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L’INTERVENTO
Il 10 maggio, i tedeschi, consci del fatto che l’Italia aveva avvertito il Belgio che l’invasione rientrava
nei loro piani, decisero di mantenere il riserbo più assoluto, quindi Hitler fu costretto a giustificarsi in
qualche modo con il duce, sostenendo di aver preso la sua decisione solo dopo che negli ultimi giorni
erano aumentate le notizie che davano l’Inghilterra decisa ad occupare l’Olanda. La notizia dell’inizio
dell’offensiva non fece alcun piacere al Mussolini e intanto il momento dell’intervento si avvicinava.
Nelle sue lettere Hitler non tornò più sull’argomento dell’intervento italiano, ma continuava a fare una
cronaca esaltante e dettagliata dei successi delle sue truppe. Le reazioni alla notizia furono molteplici:
il desiderio di partecipare al conflitto che ormai Mussolini sentiva come decisivo per l’Europa e per
l’Italia, lo scetticismo sulle possibilità dei tedeschi di riportare una vittoria decisiva, la convinzione che
se negli USA erano decisi ad aiutare le democrazie lo avrebbero fatto subito, per impedire la loro
sconfitta sul continente, la volontà di intervenire solo se fosse stato sicuro della vittoria finale su
tempi brevi, la paura che un ritardo nell’intervento rendesse il suo apporto alla vittoria irrilevante e
diminuisse il suo peso al tavolo della pace, l’irritazione suscitata in lui dall’opposizione all’intervento, che
gli facevano desiderare di metterle a tacere. Con l’inizio della campagna di Francia, gli sforzi per
trattenere Mussolini dal seguire la Germania ripresero: Churchill scrisse a Mussolini a tale proposito a
metà maggio, perché anche Londra non era pienamente convinta del suo intervento. Le risposte di
Mussolini confermavano che l’Italia voleva rimanere fedele alla scelta di campo fatta con l’alleanza con
la Germania e agli obblighi che essa comportava, ma neppure Mussolini era ancora certo che fosse
venuto il momento giusto per intervenire: sino al 27- 28 maggio egli si preoccupò soprattutto della
preparazione morale degli italiani e di ottenere dal re il comando delle forze armate. Il duce conosceva
perfettamente l’estrema impreparazione militare italiana e la sua impossibilitò a sostenere una guerra
che si prospettava lunga e ciò era stato, un anno prima, uno dei motivi della non belligeranza. Ma ora la
situazione appariva mutata: più passavano i giorni, più la Francia sembrava sul punto di essere sconfitta.
In questa prospettiva la guerra sembrava avviarsi ad una rapida conclusione. La decisione di Mussolini
dipendeva solo dall’andamento della lotta in corso in Francia. Il vero problema era ora quello della scelta
del momento giusto per intervenire: non prima che la sconfitta francese fosse sicura, non dopo che
fosse già sconfitta e tale da rendere il suo intervento inutile. Mussolini si adoperò a ottenere il
comando supremo delle forze armate, un po’ per gelosia di Hitler; inoltre, a guerra finita, egli era
deciso a farla finita con la monarchia. Il sovrano cercò di tergiversare, ma alla fine dovette capitolare;
per non cedere del tutto ricorse però all’espediente di mantenere formalmente il comando supremo e di
affidare al duce solo il comando delle truppe operanti su tutti i fronti. Vittorio Emanuele III finì per
accettare l’intervento poiché i successi tedeschi scossero anche lui, ma rimase sempre contrario.
L’opinione pubblica diventò euforica alla prospettiva di facili vittorie, ma allo stesso tempo preoccupata
che se non fosse intervenuta, entro poche settimane sarebbe stata invasa dai tedeschi. Mussolini
utilizzò la stampa e la radio per sensibilizzare le masse: l’iniziativa di maggior rilievo fu la diramazione
del rapporto Pietromarchi del capo dell’ufficio guerra economica, in cui erano esposti in modo
dettagliato dei danni provocati all’economia italiana dal blocco marittimo. Esso ebbe vasta risonanza tra
l’opinione pubblica, ma più che eccitare gli animi contro Francia e Inghilterra, li depresse e fu inteso
come l’annuncio di nuovi drammatici fatti. La violazione della neutralità belga, olandese e
lussemburghese risvegliò in molti il ricordo del ’14 e suscitò una psicosi antitedesca, ma di fronte al
succedersi delle vittorie tedesche l’opinione pubblica divenne interventista, anche se con atteggiamenti
differenti. Ostili ad ogni prospettiva di partecipazione italiana alla guerra rimanevano le zone
contadine, quelle dove più forte era la presenza cattolica, e a Milano; ostile era anche la grande
borghesia, per tradizione, cultura, interesse, la classe operaia, che considerava la guerra un affare
privato del fascismo. Nel ’39 e nel ’40 la massima opposizione all’intervento era stata costituita dagli
ambienti siderurgici e dai metalmeccanici che, preoccupati dalla politica economica tedesca, avevano
appoggiato Ciano, ma avevano dovuto rassegnarsi. Il conflitto tra la Germania nazista e i suoi avversari
non aveva ancora assunto un carattere ideologico e di contrapposizione radicale, morale e politica, che
avrebbe portato i paesi coinvolti a mettere in discussione l’idea stessa di patria. Il 30 maggio Mussolini
inviò una comunicazione ad Hitler con l’intenzione di entrare in guerra. La vera decisione fu presa il 28
maggio. Nonostante il fallimento dei tentativi di Roosvelt e Churchill del 14 e 16 maggio, di fronte al
precipitare della situazione militare, Parigi non si rassegnava a rinunciare del tutto alla speranza di
giungere ad un qualche accordo in extremis con Mussolini: ricevendo delle soddisfazioni nel
Mediterraneo, il duce avrebbe potuto agire da moderatore su Hitler, ma soprattutto gli inglesi erano
restii a fare concessioni, quindi non si procedette oltre. Mussolini probabilmente non avrebbe cambiato
idea nemmeno se gli avessero offerto la Tunisia, l’Algeria e il Marocco. A determinare la decisione di
entrare in guerra il 28 maggio concorsero vari motivi, ma questi furono quelli decisivi: l’ormai chiaro
delinearsi della sconfitta alleata in Francia, la paura dei tedeschi in lui sempre più forte e l’andamento
dei due colloqui che Ciano aveva avuto il 27 maggio con gli ambasciatori statunitense e francese. Dal
primo Mussolini trasse la certezza che se Roosvelt si impegnava con tanta insistenza per tenere l’Italia
fuori dal conflitto, ciò significava che l’intervento italiano avrebbe avuto un ruolo effettivamente
determinante e che gli USA non volevano o non potevano entrare in guerra. Due giorni dopo aver
informato Hitler della sua decisione, Ciano sottoponeva al re la formula della dichiarazione di guerra e
Vittorio Emanuele III l’approvava. Sino alla fine i tedeschi avevano temuto che Mussolini, invece che
intervenire al loro fianco contro Inghilterra e Francia, potesse approfittare della situazione per
attaccare la Iugoslavia. Un0azione simile nei Balcani avrebbe offerto all’URSS il destro per intervenire
a sua volta nella regione. Hitler chiedeva a Mussolini di posticipare la data dell’intervento del 5 giugno,
ma il 2 giugno tale richiesta veniva ritirata e anzi, si chiedeva un anticipo, ma la risposta fu negativa. Il
duce voleva parlare al popolo italiano il 10 giugno, dopo la consegna della dichiarazione di guerra agli
ambasciatori inglese e francese. Nell’ultima settimana di pace, l’unico campo di grande attività fu quello
della preparazione morale degli italiani: non si faceva più mistero che si fosse alla vigilia dell’intervento,
che avrebbe avuto un carattere nuovo. Il 10 giugno, alle sedici e trenta, Ciano convocò a palazzo Chigi
gli ambasciatori francese ed inglese e comunicò loro la dichiarazione di guerra. Alle diciotto, Mussolini,
dal balcone di palazzo Venezia, Mussolini annunciò l’avvenuta dichiarazione di guerra ai romani e la radio
trasmise il suo discorso in tutto il paese. Francois- Poncet sostenne la pugnalata alla schiena di un
paese, la Francia, ormai a terra. Mussolini condusse il popolo italiano ad una lotta mortale contro
l’Impero britannico e privò l’Italia dell’amicizia e della simpatia degli USA. Dopo diciotto anni di potere
senza controllo, egli condusse il paese sull’orlo della rovina.