ancora più in là, in un dispaccio di Zoppi indirizzato a Parigi si
ipotizzava una politica «di ampio respiro», e non come semplice accorgimento tattico, volta a ri-
stabilire una relazione con «quei paesi d’Oriente che furono nei secoli nostri naturali amici e clien-
ti» e che ci eravamo alienati a causa del colonialismo (28 giugno 1949, n. 3/2683, Asmae, Ex Pos-
sedimenti, b. 34). È plausibile che negli spunti di filoarabismo ci fosse qualche residuo di anglofobia.
28 Sui colloqui italo-arabi cfr. FRUS 1947, vol. III, pp. 582 e 607-9 e rossi, L’Africa italiana
cit., pp. 298-300.
29 Appunto Mae [Ministero degli Affari Esteri, Roma], 12 novembre 1951, Asmae, Affari po-
litici 1950-57, Medio Oriente, b. 841 e appunto ministero Affari Esteri, 29 novembre 1951, Asmae,
Affari politici 1950-57, Egitto, b. 870.
30 Colloquio Zoppi-Prunas, 2 dicembre 1950, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Orien-
te, b. 850.
31 b. cialdea, La sorte delle colonie italiane, in «Relazioni internazionali», 1947, n. 43, p. 676.
32 Appunto Mae, 6 ottobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 841.
33 Appunto dall’ambasciata italiana a Parigi per il ministro degli Esteri Sforza, 6 agosto 1950, ivi.

Storia d’Italia Einaudi


12 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

Quella specie di decolonizzazione dall’alto che nell’immediato dopoguerra


si realizzò negli ex possedimenti italiani, viziata da troppe mediazioni per
essere genuina (ed infatti provocò forse involontariamente e per legge-
rezza strascichi che dureranno per anni e anni, sia nella tensione guer-
reggiata fra Somalia e Etiopia a causa della disputa per l’Ogaden che
nell’irredentismo eritreo), lasciò l’Italia e il mondo arabo su sponde non
comunicanti. Fin dagli esordi, le ipoteche della politica di schieramento
entrarono in conflitto con un’adeguata attenzione per i paesi e le realtà
che stavano emergendo nel Mediterraneo.
Mancò da parte dell’Italia anche quella esplicita e autorevole presa
delle distanze dal colonialismo che poteva valere da presupposto per una
politica basata su una parità effettiva in termini di rispetto e di respon-
sabilità. Non avendo interiorizzato il colonialismo e l’anticolonialismo,
continuando a indulgere in un’autoassoluzione che aveva pochi riscon-
tri sul piano della storia e della politica, anche nella percezione dei no-
stri interlocutori, l’Italia finì per convincersi di avere un credito che do-
veva invece essere verificato volta per volta. Era contraddittorio, al di
là di tutto, pensare di non avere avuto una grande parte nel coloniali-
smo e non preoccuparsi di stabilire interazioni che appartenessero riso-
lutamente al dopo-colonialismo.

2. Il Medio Oriente e il sistema di alleanze occidentale.

L’adesione di Turchia e Grecia alla Nato ebbe come effetto di in-


cludere il Mediterraneo formalmente nel blocco strategico facente ca-
po agli Stati Uniti. Il Patto atlantico aveva ormai una solida appendi-
ce nel Mediterraneo, anche se gli Stati Uniti, accanto al sistema multi-
laterale, preferirono coltivare una serie di relazioni bilaterali con i
singoli stati del bacino (e con la stessa Italia). L’Italia cessò di essere
isolata come membro di un’alleanza tutta proiettata verso l’Europa cen-
trale e settentrionale. Molto diverse erano peraltro le condizioni per
una ipotetica «copertura» della sponda meridionale del Mediterraneo,
appartenente in parte alla sfera di sovranità o alta giurisdizione delle
potenze europee a titolo di possedimenti coloniali (era il caso soprat-
tutto del Nordafrica francese) e investita comunque dai processi della
decolonizzazione. La Nato si limitò a istituire sul fianco sud un confi-
ne difensivo marittimo senza curarsi delle vicende interne. Non ne-
cessariamente i problemi di sicurezza di questa regione, anche pre-
scindendo dai temi della statualità e dello sviluppo, potevano essere va-
lutati e affrontati all’ombra del rapporto Est-Ovest su cui si basavano

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 13

le alleanze costituite dalle grandi potenze, e quindi la Nato. E proprio


questa sfasatura sarà all’origine delle incomprensioni fra Occidente e
mondo arabo in cui l’Italia si trovò coinvolta. Le relazioni fra Europa
e Stati Uniti nel Medio Oriente sono state contrassegnate dopo il 1945
«da una combinazione di stretta cooperazione e di fiera rivalità », ri-
flettendo «sia la convergenza dei loro interessi nella guerra fredda che
la loro competizione di lunga durata per la preminenza nella regione»34.
È all’interno di questa dialettica che si è mossa l’Italia, cercando di uti-
lizzare, con risultati controversi, i margini di autonomia consentiti dal-
la sua posizione di relativo disimpegno.
In relazione ai primi atti della questione che avrebbe determinato le
crisi e le alleanze nel Medio Oriente in tutto il dopoguerra, l’Italia si at-
tenne a un criterio di neutralità fra arabi e Israele. Non essendo mem-
bro dell’Onu, non dovette prendere posizioni ufficiali: nelle ostilità se-
guite alla proclamazione dello Stato di Israele nel maggio 1948, si asso-
ciò, su suggerimento americano, alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza
per la prima e la seconda tregua in Palestina35. La sconfitta degli arabi
nel 1948 poteva tornare utile all’Italia e all’Occidente, malgrado il ri-
schio che gli arabi addossassero le colpe alle potenze occidentali e si ri-
volgessero all’Urss «rompendo così l’equilibrio nel Medio Oriente che
è anche interesse italiano di veder mantenuto oppure che si apra una fa-
se di instabilità politica fuori di ogni controllo »36. Il governo italiano
non credeva possibile, nonostante la discreta opera di fiancheggiamen-
to della Santa Sede compiuta in varie occasioni, l’internazionalizzazio-
ne di Gerusalemme, avversata dalla Gran Bretagna. L’annessione dei
resti della Palestina araba a ovest del Giordano e di Gerusalemme Est
alla Giordania fu accettata come un fatto compiuto37. Le direttrici del-
la nostra politica verso il mondo arabo vennero sistematizzate un po’
meglio in occasione della visita a Roma nel maggio 1954 del segretario
generale della Lega araba, Abdel Khaled Hassuna, ma non si potè an-
dare molto oltre l’au-spicio di un «progressivo sviluppo delle relazioni
con i paesi arabi del Vicino Oriente», come vogliono le condizioni geo-

34 l. t. hadar, The United States, Europe, and the Middle East, in «World Policy Journal», esta-
te 1991, p. 423.
35 Promemoria Mae - ambasciata Usa a Roma, 28 agosto 1948, Asmae, Affari politici 1946-
50, Palestina, b. 17 e dispaccio dall’ufficio dell’osservatore all’Onu del 10 settembre 1948, ivi.
36 Dispaccio Mae a varie ambasciate, 7 agosto 1948, Asmae, Affari politici 1946-50, Palesti-
na, b. 5.
37 Legazione Amman-Mae, 28 aprile 1950, Asmae, Affari politici 1950-57, Israele, b. 724.
Ab-dallah, il sovrano di Giordania, appariva una possibile pedina per la nostra politica araba (Am-
man-Mae, 14 agosto 1949, Asmae, Affari politici 1946-50, Giordania, b. 1).

Storia d’Italia Einaudi


14 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

grafiche e l’opinione pubblica38, senza forzare i termini per non incor-


rere nelle reprimende della Francia, ancora impegnata a difendere i suoi
possedimenti del Nordafrica, col risultato che Hassuna rimase soddi-
sfatto solo a metà. Con l’intenzione di creare una struttura ininterrot-
ta partendo dalla Nato, gli Stati Uniti – d’intesa con la Francia e la Gran
Bretagna, oltre che con la Turchia, che aspirava a svolgere un ruolo di
punta in un’area che pretendeva di propria pertinenza – prospettarono
ai paesi arabi di aderire a un’organizzazione politico-militare comune.
La proposta di un Comando del Medio Oriente (Sacme), noto più avan-
ti come Medo (Middle East Defence Organization), fu elaborata per la
prima volta nell’ottobre 195139. Determinante per la riuscita dell’inte-
ro progetto era il contributo dell’Egitto, nella sua qualità di principale
paese arabo per grandezza, potenza, capacità economiche e militari, ma
anche perché ovviamente una delle poste fondamentali era il controllo
del Canale di Suez. L’Egitto fu invitato a partecipare a titolo di Stato
fondatore, su un piano diverso dagli altri paesi arabi. Esso diverrà l’epi-
centro di molte crisi dopo la rivoluzione nazionalista del 1952 ma già
nel 1951 la politica egiziana era attraversata da movimenti critici e di
opposizione. La preponderanza della Gran Bretagna, che aveva conser-
vato basi militari sul Canale, era risentita come indebita e lo stesso esta-
blishment non era del tutto sordo alla pressione nazionalista e anticolo-
niale. La sovrapposizione di un vincolo ulteriore, se poteva diversifica-
re le influenze sottraendo l’Egitto alla morsa della politica inglese,
avrebbe comunque confermato la sua dipendenza dal blocco occidenta-
le. L’idea di un patto perciò non poteva non sollevare obiezioni e resi-
stenze, ma d’altra parte il gruppo dirigente sapeva di dover contare
sull’assistenza delle potenze occidentali per difendere gli assetti interni
minacciati dalla crescita in tutto il mondo coloniale di istanze di rinno-
vamento e cambiamento.
Per prima cosa, l’Italia si dimostrò dispiaciuta di non essere stata pre-
sa in considerazione dalle tre grandi potenze occidentali. Stati Uniti,
Gran Bretagna e Francia avevano proclamato con una certa solennità
nel 1950 l’impegno a tutelare e preservare con tutti i mezzi lo status quo

38 Appunto Mae, 13 maggio 1954, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 981. La
nostra politica araba, dicono al ministero, è più una cornice che un quadro (appunto Mae, 2 apri-
le 1954, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 1006).
39 Il documento di Usa, Gran Bretagna, Francia e Turchia fu inviato all’Egitto e ad altri pae-
si arabi (Siria, Libano, Iraq, Arabia Saudita, Yemen, Giordania) più Israele il 14 novembre 1951.
Immediate furono le proteste dell’Urss, che vi scorse la solita impostazione del «contenimento» a
senso unico.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 15

nel Medio Oriente40, avendo in mente non solo la tensione fra arabi e
Israele, ma anche possibili interferenze dell’Urss, e anche allora l’Italia
non era stata interpellata. Il Medio Oriente veniva in un certo senso as-
similato al «mondo libero»; la garanzia contro «un’aggressione dall’ester-
no» rientrava nelle previsioni e nel linguaggio della guerra fredda. L’Ita-
lia pensava di possedere tutti i requisiti per far parte del Comando, tan-
to più se paragonati a quelli di candidati lontani dal Mediterraneo come
l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sudafrica41. Un’adesione di Italia (e
Grecia o Spagna) avrebbe diminuito la diffidenza degli arabi42. Poiché
però il governo italiano non voleva compromettersi fino in fondo con la
politica delle potenze occidentali, tentò di approfittare dell’esclusione
iniziale43 per acquistare uno spazio di manovra maggiore, soprattutto
dopo che Egitto e Gran Bretagna entrarono in collisione diretta per la
decisione del Cairo di denunciare l’accordo militare del 1936.
Un obiettivo costante della politica estera dell’Italia, quasi un rifles-
so condizionato, è di chiedere di essere associata alle iniziative degli al-
leati non accettando una gerarchia discriminatoria, salvo farsi prendere
dai dubbi sulle conseguenze. In sede diplomatica si studiò la possibilità
di fare nostri gli impegni di cui alla dichiarazione del 1950 o almeno di
emettere, in una fase di crescente tensione, una dichiarazione aggiunti-
va contro eventuali aggressioni nel Medio Oriente44. Altri fecero nota-
re invece lo svantaggio di essere rinchiusi in una politica «che produce
impopolarità» e nella quale, in ogni modo, non potendo avere una fun-
zione determinante, saremmo apparsi «al rimorchio»45. Il sottinteso era
che se l’iniziativa degli occidentali avesse avuto successo l’Italia ne avreb-
be ricavato egualmente gli utili di cui era alla ricerca. L’Italia doveva far
capire agli Stati Uniti che «la nostra posizione politica nell’Oriente ara-
bo può essere utilissima al mondo occidentale»46. D’altra parte, se si vo-

40 La nota tripartita del 25 maggio 1950 in «Relazioni internazionali», 1950, n. 22, p. 348.
41 I tre paesi erano contemplati nella proposta originale. Australia e Nuova Zelanda erano as-
sociate alla difesa del mondo occidentale attraverso l’Anzus. Un po’ diverso era il caso del Suda-
frica, che mostrò comunque tanto interesse per la difesa del Medio Oriente, distaccando anche del-
le forze per questo scopo, perché si aspettava di essere contraccambiato con la protezione del po-
tere bianco da parte della Gran Bretagna (cfr. j. barber e j. barratt, South Africa’s Foreign Policy,
Cambridge 1990, pp. 50-57).
42 Appunto Mae, 13 novembre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 839.
43 L’ambasciatore Tarchiani da Washington a De Gasperi, 9 novembre 1951, Asmae, Affari
politici 1950-57, Egitto, b. 870.
44 Dispaccio dell’ambasciata a Londra, 17 aprile 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 1093.
45 Dispaccio dell’ambasciatore a Londra, 2 aprile 1956, ivi.
46 Appunto Mae, s.d. [ma 1951], Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 769.

Storia d’Italia Einaudi


16 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

leva l’apprezzamento dei nostri alleati, che tenevano l’Italia ai margini


del sistema concertato47, non era necessario osare di più?
Il centro della scena era occupato ora dal dissidio scoppiato fra Egit-
to e Inghilterra nell’ottobre 1951. Un inasprimento avrebbe costretto
tutto l’Occidente davanti a un bivio. L’Italia accettava il «moto di in-
dipendenza» ma dovette prendere atto che i dirigenti egiziani non gra-
divano la «difesa collettiva» propugnata dagli Stati Uniti48. Il mondo
arabo-musulmano era in fermento anche per effetto della vicinanza
dell’Urss. Si riscopriva la teoria del «vuoto di potere» a causa della spro-
porzione fra l’importanza strategica e un potenziale militare quasi nul-
lo49. Lo scontro fra occidentali e sovietici era in qualche misura inevi-
tabile, ma l’Italia riteneva esagerato fare della minaccia russa il motivo
conduttore della nostra politica. Per scongiurare una crisi che avrebbe
inghiottito i resti della sua politica mediorientale, l’Italia azzardò
un’avance che poteva essere intesa come un’offerta di buoni uffici fra
Egitto e Gran Bretagna50. Il Risorgimento aiutava l’Italia a capire il ri-
sveglio nazionale dei popoli arabi. Le reazioni delle parti interessate non
furono molto promettenti e anche da Washington giunsero solo inco-
raggiamenti formali.
Fu in pratica il primo tentativo dell’Italia di presentarsi da protago-
nista nello scacchiere mediterraneo e mediorientale senza servirsi dei ca-
nali precostituiti dei blocchi ma evitando nel contempo i sospetti di
«neutralità». Il senso era di valersi di una collocazione di eccellenza (l’ap-
partenenza alla Nato) smarcandosi però dalla politica più spiccatamen-
te di potenza per meritare la benevolenza degli arabi e proporsi come
canale fra mondo arabo e Occidente. L’Italia aveva sempre messo in ri-
salto l’«innocenza» che le assicurava la perdita di responsabilità colo-
niali. Ma non disponeva di una forza economica e politica a livello mon-
diale e le contraddizioni rischiavano di oscurare anche le migliori in-
tenzioni. Si poteva supporre d’altro canto che la solidarietà di molti
governi arabi con le posizioni più radicali dell’Egitto fossero più nomi-

47 L’Italia fu ammessa tuttavia ad un comitato degli ambasciatori dei paesi occidentali per il
controllo sulle forniture militari al Medio Oriente.
48 Dispaccio all’ambasciata al Cairo, 22 ottobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 839 e appunto Mae, 31 ottobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Orien-
te, b. 841.
49 Si veda il lungo e articolato rapporto inviato da Amman il 23 ottobre 1951, Asmae, Affari
politici 1950-57, Medio Oriente, b. 839.
50 L’offerta fu avanzata con la dovuta ufficialità da De Gasperi in un discorso al Senato il 18
ottobre 1951. Il presidente del Consiglio sottolineava i motivi di comunanza che univano l’Italia
e il mondo arabo (cfr. b. c., Le basi della politica estera italiana, in «Relazioni internazionali», 1951,
n. 43, p. 820).

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 17

nali che effettive51 e che almeno l’Iraq volesse togliere all’Egitto il suo
ruolo preminente52.
Le aperture ai paesi arabi in funzione dell’estensione dell’influenza
dell’Occidente e del suo concetto di sicurezza, ma intanto a beneficio
dell’Italia, si sono ripetute in varie occasioni. Il «riformismo» ebbe il suo
teatro di applicazione soprattutto nel Mediterraneo, un’area che Francia
e Gran Bretagna avevano sotto controllo dai tempi del colonialismo e che
gli Stati Uniti ambivano a presidiare nel quadro della confrontazione con
l’Urss. Grazie alla distensione fra Est e Ovest delineatasi nel 1955, che
portò fra l’altro finalmente all’ammissione dell’Italia all’Onu, l’Italia, con
Pella al ministero degli Esteri, adattò alla vocazione mediterranea la po-
litica detta «neoatlantica», intesa ad aumentare le occasioni di consulta-
zione ed iniziativa entro la Nato53. C’era anche una dimensione econo-
mica che si materializzò in un progetto elaborato da Pella: una specie di
triangolazione Usa – Europa – mondo arabo che prevedeva la costituzio-
ne di un fondo con le somme rimborsate agli Stati Uniti per i prestiti del
Piano Marshall alle nazioni europee per finanziare lo sviluppo del Medio
Oriente. Si provarono ad eseguire concretamente quella politica – un in-
treccio di nazionalismo e di autonomismo neutralisteggiante – alcuni di-
plomatici intraprendenti detti «Mau Mau», con Amintore Fanfani come
responsabile politico, approdato al ministero degli Esteri nel 1958, a cui
nocquero, stando a quanto scrive Sterpellone, «imprecisione nell’esame
dei problemi», «fretta nell’esecuzione delle decisioni adottate», «prema-
turi entusiasmi» e «eccessivo ottimismo»54. A differenza delle grandi po-
tenze, l’Italia rifuggiva dall’uso della sanzione militare, anche se la supe-
riorità delle potenze occidentali non lasciava dubbi sull’esito di una even-
tuale prova di forza. Le conseguenze politiche sarebbero state tutte

51 Appunto Mae, 13 novembre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 841.
52 Dispaccio all’ambasciata al Cairo, 4 giugno 1952, ivi.
53 p. cacace, Venti anni di politica estera italiana (1943-1963), Roma 1986, pp. 479 sgg.
54 sterpellone, Vent’anni di politica estera cit., p. 338. La letteratura di parte occidentalista
è in genere critica per tali esperimenti, e per termini come «vocazione mediterranea» e «neoa-
tlantismo», anche se si riconosce l’esigenza di aprire spazi maggiori alla nostra politica estera (m.
n. ferrara, La politica estera dell’Italia libera (1945-1970), Milano 1970, p. 130). Assai più arti-
colato e meglio argomentato è il giudizio di Bruna Bagnato, che da un lato rileva giustamente la
complessità di un giuoco diplomatico che cercava di far valere insieme nel teatro mediterraneo co-
lonialismo e anticolonialismo, diverso il primo come il secondo per quanto riguardava l’Italia ri-
spetto alle esperienze di altre nazioni, e validi entrambi per impostare delle trattative (bagnato,
Vincoli europei cit., p. 35), e dall’altro l’inevitabile contraddizione di una politica che, mentre a
parole diceva di voler favorire l’avvicinamento fra paesi arabi e mondo occidentale, sfruttava «a
proprio esclusivo beneficio le tensioni che si producevano dallo scontro tra potenze coloniali e spin-
te all’emancipazione dei popoli dipendenti» (ibid., p. 48).

Storia d’Italia Einaudi


18 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

negative. Molto meglio, come si legge in un appunto preparato per la pre-


sidenza del Consiglio nell’ottobre 1951, «rendersi conto della evoluzione
dei tempi e [di] ottenere la fiduciosa collaborazione di quei popoli in una
questione per noi vitale come la sicurezza del Medio Oriente»55. Nella
«sicurezza» del Medio Oriente anche per l’Italia rientravano gli interes-
si economici, il petrolio, le grandi linee di comunicazione e naturalmente
l’arginamento dell’influenza diretta o indiretta dell’Unione Sovietica e del
comunismo internazionale. In visita ufficiale a Washington, il presiden-
te Gronchi, annoverato fra i filoneutralisti della Dc, ma che più esatta-
mente aveva in animo di conciliare la lealtà verso la Nato con gli interes-
si nazionali che si dischiudevano per l’Italia nell’area afro-asiatica56, ro-
vesciò quasi la solita analisi sulla «specificità» italiana (o ne svelò i veri
contenuti?) : «L’Italia per le sue buone relazioni e non suscitando diffi-
denze, è più indicata a svolgere l’azione per conto della Nato tra i paesi
arabi»57. L’Italia non si distaccò da questa linea neppure quando l’Egit-
to assunse risolutamente una posizione di sfida nei confronti dell’Occi-
dente, ed anzi sperò di poter valorizzare vieppiù il suo ruolo per reazione
alla crescente ostilità che nel Medio Oriente suscitava la politica «impe-
rialista» e «colonialista» di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna.
Dopo un viaggio compiuto in alcune capitali nel Medio Oriente
(maggio 1953), il segretario di Stato americano Dulles si convinse che
per il momento non c’erano le condizioni per un patto militare nel Me-
dio Oriente e lo disse in un discorso il 1° giugno 1953. Diversamente
dalla Gran Bretagna, che avrebbe voluto procedere anche senza il con-
senso degli arabi, mettendoli davanti al fatto compiuto, gli Stati Uniti
si curavano di più di una soluzione concordata, e l’Italia era sulla stes-
sa lunghezza d’onda: se la minaccia era reale, il patto militare diventa-
va una scelta obbligata, ma un patto senza gli arabi o, peggio, indiriz-
zato contro di loro era un assurdo58. Del progettato Comando del Me-

55 Appunto del segretario generale del ministero Esteri per la presidenza del Consiglio, 31 ot-
tobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 841. In un altro documento (ap-
punto Mae, 17 ottobre 1951, ivi) si diceva che anziché antagonizzare i nazionalisti arabi c’era la
«convenienza di invitarli a partecipare su un piede di parità e di fiduciosa collaborazione alla di-
fesa del comune patrimonio civile».
56 kogan, L’Italia del dopoguerra cit., p. 139.
57 Dispaccio da Washington, 2 marzo 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente,
b. 1093. Sul viaggio di Gronchi in America cfr. e. ortona, Anni d’America, II. La diplomazia:
1953-1961, Bologna 1986, pp. 153 sgg. (p. 164 per la questione del Medio Oriente).
58 In un dispaccio da Londra l’ambasciatore Brosio esprimeva peraltro l’opinione che aspet-
tare l’adesione unanime degli arabi era una chimera e che gli arabi avrebbero finito per chiedere
di essere ammessi alla spicciolata (16 ottobre 1952, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Orien-
te, b. 842).

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 19

dio Oriente a fini militari con alla testa un Planning Board di cui avreb-
bero fatto parte Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Turchia, Suda-
frica, Australia e Nuova Zelanda, parlò Carlo Gasparini in una confe-
renza all’Istituto di guerra marittima di Livorno il 7 maggio 195359.
L’Italia cercava di inserirsi mediando fra la tesi inglese (priorità agli
aspetti militari anche senza gli arabi) e americana (più spazio alla poli-
tica e concertazione con gli arabi) e delineando una difesa unitaria per
tutto il bacino. L’obiettivo era un patto di mutua assistenza con la par-
tecipazione di Italia e Grecia, non un Anzus (patto di sicurezza fra Au-
stralia, Nuova Zelanda e Stati Uniti) per il Medio Oriente60; qualun-
que forma avesse preso un’organizzazione difensiva per il Medio Orien-
te e il Mediterraneo, i paesi della regione dovevano essere ammessi a
pieno titolo.
Il progetto di un patto per il Medio Oriente e il mondo arabo fu ri-
preso e rilanciato in grande stile nel 1955, sulla falsariga delle organiz-
zazioni militari dell’era Dulles. Toccò alla Turchia prendere l’iniziati-
va. Fra le potenze occidentali fu di nuovo la Gran Bretagna a insistere
perché si arrivasse al fatto compiuto. Dall’accordo bilaterale fra Turchia
e Pakistan si sviluppò – con l’adesione di Iran, Iraq e Gran Bretagna –
l’organizzazione multilaterale nota come patto di Baghdad. Gli Stati
Uniti erano gli ispiratori ma il governo americano non si espose in pri-
ma fila per non qualificare troppo chiaramente l’alleanza; gli Stati Uni-
ti restarono così associati al Patto partecipando a parte intera solo al Co-
mitato militare e (dal 1956) a quello economico. L’unico paese arabo che
si prestò fu l’Iraq. L’opposizione per il resto era tanto diffusa che nep-
pure la Giordania – l’altro paese governato, come l’Iraq, da un sovrano
della dinastia hashemita – potè mantenere l’impegno: una mezza solle-
vazione di tendenza nazionalista costrinse re Hussein a revocare il con-
senso. L’Egitto combattè la proposta con accanimento; era come se il
trattato, formalmente diretto a impedire aggressioni dall’esterno (l’Urss
premeva contro il Northern Tier), avesse come scopo principale proprio
quello di isolare l’Egitto nasseriano.
Una volta ancora l’Italia si trovò a dover agire in una congiuntura
che la stringeva fra le alleanze della guerra fredda, a cui la predispone-
va l’affiliazione alla Nato, e la sua vocazione di nazione mediterranea

59 In Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 909, insieme al testo di una confe-
renza del tenente colonnello Michele Palladino agli ufficiali dello Stato maggiore dell’esercito (4
febbraio 1953).
60 Appunto di Zoppi inviato a varie ambasciate, 21 febbraio 1953, Asmae, Affari politici 1950-
57, Medio Oriente, b. 910.

Storia d’Italia Einaudi


20 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

interessata al buon vicinato con i popoli arabi. L’Egitto andava inte-


grato nel mondo arabo invece di porlo in competizione con le monar-
chie conservatrici61. Non sfuggiva al governo italiano – e tanto più alle
forze di opposizione simpatizzanti per i movimenti di emancipazione
del mondo arabo – che il patto di Baghdad era contestato perché per-
cepito come un mezzo per salvaguardare gli interessi di tipo coloniale:
non era consigliabile aggregarsi a una politica di forza che oltre tutto
non veniva perseguita fino in fondo a causa degli impedimenti della guer-
ra fredda. L’Italia a rigore non era stata invitata, ma nel complesso la
nostra diplomazia, influenzata dall’opinione pubblica, dal Vaticano,
dall’ostilità verso Israele, fu lieta di non dover prendere posizione di-
rettamente sul patto di Baghdad. Più vantaggioso, nella sua prospetti-
va, sarebbe stato un patto mediterraneo in cui gli allineamenti Est-Ovest
fossero meno evidenti, magari con la partecipazione della Spagna62, aper-
to a tutti gli stati arabi senza esclusioni, o un Piano Colombo per il Me-
diterraneo, specializzato in assistenza economica. Nel Medio Oriente,
e questo era un punto su cui le fonti italiane battevano spesso63, la po-
sta non era costituita solo dagli impegni inglesi o dai lasciti del colonia-
lismo, ma da una civiltà occidentale con la quale gli arabi debbono po-
ter sentire un’identità d’interessi.
I concreti interessi dell’Italia nei paesi della sponda meridionale del
Mediterraneo risalivano a quando vi si erano stabilite le prime colletti-
vità di italiani. Né in Egitto né in Tunisia, peraltro, dove le comunità
italiane erano più numerose, c’erano stati sbocchi d’ordine coloniale. In
compenso, quei rapporti erano andati evolvendo in correnti di traffico
che si intendeva rafforzare nelle nuove condizioni di interdipendenza
Nord-Sud. Il petrolio aveva preso il sopravvento come singola voce de-
gli scambi. Il collegamento con gli analoghi interessi dei nostri alleati –
e anzitutto di Francia e Gran Bretagna – non era immediato perché l’Ita-
lia si sentiva piuttosto concorrente, partendo per di più da una situa-
zione di inferiorità quanto a mezzi economici e finanziari o a relazioni
acquisite ma con la «superiorità» che le garantiva la libertà da oneri co-
loniali. L’Italia doveva far sì che l’ormai imminente declino del colo-
nialismo non trascinasse con sé i suoi piccoli privilegi. Non avendo ve-
rosimilmente alcun potere decisionale, tanto valeva restare fuori dai va-

61L’Italia pensava alla formazione di un blocco panarabo imperniato sull’Egitto.


62Dispaccio dall’ambasciata a Madrid, 26 marzo 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Me-
dio Oriente, b. 1093.
63 Comunicazione dagli Esteri alla Difesa, 8 febbraio 1951, Asmae, Inventario Rappresen-
tanze diplomatiche, Londra, b. 1382.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 21

ri «direttori»per il Medio Oriente64. Per altri versi tuttavia la politica


araba e mediterranea dell’Italia era pur sempre condizionata dalla pre-
valenza degli obiettivi comuni con l’Occidente (le fonti di petrolio, l’in-
tegrità di Israele, la repressione dei regimi più turbolenti) e questo cri-
terio avrà molto peso nelle crisi che si succedettero nel Medio Oriente.

3. Le crisi della transizione postcoloniale.

Iran e Egitto sono rimasti estranei alle vicende della decolonizza-


zione in senso stretto. La loro indipendenza come Stati non era in di-
scussione. Per motivi diversi, però, la loro evoluzione politico-sociale
costituì un test per quella dimensione politica – parallela al conflitto Est-
Ovest – che si chiamerà Nord-Sud. Le crisi attraverso cui passarono ne-
gli anni cinquanta possono essere assimilate alle crisi della decolonizza-
zione, per la sostanza se non per la forma, perché al fondo il contrasto
verteva sul controllo delle risorse nazionali. Processi rivoluzionari in-
terni, animati essenzialmente dai ceti medi urbani, civili in Iran e mili-
tari in Egitto, attaccarono le istituzioni tradizionali, monarchiche, feu-
dali, assolutistiche, alla cui ombra prosperava il predominio politico ed
economico di forze esterne. Tutto il mondo occidentale fu costretto a
prender posizione in un misto di interessi materiali, che potevano non
essere convergenti (l’Italia sperava di guadagnare spazio se il semimo-
nopolio inglese fosse stato intaccato), e di preoccupazioni che riguarda-
vano gli scenari della stabilità e della sicurezza.
L’Iran è l’unico paese non arabo fra i grandi produttori di petrolio
del Medio Oriente e si è spesso prestato – per l’antica rivalità che risa-
le alla sconfitta «storica» del settimo secolo65 – a fattore di divisione o
contrapposizione. Già durante la seconda guerra mondiale la sua posi-
zione di transito aveva fatto dell’Iran un terreno di scontro e alla fine
della guerra era stato teatro del tentativo di creare una «repubblica ros-
sa»ai confini con l’Unione Sovietica. L’Iran si riorganizzò come Stato
forte sotto il potere assoluto dello scià Reza Pahlevi, che si proponeva
per suo conto di diventare il referente della politica occidentale e so-

64 Dispaccio dell’ambasciatore Quaroni da Parigi a Zoppi, 29 dicembre 1952, Asmae, Affari


politici 1950-57, Medio Oriente, b. 1036. La sola alternativa sarebbe stata di partecipare con no-
stre truppe, ma il governo era per una politica del «piede di casa» che di per sé escludeva una po-
litica estera (Quaroni a De Gasperi, 27 novembre 1952, ivi).
65 A dimostrare la rilevanza psicologica che conserva tuttora questa battaglia, il presidente ira-
cheno Saddam Hussein chiamerà la «seconda Qadissiya» la guerra ingaggiata nel 1980 contro l’Iran.

Storia d’Italia Einaudi


22 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

prattutto degli Stati Uniti nel Medio Oriente e nel Golfo, ma il suo pro-
getto di «modernizzazione dall’alto»66, tutto racchiuso entro il model-
lo americano, si scontrò – prima di crollare alla fine degli anni settanta
sotto i colpi della rivoluzione islamica – con la crescita di un movimen-
to riformatore, che trovò la sua espressione nel governo presieduto da
Mohammed Mossadeq, un esponente non convenzionale dell’aristocra-
zia che si era personalmente convertito al liberalismo e al nazionalismo.
Nella situazione di radicalizzazione prodotta dalle tensioni della guer-
ra fredda, mentre in Indocina la guerra di liberazione anticoloniale era
egemonizzata da un movimento che si richiamava alla III Internaziona-
le ed era appoggiato da Cina e Urss, una lotta politica per il progresso e
paradossalmente per la liberalizzazione poteva apparire un varco per l’in-
fluenza del comunismo e di Mosca. Una fonte italiana era drastica: «La
Persia [...] già si avvia a grandi passi ad essere inclusa nel sipario di fer-
ro. Le prossime elezioni accelereranno tale movimento»67. Tutta la vi-
cenda fu gestita con questa impostazione dalle potenze occidentali. Lon-
dra, che subì i danni maggiori quando il parlamento iraniano approvò
una legge di nazionalizzazione del petrolio, sollecitò gli alleati a condi-
videre la sua intransigenza. L’Italia ribadì di «nutrire simpatia per le
aspirazioni dei popoli d’Oriente a migliorare le proprie condizioni di vi-
ta»68: una dichiarazione che rischiava di scadere a mera retorica se, co-
me accadde, la misura presa dal governo di Teheran diventava un casus
belli con l’Occidente. Gli italiani, e gli stessi americani, erano in gara
per avere condizioni migliori sul mercato dell’Iran69, un paese che ve-
niva presentato come un «dominio invisibile» dell’Inghilterra70. Ma in-
tanto si trattava di riaffermare il principio – allora pressoché indiscus-
so – dell’intangibilità degli interessi economici del mondo sviluppato
nell’area coloniale anche per prevenire effetti emulativi. Si doveva solo
evitare di caricare il contrasto di eccessive note ideologiche. Benché nei
precedenti dell’Iran non ci fosse mai stato un rapporto coloniale pro-

66 j. w. jacqz (a cura di), Iran: Past, Present and Future, New York 1976 (e in particolare il sag-
gio di a. alimard e c. elahi, Modernization and Changing Leadership in Iran, pp. 217-25).
67 Rapporto da Amman di P. La Terza per De Gasperi, 23 ottobre 1951, Gli occidentali al bi-
vio: Egitto o Inghilterra? Arabi o ebrei?, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 839.
68 Erano parole comprese nella già citata allocuzione di De Gasperi in Senato del 18 ottobre
1951.
69 All’epoca della crisi l’Italia riceveva dall’Iran, e per esso dall’Anglo-Iranian Oil Company,
il 6 per cento del suo normale fabbisogno di greggio (appunto Mae, 6 ottobre 1951, Asmae, Affa-
ri politici 1950-57, Iran, b. 720).
70 «La Gran Bretagna ha invece visto gravemente scossa la sua influenza nell’Iran e rischia di
perdere in sostanza un altro suo “dominio invisibile”» (appunto Mae, 6 ottobre 1951, Nazionaliz-
zazione dei petroli nell’Iran, Asmae, Affari politici 1950-57, Iran, b. 719).

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 23

priamente detto, le concessioni petrolifere al nucleo fondatore della fu-


tura Aioc (Anglo-Iranian Oil Company) avevano inaugurato la storia del
petrolio mediorientale e delle sue manomissioni71 e questa, se non coin-
cideva, confinava con la storia del colonialismo.
Il boicottaggio imposto dalla Gran Bretagna, e seguito con una qual-
che riluttanza dagli Stati Uniti, fu lo spartiacque fra neutralità o soli-
darietà. Puntualmente, gli approcci per scambiare greggio con prodotti
italiani suscitavano le rimostranze di Londra. Dal punto di vista italia-
no, Mossadeq era un parlamentare di grande esperienza e abilità, ten-
denzialmente moderato, il solo baluardo forse contro un’involuzione in-
controllabile promossa dall’ala oltranzista del Fronte nazionale, il par-
tito al governo. La «minaccia»rappresentata da Mosca non imponeva di
per sé di adattarsi alla linea dura di Londra, su cui nemmeno gli Stati
Uniti erano completamente d’accordo, perché se l’Iran era l’anello de-
bole di una catena, la nazionalizzazione del petrolio poteva essere un
«giusto» prezzo per salvarlo al campo occidentale. Golfo e Canale di
Suez sono essenziali «per mantenere agli occidentali la disponibilità del
petrolio», ma diventa difficile mobilitare questi paesi se, come nel caso
dell’Iran, «non si tratta di difenderlo bensì di invaderlo»72. La presen-
za di una missione militare americana presso l’esercito e la polizia del
governo di Teheran era considerata un antidoto credibile all’intensifi-
carsi della propaganda comunista fra i giovani ufficiali delle forze ar-
mate. L’Italia aveva addestrato reparti della Marina e si faceva un van-
to che in quest’arma non si fossero manifestati fenomeni di «fraterniz-
zazione con gli estremisti»73.
La consonanza generale con una battaglia «autodifensiva» dell’ege-
monia occidentale contro ogni possibile infiltrazione di forze legate al
comunismo internazionale o all’«eversione» genericamente intesa non
impedì all’Italia di valutare con una certa autonomia l’intera questione.
L’embargo decretato contro l’Iran fu rispettato. L’ambasciatore a Tehe-
ran era l’esimio orientalista Enrico Cerulli, che raccomandava «pru-

71 j. stork, Il petrolio arabo, Torino 1978, p. 12; g. w. stocking, Middle East Oil, Nashville
1970, p. 10 e a. nouschi, Le lotte per il petrolio nel Medio Oriente, Milano 1971, pp. 23 sgg. (il te-
sto dell’accordo alle pp. 93-96). Sulla storia del petrolio nel Medio Oriente con speciale riguardo
per gli effetti a livello internazionale cfr. b. shwadran, The Middle East, Oil and the Great Powers,
New York 1956.
72 In queste condizioni, anche la Turchia, che sotto altri aspetti poteva apparire «oltranzista»,
era incerta (cfr. il dispaccio Ankara-Mae, 14 maggio 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 851).
73 Lettera del Mae al ministero della Difesa e altri con la trascrizione di un messaggio dell’am-
basciata italiana a Teheran del 30 ottobre 1952, Asmae, Affari politici 1950-57, Iran, b. 808.

Storia d’Italia Einaudi


24 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

denza» in attesa di acquistare più forza74. L’Agip cominciò ad interes-


sarsi dell’Iran nel giugno 1951, apparentemente senza obiezioni da par-
te di Londra, e si comportò nel complesso «con assoluta lealtà»75. Su
invito di Mossadeq, il vicepresidente dell’Agip Carafa d’Andria effet-
tuò una missione in Iran: la visita fu preparata con la dovuta prudenza
per non apparire «poco amichevole» agli occhi della Gran Bretagna di
cui si chiese anzi il gradimento preventivo76 e si escludeva che esperti
italiani potessero collaborare all’applicazione della legge di nazionaliz-
zazione77. L’Eni aveva evidentemente visto la grande occasione per me-
ritarsi l’attenzione delle autorità iraniane per quando la crisi fosse sta-
ta risolta. L’Italia partiva dalla premessa che l’Iran avrebbe dovuto co-
munque dipendere dai mercati occidentali per commercializzare i suoi
idrocarburi quale che fosse stato l’orientamento del governo in carica.
Le varie esplorazioni erano in funzione di una congiuntura favorevole
ad un più profondo inserimento economico-commerciale dell’Italia78,
ma le offerte per acquisti di petrolio iraniano furono lasciate cadere va-
lutando che gli svantaggi sarebbero stati maggiori dei vantaggi79.
Forse senza aver svolto un ruolo particolarmente attivo, l’Italia fu
scelta da Reza Pahlevi come tappa provvisoria del suo esilio nell’estate
del 1953 quando la contesa fra la corona e Mossadeq arrivò alla resa dei

74 Teheran-Mae, 28 ottobre 1952, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 851,
75 p.h. frankel, Petrolio e potere, Firenze 1970, p. 95. La lealtà, nelle condizioni di obiettiva
debolezza dell’ente italiano, sarebbe stata dettata del resto da uno «stato di necessità» (così F. Sab-
batucci nel saggio L’Italia e la crisi energetica in stork, il petrolio arabo cit., p. xxvi). Sull’iniziati-
va dell’Eni cfr. il dispaccio Mae-Teheran, 21 giugno 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 851.
76 La visita si svolse dal 26 giugno al 7 luglio 1951. Si decise di non darne notizia alla stampa
ma era stato preparato un comunicato se la notizia fosse trapelata comunque e in esso si diceva
espressamente che il governo inglese era stato informato (Mae-Teheran, 21 giugno 1951, Asmae,
Affari politici 1950-1957, Iran, b. 717).
77 Mae-ambasciata a Londra, 9 giugno 1951, ivi.
78 Mae-ambasciata a Londra, 22 ottobre 1951, ivi e appunto Mae, Nazionalizzazione dei pe-
troli nell’Iran cit.
79 Nei documenti italiani ci sono parecchie menzioni di richieste iraniane e di rifiuti ufficiali
da parte dell’Italia, anche con l’argomento che l’offerta era di esigue proporzioni (nota Mae, 27
ottobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Iran, b. 717; appunto Mae, 6 ottobre 1951, Asmae,
Affari politici 1950-57, Iran, b. 720; e ancora appunto Mae, 18 marzo 1952, Asmae, Affari poli-
tici 1950-57, Iran, b. 809). Il solo episodio documentabile di parziale violazione del blocco fu il
caso della motocistema Miriella della società italiana Supor, che incontrerà peraltro ostacoli insu-
perabili a far ritirare il carico da una raffineria (m. magini, L’Italia e il petrolio tra storia e cronolo-
gia, Milano 1976, pp. 128-29; l. bazzoni e r. renzi, Il miracolo Mattei, Milano 1984, pp. 170-73).
L’Italia trasse indirettamente profitto dalla crisi iraniana perché l’industria italiana contribuì in
misura notevole a coprire il fabbisogno dei mercati rimasti sguarniti per effetto della chiusura del-
la gigantesca raffineria di Abadan, che aveva da sola una capacità doppia di tutti gli impianti ita-
liani messi insieme.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 25

conti. La stampa italiana confuse i romanzi rosa di un personaggio co-


me Reza Pahlevi, che si era appena sposato con la principessa Soraya, e
i problemi di un conflitto politico che aveva valenze perfino più grandi
del caso iraniano. Per il resto la «fuga» e la restaurazione dello scià fu-
rono organizzate da forze su cui realisticamente l’Italia non aveva mo-
do di influire.
Lo scià si era allontanato per preparare meglio il ripristino del suo
potere. Il suo ritorno ebbe luogo con un vero e proprio colpo di stato
«legale» propiziato dall’esercito con l’aiuto dei servizi segreti america-
ni nel mese di agosto. Mossadeq fu arrestato e il breve interludio rifor-
mistico fu troncato. Reza Pahlevi poteva avventurarsi nel sogno di tra-
sformare l’Iran in una grande potenza realizzando la sua «rivoluzione
bianca». Gli Stati Uniti avevano definitivamente soppiantato la Gran
Bretagna come potenza dominante in questo paese-chiave fra Medio
Oriente e Golfo. L’Italia e l’Iran erano legati da un trattato di amicizia
firmato il 24 novembre 1950. L’Italia non ebbe molte soddisfazioni nel
momento della sconfitta di Mossadeq. Il consorzio che fu costituito per
amministrare l’attività petrolifera – ferma la sovranità formale dell’Iran,
che si serviva però del consorzio per l’estrazione e commercializzazione
– fu rigorosamente riservato alle grandi compagnie del «cartello»80. E
Mattei81 potè infatti corroborare la sua versione di un’Italia piccola e
sacrificata in lotta contro le prevaricazioni delle «sette sorelle» di una
certa pubblicistica antimperialista che si confermò poi più vera dei suoi
stessi preconcetti: un argomento che si tingeva di venature progressiste
nella dimensione della decolonizzazione ma che riprendeva anche alcu-
ni motivi della polemica mussoliniana a difesa dell’Italia «proletaria ».
Nel 1951 il petrolio copriva il 92 per cento delle importazioni italiane
dal Medio Oriente per complessivi 150 milioni di dollari (primo espor-
tatore l’Arabia Saudita); la bilancia commerciale era favorevole agli ara-
bi (188 milioni di dollari di esportazioni e 74 di importazioni); il com-
mercio estero con il mondo arabo equivaleva al 7 per cento degli scam-
bi totali dell’Italia82. L’Eni percorrerà ancora la strada di Teheran
raggiungendo nel 1957 un accordo che spezzava la tradizionale clauso-
la del fifty-fifty. Fu una specie di rivincita. Invece di dividere a metà i
profitti, l’ente di stato italiano assicurava al paese produttore – in que-

80 stork, Il petrolio arabo cit., p. 85.


81 Su Mattei, oltre ai libri citati di Frankel e Bazzoni e Renzi, cfr. g. galli, La sfida perduta.
Biografia politica di Enrico Mattei, Milano 1976.
82 Dati contenuti nella citata conferenza di C. Gasparini del 7 maggio 1953 (Asmae, Affari
politici 1950-57, Medio Oriente, b. 909).

Storia d’Italia Einaudi


26 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

sto caso l’Iran – il 75 per cento della rendita petrolifera associandolo al-
la valorizzazione delle sue risorse e riconoscendo un valore maggiore al-
la titolarità dei giacimenti ma anche ai suoi contributi in termini di im-
prenditorialità e manodopera. Non era una rivoluzione ma l’innovazio-
ne aumentò oggettivamente la concorrenzialità dell’Eni agli occhi dei
grandi monopoli americani e occidentali83. L’Eni era all’opera in altre
situazioni-limite, con riguardoall’Algeria per esempio, aiutando dietro
le quinte il Fronte di liberazione nazionale impegnato contro la Fran-
cia84. La politica estera del gruppo Eni negli anni dell’opera di Mattei,
saldamente ancorata a fattori di Realpolitik, si integrava da una parte
con l’idealismo misticheggiante e irenico di La Pira, che come sindaco
di Firenze si lanciò in audaci operazioni di pace fra Est e Ovest, fra po-
tenze coloniali e paesi in via di sviluppo, fra arabi e Israele, e dall’altra
con l’attivismo politico-commerciale di Gronchi, Pella e Fanfani.
L’esperimento radicaleggiante tentato in Iran trovò una più compiuta
attuazione nella rivoluzione degli «ufficiali liberi» in Egitto. Il carattere
di rottura del colpo di stato militare del luglio 1952 non apparve subito
chiaro. Il re Faruq fu detronizzato ma il nuovo regime rinviò di qualche
mese la proclamazione della repubblica e tenne alla sua testa un uomo, il
generale Neguib, che apparteneva al vecchio establishment, era un mode-
rato, credeva nella democrazia liberal-rappresentativa. Il movimento ave-
va però intenti più drastici. Dietro Neguib premeva, impaziente e ambi-
ziosissimo, il colonnello Gamal Abdel Nasser, la cui ascesa definitiva al
potere avvenne fra il 1953 e il 1954 e che ha legato il suo nome a uno dei
regimi più controversi ma certamente più cruciali per la storia del mondo
arabo e delle relazioni fra il mondo arabo e l’Occidente. La riforma agra-
ria, la repubblica, la scelta del socialismo, la chiusura delle basi inglesi,
l’istituzione del partito unico, il neutralismo come bandiera dopo la Con-
ferenza afro-asiatica di Bandung del 1955 furono altrettante mosse di av-
vicinamento a quell’exploit – la nazionalizzazione della Compagnia del
Canale di Suez – che portò l’Egitto alla ribalta provocando una crisi in-

83 I punti essenziali dell’accordo in Annuario di Politica internazionale 1957, Milano 1958, pp.
713-15. È corrente l’opinione che sia stata l’esclusione degli italiani dal consorzio internazionale
istituito in Iran per sostituire l’Aioc a spingere l’Eni e personalmente Mattei ad agire (nouschi,
Le lotte cit., p. 89; bazzoni e renzi, Il miracolo Mattei cit., p. 193). Andò a vuoto un successivo ten-
tativo di ripetere la formula in Libia per le pressioni esercitate su Tripoli dal governo americano
(sabbatucci, L’Italia e la crisi cit., pp. xxxii-xxxiii; bazzoni e renzi, Il miracolo Mattei cit., p. 198).
84 Nel 1958 l’Eni stipulò un accordo per la ricerca petrolifera nel bacino sahariano di Tindouf
sul confine fra Marocco e Algeria. L’accordo fu firmato nel corso di una visita a Rabat del presi-
dente Gronchi e di Fanfani. Accordi furono stipulati con l’Egitto nel 1958 e nel 1959. Sempre nel
1958 fu bloccata invece all’ultimo momento da un veto del ministero degli Esteri una fornitura di
armi alla Tunisia, altra nazione confinante con l’Algeria in guerra, caldeggiata da Mattei.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 27

ternazionale di prima grandezza in cui tutti i temi della politica araba e


mediterranea, anche per l’Italia, malgrado la sua posizione defilata, ven-
nero drammaticamente al pettine. Nella interpretazione a caldo della no-
stra diplomazia, l’affermazione di Nasser avrebbe allontanato l’Egitto da
Washington asservendolo a quel «complesso asiatico-africano fatto di odi
e di risentimenti» e avrebbe danneggiato un rapporto (con l’Italia e con
l’Occidente) che riposava sull’antica classe dirigente85.
Man mano che il solco fra l’Egitto e il mondo occidentale si ap-
profondiva, l’Italia provò a porre la sua candidatura a ristabilire rap-
porti di collaborazione con il regime militare del Cairo. Nel bilancio del
primo anno di rivoluzione, a «una situazione piena di pericolose inco-
gnite per l’Occidente» corrispondevano «elementi di congiuntura fa-
vorevoli al nostro paese»86. Era una anticipazione del «neoatlantismo»,
nell’interesse dell’Italia e del Patto nel suo complesso ma con la neces-
saria inventiva per sottrarsi alla dipendenza obbligata dalle direttive di
blocco. Fu il ministro della Difesa, il repubblicano Pacciardi, ad avvia-
re concretamente la normalizzazione con un viaggio in Egitto dal 1° al
5 febbraio 195387. La visita, un po’ improvvisata quanto a preparazio-
ne politica e diplomatica, anche perché non si voleva attribuirle troppi
significati, non ebbe effetti immediati ma fu comunque vista come una
presa di distanze dalla Gran Bretagna, che dei paesi occidentali era il
più strenuo ad avversare Nasser e il nasserismo. Pacciardi incontrò Ne-
guib e cercò di indirizzarlo verso gli Stati Uniti per sottrarre l’Egitto al-
la preponderanza inglese senza farlo cadere sotto l’influenza dell’Urss o
della neutralità, che lo stesso presidente egiziano d’altronde giudicava
difficile88. Il nostro ministro assicurò di non avere avuto richieste di ar-
mi. In effetti, benché l’ipotesi che l’Italia vendesse armi all’Egitto no-
nostante il contenzioso aperto con Londra fosse ripetutamente smenti-
ta, risulta che forniture militari di diversa entità non cessarono mai89.
85 Cairo-Mae, 21 novembre 1953, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 870.
86 Cairo-Mae, 29 luglio 1953, ivi. L’Italia saluterà con compiacimento l’intesa anglo-egiziana
del 27 luglio 1954 (Londra 1954, Cmd. 9298), che rappresentò una tregua nella tensione.
87 La visita fu seguita con notevole partecipazione dalla stampa italiana. Alle osservazioni criti-
che de «Il Popolo di Roma» (30 gennaio 1953) si contrappose la «Voce repubblicana» (stessa data),
che inquadrò l’iniziativa nella prospettiva di un miglioramento dei rapporti dell’Egitto non solo con
l’Italia ma con tutto l’Occidente. Due anni più tardi, l’ambasciatore Jannelli concludeva che gli spa-
zi per l’Italia erano oggettivamente ristrettissimi e che la visita del ministro della Difesa non aveva
sortito alcun risultato (Cairo-Mae, 3 agosto 1955, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 1006).
88 Lettera di Pacciardi a De Gasperi, 12 febbraio 1953, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 871.
89 Quando la Gran Bretagna intervenne affinchè l’Italia non vendesse armi all’Egitto, il no-
stro governo si schermì facendo valere sia gli utili economici di quello scambio ma anche il van-
taggio di scongiurare che il governo del Cairo attingesse a fonti meno affidabili (appunto Mae, 18
giugno 1953, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 1092).

Storia d’Italia Einaudi


28 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

Pacciardi tornerà in azione scavalcando il ministero degli Esteri con una


proposta personale di mediazione nell’interminabile vertenza anglo-egi-
ziana90. Il «bersaglio grosso» dell’azione diplomatica italiana doveva es-
sere un invito a Nasser (data presunta della visita in Italia l’ottobre del
1956): erano stati fatti i passi opportuni, mancava solamente la confer-
ma dell’accettazione dell’invito per dargli un carattere di ufficialità91,
ma il precipitare della crisi del 1956 rovinò tutto rimandando sine die
un viaggio che avrebbe potuto avere un valore storico.
Alla fine del 1955 – anche per la tensione che si era diffusa a causa
del Patto di Baghdad, che aveva spaccato il mondo arabo92 e reso più
diretto il collegamento del Medio Oriente con gli schieramenti della
guerra fredda, senza d’altra parte avvicinare in niente una soluzione del-
la questione arabo-israeliana – la situazione era giudicata critica. L’Ita-
lia scartava ogni idea di una mediazione per non interferire con l’ini-
ziativa di Usa e Gran Bretagna, che stavano agendo su Israele per con-
vincerlo a cedere territori in cambio di pace, e incoraggiava le aperture
di Israele e Egitto perché il nostro governo patrocinasse la loro causa ri-
spettiva93. In un’intervista concessa all’agenzia Ansa il 20 novembre
1955, Nasser dichiarò: «Non è il caso di parlare di una mediazione ita-
liana o di altri paesi poiché fra Egitto e Occidente non esiste conflitto,
ma l’Italia può far capire all’Occidente che l’Egitto è una nazione libe-
ra». La materia del contendere era l’acquisto di armi in Cecoslovacchia,
ma in effetti era la prova della crescente autonomia dell’Egitto rispetto
alla tradizionale subalternità nei confronti della Gran Bretagna e glo-
balmente dell’Occidente. L’Italia non era di per sé contraria al Patto di
Baghdad, anche per le sue possibili utilizzazioni ai fini di una coopera-
zione economica coordinata su base regionale, ma pensava che la neu-
tralità e l’equidistanza dei paesi arabi era l’obiettivo massimo in quella
fase di effervescenza nazionalista e anticoloniale e accarezzava a parte
progetti di patti più «ecumenici» a composizione mista euro-araba im-
perniati sul Mediterraneo.
La crisi divenne incontrollabile dopo la decisione di Nasser di na-
zionalizzare la Compagnia di Suez. La nazionalizzazione, annunciata in
un discorso ad Alessandria il 26 luglio 1956, fu la risposta del presidente

90 Ansa, 26 maggio 1953.


91 Appunto Mae, aprile 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 1092 e Cai-
ro-Mae, 3 maggio 1956, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 1093.
92 Al patto di Baghdad, che incorporava di fatto l’Iraq nel sistema difensivo dell’Occidente,
l’Egitto rispose varando un’alleanza a tre con Siria e Arabia Saudita.
93 Appunto Mae, 30 dicembre 1955, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 1092.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 29

egiziano al rifiuto degli Stati Uniti e della Banca mondiale di finanzia-


re la costruzione di una diga sul Nilo ad Assuan da cui ci si aspettava in-
genti vantaggi economici ai fini dell’irrigazione e della produzione di
energia e che soprattutto il regime militare considerava una specie di le-
gittimazione sulla scorta dell’antica correlazione in Egitto fra potere e
controllo delle acque. L’Italia non fu molto soddisfatta dell’improvviso
voltafaccia degli Stati Uniti e chiese delucidazioni a Washington anche
in vista della visita di Nasser che era allo studio94. Nasser si era appena
consultato con Tito e Nehru in un incontro a Brioni che aveva in un cer-
to senso «inventato» il non allineamento, anche se è probabile che so-
prattutto Nehru, ammesso che l’argomento sia stato effettivamente sol-
levato, lo avesse sconsigliato da iniziative che potessero apparire «pro-
vocatorie»95.
Il governo italiano espresse solidarietà a Francia e Gran Bretagna
per la nazionalizzazione, definita «un atto chiaramente ostile nei con-
fronti di tutto il mondo occidentale » e «illecito» se non nella sostan-
za certamente per la forma. Ancora nel 1956 l’Italia, dopo un supple-
mento di riflessione, messa in allarme da possibili conversazioni riser-
vate fra Usa, Gran Bretagna e Francia, aveva escluso un’adesione alla
dichiarazione tripartita96. Riaffiora il riflesso condizionato a tutela di
interessi che segnano il distacco fra Nord e Sud. Nasser, oggetto di at-
tenzioni fino a poco prima, diventa il «dittatore egiziano». Come d’abi-
tudine, l’Italia crede, non si sa con quali mezzi e a quale titolo, di po-
ter svolgere «opera di moderazione e di rallentamento »97, attenta però
a non perdere di credibilità cadendo nell’equidistanza. Non è attuale
una scelta fra Egitto e blocco atlantico perché la scelta, dice in sostan-
za il ministro, è già stata fatta. Questa è la linea ufficiale del governo,
ma la circostanza è troppo intricata per non prestarsi a divergenze. Fi-
no a quando sarà possibile fingere di non scorgere l’intima contraddi-
zione fra una politica che si sforza di assecondare l’evoluzione in sen-

94 Dal Mae al dipartimento di Stato, 25 luglio 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 1049.
95 Dopo i colloqui a tre nell’isola al largo della costa jugoslava, Nehru e Nasser viaggiarono in-
sieme alla volta dell’Egitto e il primo ministro indiano venne a sapere del definitivo rifiuto ameri-
cano mentre si trovava ancora sull’aereo. Nehru fu informato della decisione prima della sua par-
tenza (m. h. heikal, Les documents du Caire, Paris 1972, p. 42).
96 Appunto Mae, 3 febbraio 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 1093.
Se ne discusse anche nella riunione dei capi missione in Medio Oriente che si svolse al ministero
degli Esteri il 19 aprile 1956.
97 Dal segretario generale Rossi Longhi a Brosio, 28 ottobre 1956, Asmae, Affari politici 1950-
57, Medio Oriente, b. 1093.

Storia d’Italia Einaudi


30 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

so nazionalista e autonomistico dei paesi del Medio Oriente (non foss’al-


tro per evitare soprassalti di violenza che possono essere sfruttati
dall’Urss) e la continua saldatura con la difesa da parte delle potenze
europee della loro egemonia?
Il problema è riducibile al modo di intendere e assolvere gli obblighi
Nato. L’inasprimento della crisi non è il prodotto di un’intransigenza
fine a se stessa ma deriva dagli errori commessi da Francia e Gran Bre-
tagna, che come tali non dovrebbero impegnare più di tanto l’Italia.
D’altronde, la «fermezza» non ha portato alla caduta di Nasser e non
ha fermato l’irradiarsi dell’influenza dell’Urss nel mondo afro-asiatico98.
Anche l’affermazione del panarabismo era invisa all’Italia. Non c’è una
causa comune a tutto l’Occidente visto che sono in giuoco gli interessi
spetifici di Francia e Gran Bretagna, tanto più estranei perché residui
in fondo del colonialismo99. A Parigi la questione di Suez è poco più di
un pretesto perché ciò che sta veramente a cuore è l’Algeria e colpendo
Nasser si mira ad indebolire la lotta del Fln per l’indipendenza100. I ver-
tici della Farnesina sono meno selettivi e ammettono a malincuore che
non è possibile assumere un «ruolo autonomo»101. Nella prospettiva ita-
liana, più che alle finalità politiche per cui si battevano le potenze, la
priorità spettava alla garanzia della libertà dei traffici102. L’Italia era il
sesto o settimo utente del Canale e addirittura il quinto se si astrae dal-
le navi con la bandiera di Panama e Liberia che coprivano in realtà il
traffico degli Stati Uniti103. La crisi servi dunque a fare giustizia di tut-
te le finzioni e delle mezze dichiarazioni di solidarietà. Non c’erano più
margini per posizioni sfumate.
Il nazionalismo arabo, di tanto in tanto evocato e addirittura apprez-
zato, è contro gli interessi dell’Italia e dell’Occidente. La soluzione pre-
ferita passa per un rovesciamento del regime di Nasser. La politica italia-

98 Brosio a Rossi Longhi, 18 ottobre 1956, ivi.


99 L’ambasciatore Brosio, da Londra, tentava di non rendere automatiche le solidarietà te-
nendo fuori dal merito della crisi gli impegni in sede Nato e distinguendo comunque la causa oc-
cidentale dal colonialismo (lettera a Martino, 9 settembre 1956, ivi).
100 Quaroni, altro ambasciatore che come Brosio godeva di un forte ascendente, era allora
di sede a Parigi. Più atlantista di Brosio, era ancora più caustico nei riguardi degli errori di Fran-
cia e Gran Bretagna; accusava Parigi di voler la guerra a tutti i costi, senza rendersi conto delle
conseguenze e riteneva che l’Italia avrebbe finito per esserne coinvolta (lettera a Martino, 7 ago-
sto 1956, ivi).
101 Il segretario generale Rossi Longhi a Brosio, 10 ottobre 1956, ivi.
102 Cfr. la dichiarazione di Martino del 16 agosto 1956 in apertura della Conferenza di Lon-
dra per il Canale di Suez in «Relazioni internazionali», 1956, n. 35, p. 1047.
103 Nel 1955 l’Italia risultava quinta in assoluto con l’8 per cento dei traffici dietro a Gran
Bretagna (28 per cento), Norvegia, Liberia e Francia. Altre classifiche mettono gli Stati Uniti in
seconda posizione. I due terzi dei traffici riguardanti l’Italia sono in petrolio.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 31

na nel mondo arabo può riuscire solo se si appoggia su governi moderati


e una sconfitta del radicalismo impersonato da Nasser può giovarci. Un
aggravamento cronico può portare a una svalutazione di Suez e del Me-
diterraneo a favore di altre rotte (un dettaglio tutt’altro che secondario
nella politica americana) e anche questo allarma l’Italia. La sola scappa-
toia è offerta dalla dissociazione degli Stati Uniti dagli anglo-francesi: l’Ita-
lia può condannare l’uso della forza a Suez senza dare l’impressione di tra-
dire la Nato e il principio della fedeltà di blocco. La variante Usa è un ele-
mento rassicurante per la nostra politica estera anche nel Mediterraneo.
La disputa – più o meno esplicita anche all’interno dell’area di governo –
sull’«audacia» di una politica estera che non può esimersi dal prendere re-
sponsabilità sul piano internazionale aveva un illustre precedente: nel
1952, davanti ai primi interrogativi sull’estensione degli impegni nel Me-
dio Oriente, il presidente della Repubblica Einaudi, ricordandosi di es-
sere soprattutto uno studioso dell’economia e della finanza, dimostrò con
un sillogismo che la «politica del piede di casa» può essere la più consona
ai mezzi di un paese come l’Italia se iniziative a più vasto raggio, non aven-
do gli strumenti per sostenerle efficacemente, obbligano a un disavanzo
che per altri versi indebolisce la credibilità della nazione104.
Nelle more della trattativa a livello diplomatico per scongiurare una
guerra, l’Italia non va oltre una politica di fiancheggiamento. Ripetuti
sono gli inviti a evitare l’uso della forza: si vorrebbe anzi che l’Italia for-
malmente preavvertisse che non darà nessun appoggio all’uso della for-
za105. La direttiva è che «a nostro avviso un eventuale intervento mili-
tare (al quale si era fatto ripetutamente cenno da parte inglese e fran-
cese) non sarebbe stato giustificabile che in caso di chiusura del
Canale»106. Peraltro l’Italia partecipa alla ricerca di quelle formule di
gestione internazionale del Canale con cui Francia e Gran Bretagna vor-
rebbero mettere sotto tutela l’Egitto. È il massimo che Parigi e Londra
possono accettare ma l’Egitto è ovviamente contrario a tutti gli espe-
dienti che non riconoscano la validità della nazionalizzazione e quindi i
suoi diritti sovrani sul Canale anche nell’ambito della Convenzione del
1888. Il governo del Cairo non ne faceva solo una questione economi-
ca perché ormai Nasser aveva capito le ricadute politiche di quella mi-
sura in Egitto e in tutto il mondo arabo.

104 L’annotazione di Einaudi è in allegato a una missiva dall’ambasciata a Parigi sulla difesa
del Medio Oriente, 27 novembre 1952, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 842.
105 Era il suggerimento di Brosio nella lettera a Martino del 9 settembre 1956 già citata.
106 Minuta del ministro Martino per la riunione al Quirinale del 9 agosto 1956, Asmae, Af-
fari politici 1950-57, Egitto, b. 1057.

Storia d’Italia Einaudi


32 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

Particolarmente defatigante fu la trattativa per l’istituzione di un or-


ganismo internazionale per il funzionamento, il mantenimento e lo svi-
luppo del Canale per assicurare i diritti degli utenti scavalcando l’Egit-
to. La Gran Bretagna promosse due conferenze che si tennero a Lon-
dra. Alla prima furono invitati i firmatari della Convenzione del 1888
e i principali paesi utenti; furono se mai le assenze volontarie, dell’Egit-
to anzitutto, a distinguere le posizioni107. Le conferenze, che volevano
offrire all’Egitto la possibilità di un arretramento non traumatico, di-
vennero sempre più chiaramente una forma di incriminazione «in con-
tumacia» dell’Egitto. La proposta finale della prima Conferenza, che si
svolse in agosto, fu illustrata a Nasser da una commissione presieduta
dal primo ministro australiano Menzies ma l’Egitto non si lasciò con-
vincere108. La risoluzione era stata dettata dagli Stati Uniti e fu poi in-
tegrata da emendamenti presentati da alcuni paesi «orientali» (Iran,
Pakistan, Etiopia e Turchia), che evidenziavano meglio la sovranità
dell’Egitto, per togliere l’idea di un Diktat di parte occidentale. Con-
trari all’impostazione di quel negoziato a senso unico erano i paesi neu-
tralisti più rigorosi, con in testa l’India, e l’Unione Sovietica. La ricon-
vocazione della Conferenza per una nuova sessione, che si sarebbe con-
clusa con l’istituzione dell’Associazione degli utenti del Canale di Suez
(Scua), tenne fuori tutti gli oppositori: ad essa furono invitati infatti so-
lo i 18 paesi aderenti alla proposta americana approvata nella sessione
di agosto.
L’invito all’Italia e la sua accettazione diventavano a questo punto una
scelta di campo. Il nostro governo si rendeva conto del grado di compro-
missione, anche se la partecipazione non avrebbe comportato l’accetta-
zione anticipata di nessun risultato; ma un’autoesclusione sarebbe stata
in contrasto con i diritti di presenza da sempre propugnati dall’Italia, an-
che per non restare isolati in caso di chiusura o di blocco del Canale. Per
non urtare l’Egitto, così, l’Italia gli faceva presente che «la nostra parte-
cipazione mirava a facilitare un’obiettiva e costruttiva discussione in vi-

107 L’Egitto declinò dicendo di essere disposto a partecipare a un altro tipo di conferenza. Dei
24 invitati, 22 risposero positivamente.
108 Cfr. Report of the Suez Committee on the Mission entrusted to it by Eighteen of the Nations
which attended the Conference of the Suez Canal, September 9, 1956 e The Suez Canal Conference (Se-
lected Documents), London, August 2-24,1956, Londra, Cmd. 9853). L’Italia aveva avanzato «in
via non ufficiale, un suo progetto inteso a veder affidata la gestione «del Canale» all’Egitto ma
sotto un netto e ben definito controllo internazionale» (Mae, Appunto sulla Conferenza per la que-
stione del Canale di Suez, 23 agosto 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 1052), otte-
nendo forse qualche attenzione (appunto Mae, 19 settembre 1956, Asmae, Affari politici 1950-
57, Egitto, b. 1051). L’Egitto poteva negoziare una sistemazione ma non subire una soluzione pre-
confezionata.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 33

sta della stipulazione di un accordo internazionale atto a garantire piena


libertà di transito nel Canale in tempo di pace e di guerra, la stabilità del-
le tasse di passaggio senza aumenti non concordati, la manutenzione e il
miglioramento del Canale. Il tutto nell’interesse stesso dell’Egitto»109. Ci
fu un incontro fra l’ambasciatore italiano al Cairo e Nasser. Questo è il
commento di Ortona, in servizio all’ambasciata a Washington:
Il corriere ci reca a tarda ora le notizie attese sul passo di Fornari (nostro am-
basciatore al Cairo) con Nasser. Abbiamo voluto evidentemente muoverci per es-
sere in grado di dire alla nostra opinione pubblica divisa, critica, esigente, che sia-
mo presenti individualmente e non soltanto nel carrozzone dei 18 di Londra. È
l’eterna ricerca di una politica di prestigio che vuole costantemente rasentare la me-
diazione, ma che al momento di lanciarsi si tira indietro, timorosa e cauta proprio
perché la pubblica opinione è divisa. Fornari, in sostanza, è andato soltanto a dire
a Nasser che consideriamo la situazione grave e che siamo solidali con la «enuncia-
zione dei principî» della formula di Dulles di Londra. In fondo non diciamo nulla
di nuovo. Ma la formulazione delle istruzioni implica una leggera tendenza di «in-
dietro nella mano», che spiega le accuse già affioranti sulla nostra ambiguità. Tan-
to è vero che tali istruzioni non sono state mostrate ai rappresentanti dei tre ai qua-
li peraltro è stata data notizia del nostro passo. Nasser comunque ha ascoltato, se-
condo quanto telegrafa Fornari, senza batter ciglio, riservandosi di riparlargli dopo
gli incontri con il gruppo dei cinque capeggiato da Menzies e designato dalla Con-
ferenza di Londra110.

Nella versione della nostra delegazione, alla seconda Conferenza (19-


21 settembre) l’Italia svolse «un’azione di rilievo»dando prova «con la
prontissima e decisa adesione all’Associazione» della sua volontà di ri-
manere fedele alla solidarietà tra i 18 paesi e indicando d’altro canto
«l’assoluta necessità di procedere con fermezza e con pazienza sulla via
di un nuovo negoziato con il governo del Cairo»111. La Scua era un pro-
dotto spurio: una «zavorra» per trattenere Eden da passi irreparabili,
ma anche un «fatto compiuto» che l’Italia in quanto tale non gradisce112.
L’Italia in particolare aveva cercato di evitare una scissione con i paesi
più critici, come Iran, Etiopia e Pakistan. Se perduravano le incom-
prensioni, si raccomandava di chiedere l’intervento dell’Onu per porre
fine a uno stato di cose pericoloso per la pace del mondo. La dichiara-
zione finale della Conferenza istituiva la Scua assegnandole di fatto il
diritto di amministrare il Canale limitandosi – per quanto riguarda
l’Egitto – a prevedere che avrebbe cercato di cooperare con «le compe-

109 ortona, Anni d’America cit., vol. II, p. 197.


110 Ibid., p. 202.
111 Mae, Appunto sulla seconda Conferenza per la questione del Canale di Suez, 22 settembre
1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 1052.
112 ortona, Anni d’America cit., vol. II, p. 204.

Storia d’Italia Einaudi


34 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

tenti autorità egiziane». L’Italia fu fra i paesi che assicurarono subito la


loro adesione alla nuova organizzazione, che secondo le intenzioni de-
gli Stati Uniti (e dell’Italia) avrebbe dovuto accontentare Francia e Gran
Bretagna stornando il rischio che scatenassero una guerra. Si parlò an-
che di una sede italiana per la Scua (Roma, Palermo o Messina), ma il
governo preferì puntare tutto sull’ammissione al Comitato esecutivo113,
che l’Italia strappò aggirando le obiezioni della Francia, che avrebbe vo-
luto condizionare quella promozione all’impegno pubblico e formale di
versare i diritti di passaggio per il Canale all’Associazione114.
Lo scoppio della guerra alla fine di ottobre, con l’attacco coordinato
fra Israele, Francia e Gran Bretagna, non fu una sorpresa per nessuno.
Il ricorso alla forza contro Nasser era una scelta già presa da tempo.
L’Italia non approvò la decisione di Israele di invadere l’Egitto né il suc-
cessivo intervento anglo-francese. L’Italia non era sola, perché l’inter-
vento irritò in profondità anche gli Stati Uniti115. Martino motivò l’op-
posizione italiana soprattutto con argomenti di carattere giuridico: il
convincimento che restasse ancora un largo margine per l’azione degli
organismi internazionali.
Politicamente l’Italia dà l’impressione di capire il governo israelia-
no, che ha ritenuto di dover reprimere le «forze più bellicose e intran-
sigenti dei paesi vicini e nemici la cui vittoria sembrava essere il frutto
più certo della complessa vicenda della nazionalizzazione del Canale di
Suez». Non revoca la sua «disapprovazione» della decisione egiziana di
nazionalizzare il Canale di Suez che è all’origine della crisi, ribadisce
l’esigenza di una gestione internazionale del Canale ancorché nel rico-
noscimento e nella tutela dei diritti sovrani dell’Egitto ed è molto sfu-
mata sull’azione di guerra intrapresa da Francia e Gran Bretagna («se
non abbiamo potuto approvare le ultime decisioni anglo-francesi ciò è
dipeso dal nostro giudizio circa la necessità di evitare ogni atto che pos-
sa ulteriormente menomare l’autorità delle Nazioni Unite»)116. La re-

113 «È estremamente importante per l’Italia di far parte del gruppo esecutivo, ed a tal fine
converrebbe ove necessario lasciare che la sede venga istituita in un altro paese» (appunto Mae,
29 settembre 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 1051).
114 Siccome l’Italia era recalcitrante a impegnarsi tassativamente su questo punto, Parigi si ac-
contentò di una formula più vaga che in un certo senso capovolgeva l’ordine delle procedure.
115 Sulla reazione del governo americano c’è anche la testimonianza di Ortona. Se molti han-
no riferito delle espressioni colorite impiegate dal presidente Eisenhower nei confronti di Francia
e Gran Bretagna, linguaggio che viene comunemente definito «da caserma» (h. thomas, La crisi
di Suez, Milano 1969, p. 179), il diplomatico italiano descrive un Dulles in lacrime «su questa spa-
ventosa incrinatura dell’alleanza» (ortona, Anni d’America cit., vol. II, p. 208).
116 Discorso del ministro degli Esteri Martino alla Camera, 6 novembre 1956, in «Relazioni
internazionali», 1956, n. 45, pp. 1399-1402.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 35

torica sui «titoli di gloria imperitura» acquisiti da Francia e Gran Bre-


tagna impedisce al nostro ministro degli Esteri di pronunciarsi sul me-
rito dell’azione di guerra a danno dell’Egitto e forse di coglierne la ve-
ra portata. Netto è comunque il dissidio se la motivazione della guerra
deve diventare l’eliminazione di Nasser117.
I fatti iraniani ed egiziani, imperniati su due personaggi diversissimi
eppure comparabili come Mossadeq e Neguib (e dopo di lui Nasser), si
prestano a conclusioni congiunte anche con riguardo alla politica italiana.
Egitto e Iran, due centri già vitali dell’imperialismo britannico, il primo per il
Canale di Suez e il secondo per i giacimenti petroliferi, hanno ormai raggiunto una
maturazione in senso nazionale che né le minacce né le manovre di Londra sono riu-
scite ad arrestare [...] Il primo risultato della vittoria antinglese e nazionale sia
nell’Iran che in Egitto, è stato quello della defenestrazione delle classi più retrive e
corrotte ad opera di un fronte patriottico esteso e composito, che va dalle sette re-
ligiose alla borghesia commerciale e intellettuale fino agli operai e ai contadini [...]
Il colpo di mano dei giovani militari potrà portare ad un progresso nella vita pub-
blica egiziana, se Neguib saprà arrestarsi al momento giusto, altrimenti degenererà
in una dittatura militare [...] Per quel che ci riguarda, vorremmo sapere che cosa
farà il governo italiano di fronte alla nuova situazione118.

Per i nazionalisti arabi e gli studiosi della decolonizzazione, la vicen-


da di Suez del 1956 – la nazionalizzazione, il revanscismo anglo-france-
se, l’aggressione tripartita – ha segnato una svolta nella storia del Medio
Oriente e dell’imperialismo119. L’Italia preferì attenersi a una lettura me-
no altisonante proprio perché a un certo livello lo scontro le avrebbe im-
posto delle alternative insostenibili. Per il governo, condizionato dalle
alleanze con le potenze occidentali, sarebbe stato impensabile spostarsi
sulle posizioni anticoloniali di Nasser, non per niente sostenuto da In-
dia, Jugoslavia e Urss. L’Onu diventava un’ancora di salvezza visto che
la contrarietà del presidente Eisenhower portò all’isolamento di Francia
e Gran Bretagna senza che l’ordine di cessate il fuoco sollevasse delicati
problemi di schieramento lungo l’asse Est-Ovest.
L’Italia può adeguarsi e fare la sua parte: le «nostre responsabi-
lità»120, come dice Martino, ma siamo quasi al nominalismo. «Il Popo-
117 Non è questo il parere dell’autorevole commentatore del «Corriere della Sera» Augusto
Guerriero, che si rammarica che l’azione, per colpa dei laburisti inglesi, non sia arrivata fino a do-
po «aver liquidato il dittatore egiziano e di averlo costretto alla resa» (Momento di attesa, in «Cor-
riere della Sera», 13 novembre 1956).
118 Mossadeq e Naguib, in «Avanti!», 29 luglio 1956.
119 a. abdel-malek, Ripensando a Suez: una svolta diportata storica, in «Politica internaziona-
le», 1986, n. 5, pp. 79-84.
120 Ciò nonostante gli italiani non furono chiamati a far parte degli organi incaricati di riatti-
vare il Canale perché la loro presenza sarebbe stata poco «gradita all’Egitto» (ambasciata Cairo-
Mae, 30 novembre 1956, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 1049).

Storia d’Italia Einaudi


36 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

lo », l’organo democristiano, osserva con compiacimento che «l’Italia,


lungi dal trovarsi isolata, si è trovata unita con i paesi di tutti i conti-
nenti [...] mentre veramente drammatico, non solo sul piano interna-
zionale ma anche su quello morale, è risultato l’isolamento di quanti han-
no operato e sostenuto il ricorso alla forza»121. Dove l’allusione alla for-
za si estende forse da Francia e Gran Bretagna all’Urss per l’intervento
in Ungheria. Invano l’opposizione cerca di inquadrare la battaglia di
Nasser per il «riscatto» di Suez nei fenomeni più grossi dell’emancipa-
zione dei popoli coloniali e del riassetto del sistema internazionale122,
preparando un quadro di riferimento che superi effettivamente le an-
gustie di una politica sempre indotta a rifluire su se stessa quando c’è in
vista una «minaccia» per le forze che dominano il sistema.
Nella nuova crisi che investi il Medio Oriente nel 1958 dopo il col-
po di stato a Baghdad anche Fanfani, un ministro catalogato come pro-
arabo, mise a disposizione le basi italiane per il transito delle truppe d’in-
tervento americane inviate in Libano. Si rifarà subito dopo rispolve-
rando d’accordo con Gronchi il Piano Pella e compiendo un viaggio
molto pubblicizzato al Cairo. Ci fu persino qualche polemica, come se
l’ortodossia atlantica fosse stata sacrificata sull’ara del petrolio arabo123.
L’articolazione della politica internazionale consentirebbe di collegarsi
con le battaglie dei popoli del Terzo Mondo in modo meno episodico e
quindi a lungo termine più vantaggioso. Ma il ragionamento del gover-
no è altrettanto coerente: quali che siano i suoi interessi contingenti in
ciascuna crisi, l’Italia non può mettere a repentaglio il blocco che le ri-
serva comunque benefici maggiori (la sicurezza, una collocazione nel
mercato, un aggancio con la «grande politica», ecc.).

4. La guerra dei sei giorni e la questione palestinese.

I problemi del Medio Oriente tornarono in primo piano nel 1967 con
la guerra dei sei giorni, che ebbe come risultato di sconvolgere anche in
termini territoriali la regione più critica per il duplice asse, Est-Ovest e
Nord-Sud, della politica internazionale. La crisi mise duramente alla
prova la capacità di Usa e Urss di tenere sotto controllo i loro alleati del-
la periferia. L’Onu fu in parte strumentalizzata e in parte scavalcata.

121 Azione societaria, in «Il Popolo», 3 novembre 1956.


122 Il dovere dell’Italia, in «l’Unità», 2 novembre 1956.
123 cacace, Vent’anni di politica estera cit., p. 509.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 37

Per quanto riguarda l’Italia, la crisi era in un certo senso fuori della sua
portata ma interferiva in più punti con la sua politica estera. Lo strari-
pamento di Israele dai confini che erano stati riconosciuti più o meno
for-malmente dall’ordine internazionale, e la contestuale emergenza con
rinnovata autorevolezza dell’istanza di autodeterminazione dei palesti-
nesi, anche a scapito dell’intermediazione da sempre rappresentata da-
gli stati arabi, severamente ridimensionati dalla disfatta, portavano con
sé implicazioni cosi profonde da coinvolgere inevitabilmente un paese,
come l’Italia, immerso nella realtà geografica, economica e politica del
Mediterraneo.
Dopo il conflitto del 1956, la sicurezza sul confine fra Egitto e Israe-
le era stata affidata ai caschi blu delle Nazioni Unite (Unef, United Na-
tions Emergency Force). Non è qui il luogo per accertare perché un equi-
librio preservato per circa dieci anni senza scosse maggiori sia precipi-
tato nello spazio di poche settimane verso una guerra totale. Già l’esatta
successione dei fatti, con le relative motivazioni, è oggetto di valuta-
zioni discordanti. Anche ricostruzioni più recenti che si sono rese pos-
sibili dopo la «declassificazione» dei documenti diplomatici e per la te-
stimonianza di alcuni dei protagonisti lasciano spazio a interrogativi non
risolti. Perché l’Urss aizzò i sospetti della Siria, e a rimorchio dell’Egit-
to, con una rivelazione esageratamente drammatizzata di un movimen-
to di truppe israeliane? Perché l’Egitto si assunse la responsabilità di
chiedere il ritiro della forza dell’Onu con il rischio di trovarsi faccia a
faccia con Israele? Perché il segretario generale delle Nazioni Unite rac-
colse con tanta fretta la richiesta del Cairo invece di cercare di raffred-
dare la crisi? «È chiaro che la guerra di giugno venne quando venne a
causa di molteplici mancanze umane di prevedere con proprietà i risul-
tati di vari corsi d’azione»124. La domanda essenziale più che mai è dun-
que chi alla fine – fra Israele, Egitto e Siria – abbia più coscientemente
voluto la guerra. L’abbrivio della catena sfociata nella guerra fu uno
scontro aereo all’inizio di aprile sul ciclo di Damasco125. La caccia israe-
liana abbatté 6 aerei siriani provocando il regime del Baath pur met-
tendo spietatamente in luce la sua vulnerabilità a confronto della supe-
riorità militare di Israele. Proprio perché a Damasco c’era al potere un
governo espresso dalla versione più radicale del nazionalismo arabo, e
per essere individualmente la Siria il paese arabo che più si era autoin-

124 r. b. parker, The June 1967 War: Some Mysteries Explored, in «The Middle East Journal»,
primavera 1992, vol. 46, n. 2, p. 197.
125 Per una ricostruzione fattuale della guerra cfr. e. rouleau, j. -f. held, j. e s. lacouture,
Israel et les Arabes: le 3e combat, Paris 1967.

Storia d’Italia Einaudi


38 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

vestito della rappresentanza dei diritti dei palestinesi, facendone una


condizione della sua stessa idea nazionale126, la sfida non era fine a se
stessa. La Siria si rivolse all’Egitto, sia per averne aiuti che per stimo-
larne la leadership in un misto di fratellanza e di concorrenza e rivalità.
Nasser, campione del nazionalismo arabo, era costretto dagli obiettivi
egemonici che si era posti e dalla sua stessa retorica panaraba a cavalca-
re la causa della Palestina. L’argomento, evocato in buona o cattiva fe-
de, secondo cui l’Egitto si faceva scudo dell’Unef per non doversi mi-
surare con il «nemico» del mondo arabo non poteva lasciarlo indiffe-
rente. Nella spirale, come si vede, c’era una logica intrinseca. La
denuncia di una probabile offensiva israeliana contro la Siria fatta con
leggerezza dall’Urss, senza rendersi conto in apparenza dei contraccol-
pi che potevano derivarne127, portò la tensione al massimo. La decisio-
ne del Cairo di prendere su di sé gli oneri che spettavano alla potenza
locale passò per l’estromissione dell’Onu. La crisi compì un ulteriore
balzo promuovendo l’Egitto a avamposto della confrontazione. Con il
ritiro dei caschi blu, i rapporti fra Egitto e Israele tornarono quelli che
erano prima dell’invasione tripartita del 1956. Occupando la posizione
di Sharm-el-Sheikh, nell’estremità meridionale del Sinai, dove avevano
appunto stazionato le truppe dell’Onu, l’Egitto era in grado di reim-
porre il blocco alle navi israeliane per lo stretto di Tiran.
La garanzia di accesso ai porti del Mar Rosso era il solo successo tan-
gibile che Israele aveva ricavato dall’intervento nel conflitto del 1956 a
fianco di Francia e Gran Bretagna, dopo che gli Stati Uniti gli avevano
imposto di evacuare il Sinai, e Israele non era evidentemente disposto
a vedersi privato, anche per ragioni di principio, e non solo di sicurez-
za, di quel vantaggio. Con Israele risolutamente appoggiato e protetto
dagli Stati Uniti e l’Egitto che aveva ormai stabilito una relazione pri-
vilegiata con l’Urss, la crisi aveva anche una fin troppo esplicita dimen-
sione internazionale che riproduceva gli schieramenti della guerra fred-
da. Non era pensabile che Usa e Urss si potessero trovare dalla stessa
parte come nel 1956 contro il revanscismo coloniale postdatato di Lon-
dra e Parigi. L’unica via d’uscita poteva essere la non dissimulata vo-
lontà dell’Egitto – o quanto meno di una parte del gruppo dirigente egi-
ziano – di mantenere aperto il preziosissimo canale con Washington: e

126 a. d. miller, Il nazionalismo siriano come pietra di paragone, in «Politica internazionale»,


1988, n. 7, pp. 21-28.
127 Secondo Heikal, l’Urss preconizzava due cose insieme: l’allarme e la moderazione; il mo-
vimento di truppe poteva anche essere difensivo e non offensivo (m. heikal, Le sphinx et le com-
missaire, Paris 1980, p. 207).

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 39

sul contrastato rapporto Egitto-Stati Uniti si giocheranno infatti le ul-


time congestionate ore prima dello scoppio della guerra vera e propria.
L’attacco preventivo di Israele, nella notte fra il 4 e il 5 giugno, contro
l’aviazione egiziana, semidistrutta a terra negli aeroporti delle città del
Canale, impedì una visita in extremis negli Stati Uniti del vicepresidente
Zakharia Mohieddin, indicato da tutti come il capofila del «partito ame-
ricano» fra i ranghi degli «ufficiali liberi», lo stesso a cui Nasser tra-
smise i poteri quando il 9 giugno drammaticamente annunciò le sue di-
missioni dichiarandosi vinto, salvo fare marcia indietro dopo l’impres-
sionante dimostrazione del popolo del Cairo a suo favore.
Il ruolo degli Stati Uniti si rivelò alla fine determinante. Il governo
americano sostenne senza titubanze Israele durante tutta la crisi, dalla
sua incubazione allo scoppio delle ostilità, ma l’esatta natura dei rap-
porti fra Usa e Israele nella circostanza è controversa. La versione mag-
gioritaria e semiufficiale è che gli Stati Uniti, troppo invischiati, mili-
tarmente e mentalmente, nel Vietnam, furono colti di sorpresa dagli av-
venimenti. Un punto fermo su cui non potevano transigere era quello
della libertà delle comunicazioni marittime. Altri hanno sostenuto la te-
si di una cospirazione fra Usa e Israele128. Le conclusioni di un saggio
molto documentato sono: 1) non ci fu collusione fra Stati Uniti e Israe-
le prima della guerra; 2) quando la guerra scoppiò, il presidente Johnson
e soprattutto il suo segretario di Stato Rusk cercarono sulle prime di ar-
ginarla; 3) Johnson arrivò successivamente a ritenere che la guerra non
fosse più evitabile e che per quello che lo riguardava Israele poteva agi-
re purché da solo. «Il semaforo rosso era diventato giallo, ma non pro-
prio verde»129.
L’Italia era stata sollecitata direttamente soprattutto dalla proposta di
emanare una dichiarazione pubblica e multilaterale a sostegno della libertà
della navigazione ed eventualmente di organizzare un’azione a carattere
internazionale per forzare il blocco del Golfo di Aqaba. Gli Stati Uniti il
23 maggio avevano già solennemente proclamato di considerare il Golfo
di Aqaba una via d’acqua internazionale definendo un blocco delle navi
israeliane «illegale e potenzialmente disastroso per la causa della pace»130.
L’iniziativa avrebbe dovuto evitare il peggio dando a Israele la certezza

128 s. green, Taking Sides: America’s Secret Relations with a Militant Israel, New York 1984 e
a. e l. cockburn, Dangerous Liaison: The Inside Story of the U.S.-Israel Covert Relationship, New
York 1991.
129 w. b. quandt, Lyndon Johnson and the June 1967 War: What Colour Was the Light?, in «The
Middle East Journal», primavera 1992, vol. 46, n. 2, p. 228.
130 «Department State Bulletin», 12 giugno 1967, p. 870.

Storia d’Italia Einaudi


40 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

di non essere isolato: come tale essa venne percepita dagli stati arabi, an-
che se non potevano pronunciarsi apertamente contro la riaffermazione
di un principio di per sé inoppugnabile. Si discuteva se mai su chi doves-
se sottoscrivere quella dichiarazione. Il patrocinio anglo-americano la ren-
deva pregiudizialmente invisa al Cairo. L’Italia lasciò intendere di rite-
nere che «in questo momento una solenne dichiarazione contro il blocco
egiziano sarebbe più utile e avrebbe maggior efficacia se fatta dall’Onu,
che nessuno può accusare di parzialità e di interessi particolari»131. Que-
sta posizione non mancò di essere stigmatizzata dai fedelissimi della Na-
to. Il fatto che il Pci avesse apprezzato, sia pure dopo un dibattito molto
serrato al suo interno, la politica del governo, prestando forse orecchio al-
le pressioni della Cgil132, gettava un’ombra sulla condotta della Farnesi-
na, dove sedeva un Fanfani sotto tiro per le sue critiche alla guerra ame-
ricana nel Vietnam. Un editoriale del «Corriere della Sera» dava il segnale
di un’interpretazione tutta schiacciata sul bipolarismo Est-Ovest: «La VI
flotta americana è la garanzia dell’equilibrio e della sicurezza nel Medi-
terraneo: lo è per tutte le nazioni rivierasche, compreso Israele, compre-
so l’Egitto. Ma la Russia non lo vuole più», e sarebbe appunto l’appoggio
dell’Urss a trasformare le «prepotenze» di Nasser, il «fascismo egiziano»,
in un «vero pericolo»133.
In una simile semplificazione non era dubbia la collocazione dell’Ita-
lia. Ma un acritico allineamento sulle posizioni occidentali dalla parte di
Israele – sia o no Israele il motivo del contrasto – è proprio quanto Fan-
fani non può accettare senza distruggere tutta la trama della sua «poli-
tica mediterranea», con i risvolti di penetrazione economica e di ap-
provvigionamento energetico che, tramite l’Eni, l’hanno connotata.
Contro Fanfani sono schierati i leader moderati della stessa Democra-
zia cristiana e i partiti laici minori. Ma Fanfani si sarebbe trovato in di-
saccordo anche con Nenni, allora vicepresidente del Consiglio, più fer-
mo nella difesa di Israele, anticipando una spaccatura nella sinistra che
avrebbe avuto importanti evoluzioni in futuro134. I comunisti restaro-
no con Fanfani anche a guerra iniziata, quando giudicarono «responsa-
bili» le prime dichiarazioni del ministro degli Esteri, soprattutto se pa-
ragonate con quelle di altri esponenti della maggioranza135, e insistet-

131L’Italia è favorevole a un’azione dell’Onu, in «La Stampa», 4 giugno 1967.


132m. tito, I partiti approvano la politica del governo per il Medio Oriente, in «La Stampa», 8
giugno 1967.
133 Da Nasser ai comunisti, in «Corriere della Sera», 4 giugno 1967.
134 ferrara, La politica estera cit., p. 206.
135 m. ferrara, Salvare la pace, in «l’Unità», 6 giugno 1967.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 41

tero con forza perché l’Italia rimanesse «fuori del conflitto»negando ba-
si militari, porti e appoggi logistici a eventuali interventi armati e di-
chiarando «la sua piena neutralità»136. Il che non impedì all’Italia di
schierarsi quando all’Onu votò per la mozione latino-americana («riti-
ro condizionato» di Israele) e non per quella jugoslava («ritiro incondi-
zionato»)137.
Gli effetti di lunga durata della guerra dovevano rivelarsi molto più
gravi di quanto fosse stato previsto. Forse Israele aveva combattuto per
riaprire le vie marittime o per prevenire un’aggressione, ma di fatto si
trovò a dover gestire un territorio ampliato in modo smisurato, smen-
tendo il principio stesso della spartizione su cui si fondava la legalità in-
ternazionale. La fattispecie anticoloniale applicata al caso della Palesti-
na era paradossalmente più nitida ora che tutta la Palestina del manda-
to inglese era riunificata sotto l’amministrazione di Israele, un’entità
che gli stati arabi giudicavano di per sé estranea e abusiva. Il sottopro-
dotto del conflitto fu appunto l’affermazione dell’Organizzazione per
la liberazione della Palestina (Olp) come rappresentante del popolo pa-
lestinese dei territori occupati (la Cisgiordania e la striscia di Gaza «con-
quistate» da Israele nel giugno 1967) e della diaspora138. Israele poteva
avere interesse a trattare con gli arabi, più reattivi al ricatto dei suoi raid
punitivi e in prospettiva alle sue avances, per un compromesso politico;
ma, come divenne pratica ufficiale dopo le risoluzioni del vertice arabo
di Rabat del 1974, l’Olp era ormai la sola espressione politica abilitata
a parlare a nome dei palestinesi. Il discorso di Arafat all’Assemblea ge-
nerale dell’Onu il 14 novembre 1974 – da una parte la mitraglietta del
guerrigliero e dall’altra il ramoscello d’olivo come impegno di pace –
sancì un trapasso di rappresentatività che aveva in fondo le sue origini
nel passo fatale intrapreso dallo stato ebraico nel 1967 arrivando al Gior-
dano e spingendosi fino al Canale di Suez, anche se il Sinai ai fini della
mitologia sionista non aveva la medesima forza evocativa delle terre che
nella terminologia israeliana venivano chiamate Giudea e Samaria (ed
infatti fu più facile rinunciare ad esso quando si presentarono le condi-
zioni per una «pace separata» con l’Egitto).
I sentimenti che si agitavano sullo sfondo della «minaccia» degli ara-
bi contro lo stato ebraico furono capitalizzati da Israele per fare accet-
tare – anche in Italia – il fatto compiuto dell’invasione e dell’occupa-
zione. Confusi complessi di colpa per le persecuzioni passate a danno

136 Ilcomunicato del Pci sull’«Unità», edizione straordinaria, 5 giugno 1967.


137 graziano, La politica estera cit., p. 150.
138 a. gresh, Storia dell’Olp, Roma 1988.

Storia d’Italia Einaudi


42 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

degli ebrei, tangibili ragioni di solidarietà con un alleato dell’Occiden-


te in un teatro locale di difficile controllo e la crescente identificazione
dello stato ebraico come la sola organizzazione statale democratica del
Medio Oriente in un «mare» di stati islamici autoritari e ostili all’Oc-
cidente erano tutti fattori a favore di Israele. L’opinione pubblica ita-
liana non si differenziò sostanzialmente da quella degli altri paesi occi-
dentali139. Il consenso per Israele fu molto vasto. Le isole di opposizio-
ne furono limitatissime. Mentre Israele eccelleva come nazione che aveva
fatta propria per intero la tradizione del mondo industrializzato, i pae-
si arabi facevano la figura di residuati storici, fatalmente destinati ad es-
sere dominati perché arretrati e fanatici. Il nazionalismo arabo era an-
noverato fra le manifestazioni della rinascita dei popoli colonizzati, ma
valevano molte riserve nei confronti di regimi che pur proclamandosi
socialisti praticavano politiche illiberali e spesso perseguitavano i parti-
ti comunisti locali.
Ci vorranno da un lato le rivendicazioni dell’Olp e dall’altro le peri-
pezie del petrolio innescate dalla guerra del 1973 per smontare una co-
struzione, concettuale e politica, durata tanto a lungo. Israele non ap-
pariva più del tutto «innocente». I meccanismi dell’usurpazione e del
relativo rifiuto da parte degli arabi140 furono meglio compresi. Non sen-
za effetti ambivalenti. Gli arabi non potevano più essere ignorati per-
ché «perdenti» ma se vincevano (l’Opec, l’impennata dei prezzi degli
idrocarburi, l’enorme rendita accumulata presso le petrolcrazie del
Golfo) erano percepiti come un «pericolo». A inquinare ulteriormente
il quadro intervenne la fenomenologia complessa e controversa del ter-
rorismo.
Almeno dal 1970 il movimento palestinese (nella sua interezza o in
alcune sue frange) era uso far ricorso al terrorismo per fini diversi (at-
taccare Israele e gli ebrei, mettere in difficoltà gli stati arabi invisi, at-
tirare l’attenzione del mondo su una questione che rischiava altrimenti
di scomparire, influire sulle trattative per stimolarle o al contrario per
impedirle, ecc.), ma in sostanza come proprio modo specifico – non es-
sendo Stato – di portare avanti una guerra che dal suo punto di vista è
di «liberazione». Negativi sono però gli echi dal momento che i singoli
atti terroristici menomano la libertà e la sicurezza dei paesi occidenta-
li, con le città europee come principale teatro operativo e gli Stati Uni-

139 l. guazzone (a cura di), Fabbricanti di terrore: Discriminazioni antiarabe nella stampa italia-
na, Roma 1986.
140 m. rodinson, Israel et le refus arabe, Paris 1968; trad. it. parziale (Israele e il rifiuto arabo,
Torino 1969) e nuova edizione con aggiornamento (Torino 1975).

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 43

ti come bersaglio diretto o indiretto. Anche l’Italia e gli italiani venne-


ro colpiti. I palestinesi furono penalizzati per una pratica oggettivamente
odiosa anche tenendo conto del torto storico patito: l’occupazione da
parte di Israele di Cisgiordania e Gaza senza titolo a tanti anni dalla
guerra dei sei giorni, oltre che dalla famosa risoluzione 242 che sancisce
la illiceità della conquista di territori con la forza. Per i difensori dello
status quo non c’è quasi distinzione fra l’integrità di Israele e la repres-
sione delle forze antisistema. La sinistra, anche quella di governo, è più
sensibile alle ragioni dei palestinesi. Evidente è anche la preoccupazio-
ne di ambienti politici ed economici non necessariamente progressisti di
non antagonizzare troppo gli Stati arabi nel timore di perdere un mer-
cato prioritario.
Ne deriva l’inconveniente non secondario di una politica estera ver-
so il Medio Oriente che si divarica in due o tre politiche (soprattutto
se si tien conto dell’opposizione, attiva sul piano locale e coinvolta non
di rado, secondo la prassi del parlamentarismo italiano, in voti o mo-
zioni che impegnano anche il governo)141, con centri di irradiazione
pressoché autonomi di volta in volta nei partiti, nei ministeri degli
Esteri e della Difesa o addirittura nei diversi poteri dello Stato. Que-
sta articolazione apparve in tutte le sue potenzialità positive e negati-
ve in occasione della crisi di Sigonella dell’ottobre 1985 dopo il se-
questro in pieno Mediterraneo ad opera di un commando palestinese
di una nave italiana, l’Achille Lauro142, quando gli Stati Uniti inter-
ferirono pesantemente con la nostra sovranità dirottando su una base
italiana l’aereo che trasportava i sequestratori verso una meta norda-
fricana (Tunisi o Algeri) apparentemente con il beneplacito del go-
verno italiano e pretendendo la consegna dei responsabili alla giusti-
zia americana. Nello spazio di poche ore Reagan depose i panni
dell’«aquila ferita» (l’unica vittima a bordo era un americano, anzi un
ebreo americano come stampa e televisione, suggestionate da una pro-
babile discriminazione dei terroristi, dissero con insistenza) e riassunse
quelli del cow-boy o di Rambo. Si potè constatare allora che le linee

141 Santoro dice che non di tre politiche si tratta bensì di «variazioni su un unico tema con-
duttore», che è quello della ridefinizione del ruolo spettante all’Italia (c. m. santoro, L’Italia e il
Mediterraneo, Milano 1988, p. 110).
142 a. cassese, Il caso «Achille Lauro», Roma 1987; f. j. piason, Italian Foreign Policy; The
Achille Lauro Affair, in r. leonardi e r. y. nanetti (a cura di), Italian Politics: a Review, London
1986, vol. I; g. calchi novati, The Case of the Achille Lauro Hijacking and Italo-Arab Relations:
One Policy, Too Many Policies, No Policy?, in «Journal of Arab Affairs», vol. X, autunno 1991, n.
2, pp. 153-79, b. zarmandili, Documenti di un dirottamento. Il caso «Achille Lauro» nei giornali e
in televisione, Roma 1988; g. de rosa, Terrorismo Forza 10, Milano 1987.

Storia d’Italia Einaudi


44 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

di politica estera attraversavano la coalizione di governo e i principa-


li partiti. Tornò di moda il vecchio argomento delle due Italie, l’una
sostanzialmente laica e produttiva, ancorata all’etica weberiana ed al-
la cultura industriale delle grandi democrazie europee; l’altra cattoli-
co-populista e sostanzialmente antindustriale, che nell’«ancoraggio»
mediterraneo troverebbe lo strumento di intermediazioni verso paesi
ritenuti più omogenei o forse meglio assimilabili ad una rappresentanza
per il tramite dell’Italia143. Lo scontro, che, fatto inedito nella storia
della Repubblica, provocò una crisi di governo per una questione di
politica estera, si personalizzò fra Craxi e Spadolini, rispettivamente
presidente del Consiglio e ministro della Difesa, rispettando un giuo-
co delle parti che assegnava al Pri, il partito di Spadolini, le funzioni
di portavoce nel nostro mondo politico dei desiderata degli Stati Uni-
ti. Ma con Craxi, socialista, era schierato un democristiano, il mini-
stro degli Esteri Andreotti, quantunque con tutte le sfumature di dif-
ferenza che sono implicite nei temperamenti di un uomo politico di-
retto e determinato come Craxi e del più sottile Andreotti, portato
piuttosto alle mediazioni o, con un’interpretazione meno benevola, al
compromesso.
Questa trasposizione dei motivi di contrasto sul piano dei partiti o
dei loro massimi dirigenti può persino far dubitare della vera natura del-
la crisi. La politica estera non scade a causa scatenante di un confronto
che riguarda anzitutto la procellosa coesistenza nel governo di forze po-
litiche che hanno disegni strategici diversi e ambizioni antitetiche, non
tanto sulla politica estera quanto sugli assetti interni e sulla gestione del
potere? L’affare dell’Achille Lauro, il dramma dei palestinesi, la lotta al
terrorismo possono essere pretesti. Più difficilmente lo stesso può dirsi
di un argomento come il rapporto con gli Stati Uniti, faro positivo o ne-
gativo di tutta la nostra politica. Lo scontro ha il valore di una svolta
«geologica»144.
Scatta qui il riflesso condizionato dell’autoaffermazione dell’Italia
come potenza media che è uno dei ritrovati caratterizzanti della leader-
ship di Bettino Craxi, funzionale anch’essa in ultima analisi all’asser-
zione del Psi come forza dirigente. In passato si era scoraggiata ogni «po-
litica nazionale».

143 a. armellini, Equilibrio globale e fattori locali, in «Politica internazionale», 1988, n. I,


p. 11.
144 c. m. santoro, La politica estera di una media potenza. L’Italia dall’Unità ad oggi, Bologna
1991, p. 19.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 45

Sigonella (e prima di Sigonella il Libano e dopo Sigonella il Golfo) erano in-


vece la rottura definitiva di questo tabu. Si affermava, infatti, e per iniziativa dei
socialisti: che essere atlantici non significava dire automaticamente di sì agli Stati
Uniti; che, anzi, una corretta strategia dell’Occidente doveva partire non dalla
uniformità, ma dalla possibile diversità delle opinioni e delle proposte; che, in ba-
se a tali presupposti, il nostro paese aveva il diritto, anzi il dovere, di rivendicare
e di praticare una propria politica estera, a partire dai propri interessi nazionali e
dalla propria capacità di intervento e d’influenza; che, infine, la nuova proiezione
esterna dell’Italia passava logicamente attraverso l’utilizzo di tutte quelle strate-
gie politiche, economiche ed anche militari intemazionalmente consentite e ad es-
sa funzionali145.

Non è sempre facile coordinare il superattivismo in campo inter-


nazionale con il postulato assoluto dell’alleanza con gli Stati Uniti,
a cui Craxi d’altronde era intenzionato a proporsi come partner an-
cora più affidabile della Democrazia cristiana, scelta fin dal 1947 co-
me interlocutore principe. Ma Craxi ritiene di essersi meritato una
volta per tutte la fiducia del presidente Reagan accettando, a prez-
zo di una lacerazione irreparabile a sinistra, di ospitare i missili in-
termedi americani in Italia e pensa che sia appunto questo rapporto
fiduciario a permettere all’Italia di avere su singoli problemi proprie
opinioni e di prendere iniziative non perfettamente allineate. Ve-
nendo meno al principio dell’autonomia nazionale, si correrebbe il
rischio di delegittimare le altre decisioni. Il Psi sta molto attento a
non lasciare al solo Partito comunista di interpretare il senso dello
Stato davanti alle obbligazioni automatiche di un sistema troppo con-
dizionato dal bipolarismo. Era stato un socialista, d’altronde, ad af-
fermare che la Nato non offriva più un riparo totale e una garanzia
assoluta di difesa per il nostro paese146: l’Italia, al pari degli altri
paesi del Mediterraneo, risente «della dicotomia tra importanza che
l’area ha assunto nel contesto dei loro problemi di sicurezza e l’im-
possibilità (o se si vuole l’incapacità) di farvi fronte attraverso i mec-
canismi dell’Alleanza atlantica, l’unica organizzazione politica e mi-
litare occidentale in grado di esprimere un minimo di collaborazio-
ne e di consenso»147.

145 Welcome to Vic Club, in «Economist», 7 marzo 1987, p. 18.


146 Dichiarazione del ministro della Difesa Lagorio, Camera dei deputati, Commissione Di-
fesa, 13 ottobre 1982.
147 m. cremasco, Evoluzione geostrategica e interessi nazionali all’interno della Nato, in «Poli-
tica internazionale», 1983, n. 9, p. 65.

Storia d’Italia Einaudi


46 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

5. La politica mediterranea della Cee.

Il processo di unificazione europea è destinato in linea di principio


ad assorbire in tutto o in parte la politica estera degli Stati membri. Se
le questioni e le relazioni attinenti al girone «superiore» del sistema in-
ternazionale sono rimaste di fatto patrimonio dei singoli governi o di
pertinenza di altre istanze associative (la Nato, la Csce, ecc.), i temi co-
loniali o postcoloniali sono entrati fin dall’inizio nella sfera di compe-
tenza della Comunità economica europea. Al momento della sua costi-
tuzione, la Cee era addirittura estesa alle «dipendenze» oltremare dei
paesi che firmarono il trattato di Roma. Nel caso dell’Italia, ciò valeva
per la Somalia, già avviata sulla strada dell’indipendenza per effetto del
mandato a tempo deciso dall’Onu.
L’idea di un qualche collegamento istituzionale o operativo fra l’Eu-
ropa e i paesi extraeuropei più immediatamente gravitanti nella sfera
geopolitica dell’Europa – e quindi anzitutto i paesi mediterranei e afri-
cani – era coeva alla stessa nascita della Cee. Fra i compiti indicati a suo
tempo da Robert Schuman nel discorso del 9 maggio 1950, che propo-
se a tutte le democrazie europee di unirsi per dar vita a una comunità
politica e economica, figurava anche la cooperazione con i paesi dell’Afri-
ca a cominciare da quelli del Mediterraneo148. Si trattava naturalmen-
te di un programma di lungo periodo. Il fatto che molti dei territori in
questione fossero allora possedimenti coloniali degli Stati europei, da
un lato rendeva più vincolante l’impegno ma dall’altro lo condizionava
agli sviluppi della decolonizzazione e intanto ai pregiudizi dell’antico-
lonialismo. Piani più o meno limpidi ispirati all’Eurafrica – rivolti oltre
che al Mediterraneo a tutto il continente africano – furono elaborati an-
che in Italia149. Il sottinteso era che un’associazione attuata prima

148 g. bersani, La prospettiva euro-mediterranea, Bologna 1989, p. 27.


149 «In definitiva l’ipotesi eurafricana metteva l’accento da un lato sulla solidarietà europea
come precondizione al futuro incremento dei rapporti con l’altro continente; dall’altro sulla pos-
sibilità che a tale rafforzarsi del sentimento di unità culturale e economica fra Europa e Africa fa-
cesse seguito la possibilità di considerare come un insieme compatto il territorio di quei paesi che
gravitavano sul Mediterraneo – anche se il messaggio eurafricano era lanciato anche alle nazioni
della fascia subtropicale» (bagnato, Vincoli europei cit., p. 72). L’Accademia mediterranea di Pa-
lermo promosse nel giugno 1951 il primo convegno internazionale di studi mediterranei (g. allia-
ta, L’unità mediterranea ed il Primo Convegno internazionale di studi mediterranei, Palermo 1952).
Sempre a Palermo nel 1952 e 1953 si tennero due convegni sul medesimo tema a cura del Centro
per la cooperazione mediterranea. Fra gli interventi pubblicistici che si succedettero in quegli an-
ni cfr. fra gli altri c. ambrosini, La valorizzazione dell’Africa e l’Europa, in «Civitas», marzo 1952,
pp. 21-28; R. ciasca, L’Italia e il Medio Oriente, in «Civitas», ottobre 1952, pp. 19-24; f. m. do-
minedò, Europa e Africa, in «Civitas», giugno 1952, pp. 25-33; f. s. caroselli, La sorte dell’Afri-
ca, in «Rivista di studi politici internazionali», gennaio-giugno 1953, pp. 85-90; e, centrati sull’Afri-

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 47

dell’indipendenza della controparte africana avrebbe potuto probabil-


mente scongiurare la «secessione» delle colonie dalle rispettive madre-
patrie o attutirne le conseguenze. L’Italia non ebbe peraltro molta ri-
spondenza negli alleati, anche se saltuariamente fu invitata a riunioni di
coordinamento fra le potenze coloniali150.
La perdita delle colonie, che erano i territori con cui sarebbe stata
almeno concepibile una integrazione, e d’altra parte l’obbligo di ac-
compagnare all’indipendenza la Somalia, escludevano per l’Italia so-
luzioni sul piano bilaterale. L’Italia rientrava però nel giuoco se l’as-
sociazione nell’una o nell’altra forma fosse stata perseguita dall’Euro-
pa in formazione. Anche su questo fronte, comunque, l’Eurafrica nella
sua versione più rigorosa era irrealizzabile. L’indipendenza – nel 1956,
prima della conclusione dell’iter per il varo della Comunità – di Ma-
rocco e Tunisia e l’insurrezione nazionalista in Algeria mostravano che
il rapporto poteva essere immaginato solo su un piede di parità fra en-
tità sovrane. Il sistema coloniale durò di più nei territori dell’Africa
nera. La Francia fece del problema dell’Aof e dell’Aef, i due grandi
raggruppamenti in cui erano organizzati i suoi possedimenti dell’Afri-
ca occidentale ed equatoriale, una condizione della sua adesione alla
Comunità. Il trattato di Roma conteneva così un intero capitolo de-
dicato a disciplinare le relazioni fra l’Europa e i 18 territori africani
che a vario titolo erano amministrati da uno dei 6 stati firmatari: per
lo più colonie francesi, ed inoltre la Somalia e tre possedimenti del Bel-
gio (Congo belga, Ruanda, Burundi). A parte erano considerati, anche
in continenti diversi dall’Africa, i territori o dipartimenti d’oltrema-
re di Francia e Olanda.
Quando anche le nazioni dell’Africa nera ebbero conseguito la lo-
ro indipendenza (molte, fra cui la Somalia, nel 1960, passato alla sto-
ria come l’«anno dell’Africa»), la Cee negoziò con i nuovi stati un rap-
porto organico che prese la forma della convenzione. Era la necessa-
ria trasformazione giuridico-istituzionale delle relazioni con le ex
colonie: «La Comunità europea veniva ad affiancare la presenza do-
minante delle ex metropoli senza sostituirle e pertanto a consolidare

ca nell’immediato dopoguerra, r. cantalupo, Eurafrica e socialismo, in «Affrica», 15 febbraio 1948,


pp. 33-35 e g. consiglio, Avvenire dell’Affrica, in «Affrica», 15 marzo 1949, pp. 61-62.
150 Nel 1947 si era parlato di un «sindacato» fra le potenze europee per l’Africa e l’Italia si
era candidata a farne parte (sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi cit., pp. 98-99). Altri sondaggi fu-
rono effettuati in direzione della Francia (Collaborazione in Africa, in «Relazioni internazionali»,
1948, n. 13-14, p. 279). L’Italia fu invitata effettivamente ad una conferenza indetta a Nairobi
nel 1951 per iniziativa della Gran Bretagna e del Sudafrica.

Storia d’Italia Einaudi


48 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

un controllo neocoloniale di cui esse costituivano il perno»151. Finché


l’Europa fu a Sei, le intese con i paesi africani (diventati 19 quando ai
Sama o Stati africani e malgascio associati si aggiunse Mauritius) fu-
rono note come Convenzioni di Yaoundé, dalla capitale del Camerun
in cui avvenne la firma. In sostanza, la Cee da una parte e i singoli Sta-
ti associati dall’altra costituivano altrettante zone di libero scambio: i
prodotti dei paesi africani, con qualche limitazione per i prodotti agri-
coli detti «sensibili», avevano libero accesso sul mercato comune eu-
ropeo e i prodotti europei godevano di condizioni privilegiate sui mer-
cati africani. L’Europa stanziava inoltre un programma di aiuti (il Fed
o Fonds européen de développement) per finanziare progetti di svi-
luppo nei paesi africani.
Tutta la discussione o polemica sul neocolonialismo trovava alimen-
to proprio nella sistemazione delle relazioni della Cee con gli ex posse-
dimenti africani. Le preferenze accordate dall’Africa ai prodotti euro-
pei erano causa delle riserve degli Stati Uniti e di altre potenze indu-
striali sulla base della clausola della nazione più favorita e dei principî
liberisti del Gatt. L’Europa (in pratica la Francia) difese ad oltranza que-
sto apparato ritenendolo essenziale per la propria politica «esterna» e
indicandolo anzi, per il suo carattere articolato e di reciprocità, a mo-
dello per relazioni Nord-Sud più stabili e meno antagonistiche. All’in-
terno della Cee si confrontavano due scuole: quella dei «regionalisti» (a
favore di sistemi preferenziali per aree specifiche) e quella dei «mon-
dialisti». Germania e Olanda nutrivano molte riserve su uno sbilancia-
mento verso l’Africa a spese dell’America Latina e dell’Asia sud-orien-
tale, aree molto più allettanti in assoluto e sulla base dei loro specifici
interessi; l’Italia si trovò normalmente a condividere le posizioni fran-
cesi, benché si lamentasse per gli scarsi «ritorni»152.
L’allargamento della Cee alla Gran Bretagna comportò un profondo
rimaneggiamento della politica di cooperazione. Alle colonie o ex colo-
nie inglesi doveva essere assicurato un pari trattamento? E come si sa-
rebbe conciliato il sistema delle preferenze Cee con il Commonwealth?
Alla fine fu trovato un compromesso, che escludeva dalla procedura del-

151 l. magrini, Aperture e limiti della politica di sviluppo, in «Politica internazionale», 1978,
n. 6-7, p. 84.
152 Il Fed distribuiva gli aiuti su progetti che di fatto beneficiavano le imprese ed il lavoro dei
vari paesi membri consentendo una sommaria valutazione del rapporto fra fondi elargiti e com-
messe assegnate. Analoghe valutazioni si facevano con riferimento al commercio. Naturalmente la
Francia conservava una posizione di assoluta preminenza in tutti i suoi ex possedimenti; la Soma-
lia era una ben modesta consolazione per l’Italia.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 49

le convenzioni i grandi Stati asiatici ma includeva tutti i paesi dell’Afri-


ca a sud del Sahara disposti ad aderire e gli ex possedimenti coloniali
degli Stati membri di due zone del Terzo Mondo in qualche modo com-
parabili all’Africa: i Caraibi e il Pacifico. Nacque così la prima Con-
venzione di Lomé, firmata nella capitale del Togo il 28 febbraio 1975,
successivamente rinnovata con scadenze quinquennali: con i paesi eu-
ropei, saliti nel frattempo a 12, sono associati 70 paesi Acp (africani, ca-
raibici e del Pacifico). Le diffidenze per il neocolonialismo erano in par-
te cadute: la Guinea, che era rimasta fuori dalle Convenzioni di
Yaoundé, partecipò a Lomé, ma le ex colonie portoghesi mantennero
per qualche anno le distanze. Il rapporto Cee-Acp prevede, oltre alle in-
tese commerciali e al fondo di aiuti, speciali condizioni per garantire i
paesi del Terzo Mondo dal declino della rendita da importazione dei lo-
ro prodotti agricoli (Stabex) o minerari (Sysmin), un accordo per la coo-
perazione industriale e un’assemblea paritetica. I dubbi sull’efficacia di
un sistema di associazione che non mette in comunicazione fra di loro i
paesi del Sud, se non per la concertazione necessaria al negoziato con la
Cee, e che perpetua la loro dipendenza dai prodotti primari non sono
stati del tutto dissolti, il vantaggio relativo dei paesi africani rispetto ad
aree del Terzo Mondo più dinamiche si è gradualmente eroso, ma d’al-
tra parte il quadro Cee-Acp ha ormai una sua istituzionalizzazione, ai
vari livelli d’intervento, e ha una oggettiva forza d’attrazione. Il corri-
spettivo dovrebbe essere una maggiore responsabilità dell’Europa per
lo sviluppo dell’Africa, di gran lunga il blocco più importante nell’am-
bito degli Acp.
I paesi della riva sud del Mediterraneo sono rimasti fuori dell’asso-
ciazionismo di Yaoundé e Lomé. A parte le tappe non indolori della de-
colonizzazione, nel Mediterraneo incideva il conflitto arabo-israeliano
con le sue ripercussioni d’ordine generale. La Cee tardò anche ad as-
sorbire i paesi europei del Mediterraneo candidati, con cui l’Italia ave-
va nello stesso tempo motivi di affinità geopolitica e di concorrenza sul
piano commerciale e degli aiuti stanziati per le aree depresse della Co-
munità. Grecia, Spagna e Portogallo restarono ai margini per tutto il pe-
riodo in cui furono governati da regimi autoritari. Nella transizione de-
mocratica l’ammissione alla Cee giuoco una parte importante e la loro
affiliazione servì anche in funzione della stabilità postfascista. Lo spo-
stamento verso sud del baricentro della Cee aumentava la pressione in
direzione del Mediterraneo ma non eliminava le difficoltà dell’opzione
mediterranea. Fra i paesi membri fu soprattutto l’Italia a caldeggiare
l’opportunità politica ed economica di una collaborazione equilibrata
con i Pvs del Mediterraneo e del Medio Oriente, senza meritare però

Storia d’Italia Einaudi


50 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

l’attenzione necessaria della Comunità153, al cui interno si facevano sen-


tire le riserve e i freni dei «globalisti» (Gran Bretagna, Olanda, la stes-
sa Germania).
Prescindendo qui dai paesi europei e da Israele, i rapporti della Cee
con gli Stati arabi sono andati avanti su due binari: dichiarazioni di ca-
rattere generale valide per tutto il Mediterraneo e accordi bilaterali. Nel
1972 la Cee enunciò con una certa enfasi il proposito di varare un ac-
cordo di «cooperazione globale» con i paesi mediterranei nel quale far
rientrare le varie iniziative settoriali. Il fine ultimo era un’«area medi-
terranea di libero scambio». Tentativi di sintesi parziale furono da un
lato gli accordi con i tre paesi del Maghreb (Algeria, Marocco e Tuni-
sia) del 25 aprile 1976154 e dall’altro gli accordi con i paesi del Mashrek
(Egitto, Giordania, Libano e Siria) del 18 gennaio 1977. Gli accordi era-
no abbastanza simili fra di loro e coprivano quattro materie principali:
commercio, cooperazione finanziaria, cooperazione generale e istitu-
zioni. Elemento comune a tutti è la durata illimitata. Anche nei casi in
cui gli accordi sono ricondotti ad una denominazione «regionale» (Ma-
ghreb, Mashrek), e malgrado l’intento conclamato di stimolare una mag-
giore integrazione economica dell’intera area, essi in realtà sono costi-
tuiti «da una somma di rapporti bilaterali»155. Al più c’è un paralleli-
smo che moltiplica le stesse soluzioni. In un memorandum del 4 ottobre
1982 sulla politica di sviluppo approvato dal Consiglio e dal Parlamen-
to europeo si riconosce che la Comunità non è stata in grado di dare ai
vari accordi mediterranei «la solidità e il valore politico di un contratto
collettivo» ma si ribadisce il proposito di superare le contraddizioni e
sviluppare le complementarità allo scopo di «andare al di là della politi-
ca di aiuto allo sviluppo e della politica commerciale e tendere, confor-
memente alla sua [della Comunità] responsabilità storica, a creare le con-
dizioni di una pace senza la quale non può esservi prosperità né sicu-
rezza per alcuno»156. Nella sua azione più propriamente «politica», la
Cee continuò ad oscillare fra una concezione del Mediterraneo come zo-
na di contatto fra aree di diversa appartenenza (ed è chiaro che in que-
sta luce paesi come la Jugoslavia e l’Albania per tutto il periodo della
contrapposizione Est-Ovest, ma anche la Turchia, sfuggivano ad ogni

153 p. foresti, Globalismo e regionalismo nella cooperazione europea, in «Politica internazio-


nale», 1983, n. 9, pp. 92-102.
154 l. troiani, La cooperazione mediterranea procede, in «Politica internazionale», 1976, n. 4,
pp. 7-n.
155 bersani, La prospettiva cit., p. 28.
156 «Politica internazionale», 1982, n. 11-12, pp. 190-91.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 51

ipotesi di associazione) e una prospettiva che identifichi invece il Me-


diterraneo essenzialmente come il luogo privilegiato della cooperazione
fra Europa e nazione araba in una prospettiva di progressiva conver-
genza del mondo sviluppato con le istanze più aperturistiche dei non al-
lineati. In questo senso andava anche la battaglia di alcuni governi ara-
bi, di Tunisia e Algeria soprattutto, sostenuti in ambito europeo da Mal-
ta e con minore trasporto dall’Italia, per estendere le intese e le logiche
di sicurezza e cooperazione della Csce dall’Europa al Mediterraneo157.
Il tentativo più organico di dare una configurazione complessiva al-
la politica mediterranea della Cee con riguardo ai paesi arabi, «facendo
della stabilizzazione politica della regione mediorientale una delle con-
dizioni per l’organizzazione della interdipendenza economica»158, fu il
Dialogo euro-arabo (Dea), che sembrò aprire una politica nuova – «il
dialogo avrebbe dunque per obiettivo di neutralizzare l’avversario rea-
le o supposto presumendo interessi comuni più importanti degli inte-
ressi divergenti»159 – ma che finì per scontrarsi con le incomprensioni
e gli equivoci di due mondi malgrado tutto contrapposti160.
L’occasione fu la crisi petrolifera seguita alla guerra del Kippur del
1973. L’attacco coordinato di Egitto e Siria per recuperare i territori
occupati da Israele nel 1967 ebbe un successo solo parziale, ma il riat-
traversamento del Canale di Suez fu salutato come una rivincita; Sadat
giudicò che l’«onore» degli arabi – dopo tante sconfitte – era stato ri-
scattato161. Si resero possibili i primi accordi di disimpegno sul terreno
negoziale con la mediazione degli stati Uniti, prologo della futura pace
separata di Camp David. La guerra innescò un clamoroso rialzo dei prez-
zi del petrolio dando l’impressione al mondo intero che l’epoca dell’ener-
gia a basso costo fosse finita per sempre. I paesi europei furono colpiti
direttamente: l’Olanda subì anche un embargo totale nelle forniture,
mentre gli altri membri della Cee ebbero trattamenti diversificati. La
crisi energetica obbligò le forze politiche italiane e il governo a un’at-
tenta valutazione degli interessi italiani ed europei nell’ambito del rap-

157 Il testo della dichiarazione sul Mediterraneo in «Relazioni internazionali», 1975, n. 32-
33, p. 809. La Csce è la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
158 m. dassu e m. c. ercolessi, La politica europea in Medio Oriente, in id., La crisi del Medio
Oriente, Milano 1984, p. 238.
159 b. khader, Una cooperazione da costruire, in «Politica internazionale», 1981, n. 11-12,
p. 71.
160 id., Coopération euro-arabe, Louvain-la-Neuve 1982; j.-p. sebord, D’un deuxième monde à
l’autre: essai prospectif sur l’Europe du Sud et le monde arabe, Paris 1977; j. bourrinet (a cura di),
Le dialogue euro-arabe, Paris 1979.
161 d. frescobaldi, La sfida di Sadat, Milano 1977.

Storia d’Italia Einaudi


52 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

porto Nord-Sud. La novità era l’aumento dei prezzi, ma più ancora la


compattezza del blocco dei produttori; solo che la corsa all’aumento del-
la produzione avrebbe presto riproposto tensioni e rivalità. Il petrolio162
diventava il simbolo e il pegno del recupero di forza da parte degli sta-
ti del Terzo Mondo valorizzando al massimo le loro risorse per uscire
dal loro stato di inferiorità così come pochi giorni prima era stato po-
stulato dalla Conferenza dei paesi non allineati ad Algeri163.
Le basi del dialogo furono gettate fra il vertice arabo di Algeri del
novembre 1973 e quello europeo di Copenhagen del dicembre dello stes-
so anno164. La paura di restare senza petrolio spingeva l’Italia e gli altri
paesi Cee a scoprire l’interdipendenza. L’economia suppliva alle insuf-
ficienze della politica165. L’approccio delle due parti al dialogo, qualco-
sa di più di un colloquio ma meno di un negoziato, era ovviamente di-
verso: gli europei pensavano alla sicurezza degli approvvigionamenti di
idrocarburi, gli arabi avevano in mente la Palestina ed anche sulla que-
stione del petrolio volevano politicizzare l’eventuale accordo. Il fine ul-
timo era un quadro di riferimento che sottraesse le relazioni euro-arabe
alla precarietà e al conflitto realizzando un’integrazione capace di fare
dei paesi gravitanti nel Mediterraneo un aggregato di forza pari alle su-
perpotenze: «Gli obiettivi della solidarietà euro-araba devono ingloba-
re il problema della Palestina (obiettivo politico degli arabi) e quello del
petrolio (obiettivo economico degli europei) e nello stesso tempo supe-
rarli»166. Era compatibile una siffatta ipotesi con gli schieramenti di un
sistema internazionale diviso? E come si sarebbe comportato Israele nel
nuovo contesto?
Un primo siluro contro il Dea venne dagli Stati Uniti, contrarissimi
a una intesa euro-araba sul petrolio. Il contrasto Usa-Cee sulla interme-
diazione fra i produttori e i consumatori veniva in piena luce. Gli Stati
Uniti avevano il duplice vantaggio di essere l’unica potenza industria-
lizzata con una rilevante produzione di petrolio e di importare dal Me-
dio Oriente solo una minima parte del fabbisogno. La Nato dichiarò il
petrolio una questione strategica che non poteva essere decisa fuori del-
le sue istanze, e quindi senza il consenso di Washington, e l’Europa fu

162 n. sarkis, Le petrole à l’heure arabe, Paris 1975.


163 Gli atti della Conferenza di Algeri in Noi, non allineati, Milano 1974.
164 «Oriente moderno», LIII (1973), pp. 911-17.
165 f. de la serre, L’Europe des Neuf et le conflit israélo-arabe, in «Revue française des scien-
ces politiques», agosto 1974, pp. 802-3.
166 b. khader, La Cee e il conflitto arabo- israeliano: bilancio di un decennio (1973-1983), in
«Politica internazionale», 1983, n. 9, p. 124.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 53

costretta a togliere il petrolio dall’agenda del Dialogo. Gli Stati Uniti si


affrettarono a istituire un foro di consultazione e concertazione fra i
paesi consumatori di petrolio (l’Agenzia internazionale per l’energia)
che, pur senza mai acquisire una vera autorità, e senza l’adesione della
Francia, confermò quella divisione fra Nord e Sud che il Dialogo euro-
arabo si sforzava invece di colmare. L’Italia e gli altri paesi Cee, come
si potè rilevare anche dopo la dichiarazione di Venezia del giugno 1980
accolta con irritazione a Washington, non furono mai disposti a porta-
re fino in fondo il confronto con il grande alleato. L’altro motivo di con-
trasto che ostacolò il decollo del Dea fu la riluttanza della Cee ad ac-
cettare l’ammissione al tavolo dei negoziati di una delegazione dell’Olp
che avesse una fisionomia a sé. Per consentire ai palestinesi di prender
parte al negoziato, lasciando impregiudicata la questione del riconosci-
mento dell’Olp, fu escogitata la formula di un dialogo per «gruppi» o
per «parti»: la Cee e la Lega araba.
Malgrado la relativa celerità con cui venne avviato il meccanismo ne-
goziale (la prima riunione si svolse al Cairo nel giugno 1975), fino alla
convocazione per la prima volta nel maggio 1976 a Lussemburgo della
Commissione generale, i progetti più ambiziosi si dispersero nei tecni-
cismi delle singole materie. «Avendo eliminati i centri di interesse più
sensibili, petrolio e investimento dei petrodollari e problemi annessi, il
Dialogo euro-arabo è diventato quasi senza oggetto»167. Quanto meno,
il Dialogo aveva abbandonato il principio del co-sviluppo ed era rien-
trato nell’alveo di un progetto di cooperazione tradizionale senza met-
tere in causa i meccanismi dello scambio ineguale168. Il memorandum
adottato nel 1975 evidenziava l’interesse reciproco alla cooperazione:
Nel settore economico, in particolare, il Dialogo mira ad instaurare una coope-
razione atta a creare le condizioni fondamentali dello sviluppo del mondo arabo nel
suo insieme ed a ridurre il divario tecnologico che separa i paesi arabi da quelli eu-
ropei [...] L’interlocutore europeo dispone, dal canto suo, di un immenso potenzia-
le nei settori della tecnologia, delle attrezzature e dei servizi, mentre l’interlocuto-
re arabo possiede abbondanti risorse prime, nonché considerevoli risorse umane e
finanziarie.

Si discusse in appositi gruppi di lavoro di industrializzazione, infra-


struttura, sviluppo agricolo, cooperazione finanziaria, commercio, coo-
perazione scientifica, questioni culturali e sociali. Erano pur sempre in
gioco problemi «maggiori» come la protezione degli investimenti, un ac-

167 id., Una cooperazione cit., p. 74.


168 id., Il dialogo euro-arabo come alternativa alla dipendenza, in «Politica internazionale», 1977,
n. 10, pp. 25-33.

Storia d’Italia Einaudi


54 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

cordo commerciale globale, la tutela della manodopera araba impiegata


nei paesi europei. Le petrolcrazie del Golfo trascinavano con sé i non pro-
duttori ma avevano poi interessi divergenti non solo sul petrolio ma an-
che sullo scambio di materie prime contro tecnologia. L’enorme poten-
ziale finanziario dell’area mediorientale restava in effetti sottoutilizzato
per il grado di sviluppo insufficiente delle infrastrutture di molti paesi pro-
duttori (solamente Iraq e Algeria avevano una capacità di assorbimento
all’altezza delle rendite) e in ultima analisi per la natura feudale e premo-
derna dei regimi arabi che avevano più voce in capitolo (Arabia Saudita
in testa). L’opportunità di sfruttare il boom petrolifero per dar vita a
un’economia produttiva integrata andò perduta. Finito nelle banche oc-
cidentali, quel vero e proprio surplus sarebbe riapparso di lì a una decina
d’anni sotto forma del debito ormai ingovernabile del Terzo Mondo.
Una variante, che poteva anche risultare complementare, fu rappre-
sentata dalla proposta del presidente francese Giscard di aprire un ca-
nale di cooperazione «triangolare» fra Europa, arabi e africani in modo
da far affluire nelle nazioni povere del continente nero una parte della
rendita petrolifera. La Francia si fece promotrice di una conferenza
Nord-Sud che dopo due sessioni preparatorie si riunì a Parigi dal 16 al
19 dicembre 1975: boicottata dall’Urss perché allora Mosca si diceva
non responsabile del sottosviluppo di cui soffrivano i popoli del Terzo
Mondo a causa delle distorsioni operate dall’imperialismo, la Conferenza
rivelò, al pari del Dialogo euro-arabo, che soltanto una decisione politi-
ca di uscire dalle strettoie dei blocchi precostituiti poteva far compiere
ai rapporti Nord-Sud un salto di qualità.
Fra il 1974 e il 1975, si è talora ipotizzato che consolidando qualche iniziale
apertura europea di cui si avvertivano i sintomi, potesse quasi automaticamente svi-
lupparsi un processo a cerchi concentrici che avrebbe determinato un diverso rap-
porto della Cee con tutto il Terzo Mondo, a partire da quell’accordo mediterraneo
globale di cui si era affermata l’esigenza e attraverso nuovi accordi africani cui la
partecipazione di tutti i paesi liberi potesse gradualmente imprimere una connota-
zione sottratta alla dominante postcoloniale: processo che, generando fra le aree una
progressiva interpenetrazione fondata su nuovi equilibri e soggetta alle spinte di al-
cuni paesi trainanti, avrebbe infine inevitabilmente posto su un nuovo piano anche
le relazioni della Cee con tutti i paesi in via di sviluppo e la sua collocazione di fron-
te alla lotta per un nuovo ordine economico internazionale169.

Ma gli europei, non importa quale fosse l’etichetta sotto cui si pre-
sentavano all’appuntamento con i Pvs, risentivano delle preclusioni del
bipolarismo e questo bastava a sospingere i paesi arabi ed in genere il

169 magrini, Aperture e limiti cit., p. 83.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 55

Terzo Mondo verso posizioni rigidamente rivendicative. La politica con-


corrente degli stati europei (Italia, Francia e Spagna su un fronte come
stati mediterranei contro Gran Bretagna, Germania e Olanda ma per al-
tri versi Italia in lizza per l’influenza con la Francia e la Spagna) era acu-
tizzata dalla posta in palio. Delle grandi aree del Terzo Mondo, l’insie-
me dei paesi arabi era il partner più importante della Cee con un volu-
me di interscambio superiore a quello con gli stessi Stati Uniti170. Era
evidente l’interesse dell’Europa a promuovere un vasto progetto di coo-
perazione economica per costituire un’area di sviluppo con cui intensi-
ficare le relazioni171, ma l’Europa non aveva la capacità di rimettere in
causa i meccanismi dello scambio ineguale, e tanto bastò per lasciare i
paesi arabi, con le loro economie basate sulla rendita e sui servizi, nella
loro condizione di «periferia».
Formalmente, il Dialogo euro-arabo si arenò a seguito di Camp Da-
vid e dell’estromissione dell’Egitto dal consesso dei paesi arabi. Ci fu
una lunga parentesi fra il 1978 e il 1980. La dichiarazione adottata dal-
la Cee nel 1980 a Venezia durante la presidenza italiana, in cui si rico-
nosceva il diritto dell’Olp ad essere associata ai negoziati per la pace nel
Medio Oriente, restò un fatto isolato. Allorché il negoziato riprese, nel
dicembre 1980, le condizioni erano cambiate172. Anche se l’episodio
aveva probabilmente altre motivazioni, la morte del delegato dell’Olp
nella capitale belga, Naim Khader, principale artefice del Dialogo, as-
sassinato a Bruxelles il 1° giugno 1981, suonò come un epitaffio. La dis-
sociazione fra le finalità a breve termine dei paesi europei e quelle di
lungo periodo degli arabi risaltò in tutta la sua evidenza. Nessuna ri-
sposta credibile ebbe l’esigenza di alcuni paesi arabi (l’Algeria?) di non
farsi integrare senza condizioni nel piano americano. Certamente gli ara-
bi avevano forzato la mano per fare del Dea un’arma di pressione su e
contro Israele, ma d’altro canto erano rimasti delusi proprio dalla non
volontà dell’Europa di assumere «il suo legittimo ruolo nella politica in-
ternazionale»173. I fatti del 1973 avevano spinto i paesi sviluppati a ri-

170 p. g. donini, Il dialogo euro-arabo non serve più?, in «Politica intemazionale», 1988, n. 6,
pp. 69-75 e in particolare la tabella 1 a p. 70. Nel 1974 il mondo arabo partecipava alle importa-
zioni della Cee per l’11,8 per cento contro l’8,3 degli Usa (nel 1979 per il 9,2 contro 7,8) e alle
esportazioni della Comunità per il 4,5 contro 5,9 degli Usa (nel 1979 per il 6,9 contro 5,9).
171 g. luciani, Un’ipotesi da realizzare, in «Politica internazionale», 1977, n. 10, p. 28.
172 L’allargamento della Cee ai paesi mediterranei mutava i dati strutturali dell’interdipen-
denza fra Cee e mondo arabo (r. taylor, Gli effetti per i paesi del bacino mediterraneo, in «Politica
internazionale», 1981, n. 3, pp. 41-54).
173 i. a. obaid, Political Preconditions for Cooperation with Western Europe, in e. volker (a cu-
ra di), Euro-Arab Cooperation, Nijhoff 1976, pp. 171-76.

Storia d’Italia Einaudi


56 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

pensare gli usi dell’energia con politiche di conversione e di risparmio e


i paesi arabi, come l’Opec, videro oggettivamente ridotta la loro forza
contrattuale in conseguenza del minor peso sul mercato mondiale del
petrolio174. La Cee, come osserva Pier Giovanni Donini, «inneggiava
alla cooperazione, ma quando si è profilata la possibilità di sostituire,
sia pure parzialmente, gli idrocarburi forniti dai paesi arabi con impor-
tazioni da fonti extra Opec, l’interesse per tale cooperazione ha comin-
ciato a declinare rapidamente»175. D’altronde, anche accettando di spo-
stare piuttosto l’attenzione sui problemi economici, l’atteggiamento de-
gli europei era ambiguo: effettivamente, era incongruo «parlare di
petrolio senza discuterne», mentre «dopo tutto, è il petrolio che ha da-
to vita al dialogo»176 ed è il petrolio, come contropartita della tecnolo-
gia, di attrezzature e della formazione, il punto di forza di un eventua-
le accordo euro-arabo. Va ricordato che l’Europa occidentale all’inizio
del decennio ottanta dipendeva dal petrolio mediorientale per l’84 per
cento di tutto il petrolio importato (contro il 76 per cento del Giappo-
ne e il 19 degli Stati Uniti).
La quota araba delle importazioni italiane di petrolio scese al 17 per
cento nel 1982 e al 14 nel 1985, con una contemporanea riduzione del-
le nostre esportazioni sui mercati arabi dal 18 per cento del 1981 al 15
nel 1982-83 e all’11 nel 1985. La dipendenza dal Medio Oriente am-
monta complessivamente al 27 per cento. Nel 1976 la stessa Fiat ricor-
se a capitali libici (415 milioni di dollari) per far fronte a un momento
di difficoltà. Invece dell’integrazione a livello di Nord e Sud, il trend an-
dava però piuttosto nel senso di un più elevato interscambio all’interno
di aree omogenee e quindi, per l’Italia, nella Cee e nell’area capitalista.
Anche nel Mediterraneo l’integrazione procede per fasce orizzontali,
ma le complementarità sul versante arabo sono molto più lente di quan-
to avvenuto per una lontana tradizione storica sul versante europeo, sa-
crificando le prospettive verticali.
L’Italia si è fatta promotrice a più riprese di progetti di cooperazio-
ne mediterranea, anche sotto forma di conferenze istituzionalizzate. La
Francia ha privilegiato il settore occidentale del Mediterraneo, dove si
affacciano gli ex possedimenti del Maghreb; l’Italia ha cercato di colle-
garsi alla Jugoslavia e alla fine ha puntato, d’intesa con la Spagna, su una

174 Se nel 1973 la produzione petrolifera dei paesi arabi era pari a 18,8 milioni di barili al
giorno (contro 39,7 dei paesi non arabi), nel 1979 il rapporto era di 22,5 a 43,4 e nel 1986 di 13,2
a 47,0.
175 donini, Il dialogo euro-arabo cit., pp. 72-73.
176 khader, Una cooperazione cit., p. 73.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 57

iniziativa globale, la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel


Mediterraneo (Cscm)177. La Cscm fu proposta per la prima volta nel di-
cembre 1989. Il ministro De Michelis sostenne la riedizione di un pro-
cesso «tipo Helsinki» per il Mediterraneo convinto del ruolo che spet-
tava all’Italia: «Ritengo che possiamo svolgere la nostra funzione in un
equilibrio corretto, accompagnandola a una forte iniziativa che io chia-
mo europeo-occidentale e ad una forte iniziativa nei rapporti di inte-
grazione del Centro Europa tra Est e Ovest»178. Nonostante l’appog-
gio della Spagna e l’eco favorevole in Egitto, il progetto non fece alcun
progresso reale al di là della costituzione nell’ottobre 1990 del gruppo
dei Nove (i 4 paesi dell’Europa mediterranea e i 5 stati dell’Unione del
Maghreb arabo). La reazione dell’amministrazione Bush fu fredda, co-
me rileva anche una fonte italiana ufficiale, la quale aggiunge che senza
una struttura politico-militare indipendente l’Europa non è in grado «di
tener testa a Washington nel Medio Oriente»179.
L’opposizione degli Stati Uniti non ha permesso al progetto di rea-
lizzarsi e la guerra del Golfo, nonostante l’oggettiva conferma della ne-
cessità di un rapporto strutturato con i paesi arabi, ha travolto ogni ipo-
tesi di collaborazione organica fra Medio Oriente ed Europa. Nello stes-
so negoziato multilaterale fra arabi e Israele inaugurato a Madrid
nell’ottobre 1991 il ruolo dell’Europa è stato poco più che nominale e
finora l’Italia, che pure si è ripetutamente offerta, non è nemmeno riu-
scita ad ospitare una sessione delle trattative.

6. La cooperazione allo sviluppo.

I programmi di aiuto a favore dell’area ex coloniale delle potenze oc-


cidentali sono stati uno strumento importante di politica nel Terzo Mon-
do man mano che si è venuto costituendo per effetto della decolonizza-
zione. La cooperazione ha svolto quasi una funzione di supplenza dopo
la fine della presenza coloniale. L’obiettivo di più ampio respiro è il rie-
quilibrio fra Nord e Sud: la premessa è che il sottosviluppo costituisce
una causa di instabilità e di insicurezza, e che è dunque interesse dei

177 r. aliboni, La sécurité européenne à travers la Méditerranée, Paris 1991 e Contenuti e pro-
spettive di una Conferenza sulla sicurezza e cooperazione nel Mediterraneo: un punto di vista italiano,
Istituto affari internazionali, Roma 1991. Cfr. anche b. ravenel, Géopolitique de la Méditerranée
occidentale, in th. paquot (a cura di), La bibliothèque des deux rives, Paris 1992, pp. 173-89.
178 Dibattito sulla politica estera alla Camera dei deputati, Roma, 20 marzo 1990.
179 Dichiarazione del diplomatico italiano Gabriele Sarda al Middle East Institute di Wa-
shington, 22 maggio 1991.

Storia d’Italia Einaudi


58 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

paesi industrializzati trasferire risorse verso i continenti in via di svi-


luppo per limitare i danni180. Gli Stati Uniti si sono inseriti per rime-
diare ai cosiddetti «vuoti di potere» o per facilitare allineamenti e in-
fluenze. Le motivazioni più propriamente umanitarie (la «scoperta» del
sottosviluppo occupa un posto importante nella cultura postcoloniale e
nell’opinione pubblica dei paesi sviluppati) convivono con il persegui-
mento neppure dissimulato di interessi d’ordine politico, strategico o
economico. Non appena si dotò di una politica verso il Terzo Mondo
meno dogmatica, anche l’Urss, dopo Bandung, si cimentò nell’assisten-
za economica, oltre che militare, in Asia e nel Medio Oriente per au-
mentare la cerchia dei suoi alleati. In tutto l’arco dell’evoluzione del rap-
porto Nord-Sud, l’aiuto fa da supporto alla politica dei più forti ed è in-
vocato dai paesi meno sviluppati del Terzo Mondo anche quando il Sud
sposta piuttosto le sue analisi (le teorie sulla dipendenza) o la sua diplo-
mazia (soprattutto nelle varie sedi delle Nazioni Unite) verso una rifor-
ma del sistema agendo prima sui termini di scambio e poi sul funziona-
mento stesso dell’economia mondiale cosi come è stato definito in epo-
ca coloniale e dalla divisione del lavoro a livello di mercato capitalista.
Priva di un proprio retroterra coloniale, e non in grado di compete-
re nell’arena mondiale con le grandi potenze, l’Italia è arrivata tardi a
dotarsi di una politica di cooperazione organica. Le prime forme di aiu-
to – se si fa astrazione dai contributi obbligatori versati alle agenzie mul-
tilaterali181 – riguardavano quasi esclusivamente la Somalia dopo la con-
clusione dell’Afis. La stessa dizione di assistenza e cooperazione «tec-
nica» adottata nella legge n. 1222, approvata nel 1971 per colmare una
lacuna pressoché totale, delimitava il raggio della sua esplicazione. La
successiva legge n. 38 del 1979 fa propri tutti gli obiettivi della coope-
razione allo sviluppo, che viene assunta nella politica estera come
un’espressione di spicco. Per certi aspetti l’Italia va anzi contro tendenza
perché il suo inserimento nella politica dell’aiuto avviene quando, rias-
sorbiti i contraccolpi degli shock petroliferi, è già iniziato il riflusso dei
grandi donatori sotto l’influenza del neoliberalismo e di quel disimpe-
gno dall’onere di andare incontro alle esigenze dello sviluppo che ha fat-

180 È utile ricordare almeno due documenti a sostegno della politica dell’aiuto, redatti a di-
stanza di circa 10 anni ed espressione quindi di sensibilità, esigenze e strategie diverse: commis-
sion on international development, Partners in Development, London 1969 (Rapporto Pearson)
e commissione indipendente per lo sviluppo, Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza, Mi-
lano 1980 (Rapporto Brandt).
181 La quota di aiuto dedicata dall’Italia all’assistenza multilaterale negli anni settanta era in-
torno all’85 per cento contro una media del 35 per cento per gli altri paesi donatori. Il rapporto si
è equilibrato negli anni ottanta portandosi su una media 60-40.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 59

to parlare di «controrivoluzione»182. In coincidenza con la legge 38, che


si iscriveva in una crescita politico-culturale e a sua volta la stimolava
con la sua stessa applicazione, anche la politica del governo italiano in-
cominciava a mostrare aperture prima sconosciute. Alla Quinta Unctad
(Manila, maggio 1979), per esempio, il capo della delegazione italiana,
Pedini, riconosceva che per superare i problemi del sottosviluppo oc-
correva un riesame «della realtà economica e istituzionale che costitui-
sce il quadro delle relazioni fra stati» ma anche «la ristrutturazione dei
sistemi produttivi e il rinnovo delle istituzioni che presiedono all’eco-
nomia mondiale», fino a proporre la trasformazione dell’Unctad in un
«foro di discussione e di studio» di tutti i punti del dialogo Nord-Sud:
un’anticipazione del negoziato globale e un avvicinamento all’ottica «re-
visionista» che il Terzo Mondo proiettava ormai su tutte le istituzioni
che governavano l’economia mondiale, comprese – e sarà uno dei pun-
ti di scontro – quelle finanziarie, in cui più netta era la prevalenza de-
gli Stati Uniti e del «liberismo» contrapposti all’emergere di nuovi sog-
getti internazionali e a quel poco o tanto di «dirigismo» con cui il Sud
del mondo cercava di correggere le sperequazioni più evidenti. Ci sono
del resto precisi riscontri a livello di economia, che come «politica bas-
sa» entra a pieno diritto nella nostra politica estera183. Malgrado que-
sta predisposizione, tuttavia, l’Italia non è riuscita a darsi un’autorevo-
lezza e un’autonomia tali da imporsi come uno dei centri del cosiddet-
to «negoziato globale» Nord-Sud, finendo per essere esclusa dalla
Conferenza di Cancun dell’ottobre 1981, che di quella stagione fu il co-
ronamento.
L’idea di fondo a cui si ispira la cooperazione italiana è l’interdi-
pendenza. In molti documenti184 è facile trovare gli argomenti e le con-
clusioni della diagnosi che fu fatta propria dal Rapporto Brandt, ver-
sione aggiornata di un riformismo in cui si riconoscono sia gli esponen-
ti più avanzati della cultura europea che le élite del Terzo Mondo. Gli

182 j. toye, Dilemmas of Development, Oxford 1987.


183 Esaminando la struttura del nostro export si constata che se fino all’inizio degli anni set-
tanta l’economia italiana stava subendo un graduale processo di avvicinamento agli altri paesi in-
dustrializzati dell’Occidente, con un’ulteriore specificazione verso l’alto, questa qualificazione si
è arrestata a seguito della crisi petrolifera. L’aumento degli scambi con il Terzo Mondo, area pe-
trolifera anzitutto, non si è accompagnato a una continuazione della maturazione della nostra eco-
nomia.
184 Indicative del dibattito in Italia sulla cooperazione allo sviluppo sono gli atti delle due Con-
ferenze nazionali sulla cooperazione organizzate dall’Ipalmo per conto del ministero degli Esteri
nel dicembre 1981 e nel giugno 1985: Cooperazione allo sviluppo, una sfida per la società italiana,
Milano 1982 e Cooperazione allo sviluppo, nuove frontiere per l’impegno dell’Italia, Milano 1985.

Storia d’Italia Einaudi


60 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

interventi della cooperazione italiana allo sviluppo non vogliono essere


episodici ma dovrebbero essere collegati in modo da dar vita a una «po-
litica», parte integrante della politica estera italiana185. Proprio questa
convergenza di fini – lo sviluppo e gli interessi della nazione italiana –
può aver causato una confusione in cui la cooperazione ha smarrito il
suo orientamento. A meno di non intendere che lo sviluppo delle aree
più arretrate, tanto più se poste in zone contigue all’Italia, che peraltro
non ha mai definito esplicitamente un suo perimetro di «sicurezza», è
una condizione essenziale per la ricerca della stabilità, che è una costante
della politica estera italiana.
Fra le aree prioritarie della cooperazione allo sviluppo come pratica-
ta dall’Italia c’è soprattutto l’Africa. Il Corno d’Africa, dove sono con-
centrate le ex colonie, ha mantenuto sempre il primato. Negli anni ot-
tanta è comparso per un breve periodo il Sahel, quando l’attenzione del
mondo si appuntò su questa fascia di paesi a causa dell’incombente de-
sertificazione. Ma il Sahel è stato presto «abbandonato», apparente-
mente a conferma del fatto che in assenza di tradizioni consolidate la
cooperazione non attira. Ed è inutile ricordare che nel Sahel il predo-
minio della Francia e della zona del franco è incontrastato. L’Italia ha
avuto più fortuna nelle ex colonie portoghesi, dove ha dovuto confron-
tarsi con una ex potenza coloniale molto penalizzata dalla difesa ad ol-
tranza del colonialismo (fino alla vittoria dei movimenti di liberazione
nel 1974-1975 dopo il crollo del regime fascista a Lisbona) e dove ha an-
che raccolto i benefici di un rapporto intenso che le forze politiche ita-
liane, della sinistra ma non solo, avevano saputo intrattenere con i mo-
vimenti nazionalisti durante la lotta di liberazione186. Il credito dell’Ita-
lia è servito anche a proporla come fattore di pacificazione nella lunga
guerra nell’impoverito Mozambico fra il Frelimo e la Renamo: è a Ro-
ma che nel 1992 è stato firmato l’accordo che, proclamato il cessate il
fuoco, avviò una procedura di ricomposizione dell’unità nazionale.
Complessivamente, l’Africa a sud del Sahara è giunta a conteggiare
fino al 56 per cento dell’aiuto pubblico italiano per lo sviluppo. La quo-
ta è balzata alla vetta soprattutto negli anni in cui è stato gestito da un

185 L’art, 1 della legge sulla cooperazione allo sviluppo approvata nel 1987 (n. 49) recita te-
stualmente: «La cooperazione allo sviluppo è parte integrante della politica estera dell’Italia e per-
segue obiettivi di solidarietà tra i popoli e di piena realizzazione dei diritti fondamentali dell’uo-
mo, ispirandosi ai principî sanciti dalle Nazioni Unite e dalle convenzioni Cee-Acp». Il testo dell’in-
tera legge in «Politica internazionale», 1987, n. 8-10, pp. 103-18.
186 Una conferenza internazionale di solidarietà con i popoli delle colonie portoghesi si svol-
se a Roma nel giugno 1970 (la dichiarazione finale in «Relazioni internazionali», 1970, n. 28,
p. 708).

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 61

apposito sottosegretariato uno stanziamento straordinario per l’aiuto


d’emergenza (Fai). Beneficiari ne sono stati in particolare l’Etiopia, la
Somalia e gli altri paesi del Corno. L’Italia utilizzava l’aiuto per influi-
re sui processi politici, ufficialmente per indurre i suoi interlocutori al-
la «moderazione» e tentare una riconciliazione187. L’aiuto all’Africa è
stato bruscamente ridimensionato alla fine degli anni ottanta. Somalia
ed Etiopia restavano paesi prioritari. La caduta dei regimi di Siad Bar-
re e Menghistu a poca distanza di tempo nel 1991 ha introdotto una no-
vità che non può non influire sull’aiuto italiano188. L’esito della politi-
ca nel Corno è stato rovinoso, sia per la fine ingloriosa di due governi
trattati oggettivamente come alleati, sia per l’incapacità dimostrata
dall’Italia nel momento di raccogliere le fila di una influenza persegui-
ta con ostinazione proprio per salvaguardare una «presenza». Anche
l’indipendenza dell’Eritrea, sebbene la ex colonia sia stata a lungo la ter-
ra d’Africa prediletta dall’Italia, è avvenuta seguendo percorsi fuori del-
la portata della politica italiana e addirittura in contrasto ad essa. Allo
stesso modo, l’Italia non aveva avuto successo nei suoi sforzi per sana-
re il dissidio storico fra Somalia ed Etiopia a causa dell’Ogaden. La de-
limitazione del confine somalo-etiopico, un’ossessione ricorrente per la
politica italiana fin dai tempi coloniali, era stata indicata dall’Onu co-
me una delle incombenze del governo di Roma nel quadro dell’ammini-
strazione fiduciaria della Somalia ma il mandato decennale si concluse
con un nulla di fatto.
Subito dopo l’Africa nera, è il bacino mediterraneo che ha attirato i
maggiori flussi dell’aiuto pubblico italiano allo sviluppo. Quando l’Afri-
ca assorbiva quasi il 60 per cento dell’aiuto, l’area mediterranea e me-
diorientale interveniva con il 20 per cento. Poiché gli aspetti politici
(stabilità, contenimento dell’emigrazione, prevenzione del radicalismo
islamico, ecc.) prevalgono sulle finalità schiettamente economiche, l’im-
pegno della cooperazione italiana nel Maghreb e in genere nella fascia
araba dell’Africa settentrionale non è diminuito nell’ultima fase, in cui

187 Nella relazione presentata al parlamento dal ministero degli Esteri per l’attività di coope-
razione del 1986 gli obiettivi politici sono esplicitati per giustificare gli aiuti elargiti ai paesi del
Corno («nell’ottica di favorire il raggiungimento di condizioni di stabilità e una composizione pa-
cifica dei contrasti presenti nell’area»), all’Africa australe («per contribuire allo sviluppo, alla sta-
bilità politico-sociale e alla sicurezza di un’area di vitale importanza per gli equilibri dell’intero as-
setto internazionale»), ecc. e nel suo testo il ministro Andreotti diceva che l’aiuto al Mozambico
doveva contribuire a rafforzare la tendenza del governo «a una maggiore apertura e disponibilità
nei confronti dei paesi occidentali» («Cooperazione», n. 69, novembre-dicembre 1987, p. 63).
188 m. c. ercolessi, Tendenze della cooperazione intemazionale, in «Politica internazionale»,
1992, n. 4, pp. 79-88. Della stessa autrice cfr. Conflitti e mutamento politico in Africa, Milano 1991,
pp. 25-85.

Storia d’Italia Einaudi


62 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

la caratterizzazione politica si è fatta più esplicita con il pretesto della


«sicurezza»(Egitto, Marocco e Tunisia sono fra le priorità). I paesi me-
diterranei non sono paesi a bassissimo reddito ed erano meno priorita-
ri finché la cooperazione si attenne almeno formalmente a obiettivi col-
legati essenzialmente allo sviluppo dei paesi più poveri. Nel 1990 si è
registrata una riduzione del volume dell’aiuto. Nella programmazione
1991-93 la parte dell’Africa scende al 36 per cento, ma ci sono proie-
zioni che l’abbassano ulteriormente.
Fra i paesi mediterranei assistiti figurano sia paesi arabi che paesi
della regione balcanica. La disgregazione della Jugoslavia, su cui l’Italia
aveva puntato come interlocutore di riguardo, ha irrimediabilmente mo-
dificato i termini dell’equazione mediterranea. Durante la guerra fred-
da, e per effetto della politica del non allineamento di cui Belgrado fu
un grande protagonista, passava per la Jugoslavia ogni ipotesi di aggre-
gazione volta a superare le divisioni in blocchi. E subentrata invece co-
me destinataria di un ingente programma di aiuti l’Albania post-comu-
nista. Dall’Albania in piena crisi di transizione nel 1991 è venuta una
grande ondata di profughi che l’Italia ha respinto ricorrendo a mezzi pa-
ramilitari: il successivo programma di aiuti d’emergenza (Operazione
Pellicano) ha fatto largo impiego dell’esercito ed è stato studiato anzi-
tutto per impedire nuovi esodi sia soccorrendo in patria il popolo alba-
nese con beni di prima necessità distribuiti a tappeto sia pattugliando i
porti e le coste.

7. Dalla dimensione Est-Ovest al conflitto Nord-Sud.

La politica di «basso profilo» perseguita dall’Italia in campo inter-


nazionale per tutto il dopoguerra189 non si spiega solo con i mezzi limi-
tati a sua disposizione. È la conseguenza del difficile coordinamento fra
i tre «cerchi» – atlantico, europeo e mediterraneo – in cui per ragioni
storico-politiche la politica estera stessa si è esplicata, al fine di ricavar-
ne una sintesi coerente in ultima analisi con il ruolo di un paese mem-
bro di un’alleanza (Nato) e di una organizzazione regionale (Comunità
europea) attuando gli obiettivi specifici del governo o della nazione nel
suo contesto geopolitico. L’Italia ha finito cosi per risentire più diret-
tamente del «vuoto» funzionale che si è creato con la fine della guerra

189 a. panebianco, La politica estera italiana: un modello interpretativo, in «Il Mulino», n. 254,
novembre-dicembre 1977, pp. 845-79.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 63

fredda. In parte ha supplito alle carenze della Nato sull’asse Est-Ovest


intensificando la cornice europeistica, tanto più ora che tutto lo schie-
ramento politico si è di fatto riconciliato con l’idea d’Europa190, ma per
il resto ha dato l’impressione di aver smarrito i punti di riferimento su
cui aveva sempre contato, a meno di non riprodurre nella nuova situa-
zione, ma in relazione a fattispecie diverse (il Sud invece dell’Est), i me-
desimi atteggiamenti, tanto più in presenza di un’evidente accentua-
zione della conflittualità proprio nelle aree «periferiche» contigue al no-
stro paese e alla sua, per quanto mal definita, sfera d’influenza.
L’evoluzione si appoggia in pari misura sulle trasformazioni in atto nel
sistema internazionale bipolare (con riflessi sul subsistema mediterra-
neo) e nel sistema interno (governo e partiti).
Secondo Sergio Romano, è stata la guerra fredda a consentire all’Ita-
lia di svolgere quella politica di parziale o pretesa autonomia in Europa
e nel Mediterraneo che definisce «microgollista», a imitazione cioè del-
la politica della Francia, su scala più modesta e con ambizioni preva-
lentemente mercantili, sfruttando «lo stallo fra i blocchi per insinuarsi
fra i contendenti e affermare continuamente la sua volontà di dialo-
go»191. L’infrastruttura della guerra fredda aveva provveduto a istitui-
re un «regime di deterrenza nucleare» che fungeva da calmiere della ten-
sione Est-Ovest mediante i negoziati sul controllo degli armamenti e
tutto un meccanismo di comunicazioni fra i due blocchi192. L’impossi-
bilità della guerra, in altri termini, autorizzava – è il paradosso costrui-
to da chi avrebbe voluto l’Italia più fedele o eventualmente più coeren-
te – ad essere compiacenti anche con i nemici dei nostri alleati. All’ori-
gine della contraddizione c’era forse l’oggettiva angustia dei margini
d’azione lasciati all’Italia dal bipolarismo. Come mette in luce Carlo Ma-
ria Santoro, il Mediterraneo è «il territorio deputato all’individuazione
di una politica estera nazionale, d’impianto limitato ma solido, che ci
viene fra l’altro sollecitata sia dagli alleati, sia dalle concorrenze politi-
che e strategiche provenienti dalla regione», ma il bacino «è tuttora con-
trollato negli aspetti geostrategici complessivi da una superpotenza ester-
na all’area (gli Stati Uniti), il cui difficile ruolo di agente politico glo-
bale nel meccanismo d’interazione Est-Ovest non è in grado di risolvere
le tensioni e i conflitti di carattere locale e subregionale che sempre più

190 L’Italia ha approvato senza drammi e quasi senza discussione nel 1992 in sede parlamen-
tare il trattato di Maastricht che ha inaugurato la seconda tappa dell’Europa unita.
191 s. romano, Come è morta la politica estera italiana, in «Il Mulino», n. 342, luglio-agosto
1992, p. 718.
192 santoro, La politica estera cit., p. 234.

Storia d’Italia Einaudi


64 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

frequentemente vi insorgono»193. Non per niente l’Italia (e l’Europa)


ha cercato di promuovere la politica e l’economia anziché affidarsi alla
strumentazione militare. Vent’anni fa Altiero Spinelli aveva intuito che
stava venendo meno «la possibilità del perseguimento simultaneo dei
due principî sui quali si è cercato di costruire l’ordine internazionale dal
1945 ad oggi: il principio delle molteplici sovranità statali, da restaura-
re in Europa, da instaurare in Africa e in Asia, da salvaguardare in Ame-
rica Latina, e il principio delle molteplici organizzazioni sovrastatali per
la comune condotta di affari considerati di comune interesse da gruppi
di paesi, organizzazioni che possono affermarsi solo nella misura in cui
limitino in parte quelle sovranità»194. L’importanza strategica del Me-
diterraneo era stata enfatizzata peraltro già in un documento riservato
del Centro di alti studi militari nel 1953: Europa, Mediterraneo e Afri-
ca venivano definiti parti di «un sistema unico» con il Mediterraneo al
suo centro195.
Dalla rivoluzione iraniana sulle ali del fondamentalismo islamico
all’occupazione sovietica dell’Afghanistan, dalla guerra fra Iraq e Iran
all’invasione israeliana del Libano, la fase culminante della guerra fred-
da, anzi della «seconda guerra fredda» manifestatasi alla fine degli an-
ni settanta, e poi lo scioglimento della tensione Est-Ovest sono stati
contrassegnati da una intensificazione della conflittualità nelle «aree
esterne» con il Medio Oriente come epicentro. Era in atto una ridislo-
cazione delle forze dall’Europa orientale, dove stava maturando lo sfa-
celo dell’«impero» sovietico, al Sud per il controllo delle risorse ener-
getiche e delle grandi vie di comunicazione marittime. La collocazione
nei confronti dei focolai di instabilità e di guerra sembra prescindere
dagli schieramenti della guerra fredda, ma gli Stati Uniti ottengono
egualmente dai loro alleati una impostazione che privilegia una par-
venza di «neocontenimento». Nel clima di allarme provocato dalla de-
cisione dell’Urss alla fine del 1979 di inviare le truppe per difendere il
regime procomunista di Kabul, il presidente americano Carter si af-
fretterà a enunciare una «dottrina» che eleva il Golfo a zona di inte-
resse «vitale» per gli Stati Uniti. Dando una qualche credibilità al pe-
ricolo di una coincidenza fra i processi di cambio endogeni e la proie-
zione nei teatri locali dello scontro fra le due maggiori potenze,

193 id., La Rosa dei Venti: l’«insieme» mediterraneo e l’Italia, in aa.vv., Relazioni Nord-Sud,
Est-Ovest. Interdipendenze e contraddizioni, Padova 1988, p. 342.
194 a. spinelli, Problemi e prospettive della politica estera italiana, in aa.vv., La politica estera
la Repubblica italiana cit., vol. I, p. 57.
195 Saggio di sintesi strategica del Mediterraneo [riservato], Roma 1953, pp. 253-55.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 65

l’interventismo sovietico maschera l’effettiva portata delle poste e per-


sino i veri contendenti. Era già accaduto in altri scacchieri, dall’Ango-
la al Corno d’Africa, ma nessuna regione ha l’immediata sensibilità del
Medio Oriente e del Golfo arabo-persico. Al Mediterraneo si torna
sempre perché «non è il Mediterraneo che è dell’Occidente, ma l’Oc-
cidente che è del Mediterraneo»196.
In pendenza delle varie crisi, il conflitto arabo-israeliano ma anche
l’Afghanistan e il Golfo, mentre gli Stati Uniti hanno sempre privile-
giato le connessioni con la confrontazione globale, l’Europa ha cerca-
to piuttosto di tenere separati i diversi piani. Non già per negare la «in-
divisibilità» della distensione (o del suo opposto) ma per «isolare le ten-
sioni regionali, così da evitare il loro allargamento dal Terzo Mondo
all’Europa», ed «operare per sottrarre gli attori regionali alla competi-
zione tra le due superpotenze»197. Nella versione italiana (e europea),
la «globalità» dovrebbe agire nel senso di mettere a profitto le dina-
miche integrative e compensative a livello regionale per influire sul si-
stema nel suo complesso, collegando i problemi della stabilità locale con
i rapporti Est-Ovest e per altri versi i problemi dello sviluppo econo-
mico con la sicurezza politica e militare. L’impotenza dell’Europa
nell’area arabo-mediterranea – la sua sostanziale incapacità di racco-
gliere la «domanda d’Europa» che proviene dal mondo arabo così co-
me da altri settori del Terzo Mondo – sembra imputabile così ad un ec-
cesso di «delega» agli Stati Uniti per la difesa degli interessi dell’Oc-
cidente in senso lato.
Dopo lo sfaldamento del Dialogo euro-arabo, l’Europa – e al suo in-
terno l’Italia – si è ritrovata puntualmente a militare al fianco degli Sta-
ti Uniti in tutti i passaggi decisivi. La «dottrina Carter» sancisce in un
certo senso il fallimento della politica dell’Europa e della concezione di
distensione che essa avrebbe voluto far passare. Mettendo da parte l’il-
lusione di sdrammatizzare le tensioni con le mediazioni o la coopera-
zione economica, gli americani bruciano le tappe per costituire la Rapid
Deployment Force, che prevede un comando unificato e autonomo (Co-
mando centrale), il cui compito principale è di intervenire direttamen-
te nell’Asia di Sud-Ovest e nel Medio Oriente. Di fronte all’esigenza di
munire la Rdf di basi navali intermedie198, l’Italia offri le sue basi ester-
nando la disponibilità «a ricevere sul proprio territorio le strutture lo-

196 r. habachi, Orient, quel est ton Occident?, Paris 1969, p. 67.
197 dassú-ercolessi, La politica europea cit., pp. 248-49.
198 Allo scopo fu allestita una grande base nell’isola di Diego Garcia in pieno Oceano India-
no, ed altre basi furono chieste ai paesi rivieraschi.

Storia d’Italia Einaudi


66 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

gistiche del corpo speciale americano»199. Già la scelta di Comiso in Si-


cilia per l’installazione di 112 missili Cruise configurava una specie di
«normalizzazione» atlantica del fianco sud dell’Europa ed il riarmo nu-
cleare della stessa Europa sotto la tutela americana nei confronti del Ter-
zo Mondo. Analoghi erano gli obiettivi del trattato con Malta del 1980
per la protezione politico-militare della neutralità dell’isola. Gradual-
mente la Nato comincia a ridisegnare la sua strategia in modo da pre-
vedere forme di copertura per le cosiddette crisi «fuori area». L’inte-
resse dell’Europa a leggere le crisi sulla base anzitutto dei fattori locali
perde di mordente. I paesi europei asseriranno di partecipare con i pro-
pri specifici intendimenti ai vari «interventi», variamente motivati ed
articolati, ma alla fine è la determinazione degli Stati Uniti a dare alla
politica occidentale i suoi contenuti effettivi, anche perché – di nuovo
la «delega» o se si vuole la «divisione del lavoro» fra Europa e Ameri-
ca – sono gli Stati Uniti che unificano le iniziative sia nell’aspetto del
negoziato che in quello della confrontazione militare.
Senza entrare troppo nei dettagli delle varie «operazioni», basterà
ricordare la partecipazione di quattro paesi europei, fra cui l’Italia, alla
Forza per il Sinai200, la partecipazione di Italia, Francia e Gran Breta-
gna alla Forza multinazionale che si doveva curare di sovrintendere in
Libano all’evacuazione dell’avanguardia politico-militare dell’Olp, la
partecipazione dell’Italia e di altri paesi europei alla missione navale di
sminamento del Mar Rosso e finalmente l’invio da parte di Italia, Fran-
cia, Gran Bretagna, Olanda e Belgio di proprie unità navali nel Golfo
formalmente per tutelare la libertà della navigazione durante il conflit-
to iracheno-iraniano ma di fatto per impedire un non impossibile col-
lasso militare dell’Iraq. I paesi europei si danno un minimo di coordi-
namento in sede Cee anche se la Cee in quanto tale non è in grado di
assumere il patrocinio diretto degli interventi. La politica comune eu-
ropea deborda comunque in decisioni di carattere militare, quantunque
con fini di peacekeeping. Le sue debolezze spingono l’Italia a cercare ga-
ranzie all’esterno, ma in tutti i campi, dalle finanze alla difesa, l’inte-
resse italiano è volto prevalentemente verso forme cooperative e istitu-
zionalizzate201.

199 b. ravenel, Scontro di forze e ambizioni egemoniche, in «Politica internazionale», 1983, n.


9, p. 43.
200 a. pijpers European Entry in the Multinational Sinai Force and Observers (Mfo), Amsterdam
1983.
201 r. aliboni, Il contesto internazionale e il profilo emergente della politica italiana, in «Politica
internazionale», 1985, n. 1, pp. 5-25.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 67

L’arco di tempo in cui sono comprese queste iniziative va dal 1982


al 1987202. Esse sono il risultato di una maggiore attenzione ai teatri
geopolitici d’interesse strategico dell’Italia, soprattutto nel Mediterra-
neo e nelle subaree adiacenti ad esso. Ma sono anche la conseguenza del-
le trasformazioni intervenute nell’apparato e nella composizione delle
forze armate, nella logica delle «missioni» operative interforze ad esse
affidate, nonché della disponibilità di sistemi d’arma e logistici capaci
di intervenire anche su teatri lontani203. Già con il distacco di truppe
nel Sinai, l’Europa si allontanò dalla prospettiva che aveva fatto da sfon-
do alla dichiarazione di Venezia del giugno 1980204. I quattro paesi eu-
ropei coinvolti si sentirono in obbligo di rilasciare una contorta nota
congiunta per dire che «il loro appoggio alle intese connesse al ritiro
israeliano dal Sinai» non li impegnava sulle altre parti dell’accordo di
Camp David205. Analoghi «distinguo» furono evocati per l’intervento
a Beirut, a cui del resto si era detta favorevole anche l’Olp. In Italia, la
decisione di mandare un corpo militare in Libano trovò all’inizio vasti
consensi nel parlamento e nell’opinione pubblica. Quella semiunanimità
era frutto di un equivoco che non si sarebbe sciolto che quando ormai
era tardi per evitare il disastro (se non a danno dei nostri soldati, certo
dei marines americani e dei parà francesi). Si esaltò molto il carattere
«umanitario» dell’intervento. I nostri soldati seppero meritarsi la sim-
patia e la confidenza dei palestinesi dei campi. I carri armati furono di-
pinti di bianco per esibire la funzione pacifica o pacificatrice. Il conte-
sto «politico» dell’operazione però era più complesso. Man mano che la
situazione libanese degenerava in una guerra di tutti contro tutti, la For-
za multinazionale cessava di essere super partes perché per gli accordi sot-
toscritti era schierata a fianco di una parte (l’esercito libanese, il presi-
dente Ge-mayel), che era in teoria il governo legittimo ma che era du-
ramente osteggiata dalle altre componenti. Chi aveva scambiato la Forza
multinazionale e l’intervento italiano per un mezzo inteso a riaccredi-
tare politicamente i palestinesi (il Pci si era spinto fino a chiedere la rot-
tura delle relazioni diplomatiche con Israele) dovette prendere atto che
le coordinate erano ben diverse e che mancava una visione politica coe-

202 Pionieristico può essere considerato l’invio di alcune unità della flotta italiana per soccor-
rere i profughi del Vietnam nel 1979.
203 santoro, La politica estera cit., p. 213.
204 Gianni Bonvicini scrive che l’Europa mantenne una posizione di equidistanza in Medio
Oriente senza rinnegare «la linea moderata approvata a Venezia» (g. bonvicini, Le carenze del pro-
getto politico dell’Europa, in «Politica internazionale», 1992, n. 9, p. 69).
205 «Relazioni internazionali», 1981, n. 49, pp. 1071-72.

Storia d’Italia Einaudi


68 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

rente. Anziché garantire la «stabilità», la Forza divenne, tutto al con-


trario, un fattore di instabilità fin troppo visibile, per il fatto di aver po-
larizzato su di sé le frustrazioni e i risentimenti di tutti i nemici di Ge-
mayel (e degli Stati Uniti). Ancora una parvenza di coordinamento a li-
vello europeo, e soprattutto atlantico, ebbe la spedizione nel Mar Rosso,
dai contorni sfumati ma sempre in linea con la tendenza ormai collau-
data di gestire con operazioni di tipo militare le situazioni di crisi nella
«periferia». L’idea di sicurezza che si va affermando ricorda sempre me-
no quella dell’Europa. L’«internazionalizzazione» della guerra Iran-Iraq
voluta da Saddam Hussein fornì un altro pretesto di intervento. L’in-
tervento nel Golfo del 1987 per influire sugli esiti della guerra iniziata
sette anni prima dall’Iraq contro l’Iran per bloccare una possibile dif-
fusione della rivoluzione islamica introduce direttamente nella proble-
matica del controllo delle risorse energetiche e delle vie di comunica-
zione del Medio Oriente anticipando in qualche modo la crisi del 1990-
91. Il fatto che l’Iraq nel 1990, dopo l’atto abusivo compiuto da Saddam
contro il Kuwait, sia il «nemico», mentre nel 1987 gli occidentali si mo-
bilitarono per salvare lo stato iracheno e il suo contestatissimo regime,
e dal 1980 del resto l’Iraq aveva combattuto nell’interesse delle monar-
chie del Golfo e genericamente per la conservazione dell’ordine nel
Golfo prendendo su di sé il compito che era stato dell’Iran dello scià,
dimostra che gli obiettivi dello scontro superano le iniziative o l’ideo-
logia dei singoli regimi.
La rivoluzione islamica in Iran ha presentato un alto tasso di «estra-
neità» per la cultura politica occidentale e quindi anche per l’Italia. L’ul-
timo protagonista che sembrava mantenere un collegamento con gli sche-
mi a cui siamo abituati è stato Bani-Sadr, formatosi in Francia e in gra-
do di «parlare» all’Occidente attraverso i suoi stessi professori (come
Paul Vieille), ma Bani-Sadr nel 1981 fu esautorato dall’irresistibile avan-
zata del potere degli ayatollah, con le loro ubbie clericali, programmi im-
perscrutabili e alleanze di classe poco definibili. A confronto il regime
iracheno del Baath, un misto di nazionalismo modernizzante e di diri-
gismo al servizio del partito unico, appariva più familiare, come una va-
riante di altri esperimenti che alla lontana rimontano tutti al ceppo del
«nasserismo». L’Iraq di Saddam Hussein non aveva goduto di eccessi-
ve simpatie in Occidente per il suo «radicalismo»ma la «sua»guerra svol-
geva un ruolo «utile», di contenimento e forse di obliterazione di
un’esperienza rivoluzionaria che rischiava di diventare sommamente
«pericolosa». Era stato l’Iraq ad attaccare, ed era l’Iraq perciò che sop-
portava la responsabilità della guerra, ma dopo il 1982, con la guerra or-
mai in territorio iracheno ed il governo di Baghdad disposto a cessare la

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 69

guerra senza altre richieste che l’impunità per l’aggressione, era l’Iran a
dare l’impressione di volerla continuare. Per Khomeini, la guerra era di-
ventata un vero e proprio surrogato della politica. In realtà, l’Iran – la
grande potenza virtuale della regione per ragioni di demografia, di eco-
nomia, di dispositivo militare, nonché per la sua posizione geografica,
ben altrimenti dominante le rotte del Golfo rispetto a un Iraq quasi sen-
za sbocchi – aveva mantenuto una collocazione prioritaria: più in ter-
mini di geopolitica che di ideologia, visto che anche per le correnti che
tradizionalmente sono state più attente a rispettare i sovente contorti e
contraddittori movimenti di liberazione anticoloniali e antimperialisti,
quella cattolica e quella comunista, non c’erano elementi apprezzabili di
consonanza politica o culturale con l’islamismo di Teheran.
La progressiva «internazionalizzazione» del conflitto nel 1987 dopo
l’incidente della Stark206 ha trascinato anche l’Italia nel solco di un in-
terventismo sostanzialmente contro l’Iran (e sullo sfondo contro l’Urss).
Anche la politica italiana si è via via polarizzata sui modi per far fronte
a una situazione che minacciava la libertà e la sicurezza della naviga-
zione, faceva balenare lo spettro di una sgradita espansione dell’Iran e
della sua rivoluzione, dischiudeva imprevisti varchi alla penetrazione so-
vietica. Sulle prime l’intervento eventuale veniva riferito soprattutto al
pericolo delle mine, ma più avanti si parlerà piuttosto di scortare il na-
viglio e addirittura di difendere gli interessi nazionali o dell’Occidente.
La confusione fra i vari piani non ha facilitato né il dibattito né le de-
cisioni politiche. Resta naturalmente la singolarità di un atto di guerra
compiuto da una parte (l’Iraq) che riverbera i suoi effetti negativi sull’al-
tra (l’Iran).
Chiamata a una qualche forma di compartecipazione ai nuovi com-
piti militari, l’Italia si offrì prima di effettuare un pattugliamento sur-
rogatorio del Mediterraneo per sostituire le navi americane spostate nel
Golfo da zone adiacenti e inviò quindi sue proprie navi nel quadro del-
la forza navale allestita dagli Stati Uniti con compiti sempre più vicini
a quelli della cobelligeranza. Ufficialmente si trattava soprattutto di con-
tribuire all’azione di bonifica dalle mine delle acque del Golfo. Ad ac-
celerare l’intervento concorse un incidente in cui incappò un mercanti-
le italiano, la Jolly Rubino207. La decisione italiana di mandare caccia-

206 La fregata americana Stark fu colpita il 17 maggio 1987 da un missile scagliato da un ae-
reo iracheno, un Mirage armato di Exocet, causando la morte di 37 marittimi.
207 L’incidente avvenne il 3 settembre 1987; il battello leggero che attaccò la nave italiana non
fu identificato, ma ne derivò ovviamente un ulteriore rafforzamento del partito interventista. L’in-
cidente ebbe anche l’effetto di spostare l’attenzione dallo sminamento alla protezione della navi-
gazione,

Storia d’Italia Einaudi


70 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

mine e fregate militari nel Golfo viene presa dal Consiglio dei ministri
il 4 settembre. L’invio di una task force italiana in una delle zone più in-
candescenti del mondo provoca un immediato rialzo delle polemiche. È
la prima volta, dopo la guerra, che navi militari italiane si preparano a
una missione simile, in acque tanto remote.
L’invasione, occupazione e annessione del Kuwait da parte dell’Iraq
nell’agosto 1990 modificò radicalmente lo status quo nel Medio Orien-
te e i rapporti fra l’Europa e il mondo arabo. Anche l’Italia non esitò a
invertire la rotta e a rivolgere il suo interventismo contro l’Iraq. Nel
frattempo il conflitto Iraq-Iran era finito senza un vero vincitore, ma
con l’Iran che a un anno di distanza si era piegato accettando la risolu-
zione dell’Onu, sempre respinta perché «parziale», sotto le pressioni,
anche militari, di tutto il mondo occidentale208.
La crisi per il Kuwait si presentò al culmine dell’opera «revisionista»
di Gorba™ëv in Urss e nel mondo. Gli Stati Uniti potevano ormai coin-
volgere Mosca nella gestione della crisi rendendo irreversibile la con-
versione dell’Unione Sovietica a quello che il presidente Bush definì «il
nuovo ordine mondiale». I parametri della guerra fredda non avevano
più nessuna verosimiglianza e la precedenza toccava se mai alla con-
trapposizione Nord-Sud. La pace fra Usa e Urss e lo scoppio della guer-
ra in Oriente costringono l’Italia a una revisione lacerante a cui è forse
impreparata209. Malgrado un’ultima differenziazione, che permette di
individuare entro la Cee un asse franco-tedesco con l’adesione dell’Ita-
lia che tiene aperto per quanto possibile un canale di comunicazione con
Baghdad e d’altra parte il più pedissequo filoamericanismo della Gran
Bretagna che spinge per la guerra, anche l’Italia entra a far parte della
coalizione anti-Iraq, accantona tutte le riserve sulla liceità della guerra
e da un importante contributo all’azione militare vera e propria. L’Eu-
ropa tutta perde di vista sia la vocazione ad essere prima di tutto una
«potenza civile» sia l’idea di «globalità» che aveva caratterizzato le sue
posizioni in merito alle diverse questioni che compongono la crisi del
Medio Oriente.
L’Italia adottò l’embargo disposto a tempo di primato dall’Onu con-
tro l’Iraq, inviò una forza aeronavale nel Golfo per vigilare sulla sua ap-
plicazione e alla fine partecipò con una squadra aerea alle operazioni bel-
liche fornendo ampi supporti logistici alla «grande armata» capeggiata

208 A concludere tragicamente le varie interferenze militari delle potenze occidentali nella
guerra Iraq-Iran intervenne nel luglio 1988 l’abbattimento di un aereo civile iraniano da parte di
un missile lanciato da una nave americana, si disse per errore.
209 romano, Come’è morta la politica estera cit., p. 718.

Storia d’Italia Einaudi


G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba 71

dagli Stati Uniti. A parte il riferimento ultimo all’Onu, che approvò via
via le risoluzioni su cui fu costruito l’intervento militare, ma che non è
immune dall’accusa di essere troppo prona ai Diktat degli Stati Uniti,
l’azione dell’Italia fu sempre attenta a mantenersi entro l’ambito euro-
peo. Mentre in passato il collegamento con la Cee era servito ad am-
pliare l’autonomia delle iniziative, ora il richiamo alla solidarietà euro-
pea diventa un espediente per far accettare provvedimenti che malgra-
do tutto incontrano in Italia forti riserve d’ordine politico210. Contro
l’opzione militare agiscono le forze della sinistra, l’avversione istintiva
dell’opinione pubblica per la guerra, l’opposizione di larghi settori del
mondo cattolico corroborati dalla ferma condanna della guerra da par-
te del papa; hanno invece meno peso che in altre occasioni le tradizio-
nali simpatie proarabe, con i relativi interessi materiali, dato che paesi
arabi importanti militano nel fronte che contrasta Saddam.
La guerra di distruzione massiccia e sistematica, quali ne siano state
le motivazioni e le giustificazioni, contro un paese arabo, un regime sui
generis ma parte nonostante tutto di quel Terzo Mondo con cui l’Italia
ha sempre creduto di avere un feeling immediato, ha mutato tutte le coor-
dinate. Le affinità vere o presunte si trasformano in fratture reali. I set-
tori di interesse della nostra penetrazione economica, politica o cultu-
rale, per lo più vicini alla penisola e al Mediterraneo, o più remoti geo-
graficamente ma oggetto di relazioni storiche o di prestigio come il
Corno d’Africa, diventano «aree di rispetto» o di «interesse strategi-
co». L’Italia imita le altre potenze grandi o medie proponendosi di ope-
rare in prima persona, in senso attivo e non solo reattivo, anche nei cam-
pi della difesa e della sicurezza, per virtù proprie e non solo a fini di sup-
plenza o di delega. Sud ed Est, senza più vere differenze, entrano a far
parte di una «periferia globale» 211 da controllare se necessario con mez-
zi militari. Soprattutto nei sottoinsiemi mediterranei si pensa ad «azio-
ni di indirizzo politico-economico accompagnate, in caso di necessità,
da interventi militari, coordinati con altri paesi o anche autonomi, per
finalità d’interdizione e di pacificazione, e/o di protezione dei cittadini
e dei beni italiani all’estero»212. C’è un riscontro immediato nella mes-
sa a punto di un «nuovo modello di difesa» e di nuovi strumenti opera-
tivi a livello militare: l’Italia abbandona la concezione strettamente ter-

210 l. guazzone, Italy and the Gulf Crisis: European and Domestic Dimensions, in «The Inter-
national Spectator», 1991, n. 4, p. 58.
211 a. v. lorca e j. a. nuñez, Ec-Maghreb Relations: A Global Policy for Centre-Periphery In-
terdependence, ivi, 1993, n. 3, p. 55.
212 santoro, La Rosa dei Venti cit., p. 346.

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72 G. Calchi Novati - Mediterraneo e questione araba

restre (o al più aeroterrestre) della sua difesa, basata sulle esigenze che
le sono state affidate dalla strategia della Nato (la famosa «soglia di Go-
rizia» ), e dedica maggiore attenzione al controllo e alla difesa delle co-
ste provvedendo a ridislocare le sue forze armate verso il Centro-Sud e
costituendo ex novo una Forza d’intervento rapido modellata sugli ana-
loghi reparti a disposizione delle potenze abituate a intervenire oltre-
mare. Interventi a carattere bilaterale o multilaterale sul genere di quel-
li effettuati in Medio Oriente sono espressamente previsti nel Libro
bianco della Difesa del 1985213. La nuova priorità rappresentata dalla
«minaccia» del Terzo Mondo sottopone oggettivamente la politica este-
ra italiana a uno stress prima sconosciuto. E l’intero impianto della no-
stra partecipazione al sistema internazionale che deve essere ripensato
e questa revisione riguarda soprattutto le direttrici – il mondo arabo,
l’Africa – nelle quali si scontava una specializzazione non così condi-
zionata dalle scelte altrui come l’Europa o le relazioni fra i blocchi. Era
implicito nella «scoperta terzomondista» della politica italiana che al
Sud non si dovessero o potessero applicare i criteri valutativi o operati-
vi del rapporto Est-Ovest, quantunque presupposti «globalizzanti» sia-
no compresi in teorie come quelle fondate sulla dialettica centro-perife-
ria o sulla necessità di istituzionalizzare l’ordine mondiale214. Anche per
questo l’Italia si è sempre adoperata per evitare di entrare in rotta di
collisione con le espressioni più «avanzate» del Terzo Mondo. Con il
capovolgimento logico, dalla tendenziale riserva di favore per il mondo
in via di sviluppo ad una presunzione di antagonismo strutturale, con
riflessi per la sicurezza in rapporto al terrorismo, alle migrazioni di mas-
sa e al confronto interculturale, l’aumento dell’iniziativa non riguarda
solo la parte italiana, perché le parti che si ritengono colpite nei loro in-
teressi rispondono con tutti i mezzi a disposizione. Dei due criteri ana-
litici che hanno sempre ispirato la politica estera italiana, anche per i
fondamenti della nostra cultura politica, quello «bipolare» è pratica-
mente scomparso, ma quello «universale» non può più essere persegui-
to presumendo una totale «impunità».

213 ministero della difesa, La difesa. Libro bianco 1985, Roma 1985.
214 santoro, La politica estera cit., p. 43.

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