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Se già la grande crisi aveva distrutto le basi economiche della cooperazione fra vinti e

vincitori e fra Europa e Stati Uniti, l’avvento al potere di Hitler diede un colpo definitivo
all’equilibrio internazionale faticosamente costruito nella seconda metà degli anni ’20,
all’insegna della sicurezza collettiva. La prima importante decisione del governo nazista
in materia di politica estera fu, nell’ottobre ’33, il ritiro della delegazione tedesca dalla
conferenza internazionale di Ginevra, dove le grandi potenze cercavano di giungere a
un accordo sulla limitazione degli armamenti. Seguì, pochi giorni dopo, il ritiro della
Germania dalla Società delle Nazioni. Queste decisioni, con le quali Hitler mostrava
chiaramente di non sentirsi legato al “sistema di Locarno" e agli impegni assunti dai
governi precedenti, destarono allarme in tutta Europa.
Anche l’Italia fascista, nonostante le indubbie affinità ideologiche e nonostante il
comune atteggiamento revisionista, cioè critico nei confronti dell’assetto
internazionale stabilito a Versailles, dovette preoccuparsi per le mire aggressive
tedesche. Quando in Austria, nel luglio del ’34, gruppi nazisti ispirati da Berlino
tentarono di impadronirsi del potere e uccisero il cancelliere Dollfuss al fine di
preparare l’unificazione fra Austria e Germania, Mussolini reagì immediatamente
facendo schierare quattro divisioni al confine italo-austriaco. Hitler, che non era ancora
pronto per una guerra, fu costretto a far marcia indietro.
Meno di un anno dopo (aprile 1935) Hitler reintrodusse in Germania la coscrizione
obbligatoria vietata dal trattato di Versailles. Di fronte a questa palese violazione degli
accordi internazionali, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a
Stresa per ribadire la validità dei trattati e per riaffermare il loro interesse
all’indipendenza dell’Austria, senza peraltro adottare misure concrete contro le
ambizioni tedesche. Fu questa l’ultima manifestazione di solidarietà fra le tre potenze
vincitrici. Mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo
tedesco, Mussolini stava già preparando l’aggressione all’Impero etiopico, dando avvio
al riavvicinamento tra Italia e Germania.
Intanto la causa della sicurezza collettiva aveva trovato un nuovo e insperato sostegno
proprio nel paese che fino ad allora era rimasto completamente estraneo a tutte le
iniziative nate nell’ambito della Società delle Nazioni: l’Unione Sovietica. Fino al ’33 la
politica estera dell'Urss si era ispirata a una linea dura e spregiudicata: rifiuto dei trattati
di Versailles, nessuna distinzione fra Stati fascisti e democrazie borghesi. I successi di
Hitler, che non aveva mai fatto mistero dei suoi progetti ostili nei confronti della Russia,
indussero Stalin a intraprendere la strada della cooperazione internazionale. Nel
settembre ’34 l’Urss entrò nella Società delle Nazioni e nel maggio ’35 stipulò
un’alleanza militare con la Francia.
Questa brusca svolta diplomatica ebbe immediato riscontro in un altrettanto rapido
capovolgimento della linea seguita dal Comintern e dai partiti comunisti europei. Fu
accantonata la tattica della contrapposizione frontale alle forze democratico-borghesi e
più ancora alle socialdemocrazie, fino ad allora accusate di favorire “oggettivamente” il
fascismo o addirittura di costituire “un’ala del fascismo”: una tattica che, dividendo la
sinistra, aveva contribuito a spianare la strada al nazismo in Germania. La nuova parola
d’ordine, lanciata ufficialmente nel VII congresso del Comintern, fu quella della lotta al
fascismo, indicato ora come il primo e il principale nemico. Ai partiti comunisti spettava
il compito di riallacciare i rapporti non solo con gli altri partiti operai, ma anche con le
forze democratico-borghesi, di favorire ovunque possibile la nascita di larghe coalizioni
dette “fronti popolari”, allo scopo di appoggiare i governi democratici decisi a
combattere il fascismo.
Questa linea, se da una parte era funzionale alla nuova politica estera dell'Urss, dall’altra
fu il risultato di una pressione unitaria della base operaia europea, spaventata dalla
minaccia fascista. Questa spinta si avvertì soprattutto in Francia, dove l’instabilità
governativa e il susseguirsi degli scandali politico-finanziari mettevano a dura prova le
istituzioni repubblicane, dando spazio alla crescita della destra reazionaria e dei
movimenti filofascisti. Quando, il 6 febbraio 1934, l’estrema destra organizzò una marcia
sul Parlamento per impedire l’insediamento del governo presieduto dal radicale
Daladier, socialisti e comunisti risposero con manifestazioni unitarie, le prime dopo
molti anni. Fu questo il segno di un riavvicinamento che anticipava e preparava la
svolta dell’Internazionale comunista e che sarebbe poi stato sanzionato dalla firma, in
Francia e in altri paesi, di patti di unità d’azione fra socialisti e comunisti.
La nuova linea unitaria ebbe l’effetto di rinfrancare un movimento operaio depresso da
una lunga serie di sconfitte e di far rinascere la speranza che fosse possibile
fronteggiare vittoriosamente il fascismo con l’unità fra tutte le forze di sinistra. Queste
speranze si sarebbero rivelate illusorie. L’avvicinamento fra l'Urss e le democrazie e il
rilancio della politica di sicurezza collettiva non bastarono a fermare, nel ’35,
l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia, né poterono impedire che, nella primavera
del ’36, Hitler violasse un’altra clausola di Versailles reintroducendo truppe tedesche
nella Renania “smilitarizzata”. La passività mostrata in questa occasione dalle
democrazie, che non intervennero contro una Germania militarmente ancora debole,
avrebbe oggettivamente incoraggiato i piani aggressivi di Hitler.
Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un
minimo di unità al movimento operaio europeo, per la prima volta dopo la grande
rottura della rivoluzione russa, e di ridare così alla sinistra l’opportunità di assumere il
governo nelle democrazie occidentali. Nel febbraio 1936, una coalizione di fronte
popolare comprendente anche i comunisti vinse le elezioni politiche in Spagna. Nel
maggio dello stesso anno, in Francia il netto successo elettorale delle sinistre aprì la
strada alla formazione di un governo composto da radicali e socialisti, sostenuto
dall’esterno dai comunisti e presieduto dal socialista Léon Blum.
L’insediamento del primo governo a guida socialista nella storia francese fu
accompagnato da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare. La Francia
repubblicana e socialista parve ritrovare per un momento l’atmosfera fra esaltata e
festosa delle rivoluzioni ottocentesche. Gli operai dell’industria diedero vita a
un’imponente ondata di scioperi e di occupazioni di fabbriche, strappando a un
padronato riluttante, grazie anche alla decisiva mediazione del governo, la firma degli
storici accordi di Palazzo Matignon che prevedevano, oltre a consistenti aumenti
salariali, la riduzione della settimana lavorativa a quaranta ore e la concessione di
quindici giorni di ferie pagate.
Sebbene andassero incontro a esigenze più che legittime, gli accordi di Palazzo
Matignon crearono notevoli difficoltà all’economia francese, che non si era ancora
ripresa dalla grande depressione. L’improvviso aumento del costo del lavoro pregiudicò
la competitività dei prodotti dell’industria e innescò un rapido processo inflazionistico
che vanificò in gran parte i vantaggi salariali conseguiti dai lavoratori. L’inflazione, e la
contemporanea fuga dei capitali all’estero, costrinsero i governi di fronte popolare a
due successive svalutazioni del franco. Divenuto bersaglio della violenta ostilità degli
ambienti industriali e finanziari, oltre che delle ricorrenti minacce dell’estrema destra, il
governo Blum si dimise nel giugno del ’37 senza essere riuscito a condurre in porto un
organico programma di riforme. La maggioranza di sinistra resistette ancora per un
anno, prima di dissolversi a causa dei continui contrasti fra i radicali e i partiti operai.
Nella primavera del ’38, mentre la situazione internazionale si andava rapidamente
deteriorando, l’esperienza del Fronte popolare poteva considerarsi già chiusa.
Fra il 1936 e il 1939, mentre in Francia si consumava l’esperienza del Fronte popolare, la
Spagna fu sconvolta da una drammatica e sanguinosa guerra civile: un conflitto che si
caricò di accesi antagonismi ideologici, trasformandosi in uno scontro tra democrazia e
fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice. Le sue origini furono nazionali
e vanno ricondotte ai contrasti che avevano lacerato il paese nella prima metà degli
anni ’30.

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