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Diversamente dalla Germania, uscita sconfitta dalla guerra e punita al tavolo della pace,

l’Italia mussoliniana non aveva da avanzare rivendicazioni territoriali capaci di


mobilitare l’opinione pubblica. Nonostante le delusioni subìte a Versailles, era pur
sempre una potenza vincitrice e aveva risolto in modo soddisfacente la spinosa
questione adriatica. Ma non per questo il fascismo poteva accantonare quella
vocazione nazionalista ed espansionista che faceva parte dei suoi caratteri originari e lo
portava a proporsi come il restauratore delle glorie di Roma antica.
Fino ai primi anni ’30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e si
tradussero, più che in una coerente direttiva di politica estera, in una generica
contestazione dell’assetto europeo uscito dai trattati di Versailles. Il che tuttavia non
impedì all’Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran Bretagna e di restare
all’interno del sistema di sicurezza collettiva fondato sull’intesa fra le potenze vincitrici.
Questa fase, culminata negli accordi di Stresa dell’aprile 1935, si esaurì però con
l’attacco dell’Italia fascista all’Impero etiopico, allora l’unico grande Stato indipendente
del continente africano.
A spingere Mussolini verso un’impresa di cui pochi in Italia sentivano la necessità
furono motivi di politica internazionale e interna. Con la conquista dell’Etiopia il duce
intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo,
vendicando al contempo lo scacco subìto dall’Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua. Ma
voleva anche creare una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse
passare in secondo piano i problemi economici e sociali del paese.
I governi francese e britannico erano disposti ad assecondare, almeno in parte, le mire
italiane. Ma non potevano accettare che uno Stato indipendente, membro della Società
delle Nazioni, fosse cancellato dalla carta geografica da un atto di aggressione. Così,
quando all’inizio di ottobre del 1935 l’Italia diede avvio all’invasione dell’Etiopia, Francia
e Gran Bretagna chiesero al Consiglio della Società delle Nazioni di adottare sanzioni
economiche, consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all’industria
di guerra.
Approvate a schiacciante maggioranza pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione, le
sanzioni ebbero un’efficacia molto limitata: sia perché il blocco non era esteso alle
materie prime, sia perché non impegnava gli Stati che non facevano parte della Società
delle Nazioni, come gli Stati Uniti e la Germania. Le decisioni prese ebbero però l’effetto
di approfondire la frattura fra il regime fascista e le democrazie europee e consentirono
a Mussolini di montare un’imponente campagna propagandistica tesa a presentare
l’Italia come vittima di una congiura internazionale. L’immagine dell’Italia “proletaria”
cui le nazioni plutocratiche, già padrone di sterminati imperi coloniali, volevano
impedire la conquista di un proprio “posto al sole” riuscì in effetti a far breccia
nell’opinione pubblica italiana, non escluse le classi popolari, alle quali fu fatto
intravedere il miraggio di nuovi posti di lavoro e di nuove opportunità di ricchezza da
conquistare oltremare. Le piazze si riempirono di folle inneggianti a Mussolini e alla
guerra. Studenti e attivisti di partito diedero vita a rumorose manifestazioni anti-inglesi.
Milioni di coppie, a cominciare da quella reale, accolsero l’invito del governo a donare
alla patria l’oro delle loro fedi nuziali.
Sul piano militare l’impresa fu più difficile del previsto: gli etiopi si batterono con
accanimento per più di sette mesi sotto la guida del negus Hailè Selassiè. Ma il loro
esercito, male organizzato e peggio equipaggiato, nulla poteva contro un corpo di
spedizione che giunse a impegnare circa 400 mila uomini e fece ampio ricorso ai mezzi
corazzati e all’aviazione, usata in più occasioni per bombardare le truppe nemiche con
gas letali. Il 5 maggio 1936, le truppe italiane, comandate dal maresciallo Pietro
Badoglio, entrarono in Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva annunciare
alle folle plaudenti «la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma» e offrire a re
Vittorio Emanuele III la corona di imperatore d’Etiopia.
Da un punto di vista economico la conquista dell’Etiopia, paese povero di risorse
naturali e poco adatto agli insediamenti agricoli, rappresentò per l’Italia un peso non
indifferente, cui si aggiunsero i problemi suscitati dalle sanzioni. Ma sul piano politico il
successo fu indiscutibile. Portando a termine una campagna coloniale vittoriosa,
imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e costringendole poi ad
accettare il fatto compiuto, Mussolini diede a molti la sensazione, illusoria, di aver
conquistato per l’Italia una posizione di grande potenza.
Inebriato dal successo, il duce credette di poter condurre una politica ambiziosa e
spregiudicata, sfruttando ogni occasione per allargare l’area di influenza italiana. In
questo piano rientrava anche l’avvicinamento dell’Italia alla Germania, cominciato
subito dopo la guerra d’Etiopia e sancito, nell’ottobre 1936, dalla firma di un patto di
amicizia cui fu dato il nome di Asse Roma Berlino. Rafforzato dal comune impegno
nella guerra civile spagnola e, nell’autunno ’37, dall’adesione italiana al cosiddetto patto
anti-Comintern, l’Asse Roma-Berlino non era ancora una vera alleanza militare.
Mussolini considerava infatti l’appoggio alla Germania non tanto come una scelta
irreversibile, quanto come uno strumento che, aumentando il peso contrattuale
dell’Italia, le consentisse di ottenere qualche ulteriore vantaggio in campo coloniale: il
tutto in attesa che il paese fosse preparato ad affrontare un conflitto in posizione di
forza.
Ma il dinamismo aggressivo della Germania non consentì a Mussolini i tempi e gli spazi
di manovra necessari per realizzare il suo programma. Credendo di potersi servire
dell’amicizia tedesca, il duce ne fu in realtà sempre più condizionato, al punto da dover
accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler. Finché, nel maggio 1939, si decise
alla scelta che sarebbe risultata fatale al regime e al paese: la firma di un formale patto
di alleanza con la Germania, il “patto d’acciaio”, che legava definitivamente le sorti
dell’Italia a quelle dello Stato nazista.
La vittoriosa campagna contro l’Etiopia segnò per il regime fascista l’apogeo del
successo e della popolarità. Ma, svaniti gli entusiasmi che avevano accompagnato
l’impresa coloniale, il fronte apparentemente compatto dei consensi conobbe alcune
significative incrinature. A suscitare preoccupazione era soprattutto il nuovo indirizzo di
politica estera attuato da Mussolini e dal suo principale collaboratore di questi anni, il
genero Galeazzo Ciano, assurto poco più che trentenne alla carica di ministro degli
Esteri. L’aspetto che più inquietava l’opinione pubblica era l’amicizia con la Germania:
un’amicizia che urtava contro le tradizioni del Risorgimento e della Grande Guerra, e
soprattutto contro la diffusa antipatia di cui era oggetto lo Stato nazista. La politica
mussoliniana si mostrava inoltre avara di risultati immediati e faceva sembrare più
vicina l’eventualità di una nuova guerra europea. Non fu un caso se le uniche
manifestazioni di spontaneo entusiasmo popolare di questo periodo si ebbero in
coincidenza col ritorno di Mussolini dalla conferenza di Monaco del ’38, e furono rivolte
al duce in quanto presunto salvatore della pace.
Ma le aspirazioni alla pace contrastavano con i programmi di Mussolini. Il duce
auspicava per l’Italia un avvenire di imprese militari e pensava che gli italiani avrebbero
dovuto non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi nel profondo,
trasformandosi in un popolo di conquistatori e di guerrieri. Ciò implicava da parte del
duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti della popolazione, in
particolare della borghesia, intesa non tanto come classe sociale quanto come
atteggiamento mentale che doveva essere definitivamente estirpato dal costume
nazionale.
Per avvicinarsi a questo obiettivo, il regime doveva diventare più totalitario di quanto
non fosse stato fino ad allora. Da qui scaturirono alcune modifiche istituzionali, che
andavano dalla creazione del ministero per la Cultura popolare all’accorpamento delle
organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio (Gil), dall’ampliamento delle
funzioni del Partito fascista alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei deputati con
una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione elettorale, si
entrava semplicemente in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime.
A una medesima logica rispondevano alcune iniziative di carattere più che altro
formale, e quasi folkloristico, che tuttavia possono dare un’idea del clima di quegli anni:
la campagna contro l’uso del “lei” e contro tutti i termini stranieri; l’imposizione della
divisa ai funzionari pubblici; l’adozione del “passo romano” per conferire un aspetto più
marziale alle sfilate militari.
Ma la manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria voluta da
Mussolini fu l’introduzione di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei:
leggi che ricalcavano nelle grandi linee quelle naziste del ’35, escludendo gli israeliti
dagli uffici pubblici, limitandone l’accesso alle professioni e vietando i matrimoni misti.
Preannunciata da un manifesto di dieci scienziati e preparata da un’intensa campagna
di stampa, la legislazione razziale giunse tuttavia del tutto inattesa in un paese che non
aveva mai conosciuto forme di antisemitismo diffuso: anche perché la comunità
ebraica era assai poco numerosa e complessivamente ben integrata nella società.
Adottando queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini si
proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell’orgoglio razziale e di fornirgli
così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma, anziché suscitare
consenso e mobilitazione, le leggi razziali furono accolte con indifferenza o con
perplessità dall’opinione pubblica; e aprirono per giunta un serio contrasto con la
Chiesa, contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni non
religiose, ma biologico-razziali.
In generale, lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni ’30 per fare del regime
fascista un totalitarismo pienamente realizzato e per cambiare la mentalità degli
italiani ebbe risultati mediocri. L’unico settore della società in cui le aspirazioni
totalitarie ottennero qualche successo fu quello giovanile. I ragazzi cresciuti nelle
organizzazioni di regime, gli studenti inquadrati nei Gruppi universitari fascisti, i giovani
più impegnati intellettualmente che ogni anno partecipavano a migliaia ai “littoriali
della cultura” si abituarono a “pensare fascista”, a considerare il regime come una realtà
immutabile, come un quadro di riferimento obbligato nelle sue linee di fondo. Fu solo
con lo scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici che il fascismo cominciò a
perdere progressivamente il sostegno sul quale più contava: quello appunto dei
giovani. I quali, diventati nel frattempo soldati e ufficiali, vissero in prima persona il
fallimento di un regime che puntò tutto sulla politica di potenza.

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