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Nel novembre 1923, quando finì in prigione per aver tentato di organizzare un colpo di

Stato a Monaco di Baviera, Adolf Hitler era un personaggio semisconosciuto, capo del
Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (Nsdap) con un programma
accesamente nazionalista e confusamente demagogico. Di lui si sapeva che era di
origine austriaca, che aveva servito durante la guerra nell’esercito tedesco col grado di
caporale guadagnandosi alcune decorazioni al valore, che aveva tentato senza
successo di fare il pittore. Meno di dieci anni dopo, nel gennaio 1933, Hitler, leader di un
partito che ormai rappresentava circa un terzo dell’elettorato tedesco, riceveva
l’incarico di formare il governo. Per capire i motivi di questa imprevedibile ascesa è
necessario tornare alla grande crisi e ai suoi effetti sulla società tedesca.
Fino al 1930, infatti, il Partito nazionalsocialista rimase un gruppo minoritario e
marginale, che fondava la sua forza soprattutto su una robusta organizzazione armata:
le SA (sigla di Sturm-Abteilungen, cioè “reparti d’assalto”) comandate dal capitano
dell’esercito Ernst Röhm. Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato,
sull’esempio di quanto aveva fatto Mussolini in Italia, di dare al partito un volto più
“rispettabile”. Aveva messo da parte le rivendicazioni di stampo anticapitalistico che
figuravano nel programma nazista del ’20, riuscendo così ad assicurarsi un certo
sostegno finanziario da parte di alcuni ambienti della grande industria. Ma non aveva
affatto rinunciato al nucleo centrale di quel programma, che prevedeva la denuncia del
trattato di Versailles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova “grande Germania”,
l’adozione di misure discriminatorie contro gli ebrei, la fine del “parlamentarismo
corruttore”.
I suoi progetti a lungo termine li aveva esposti con molta chiarezza in un libro dal titolo
Mein Kampf ("La mia battaglia”) scritto nei mesi del carcere, pubblicato nel ’25 e
destinato a diventare una sorta di testo sacro del nazismo. Al centro dei piani hitleriani
c’era un’utopia nazionalista e razzista. Antisemita radicale fin dai tempi della giovinezza
passata a Vienna, sostenitore di una concezione grossolanamente darwiniana della vita
come continua lotta in cui solo i forti sono destinati a vincere, Hitler credeva
nell’esistenza di una razza superiore e conquistatrice, quella ariana, progressivamente
inquinata dalla commistione con le razze “inferiori”. I caratteri originari dell’arianesimo
si erano per lui conservati solo nei popoli nordici, in particolare nel popolo tedesco, che
avrebbe dunque dovuto dominare sull’Europa e sul mondo. Per realizzare questo
sogno era necessario dapprima schiacciare i nemici interni: primi fra tutti gli ebrei,
considerati, in quanto “popolo senza patria”, i portatori del virus della dissoluzione
morale, responsabili dei misfatti del capitalismo e di quelli del bolscevismo, causa e
simbolo vivente della decadenza della civiltà europea. Una volta ricostituita la propria
unità in un nuovo Stato, attorno a un capo in grado di interpretare i bisogni profondi
del popolo, i tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni di Versailles,
recuperare i territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi,
considerati anch’essi inferiori. La ricerca dello spazio vitale a oriente avrebbe permesso
di far coincidere l’espansione territoriale con la crociata ideologica contro il
comunismo.
Questo programma, in apparenza irrealistico, aveva trovato scarsi consensi nella
Germania di Weimar. Nelle elezioni del maggio 1928, infatti, i nazisti ottennero appena
il 2,5% dei voti. Ma con lo scoppio della grande crisi economica, la maggioranza dei
tedeschi, colpiti per la terza volta in poco più di un decennio, perse fiducia nella
Repubblica e nei partiti che in essa si identificavano. In questa situazione i nazisti
poterono uscire dal loro isolamento e far leva sulla paura della grande borghesia, sulla
frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati. Ai suoi concittadini provati dalla
crisi Hitler offriva non solo la prospettiva esaltante della riconquista di un primato della
nazione tedesca, non solo l’indicazione rassicurante di una serie di capri espiatori cui
addossare la responsabilità delle disgrazie del paese, ma anche l’immagine tangibile di
una forza politica in grado di ristabilire l’ordine contro “traditori” e “nemici interni”.
L’agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando il
cancelliere Heinrich Brüning convocò nuove elezioni, sperando di far uscire dalle urne
una maggioranza favorevole a una politica di austerità, ritenuta necessaria per
fronteggiare gli effetti della crisi economica. Accadde invece che i nazisti ebbero uno
spettacoloso incremento a spese soprattutto della destra tradizionale, mentre i
comunisti guadagnarono posizioni ai danni dei socialdemocratici. L’aspetto più grave
dei risultati stava nel fatto che, mentre le forze antisistema si ingrossavano, i partiti
fedeli alla Repubblica non disponevano più della maggioranza. Il ministero Brüning
continuò a governare per altri due anni grazie al sostegno del vecchio presidente
Hindenburg, che si valse sistematicamente dei poteri straordinari previsti dalla
Costituzione nei casi di emergenza. Ma in quei due anni le istituzioni parlamentari si
indebolirono ulteriormente, mentre la situazione economica andava precipitando.
Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice. Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in
modo impressionante e riempivano le piazze con comizi e cortei. Le città divennero
teatro di scontri sanguinosi fra nazisti e comunisti, di agguati, di spedizioni punitive: nei
soli mesi di luglio e agosto si registrarono più di 150 morti.
Il dissesto economico e l’esplodere della violenza andarono di pari passo con il collasso
del sistema politico. Due crisi di governo e tre drammatiche consultazioni elettorali
tenute a pochi mesi di distanza l’una dall’altra non fecero che confermare la crescita
delle forze eversive e l’impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza
“costituzionale”. Si cominciò, nel marzo 1932, con le elezioni per la presidenza della
Repubblica. Per sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici non trovarono di meglio
che appoggiare la rielezione dell’ottantacinquenne maresciallo Hindenburg.
Quest'ultimo fu eletto con un margine abbastanza netto su Hitler. Ma, una volta
confermato nella carica, cedette alle pressioni dei militari e della grande industria,
congedò il primo ministro Brüning e cercò una via d’uscita dalla crisi prendendo atto
dello spostamento a destra dell’asse politico.
A guidare il governo furono chiamati due uomini della destra conservatrice, il cattolico
Franz von Papen e, poi, il generale Kurt von Schleicher, consigliere personale del
presidente. Entrambi i tentativi, privi di una base parlamentare, si risolsero in un
fallimento. Nelle due successive elezioni politiche che Papen fece convocare nella vana
speranza di procurarsi una maggioranza, i nazisti si affermarono come il primo partito
tedesco. I gruppi conservatori, l’esercito, lo stesso Hindenburg finirono col convincersi
che senza di loro non era possibile governare.
Il 30 gennaio 1933 Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e accettò di
capeggiare un governo in cui i nazisti avevano solo tre ministeri su undici e in cui erano
rappresentate tutte le più importanti componenti della destra. Gli esponenti
conservatori credettero di aver ingabbiato Hitler e di poter utilizzare il nazismo per
un’operazione di pura marca conservatrice.
A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un regime pienamente totalitario.
L’occasione per una prima stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico
quanto oscuro: l’incendio appiccato alla sede del Reichstag, il Parlamento nazionale,
nella notte del 27 febbraio 1933, una settimana prima della data fissata per una nuova
consultazione elettorale. L’arresto di un comunista olandese, semi squilibrato mentale,
indicato come l’autore materiale dell’incendio, fornì al governo il pretesto per
un’imponente operazione di polizia contro i comunisti e per una serie di misure
eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa e di riunione. Nelle
successive elezioni del 5 marzo i nazisti ottennero un numero di voti che, uniti a quelli
dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo un’ampia base
parlamentare.
Ma Hitler mirava ormai all’abolizione del Parlamento. E il Reichstag appena eletto lo
assecondò approvando una legge suicida che conferiva al governo i pieni poteri,
compreso quello di modificare la Costituzione. Nel giugno 1933 la Spd fu sciolta dopo
che era stata soppressa la Confederazione dei sindacati liberi, di ispirazione
socialdemocratica. Una sorte non molto migliore toccò a quei partiti che avevano
favorito o assecondato l’avvento del nazismo. Alla fine di giugno il Partito
tedesconazionale, espressione della destra conservatrice, si autosciolse su pressione dei
nazisti. La stessa cosa fece di lì a poco il Centro cattolico. In luglio Hitler poteva varare
una legge che proclamava il Partito nazionalsocialista unico partito legale in Germania.
Infine, in novembre, una nuova consultazione elettorale, questa volta di tipo
“plebiscitario”, su lista unica, faceva registrare un 92% di voti favorevoli.
D i fronte a Hitler restano ancora due ostacoli: da una parte l’ala estremista del nazismo,
rappresentata soprattutto dalle SA di Röhm che invocavano apertamente una
“seconda ondata” rivoluzionaria ed erano poco disposte a sottomettersi al controllo dei
poteri legali; dall’altra la vecchia destra, impersonata dal presidente Hindenburg e dai
capi dell’esercito, che chiedevano in termini ultimativi a Hitler di frenare i rigurgiti
estremisti e di tutelare le tradizionali prerogative delle forze armate. Hitler, che temeva
anche lui l’autonomia delle SA e che, già da qualche anno, aveva provveduto a formare
una sua milizia personale, le SS (sigla di Schutzstaffeln, “squadre di difesa”), decise di
risolvere il problema nel modo più drastico e a lui più congeniale: con un massacro che
fece inorridire il mondo civile. Nella notte del 30 giugno 1934, la “notte dei lunghi
coltelli”, reparti delle SS assassinarono Röhm insieme con tutto lo stato maggiore delle
SA.
La contropartita chiesta e ottenuta da Hitler in cambio della testa di Röhm fu l’assenso
delle forze armate alla sua candidatura alla successione di Hindenburg. Quando il
vecchio maresciallo morì, nell’agosto del ’34, Hitler si trovò così, in virtù di una legge
emanata dal suo stesso governo, a cumulare le cariche di cancelliere e capo dello Stato.
Ciò significava l’obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di fedeltà a Hitler: in
prospettiva, la fine di quell’autonomia dal potere politico di cui i generali tedeschi si
erano mostrati così gelosi. Le conseguenze sarebbero apparse chiare pochi anni dopo,
nel febbraio ’38, quando Hitler decise di assumere personalmente il comando supremo
delle forze armate.
Con la vittoria di Hitler in Germania, la crisi dei regimi e dei valori democratici subì una
forte accelerazione. In tutta l’Europa centro-orientale si assisté, a partire dal ’33, al
rafforzamento delle tendenze dittatoriali e militariste nei paesi già soggetti a regimi
autoritari fu il caso dell'Ungheria, della Polonia, della Jugoslavia, della Bulgaria, alla
nascita di nuove dittature di stampo monarchico-fascista in Grecia nel ’36, in Romania
nel ’38. Crebbero nel contempo i movimenti estremisti e violentemente antisemiti
come le Croci frecciate in Ungheria o la Guardia di ferro in Romania che più
direttamente si richiamavano all’esempio del nazismo e su questa base contestavano
gli stessi regimi autoritari dei loro paesi. Anche nella Repubblica austriaca, il regime
clericale e autoritario del cancelliere Dollfuss era minacciato dai nazisti locali, fautori
dell’annessione alla Germania.
Con l’assunzione della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le ultime
tracce del sistema repubblicano. Nasceva il Terzo Reich, il terzo Impero dopo il Sacro
romano impero medievale e quello nato nel 1871. Nel nuovo regime si realizzava
pienamente quel “principio del capo” (Führerprinzip) che costituiva un punto cardine
della dottrina nazista. Il capo (Führer è l’equivalente tedesco di “duce”) non era soltanto
colui al quale spettavano le decisioni più importanti, ma anche la fonte suprema del
diritto; non era solo la guida del popolo, ma anche colui che sapeva esprimerne le
autentiche aspirazioni.
Il rapporto tra capo e popolo passava esclusivamente attraverso la mediazione del
partito unico e delle altre organizzazioni del regime, come il Fronte del lavoro, che
sostituiva i disciolti sindacati, o le organizzazioni giovanili che facevano capo alla
Hitlerjugend (Gioventù hitleriana). Compito di queste organizzazioni era trasformare
l’insieme dei cittadini in una comunità di popolo compatta e disciplinata. Dalla
“comunità di popolo” erano esclusi per definizione gli elementi “antinazionali”, i
cittadini di origine straniera o di discendenza non “ariana” e soprattutto gli ebrei,
investiti come si è detto del ruolo di capro espiatorio, di obiettivo predeterminato del
malcontento popolare.
Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza: circa 500 mila su una
popolazione di oltre 60 milioni di abitanti. Ma, diversamente da quanto accadeva nei
paesi dell’Europa orientale, erano concentrati in prevalenza nelle grandi città e, pur non
facendo parte della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medio-alte della
scala sociale: erano per lo più commercianti, liberi professionisti, intellettuali e artisti;
parecchi avevano posizioni di prestigio nell’industria e nell’alta finanza. Nei confronti di
questa minoranza attivamente inserita nella comunità nazionale, la propaganda
nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità che erano largamente diffusi,
soprattutto fra le classi popolari, in tutta l’Europa centro-orientale.
La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel settembre 1935, dalle cosiddette leggi di
Norimberga, dal nome della città in cui annualmente si tenevano i congressi del Partito
nazista, che tolsero agli ebrei la nazionalità tedesca, e con essa i diritti politici, e
proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei. Successivamente agli ebrei fu impedito di
avere attività industriali e commerciali, di esercitare determinate professioni, di
ricoprire incarichi statali e direttivi. Alla discriminazione “legale” si accompagnava una
crescente emarginazione dalla vita sociale: il che spinse molti ebrei ad abbandonare la
Germania.
La persecuzione antisemita subì un’ulteriore accelerazione a partire dal novembre 1938,
quando traendo pretesto dall’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di
un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la Germania. Quella fra
il 9 e il 10 novembre ’38 fu chiamata notte dei cristalli per via delle molte vetrine di
negozi appartenenti a ebrei che furono infrante dalla furia dei dimostranti. Ma vi furono
conseguenze ben più gravi: sinagoghe distrutte, abitazioni devastate, decine di ebrei
uccisi e migliaia arrestati. Da allora in poi per gli ebrei rimasti in Germania la vita
divenne pressoché impossibile: taglieggiati nei loro beni, privati del lavoro, accusati di
cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove violenze e di nuove misure
repressive. Finché, a guerra mondiale già iniziata, Hitler non concepì il progetto
mostruoso di una soluzione finale del problema: soluzione che prevedeva la
deportazione in massa e il progressivo sterminio del popolo ebraico.
La persecuzione antiebraica fu la manifestazione più vistosa e più orribile della politica
razziale nazista, ma non fu l’unica. Essa si inquadrava in un più vasto programma di
difesa dell’integrità della “razza” che comportò, tra l’altro, la sterilizzazione forzata per i
portatori di malattie ereditarie e, dalla fine degli anni ’30, anche la soppressione dei
malati di mente classificati come incurabili. Si trattava di pratiche incompatibili coi
fondamenti dell’etica cristiana, che suscitarono reazioni di rivolta morale e di contenuta
protesta in alcuni settori della società tedesca: reazioni che indussero il regime a
sospendere il programma impropriamente detto di “eutanasia”. Fu uno dei rari casi in
cui si manifestò una frattura fra una parte della società civile e un regime che in
generale poggiava su un’ampia base di consenso.
Fino a quando non fu definitivamente sconfitta in guerra, la macchina del regime
nazista poté funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo e senza suscitare nel paese
resistenze efficaci ed estese. L’opposizione comunista, quasi annientata dopo l’incendio
del Reichstag, riuscì a mantenere in piedi solo pochi e isolati nuclei clandestini. La
socialdemocrazia, per nulla preparata alla lotta illegale, fece sentire la propria voce solo
attraverso gli esuli. I cattolici, dopo lo scioglimento del Partito del Centro, finirono con
l’adattarsi al regime, incoraggiati anche dall’atteggiamento della Chiesa di Roma che,
nel luglio del ’33, stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di
culto e la non interferenza dello Stato negli affari interni del clero. Solo nel marzo 1937,
di fronte agli eccessi della politica razziale nazista, papa Pio XI intervenne con
un’enciclica in lingua tedesca per condannare dottrine e pratiche che sempre più
rivelavano il loro carattere “pagano”. Ma non vi fu, né allora né in seguito, una denuncia
del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo.
Se pochi furono i problemi creati al regime dalla minoranza cattolica, deboli furono
anche le resistenze offerte dalla maggioranza protestante. Le Chiese luterane, per lo
più orientate in senso conservatore e tradizionalmente ossequienti al potere, si
piegarono alle imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà dei pastori al
Führer. Solo una minoranza di ministri del culto si oppose attivamente alla
nazificazione e fu perciò perseguitata.
Come spiegare la debolezza dell’opposizione al nazismo in un paese che aveva un
fortissimo proletariato industriale e che, fin quando aveva potuto esprimersi
liberamente, aveva dato una parte rilevante dei suoi consensi alla sinistra? È necessario
mettere in conto la vastità e l’efficienza dell’apparato repressivo e terroristico: i diversi
corpi di polizia, da quella ufficiale a quella segreta, la Gestapo, all’onnipresente “servizio
di sicurezza” delle SS, che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei
cittadini; i campi di concentramento (Lager) dove gli oppositori venivano rinchiusi a
centinaia di migliaia e sottoposti, sotto la regia di speciali reparti delle SS, a un lento
annientamento.
La repressione poliziesca e i Lager possono spiegare la debolezza del dissenso, ma non
bastano a spiegare le dimensioni del consenso al regime. Una prima risposta sta nei
successi di Hitler in politica estera. Un altro importante fattore di consenso fu senza
dubbio la ripresa economica. Superato già nel ’33 il momento più acuto della crisi, la
produzione industriale tornò in pochi anni ai livelli del ’28, per superarli nel ’38-39.
Grazie all’impulso dato ai lavori pubblici e soprattutto alla politica di riarmo messa in
atto da Hitler, la disoccupazione diminuì rapidamente: fra il ’33 e il ’36 i disoccupati si
ridussero da 6 milioni a 500 mila. Nel ’39, alla vigilia della seconda guerra mondiale, era
stata raggiunta la piena occupazione.
I successi in economia e in politica estera non basterebbero però a spiegare l’ampiezza
del consenso al regime se non si tenesse conto di un altro fattore essenziale: la capacità
del nazismo di imporre formule e miti capaci di toccare le corde profonde dell’anima
popolare.
Attraverso la stampa, i discorsi del Führer, i film di propaganda, il nazismo propose ai
tedeschi un’utopia reazionaria e “ruralista”: un mondo popolato da uomini belli e sani,
profondamente legati alla loro terra; una società patriarcale di contadini-guerrieri,
libera dagli orrori delle metropoli moderne e dalle malattie della civiltà industriale.
Questo ideale contrastava in modo stridente con la prassi concreta del regime,
sospinto dalla sua logica bellicistica a favorire lo sviluppo della grande industria. Ma si
innestava su una solida tradizione culturale nazionale, di origine soprattutto romantica,
fondata sui miti della terra e del sangue; e rifletteva uno stato d’animo, largamente
diffuso a livello popolare, di istintivo rifiuto della civiltà moderna e di rimpianto per un
passato preindustriale dipinto in forme idilliache.
La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto che per
diffondere un’utopia antimoderna il regime si serviva dei moderni mezzi di
comunicazione di massa. Quello nazista fu il primo governo a istituire in tempo di pace
un ministero per la Propaganda che, affidato all’abilissimo Joseph Goebbels, divenne
uno dei principali centri di potere del regime. La stampa fu sottoposta a strettissimo
controllo e inglobata in un unico apparato alle dipendenze del ministero. Gli
intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione nazionale (la Camera di cultura del
Reich) e dovettero fare atto di adesione al regime: quelli che non vollero piegarsi furono
costretti al silenzio od obbligati a lasciare il paese.
Oltre a sfruttare abilmente i nuovi mezzi di comunicazione di massa, il potere nazista
seppe utilizzare in misura mai vista prima le tecniche dello spettacolo. Tutti i momenti
più significativi della vita del regime furono infatti scanditi da feste e cerimonie
pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di gruppo e soprattutto adunate di massa
culminanti nel discorso del Führer o di altri dirigenti. Nella grande adunata il cittadino
trovava quei momenti di socializzazione, sia pure forzata, che la vita delle grandi città
non offriva spontaneamente; trovava quegli elementi “sacrali” che aveva perso col
tramonto della vecchia società contadina, il cui ritmo era appunto scandito da feste e
da riti.

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