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Sommario
e l’Italia non poteva prescindere dai rapporti di forza reali con le gran-
di potenze e con gli stessi suoi alleati potenziali o attuali. A sostegno si
invocava il diritto di proseguire l’opera di «civilizzazione» ma concor-
revano anche motivi di prestigio nonché il bisogno di tenere aperta una
valvola di sfogo all’eccedenza demografica.
Mentre si apprestava a giuocare le sue carte nell’arena internazionale,
si offrì all’Italia anche la fenomenologia, in un certo modo inedita e per
la quale comunque la cultura e la politica italiana si dimostrarono larga-
mente impreparate5, implicita nel rapporto con i popoli delle colonie o ex
colonie. L’assunto iniziale del governo postfascista fu, semplicisticamen-
te, di chiedere la restituzione dei possedimenti appartenuti all’Italia pri-
ma del fascismo desistendo solo dalle conquiste successive, e quindi, in
pratica, l’Etiopia oltre all’Albania6. La distinzione era storicamente di
dubbia fondatezza, perché tutte le colonie, con la sola eccezione al più
dell’Eritrea, erano state materialmente sottomesse alla potestà italiana ne-
gli anni del fascismo, quando per lo più la titolarità era divenuta effetti-
va. Lampante era soprattutto il caso della Libia7. Per non precludersi un
recupero di sovranità o di influenza, il governo italiano si era opposto al-
la «rinuncia» ai territori che avevano fatto parte del suo impero, ma alla
fine il trattato di pace del 1947 privava il paese vinto di tutte le sue colo-
nie con questa formula non decidendo peraltro sulla destinazione finale8.
Un verdetto interlocutorio che non impedì al governo e in generale alle
forze politiche italiane di tentare un velleitario «ritorno» in Africa9.
10 Prima di passare tutta la materia all’Onu, i ministri degli Esteri delle quattro grandi po-
tenze si incontrarono a Parigi nel settembre 1948. La conferenza si concluse con un fallimento
completo: nessun accordo, neppure sul comunicato finale. Un resoconto dei lavori nel telespresso
dell’ambasciata italiana in Francia al ministero degli Esteri del 16 settembre 1948 (Asmae, Ex Pos-
sedimenti, b. 21, f. 1).
11 La colonia a cui mirava l’Urss era la Tripolitania: Mosca si impegnava a non utilizzare il ter-
ritorio nordafricano per impiantarvi basi militari e a non esportarvi il sistema sovietico, ma piut-
tosto a servirsi dei porti sul Mediterraneo per inserirsi meglio nel commercio mondiale (dichiara-
zione del delegato sovietico a Parigi, 20 giugno 1946, FRUS [Foreign Relations of the United States]
1946, vol. II, p. 559).
12 Le due dichiarazioni erano state rese alla Camera dei Comuni rispettivamente il 1° set-
tembre 1943 e il 17 gennaio 1945 (a. sterpellone, Vent’anni di politica estera, in aa. vv., La po-
litica estera della Repubblica italiana, Milano 1967, vol. II, p. 185).
13 Proprio la questione coloniale suggeriva per esempio a Roberto Cantalupo uno scatto di di-
gnità nazionale rifiutando l’ingresso nel Patto atlantico per protestare contro il trattamento, a suo
dire ingiusto, inflitto dalle potenze occidentali (r. cantalupo, Blocco occidentale e Italia d’Affrica,
in «Affrica», 15 marzo 1948, p. 65). Alla neutralità pensava anche Manlio Brosio, ambasciatore
«politico», dalla sua sede di Mosca (m. brosio, Diari di Mosca, 1947-1931, Bologna 1986, passim).
L’Urss poteva essere ricondotta a una politica più benevola, anche sulle colonie, solo in cambio di
concessioni tangibili.
del contenimento anti-Urss. L’esito delle elezioni del 18 aprile 1948 fe-
ce giustizia di tutte le incertezze: l’Italia aveva compiuto una «scelta di
campo» e il problema delle colonie, su cui pure i suoi alleati avevano mo-
strato un’estrema cautela, tanto da aver ricusato una dichiarazione di
sostegno sulla falsariga di quella per Trieste rilasciata alla vigilia della
consultazione14, si risolveva in quell’ambito. Il ministro degli Esteri Sfor-
za, in particolare, avrebbe messo nella ricerca dell’alleanza con l’Occi-
dente un impegno «ideologico» parlando di civiltà occidentale minac-
ciata, di civiltà cristiana, ecc., nella speranza forse di ottenere più cre-
dito presso la Gran Bretagna15. L’Urss non aveva più nessun motivo per
dover compiacere l’Italia, come aveva fatto finché c’era stata una lar-
vata possibilità che a Roma prevalessero le sinistre, permettendole for-
se di mettere «un piede» in Africa16 per il tramite di un’Italia amica, e
ricompattò la sua politica nel senso dell’anticolonialismo.
Il dibattito all’Onu rivelò i profondi contrasti che ormai l’attraver-
savano. Dopo che una commissione quadripartita aveva visitato tutte le
ex colonie italiane, l’Onu inviò a sua volta una commissione in Eritrea
per accertare gli orientamenti del territorio più contestato. Fin dal 1945
l’Etiopia aveva proclamato i suoi diritti storici sull’Eritrea e ad abun-
dantiam l’aveva pretesa per avere finalmente un accesso al mare17. Nel
maggio 1949 fallì in extremis l’accordo italo-inglese: il «pacchetto» mes-
so a punto da Bevin e Sforza non ottenne la prescritta maggioranza
all’Assemblea generale e l’Italia si dirà allora pronta ad appoggiare l’in-
dipendenza degli ex possedimenti eventualmente dopo un periodo di
14 p. pastorelli, La crisi del marzo 1948 nei rapporti italo-americani, in id., La politica este-
ra italiana del dopoguerra, Bologna 1987, pp. 123-24. La versione di Egidio Ortona, diplomati-
co in servizio a Washington, in Anni d’America, I. La ricostruzione: 1944-1951, Bologna 1984,
pp. 230-35.
15 l. graziano, La politica estera italiana (1943-1963), Padova 1968, pp. 75-76.
16 Per effetto delle preclusioni connesse con la guerra fredda, gli Stati Uniti si allinearono sul-
le posizioni rigide della Gran Bretagna diffidando dell’Italia (cfr. il memorandum del Comitato di
coordinamento dipartimento di Stato-Guerra-Marina dell’8 luglio 1947 con la nota dei capi di Sta-
to Maggiore congiunti in FRUS 1947, vol. III, pp. 592-93). Per quanto riguarda la Gran Bretagna,
un memorandum del 2 marzo 1946 sosteneva che forze occidentali erano indispensabili nel Nor-
dafrica (Future of the Italian Colonies, Pro [Public Record Office, Londra], Cab 131). Il massimo
di benevolenza dell’Urss per le posizioni ex coloniali italiane nella nota comunicata il 16 febbraio
1948 con la quale Mosca «riaffermava l’atteggiamento dell’Unione Sovietica a favore di un’am-
ministrazione fiduciaria dell’Italia sulle sue antiche colonie» («Relazioni internazionali», 1948, n.
9, p. 191).
17 Sull’Eritrea e sull’accesso al mare insistevano i memorandum consegnati da Hailé Selassié
a Roosevelt quando i due statisti si incontrarono in Egitto nel febbraio 1945 (la documentazione
essenziale nel dispaccio dell’ambasciatore americano Caldwell al dipartimento di Stato, n. 317, 27
febbraio 1945, Archivi nazionali di Washington, 59/7166; il dispaccio senza gli allegati in FRUS
1945, vol. VIII, pp. 5-7).
18 Discorso di Sforza all’Assemblea generale dell’Onu, 1° ottobre 1949 (sforza, Cinque an-
ni a Palazzo Chigi cit., pp. 171-83).
19 Sul carattere anticoloniale insiste per esempio b. bagnato, Vincoli europei echi mediterra-
nei, Firenze 1991, pp. 28 sgg.
20 La Somalia era stata definita «senza valore strategico» da j. f. dulles ( War and Peace, New
York 1950, p. 59) e il governo americano si decise ad assegnarla all’Italia per ripagarla della per-
dita di Libia e Eritrea (rapporto del Consiglio per la sicurezza nazionale, 4 agosto 1949, FRUS
1949, vol. IV, pp. 575-76; appunto del 5 marzo 1949, Archivi nazionali di Washington, 59/6970).
21 L’intesa fra Etiopia e Stati Uniti, ancora allo stato informale, risaliva al già ricordato in-
contro del febbraio 1945, per il quale si rimanda a g. calchi novati, L’imperatore e il presidente:
alle origini dell’alleanza Etiopia-Stati Uniti, in «Africa», settembre 1988, pp. 360-77. In Etiopia
prestava la sua opera come consulente della corte un giurista americano, J. H. Spencer, autore di
due volumi su questa esperienza: Ethiopia at Bay, Algonac 1984 e Ethiopia, the Horn of Africa and
U.S. Policy, Cambridge (Mass.) 1977. In Eritrea gli Stati Uniti volevano garantirsi l’acquisizione
della base di Radio Marina presso Asmara (h. g. marcus, Ethiopia, Great Britain and the United
States, 1941-1974, Berkeley 1983, p. 83). Cfr. anche jordan gebre-medhin, Peasants and Nationa-
lism in Eritrea, Trenton 1989, p. 149; d. a. korn, Ethiopia, the United States and the Soviet Union,
London 1986, p. 1; cashai berane e e. williamson, Erythrée, Paris 1985, pp. 70-71; bereket
habté selassié, Conflict and Intervention in the Horn of Africa, New York 1980, p. 58.
22 Le sinistre accusavano il governo di non aver cercato di migliorare la sua posizione facen-
dosi appoggiare dall’Urss, con tutte le incongruenze di una politica che cercava di conciliare l’an-
ticolonialismo nascente e la difesa degli interessi italiani in Africa, mentre la destra lo rimprove-
rava di non aver difeso a sufficienza gli interessi italiani. Sforza (Cinque anni a Palazzo Chigi cit.,
p. 85) riteneva che non c’erano margini per un negoziato fra colonie e adesione alla Nato, che del
resto era un successo in sé. De Gasperi aveva sempre considerato con molto scetticismo la possi-
bilità di recuperare le colonie: cfr. adstans [p. canali], Alcide De Gasperi nella politica estera ita-
liana (1945-1953,), Verona 1953, p. 223. Anche Tarchiani, ambasciatore a Washington, reputa
che la causa coloniale fosse senza speranze dall’inizio (a. tarchiani, Dieci anni tra Roma e Wa-
shington, Verona 1955, p. 17). Tutto ciò non impedisce che la questione coloniale sia stata ogget-
tivamente e psicologicamente uno dei temi centrali della nostra politica estera nell’immediato do-
poguerra, addirittura il «problema numero uno» secondo Quaroni (p. quaroni, Il mondo di un am-
basciatore, Milano 1965, p. 213).
23 Così si espresse il potentissimo ministro della Penna del governo etiopico, Woldegheorghis
(rapporto di Giuliano Cora, 12 giugno 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Etiopia, b. 713).
24 Il primo incontro fra esponenti dei governi italiano ed etiopico dopo la guerra avvenne l’in-
domani del voto sull’Eritrea, a New York l’8 dicembre 1950, fra il sottosegretario Giuseppe Bru-
sasca e il ministro Aklilou Habté Wold. Fu ancora Brusasca a compiere (settembre 1951) la mis-
sione che di fatto stabilì le relazioni fra i due paesi (comunicato finale, processo verbale e diario
della visita in Asmae, Affari politici 1950-57, Etiopia, b. 713).
25 Lettera dello Stato Maggiore della Difesa al ministero degli Affari Esteri, 18 gennaio 1948,
Asmae, Ex Possedimenti, b. 21. Questo valeva tanto più finché era incerta la natura stessa del go-
verno italiano prima delle elezioni del 1948 (nota dello Stato Maggiore americano, 8 luglio 1947,
FRUS 1947, vol. III, p. 593).
26 La Francia temeva il contagio del nazionalismo per i suoi possedimenti del Nordafrica e nel
settembre 1945 propose che l’Italia fosse reinsediata nei suoi territori (FRUS 1945, vol. II, pp.
109-10; la proposta fu ufficializzata nel 1946, FRUS 1946, vol. II, pp. 155-63). Il governo france-
se, se possibile, voleva tenere lontane sia la Gran Bretagna che l’Urss. De Gaulle avrebbe detto a
Nenni: «Preferisco nel Mediterraneo gli italiani agli inglesi, gli arabi ai russi» (la conversazione eb-
be luogo il 15 gennaio 1946 ed è riferita in p. nenni, I nodi della politica estera italiana, a cura di D.
Zuccaro, Milano 1974, pp. 26-27). Sui rapporti fra Italia e Francia con riguardo alla questione co-
loniale cfr. bagnato, Vincoli europei cit., pp. 113 sgg.
27 In una nota al presidente del Consiglio un ex governatore di colonia (probabilmente Ric-
cardo Astuto), partendo dalla premessa che le colonie erano perdute per sempre, aveva raccoman-
lia non prese mai seriamente in esame la possibilità di puntare sulla «car-
ta araba» per dare un significato diverso all’abbandono delle colonie.
Invano i delegati della Lega araba e dei governi arabi più presenti sulla
scena mondiale si appellarono al principio di autodeterminazione pro-
spettando un percorso convergente con la politica di Roma28. Per di-
fendersi dalle pressioni occidentali, l’Egitto lasciò intendere che pote-
va rivalersi sulla Libia29. L’Italia stimava comunque di non avere un con-
tenzioso aperto con gli arabi; anche il mandato sulla Somalia era un segno
di collaborazione30. Se c’era, l’occasione andò perduta. Un osservatore
attento come Basilio Cialdea aveva scritto:
Queste constatazioni dovrebbero suggerirci un’iniziativa di revisione della no-
stra sovranità: e non a beneficio dei Quattro Grandi, ma delle popolazioni stesse già
sottoposte alla nostra occupazione. Tale iniziativa, specialmente nel caso libico, po-
trebbe venir preparata razionalmente mediante diretti contatti con la Lega araba,
per assicurare la tutela dei nostri interessi, quale fondamento di sviluppi ulteriori non
solo nella Libia ma in tutto il mondo arabo del Medio Oriente. Non si dovrebbe te-
mere la perdita di un dominio anacronistico, se ciò ci fa acquistare un formidabile
credito in tutto il mondo arabo, favorisce la ripresa ed intensificazione di scambi
commerciali, e offre la possibilità di contribuire sostanzialmente mediante le nostre
capacità produttrici e tecniche al progresso di quei popoli. Per la libertà del mondo
arabo e contro gli imperialismi che si preparano a combattere ancora una battaglia
per l’acquisto delle nostre colonie. Questa formula rivoluzionaria è forse l’unica che
ci si offra come fonte di sviluppi, cui l’evoluzione del mondo arabo è propizia31.
dato un atteggiamento più da «politica estera» che da «politica coloniale», impostando rapporti a
tutto campo con i protagonisti della scena mondiale (relazione 29 settembre 1946, Asmae, Ex Pos-
sedimenti, b. 1, f. 1). Spingendosi ancora più in là, in un dispaccio di Zoppi indirizzato a Parigi si
ipotizzava una politica «di ampio respiro», e non come semplice accorgimento tattico, volta a ri-
stabilire una relazione con «quei paesi d’Oriente che furono nei secoli nostri naturali amici e clien-
ti» e che ci eravamo alienati a causa del colonialismo (28 giugno 1949, n. 3/2683, Asmae, Ex Pos-
sedimenti, b. 34). È plausibile che negli spunti di filoarabismo ci fosse qualche residuo di anglofobia.
28 Sui colloqui italo-arabi cfr. FRUS 1947, vol. III, pp. 582 e 607-9 e rossi, L’Africa italiana
cit., pp. 298-300.
29 Appunto Mae [Ministero degli Affari Esteri, Roma], 12 novembre 1951, Asmae, Affari po-
litici 1950-57, Medio Oriente, b. 841 e appunto ministero Affari Esteri, 29 novembre 1951, Asmae,
Affari politici 1950-57, Egitto, b. 870.
30 Colloquio Zoppi-Prunas, 2 dicembre 1950, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Orien-
te, b. 850.
31 b. cialdea, La sorte delle colonie italiane, in «Relazioni internazionali», 1947, n. 43, p. 676.
32 Appunto Mae, 6 ottobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 841.
33 Appunto dall’ambasciata italiana a Parigi per il ministro degli Esteri Sforza, 6 agosto 1950, ivi.
34 l. t. hadar, The United States, Europe, and the Middle East, in «World Policy Journal», esta-
te 1991, p. 423.
35 Promemoria Mae - ambasciata Usa a Roma, 28 agosto 1948, Asmae, Affari politici 1946-
50, Palestina, b. 17 e dispaccio dall’ufficio dell’osservatore all’Onu del 10 settembre 1948, ivi.
36 Dispaccio Mae a varie ambasciate, 7 agosto 1948, Asmae, Affari politici 1946-50, Palesti-
na, b. 5.
37 Legazione Amman-Mae, 28 aprile 1950, Asmae, Affari politici 1950-57, Israele, b. 724.
Ab-dallah, il sovrano di Giordania, appariva una possibile pedina per la nostra politica araba (Am-
man-Mae, 14 agosto 1949, Asmae, Affari politici 1946-50, Giordania, b. 1).
38 Appunto Mae, 13 maggio 1954, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 981. La
nostra politica araba, dicono al ministero, è più una cornice che un quadro (appunto Mae, 2 apri-
le 1954, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 1006).
39 Il documento di Usa, Gran Bretagna, Francia e Turchia fu inviato all’Egitto e ad altri pae-
si arabi (Siria, Libano, Iraq, Arabia Saudita, Yemen, Giordania) più Israele il 14 novembre 1951.
Immediate furono le proteste dell’Urss, che vi scorse la solita impostazione del «contenimento» a
senso unico.
nel Medio Oriente40, avendo in mente non solo la tensione fra arabi e
Israele, ma anche possibili interferenze dell’Urss, e anche allora l’Italia
non era stata interpellata. Il Medio Oriente veniva in un certo senso as-
similato al «mondo libero»; la garanzia contro «un’aggressione dall’ester-
no» rientrava nelle previsioni e nel linguaggio della guerra fredda. L’Ita-
lia pensava di possedere tutti i requisiti per far parte del Comando, tan-
to più se paragonati a quelli di candidati lontani dal Mediterraneo come
l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sudafrica41. Un’adesione di Italia (e
Grecia o Spagna) avrebbe diminuito la diffidenza degli arabi42. Poiché
però il governo italiano non voleva compromettersi fino in fondo con la
politica delle potenze occidentali, tentò di approfittare dell’esclusione
iniziale43 per acquistare uno spazio di manovra maggiore, soprattutto
dopo che Egitto e Gran Bretagna entrarono in collisione diretta per la
decisione del Cairo di denunciare l’accordo militare del 1936.
Un obiettivo costante della politica estera dell’Italia, quasi un rifles-
so condizionato, è di chiedere di essere associata alle iniziative degli al-
leati non accettando una gerarchia discriminatoria, salvo farsi prendere
dai dubbi sulle conseguenze. In sede diplomatica si studiò la possibilità
di fare nostri gli impegni di cui alla dichiarazione del 1950 o almeno di
emettere, in una fase di crescente tensione, una dichiarazione aggiunti-
va contro eventuali aggressioni nel Medio Oriente44. Altri fecero nota-
re invece lo svantaggio di essere rinchiusi in una politica «che produce
impopolarità» e nella quale, in ogni modo, non potendo avere una fun-
zione determinante, saremmo apparsi «al rimorchio»45. Il sottinteso era
che se l’iniziativa degli occidentali avesse avuto successo l’Italia ne avreb-
be ricavato egualmente gli utili di cui era alla ricerca. L’Italia doveva far
capire agli Stati Uniti che «la nostra posizione politica nell’Oriente ara-
bo può essere utilissima al mondo occidentale»46. D’altra parte, se si vo-
40 La nota tripartita del 25 maggio 1950 in «Relazioni internazionali», 1950, n. 22, p. 348.
41 I tre paesi erano contemplati nella proposta originale. Australia e Nuova Zelanda erano as-
sociate alla difesa del mondo occidentale attraverso l’Anzus. Un po’ diverso era il caso del Suda-
frica, che mostrò comunque tanto interesse per la difesa del Medio Oriente, distaccando anche del-
le forze per questo scopo, perché si aspettava di essere contraccambiato con la protezione del po-
tere bianco da parte della Gran Bretagna (cfr. j. barber e j. barratt, South Africa’s Foreign Policy,
Cambridge 1990, pp. 50-57).
42 Appunto Mae, 13 novembre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 839.
43 L’ambasciatore Tarchiani da Washington a De Gasperi, 9 novembre 1951, Asmae, Affari
politici 1950-57, Egitto, b. 870.
44 Dispaccio dell’ambasciata a Londra, 17 aprile 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 1093.
45 Dispaccio dell’ambasciatore a Londra, 2 aprile 1956, ivi.
46 Appunto Mae, s.d. [ma 1951], Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 769.
47 L’Italia fu ammessa tuttavia ad un comitato degli ambasciatori dei paesi occidentali per il
controllo sulle forniture militari al Medio Oriente.
48 Dispaccio all’ambasciata al Cairo, 22 ottobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 839 e appunto Mae, 31 ottobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Orien-
te, b. 841.
49 Si veda il lungo e articolato rapporto inviato da Amman il 23 ottobre 1951, Asmae, Affari
politici 1950-57, Medio Oriente, b. 839.
50 L’offerta fu avanzata con la dovuta ufficialità da De Gasperi in un discorso al Senato il 18
ottobre 1951. Il presidente del Consiglio sottolineava i motivi di comunanza che univano l’Italia
e il mondo arabo (cfr. b. c., Le basi della politica estera italiana, in «Relazioni internazionali», 1951,
n. 43, p. 820).
nali che effettive51 e che almeno l’Iraq volesse togliere all’Egitto il suo
ruolo preminente52.
Le aperture ai paesi arabi in funzione dell’estensione dell’influenza
dell’Occidente e del suo concetto di sicurezza, ma intanto a beneficio
dell’Italia, si sono ripetute in varie occasioni. Il «riformismo» ebbe il suo
teatro di applicazione soprattutto nel Mediterraneo, un’area che Francia
e Gran Bretagna avevano sotto controllo dai tempi del colonialismo e che
gli Stati Uniti ambivano a presidiare nel quadro della confrontazione con
l’Urss. Grazie alla distensione fra Est e Ovest delineatasi nel 1955, che
portò fra l’altro finalmente all’ammissione dell’Italia all’Onu, l’Italia, con
Pella al ministero degli Esteri, adattò alla vocazione mediterranea la po-
litica detta «neoatlantica», intesa ad aumentare le occasioni di consulta-
zione ed iniziativa entro la Nato53. C’era anche una dimensione econo-
mica che si materializzò in un progetto elaborato da Pella: una specie di
triangolazione Usa – Europa – mondo arabo che prevedeva la costituzio-
ne di un fondo con le somme rimborsate agli Stati Uniti per i prestiti del
Piano Marshall alle nazioni europee per finanziare lo sviluppo del Medio
Oriente. Si provarono ad eseguire concretamente quella politica – un in-
treccio di nazionalismo e di autonomismo neutralisteggiante – alcuni di-
plomatici intraprendenti detti «Mau Mau», con Amintore Fanfani come
responsabile politico, approdato al ministero degli Esteri nel 1958, a cui
nocquero, stando a quanto scrive Sterpellone, «imprecisione nell’esame
dei problemi», «fretta nell’esecuzione delle decisioni adottate», «prema-
turi entusiasmi» e «eccessivo ottimismo»54. A differenza delle grandi po-
tenze, l’Italia rifuggiva dall’uso della sanzione militare, anche se la supe-
riorità delle potenze occidentali non lasciava dubbi sull’esito di una even-
tuale prova di forza. Le conseguenze politiche sarebbero state tutte
51 Appunto Mae, 13 novembre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 841.
52 Dispaccio all’ambasciata al Cairo, 4 giugno 1952, ivi.
53 p. cacace, Venti anni di politica estera italiana (1943-1963), Roma 1986, pp. 479 sgg.
54 sterpellone, Vent’anni di politica estera cit., p. 338. La letteratura di parte occidentalista
è in genere critica per tali esperimenti, e per termini come «vocazione mediterranea» e «neoa-
tlantismo», anche se si riconosce l’esigenza di aprire spazi maggiori alla nostra politica estera (m.
n. ferrara, La politica estera dell’Italia libera (1945-1970), Milano 1970, p. 130). Assai più arti-
colato e meglio argomentato è il giudizio di Bruna Bagnato, che da un lato rileva giustamente la
complessità di un giuoco diplomatico che cercava di far valere insieme nel teatro mediterraneo co-
lonialismo e anticolonialismo, diverso il primo come il secondo per quanto riguardava l’Italia ri-
spetto alle esperienze di altre nazioni, e validi entrambi per impostare delle trattative (bagnato,
Vincoli europei cit., p. 35), e dall’altro l’inevitabile contraddizione di una politica che, mentre a
parole diceva di voler favorire l’avvicinamento fra paesi arabi e mondo occidentale, sfruttava «a
proprio esclusivo beneficio le tensioni che si producevano dallo scontro tra potenze coloniali e spin-
te all’emancipazione dei popoli dipendenti» (ibid., p. 48).
55 Appunto del segretario generale del ministero Esteri per la presidenza del Consiglio, 31 ot-
tobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 841. In un altro documento (ap-
punto Mae, 17 ottobre 1951, ivi) si diceva che anziché antagonizzare i nazionalisti arabi c’era la
«convenienza di invitarli a partecipare su un piede di parità e di fiduciosa collaborazione alla di-
fesa del comune patrimonio civile».
56 kogan, L’Italia del dopoguerra cit., p. 139.
57 Dispaccio da Washington, 2 marzo 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente,
b. 1093. Sul viaggio di Gronchi in America cfr. e. ortona, Anni d’America, II. La diplomazia:
1953-1961, Bologna 1986, pp. 153 sgg. (p. 164 per la questione del Medio Oriente).
58 In un dispaccio da Londra l’ambasciatore Brosio esprimeva peraltro l’opinione che aspet-
tare l’adesione unanime degli arabi era una chimera e che gli arabi avrebbero finito per chiedere
di essere ammessi alla spicciolata (16 ottobre 1952, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Orien-
te, b. 842).
dio Oriente a fini militari con alla testa un Planning Board di cui avreb-
bero fatto parte Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Turchia, Suda-
frica, Australia e Nuova Zelanda, parlò Carlo Gasparini in una confe-
renza all’Istituto di guerra marittima di Livorno il 7 maggio 195359.
L’Italia cercava di inserirsi mediando fra la tesi inglese (priorità agli
aspetti militari anche senza gli arabi) e americana (più spazio alla poli-
tica e concertazione con gli arabi) e delineando una difesa unitaria per
tutto il bacino. L’obiettivo era un patto di mutua assistenza con la par-
tecipazione di Italia e Grecia, non un Anzus (patto di sicurezza fra Au-
stralia, Nuova Zelanda e Stati Uniti) per il Medio Oriente60; qualun-
que forma avesse preso un’organizzazione difensiva per il Medio Orien-
te e il Mediterraneo, i paesi della regione dovevano essere ammessi a
pieno titolo.
Il progetto di un patto per il Medio Oriente e il mondo arabo fu ri-
preso e rilanciato in grande stile nel 1955, sulla falsariga delle organiz-
zazioni militari dell’era Dulles. Toccò alla Turchia prendere l’iniziati-
va. Fra le potenze occidentali fu di nuovo la Gran Bretagna a insistere
perché si arrivasse al fatto compiuto. Dall’accordo bilaterale fra Turchia
e Pakistan si sviluppò – con l’adesione di Iran, Iraq e Gran Bretagna –
l’organizzazione multilaterale nota come patto di Baghdad. Gli Stati
Uniti erano gli ispiratori ma il governo americano non si espose in pri-
ma fila per non qualificare troppo chiaramente l’alleanza; gli Stati Uni-
ti restarono così associati al Patto partecipando a parte intera solo al Co-
mitato militare e (dal 1956) a quello economico. L’unico paese arabo che
si prestò fu l’Iraq. L’opposizione per il resto era tanto diffusa che nep-
pure la Giordania – l’altro paese governato, come l’Iraq, da un sovrano
della dinastia hashemita – potè mantenere l’impegno: una mezza solle-
vazione di tendenza nazionalista costrinse re Hussein a revocare il con-
senso. L’Egitto combattè la proposta con accanimento; era come se il
trattato, formalmente diretto a impedire aggressioni dall’esterno (l’Urss
premeva contro il Northern Tier), avesse come scopo principale proprio
quello di isolare l’Egitto nasseriano.
Una volta ancora l’Italia si trovò a dover agire in una congiuntura
che la stringeva fra le alleanze della guerra fredda, a cui la predispone-
va l’affiliazione alla Nato, e la sua vocazione di nazione mediterranea
59 In Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 909, insieme al testo di una confe-
renza del tenente colonnello Michele Palladino agli ufficiali dello Stato maggiore dell’esercito (4
febbraio 1953).
60 Appunto di Zoppi inviato a varie ambasciate, 21 febbraio 1953, Asmae, Affari politici 1950-
57, Medio Oriente, b. 910.
prattutto degli Stati Uniti nel Medio Oriente e nel Golfo, ma il suo pro-
getto di «modernizzazione dall’alto»66, tutto racchiuso entro il model-
lo americano, si scontrò – prima di crollare alla fine degli anni settanta
sotto i colpi della rivoluzione islamica – con la crescita di un movimen-
to riformatore, che trovò la sua espressione nel governo presieduto da
Mohammed Mossadeq, un esponente non convenzionale dell’aristocra-
zia che si era personalmente convertito al liberalismo e al nazionalismo.
Nella situazione di radicalizzazione prodotta dalle tensioni della guer-
ra fredda, mentre in Indocina la guerra di liberazione anticoloniale era
egemonizzata da un movimento che si richiamava alla III Internaziona-
le ed era appoggiato da Cina e Urss, una lotta politica per il progresso e
paradossalmente per la liberalizzazione poteva apparire un varco per l’in-
fluenza del comunismo e di Mosca. Una fonte italiana era drastica: «La
Persia [...] già si avvia a grandi passi ad essere inclusa nel sipario di fer-
ro. Le prossime elezioni accelereranno tale movimento»67. Tutta la vi-
cenda fu gestita con questa impostazione dalle potenze occidentali. Lon-
dra, che subì i danni maggiori quando il parlamento iraniano approvò
una legge di nazionalizzazione del petrolio, sollecitò gli alleati a condi-
videre la sua intransigenza. L’Italia ribadì di «nutrire simpatia per le
aspirazioni dei popoli d’Oriente a migliorare le proprie condizioni di vi-
ta»68: una dichiarazione che rischiava di scadere a mera retorica se, co-
me accadde, la misura presa dal governo di Teheran diventava un casus
belli con l’Occidente. Gli italiani, e gli stessi americani, erano in gara
per avere condizioni migliori sul mercato dell’Iran69, un paese che ve-
niva presentato come un «dominio invisibile» dell’Inghilterra70. Ma in-
tanto si trattava di riaffermare il principio – allora pressoché indiscus-
so – dell’intangibilità degli interessi economici del mondo sviluppato
nell’area coloniale anche per prevenire effetti emulativi. Si doveva solo
evitare di caricare il contrasto di eccessive note ideologiche. Benché nei
precedenti dell’Iran non ci fosse mai stato un rapporto coloniale pro-
66 j. w. jacqz (a cura di), Iran: Past, Present and Future, New York 1976 (e in particolare il sag-
gio di a. alimard e c. elahi, Modernization and Changing Leadership in Iran, pp. 217-25).
67 Rapporto da Amman di P. La Terza per De Gasperi, 23 ottobre 1951, Gli occidentali al bi-
vio: Egitto o Inghilterra? Arabi o ebrei?, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 839.
68 Erano parole comprese nella già citata allocuzione di De Gasperi in Senato del 18 ottobre
1951.
69 All’epoca della crisi l’Italia riceveva dall’Iran, e per esso dall’Anglo-Iranian Oil Company,
il 6 per cento del suo normale fabbisogno di greggio (appunto Mae, 6 ottobre 1951, Asmae, Affa-
ri politici 1950-57, Iran, b. 720).
70 «La Gran Bretagna ha invece visto gravemente scossa la sua influenza nell’Iran e rischia di
perdere in sostanza un altro suo “dominio invisibile”» (appunto Mae, 6 ottobre 1951, Nazionaliz-
zazione dei petroli nell’Iran, Asmae, Affari politici 1950-57, Iran, b. 719).
71 j. stork, Il petrolio arabo, Torino 1978, p. 12; g. w. stocking, Middle East Oil, Nashville
1970, p. 10 e a. nouschi, Le lotte per il petrolio nel Medio Oriente, Milano 1971, pp. 23 sgg. (il te-
sto dell’accordo alle pp. 93-96). Sulla storia del petrolio nel Medio Oriente con speciale riguardo
per gli effetti a livello internazionale cfr. b. shwadran, The Middle East, Oil and the Great Powers,
New York 1956.
72 In queste condizioni, anche la Turchia, che sotto altri aspetti poteva apparire «oltranzista»,
era incerta (cfr. il dispaccio Ankara-Mae, 14 maggio 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 851).
73 Lettera del Mae al ministero della Difesa e altri con la trascrizione di un messaggio dell’am-
basciata italiana a Teheran del 30 ottobre 1952, Asmae, Affari politici 1950-57, Iran, b. 808.
74 Teheran-Mae, 28 ottobre 1952, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 851,
75 p.h. frankel, Petrolio e potere, Firenze 1970, p. 95. La lealtà, nelle condizioni di obiettiva
debolezza dell’ente italiano, sarebbe stata dettata del resto da uno «stato di necessità» (così F. Sab-
batucci nel saggio L’Italia e la crisi energetica in stork, il petrolio arabo cit., p. xxvi). Sull’iniziati-
va dell’Eni cfr. il dispaccio Mae-Teheran, 21 giugno 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 851.
76 La visita si svolse dal 26 giugno al 7 luglio 1951. Si decise di non darne notizia alla stampa
ma era stato preparato un comunicato se la notizia fosse trapelata comunque e in esso si diceva
espressamente che il governo inglese era stato informato (Mae-Teheran, 21 giugno 1951, Asmae,
Affari politici 1950-1957, Iran, b. 717).
77 Mae-ambasciata a Londra, 9 giugno 1951, ivi.
78 Mae-ambasciata a Londra, 22 ottobre 1951, ivi e appunto Mae, Nazionalizzazione dei pe-
troli nell’Iran cit.
79 Nei documenti italiani ci sono parecchie menzioni di richieste iraniane e di rifiuti ufficiali
da parte dell’Italia, anche con l’argomento che l’offerta era di esigue proporzioni (nota Mae, 27
ottobre 1951, Asmae, Affari politici 1950-57, Iran, b. 717; appunto Mae, 6 ottobre 1951, Asmae,
Affari politici 1950-57, Iran, b. 720; e ancora appunto Mae, 18 marzo 1952, Asmae, Affari poli-
tici 1950-57, Iran, b. 809). Il solo episodio documentabile di parziale violazione del blocco fu il
caso della motocistema Miriella della società italiana Supor, che incontrerà peraltro ostacoli insu-
perabili a far ritirare il carico da una raffineria (m. magini, L’Italia e il petrolio tra storia e cronolo-
gia, Milano 1976, pp. 128-29; l. bazzoni e r. renzi, Il miracolo Mattei, Milano 1984, pp. 170-73).
L’Italia trasse indirettamente profitto dalla crisi iraniana perché l’industria italiana contribuì in
misura notevole a coprire il fabbisogno dei mercati rimasti sguarniti per effetto della chiusura del-
la gigantesca raffineria di Abadan, che aveva da sola una capacità doppia di tutti gli impianti ita-
liani messi insieme.
sto caso l’Iran – il 75 per cento della rendita petrolifera associandolo al-
la valorizzazione delle sue risorse e riconoscendo un valore maggiore al-
la titolarità dei giacimenti ma anche ai suoi contributi in termini di im-
prenditorialità e manodopera. Non era una rivoluzione ma l’innovazio-
ne aumentò oggettivamente la concorrenzialità dell’Eni agli occhi dei
grandi monopoli americani e occidentali83. L’Eni era all’opera in altre
situazioni-limite, con riguardoall’Algeria per esempio, aiutando dietro
le quinte il Fronte di liberazione nazionale impegnato contro la Fran-
cia84. La politica estera del gruppo Eni negli anni dell’opera di Mattei,
saldamente ancorata a fattori di Realpolitik, si integrava da una parte
con l’idealismo misticheggiante e irenico di La Pira, che come sindaco
di Firenze si lanciò in audaci operazioni di pace fra Est e Ovest, fra po-
tenze coloniali e paesi in via di sviluppo, fra arabi e Israele, e dall’altra
con l’attivismo politico-commerciale di Gronchi, Pella e Fanfani.
L’esperimento radicaleggiante tentato in Iran trovò una più compiuta
attuazione nella rivoluzione degli «ufficiali liberi» in Egitto. Il carattere
di rottura del colpo di stato militare del luglio 1952 non apparve subito
chiaro. Il re Faruq fu detronizzato ma il nuovo regime rinviò di qualche
mese la proclamazione della repubblica e tenne alla sua testa un uomo, il
generale Neguib, che apparteneva al vecchio establishment, era un mode-
rato, credeva nella democrazia liberal-rappresentativa. Il movimento ave-
va però intenti più drastici. Dietro Neguib premeva, impaziente e ambi-
ziosissimo, il colonnello Gamal Abdel Nasser, la cui ascesa definitiva al
potere avvenne fra il 1953 e il 1954 e che ha legato il suo nome a uno dei
regimi più controversi ma certamente più cruciali per la storia del mondo
arabo e delle relazioni fra il mondo arabo e l’Occidente. La riforma agra-
ria, la repubblica, la scelta del socialismo, la chiusura delle basi inglesi,
l’istituzione del partito unico, il neutralismo come bandiera dopo la Con-
ferenza afro-asiatica di Bandung del 1955 furono altrettante mosse di av-
vicinamento a quell’exploit – la nazionalizzazione della Compagnia del
Canale di Suez – che portò l’Egitto alla ribalta provocando una crisi in-
83 I punti essenziali dell’accordo in Annuario di Politica internazionale 1957, Milano 1958, pp.
713-15. È corrente l’opinione che sia stata l’esclusione degli italiani dal consorzio internazionale
istituito in Iran per sostituire l’Aioc a spingere l’Eni e personalmente Mattei ad agire (nouschi,
Le lotte cit., p. 89; bazzoni e renzi, Il miracolo Mattei cit., p. 193). Andò a vuoto un successivo ten-
tativo di ripetere la formula in Libia per le pressioni esercitate su Tripoli dal governo americano
(sabbatucci, L’Italia e la crisi cit., pp. xxxii-xxxiii; bazzoni e renzi, Il miracolo Mattei cit., p. 198).
84 Nel 1958 l’Eni stipulò un accordo per la ricerca petrolifera nel bacino sahariano di Tindouf
sul confine fra Marocco e Algeria. L’accordo fu firmato nel corso di una visita a Rabat del presi-
dente Gronchi e di Fanfani. Accordi furono stipulati con l’Egitto nel 1958 e nel 1959. Sempre nel
1958 fu bloccata invece all’ultimo momento da un veto del ministero degli Esteri una fornitura di
armi alla Tunisia, altra nazione confinante con l’Algeria in guerra, caldeggiata da Mattei.
94 Dal Mae al dipartimento di Stato, 25 luglio 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio
Oriente, b. 1049.
95 Dopo i colloqui a tre nell’isola al largo della costa jugoslava, Nehru e Nasser viaggiarono in-
sieme alla volta dell’Egitto e il primo ministro indiano venne a sapere del definitivo rifiuto ameri-
cano mentre si trovava ancora sull’aereo. Nehru fu informato della decisione prima della sua par-
tenza (m. h. heikal, Les documents du Caire, Paris 1972, p. 42).
96 Appunto Mae, 3 febbraio 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 1093.
Se ne discusse anche nella riunione dei capi missione in Medio Oriente che si svolse al ministero
degli Esteri il 19 aprile 1956.
97 Dal segretario generale Rossi Longhi a Brosio, 28 ottobre 1956, Asmae, Affari politici 1950-
57, Medio Oriente, b. 1093.
104 L’annotazione di Einaudi è in allegato a una missiva dall’ambasciata a Parigi sulla difesa
del Medio Oriente, 27 novembre 1952, Asmae, Affari politici 1950-57, Medio Oriente, b. 842.
105 Era il suggerimento di Brosio nella lettera a Martino del 9 settembre 1956 già citata.
106 Minuta del ministro Martino per la riunione al Quirinale del 9 agosto 1956, Asmae, Af-
fari politici 1950-57, Egitto, b. 1057.
107 L’Egitto declinò dicendo di essere disposto a partecipare a un altro tipo di conferenza. Dei
24 invitati, 22 risposero positivamente.
108 Cfr. Report of the Suez Committee on the Mission entrusted to it by Eighteen of the Nations
which attended the Conference of the Suez Canal, September 9, 1956 e The Suez Canal Conference (Se-
lected Documents), London, August 2-24,1956, Londra, Cmd. 9853). L’Italia aveva avanzato «in
via non ufficiale, un suo progetto inteso a veder affidata la gestione «del Canale» all’Egitto ma
sotto un netto e ben definito controllo internazionale» (Mae, Appunto sulla Conferenza per la que-
stione del Canale di Suez, 23 agosto 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 1052), otte-
nendo forse qualche attenzione (appunto Mae, 19 settembre 1956, Asmae, Affari politici 1950-
57, Egitto, b. 1051). L’Egitto poteva negoziare una sistemazione ma non subire una soluzione pre-
confezionata.
113 «È estremamente importante per l’Italia di far parte del gruppo esecutivo, ed a tal fine
converrebbe ove necessario lasciare che la sede venga istituita in un altro paese» (appunto Mae,
29 settembre 1956, Asmae, Affari politici 1950-57, Egitto, b. 1051).
114 Siccome l’Italia era recalcitrante a impegnarsi tassativamente su questo punto, Parigi si ac-
contentò di una formula più vaga che in un certo senso capovolgeva l’ordine delle procedure.
115 Sulla reazione del governo americano c’è anche la testimonianza di Ortona. Se molti han-
no riferito delle espressioni colorite impiegate dal presidente Eisenhower nei confronti di Francia
e Gran Bretagna, linguaggio che viene comunemente definito «da caserma» (h. thomas, La crisi
di Suez, Milano 1969, p. 179), il diplomatico italiano descrive un Dulles in lacrime «su questa spa-
ventosa incrinatura dell’alleanza» (ortona, Anni d’America cit., vol. II, p. 208).
116 Discorso del ministro degli Esteri Martino alla Camera, 6 novembre 1956, in «Relazioni
internazionali», 1956, n. 45, pp. 1399-1402.
I problemi del Medio Oriente tornarono in primo piano nel 1967 con
la guerra dei sei giorni, che ebbe come risultato di sconvolgere anche in
termini territoriali la regione più critica per il duplice asse, Est-Ovest e
Nord-Sud, della politica internazionale. La crisi mise duramente alla
prova la capacità di Usa e Urss di tenere sotto controllo i loro alleati del-
la periferia. L’Onu fu in parte strumentalizzata e in parte scavalcata.
Per quanto riguarda l’Italia, la crisi era in un certo senso fuori della sua
portata ma interferiva in più punti con la sua politica estera. Lo strari-
pamento di Israele dai confini che erano stati riconosciuti più o meno
for-malmente dall’ordine internazionale, e la contestuale emergenza con
rinnovata autorevolezza dell’istanza di autodeterminazione dei palesti-
nesi, anche a scapito dell’intermediazione da sempre rappresentata da-
gli stati arabi, severamente ridimensionati dalla disfatta, portavano con
sé implicazioni cosi profonde da coinvolgere inevitabilmente un paese,
come l’Italia, immerso nella realtà geografica, economica e politica del
Mediterraneo.
Dopo il conflitto del 1956, la sicurezza sul confine fra Egitto e Israe-
le era stata affidata ai caschi blu delle Nazioni Unite (Unef, United Na-
tions Emergency Force). Non è qui il luogo per accertare perché un equi-
librio preservato per circa dieci anni senza scosse maggiori sia precipi-
tato nello spazio di poche settimane verso una guerra totale. Già l’esatta
successione dei fatti, con le relative motivazioni, è oggetto di valuta-
zioni discordanti. Anche ricostruzioni più recenti che si sono rese pos-
sibili dopo la «declassificazione» dei documenti diplomatici e per la te-
stimonianza di alcuni dei protagonisti lasciano spazio a interrogativi non
risolti. Perché l’Urss aizzò i sospetti della Siria, e a rimorchio dell’Egit-
to, con una rivelazione esageratamente drammatizzata di un movimen-
to di truppe israeliane? Perché l’Egitto si assunse la responsabilità di
chiedere il ritiro della forza dell’Onu con il rischio di trovarsi faccia a
faccia con Israele? Perché il segretario generale delle Nazioni Unite rac-
colse con tanta fretta la richiesta del Cairo invece di cercare di raffred-
dare la crisi? «È chiaro che la guerra di giugno venne quando venne a
causa di molteplici mancanze umane di prevedere con proprietà i risul-
tati di vari corsi d’azione»124. La domanda essenziale più che mai è dun-
que chi alla fine – fra Israele, Egitto e Siria – abbia più coscientemente
voluto la guerra. L’abbrivio della catena sfociata nella guerra fu uno
scontro aereo all’inizio di aprile sul ciclo di Damasco125. La caccia israe-
liana abbatté 6 aerei siriani provocando il regime del Baath pur met-
tendo spietatamente in luce la sua vulnerabilità a confronto della supe-
riorità militare di Israele. Proprio perché a Damasco c’era al potere un
governo espresso dalla versione più radicale del nazionalismo arabo, e
per essere individualmente la Siria il paese arabo che più si era autoin-
124 r. b. parker, The June 1967 War: Some Mysteries Explored, in «The Middle East Journal»,
primavera 1992, vol. 46, n. 2, p. 197.
125 Per una ricostruzione fattuale della guerra cfr. e. rouleau, j. -f. held, j. e s. lacouture,
Israel et les Arabes: le 3e combat, Paris 1967.
128 s. green, Taking Sides: America’s Secret Relations with a Militant Israel, New York 1984 e
a. e l. cockburn, Dangerous Liaison: The Inside Story of the U.S.-Israel Covert Relationship, New
York 1991.
129 w. b. quandt, Lyndon Johnson and the June 1967 War: What Colour Was the Light?, in «The
Middle East Journal», primavera 1992, vol. 46, n. 2, p. 228.
130 «Department State Bulletin», 12 giugno 1967, p. 870.
di non essere isolato: come tale essa venne percepita dagli stati arabi, an-
che se non potevano pronunciarsi apertamente contro la riaffermazione
di un principio di per sé inoppugnabile. Si discuteva se mai su chi doves-
se sottoscrivere quella dichiarazione. Il patrocinio anglo-americano la ren-
deva pregiudizialmente invisa al Cairo. L’Italia lasciò intendere di rite-
nere che «in questo momento una solenne dichiarazione contro il blocco
egiziano sarebbe più utile e avrebbe maggior efficacia se fatta dall’Onu,
che nessuno può accusare di parzialità e di interessi particolari»131. Que-
sta posizione non mancò di essere stigmatizzata dai fedelissimi della Na-
to. Il fatto che il Pci avesse apprezzato, sia pure dopo un dibattito molto
serrato al suo interno, la politica del governo, prestando forse orecchio al-
le pressioni della Cgil132, gettava un’ombra sulla condotta della Farnesi-
na, dove sedeva un Fanfani sotto tiro per le sue critiche alla guerra ame-
ricana nel Vietnam. Un editoriale del «Corriere della Sera» dava il segnale
di un’interpretazione tutta schiacciata sul bipolarismo Est-Ovest: «La VI
flotta americana è la garanzia dell’equilibrio e della sicurezza nel Medi-
terraneo: lo è per tutte le nazioni rivierasche, compreso Israele, compre-
so l’Egitto. Ma la Russia non lo vuole più», e sarebbe appunto l’appoggio
dell’Urss a trasformare le «prepotenze» di Nasser, il «fascismo egiziano»,
in un «vero pericolo»133.
In una simile semplificazione non era dubbia la collocazione dell’Ita-
lia. Ma un acritico allineamento sulle posizioni occidentali dalla parte di
Israele – sia o no Israele il motivo del contrasto – è proprio quanto Fan-
fani non può accettare senza distruggere tutta la trama della sua «poli-
tica mediterranea», con i risvolti di penetrazione economica e di ap-
provvigionamento energetico che, tramite l’Eni, l’hanno connotata.
Contro Fanfani sono schierati i leader moderati della stessa Democra-
zia cristiana e i partiti laici minori. Ma Fanfani si sarebbe trovato in di-
saccordo anche con Nenni, allora vicepresidente del Consiglio, più fer-
mo nella difesa di Israele, anticipando una spaccatura nella sinistra che
avrebbe avuto importanti evoluzioni in futuro134. I comunisti restaro-
no con Fanfani anche a guerra iniziata, quando giudicarono «responsa-
bili» le prime dichiarazioni del ministro degli Esteri, soprattutto se pa-
ragonate con quelle di altri esponenti della maggioranza135, e insistet-
tero con forza perché l’Italia rimanesse «fuori del conflitto»negando ba-
si militari, porti e appoggi logistici a eventuali interventi armati e di-
chiarando «la sua piena neutralità»136. Il che non impedì all’Italia di
schierarsi quando all’Onu votò per la mozione latino-americana («riti-
ro condizionato» di Israele) e non per quella jugoslava («ritiro incondi-
zionato»)137.
Gli effetti di lunga durata della guerra dovevano rivelarsi molto più
gravi di quanto fosse stato previsto. Forse Israele aveva combattuto per
riaprire le vie marittime o per prevenire un’aggressione, ma di fatto si
trovò a dover gestire un territorio ampliato in modo smisurato, smen-
tendo il principio stesso della spartizione su cui si fondava la legalità in-
ternazionale. La fattispecie anticoloniale applicata al caso della Palesti-
na era paradossalmente più nitida ora che tutta la Palestina del manda-
to inglese era riunificata sotto l’amministrazione di Israele, un’entità
che gli stati arabi giudicavano di per sé estranea e abusiva. Il sottopro-
dotto del conflitto fu appunto l’affermazione dell’Organizzazione per
la liberazione della Palestina (Olp) come rappresentante del popolo pa-
lestinese dei territori occupati (la Cisgiordania e la striscia di Gaza «con-
quistate» da Israele nel giugno 1967) e della diaspora138. Israele poteva
avere interesse a trattare con gli arabi, più reattivi al ricatto dei suoi raid
punitivi e in prospettiva alle sue avances, per un compromesso politico;
ma, come divenne pratica ufficiale dopo le risoluzioni del vertice arabo
di Rabat del 1974, l’Olp era ormai la sola espressione politica abilitata
a parlare a nome dei palestinesi. Il discorso di Arafat all’Assemblea ge-
nerale dell’Onu il 14 novembre 1974 – da una parte la mitraglietta del
guerrigliero e dall’altra il ramoscello d’olivo come impegno di pace –
sancì un trapasso di rappresentatività che aveva in fondo le sue origini
nel passo fatale intrapreso dallo stato ebraico nel 1967 arrivando al Gior-
dano e spingendosi fino al Canale di Suez, anche se il Sinai ai fini della
mitologia sionista non aveva la medesima forza evocativa delle terre che
nella terminologia israeliana venivano chiamate Giudea e Samaria (ed
infatti fu più facile rinunciare ad esso quando si presentarono le condi-
zioni per una «pace separata» con l’Egitto).
I sentimenti che si agitavano sullo sfondo della «minaccia» degli ara-
bi contro lo stato ebraico furono capitalizzati da Israele per fare accet-
tare – anche in Italia – il fatto compiuto dell’invasione e dell’occupa-
zione. Confusi complessi di colpa per le persecuzioni passate a danno
139 l. guazzone (a cura di), Fabbricanti di terrore: Discriminazioni antiarabe nella stampa italia-
na, Roma 1986.
140 m. rodinson, Israel et le refus arabe, Paris 1968; trad. it. parziale (Israele e il rifiuto arabo,
Torino 1969) e nuova edizione con aggiornamento (Torino 1975).
141 Santoro dice che non di tre politiche si tratta bensì di «variazioni su un unico tema con-
duttore», che è quello della ridefinizione del ruolo spettante all’Italia (c. m. santoro, L’Italia e il
Mediterraneo, Milano 1988, p. 110).
142 a. cassese, Il caso «Achille Lauro», Roma 1987; f. j. piason, Italian Foreign Policy; The
Achille Lauro Affair, in r. leonardi e r. y. nanetti (a cura di), Italian Politics: a Review, London
1986, vol. I; g. calchi novati, The Case of the Achille Lauro Hijacking and Italo-Arab Relations:
One Policy, Too Many Policies, No Policy?, in «Journal of Arab Affairs», vol. X, autunno 1991, n.
2, pp. 153-79, b. zarmandili, Documenti di un dirottamento. Il caso «Achille Lauro» nei giornali e
in televisione, Roma 1988; g. de rosa, Terrorismo Forza 10, Milano 1987.
151 l. magrini, Aperture e limiti della politica di sviluppo, in «Politica internazionale», 1978,
n. 6-7, p. 84.
152 Il Fed distribuiva gli aiuti su progetti che di fatto beneficiavano le imprese ed il lavoro dei
vari paesi membri consentendo una sommaria valutazione del rapporto fra fondi elargiti e com-
messe assegnate. Analoghe valutazioni si facevano con riferimento al commercio. Naturalmente la
Francia conservava una posizione di assoluta preminenza in tutti i suoi ex possedimenti; la Soma-
lia era una ben modesta consolazione per l’Italia.
157 Il testo della dichiarazione sul Mediterraneo in «Relazioni internazionali», 1975, n. 32-
33, p. 809. La Csce è la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
158 m. dassu e m. c. ercolessi, La politica europea in Medio Oriente, in id., La crisi del Medio
Oriente, Milano 1984, p. 238.
159 b. khader, Una cooperazione da costruire, in «Politica internazionale», 1981, n. 11-12,
p. 71.
160 id., Coopération euro-arabe, Louvain-la-Neuve 1982; j.-p. sebord, D’un deuxième monde à
l’autre: essai prospectif sur l’Europe du Sud et le monde arabe, Paris 1977; j. bourrinet (a cura di),
Le dialogue euro-arabe, Paris 1979.
161 d. frescobaldi, La sfida di Sadat, Milano 1977.
Ma gli europei, non importa quale fosse l’etichetta sotto cui si pre-
sentavano all’appuntamento con i Pvs, risentivano delle preclusioni del
bipolarismo e questo bastava a sospingere i paesi arabi ed in genere il
170 p. g. donini, Il dialogo euro-arabo non serve più?, in «Politica intemazionale», 1988, n. 6,
pp. 69-75 e in particolare la tabella 1 a p. 70. Nel 1974 il mondo arabo partecipava alle importa-
zioni della Cee per l’11,8 per cento contro l’8,3 degli Usa (nel 1979 per il 9,2 contro 7,8) e alle
esportazioni della Comunità per il 4,5 contro 5,9 degli Usa (nel 1979 per il 6,9 contro 5,9).
171 g. luciani, Un’ipotesi da realizzare, in «Politica internazionale», 1977, n. 10, p. 28.
172 L’allargamento della Cee ai paesi mediterranei mutava i dati strutturali dell’interdipen-
denza fra Cee e mondo arabo (r. taylor, Gli effetti per i paesi del bacino mediterraneo, in «Politica
internazionale», 1981, n. 3, pp. 41-54).
173 i. a. obaid, Political Preconditions for Cooperation with Western Europe, in e. volker (a cu-
ra di), Euro-Arab Cooperation, Nijhoff 1976, pp. 171-76.
174 Se nel 1973 la produzione petrolifera dei paesi arabi era pari a 18,8 milioni di barili al
giorno (contro 39,7 dei paesi non arabi), nel 1979 il rapporto era di 22,5 a 43,4 e nel 1986 di 13,2
a 47,0.
175 donini, Il dialogo euro-arabo cit., pp. 72-73.
176 khader, Una cooperazione cit., p. 73.
177 r. aliboni, La sécurité européenne à travers la Méditerranée, Paris 1991 e Contenuti e pro-
spettive di una Conferenza sulla sicurezza e cooperazione nel Mediterraneo: un punto di vista italiano,
Istituto affari internazionali, Roma 1991. Cfr. anche b. ravenel, Géopolitique de la Méditerranée
occidentale, in th. paquot (a cura di), La bibliothèque des deux rives, Paris 1992, pp. 173-89.
178 Dibattito sulla politica estera alla Camera dei deputati, Roma, 20 marzo 1990.
179 Dichiarazione del diplomatico italiano Gabriele Sarda al Middle East Institute di Wa-
shington, 22 maggio 1991.
180 È utile ricordare almeno due documenti a sostegno della politica dell’aiuto, redatti a di-
stanza di circa 10 anni ed espressione quindi di sensibilità, esigenze e strategie diverse: commis-
sion on international development, Partners in Development, London 1969 (Rapporto Pearson)
e commissione indipendente per lo sviluppo, Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza, Mi-
lano 1980 (Rapporto Brandt).
181 La quota di aiuto dedicata dall’Italia all’assistenza multilaterale negli anni settanta era in-
torno all’85 per cento contro una media del 35 per cento per gli altri paesi donatori. Il rapporto si
è equilibrato negli anni ottanta portandosi su una media 60-40.
185 L’art, 1 della legge sulla cooperazione allo sviluppo approvata nel 1987 (n. 49) recita te-
stualmente: «La cooperazione allo sviluppo è parte integrante della politica estera dell’Italia e per-
segue obiettivi di solidarietà tra i popoli e di piena realizzazione dei diritti fondamentali dell’uo-
mo, ispirandosi ai principî sanciti dalle Nazioni Unite e dalle convenzioni Cee-Acp». Il testo dell’in-
tera legge in «Politica internazionale», 1987, n. 8-10, pp. 103-18.
186 Una conferenza internazionale di solidarietà con i popoli delle colonie portoghesi si svol-
se a Roma nel giugno 1970 (la dichiarazione finale in «Relazioni internazionali», 1970, n. 28,
p. 708).
187 Nella relazione presentata al parlamento dal ministero degli Esteri per l’attività di coope-
razione del 1986 gli obiettivi politici sono esplicitati per giustificare gli aiuti elargiti ai paesi del
Corno («nell’ottica di favorire il raggiungimento di condizioni di stabilità e una composizione pa-
cifica dei contrasti presenti nell’area»), all’Africa australe («per contribuire allo sviluppo, alla sta-
bilità politico-sociale e alla sicurezza di un’area di vitale importanza per gli equilibri dell’intero as-
setto internazionale»), ecc. e nel suo testo il ministro Andreotti diceva che l’aiuto al Mozambico
doveva contribuire a rafforzare la tendenza del governo «a una maggiore apertura e disponibilità
nei confronti dei paesi occidentali» («Cooperazione», n. 69, novembre-dicembre 1987, p. 63).
188 m. c. ercolessi, Tendenze della cooperazione intemazionale, in «Politica internazionale»,
1992, n. 4, pp. 79-88. Della stessa autrice cfr. Conflitti e mutamento politico in Africa, Milano 1991,
pp. 25-85.
189 a. panebianco, La politica estera italiana: un modello interpretativo, in «Il Mulino», n. 254,
novembre-dicembre 1977, pp. 845-79.
190 L’Italia ha approvato senza drammi e quasi senza discussione nel 1992 in sede parlamen-
tare il trattato di Maastricht che ha inaugurato la seconda tappa dell’Europa unita.
191 s. romano, Come è morta la politica estera italiana, in «Il Mulino», n. 342, luglio-agosto
1992, p. 718.
192 santoro, La politica estera cit., p. 234.
193 id., La Rosa dei Venti: l’«insieme» mediterraneo e l’Italia, in aa.vv., Relazioni Nord-Sud,
Est-Ovest. Interdipendenze e contraddizioni, Padova 1988, p. 342.
194 a. spinelli, Problemi e prospettive della politica estera italiana, in aa.vv., La politica estera
la Repubblica italiana cit., vol. I, p. 57.
195 Saggio di sintesi strategica del Mediterraneo [riservato], Roma 1953, pp. 253-55.
196 r. habachi, Orient, quel est ton Occident?, Paris 1969, p. 67.
197 dassú-ercolessi, La politica europea cit., pp. 248-49.
198 Allo scopo fu allestita una grande base nell’isola di Diego Garcia in pieno Oceano India-
no, ed altre basi furono chieste ai paesi rivieraschi.
202 Pionieristico può essere considerato l’invio di alcune unità della flotta italiana per soccor-
rere i profughi del Vietnam nel 1979.
203 santoro, La politica estera cit., p. 213.
204 Gianni Bonvicini scrive che l’Europa mantenne una posizione di equidistanza in Medio
Oriente senza rinnegare «la linea moderata approvata a Venezia» (g. bonvicini, Le carenze del pro-
getto politico dell’Europa, in «Politica internazionale», 1992, n. 9, p. 69).
205 «Relazioni internazionali», 1981, n. 49, pp. 1071-72.
guerra senza altre richieste che l’impunità per l’aggressione, era l’Iran a
dare l’impressione di volerla continuare. Per Khomeini, la guerra era di-
ventata un vero e proprio surrogato della politica. In realtà, l’Iran – la
grande potenza virtuale della regione per ragioni di demografia, di eco-
nomia, di dispositivo militare, nonché per la sua posizione geografica,
ben altrimenti dominante le rotte del Golfo rispetto a un Iraq quasi sen-
za sbocchi – aveva mantenuto una collocazione prioritaria: più in ter-
mini di geopolitica che di ideologia, visto che anche per le correnti che
tradizionalmente sono state più attente a rispettare i sovente contorti e
contraddittori movimenti di liberazione anticoloniali e antimperialisti,
quella cattolica e quella comunista, non c’erano elementi apprezzabili di
consonanza politica o culturale con l’islamismo di Teheran.
La progressiva «internazionalizzazione» del conflitto nel 1987 dopo
l’incidente della Stark206 ha trascinato anche l’Italia nel solco di un in-
terventismo sostanzialmente contro l’Iran (e sullo sfondo contro l’Urss).
Anche la politica italiana si è via via polarizzata sui modi per far fronte
a una situazione che minacciava la libertà e la sicurezza della naviga-
zione, faceva balenare lo spettro di una sgradita espansione dell’Iran e
della sua rivoluzione, dischiudeva imprevisti varchi alla penetrazione so-
vietica. Sulle prime l’intervento eventuale veniva riferito soprattutto al
pericolo delle mine, ma più avanti si parlerà piuttosto di scortare il na-
viglio e addirittura di difendere gli interessi nazionali o dell’Occidente.
La confusione fra i vari piani non ha facilitato né il dibattito né le de-
cisioni politiche. Resta naturalmente la singolarità di un atto di guerra
compiuto da una parte (l’Iraq) che riverbera i suoi effetti negativi sull’al-
tra (l’Iran).
Chiamata a una qualche forma di compartecipazione ai nuovi com-
piti militari, l’Italia si offrì prima di effettuare un pattugliamento sur-
rogatorio del Mediterraneo per sostituire le navi americane spostate nel
Golfo da zone adiacenti e inviò quindi sue proprie navi nel quadro del-
la forza navale allestita dagli Stati Uniti con compiti sempre più vicini
a quelli della cobelligeranza. Ufficialmente si trattava soprattutto di con-
tribuire all’azione di bonifica dalle mine delle acque del Golfo. Ad ac-
celerare l’intervento concorse un incidente in cui incappò un mercanti-
le italiano, la Jolly Rubino207. La decisione italiana di mandare caccia-
206 La fregata americana Stark fu colpita il 17 maggio 1987 da un missile scagliato da un ae-
reo iracheno, un Mirage armato di Exocet, causando la morte di 37 marittimi.
207 L’incidente avvenne il 3 settembre 1987; il battello leggero che attaccò la nave italiana non
fu identificato, ma ne derivò ovviamente un ulteriore rafforzamento del partito interventista. L’in-
cidente ebbe anche l’effetto di spostare l’attenzione dallo sminamento alla protezione della navi-
gazione,
mine e fregate militari nel Golfo viene presa dal Consiglio dei ministri
il 4 settembre. L’invio di una task force italiana in una delle zone più in-
candescenti del mondo provoca un immediato rialzo delle polemiche. È
la prima volta, dopo la guerra, che navi militari italiane si preparano a
una missione simile, in acque tanto remote.
L’invasione, occupazione e annessione del Kuwait da parte dell’Iraq
nell’agosto 1990 modificò radicalmente lo status quo nel Medio Orien-
te e i rapporti fra l’Europa e il mondo arabo. Anche l’Italia non esitò a
invertire la rotta e a rivolgere il suo interventismo contro l’Iraq. Nel
frattempo il conflitto Iraq-Iran era finito senza un vero vincitore, ma
con l’Iran che a un anno di distanza si era piegato accettando la risolu-
zione dell’Onu, sempre respinta perché «parziale», sotto le pressioni,
anche militari, di tutto il mondo occidentale208.
La crisi per il Kuwait si presentò al culmine dell’opera «revisionista»
di Gorba™ëv in Urss e nel mondo. Gli Stati Uniti potevano ormai coin-
volgere Mosca nella gestione della crisi rendendo irreversibile la con-
versione dell’Unione Sovietica a quello che il presidente Bush definì «il
nuovo ordine mondiale». I parametri della guerra fredda non avevano
più nessuna verosimiglianza e la precedenza toccava se mai alla con-
trapposizione Nord-Sud. La pace fra Usa e Urss e lo scoppio della guer-
ra in Oriente costringono l’Italia a una revisione lacerante a cui è forse
impreparata209. Malgrado un’ultima differenziazione, che permette di
individuare entro la Cee un asse franco-tedesco con l’adesione dell’Ita-
lia che tiene aperto per quanto possibile un canale di comunicazione con
Baghdad e d’altra parte il più pedissequo filoamericanismo della Gran
Bretagna che spinge per la guerra, anche l’Italia entra a far parte della
coalizione anti-Iraq, accantona tutte le riserve sulla liceità della guerra
e da un importante contributo all’azione militare vera e propria. L’Eu-
ropa tutta perde di vista sia la vocazione ad essere prima di tutto una
«potenza civile» sia l’idea di «globalità» che aveva caratterizzato le sue
posizioni in merito alle diverse questioni che compongono la crisi del
Medio Oriente.
L’Italia adottò l’embargo disposto a tempo di primato dall’Onu con-
tro l’Iraq, inviò una forza aeronavale nel Golfo per vigilare sulla sua ap-
plicazione e alla fine partecipò con una squadra aerea alle operazioni bel-
liche fornendo ampi supporti logistici alla «grande armata» capeggiata
208 A concludere tragicamente le varie interferenze militari delle potenze occidentali nella
guerra Iraq-Iran intervenne nel luglio 1988 l’abbattimento di un aereo civile iraniano da parte di
un missile lanciato da una nave americana, si disse per errore.
209 romano, Come’è morta la politica estera cit., p. 718.
dagli Stati Uniti. A parte il riferimento ultimo all’Onu, che approvò via
via le risoluzioni su cui fu costruito l’intervento militare, ma che non è
immune dall’accusa di essere troppo prona ai Diktat degli Stati Uniti,
l’azione dell’Italia fu sempre attenta a mantenersi entro l’ambito euro-
peo. Mentre in passato il collegamento con la Cee era servito ad am-
pliare l’autonomia delle iniziative, ora il richiamo alla solidarietà euro-
pea diventa un espediente per far accettare provvedimenti che malgra-
do tutto incontrano in Italia forti riserve d’ordine politico210. Contro
l’opzione militare agiscono le forze della sinistra, l’avversione istintiva
dell’opinione pubblica per la guerra, l’opposizione di larghi settori del
mondo cattolico corroborati dalla ferma condanna della guerra da par-
te del papa; hanno invece meno peso che in altre occasioni le tradizio-
nali simpatie proarabe, con i relativi interessi materiali, dato che paesi
arabi importanti militano nel fronte che contrasta Saddam.
La guerra di distruzione massiccia e sistematica, quali ne siano state
le motivazioni e le giustificazioni, contro un paese arabo, un regime sui
generis ma parte nonostante tutto di quel Terzo Mondo con cui l’Italia
ha sempre creduto di avere un feeling immediato, ha mutato tutte le coor-
dinate. Le affinità vere o presunte si trasformano in fratture reali. I set-
tori di interesse della nostra penetrazione economica, politica o cultu-
rale, per lo più vicini alla penisola e al Mediterraneo, o più remoti geo-
graficamente ma oggetto di relazioni storiche o di prestigio come il
Corno d’Africa, diventano «aree di rispetto» o di «interesse strategi-
co». L’Italia imita le altre potenze grandi o medie proponendosi di ope-
rare in prima persona, in senso attivo e non solo reattivo, anche nei cam-
pi della difesa e della sicurezza, per virtù proprie e non solo a fini di sup-
plenza o di delega. Sud ed Est, senza più vere differenze, entrano a far
parte di una «periferia globale» 211 da controllare se necessario con mez-
zi militari. Soprattutto nei sottoinsiemi mediterranei si pensa ad «azio-
ni di indirizzo politico-economico accompagnate, in caso di necessità,
da interventi militari, coordinati con altri paesi o anche autonomi, per
finalità d’interdizione e di pacificazione, e/o di protezione dei cittadini
e dei beni italiani all’estero»212. C’è un riscontro immediato nella mes-
sa a punto di un «nuovo modello di difesa» e di nuovi strumenti opera-
tivi a livello militare: l’Italia abbandona la concezione strettamente ter-
210 l. guazzone, Italy and the Gulf Crisis: European and Domestic Dimensions, in «The Inter-
national Spectator», 1991, n. 4, p. 58.
211 a. v. lorca e j. a. nuñez, Ec-Maghreb Relations: A Global Policy for Centre-Periphery In-
terdependence, ivi, 1993, n. 3, p. 55.
212 santoro, La Rosa dei Venti cit., p. 346.
restre (o al più aeroterrestre) della sua difesa, basata sulle esigenze che
le sono state affidate dalla strategia della Nato (la famosa «soglia di Go-
rizia» ), e dedica maggiore attenzione al controllo e alla difesa delle co-
ste provvedendo a ridislocare le sue forze armate verso il Centro-Sud e
costituendo ex novo una Forza d’intervento rapido modellata sugli ana-
loghi reparti a disposizione delle potenze abituate a intervenire oltre-
mare. Interventi a carattere bilaterale o multilaterale sul genere di quel-
li effettuati in Medio Oriente sono espressamente previsti nel Libro
bianco della Difesa del 1985213. La nuova priorità rappresentata dalla
«minaccia» del Terzo Mondo sottopone oggettivamente la politica este-
ra italiana a uno stress prima sconosciuto. E l’intero impianto della no-
stra partecipazione al sistema internazionale che deve essere ripensato
e questa revisione riguarda soprattutto le direttrici – il mondo arabo,
l’Africa – nelle quali si scontava una specializzazione non così condi-
zionata dalle scelte altrui come l’Europa o le relazioni fra i blocchi. Era
implicito nella «scoperta terzomondista» della politica italiana che al
Sud non si dovessero o potessero applicare i criteri valutativi o operati-
vi del rapporto Est-Ovest, quantunque presupposti «globalizzanti» sia-
no compresi in teorie come quelle fondate sulla dialettica centro-perife-
ria o sulla necessità di istituzionalizzare l’ordine mondiale214. Anche per
questo l’Italia si è sempre adoperata per evitare di entrare in rotta di
collisione con le espressioni più «avanzate» del Terzo Mondo. Con il
capovolgimento logico, dalla tendenziale riserva di favore per il mondo
in via di sviluppo ad una presunzione di antagonismo strutturale, con
riflessi per la sicurezza in rapporto al terrorismo, alle migrazioni di mas-
sa e al confronto interculturale, l’aumento dell’iniziativa non riguarda
solo la parte italiana, perché le parti che si ritengono colpite nei loro in-
teressi rispondono con tutti i mezzi a disposizione. Dei due criteri ana-
litici che hanno sempre ispirato la politica estera italiana, anche per i
fondamenti della nostra cultura politica, quello «bipolare» è pratica-
mente scomparso, ma quello «universale» non può più essere persegui-
to presumendo una totale «impunità».
213 ministero della difesa, La difesa. Libro bianco 1985, Roma 1985.
214 santoro, La politica estera cit., p. 43.