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GIOVANNI PALATUCCI:

poliziotto, credente, eroe, giusto

“ci vogliono dare intendere che il cuore sia soltanto un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il
cuore e la nostra religione ci dettano”.
Quando un’intera comunità o un numero significativo dei suoi membri si vedono minacciati, da nemici reali
o immaginari, sembra scattare un repertorio di moduli di pensiero che in precedenza erano addormentati e
che arrivano a permeare la mentalità di tutto il gruppo in modo tale che persone comuni, normali e
intelligenti sono pronte a dar credito alle affermazioni più assurde e ad agire di conseguenza.
Il progresso umano, purtroppo, non ha impedito nei secoli il drammatico ripetersi di eventi tragici dai quali
l’umanità, una volta vissuti, avrebbe dovuto immunizzarsi. Ebbene sì, aldilà di ogni progresso pure
innegabile, la Storia si ripete vichianamente, si avvolge su se stessa, e l’uomo, come diceva Quasimodo,
resta ancora quello della pietra e della fionda, non impara dagli errori.
Ecco che, da sempre, quando un’intera comunità umana si vede minacciata da nemici reali o immaginari,
sembra scattare in essa un meccanismo di difesa antico e quasi animalesco per il quale un gruppo di
persone comuni, normali e intelligenti adotta un repertorio di moduli di pensiero irrazionali ed aggressivi,
una risposta del tutto assurda che, tuttavia, permea intere società, le infiamma, inducendole ad agire di
conseguenza.
La storia umana, come gli esperti storici ben sanno, è costellata anche in modo imbarazzante da tali
esplosioni irrazionali, dalla credenza nei demoni e nelle streghe alle teologie o ideologie redenzioniste.
Sarebbe comunque un grave errore credere che questi moduli irrazionali di coscienza operino soltanto nelle
società preindustriali o, comunque, antecedenti l’alfabetizzazione di massa: si può, anzi, affermare che
abbiano hanno visto le loro manifestazioni più intense e distruttive proprio nel XX secolo.
Cinquemila anni di storia e ben oltre quindicimila guerre attestano, ahimè, l’esistenza operante la realtà del
male radicale nella storia.
La maggior parte del male umano, alla fin fine, è il risultato del libero arbitrio e quindi di scelte consapevoli,
le quali a loro volta sono fondate su una ampia varietà di motivazioni che vanno dall’egoismo crasso alla
brama di dominio, dal piacere della crudeltà alla fede in assoluti spirituali fino a un idealismo pervertito o
alla mera fissazione. Ossessione.
Purtroppo il male è tanto scaltro che sembra, talvolta, sgorgare da intenzioni nobilissime.
E il limite ultimo della degenerazione umana, della fatale sommatoria del “peccato collettivo”, dove meglio
spicca si manifesta se non nella seconda guerra mondiale:, culmine della follia nazifascista e di tutti gli
orrori che ne seguiranno.?
Ma ecco che la storia registra, in modo incredibile e ricorrente anche proprio nei periodi del massimo buio,
l’accendersi e il brillare di luci che impediscono la disperazione e preparano la successiva alba.
Sono i “Giusti”, come li chiama la tradizione ebraica: ossia quanti, anche in mezzo alla barbarie più
disumana, hanno fatto brillare parole e gesti di vera umanità fino al sacrificio della vita nel tentativo di
salvare quella dei fratelli.
Essi hanno agito non per amore di fama o di gloria, ma perché spinti dall’amore per il prossimo, per spirito
di giustizia, anteponendo alla propria vita la possibilità di salvarne anche una sola.
Ed è solo nel corso delle vicende storiche della seconda guerra mondiale, che hanno visto scatenarsi i
totalitarismi xenofobi e imperversare dittatori come Adolf Hitler, Benito Mussolini e Joseph Broz Tito, che,
al tempo stesso, come per rovescio della medaglia, grandi uomini, i cosiddetti giusti, hanno operato operare
su questa terra, secondo i disegni dell’Onnipotente. Pensiamo, ad esempio, , come gli aiuti del al pontefice
Pio XII, all’ e l’attività salvifica di Radio Vaticana, ai tanti che operarono nel silenzio e nel rischio pur di
salvare qualche vita... .

Palatucci fu uno di essi in quanto diede testimonianza, con l’estremo sacrificio della vita, all’amore verso i
fratelli più bisognosi, facendosi promotore di un messaggio di pace e di solidarietà fra tutte le genti in ogni
razza e credo religioso. Si è sempre dato rilievo alle gesta compiute dei grandi generali, strateghi, hai
coraggiosi e carismatici condottieri; ma ecco è necessario ribadire che non bisognerebbe prediligere
persino i folli che hanno dato vita ai conflitti, ma coloro che, in semplicità di spirito e animati da buona

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volontà, hanno saputo sanno cogliere nell’uomo l’immagine del creatore, senza farsi fuorviare dalle
contingenze del presente e dagli egoismi personali.
Tra quelli che gli ebrei qualificano come giusti tra le nazioni e hanno immortalato allo Yad Vashem di
Gerusalemme, spicca l’avellinese Giovanni Palatucci: ultimo reggente della questura di Fiume, finito
martire nei lager di Dachau data dopo aver salvato circa 5000 ebrei.

L’assassinio di Stato di sei milioni di Ebrei, definito comunemente Olocausto, è stato il peggiore crimine
contro l’umanità commesso nel XX secolo, il cosiddetto secolo breve per il ricorrere di conflitti e catastrofi,
e, considerando le brutalità perverse e calcolate che furono inflitte a vittime innocenti, gli storici del futuro
potrebbero definirlo il peggiore crimine della storia. Il riconoscimento di questo fatto ha indotto gli storici a
porsi due fondamentali domande filosofiche: come poté un male di questa portata nascere in mezzo a quella
che molti consideravano una cultura occidentale progressista? e perché i tedeschi, che hanno dato al
mondo alcuni degli scienziati, musicisti, filosofi, teologi e scrittori più brillanti che siano mai esistiti,
poterono arrivare a un livello di bestialità che nessuna persona sana di mente avrebbe osato prevedere ai
principi del nel 1900?

Shoah è una parola ebraica, che significa “catastrofe, disastro, distruzione. Il termine compare più volte nel
testo biblico -----------, e quindi faceva parte del vocabolario ebraico rivitalizzato dai primi sionisti in
Palestina. Essi lo utilizzarono per denominare la persecuzione antiebraica nazista già all’inizio del 1937, poi
nel corso del 1938, con riferimento alla condizione degli ebrei in Austria dopo l’annessione alla Germania in
marzo e al pogrom tedesco di novembre e, infine, negli anni seguenti, con riferimento ormai
all’annientamento fisico di milioni di ebrei europei. La Shoah attuata in Europa a metà del secolo scorso, tra
gli anni Trenta e Quaranta, è divenuta in ebraico ha-shoah, la Catastrofe per eccellenza; il vocabolo,
quindi, ha assunto il significato di denominazione di un’intera vicenda storica, similmente a ciò che in
italiano è avvenuto a “Risorgimento, Restaurazione, Resistenza. Come questi termini, anche Catastrofe
descrive il senso di una vicenda senza precisarne caratteristiche e particolari (e si è visto che Shoah è stata
usata dapprima per le violente radicalizzazioni persecutorie del 1938 e poi per lo sterminio sistematico). Tra
l’altro, non solo l’annientamento ma già la stessa improvvisa emanazione di un ‘moderno’ corpus legislativo
antiebraico, che per di più classificava gli ebrei come razza, costituì una sorta di catastrofe.

In un certo senso, il termine Shoah è esattamente opposto a quello tedesco Endlösung (“Soluzione finale”).
Il primo appartiene al mondo (linguistico) delle vittime, costituendone una sorta di minimo comune
denominatore, anche quando gli ebrei parlavano l’yiddish o una lingua nazionale europea e anche se una
piccola parte era di religione cristiana o di nessuna religione. Esso descrive l’evento dal loro punto di vista e
con immediatezza: certamente si trattò di una catastrofe, di un disastro.
Endlösung, invece, appartiene al vocabolario dei persecutori (che però non erano né tutti i tedeschi, né tutti
tedeschi) e più precisamente al loro ambito decisionale (soluzione) e programmatico (finale) e al loro
linguaggio burocratico e velato. Per un quarantennio la persecuzione europea antiebraica di metà
Novecento è stata denominata Shoah pressoché esclusivamente in Israele (ed era lì tradotta in inglese
coll’inadatto Holocaust).
In Italia venivano utilizzati per lo più «persecuzione antiebraica nazista» (o «fascista e nazista», oppure,
con la sintesi dell’esperienza vissutala sinteticità figlia dell’esperienza vissuta, «nazifascista»), o
«sterminio» e «genocidio», non sempre bene accetti dagli stessi sopravvissuti. La notevole emozione
suscitata nel 1985 dal film “Shoah” di Claude Lanzmann determinò l’irruzione del termine ebraico
dapprima in Francia e poi negli altri paesi europei. In Italia esso si è diffuso nel corso degli anni Novanta,
con la crescente (ma ancora oggi non generalizzata) adozione da parte di storici specialistici e di esponenti
dell’ebraismo. È opportuno chiarire che «Shoah» rimane una denominazione convenzionale. Come ogni
denominazione, essa può essere caricata di vari significati o di nessun significato. Il mio pensiero al
riguardo è che la denominazione di un evento, quale che essa sia, non deve debba influenzare la
ricostruzione storica, la conoscenza e l’interpretazione dell’evento stesso. E la Shoah è stata innanzitutto un
capitolo della nostra storia, che va compreso prima che denominato.

L’unicità della Shoah è connessa anche alle sue dimensioni cronologiche, geografiche e quantitative.
L’intera vicenda persecutoria si sviluppò lungo dodici anni, dal 1933 al 1945; lo sterminio sistematico ne
impegnò gli ultimi quattro. Essa toccò direttamente un’amplissima parte del continente europeo, con
l’eccezione centrale della Svizzera e quelle periferiche di Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Irlanda, Svezia,
Russia europea nella parte compresa tra la linea Leningrado-Mosca-Stalingrado e gli Urali, Turchia
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europea. Per la maggior parte degli storici, il complicato calcolo delle vittime della Shoah si conclude
intorno all’imponente cifra di 6 000 000, corrispondente a due terzi dell’ebraismo europeo negli anni
Trenta. I movimenti delle popolazioni ebraiche e i continui mutamenti delle linee di confine rendono
particolarmente difficile sia l’elaborazione di valori percentuali nazionali, sia la stessa definizione della
mortalità ebraica nazione per nazione. La trasformazione delle persone uccise in numeri e percentuali
revoca, ahimè, la loro umanità, ma consente di cogliere con immediatezza l’elevato grado di «successo» del
progetto di sterminio. Essa, però, non legittima il ricorso infantile a graduatorie nazionali di colpevolezze o
benemerenze, poiché ciascun capitolo locale della Shoah fu il risultato della diversa presenza e del diverso
intreccio di numerosi fattori; primi fra tutti, la data di inizio delle operazioni di sterminio, quella di termine,
la loro durata cronologica, l’impegno (uomini, mezzi, dedizione prioritaria) profuso dai persecutori
(occupante nazista e/o forza antisemita locale), l’andamento della situazione bellica complessiva, la
consistenza numerica e la possibilità pratica (ivi compresa una certa disponibilità economica) di occultarsi
delle popolazioni ebraiche.

Gli ebrei europei erano da secoli vittima di un’avversione di matrice religiosa, che autorità cristiane centrali
e periferiche avevano propagato tra la popolazione, ancorandola all’accusa (bugiarda oltreché illogica) di
popolo deicida. La sua durata straordinariamente lunga aveva creato un forte sedimento di pregiudizi,
rancori, odi e quant’altro, tecnicamente adatto a supportare un’ostilità perenne e indiscriminata.
Nel XIX secolo, seppure con profonde differenze da regione a regione, non pochi ebrei europei mostrarono
di essere particolarmente consoni alle novità che si producevano nel campo dell’istruzione pubblica e degli
strumenti della pubblica opinione, dell’industria e dell’intermediazione. Da ciò una loro maggiore presenza
in tali ambiti; e contro quest’ultima – additata come colpa e riferita alla generalità degli ebrei – si
radunarono le ostilità sia di una parte di coloro che non erano pronti ad assumere ruoli moderni e anzi
combattevano la modernità, sia di una parte di quei crescenti strati di popolazione non ebraica che
divenivano pronti ad assumere ruoli moderni e utilizzavano un «etnicismo» sempre più estremo per
«spianarsi» la strada.
È in questa situazione che, negli anni Settanta dell’Ottocento, l’avversione antiebraica ricevette il nuovo
nome di antisemitismo (trattandosi di un fenomeno interno al mondo cristiano, è lecito parlare di un vero e
proprio «battesimo»). Durante la prima guerra mondiale gli europei ebrei «servirono la patria», uccidendo
o venendo uccisi allo stesso modo degli europei non ebrei. Terminato il conflitto, ma per certi aspetti già
durante il suo svolgimento, tra gli europei antisemiti si diffuse una frottola tanto follemente irreale quanto
strenuamente creduta: la congiura ebraica per dominare il mondo. La guerra aveva provocato un numero
enorme di vittime, era stata occasione per rapidi arricchimenti e diffusi impoverimenti, aveva rivoluzionato
mansioni lavorative e tradizioni sociali, aveva violentato e rapinato, era stata condotta e si era conclusa in
nome degli interessi della nazione e pro o contro le minoranze nazionali «classiche». Inoltre, durante il suo
corso e ancor più dopo la sua conclusione i vari capi religiosi terreni avevano benedetto la rispettiva terra, i
rispettivi confini, le rispettive rivendicazioni, i rispettivi fucili e cannoni. Gli ebrei, invece, non avevano una
terra propria (né la chiedevano, eccezion fatta per la parte di essi che mirava a un’area extra-europea), e
vennero a trovarsi fuori luogo nel loro continente. La loro emancipazione nello Stato illuminista o liberale
non aveva più significato nello Stato nazionalista in armi. L’essere stati ammessi a combattere per lo Stato
risultò assai utile allo Stato, ma non a loro come insieme. Tutto questo sarebbe stato forse superabile se il
conflitto armato avesse costituito una sorta di parentesi storica, trasformabile rapidamente in un «passato
ormai trascorso» a seguito della conclusione degli accordi di pace. Ma la guerra aveva messo in moto e
lasciato in eredità energie spaventose, tremendamente possenti, in campo politico, economico, sociale e
ideologico. E aveva mostrato che era possibile e legittimo versare un’incalcolabile quantità di sangue per
risolvere i problemi delle Nazioni e tra le Nazioni. Nel penultimo anno del conflitto, poi, accaddero due
vicende che ebbero notevole rilievo anche in campo antisemitico. Nel novembre 1917 il governo inglese
riconobbe ufficialmente, per mezzo di una dichiarazione del ministro degli Esteri Balfour, l’esistenza di un
«popolo ebraico», avente diritto a costituire in Palestina una «sede nazionale» (national home). Piú o meno
negli stessi giorni, i bolscevichi prendevano il potere in Russia. Tra essi vi erano vari ebrei; ai vertici del
nuovo partito le persone con identità o origine ebraica erano addirittura cinque o sei su ventuno. Ciò non
caratterizzava affatto come «ebraica» la rivoluzione sovietica. Per gli antisemiti, le due vicende
testimoniavano l’esistenza di un ebraismo in cerca di potere, in grado di conseguire i propri obiettivi (in
dicembre l’esercito inglese entrò a Gerusalemme), pericolosamente capace di trovare legittimazione presso
le masse rivoluzionarie e/o gli Stati liberali, disposto ad usare tanto la violenza quanto la diplomazia.

In altre parole, dopo il 1918 l’odio per gli Ebrei si intensificò in Germania più che in ogni altro paese e
attecchì nei movimenti di destra, specialmente nel partito nazista, diventando l’ossessione personale dei
suoi leader (Hitler, Himmler, Goebbels, Rosenberg, Heydrich, Bormann ecc.), che nutrivano tutti un odio
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omicida nei confronti degli Ebrei. Tra il 1933 e il 1939 questo tipo di giudeofobia finalizzata allo sterminio
fu fatta propria dallo Stato, il cui scopo, in quei sei anni, divenne proprio quello di spogliare gli Ebrei
tedeschi dei loro diritti civili, dei loro mezzi di sostentamento e delle loro case in Germania. La Seconda
guerra mondiale, che portò sotto il controllo di Hitler altri milioni di Ebrei, culminò nello stadio
dell’eliminazione effettiva.

Anche l’Olocausto è stato una guerra, ma una guerra sui generis, perché il nemico era un non-combattente,
a differenza di quanto prevede il pensiero militare tradizionale. Eppure, per Hitler, gli Ebrei erano
combattenti, caratterizzati da una natura particolarmente malvagia e distruttiva. È per questo motivo che
egli si trovò impegnato simultaneamente in due guerre, l’una convenzionale e militare, e l’altra razziale, da
lui considerata importante quanto la prima. Il 1° settembre 1939 Hitler scatenò due offensive
simultaneamente: una guerra militare convenzionale contro la Polonia e i suoi alleati occidentali e una
guerra biologico-razziale diretta in primo luogo contro gli Ebrei d’Europa. Fu la seconda a provocare il
peggior crimine della storia moderna, un crimine senza paralleli, perché implicava lo sterminio, realizzato
con un metodo analogo a quello della catena di montaggio, di oltre sei milioni di persone da parte di un
moderno Stato industriale. Mai in passato un gruppo di persone era stato destinato allo sterminio perché i
suoi membri – uomini, donne e bambini – erano considerati ufficialmente subumani, portatori di bacilli
sociali mortali e alleati con i nemici della Germania per distruggere il popolo tedesco. Di fronte all’enormità
e alla singolarità di questo crimine, alcuni storici si sono chiesti se tale evento possa essere spiegato in
assoluto. Sembra implicare, come faceva il “folle” di Nietzsche nel suo grido angosciato per la morte di Dio,
che l’Olocausto sia stato la morte del significato, la distruzione di tutti i rapporti morali, tale da dissolvere il
legame che incatenava questa terra a Dio e precipitare il genere umano in un baratro cupo. In questo senso,
l’Olocausto è stato una tragedia sia storica sia ontologica perché, oltre a uccidere sei milioni di innocenti, ha
mandato in frantumi antichi tabù e distrutto la fede occidentale nell’esistenza di leggi normative della
ragione e nella possibilità di scoprire verità oggettive nonché, per estensione, di conquistare un mondo
migliore.

Le convinzioni dei nazisti riguardo agli Ebrei furono la versione che della caccia alle streghe dette il XX
secolo, caratterizzate come sono dai medesimi meccanismi di fissazione e di comportamento, anche se certo
l’obiettivo della diavoleria nazista non fu quella strega stereotipata che tanto ossessionava la gente nel XVI
secolo ma l’Ebreo “streghificato”. L’energia necessaria per sterminare gli Ebrei sgorgò più da una
«superstizione quasi demonologica» che dalle motivazioni economiche o politiche dei perpetratori.
L’Olocausto fu il risultato di una seconda Guerra dei Trent’Anni, una ripetizione più crudele e distruttiva dei
genocidi precedenti. Questa argomentazione, che pure sembra in certo qual modo sminuire la singolarità
dell’Olocausto, ha il merito di diagnosticare correttamente, tra le cause primarie del genocidio, il fanatico
zelo spirituale, anima tutti i perpetratori di genocidi. Meyer coglie nel segno anche laddove mette in
evidenza come l’energia culturale investita dagli europei in guerre sante come le crociate, la sottomissione
degli infedeli nel Nuovo Mondo e le guerre di sterminio religioso condotte nell’epoca della Riforma (1517-
1648) non sia diminuita con la fine delle guerre di religione (1648), ma si riattivò o semplicemente si
ridiresse in forma diversa dopo un breve intervallo nel XVIII secolo. Si potrebbe infatti sostenere che
l’energia scatenata da una fede malriposta fu non soltanto rediretta ma anche secolarizzata, aderendo negli
ultimi due secoli a ideologie come il socialismo, il comunismo o il fascismo.

Alla fine degli anni Venti, il fallimento del progetto democratico di Weimar innescò in Germania una crisi
politica, sociale ed economica senza precedenti, che consentì la fulminea ascesa al potere della destra
ultranazionalista, razzista e corporativista, rappresentata dal partito nazionalsocialista di Adolf Hitler.
Sul piano strettamente cronologico e formale, tutto iniziò il 30 gennaio 1933, quando il presidente del Reich
tedesco, Paul von Hindenburg, affidò il governo della Germania ad Adolf Hitler. Questi era nato in Austria
nel 1889 e si era poi trasferito a Monaco di Baviera. Nel 1919 aderí a un nuovo partito, nazionalista e
razzista, che nel febbraio 1920 assunse il nome definitivo di Nationalsozialistische Deutsche
Arbeiterpartei, Nsdap (“Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori”). L’antisemitismo costituí
sempre un (il) punto centrale del Partito nazista: il programma del febbraio 1920 stabiliva che solo essendo
«di sangue tedesco» si poteva essere cittadini dello Stato, e che nessun ebreo era «di sangue tedesco». Nei
mesi seguenti, con un processo tutto sommato parallelo a quello svoltosi dieci anni prima in Italia, ma con
maggiore velocità e maggiore dispiego di violenza, il fascismo tedesco eliminò la debole trama democratica
del Paese; atto finale di questa trasformazione fu l’incostituzionale investitura di Hitler, che rimaneva
cancelliere, a duce (Führer) del Reich il 2 agosto 1934, in occasione della morte di von Hindenburg. Il
nuovo governo (inizialmente di coalizione) aveva rivolto subito la propria attenzione persecutoria verso gli
oppositori politici, ad iniziare dai comunisti; il campo di concentramento (Konzentrationslager) di Dachau
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venne allestito nel marzo 1933. Nel mese seguente vennero emanate le prime leggi antiebraiche; esse
regolavano la presenza dei «non ariani» in determinati ambiti lavorativi e in quello educativo, limitandola o
annullandola per mezzo del numerus clausus o del numerus nullus. Venne anche deciso il blocco di nuove
immigrazioni di ebrei dell’Europa orientale e la revisione delle cittadinanze loro concesse negli ultimi
tempi. Alcune di queste leggi non erano nuove per il continente: ad esempio quella del 25 aprile 1933 che
introdusse il numerus clausus nelle scuole. Era la prima volta, dopo l’illuminismo, la Rivoluzione francese e
le costituzioni liberali, che un Paese europeo industriale e progredito introduceva norme legislative contro
una parte dei propri cittadini identificati con inediti criteri razzistici. Niente del genere era accaduto negli
ultimi decenni (e le norme antineri di inizio secolo, se pure precedettero quelle antiebraiche, non colpivano
né i cittadini metropolitani in quanto tali, né le relazioni tra due cittadini). Si trattava di una svolta colossale
nella storia europea.

Secondo l’ottica razziale nazista, la comunità nazionale tedesca traeva la propria forza dalla purezza del
sangue e dalla profondità delle proprie radici nel sacro suolo tedesco. Tale purezza razziale era il risultato di
una creazione culturale superiore e della costruzione di uno Stato potente, garanzia di vittoria nella lotta per
la sopravvivenza e il dominio della razza. Sin dall’inizio, dunque, le leggi del 1933 mirarono a escludere gli
ebrei da tutte le aree chiave di tale utopistica visione.

Sul piano concreto, queste moderne leggi antiebraiche avevano il fine di separare gli ebrei dagli ariani, per
arianizzare (ri-arianizzare) la nazione e per eliminare progressivamente ogni «presenza» ebraica.
Quest’ultimo fine veniva perseguito tramite l’allontanamento (suggerito, indotto o obbligato) dai vari ambiti
sociali e dallo stesso suolo della nazione. Le cosiddette «leggi di Norimberga» erano improntate a una
politica di separazione totale. Con le prime ordinanze applicative delle due leggi, entrambe datate 14
novembre 1935, il governo nazista introdusse un nuovo articolato criterio di classificazione razziale della
popolazione, distinguendola in «ariani», «ebrei» (o «ebrei puri») e due categorie di «ebrei misti»
(Mischlinge). In sintesi, l’ordinanza della prima e seconda legge stabilì che «un ebreo non può essere
cittadino del Reich», privò gli ebrei della cittadinanza, e vietò ai tedeschi ogni rapporto di natura familiare o
sessuale con loro, in modo da evitare il rischio di una contaminazione della purezza del sangue ariano.

Berlino mostrò che, dopo le ferrovie e il telegrafo, dopo la Rivoluzione francese e le costituzioni liberali,
dopo la proliferazione della stampa e dell’educazione pubblica, era possibile tornare indietro di oltre
duecento anni: uno Stato moderno e avanzato poteva legiferare contro l’eguaglianza dei propri cittadini,
giungendo a revocare ad alcuni di essi lo stesso diritto di cittadinanza. Prima del 1933-35 un progetto di
questo tipo appariva, a seconda dei punti di vista, utopico o impossibile; dopo di allora, divenne una delle
opzioni a disposizione dei governi. Questo fu, in quegli anni, il tremendo ruolo continentale della Germania
nazista.

Nel 1938 la normativa antiebraica conobbe un’improvvisa quanto rapida diffusione nel continente. Alla fine
del 1937 essa era in vigore solo in Germania; tra il 1938 e l’estate del 1939 venne emanata – in forme e con
gravità sempre diverse – in Romania, Ungheria, Italia e Slovacchia. In sostanza, alla vigilia della seconda
guerra mondiale l’antisemitismo statale era divenuto una delle caratteristiche del continente. Si potrebbe
ipotizzare che il suo dilagare fosse in qualche modo conseguenza dell’addensarsi delle prospettive di guerra,
della necessità per i governi di schierarsi in modo totalitario. In effetti è vero che l’antisemitismo costituì (e
costituisce) talora un mero (e bieco) strumento di altre azioni e battaglie. Tuttavia proprio le modalità di
questo suo dilagare, e in particolare la punta espansiva raggiunta improvvisamente nel gennaio-marzo
1938, mostrano che esso fu il risultato di evoluzioni nazionali diverse anche se parallele, la cui sincronia era
connessa alla più generale deriva antidemocratica e anti egualitaria di vaste parti di un continente sempre
più immemore e insofferente della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Le leggi polacca, rumena, ungherese
e italiana del 1938 stabilirono tutte la revoca della cittadinanza a determinate categorie di ebrei e/o
decretarono l’espulsione degli ebrei stranieri giunti dopo una certa data.

Quando la guerra determinò la progressiva chiusura delle frontiere, l’Europa antisemita si trovò «piena» di
ebrei che non voleva (e milioni di ebrei si trovarono progressivamente rinchiusi dentro un’Europa
antisemita che non li voleva). Questa fu una delle premesse dello sterminio. Prima del settembre 1939, la
nuova persecuzione degli ebrei aveva già conosciuto episodi violenti. Il più grave fu il pogrom avvenuto
nell’intero territorio del Terzo Reich il 9-10 novembre 1938. Esso è rimasto noto col nome fuorviante di
Kristallnacht, ma non si limitò alla rottura notturna delle vetrine (i «cristalli») e alla devastazione di
migliaia e migliaia di negozi di ebrei. Nel giro di poche ore vennero incendiate o distrutte 267 sinagoghe, e
le violenze contro i singoli ebrei culminarono in 91 uccisioni immediate (e determinarono centinaia di
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suicidi). Ma la sua estensione geografica, la sua gravità e la pubblica ostentazione di sadismo costituirono
un punto di svolta, una sorta di spartiacque nello sviluppo della persecuzione antiebraica. Il pogrom di
novembre e i successivi durissimi inasprimenti della normativa persecutoria avvennero al termine del sesto
anno dell’era nazista (e mentre gli altri governi europei avevano appena avviato la propria normativa
antiebraica o apparivano ben lontani da una simile prospettiva). In tale lasso di tempo la Germania nazista
era giunta a notevoli risultati nel processo di eliminazione degli ebrei dal Paese e aveva sostanzialmente
concluso il processo di separazione dagli altri cittadini.

La guerra scatenata dal nazismo fu una guerra ideologica e razzista, mirante all’affermazione della
supremazia continentale non della semplice potenza germanica, bensì della Germania ariana e
antibolscevica, e quindi all’annientamento o alla riduzione in servitù degli ebrei e degli slavi.
Lo sviluppo della persecuzione, assai complesso e articolato, venne profondamente influenzato dalla nuova
guerra, iniziata il 1° settembre 1939 con l’invasione tedesca della Polonia. Nel volgere di poco più di un anno
e mezzo – fino cioè all’aprile 1941 – Hitler incorporò nel Terzo Reich o occupò una buona metà della
Polonia (le cui aree settentrionali e occidentali vennero annesse), la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il
Belgio, il Lussemburgo (annesso), l’Alsazia-Lorena (annessa) e una buona metà della Francia, le regioni
jugoslave della Slovenia settentrionale (annessa) e della Serbia, la Grecia settentrionale. Questa estensione
geografica da un lato riportò sotto il Terzo Reich decine di migliaia di ebrei (tedeschi e stranieri) che Berlino
aveva espulso o indotto a emigrare negli anni precedenti, annullando in tal modo il senso stesso di quella
politica. Dall’altro accrebbe massicciamente il totale degli ebrei sotto il diretto controllo tedesco. In questo
contesto e con queste premesse, il 22 giugno 1941 segnò tanto l’inizio dell’invasione dell’Unione Sovietica
quanto il passaggio dagli eccidi saltuari di decine (o centinaia) di ebrei agli eccidi frequenti di centinaia (o
migliaia) di ebrei. Ben presto le uccisioni cessarono di avere qualsivoglia caratterizzazione selettiva di
eliminazione di un élite politico-intellettuale o di nemici combattenti (o ritenuti tali dai nazisti antisemiti).
In agosto si registrò sia un aumento considerevole delle vittime, sia una consistente presenza tra esse di
donne e bambini.

I documenti dimostrano, senza ombra di dubbio, che Hitler decise di usare l’imminente campagna di Russia
come copertura per lo sterminio degli Ebrei d’Europa. In un primo tempo i nazisti ipotizzarono di espellere
tali ebrei dai confini del Terzo Reich: progettavano di deportarli in Africa, nel Madagascar, oppure verso
l’Europa orientale, in terre destinate a trasformarsi in gigantesche riserve etniche. Ma dapprima con
l’occupazione della Polonia, poi con l’invasione dell’Unione Sovietica, dove erano insediate comunità
ebraiche demograficamente consistenti, i nazisti si resero conto dell’impossibilità tecnica di attuare una
deportazione su vasta scala. Hitler si era convinto che la guerra contro l’Unione Sovietica sarebbe terminata
nel giro di pochi mesi, che il marcio “colosso con i piedi d’argilla” bolscevico sarebbe crollato sotto il suo
stesso marcio peso e che si sarebbero così resi disponibili allo sfruttamento e alla colonizzazione tedesca
immensi territori.

Il fulmineo attacco di Hitler all’Unione Sovietica fu in gran parte una riproposizione delle precedenti
campagne realizzate con la tecnica del Blitzkrieg (guerra lampo). L’obiettivo tedesco a breve termine era la
distruzione del sistema politico sovietico. L’obiettivo a lungo termine era la riduzione in schiavitù degli
inferiori slavi, lo sterminio dei subumani razziali e la trasformazione della Russia in una nuova frontiera
tedesca. I primi tre mesi dell’Operazione Barbarossa, come fu chiamata la campagna contro la Russia,
sembrarono realizzare tutte le ottimistiche previsioni di Hitler. Le aspettative tedesche sulla scarsa abilità
delle truppe sovietiche si fondavano sulle misere prove fornite dall’esercito sovietico durante la Prima
guerra mondiale, sulla purga degli ufficiali messa in atto da Stalin negli anni Trenta, sulla fiacca campagna
sovietica contro i finlandesi nell’inverno 1939-40 e sull’incapacità sovietica di resistere all’aggressione
nazista nell’estate del 1941. La mancanza di coordinamento strategico tedesco, associata all’incapacità di
concludere con successo i combattimenti, è un classico esempio di eccesso imperialista. Anche se al
momento non lo sapeva, Hitler stava per essere coinvolto in una lunga guerra di posizione, che rendeva
obsoleta la tattica della guerra lampo, distruggendo una divisione dopo l’altra in battaglie e condizioni che
ricordavano sempre più quelle della Prima guerra mondiale.

L’avanzata delle truppe tedesche fu tanto rapida che migliaia di Ebrei, non riuscendo a fuggire, si trovarono
intrappolati dietro le linee nemiche, dove furono radunati, torturati e uccisi, non solo dai tedeschi ma anche
dalla popolazione locale di lituani o ucraini incitati dai proclami tedeschi e dai volantini che invitavano a
pogrom contro gli Ebrei. Tra il 22 giugno 1941 e la fine dell’anno le Einsatzgruppen uccisero tutti gli Ebrei
che riuscirono a trovare. Le istruzioni di uccidere solo gruppi specifici furono presto lasciate cadere, perché
le singole unità e i loro comandanti uccidevano a loro piacimento, in preda a una furia omicida. In tutti i
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territori conquistati, dalle province baltiche alla Bielorussia e all’Ucraina, le Einsatzgruppen eseguirono
fucilazioni di massa su una scala inimmaginabile. I calcoli del Führer rivelavano indubbiamente che, con il
metodo attuale delle fucilazioni, il quale per giunta presentava lo svantaggio di essere pubblico, costoso e
psicologicamente debilitante per le persone coinvolte, ci sarebbero voluti forse dieci anni per realizzare
l’obiettivo di sterminare gli undici milioni di Ebrei d’Europa. Occorreva dunque impiegare un metodo
migliore, che fosse lontano dalle luci della ribalta e al contempo più letale ed efficace, oltre che meno
costoso. Accadde dunque che a Minsk, gli specialisti delle camere a gas del programma di eutanasia, firmato
da Hitler alla fine di agosto, si rendessero disponibili per i loro nuovi incarichi a Est. Nell’estate del 1941
Himmler si consultò con il dottor Ernst Grawitz, medico capo delle SS e presidente della Croce Rossa
tedesca, e gli chiese come si potesse realizzare lo sterminio di tutti gli Ebrei d’Europa. Grawitz gli
raccomandò l’uso delle camere a gas.

Nel frattempo si predisponevano i piani dei siti di sterminio e si elaboravano i dettagli tecnici necessari per
la gassificazione di esseri umani. I primi di settembre del 1941 Karl Fritsch, vice comandante di Auschwitz,
eseguì alcuni esperimenti con un pesticida, lo Zyklon-B, che adoperò per uccidere 600 prigionieri sovietici e
altri 250 reclusi. E la sera del 7 dicembre 1941, il giorno di Pearl Harbor, settecento Ebrei furono deportati
nel lontano villaggio polacco di Chelmno, cinquanta chilometri a nord-ovest di Lodz. Ai prigionieri fu detto
che sarebbero stati deportati a Est per lavorare; la mattina dell’8 dicembre, invece, lunghi camion da
trasporto, trasformati in camion a gas che incanalavano i gas di scarico all’interno del vano merci, presero
un carico di Ebrei dopo l’altro e li gassificarono nel tragitto verso la fossa sepolcrale, in una foresta vicina.
Quegli Ebrei, uomini, donne e bambini, morirono tutti soffocati dalle esalazioni. Mentre si dipanava questo
dramma, i giapponesi attaccarono Pearl Harbor. La dichiarazione di guerra di Hitler agli Stati Uniti,
irrazionale e militarmente perdente, fu un gesto di sfida col quale il Führer gettò il guanto a Roosevelt, da
lui considerato una marionetta dell’ebraismo mondiale. Hitler si vedeva adesso attaccato da due nemici
correlati, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, il cui legame era costituito proprio dagli Ebrei. Espresse questa
sua convinzione con chiarezza nel discorso dell’11 dicembre, in cui sottolineò come la Germania si trovasse
ormai davanti un fronte comune tra il mondo capitalista ebraico anglosassone e il mondo ebraico
bolscevico. Anche se non fosse riuscito a sconfiggere questa formidabile coalizione, egli giurava comunque
di sterminare gli Ebrei, i quali una volta di più avevano cospirato per sterminare la Germania usando a tal
fine potenze straniere. Questo spiega l’urgenza con cui Hitler si dedicò al più grave dei suoi crimini e il fatto
che a questo progetto fosse attribuita la medesima priorità rispetto alle operazioni militari. I camion a gas,
che potevano sterminare solo un numero limitato di vittime, furono considerati soltanto una soluzione
temporanea. Verso la fine del 1941 a Belzec, vicino a Lublino, fu istituito un nuovo campo, il primo campo di
sterminio, che divenne operativo nella primavera del 1942. Fu qui che si cominciarono a usare camere a gas
fisse.

Il proseguimento delle fucilazioni di massa e la nascita di nuovi campi di sterminio, insieme ai problemi
tecnici relativi al trasporto dei prigionieri, alla confisca dei loro beni e ai collegamenti con le potenze
straniere cui si chiedeva di cedere la loro popolazione ebraica, imposero una strategia di maggiore
coordinamento per la “soluzione finale”. A tal fine Heydrich convocò una conferenza in una villa sul lago di
Grosser Wannsee, nell’elegante periferia berlinese. Il 20 gennaio 1942 i rappresentanti di vari organismi
coinvolti nella “soluzione finale” si riunirono per discutere i dettagli tecnici dello sterminio degli Ebrei
rimasti in Europa. La riunione fu gestita da Heydrich in modo geniale; i verbali furono stesi da Eichmann,
che aveva anche diramato gli inviti. I convenuti a Wannsee si dichiararono tutti d’accordo sulla necessità di
muovere guerra agli Ebrei, che rappresentavano un pericolo per il Reich. Heydrich mise sul tavolo una
mostruosa carta demografica che elencava oltre undici milioni di Ebrei che vivevano nelle varie nazioni
europee. Nacque allora un’accesa discussione quanto ai modi di rastrellare questi Ebrei, privarli dei loro
beni, trasferirli a Est e sterminarli. I verbali, con i loro eufemismi burocratici, lasciano trapelare ben poco di
questa orrenda realtà. Il piano generale elaborato a Wannsee era il seguente: deportare tutti gli Ebrei
d’Europa, a partire da quelli della Germania e del Protettorato. Gli Ebrei dovevano essere radunati nei
cosiddetti «ghetti di transito» a Est e poi trasportati «ancora più a Est», eufemismo per campi di sterminio.
Gli Ebrei di età superiore ai sessantacinque anni o i veterani di guerra ebrei pluridecorati, anziché essere
uccisi, dovevano essere internati nel ghetto modello di Theresienstadt, in Boemia, dove furono inviati Ebrei
di spicco come Leo Baeck. Quasi immediatamente in tutto l’impero tedesco ebbe inizio il rastrellamento
sistematico degli Ebrei. Entrarono in azione i treni delle ferrovie tedesche, incuranti del cattivo tempo, delle
bombe alleate o delle necessità della Wehrmacht. Gli Ebrei, ammassati come capi di bestiame in carri merci
sigillati, furono inviati nei cinque campi di sterminio orientali, Auschwitz, Belzec, Sobibor, Treblinka e
Majdanek. Con la primavera del 1942, questi campi avevano installato camere a gas fisse che potevano
sterminare sino a venticinquemila persone al giorno. Auschwitz divenne la più mostruosa fabbrica di morte
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di tutto il sistema di sterminio nazista. Le gassificazioni nei cinque grandi campi di sterminio, iniziate
nell’estate del 1942, continuarono fino all’autunno del 1944. Con l’estate del 1944 la maggior parte degli
Ebrei dell’Europa orientale era stata sterminata.

Il 1° novembre 1944 le camere a gas si fermarono, ma uccisioni e morti continuarono sino alla liberazione,
nel maggio 1945. Mentre l’impero schiavista dei nazisti passava da una sconfitta militare all’altra, i killer
giudeofobici facevano ricorso a tutta la forza e la malvagità che possedevano per tormentare ancora gli
Ebrei sottoposti al loro controllo. Questo spiega le marce mortali che ebbero luogo negli ultimi sei mesi di
guerra. Queste marce della morte non furono ordinate da Hitler o Himmler, ma dai comandanti sul campo,
la cui malvagia giudeofobia continuò sino alla fine. I sorveglianti SS avevano sempre detto alle proprie
vittime: In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi: nessuno di
voi rimarrà per portare testimonianza, ma anche se qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Forse
ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo
le prove insieme con voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi
sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà
che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi. La
storia dei lager, saremo noi a dettarla. CITAZIONE: DA DOVE E’ TRATTA?
Gli uomini delle SS che parlavano così si ingannavano, nella loro fiduciosa aspettativa che il mondo non
avrebbe creduto l’incredibile o che le menzogne degli assassini sarebbero state ritenute più veritiere delle
oneste testimonianze dei sopravvissuti. Avevano ragione, tuttavia, da un punto di vista: ciò che avevano
commesso era davvero mostruoso, così mostruoso, che non ci chiediamo tanto quante persone
assassinarono – cinque o sei milioni – ma cosa li spinse a commettere un crimine così indicibile.

Questo abominevole genocidio, purtroppo, ha avuto la sua fae/evoluzione anche sulla penisola italiana, e
questo deve essere il nostro punto di partenza. Il modo in cui si è raccontata la storia della Shoah in Italia
nei settant’anni che ci separano dalla liberazione di Auschwitz è stato sovente il risultato di due pulsioni
contrastanti. Da un lato il tentativo di rassicurarci, sostenendo che in Italia non accadde nulla, che lo
sterminio degli ebrei d’Europa non riguardò il nostro territorio; e dall’altro la tendenza a sostenere l’esatto
opposto, a colpevolizzarci in quanto carnefici, persecutori, assassini.

Nel 1912 Benito Mussolini, nato nel 1883, era divenuto uno dei massimi esponenti del Partito socialista
italiano: fu eletto nella Direzione nazionale e assunse la direzione del quotidiano «Avanti!». Nel 1914,
inizialmente sostenne la neutralità italiana nella nuova guerra mondiale, in seguito però divenne
interventista, lasciò l’«Avanti!» e creò il quotidiano «Il popolo d’Italia», venendo così espulso dal suo
partito il 24 novembre. Il 23 marzo 1919 fondò, insieme ad altri, i Fasci di combattimento, dal programma
alquanto eterogeneo. Al congresso del 7- 10 novembre 1921 il movimento si trasformò in Partito nazionale
fascista; il suo leader, però, scelse di non esserne nominato segretario, limitandosi a far parte della
direzione. Nel maggio 1922 il partito contava trecento ventiduemila iscritti. A fine ottobre Mussolini
organizzò una iniziativa paramilitare allo scopo di ottenere per sé e il PNF un ruolo direzionale nel Paese: la
«marcia su Roma». Il re Vittorio Emanuele III di Savoia scelse di non contrastarla e anzi il 29 ottobre lo
incaricò di formare il nuovo governo. Da un punto di vista formale, l’atto era legittimo; da un punto di vista
sostanziale, il sovrano affidò il Paese al capo di un piccolo partito aduso a praticare la violenza di massa,
anche estrema. Iniziava così il ventennio fascista.

Fino al 1938, il programma politico del PNF non conteneva indicazioni antisemite e il tesseramento era
aperto anche agli ebrei. Nel 1938 il PNF divenne ufficialmente antisemita, mostrando al riguardo una
capacità di elaborazione e di azione che doveva preesistere. La guerra d’Etiopia ebbe conseguenze
importanti per la collocazione dell’Italia sulla scena diplomatica internazionale: la Società delle Nazioni
condannò l’invasione, e comminò all’Italia pesanti sanzioni. Il crescente isolamento internazionale spinse il
regime mussoliniano ad avvicinarsi ancora di più alla Germania di Hitler – con la quale, nell’ottobre 1936,
fu stipulata un’intesa nota come Asse Roma-Berlino – e poi, nel 1937, a uscire dalla Società delle Nazioni.
Una seconda conseguenza notevole della guerra d’Etiopia fu la formulazione di una legislazione coloniale di
stampo razzista, che si ripercosse anche all’interno dei confini della penisola. In parte per soddisfare
l’alleato nazista e in parte sulla scia di tale legislazione coloniale, discriminante nei confronti degli africani,
l’Italia fascista adottò – a partire dal 1938 – leggi razziali verso la popolazione di origine ebraica. Come
era accaduto agli ebrei tedeschi negli anni precedenti, gli ebrei italiani si ritrovarono esclusi dalla vita
sociale, costretti ad abbandonare i propri posti di lavoro e soggetti a una crescente emarginazione.
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Esse privarono gli ebrei dei diritti civili e dell’uguaglianza con gli altri cittadini in tutti i campi della vita
sociale, economica e professionale, creando un «regime di segregazione». Questa persecuzione dei diritti –
giuridica, materiale e morale – fu preludio a quella delle vite, avviata dopo l’armistizio dell’8 settembre
1943, quando autorità, militari e civili della Repubblica sociale italiana costituita da Mussolini a Salò
collaborarono attivamente alla cattura e alla deportazione degli ebrei, finalizzata al loro sterminio
sistematico nell’ambito della «soluzione finale» nazista. I primi provvedimenti legislativi dello Stato fascista
a tutela della «razza» – noti come «leggi razziali» – riguardarono le popolazioni indigene delle colonie
italiane in Africa e furono promulgati a seguito della conquista dell’Etiopia, nel 1937. A partire dal 1938
vennero aggiunte norme discriminatorie nei confronti della popolazione di origine ebraica: pur senza
revocare agli ebrei italiani la cittadinanza, venne vietato loro l’arruolamento nell’esercito e fu decretata
l’espulsione dalle forze armate di coloro che ne facevano già parte. Fin dall’autunno 1938 venne imposto il
licenziamento degli ebrei da tutti gli impieghi pubblici; nei mesi successivi la discriminazione si estese
anche al settore privato, con la progressiva esclusione dagli albi professionali a seguito dell’emanazione
della «Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica» (giugno 1939), che
vietava agli israeliti di esercitare numerose professioni tra cui quella di giornalisti, medici, avvocati, notai,
periti, geometri e ragionieri.
I «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» (settembre 1938) stabilirono l’espulsione e
l’esclusione dei docenti e degli studenti ebrei dagli istituti scolastici del regno d’Italia. ESEMPI: SEGRE, E.
FERMI, MONTALCINI…
Vietarono, altresì, l’utilizzo di libri scolastici redatti, anche solo in parte, da autori ebrei, così come il
riferimento a pensatori di origine ebraica deceduti dopo la metà dell’Ottocento. L’emarginazione sociale
riguardò, inoltre, artisti e scrittori di origine ebraica, ai quali divenne impossibile continuare a svolgere
liberamente la propria attività. Il modello ispiratore per la legislazione fascista fu evidentemente quello
della Germania nazista, che fin dal 1933 aveva emarginato con norme apposite i suoi cittadini ebrei; ma non
si registrarono interventi diretti di Berlino per suggerire l’adozione di leggi razziali anche in Italia.
La decisione maturò all’interno stesso della classe dirigente fascista, in maniera autonoma: del resto,
l’ideologia fascista era stata fin dalle origini connotata da ingredienti antisemiti. La presa crescente
dell’antisemitismo su settori interi della cultura italiana era peraltro apparsa evidente nei mesi precedenti
l’elaborazione della legislazione razzista, in occasione della pubblicazione – sotto l’egida del Minculpop –
del Manifesto della razza, sottoscritto da diversi scienziati e ricercatori di regime. Al punto 6 del Manifesto
veniva specificato: «Esiste ormai una pura “razza italiana”. Questo enunciato non è basato sulla confusione
del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima
parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia». Per
individuare i cittadini ebrei da discriminare, nell’estate del 1938 venne disposto un censimento sistematico:
la persecuzione avrebbe riguardato negli anni successivi oltre 51.000 individui. Per gli ebrei stranieri
residenti in Italia venne sancita l’espulsione dal territorio nazionale: coloro che non riuscirono o non
poterono fuggire all’estero, con l’inizio della guerra nel 1940 furono reclusi in appositi campi di
internamento. Obiettivo a lungo termine del regime era forse l’espulsione anche degli ebrei italiani dal suolo
nazionale; prima però mirò a rescindere i legami tra gli israeliti e il resto della popolazione con l’adozione di
misure discriminatorie sui luoghi di lavoro (espulsione dalle cariche pubbliche) e nel mondo della scuola e
dell’Università. Particolare rilevanza, in tale progetto di ghettizzazione sociale degli ebrei italiani, ebbe il
divieto di contrarre matrimoni «misti» tra «ariani» ed «ebrei», secondo quanto stipulato dai
«Provvedimenti per la difesa della razza italiana» nel novembre 1938. Lo scoppio della Seconda guerra
mondiale non permise al regime fascista di realizzare compiutamente i suoi piani, ma il censimento del
1938 si sarebbe rivelato – con l’occupazione tedesca dell’Italia, dopo l’8 settembre 1943 – di grande utilità,
per trasformare la persecuzione dei diritti degli ebrei in una persecuzione delle loro vite.

La persecuzione antiebraica fu fortemente voluta da Benito Mussolini, guida carismatica del fascismo e
dittatore, e coinvolse l’intera società, nel suo ambito politico, sociale, economico, culturale. Essa ebbe per
oggetto, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, una parte dei cittadini dello stato, e li colpì con una
violenza e una radicalità normative sino ad allora mai sperimentate nella penisola. Il regime fascista non
dispose la revoca generalizzata della cittadinanza agli ebrei italiani; tuttavia, poiché li escluse dalle Forze
Armate (tanto dal servizio permanente che dal servizio di 2 leva) e dato che tale partecipazione costituiva
l’incarnazione della cittadinanza, li escluse di fatto dalla nazione, proclamando quindi nel 1938 la
cessazione della vicenda storico-nazionale avviata col Risorgimento. Fu solo cinque anni dopo, con
l’ingresso degli ebrei nella Resistenza armata, che la “patria” costruita nell’Ottocento tornò a esistere nella
realtà concreta e formale. La legislazione antiebraica dell’Italia fascista ebbe un’incontrovertibile
impostazione razzistica biologica: vennero perseguitate tutte le persone con ascendenti tutti “di razza
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ebraica” e nessuna di quelle con ascendenti tutti “di razza ariana”, indipendentemente dalla religione che
ciascuna di esse professava. Le persone con ascendenti di entrambe le “razze” vennero ripartite tra l’una e
l’altra categoria. Sulla base dei risultati del censimento razzista degli ebrei effettuato nell’agosto 1938, si può
calcolare che gli assoggettati alla persecuzione siano stati circa 51.100 (poco più dell’1 per mille della
popolazione della penisola), suddivisi in 46.656 persone di religione o identità ebraiche e circa 4.500 non
ebrei.

Se la soluzione per gli ebrei stranieri fu inizialmente l’espulsione e poi l’internamento, il Fascismo non fu
più morbido con i suoi stessi cittadini per cui aspirava comunque a una soluzione espulsiva che si
accompagnava con lo smantellamento della rete sociale esistente tra ebrei e non. Fino al 1941 l’obiettivo
dell’allontanamento generalizzato accomunava tutti i Paesi antisemiti. A causa di ciò, e a seguito delle
estromissioni dall’esercito e dal lavoro, nel maggio-giugno 1940 fu deciso l’internamento in campi o in
comuni di coloro che vennero giudicati maggiormente «pericolosi»; nel maggio 1942, l’istituzione del
«lavoro obbligatorio» (noto anche come «precettazione»), applicato in misura diversa nelle varie città; nel
giugno 1943, l’istituzione di quattro «campi di internamento e lavoro obbligatorio» per gli individui abili
(decisione poi non concretizzata a causa del sopraggiungere della crisi del 25 luglio). Pur avendo ipotizzato
di revocare la cittadinanza a una parte o alla totalità degli ebrei italiani, Mussolini nel settembre 1938 attuò
tale proposito solo nei confronti di coloro che l’avevano acquisita dopo il 1918 per concessione. Tutti i
perseguitati furono censiti o obbligati ad autodenunciarsi più volte; comuni, questure e prefetture erano in
possesso di informazioni costantemente aggiornate su caratteristiche, spostamenti e nucleo famigliare di
ciascun perseguitato. L’appartenenza alla «razza ebraica» veniva menzionata su tutti i certificati anagrafici
e sul libretto di lavoro, inoltre doveva essere registrata (e notificata alla polizia) da albergatori e
affittacamere. Come detto, il fascismo non introdusse l’obbligo di portare un segno distintivo giallo o di
altro tipo, neanche durante la Repubblica sociale italiana. Quando il 25 luglio 1943 fu destituito Mussolini,
nel successivo periodo dei “quarantacinque giorni” le leggi antiebraiche non furono né annullate né
aggravate.

I «quarantacinque giorni» che seguirono alla caduta di Mussolini DEL 25 luglio 1943, trascorsero tra grandi
speranze di cambiamento e lo sconcerto causato dal mantenimento in vigore di tutte le leggi antiebraiche.
Vennero revocate solo alcune disposizioni amministrative minori. Ma non venne più dato seguito alle
decisioni di istituire campi di internamento e lavoro obbligatorio e di consegnare alla Germania gli ebrei
tedeschi della Francia sud-orientale. Il 3 settembre gli Alleati sbarcarono in Calabria e l’8 settembre venne
diffusa la notizia che il Regno d’Italia aveva stipulato l’armistizio. Agli inizi di ottobre, la penisola risultava
divisa in due parti: a sud della linea del fronte (cioè nell’Italia meridionale e nelle isole) vi erano gli
angloamericani e il Regno d’Italia, ormai ad essi alleato; a nord vi era l’alleato occupante tedesco e il nuovo
Stato costituito dai fascisti antisemiti, poi denominato Repubblica sociale italiana, con sede centrale a Salò,
sul lago di Garda. Nelle regioni meridionali nazisti e fascisti non ebbero tempo o modo di introdurre nuove
misure antiebraiche. Nella seconda area ebbe subito inizio il periodo della persecuzione delle vite degli
ebrei; esso durò fino all’estate 1944 nelle regioni centrali e fino all’aprile 1945 in quelle settentrionali. Vi
furono assoggettate presumibilmente 43 000 persone classificate «di razza ebraica», suddivise in 33 000
perseguitati di religione o identità ebraica e 10 000 perseguitati non-ebrei.

Le azioni antiebraiche germaniche iniziarono appena dopo l’8 settembre in provincia di Bolzano, nel
Cuneese, sulla sponda piemontese del lago Maggiore e in altre località. Ebbero carattere disorganico e
motivazioni diversificate. Le prime azioni «regolari» di arresto furono effettuate sabato 9 ottobre a Trieste e
sabato 16 a Roma. Alla retata nella capitale fecero seguito quelle attuate tra fine ottobre e inizio novembre
in Toscana, a Bologna e nel triangolo Torino-Genova-Milano. Tra il settembre 1943 e il gennaio 1944 i
tedeschi deportarono la grande maggioranza degli ebrei che essi avevano arrestato (col convoglio del 30
gennaio 1944 deportarono anche alcuni ebrei arrestati nel frattempo dalla RSI).

La retata più grave in assoluto della Shoah italiana fu quella di Roma: 1259 fermati il 16 ottobre, e (dopo la
verifica della situazione di ciascuno, attuata dai tedeschi in base alle proprie procedure) 1023 deportati ad
Auschwitz il 18 ottobre, compreso un piccolo nato subito dopo l’arresto della madre. Età, sesso e condizioni
di salute delle vittime non costituirono mai motivo per eccezioni o esenzioni. Nei mesi di fine 1943, la
polizia tedesca non arrestava o rilasciava immediatamente gli ebrei cittadini degli Stati con cui era stato
concordato il rimpatrio e quelli con il coniuge o un genitore «di razza ariana»; successivamente anch’essi
vennero deportati, per lo più verso campi non di sterminio. Nel nuovo governo fascista-repubblicano,
costituito il 23 settembre, Mussolini era capo del governo e ministro degli Affari esteri. Mussolini non
riattivò più il progetto del giugno precedente di istituzione di campi di internamento e lavoro obbligatorio, e
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si impegnò per varie settimane nell’elaborazione di una nuova legge sugli ebrei. In novembre il dittatore
decise di affiancare e sostituire i tedeschi nell’attuazione degli arresti. Il 14 novembre, a Verona, il nuovo
Partito fascista repubblicano (PFR), ricostituito il 15 settembre, approvò un «manifesto programmatico»,
preparato dai massimi dirigenti e riveduto da Mussolini, il cui punto 7 stabiliva: «Gli appartenenti alla
razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Si trattava di
un pronunciamento politico, che prefigurava e al tempo stesso giustificava i provvedimenti di arresto delle
persone e di prelevamento dei loro beni. Il 30 novembre 1943 il ministro dell’Interno diramò l’«ordine di
polizia» n. 5, che disponeva l’arresto di «tutti gli ebrei, a qualunque nazionalità appartengano» e la loro
reclusione «in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento
speciali appositamente attrezzati», oltreché il sequestro immediato di tutti i loro beni.

Gli arresti italiani degli ebrei italiani furono, quindi, basati su una semplice disposizione amministrativa, a
sua volta basata solo su una dichiarazione politica; non si sentì il bisogno di una nuova legge. Dal 1°
dicembre i capi delle province cominciarono ad allestire i rispettivi campi di internamento (talora adibendo
allo scopo settori delle carceri o edifici delle comunità ebraiche) e i questori iniziarono a effettuare gli
arresti; poi, verso la fine del dicembre 1943, iniziò il trasferimento delle vittime nell’unico campo nazionale
nel frattempo allestito: quello di Fossoli di Carpi, in provincia di Modena. Gli arresti non erano competenza
di una sezione di polizia specializzata; essi facevano capo alla Direzione generale della pubblica sicurezza
del ministero dell’Interno e quindi alle questure.

La disposizione italiana del 30 novembre 1943 riguardava gli ebrei di qualsiasi nazionalità, quindi anche
quelli ungheresi, svizzeri, ecc. Ciò era in contrasto con la normativa tedesca al momento in vigore: Salò
decise in fretta e senza consultarsi con Berlino. Il 20 gennaio 1944 lo stesso ministro dell’Interno dette
istruzioni di soprassedere all’arresto dei membri di famiglie «miste», senza alcuna specificazione di
nazionalità; il 7 marzo il capo della polizia confermò che i membri di famiglie «miste» – stranieri inclusi –
erano esclusi dall’internamento e ribadì l’esenzione per i malati gravi e gli ultrasettantenni, estendendo
anch’essa agli stranieri. Il 16 ottobre 1944 il capo della polizia propose al ministro di limitare l’esenzione
dall’internamento ai soli perseguitati con coniuge «ariano» (revocandola quindi per quelli con un genitore
«ariano»), ma non è noto se ciò sia stato tradotto in una disposizione operativa. La polizia tedesca continuò
ad arrestare e internare gli ebrei delle regioni nordorientali. Gli ebrei arrestati e internati dai tedeschi e
dagli italiani vennero deportati dai tedeschi principalmente nel campo di Auschwitz-Birkenau, con convogli
diretti o con tappa intermedia rispettivamente nei campi di Reichenau in Austria e Drancy in Francia.

Inizialmente le deportazioni partirono dalle località degli arresti; dopo il gennaio 1944, da Fossoli;
nell’autunno seguente, da Bolzano-Gries, ove, all’inizio di agosto, era stato trasferito il campo nazionale. Nel
frattempo, in febbraio-marzo, il campo di Fossoli era stato preso in gestione dalla polizia tedesca,
divenendo Polizei- und Durchgangslager (campo di polizia di internamento e transito). Nel Litorale
adriatico gli ebrei arrestati dai tedeschi vennero sempre concentrati a Trieste, dapprima nel carcere del
Coroneo e poi nel campo della Risiera di San Sabba; da lì furono deportati ad Auschwitz. Gli italiani
arrestavano e trasferivano a Fossoli (poi a Bolzano Gries), i tedeschi prendevano in consegna e deportavano
(svuotando il campo), gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli, i tedeschi prendevano in consegna e
deportavano, e cosí via. Si trattava di un meccanismo semplice, ma non spontaneo: occorreva un accordo
preventivo e una buona sincronizzazione tra chi «immetteva» e chi «prelevava».

La maggioranza degli ebrei esitò a rendersi conto della tragica prospettiva che si era improvvisamente
delineata il giorno dell’annuncio dell’armistizio; molti di coloro che compresero tempestivamente, si
trovarono bloccati dalla mancanza di soldi causata dal notevole impoverimento del precedente quinquennio
persecutorio, dalla mancanza di spirito di iniziativa, dalla presenza di famigliari malati o anziani, ecc.
Peraltro, se l’8 settembre l’intera popolazione italiana si trovò priva di informazioni e di direttive, gli ebrei
furono del tutto abbandonati a sé stessi, totalmente soli, e, a seguito della politica di separazione attuata nel
precedente quinquennio, più deboli e più indifesi degli altri italiani. È lecito ritenere che se, specialmente in
settembre, ottobre e novembre 1943, i nazisti avessero potuto destinare un maggior numero di uomini
all’esecuzione degli arresti 29 e se, specialmente nel dicembre seguente, i fascisti avessero potuto fare
altrettanto, il bilancio della Shoah nella penisola sarebbe stato ancora più tragico. In sostanza, il passaggio
degli ebrei alla clandestinità fu un processo graduale, stimolato proprio dal susseguirsi e dall’infittirsi degli
eccidi e degli arresti. Solo col trascorrere delle settimane i più – salvo i molto anziani, i malati gravi, i
noncuranti irriducibili, e i disperatamente miseri – si nascosero, con maggiore o minore successo. Per quasi
tutti gli ebrei la sopravvivenza in clandestinità dipese anche dalla capacità di contraffare la propria identità:
nome «ariano» falso (in genere di persone residenti a sud della linea del fronte), configurazione falsa
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(malato, se falsamente ricoverato in ospedale; domestica, se nascosta presso una famiglia; lontano
cuginetto, se ospitato da una famiglia con bambini, ecc.) e spesso religione falsa (le cui preghiere e i cui riti
vennero rapidamente appresi alla perfezione dai bambini nascosti nei conventi).

Talora si sostiene che la percentuale degli uccisi, tra le più basse del continente, costituisce COSTITUISCA
un titolo di merito per l’Italia in quanto tale o per l’intera popolazione italiana non-ebraica. In realtà questa
affermazione da un lato è ingiusta verso gli italiani che furono soccorritori, dall’altro non tiene conto del
fatto che a quella percentuale concorsero almeno quattro importanti fattori esterni: gli ebrei italiani erano
pochi; essi non abitavano in quartieri separati e soprattutto erano molto integrati col resto della
popolazione (va notato che gli ebrei stranieri vennero arrestati in misura proporzionalmente doppia
rispetto agli ebrei italiani , pur se l’ordine di arresto non faceva distinzione di nazionalità); il periodo degli
arresti ebbe una durata relativamente limitata; il Terzo Reich e la RSI si dovettero dedicare principalmente
a contrastare l’avanzata degli Alleati sul suolo italiano (gli stessi nazisti in ritirata, nel settembre 1943 non
deportarono i circa 2000 ebrei stranieri internati nei campi dell’Italia meridionale e in occasione della
grande retata a Roma del 16 ottobre 1943 arrestarono «solo» il 10 per cento degli ebrei presenti in città).

Nessuna di queste condizioni si verificò, ad esempio, a Varsavia o Salonicco. Tutto questo, ovviamente, non
vuole, né potrebbe, negare il coraggio, l’impegno e la capacità di successo dei soccorritori italiani non-ebrei.
Nel 1943-45 il numero delle persone solidali fu molto più ampio che nel 1938-43. Come accennato, a
differenza di altri Paesi europei, in Italia il passaggio dalla persecuzione dei diritti degli ebrei alla
persecuzione delle loro vite avvenne in modo netto ed ebbe luogo parallelamente a un cambiamento politico
e militare di carattere generale. La divisione politica e militare verificatasi a seguito dell’8 settembre 1943
stimolò gli italiani a pensare e quindi a scegliere. Certo, fu difficile ricominciare a riflettere dopo quasi venti
anni di dittatura e dieci-quindici anni di consenso al regime. Ma una parte degli italiani lo fece, giungendo
al punto di scegliere il fascismo o l’antifascismo, il re (non più fascista) o Mussolini. Queste scelte influirono
sui precedenti orientamenti verso gli ebrei, in entrambe le direzioni. Così si verificò un progressivo aumento
delle scelte antifasciste e contrarie alla Shoah, ma anche una radicalizzazione dell’ostilità antiebraica.
Parallelamente a ciò, occorre considerare che la popolazione non era stata preparata al nuovo obiettivo
persecutorio da un’apposita martellante campagna propagandistica e indottrinatrice, obiettivo che peraltro,
preannunciandosi come finale, entrava in conflitto con lo spirito cattolico di molti (in alcune città furono gli
stessi arcivescovi ad attivare il soccorso agli ebrei, anche se mancò una specifica istruzione del papa). È
pertanto possibile che, per alcuni, proprio la consapevolezza della Shoah abbia costituito il primo stimolo a
ricominciare a riflettere. Alcuni giornali invitarono a contrastare l’ordine fascista di arresto degli ebrei del
30 novembre 1943. Tutto ciò favorì il moltiplicarsi di episodi di solidarietà e aiuto. L’antifascista agì per
convinzioni politiche, il cattolico osservante per convinzioni religiose, il contadino per semplice solidarietà
umana, l’ex studente per aiutare il suo vecchio professore… Insomma, ciascun soccorritore trovò in sé
stesso le ragioni per un comportamento umano. Da tutti questi, migliaia di ebrei ricevettero il dono della
vita. E vi furono dei non-ebrei che vennero arrestati e talora deportati proprio in
conseguenza dell’opera di soccorso (destino che colpì anche alcuni ebrei dediti proprio a tale
attività).

L’impegno nella Resistenza e le azioni di autodifesa (come il passaggio alla vita clandestina, laddove esso
era possibile) non potevano garantire il futuro dell’ultimo terzo degli ebrei d’Europa. Il fattore decisivo della
loro salvezza fu la progressione degli Alleati, che portò alla liberazione diretta dei «non ancora sterminati»,
rese sempre meno fluido il meccanismo della deportazione e il funzionamento dei centri di uccisione (ma
Auschwitz non venne bombardato, mai), stimolò mutamenti nei governi che appoggiavano o cogestivano lo
sterminio. Ma i soldati sovietici, inglesi, americani e delle altre nazioni erano stati preceduti da una strana
“armata senz’armi”, composta da europei non ebrei (come si è visto, anche berlinesi), che si impegnarono in
azioni di soccorso, talora sino al sacrificio della loro stessa vita.
La loro cittadinanza era uguale LA STESSA DI a quella dei troppi assassini, dei molti complici e dei tanti
indifferenti, ma il loro animo era diverso.
Erano cattolici (ma non vi fu alcuna direttiva papale), protestanti, ortodossi o atei. Avevano una formazione
politica (liberale, marxista, ecc.), o religiosa, o anche nessuna formazione. Erano uomini o donne.
Abitavano nelle campagne polacche, o nelle città danesi, o nelle vallate italiane. Insegnavano o non
sapevano scrivere. Agivano isolati o in piccole reti informali. Erano responsabili di conventi e ospedali o
lavoravano negli uffici che rilasciavano documenti di identità. Si impegnarono nel soccorso di decine e
decine di migliaia di ebrei (anche se varie volte la loro azione soccombette di fronte alla fortuna o alle
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maggiori capacità degli sterminatori). Yad Vashem assegna il titolo di «Giusto tra le Nazioni» (hasidei umot
ha-olam) ai non ebrei che hanno aiutato a salvare la vita di un ebreo, rischiando la propria e senza
aspettarsi alcuna ricompensa. Sino ad oggi sono stati assegnati oltre 16 000 riconoscimenti.

Tra questi- che gli ebrei qualificano come “giusto tra le nazioni” spicca l’irpino Giovanni Palatucci, modello
esemplare di sacrificio e altruismo, all'insegna dello spirito di solidarietà e partecipazione alla base del
“mestiere” di poliziotto. Le sue origini ci portano a Montella, in Irpinia, Terra toccata dalla predicazione di
San Francesco. La nonna di Palatucci, terziaria francescana, offrì tre dei suoi figli alla famiglia francescana, il
primo dei quali, Antonio, era guarito misteriosamente, al passaggio della processione, da una poliomielite
invalidante. Poi Alfonso, che divenne responsabile provinciale dei Francescani, e infine Giuseppe Maria che
fu vescovo a Campagna, in provincia di Salerno. Tutti e tre oggi riposano proprio nel convento francescano
di Montella. L’unico figlio maschio che si sposò, Felice, era proprio il papà di Giovanni Palatucci. Giovanni
nacque il 29 maggio 1909, e la sua famiglia era legata ai principi della modestia, del rispetto, della parola data.

Giovanni ebbe come educatrice, nei primi anni di vita, la nonna Carmela (lui la definiva “quella nostra santa”), lo
allevò nel cristianesimo rigoroso, austero e caritatevole. La sua infanzia fu un esercizio di preghiera e di
contemplazione, tenendo davanti agli occhi la croce e l’immagine del condannato a morte, dell’innocente
perseguitato.

Una grande storia familiare, la sua, che vide collaborare il commissario Palatucci, assegnato a Fiume
all’ufficio stranieri, col vescovo di Campagna, lo zio Giuseppe Maria Palatucci, di recente insignito della
medaglia d’oro al merito civile dal presidente Napolitano. Al campo di concentramento ivi realizzato (dove
confluivano molti ebrei sfollati da Fiume) i perseguitati vennero di fatto accuditi e salvati, con ripetuti
assegni provenienti dalla Santa Sede, a firma del cardinale Luigi Maglione, o dell’allora monsignor Giovan
Battista Montini. Per cui, nell’ambito di questa storia, troviamo ben due papi, uno in carica e uno che lo
diverrà poi, prodigarsi nell’opera di salvataggio. Questi stanziamenti, infatti, recavano l’esplicita volontà di
Pio XII di lenire le sofferenze dei perseguitati per motivi razziali e questo apre nuovi squarci sui cosiddetti
“silenzi” di Pio XII.

Proprio Felice avrebbe voluto il figlio avvocato in Irpinia, ma lui, dopo il Liceo a Benevento, era partito NEL
1930, per il servizio militare in Piemonte. Di stanza a Moncalieri, aveva sì completato gli studi di
Giurisprudenza a Torino, laureandosi a 23 anni con una tesi in Diritto penale, ed aveva anche superato gli
esami per Procuratore legale, ma l'avvocatura non lo entusiasmava. Nel 1936 era a Genova, come vice
Commissario aggiunto di P.S. Ci rimase poco. Non era, infatti, per nulla incline al conformismo DEL SUO
AMBIENTE PROFESSIONALE, così ai primi del 1938 venne "esiliato" alla Questura di Fiume. Qui divenne
Commissario e poi Questore reggente, con la responsabilità dell'Ufficio stranieri.

Grazie a questo ruolo, con le leggi razziali in vigore, svolse con gran rischio personale un'intelligente
attività a favore di ebrei italiani e stranieri. È stato calcolato che, distruggendo archivi e procurando
documenti falsi, abbia, nel giro di sei anni, salvato dalla deportazione (anche con la collaborazione di uno
DELLO zio, vescovo della Diocesi di Campagna) almeno cinquemila persone. Palatucci continuò la sua
generosa attività anche durante l'occupazione nazista di Fiume. Ad un certo momento il C.L.N. fiumano, nel
quale Palatucci era entrato con il nome di dott. Danieli, fu informato che i nazifascisti avevano cominciato a
sospettare della sua attività; a Palatucci fu consigliato di mettersi in salvo, ma lui rifiutò: una sua fuga,
disse, avrebbe messo in difficoltà i sottoposti che lo avevano aiutato. La notte del 13 settembre 1944, il
“Dott. Danieli”, questo era il nome di battaglia di Palatucci, venne arrestato nel suo appartamento in via
Pomerio n. 28 dalla polizia di sicurezza germanica, su ordine del tenente colonnello Herbert Kappler
comandante delle SS. Dopo aver subito maltrattamenti, torture ed insulti, il questore reggente fu tradotto
prima nel carcere del Coroneo di Trieste e poi alla Risiera, unico campo di sterminio in Italia. Fu l’inizio
della sua tragica odissea, che si concluderà in Baviera, nel campo di sterminio di Dachau.
Arrestato nella sua casa, il 13 settembre del 1944, dalla polizia di sicurezza germanica, il Questore di Fiume
- che non aveva fatto nomi nonostante le torture - fu condannato a morte per "cospirazione e intelligenza
con il nemico". La pena fu poi commutata nella deportazione e, quaranta giorni dopo l'arresto, Giovanni
Palatucci entrava nel campo di Dachau con il numero di matricola 117826. Vi sarebbe morto, in seguito agli
stenti e alle sevizie patite, due mesi prima della liberazione del campo. 

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Il destino drammatico di Giovanni Palatucci, nella complessità della sua azione di salvatore, si sviluppò
negli “anni fatali” con determinazione cristiana originale. Studente di giurisprudenza, laureatosi a Torino
nel 1932, dal carattere esuberante e dagli aspetti umani molteplici, tormentato nelle scelte, fu un uomo
pronto a sacrificare gli interessi personali. Egli era attratto da un senso forte della giustizia, vissuto fino
all’estremo. La vita dell’uomo e del poliziotto, le sue azioni di “salvatore”, il suo pensiero, si sono
conclamati ? e hanno affrontato sistematicamente una lotta totale contro il male, la sopraffazione e
l’ingiustizia. Una lotta vissuta non da eroe di fiaba, ma attraverso una strategia REALISTICA E legale,
usando e adoperando con disciplina gli strumenti del sistema che il potere poteva permettergli di disporre
GLI METTEVA A DISPOSIZONE a favore degli innocenti perseguitati, i suoi fratelli ebrei. Palatucci
comprese che il male oscuro era il fascismo, ma E CHE il male si annidava non solo nel regime, ma ANCHE
in seno alle masse che erano ubriache E AFFAMATE DI dei gesti clamorosi, il duce le seduceva e le portava
al delirio, di conseguenza erano tutti ? portatori di morte.
Si invocava una patria inesistente, una patria matricida e matrigna. Il duce prometteva una pace in cambio
di molte guerre, contro il mondo libero e contro le democrazie. Le democrazie erano viste come la fine della
civiltà occidentale. Gli italiani erano sull’abisso, era necessario soddisfare le ambizioni del capo dalla
“mascella maschia” e questo mito infettò gli italiani. Il fascismo aveva cancellato ogni dignità del popolo
italiano; aveva ridotto gli italiani ad un popolo di conformisti e di guerrieri idolatri, esecutori di massacri di
etiopi, di sloveni, di albanesi, di greci e di russi. Apparentemente Giovanni Palatucci poteva sembrare un
qualsiasi UN noioso e pedante funzionario del regime, UNO DEI TANTI… . Al contrario, Le scelte e le
azioni, la vita esemplare di Giovanni Palatucci, antifascista silenzioso, hanno incendiato e illuminato la
notte oscura del fascismo.
Giovanni Palatucci si trovò a operare e a comprendere con maggiore chiarezza l’importanza di ogni suo
gesto, anche minimo virgola ? che poteva salvare o perdere i fratelli maggiori, gli ebrei, ma insieme salvare o
perdere lui stesso punto in una situazione così grave, quando ogni attimo era prezioso.
, mMentre ogni situazione poteva costargli la vita, sfrutto al meglio per sei lunghi e snervanti anni, tanto il
suo ruolo nella questura di fiume, quando la rete di solidarietà che abilmente insieme a fedeli collaboratori
e amici, era riuscita a tessere dentro e fuori fiume, mettendo in salvo- come risulta chiaramente dalla nuova
testimonianza di Giuseppe Veneroso- almeno 5000 ebrei, aiutandoli in tutti i modi: ospitandoli,
confortandoli, procurando loro documenti falsi, rischiando sempre di persona punto
essere giusto doveva far parte del suo lavoro, ma, quando le leggi dello Stato non permettono più alla
giustizia di operare a causa del momento storico in cui ci si trova a vivere, come si può tornare ad esserlo?
Soltanto violando con le leggi umane in nome di una “legge superiore”, quella divina, accettando però tutte
le conseguenze che derivano da una scelta coscienze nel senso più ampio del termine. Infatti, le imprese
rischiose amorevoli di Giovanni fruivano dal suo categorico no all’ingiustizia della legislazione razziale della
guerra- anche prevedendo lucidamente quando tale decisione poteva quanto potesse costargli-, perché ben
fondate sul “sì” al messaggio cristiano.
E mentre l’ideologia totalitaria postula l’affermazione di sé, fino a diventare violenza sull’altro, la fede
provoca ha esistere per gli altri, come l’ebreo Gesù di Nazareth, nostro signore e maestro punto e quanti
fanno come lui, preparano quell’umanità nuova che l’ultimo questore reggente di fiume italiana anticipo
proprio donandosi virgola in continuazione fino al sacrificio della vita, per gli altri.
Perciò, nei quasi 5 drammatici ma esaltanti anni vissuti in quell’ultima via di fuga e salvezza per i braccianti
a morte che era Fiume, davvero la sua anima era già amica dell’Infinito e le forze del male che lo portavano
via e non riuscirono a estinguere la fede che in un mondo nuovo che, “in spe contra spem”, Palatucci aveva
dentro di sé.
Giovanni Palatucci lo aveva detto chiaramente ad un amico fin dall’entrata in vigore delle leggi razziali in
Italia: “ci vogliono dare intendere che il cuore sia soltanto un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello
che il cuore e la nostra religione ci dettano”.
Quindi, posto di fronte alla scelta di imprigionare degli innocenti o salvare loro la vita, aveva seguito quelle
ragioni fino alle estreme conseguenze, fino a diventare luce di speranza per quanti, grazie a lui, non ebbero
salva solo la vita ma anche la speranza nell’essere umano; ecco perché ancora oggi si ricordano come un
uomo con grande compassione, tanti anni fa, aveva dato loro l’opportunità di continuare a vivere e di
credere nuovamente nella forza inaspettata del bene.

Giunto a Fiume, Palatucci va ad abitare in via Pomerio 29 presso la famiglia Malner. Poco distante è situata
una delle due sinagoghe cittadine. La questura si trova in via Roma numero 4, di fronte al palazzo del
governo. Trova ad attenderlo il questore Vincenzo Genovese. Il suo l’ufficio straniero al terzo piano. Alla
prefettura c’è il prefetto Francesco Turbacco al quale, quattro mesi più tardi subentra il prefetto Temistocle
Testa, simpatizzante del Fascismo. La città di Fiume faceva parte del Regno d’Italia (dal 1924), In
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precedenza era stata prima il porto del Regno d’Ungheria, e poi ‘Città Libera’. Nell’abitato permanevano gli
effetti del contrasto etnico esistente in Friuli-Venezia Giulia tra italiani e sloveni-croati. Unitamente a ciò,
con la perdita del proprio naturale retroterra della ‘Grande Ungheria’, il traffico portuale aveva subìto un
calo di attività. Ciò riversò effetti negativi sull’economia e sulla situazione sociale locale. A Fiume il dr.
Palatucci divenne il responsabile dell’ufficio stranieri della Regia Questura. Al neo arrivato competeva, tra
l’altro, il compito di vidimare i permessi di soggiorno per gli spostamenti degli ebrei (divenuti ˗ di fatto ˗
‘stranieri’ nel loro Paese). Se uno di loro intendeva, ad esempio, raggiungere Trieste (o altra località del
Regno d’Italia), era obbligato a chiedere un visto (autorizzazione della Questura). Alla fine del 1937,
Palatucci operava in una realtà difficile, basta i immaginare quali repressioni ideologiche gravassero su
Fiume e quali minacce, causa i totalitarismi xenofobi, incombessero alle sue porte, specialmente causa di
confine segnato dal ponte di Susak.
L'emanazione delle leggi razziali antisemitiche (luglio-novembre 1938) vide Palatucci immediatamente e
decisamente in favore dei concittadini ebrei e per tutti coloro che, in fuga da altre nazioni occupate da armi
tedesche, transitavano per il confine istriano.

Dai documenti conservati in più Archivi (non solo italiani), risulta che il dr. Palatucci non mostrò un
particolare allineamento con l’orientamento politico del tempo, ispirato alle direttive di Mussolini e a quelle
del PNF. Ciò è attestato anche dal fatto che decise di iscriversi al Partito Nazionale Fascista solo il 23 marzo
1938 per poter sostenere il concorso per uditore di Tribunale. In particolare, si osserva che:
 conservò una linea di riservatezza; un proprio rigore morale su determinati valori-chiave;
 esternò un’attenzione non debole verso temi riguardanti la vita italiana;
 si mantenne corretto ma non servile (espresse infatti critiche in diverse occasioni) verso chi
rappresentava lo Stato.
In tale contesto, traspare da taluni scritti privati:
 una personale insofferenza verso le intemperanze fasciste;
 un disaccordo verso oppressivi rastrellamenti “a raggio”;
 una netta presa di distanza da quelle affermazioni razziste che costituirono la base teorica del
sistema persecutorio antiebraico (e non solo). Le indagini condotte per un cognome, per una
nascita, per un’appartenenza genetica, non trovarono in lui un assertore. Non facevano parte del suo
costume professionale, della sua etica;
 sul piano della fede, Palatucci non cessò di seguire un proprio percorso, e mantenne una
partecipazione alla vita ecclesiale.

Negli anni dal 1938 fino al 1943-1944 il dr. Palatucci si trovò di fronte al dramma degli ebrei profughi
dall’Austria e poi da Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Croazia… .
Tali disperati attraversavano di frequente i confini in modo clandestino pur di evitare il campo di
concentramento. Per queste persone l’ordine di Mussolini (anche ministro dell’Interno) prevedeva
l’espulsione, quindi la consegna alle polizie dei regimi del tempo (e ai collaborazionisti). Fiume al tempo era
un po’ come oggi Lampedusa. La città di Fiume aveva una posizione strategica, soprattutto agli occhi degli
ebrei fuggiti a morte certa, per potersi imbarcare alla volta della Palestina o di altri paesi amici. Era dunque
un "ponte verso la salvezza" e Palatucci e i suoi collaboratori più fidati, fecero di tutto per non far cadere
quel ponte in mani nemiche e consegnare dunque gli ebrei nelle mani dei loro stessi carnefici. Vi arrivavano
a centinaia, in fuga disperata, attirati dalla notizia che in città vi era un commissario all’ufficio stranieri
specializzato nell’aggiramento delle leggi razziali. Una donna ebrea, cui fece arrivare in carcere un pranzo
come “sorpresa” di Natale, scrisse che “Giovanni Palatucci è andato oltre il comandamento evangelico. Ha
amato il prossimo suo non come, ma più di sé stesso”.
Il compito di Palatucci fu quello di compilare gli schedari degli ebrei e di sorvegliarli. Iniziò per lui l'opera
di salvataggio di ebrei, politici e perseguitati di qualunque paese o colore politico fossero. Questi salvataggi
lo porteranno di lì a sei anni, all'internamento nel campo di sterminio di Dachau. Le imposizioni delle leggi
razziali aumentarono quasi quotidianamente. Il primo settembre 1938 il governo varò il primo pacchetto di
misure antisemite. Il 6 ottobre il Gran Consiglio del Fascismo, acquisito il "via libera" di Vittorio Emanuele
III, approva i provvedimenti per la difesa della razza che passeranno tristemente alla storia come R.D. 1728
del 17 novembre 1938. In data maggio 1939-inizio giugno, avverrà un altro "delitto": il divieto dell'esercizio
delle professioni.

Naturalmente, con le leggi razziali, gli ebrei fiumani subirono la sorte di tutti gli ebrei italiani. Furono
espulsi da tutte le scuole del regno né poterono iscriversi alle università; i dipendenti da enti statali,

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parastatali e comunali vennero licenziati in tronco; gli ufficiali delle Forze Armate vennero pubblicamente
degradati ed espulsi anche se decorati, come se si fossero macchiati di alto tradimento. Inoltre dopo
l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940 in una retata notturna tra il 18 ed il 19 giugno, ordinata dal
prefetto Temistocle Testa, circa 400 ebrei maschi di età superiore ai 18 anni vennero arrestati e incarcerati
perché considerati nemici: all’uopo venne requisita la scuola elementare del rione periferico di Torretta ove
i malcapitati vennero rinchiusi circa 30-40 per aula in condizioni primitive. Alcune delle persone arrestate
vennero rimesse in libertà dopo 8-15 giorni, tutti gli altri vennero inviati al confino in varie località
dell’Italia centro-meridionale: in questo provvedimento molti furono agevolati dall’opera del Vice-Questore,
dott. Giovanni Palatucci, ed in alcuni casi riuscirono così a salvarsi dalla deportazione nei campi di
sterminio nazisti.
Fiume aveva sempre considerato gli ebrei come i suoi ordinari cittadini, e ciò perché, amalgamati
all’elemento autoctono, costoro vivevano in piena armonia all’interno di quella realtà comunale
condividendone tutte le aspirazioni, partecipando a tutte le sue lotte civili, politiche, nazionali e sociali.

Il suo incarico chiaramente gli era utile per organizzare al meglio una vera e propria rete clandestina per
l’assistenza ai profughi giunti a Fiume e poi per il loro salvataggio (ovvero per imbarcarli per l’oltremare).
Palatucci si affidò soprattutto all'ospitalità di famiglie amiche, per trovare dei nascondigli sicuri alle persone
scampate alla deportazione, prima di poterti mettere in salvo definitivamente, garantendo anche il vitto,
spesso con rotazioni che non duravano più di qualche giorno. Al contempo egli si adoperava per intralciare
il più possibile, prima le autorità italiane addette alla confisca dei beni delle famiglie ebraiche a Fiume, poi
quelle tedesche che dovevano provvedere alla deportazione nei campi di concentramento (in seguito alla
creazione della "Zona di Operazioni Litorale Adriatico, quando i tedeschi presero totale potere nella regione
ed iniziarono a compiere deportazioni massive). Una testimonianza fondamentale di tali eventi la
ritroviamo all'intero delle lettere che si scambiavano Palatucci e lo zio paterno Monsignor Giuseppe Maria
Palatucci, vescovo di Campagna, diocesi in provincia di Salerno.

Tra tutti i campi di concentramento istituiti nella Regione Campania a partire dal 1940, il più grande fu
quello di campagna, comune dell’entroterra salernitano di circa 11.000 abitanti, situata 270 m slm in una
gola dei Monti picentini, e quindi con una cornice morfologica parecchio adatta alle esigenze di
internamento. Su proposta del prefetto di Salerno al ministero dell’Interno, il Comune di campagna venne
prescelto, fin dai primi giorni di settembre del 1939, per istituzione colonia confinati comuni in quanto
dotato di due caserme vuote attrezzabili per circa 900 posti, è proprio qui, con l’aiuto dei ricordi di quanti
mi furono internati durante la guerra o si prodigarono per alleviare quelle sofferenze, ritroviamo quel filo,
che seppur nascosto, ci conduce a Giovanni Palatucci.
Certo è che il clima respirato dagli ebrei internati a Campagna era assai diverso da quello che si avvertiva in
altre località d’internamento d’Italia.

Giovanni Palatucci, questore di Fiume, d’intesa con lo zio Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna, riuscì a
stabilire un efficace sistema di aiuto per preservare dalla morte centinaia di Ebrei internandoli proprio a Campagna.
Proprio per la fraterna accoglienza che la popolazione riservò ai prigionieri, la città di Campagna è stata insignita nel
2006 della medaglia d’oro al merito civile da parte del Presidente della Repubblica per aver contribuito ad alleviare le
sofferenze dei profughi internati. Il convento di San Bartolomeo è quindi un luogo denso di storia, quasi un luogo
naturale della memoria. E di quel campo di internamento per civili, risalente al 1940, porta ancora tutto il carico di
storia, di destini, di umanità.
Parlare di un filo diretto tra Fiume e Campagna, forse è cosa eccessiva, ma certo la relazione esiste ed è
forte se si considera che, in più d’una occasione, Giovanni raccomanda allo zio perseguitati o internati da
smistare, in forza dell’autorità morale del vescovo e delle conoscenze di lui, qua e là per l’Italia, in regioni
più consone alle umane esigenze, sia queste motivi di salute, siano motivi familiari… .

È la signorina Gioia De Paoli, figlia del direttore del campo, a ricordare che «a Campagna gli ebrei potevano
circolare liberamente nell'abitato, stabilendo amicizie [...] ricevendo visite dei parenti e corrispondenze.
Non mancavano, poi, iniziative ricreative di vario genere: dalle partite di calcio alle feste ebraiche ai
concerti». Malgrado l'attività culturale fosse stata fortemente limitata dal regime fascista, che cercava di
ostacolare ogni forma di anti propaganda-anche se molte manifestazioni culturali potevano ricollegarsi alla
libertà di culto stabilita dal decreto d'internamento-, la presenza di numerosi artisti e intellettuali tenne
costantemente elevato lo spirito della comunità, tanto che a Campagna gli ebrei non solo riuscirono
periodicamente a pubblicare un bollettino ciclostilato dal titolo Das Tagerl, che commentava la vita del
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campo, ma addirittura poterono saltuariamente assistere a proiezioni cinematografiche e organizzare
piacevoli e iniziative artistiche, tra le quali spiccavano i concerti di musica sinfonica, senza dimenticare le
partire di calcio tra la squadra degli internati e quella dei campagnesi.
Gli ebrei del campo di San Bartolomeo, durante il periodo di internamento, svolgevano numerose attività:
rappresentazioni teatrali e mostre di pittura, la redazione di un giornale ciclostilato in lingua tedesca,
partite di calcio, consultazione dei libri della biblioteca del Seminario; inoltre avevano la possibilità di
organizzare concerti musicali, con un coro e una piccola orchestra, e di impartire lezioni di lingue straniere
ai giovani del posto. Gli internati, quasi sempre ritratti in giacca e cravatta, possono ADEGUA I TEMPI
VERBALI addirittura fittare camere ammobiliate nel paese e, senza necessariamente svolgere nessun tipo
di lavoro, ricevere un sussidio giornaliero. La cordiale relazione che si stabilisce tra gli ebrei internati e la
popolazione locale è testimoniata dai numerosi regali che essi hanno lasciato alla gente del posto (quadri,
lettere, disegni, poesie, sculture, ecc.), inoltre molti ebrei, in quanto medici, hanno prestato soccorso e cure
a bimbi e persone malate di Campagna. A campagna, si realizzò nel corso dei tre anni di funzionamento del
campo, un circuito di protezione aiuto che coinvolse l’intera città punto nel campo vi erano una piccola
biblioteca e una squadra di calcio che giocava periodicamente con squadre esterne. RIPETIZIONE
Funzionava anche una piccola sinagoga, e accadeva di vedere il vescovo e il Podestà partecipare alle feste
ebraiche accanto al rabbino punto per un periodo, su invito del vescovo Palatucci, un polacco internato, il
pianista Bogdan Zins che era impiegato anche come traduttore per la direzione del campo, sono all’organo
in chiesa durante la messa domenicale. Gli esempi vissuti in quei luoghi, ha provocato in diversi internati
ebrei la conversione alla religione cattolica, culminata con battesimi, cresime e ma- trimoni, celebrati a
"porte chiuse", come documentato dai relativi atti ecclesiastici; il tutto con la complicità delle istituzioni
civili e religiose di tutto il Paese, in barba alle leggi razziali.
Tutto ciò serve a sottolineare l'eccezionalità di questa vicenda, in cui un'intera città aiutò gli ebrei, e non
solo nel momento del rischio della vita, ma nella quotidianità e nel calore dei rapporti umani.
Nonostante il decreto legge sull'internamento del 4 settembre 1940 stabilisse che gli internati potevano
essere reclutati per eventuali lavori, gli ebrei stranieri dovevano esserne esentati in osservanza alla
Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra". Questa normativa non venne mai
totalmente applicata agli internati di Campagna, parte dei quali regolarmente sussidiata e incentivata
lavorava sia all'interno del campo, soprattutto con mansioni di pulizia e manutenzione della biblioteca e
della mensa, sia al suo esterno, in fabbrica. Ma l'esercizio "clandestino" della professione era frequente
soprattutto tra i medici per- ché le gravi condizioni profilattiche in cui versava- no il campo e l'intera zona,
impedìRONO alle autorità locali l'applicazione del divieto di esercitare ai medici ebrei i quali, perciò,
svolsero una notevole opera sanitaria tanto nel campo, quanto nell'intero paese, dove particolarmente
elevato era allora il rischio di tubercolosi e di altre malattie infettive. L'assistenza agli internati, infatti, pur
essendo stata assegnata durante tutto il periodo dell'internamento a un medico "ariano", veniva in verità
coadiuvata e spesse volte delegata ai numerosi medici ebrei presenti a Campagna, coordinati dal dottor Max
Tanzer, uno degli internati permanenti del campo, che nel 1942 fu addirittura encomiato per la sua
incessante attività. Va sottolineato che gli abitanti di Campagna accolsero gli ebrei senza pregiudizi o idee
preconcette, considerandoli soltanto persone ingiustamente detenute nei campi di concentramento e
bisognose di aiuto. Racconta Antonino Palladino: «Era il '39 [...]. Io ero giovane allora e io non sapevo
neppure chi erano questi ebrei. Tanto è vero che quando
sono arrivati questa gente loro parlavano in italiano come noi e io mi dicevo "Che significano questi ebrei?".
Quello poi che cosa successe quel giorno li, che questa gente, no, scendevano dai camion e quello che io
rimasi più sbalordito è che loro en no attaccati con queste catene vicino a un'altra catena [...]. Poi scesero
dai camion e io vidi un giovane come me che stava fra di loro e gli domandai: "Ma essevo fatto quacche
omicidio?" e lui rispose: "Noi siamo povera gente. Noi siamo ebrei, questo è quanto". Ma io non capivo
perché questi ebrei li avevano arrestati e perciò gli dissi: "Che c'entra che siete ebrei? E vi hanno attaccato di
questa maniera i fascisti?". Io non riuscivo proprio a capire e poi quando mi disse che era una questione
religiosa io rimasi sbalordito. Che c'entrava la religione? Ognuno deve credere quello che vuole. [...] Solo
perché erano ebrei dovevano stare così. Io per questo rimasi scontentissimo. Che andava trovando questo
fascismo? » .
PAROLE CHE RICORDANO LA SEGRE (L’UNICA COLPA DI ESSERE NATI)

Le condizioni di vita "troppo umane" ai campi di Campagna, culminate con l'autorizzazione per alcuni
internati di alloggiare in appartamenti situati in paese e la fattiva collaborazione con la popolazione locale,
(alcuni internati insegnavano anche lingue straniere ai giovani campagnesi), provocò le proteste del
segretario del Fascio presso il Capo della polizia. Le "giustificazioni ufficiali", che parlavano di
sovraffollamento crearono i presupposti per il trasferimento di alcuni prigionieri in altri campi. Comunque
il 30 giugno 1941 l'Ispettore Generale della P.S. Antonio Panariello, stanco delle lamentele del regime,
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sostituì il direttore del campo De Paoli "troppo umano" con uno nuovo, Maiello, avvertendolo di non
perseguire il comportamento troppo "in- novativo" del suo predecessore, e che i suoi "ospiti" non dovevano
mai dimenticare di essere degli internati. Su tale episodio è significativa la testimonianza di Horst Wolff ("),
internato a Campagna dal giugno del '40 al novembre 1942, come altri suoi correligionari, che raccontano il
saluto al direttore De Paoli ed alla sua famiglia, come un momento di commozione, quasi l'allontanarsi di
un amico. Dopo l'iniziale rigidità, imposta dall'Ispettore Generale, anche il nuovo direttore, il Commissario
Maiello, inizierà a collaborare con il Vescovo Palatucci e tutta la cittadinanza di Campagna mostrandosi
anch'esso umano e tollerante.
Con il peggioramento del conflitto mondiale, si assistette ad un enorme afflusso di sfollati poiché, i paesi del
meridione, dove non vi erano importanti siti dell'industria bellica o particolari obiettivi militari, erano
molto meno interessati dai bombardamenti degli alleati. Questo, nell'estate del '43, provocò un piano di
mobilitazione degli internati. Tale progetto fu impedito dal rapido successo delle operazioni militari nel
territorio del meridione d'Italia. Il 3 settembre 1943, lo sbarco degli Alleati in Sicilia; l’8 settembre la firma
dell'armistizio a Cassibile (SR). In soli otto giorni l'esercito Alleato, con l'aiuto di moltissimi reparti italiani,
era già arrivato in Calabria. Il 14 settembre una unità militare inglese liberò il campo di Ferramonti di
Tarsia (CS).

A Campagna, dopo l'8 settembre 1943, i tedeschi comunicarono al Comandante di quel campo la loro
intenzione di prelevare gli ebrei rinchiusi e di deportarli. Raccontano i superstiti che due soldati tedeschi,
raggiunto il campo di San Bartolomeo, avvisarono l'Agente di sorveglianza, Remo Tagliaferri, che
l'indomani sarebbero tornati in forze a prelevare gli internati.
Grazie all'intervento del Vescovo Palatucci, al tacito assenso del podestà e dell'ultimo comandante del
campo, il vice brigadiere di polizia Mariano Acone, questi furono fatti fuggire insieme agli agenti, sulle
montagne circostanti. Nel campo vuoto restò solo Mariano Acone ad affrontare i tedeschi, giustificandosi
con un improbabile ordine di servizio eseguito: "il trasferimento dei prigionieri per ignota destinazione".
Solo la fretta con cui i tedeschi stavano ritirandosi di fronte all'avanzata anglo-americana gli evitò una
durissima rappresaglia. La mediazione del Vescovo Palatucci con il comandante tedesco, provocò una
pacifica soluzione anche per gli abitanti della zona. I Nazisti si accontentarono di razziare olio d'oliva, vino,
animali domestici e tutte le autovetture possibili, utili alla loro ritirata. In caso di incursione tedesca,
sarebbero stati scoperti i molti ebrei nascosti presso alcune famiglie nella cittadina. Tutto questo permise a
tante persone, ingiustamente perseguitate, di avere salva la vita, riacquistare la libertà e la dignità di uomo.
Secondo le testimonianze, perfino durante i micidiali bombardamenti aerei su Campagna, dopo l’armistizio,
il vescovo Palatucci- da vecchio soldato, incurante del pericolo-, tornò tra le macerie degli edifici crollati
nelle grotte, usate come rifugio e ricovero dalla popolazione, per raccogliere e curare i feriti, oltre che per
dare degna sepoltura ai morti. Caratteristica dei suoi 23 anni di episcopato fu una carità profonda operosa e
inesauribile, per cui il suo episcopio fu la casa aperta a tutti e a tutte le ore; Ed egli più che il vescovo da
riferire, fu l’amico da interpellare fiduciosamente per consiglio nelle incertezze, preso soccorsi
nell’indigenza, per collaborazione nelle soluzioni di difficoltà, perfino per presentazione o espletamento di
complicate pratiche burocratiche. Emblematica è, in questo senso, una lettera scrittagli nel giugno 1953
dall’ex internato Gustav Kluger:
“Avevo solo una volta l’onore di parlare con Lei, Eccellenza, il giorno quando io andavo via da
Campagna, quando andavo per ringraziare a Lei in nome dei miei cointernati: ringraziare per una
parola, che Lei aveva trovato quando noi arrivammo a Campagna e lei venne per la prima volta a S.
Bartolomeo. Questa parola mi è rimasta indimenticabile ed era la parola: fratelli!.

Era, infatti, proprio come “fratelli” che Mons. Palatucci trattava gli ebrei badando a non farli sentire mai
come degli esclusi o dei diversi. Furono anni di sofferenza per quanti erano ristretti nella loro libertà, ma
anche per quanti si presero cura di loro e cercarono di alleviarne le sofferenze. Mons. Giuseppe Maria
Palatucci, mai secondo a nessuno per generosità e spirito di servizio, fece dell'aiuto agli internati una sua
per- sonale crociata per la quale spese beni ed energie, aiutato in questo dalle sovvenzioni che periodica-
mente Mons. Giovan Battista Montini, Sostituto alla Segreteria di Stato di sua Santità, gli faceva per- venire
per volontà espressa di Papa Pio XII. In Italia, con la guerra, infatti, prende consistenza una rete protezione
voluta da Pio XII e la cui trama è tessuta dal segretario di Stato, Mons. Maglione, dal sostituto Mons.
Montini, dal Nunzio, Mons. Borgoncini-Duca. PENSIERO SULLE CRITICHE AL PAPA CHE IN REALTA’
OPERAVA NEL SILENZIO E SENZA DARE NELL’OCCHIO PER RAGIONI DI SICUREZZA

In realtà, l’opera di Mons. Palatucci nei confronti degli ebrei internati si radicava nella stretta intesa col
nipote Giovanni Palatucci. È noto che «Giovannino”, così chiamava il nipote, faceva in modo che gli
internati fossero destinati a Campagna ed egli li accoglieva e li aiutava quanto più era possibile. La figura di
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Giovanni Palatucci e di suo zio Giuseppe Maria Palatucci si saldò inscindibilmente, a partire dal giugno del
1940. Il giovane funzionario dell'Ufficio stranieri RIP, quando non era possibile favorire gli esuli con la via
dell'emigrazione, nonostante la rete di aiuti da lui creata con la fattiva collaborazione di colleghi subalterni e
di Rodolfo Grani, ebreo fiumano (membro della DELASEM), inviava gli ebrei presso il campo di
concentramento di Campagna affidandoli alla protezione dello zio Vescovo. Quest'ultimo ha effettuato la
sua opera per la causa degli internati anche mediante numerose richieste di denaro alla Santa Sede,
ricevendo sempre alcune somme da destinare ai bisognosi, senza alcuna discriminazione.

Testimone involontario della stretta collaborazione tra zio e nipote è un giovane campagnese, Albertino
Remolino, che svolgeva il servizio militare in quegli anni a Fiume. Durante tutti i suoi viaggi da Campagna a
Fiume e viceversa, effettuava un servizio come "postino" tra i due Palatucci, il Vescovo e il Commissario, vi
era una cospicua corrispondenza attraverso questo canale non ufficiale. Remolino, dopo qualche tempo,
comprese che la documentazione epistolare dei due, puntualmente da lui recapitata, serviva per facilitare il
trasferimento dei profughi ebrei da Fiume a Campagna. Lo stesso, in più occasioni riconobbe nel piccolo
capoluogo campagnese persone che aveva conosciuto in Istria.

Racconta Albertino Remolino, militare a Fiume in quegli anni e "postino" tra i due: «Fu il Vescovo in
persona che mi avvisò della presenza di suo nipote a Fiume; egli mi consegnò anche una lettera di
presentazione da dare - in caso di bisogno - appunto a suo nipote Giovanni. Ignoravo completamente il
contenuto della missiva e né mi permisi di chiedere qualcosa al funzionario. Un fatto strano, però,
succedeva ogni qualvolta andavo in licenza a Campagna: immancabilmente il dott. Palatucci mi consegnava
un plico, contenente numerosissime lettere, da consegnare allo zio Vescovo; altrettanto poi mi chiedeva il
Monsignore al mio ritorno a Fiume". Remolino precisa di aver intuito che la documentazione epistolare che
si scambiavano zio e nipote servisse a pianificare il trasferimento dei profughi ebrei da Fiume verso
Campagna, anche perché in più occasioni ebbe modo di riconoscere nella cittadina salernitana volti di
persone che aveva già visto nel capoluogo istriano. È lo stesso vescovo Palatucci che, parlando del nipote,
dice: “Egli evitò la cattura di molti israeliti o facendo in modo che l'ordine non arrivasse, o personalmente
estradando gli israeliti verso l'Italia, tanto è vero che molti da Fiume passarono a Campagna, dove io ero
Vescovo, sicché dalle mani sue venivano poi alle mani mie; li aiutò proteggendoli in tanti modi, da poter
riuscire a salvare la vita a numerosissimi israeliti".

Poi, rispondendo a una domanda sulla sua attività, ricorda: «lo dal primo momento che gli israeliti vennero
a Campagna, li trattai da fratelli, più che da amici, e diedi direttive precise al mio clero e al mio popolo,
sicché gl'israeliti in tutto e per tutto stettero a Campagna non come in un campo di concentramento [...],
poiché a essi non mancava assolutamente nulla, per vivere se non agiatamente, decorosamente. Io
personalmente li visitai nel campo di concentramento, [...] e contro la legge razziale ho parlato sempre,
durante quegli anni della persecuzione degli ebrei. Li ho aiutati in tanti modi, poi, col dare a essi aiuti
materiali senza limiti, tanto che a un certo punto, non potendo con le mie forze aiutarli, dando a essi
denaro, vesti, e anche, alle volte viveri, mi rivolsi al Santo Padre gloriosamente regnante, Pio XII, perché mi
mandasse sussidi, sicché, in quegli anni, io potei aiutare gli ebrei. [...] E ricordo degli episodi anche
commoventi, quando, per esempio, un medico malato di tubercolosi si presentò da me: era d'inverno, aveva
le scarpe sdrucite, non poteva assolutamente vincere il freddo, io tolsi dai miei piedi un paio delle scarpe più
belle e più buone e gliele diedi, e così feci di tutti gli oggetti, di tutti i vestimenti interni di lana. [...] Li ho
protetti in tutto e per tutto presso il ministero dell'Interno: si può dire che quasi tutte le pratiche che
riguardavano i singoli israeliti passavano per le mie mani, accompagnate dalla mia raccomandazione scritta
o anche orale, mandando il mio segretario, a Roma, al ministero dell'Interno, o anche andandoci tante volte
di persona, per difendere la causa delle pratiche».

A riprova di quanto affermato c'è la storia del rabbino di Fiume, Davide Wachsberger che, non solo venne
aiutato dal vescovo Palatucci durante la sua permanenza nel campo di Campagna, ma con- tinuò ad avere il
suo appoggio anche quando, or mai trasferito ad Atri, in provincia di Teramo, cercò un modo per tornare a
Fiume. Grazie al vescovo, ma anche a Giovanni Palatucci che operava da Fiume, il rabbino fu poi trasferito a
Quero in provincia di Belluno, dove, già ammalato prima del suo internamento, si aggravò. La figlia Regina
Wachesberger, ricorda che fu solo grazie alla benevolenza e all'autorità del commissario dott. Palatucci, che
riuscii a riportarlo a Fiume, dove more, riguardo al campo di Campagna, aggiunge: “gli internati politici e
razziali sono stati trattati molto umanamente; in special modo mio padre, che in qualità di rabbino ha
ricevuto molto rispetto, specie da parte dello zio del commissario dott. Palatucci, che è stato presso di loro
per portare il suo conforto".

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In un'altra lettera al Ministero, sempre al commendator Pennetta, il vescovo segnala il caso di un altro
fiumano, Nicolò Sagi, che con lettera del 4 gennaio 1941 chiedeva di poter rivedere l'anziana mamma malata
a Fiume, dove si trovavano anche la moglie e il figlio. Quindi tra i tanti si fa carico della vicenda del dentista
di Susak, Radovan Svrljuga, che però è un internato politico-a dimostrazione che sia lo zio che il nipote non
facevano distinzioni tra perseguitati- e per lui scrive al ministero asserendo che si tratta di un “ottimo
elemento, poiché mi è stato raccomandato da due vescovi dell'Alta Italia”. Testimone diretto dell'attività di
salvataggio por- tata avanti da Giovanni a Fiume e dall'attività pastorale e umanitaria di mons. Palatucci a
Campagna è l'ebreo fiumano Rodolfo Grani, che in un appello agli ex internati di Campagna, 6.febbraio
1952, al- fermava: «Quando nel giugno del 1940 scoppiò la guerra e gli israeliti di Fiume e dintorni furono
arrestati e accompagnati maggior parte al campo di concentramento di Campagna, non una volta si affrettò
il dott. Palatucci di raccomandare questi disgraziati alla benevolenza dello zio, Giuseppe Maria Palatucci,
Vescovo di Campagna, il quale ci ha ricevuto con una squisita gentilezza e nobilissima generosità,
dimostrandoci la sua altissima umanità e filosemitismo». Così ad esempio non è difficile intuire chi abbia
indotto la signorina Mafalda Rosenfeld a scrivere da Fiume al vescovo di Campagna premettendo di essere
«a conoscenza della Vostra grande bontà e cristiana, fraterna sollecitudine», al fine di ottenere dal
ministero degli Interni il sospirato «riconoscimento della mia arianità» e poter così sposare un ottimo
giovane, di sentimenti profondamente religiosi, fratello del sacerdote novello Ugo Munari di Fiume con il
quale è fidanzata da ben cinque anni. Interventi quindi indiretti, nascosti, volti a rendere inoperanti le
disposizioni che provenivano dalla Questura e in particolar modo dal prefetto Testa. «Il dott. Palatucci, dal
suo Ufficio provvide ad allontanare da Fiume gli ebrei stranieri che avrebbero dovuto sere arrestati e
deportati. Ufficialmente li faceva apparire irreperibili, mentre poi, munitili di documenti alterati, li avviava
dapprima ad un suo zio, vescovo di una diocesi del sud, il quale provvede va a sistemarli un po' da per tutto;
poi ai centri che si formavano nell'Abruzzo, nel Molise, ecc, per l'ospitalità ai cosiddetti sfollati di guerra,
sotto al cui nome potevano facilmente passare i perseguitati razziali».
«Giovanni Palatucci salvò la vita a mia madre e mio padre da sicura deportazione, avvisandoli
personalmente come fece per tanti altri, di casa in casa o mandando sue persone di fiducia. E si tratta- va
non solo di ebrei, ma anche di antifascisti, di chiunque stesse in pericolo». Come racconta Riccardo Niri
Honigsfeld, testimone dell'instradamento a Campagna del padre e dello zio Isidoro Steiner: «Campagna era
un luogo di raccolta che non può assolutamente essere accostato a un campo di concentramento, e
soprattutto per l'umanità del vescovo Palatucci».

Giovanni, si rendeva conto che quel campo, pur con tutti i disagi dell'internamento, offriva un rifugio agli
ebrei assai più sicuro delle terre jugoslave e, d'intesa con lo zio Vescovo, mise in opera ogni stratagemma
per avviare là quegli esuli che erano minacciati da gravissimi pericoli immediati. Per non avere ostacoli dal
Prefetto e dal Questore, presentava loro la soluzione dell'internamento nell'Italia meridionale, come
rimedio per liberarsi della ingombrante e fastidiosa presenza dei profughi, che costituivano una minaccia
per la sicurezza pubblica. Sempre attraverso la complicità dei due Palatucci, molti ebrei transitati per Fiume
che dovevano essere deportati, venivano dichiarati irreperibili dal Commissario, che invece, dopo averli
muniti di documenti falsi li inviava presso il Vescovo il quale, a sua volta, provvedeva a smistarli nei centri
per gli sfollati che si creavano in Abruzzo e nel Molise.
Significativo un episodio accaduto nel 1941, dopo l'invasione della Jugoslavia parte di quel territorio viene
annesso all'Italia; nonché, la restante parte del Paese è stata acquisita dalla Germania, la quale crea uno
stato-fantoccio, la Croazia dell'ustascia Ante Pavelic. Nei territori sotto controllo tedesco e croato
cominciano i rastrellamenti di ebrei; nel solo autunno del 1941 gli ustascia spediscono nei campi 45 mila
ebrei croati, in quelli controllati dagli italiani, non accade quasi nulla. Il generale Paride Negri, comandante
della divisione "Murge", ad un preciso ordine di un generale tedesco che gli chiede di svuotare Mostar dagli
ebrei, rispose: "la deportazione degli ebrei è contraria all'onore dell'esercito italiano".

Palatucci e lo zio Vescovo, inventarono ogni sotterfugio per risolvere positivamente i problemi degli ebrei;
se la via ufficiale incontrava grossi intoppi, Giovanni trovava sempre un modo per far imbarcare
clandestinamente i profughi su qualche nave e farli arrivare in Campania dove potevano essere sottoposti
alla protezione dello zio Vescovo. Fino all'8 settembre 1943 il ponte sul fiume Eneo, che divideva il territorio
fiumano dalle terre Jugoslave controllate dall'esercito italiano, divenne il canale di salvezza per migliaia di
ebrei dell'Europa orientale e di tutte le regioni della Jugoslavia sottoposte agli ustascia ed ai nazisti. Gli
ebrei presenti a Fiume l'8 settembre 1943 erano 3500, in gran parte profughi della Croazia e della Galizia.
Con la creazione della Repubblica Sociale ed il di- sfacimento dell'esercito italiano, Palatucci rimane solo in
quella città a rappresentare la faccia di un'altra Italia che non voleva essere complice del l'olocausto.

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Qualcuno ha sollevato dubbi sull'operato di Palatucci, in particolar modo su questo instradamento di ebrei
verso Campagna. In realtà, se da un lato è importante conoscere come avveniva l'assegnazione ai campi di
concentramento italiani - cosa ben difficile da determinare, proprio perché tutto era caratterizzato da
grande confusione, dall'altro è corretto non sottovalutare le testimonianze di quanti vissero quella storia e,
sopravvissuti, decisero di raccontarla. Se si può ritenere in base a varie testimonianze che quasi
sicuramente da Roma, è precisamente dal ministero dell'Interno, partivano le assegnazioni, c'era d'altro
canto - come in tutte le cose italiane - "una spinta", che veniva per l'appunto dalle Questure nel caso
specifico dall'Ufficio Stranieri, che Palatucci dirigeva, dalle Prefetture e/o da qualche Vescovado - come
quello di Campagna -, esplicitamente mirate a favorire gli spostamenti degli ebrei verso determinate
località. Di fronte a tanti morti e all'orrore che negli an: ni della guerra devastò milioni di vite, sembra
ingiusto sminuire l'operato di un uomo come Giovanni Palatucci che, in mezzo a tante difficoltà, riuscì quasi
sempre a trovare un modo per proteggere tutti quelli che incontrò lungo il breve ma affascinante cammino
della sua vita. Magari l'ordine di spostamento non partiva dal suo ufficio, ma non è forse vero che fu lui a
mobilitare collaboratori, a inviare lettere, a fare tutto ciò che era in suo potere per accogliere confortare,
aiutare, salvare quegli ebrei?
E se manca una ricerca approfondita sull'iter burocratico dei documenti del periodo, perché sottovalutare
le testimonianze di coloro che raccontano di come qualcuno sia intervenuto in loro favore e li abbia salvati
da quel tragico attacco alla dignità umana, che furono le leggi razziali e i campi di concentramento? Sono
una fonte preziosa per la conoscenza storica, sono la memoria di quanto non deve essere dimenticato. E se
insieme a tanti fatti negativi, a gesti inumani, alle vite perse, emerge un uomo che invece scelse di andare
controcorrente e di dire no fino al sacrificio di sé, dovremmo riconoscere la sua umanità, ricordarla e farne
tesoro per il futuro. Wolf Murmelstein scrive: «Giovanni Palatucci ha potuto aiutare proprio perché lo zio
Vescovo Giuseppe Maria Palatucci a propria volta si è impegnato, facendo valere la propria influenza, a
proseguire questa attività di assistenza e salvataggio». 

In seguito all’annessione del litorale Adriatico (8 settembre 1943), al Terzo Reich e dopo la nascita della
Repubblica sociale italiana, i tedeschi ebbero mano libera per la cattura degli ebrei. L’opera di salvataggio di
Palatucci si fece più intensa. Avvertì che gli restava poco tempo, quindi si prodigò con ogni mezzo a salvare
il maggior numero possibile di ebrei, conscio della sorte che gli poteva accadere. A Palatucci furono date le
funzioni di vice questore nel febbraio 1944, virgola non fu una promozione ma un incarico ad interim
poiché era il graduato più alto in carica punto la stessa cosa fu per la successiva funziona a quest’ora
reggente punto con questo incarico potete intensificare il salvataggio di persone bisognose del suo prezioso
aiuto. Molti ebrei fiumani scamparono alla morte ed evitarono le grandi razzie grazie all’opera generosa ed
eroica del funzionario dell’ufficio stranieri della questura, il commissario capo Giovanni Palatucci,
testimonianza resa dallo scrittore ebreo Teodoro Morgani. Palatucci virgola in una situazione sempre più
pericolosa virgola in parallelo con l’andamento della guerra, rimase a Fiume, disposta ad aiutare i
clandestini in difficoltà, nonostante i vari avvertimenti che gli arrivarono, a causa del fatto che si iniziarono
a creare dei sospetti attorno alla sua figura virgola in particolare da parte dei tedeschi. Avrebbe potuto
lasciare Fiume, così come fecero gli altri ufficiali della questura, ma decise di restare, rifiutando più di una
volta il trasferimento verso un’altra sede. Restato a Fiume dunque, è diventato reggente della questura,
ordina di distruggere tutti i documenti relativi ai cittadini ebrei custoditi negli archivi. Allo stesso tempo
intima al Comune di Fiume di non rilasciare più alcun documento anagrafico riguardante i cittadini ebrei
senza avvisare prima la questura. Questo permetteva a Palatucci di conoscere in anticipo le mossedelle.se di
vanificare i tentativi di quest’ultime di deportare gli ebrei. In pratica il reggente della questura era in grado
di mettere in salvo gli ebrei prima dei rastrellamenti. Fino ai suoi ultimi giorni non rinuncia ad una doppia
sfida: contro la Gestapo, che vuole la soluzione finale, contro l’autorità governativa intenzionata a creare al
Fiume una trappola per gli ebrei in fuga dalla Croazia.

Dalle testimonianze raccolte negli ultimi decenni virgola e pubblicate in più studi, il contributo offerto dal
dottor Giovanni Palatucci a Fiume in difesa degli ebrei, si articolò essenzialmente su alcune linee operative:
1. omissione dell’applicazione di norme ad esempio registri non in regola, per i quali subì una nota di
biasimo; ritardi nelle rispondere alle informative di altre questure virgola in merito al rintraccio di
intere famiglie ebraiche che al momento erano ricercate;
2. trasmissione di dati informativi ebrei in fuga, mirate a evitare situazioni a rischio;
3. Presentazioni di ebrei a interlocutore amici;
4. Coperture di varia natura, inclusa la consegna di documenti non autentici permessi di transito e
passaporti;
5. Ideazione di itinerari di salvezza con il supporto di terzi

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Palatucci, in seguito all’armistizio, per prima cosa procedete alla sistematica e radicale distruzione di tutto il
materiale documentario riguardante gli ebrei è giacente presso i vari uffici della questura punto ogni traccia
che si riferiva agli ebrei fiumani venne fatta sparire con il risultato finale di bloccare qualsiasi tentativo delle
S virgola di elaborare delle liste di proscrizione. Subito dopo, la questura ingiunse all’ufficio anagrafico del
Comune di non rilasciare alcun documento riguardante i cittadini di razza ebraica senza aver prima
informato della cosa le autorità repubblicane punto con questa disposizione la questura poteva conoscere in
anticipo le mossedelle.se avvertendo gli interessati del pericolo che li sovrastava vanificare i provvedimenti
repressivi punto in tal modo Giovanni organizzò l’esodo della dalla città di almeno 1000 ebrei, sottratte
rastrellamenti delle SS, tra il gennaio e il luglio 1944, mediante l’uso di documenti falsi e lo smistamento
nelle località dell’Interno, dove il dell’apparato germanico era più debole punto in quei mesi di profonda
crisi, quando non c’era molto tempo per pensare e decidere, visto l’incalzare degli eventi, la questura di
Fiume rappresentò l’unica certezza istituzionale autenticamente italiana; Significativamente guidata, da
fine Marzo la notte del 13 settembre 1944, quando venne arrestata dalle SS, proprio da Giovanni Palatucci .
Racconta il dottor Antonio Sciaraffia: «quando il dottor Tommaselli viene trasferito a Lucca come reggente
della questura, Giovanni accettò di subentrargli non per ambizione di carriera, ma unicamente per cercare
di proteggere il più possibile la cittadinanza».

Ritornando, invece, alla rete clandestina creata dal dottor Palatucci, che gli permetteva di inviare gli ebrei a
Campagna, nel campo di raccolta e sotto la protezione dello zio, possiamo richiamare la testimonianza di
Rozsi Neumann, per comprendere al meglio come funzionava il meccanismo che il coraggioso funzionario
di polizia aveva costruito per salvare i perseguitati da morte certa. Quest'ultima, insieme al marito, fuggì dal
Austria in seguito all'Anschluss, tentando di arrivare clandestinamente in Jugoslavia. La coppia, dopo esser
stata arrestata dalla Gendarmeria fu rinchiusa in carcere a Fiume, sotto il controllo della Questura. Il
rimpatrio in Austria avrebbe decretato la loro deportazione in un campo di concentramento. Giovanni
Palatucci riuscì comunque a far rimettere in libertà i due coniugi ed a metterli in viaggio verso Campagna
(appunto sotto la protezione dello zio). Ulteriori conferme che dimostrano l'esistenza di questa rete
clandestina, provengono dalle lettere che si scambiavano Palatucci e lo zio Monsignore, in cui si evince la
loro collaborazione già a partire dalla primavera del 1939. Prima di poter parlare delle azioni di "diplomazia
parallela, messe in atto da Palatucci ed i suoi più stretti collaboratori, bisogna ricordare il contesto, in cui
quest'ultimo si ritrovò ad operare, degli ultimi anni di guerra e dunque della sua vita. Come già ricordato
più volte, a partire dal novembre del 1943, Fiume fu incorporata nella "Zona di Operazioni Litorale
Adriatico". Giovanni Palatucci, a differenza delle altre autorità italiane, decise di restare e diventò Questore
Reggente, rifiutandosi di abbandonare nelle mani dei nazisti gli italiani e gli ebrei di Fiume e facendo
rimanere aperto il cosiddetto "canale fiumano". Durante questo periodo Palatucci, si troverà a confrontarsi
con un altro collega conterraneo, il Commissario Feliciano Ricciardelli, responsabile dell'Ufficio politico
della Questura di Trieste, anch'egli motivato dagli stessi scopi umanitari e cristiani; i due collaboreranno
per il bene di molti profughi passati dal "canale fiumano".

E in questa consolante rete di solidarietà che brilla- insieme a tanti collaboratori, dentro ma anche fuori dal
suo ufficio (basti ricordare singoli e famiglie, parrocchie, comunità religiose e seminari) - Giovanni
Palatucci: funzionario indispensabile per la questura di Fiume, ma soprattutto per quei profughi che, grazie
al suo intervento, ebbero salva la vita. La rete di soccorso generata da Giovanni Palatucci, è un telaio di
solidarietà e umanità, composta da poche persone fidate a Fiume, ma di tante altre in tutta Italia. Cittadini
liberi dall’autoritarismo e dalla tirannia, che Palatucci coinvolgerà con i suoi sentimenti di cristiano
antifascista e spirito libero. Organizzerai e favorirà fughe rocambolesche in piena notte di intere famiglie
ebree con bimbi al seguito, simulerà passeggiata amorose con donne fidate, per addentrarsi in tempo di
notte nelle abitazioni di profughi e dissidenti politici che saranno avvisati e salvati punto in particolare con
la signora Feliciana Tremari, all’epoca direttrice dell’ONMI (operazione nazionale maternità infanzia) di
Fiume, con la quale oltre ad avvisare dette famiglie, con l’aiuto di altre persone fidate, trasportavano i
profughi con un camioncino aggirando tutti gli ostacoli virgola che Palatucci per la sua carica istituzionale
conosceva bene, li munivano di documenti falsi assicurandogli la salvezza. Per molte altre persone ebree,
una telefonata con l’invito a presentarsi immediatamente in questura era la parola d’ordine per
abbandonare subito la città. Fu l’appuntato di P.S. Alberino Palombo, attendente del questore reggente
Palatucci, che racconto direttamente del canale fiumano, utilizzato dal suo superiore per la salvezza di tanti
profughi, sempre muniti di documenti falsi, da lui procurati. Egli testimoniò, inoltre virgola che sin dal
primo incontro era evidente che in assenza di un quadro istituzionale chiaro in cui operare, Palatucci strinse
un patto di collaborazione basato sulla fede e sui valori di umanità che da essa discendono. Americo
Cucciniello, dall’otto settembre 1943, per ordine di Palatucci, accompagnò tante famiglie ebree in pericolo,
presso monasteri, vari istituti ecclesiastici nonché, presso famiglie private, conosciute e amici di Giovanni,
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nella provincia di Vercelli, a Ravenna, Torino, Bergamo dove, operava anche l’altro funzionare complice e
amico, dottor Mario Scarpa, lì trasferito per servizio.

Molte altre famiglie venivano accompagnate in Svizzera, con l’aiuto di quel console elvetico a Fiume e poi a
Trieste; La fattiva collaborazione del vescovo di Fiume, e successivamente di Trieste, Antonio Santin,
anch’egli sempre in prima linea per la salvezza dei perseguitati di ogni razza o ideologia. Lo stesso Giuseppe
Veneroso, uno dei principali testimoni viventi del cosiddetto canale fiumano, all’epoca giovane finanziere
tra quella decina arruolata dal commissario Giovanni Palatucci, in servizio alla frontiera di Buccari,
collaborò per la contraffazione di migliaia di passaporti falsi, gestiti segretamente e poi utilizzati dagli ebrei
provenienti dall’est europeo. I finanzieri al confine avrebbero dovuto respingere quelle persone prive di
permesso per l’espatrio; Invece “non vedevano” l’esodo di bambini, donne e uomini che così riuscirono a
salvarsi.
Vi è poi la figura, del brigadiere di P.S. Francesco Maione, ritenuto un fidato collaboratore nell’opera di
Palatucci, che riuscì a salvarsi dalla deportazione proprio per merito del suo superiore e amico Giovanni;
Egli lo avvisò di un delatore che li aveva denunciati entrambi ai tedeschi. Alle resistenze di Maione,
Palatucci rispose che doveva allontanarsi perché aveva il dovere di porre in salvo i suoi familiari. Ricordato
come un Valente operatore di polizia distintosi in diverse occasioni per capacità e senso umanitario,
effettuava servizio nell’ufficio passaporti e quasi sempre era uno di quelli che, su richiesta di Palatucci, ne
compilava diversi con nominativi falsi, consegnando agli ebrei ed ai perseguitati transitati per Fiume di
mettersi in salvo. Nonostante non effettuasse più il servizio nella questura di Fiume, Maione si adoperò per
liberare il suo superiore e amico Giovanni, interessando un influente ufficiale tedesco, ma sfortunatamente,
per un tragico contrattempo, non riuscì nel suo intento. Da Kostrena (Fiume) scrisse Maria Pia Maione
Sikic, figlia del brigadiere Maione: "scrivo soltanto quello che mi posso ricordare di questo signore che
frequentava la nostra casa, come amico e collega di mio padre. Mio padre, il signor Franco Maione,
lavorava alla questura di Fiume nel reparto passaporti e, assieme al signor Palatucci, aveva aiutato
molte famiglie ebree a salvarsi dai nazisti, facendo documenti contraffatti con altri nomi per poter
viaggiare e salvarsi".
A tal punto va evidenziato anche che il citato brigadiere Francesco Maione, verrà indicato poi essere un
collaboratore dei titini. Non si conosce se vi siano state sue responsabilità dirette nel fatto che del centinaio
di questurini rimasti in servizio a Fiume sino al 3 maggio 1945, quando arrivarono i partigiani di Tito, circa
ottanta furono deportati. Di questi, tra il 14 e 16 giugno, circa la metà furono barbaramente trucidati,
mentre gli altri moriranno successivamente di stenti nei campi di prigionia jugoslavi. Comunque risulta che
anch'egli fu arrestato dai titini, ma fortunatamente fu riconosciuto dai partigiani come un vero antifascista.
Dopo aver ottenuto la libertà, lo stesso si adopererà per salvare altri colleghi, riuscirà a far liberare solo un
commissario, tale Battiloro e tre agenti. Presumibilmente il suo soggiorno a Fiume era obbligato dalla
moglie croata, indisponibile a trasferirsi in territorio italiano. Dopo la guerra egli sarà trasferito alla
Questura di Trieste, nella circostanza la sua famiglia resterà a Fiume. In quel periodo risulta, inoltre, che i
titini chiesero invano la consegna di quattro funzionari della Questura di Fiume, che a loro dire si erano resi
responsabili di crimini di guerra, i quali prima di quella data erano fuggiti, pertanto tale richiesta non venne
mai soddisfatta.

La rete di aiuti da lui ideata e supportata, dopo l'8 settembre diventa molto più dispendiosa, sia di energie
che di mezzi, egli nel settembre del 15 aveva chiesto la cessione del quinto dello stipendio, indebitandosi per
173 £ire al mese, che avrebbe dovuto restituire in dieci anni alla Cassa di Risparmio di Firenze;
probabilmente non bastò e, pertanto, vi sono notizie di sue richieste di denaro anche ai suoi genitori.
Riusciva a risolvere ogni situazione senza mai intaccare apertamente le leggi italiane, potendo così avere
degli ampi margini operativi; non esternava mai alcuna motivazione politica, cercava, nel suo stile, di essere
in buon funzionario dello Stato, attento alla dignità ed alla salvaguardia di tutti. Attraverso le informazioni
sugli spostamenti delle SS, riuscirà a condurre veri e propri piani di salvataggio, consapevole che la posta in
gioco è la vita o la morte, la libertà o la deportazione nelle baracche di Dachau o Auschwitz o altri campi di
sterminio. Non sarà solo testimone di libertà, capace di sfidare dall'interno delle sue maglie il regime
fascista, esponendosi in prima persona, ma anche abile stratega e organizzatore della fuga di migliaia di
profughi in pochi anni, dal marzo del 1939 al settembre del 1944, verosimilmente 6.300 persone, tra ebrei,
zingari, omosessuali, oppositori politici, minoranze etniche, partigiani, giornalisti e, sacerdoti ostili al
regime. Lo farà con spirito libero, obiettore di coscienza alla guerra del suo tempo, mentre molti suoi
colleghi funzionari di Polizia salivano frettolosamente sul carro del regime per alimentare la loro carriera.
Con disarmante umiltà, Palatucci parla del suo immane lavoro di aiuto in favore di migliaia di vite umane,
scegliendo parole semplici e riservate, familiari come il suo stile, con serenità d'animo trova il coraggio per
la sua sfida contro il regime. Le testimonianze dei sopravvissuti all'Olocausto raccontano di una rete di aiuti
23
estesa su diverse zone del Paese, ove Giovanni riuscirà con abili alleanze a collocare i profughi, contando
sempre sul sostegno diretto o indiretto di suo zio Giuseppe Maria, il citato Vescovo della Diocesi di
Campagna in provincia di Salerno, ove riuscirà a far giungere centinaia di persone in fuga.

Sfidando le ripercussioni che poteva subire, difende apertamente i suoi uomini contro gli abusi e le violenze
perpetrate non solo dai tedeschi, ma anche dagli ustascia. Leggendo tali testimonianze, si evince
chiaramente quale incredibile libertà di spirito animasse il giovane funzionario, e quale fede profonda,
coerentemente vissuta, lo sosteneva. Ma questo eroismo provocò tanto la rabbia dei superiori fascisti,
quanto la brutalità degli alleati nazisti, i quali agirono la notte del 13 settembre 1944. Su ordine del tenente
colonnello delle SS Kappler, fu perquisita l'abitazione di Palatucci e venne trovata copia di un progetto
partigiano locale, il piano riguardante un eventuale futuro Stato libero e autonomo di Fiume, il citato
"memorandum rubini". Accusato di intelligenza col nemico fu tradotto nel carcere Coroneo di Trieste e,
nell'ottobre 1944, istradato a Dachau. Fu l'ultimo suo viaggio, ma alla partenza da Trieste gli riuscì ancora
un gesto della sua caratteristica pietà. Come sappiamo dai testimoni, quando il brigadiere di pubblica
sicurezza Pietro Capuozzo apprese del treno che avrebbe portato a Dachau il Palatucci, aiutato da un collega
della polizia ferroviaria raggiunse i carri piombati e, camminando su e giù per il marciapiede, lungo i
vagoni, discuteva animatamente con l'amico nella speranza che Giovanni lo sentisse e potessero così
salutarsi per l'ultima volta. A un tratto gli cadde un bigliettino tra i piedi e sentì la voce di Palatucci:
"Capuozzo, accontenta questo ragazzo": avverti sua madre che sta partendo per la Germania; addio. Quel
bigliettino, raccolto sul binario della morte, con l'indicazione della famiglia da avvisare, e il suo indirizzo di
Trieste, resta L’ultimo segno e il testamento spirituale di un funzionario di Polizia che ha letteralmente
speso tutta la vita per gli altri.

La diffusissima opera di salvataggio operata dalla Chiesa cattolica e dal Vaticano, e anche della gente
comune, credente e non, di musulmani, e dal clero di altre chiese, fu forse la riparazione e il pentimento al
veleno dell'antisemitismo nel continente, che si era nutrito del secolare insegnamento di condanna verso la
religione ebraica. Alla richiesta, effettuata dal maggiore delle SS Kappler al presidente dell'Unione ebraica
Almansi e della Comunità Foà il 26 settembre 1943, di 50 Kg. di oro in cambio della salvezza degli ebrei di
Roma, da versarsi in 36 ore, i due interpellarono il Vaticano per conoscere la disponibilità di ricevere in
prestito l'eventuale parte di oro mancante e la Santa Sede rispose positivamente senza alcuna esitazione.
Non vi fu alcun bisogno di ricorrere al prestito poiché la popolazione di Roma, ebrea e non, tra cui anche
diversi sacerdoti, risposero con slancio. Allo scadere del tempo concesso dai nazisti erano stati raccolti circa
80 chili d'oro. La differenza, nascosta ai nazisti, fu versata nel dopoguerra per la costituzione dello Stato
d'Israele. Per questa, ed altre iniziative, il presidente dell'Unione delle Comunità israelitiche Sergio Piperno
ha ringraziato tutti gli italiani nel corso di una cerimonia di riconoscenza degli ebrei verso i cittadini
cristiani che li soccorsero durante le persecuzioni, tenutasi in Campidoglio il 14 dicembre 1956.

A Roma, Amedeo Strazzera Perniciani, quale presidente della commissione assistenza ai detenuti, riuscì a
salvare numerosi ebrei detenuti a "Regina Coeli"; sempre a Roma il Commissario di P. S. Andelo De Fiore,
che operava nell'Ufficio Stranieri, salvo, anch'egli come Palatucci, numerosi ebrei collaborando con le
organizzazioni ebraiche; sempre a Roma come a Milano, Genova, Fiume, Trieste ed altre località, spesso i
documenti falsi erano pro- curati da dipendenti dei comuni e da appartenenti alle Questure. A Milano i
documenti erano falsificati da un egiziano, Antonio Ingeme, che, scoperto, fu deportato e perì in un campo
di sterminio. Ad Abbazia il Commissario P.S. Olindo Cellurale, probabile collaboratore del collega Palatucci,
ricevuto l'ordine di arrestare gli ebrei, invece li avvisò permettendo a molti di ro di mettersi in salvo. A
Torino il dottor Domenico Coggiola, ricoverò nella sezione infettiva dell'ospedale Mauriziano, numerosi
ebrei per sottrarli alla deportazione; sempre a Torino il giudice Emilio Germano, salvò numerosi ebrei
citandoli come testi nei vari processi tenendoli così a disposizione del Tribunale. In tutto il Piemonte, come
narrato nelle memorie di Augusto Segre, centinaia di famiglie ebree furono ospitate dai contadini e dai
montanari. In Grecia, la Chiesa Ortodossa ha contribuito fattivamente a salvare degli esseri umani. Ad
Atene, l'arcivescovo Damaskinos, ad esempio, si rifiutò di eseguire gli ordini del generale nazista Stroop, il
quale gli chiedeva insistentemente di collaborare nella deportazione degli ebrei. In risposta, egli ordinò
immediatamente ai capi religiosi greco-ortodossi di nascondere gli ebrei e di non consegnarli ai nazisti. Gli
ebrei furono aiutati anche da molti soldati italiani nella città, che furono considerati dai tedeschi traditori
dell'Asse. Gra- zie al loro aiuto e a quello dell'arcivescovo cattolico e della sua Chiesa, la maggior parte
dell'ebraismo ateniese fu salvato.

Indipendentemente dalla rete di solidarietà triestina, posta in essere da Palatucci, dal suo collega Ricciarelli
e dal Vescovo Santin, vi era anche l'opera autonoma di singoli cittadini, come quella raccontata dallo storico
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Giuseppe Piemontese. Lo stesso, durante l'occupazione tedesca, lavorava presso l'ufficio traduzioni della
cassa per la malattia dell'amministrazione germanica, assieme ad un amico di famiglia, il dott. Degner, il
quale, pur non avendo precise convinzioni politiche, era fondamentalmente antinazista. Dichiara Piemon-
tese: "egli mi faceva vedere ogni tanto lettere anonime indirizzate a Rainer, non erano poche, nelle quali si
denunziavano cittadini, solitamente per bassi rancori personali". Piemontese passava i nominativi dei
denunciati ad altri impiegati, di quell'ufficio, che provvedevano a mettere sull'avviso gli interessati,
salvandone così diversi dalla deportazione e dall'arresto. Purtroppo non tutti i triestini erano come questi
impiegati.

Non solo gli istituti religiosi, ma anche il Vaticano stesso ha aiutato a salvare gli ebrei, come ha fatto anche
per i disertori delle armate tedesche, americane, italiane, francesi e i politici antifascisti in pericolo. C'è un
costante lavoro grazie al quale continuano ad affiorare documenti che raccontano di quest'opera di
salvataggio diffuso negli istituti e tra i religiosi; come l'aiuto dato a Roma da Padre Pancrazio Pfeiffer ai
prigionieri delle SS in Via Tasso, con l'avvallo e la collaborazione di membri della Segreteria di Stato del
Vaticano. Tra questi prigionieri c'erano politici e ebrei. Anche il Collegio Francese tra gli altri ha nascosto
ebrei con l'aiuto di una lettera con un timbro che dichiarava il Collegio proprietà Vaticana e perciò vietato
alle perquisizioni della SS. Dopo l'8 settembre 1943 decine di ebrei furono nascosti e protetti anche nelle
basiliche di San Paolo, del Laterano e Santa Maria Maggiore; si calcola che fossero oltre 4 mila i perseguitati
salvati tra il Vaticano e quei luoghi sacri.

L'ultima lettera ai genitori 21 ottobre del 1943 i dr. Palatucci scrisse una lettera ai genitori. Fu l’ultima. Si
riporta il testo "Carissimi genitori, questa lettera vi giungerà quando le circostanze lo permetteranno. Essa
vi recherà il mio ricordo e l’espressione del mio costante affetto. In salute a tutt'oggi sto benissimo, sebbene
abbia molto lavoro. Il morale è alto. Supereremo la bufera, nella speranza che alla nostra patria sia riservata
una sorta onorevole a condizioni possibili di vita. Appena possibile vi farò pervenire altre notizie. Non
occorre dire che, appena le circostanze lo consenti ranno, correrò da voi. State assolutamente tranquilli per
me. Sono certo che non incorrerò in alcun male. Auguro a voi le migliori cose con la speranza di potervi
riabbracciare al più presto. Giovanni".
Il 28 febbraio del 1944, dopo il trasferimento del reggente dr. Roberto Tommaselli, dr. Palatucci venne
nominato reggente della Questura alle dirette dipendenze di Tullio Tamburini (1892-1957), Capo del Corpo
di Polizia Repubblicana e poi di Eugenio Cerruti (nato nel 1898; Capo del C. di P.R.). La Questura,
comunque, aveva perso potere e capacità d'intervento. Doveva eseguire ordini impartiti da nazisti. Tutto il
personale era stato disarmato. In tale contesto, si mosse un amico di Palatucci. Grazie alla documentazione
conservata presso Archivio statale di Rijeka (due fascicoli) e presso il Fondo privato "Giovanni Palatucci"
(conservato dall'avv. Antonio De Simone Palatucci), si possono estrapolare dei dati. La persona vicina al
reggente era un conte. Si chiamava Marcel Frossard de Saugy (1885-1949). Nato a Graz (Austria). Di
nazionalità svizzera. Coniugato con Gerda Frossard de Saugy (nata nel 1883). La moglie proveniva dalla
famiglia von Bülow. I Frossard erano genitori di due figlie. Possedevano una villa a Laurana. In questa
proprietà, nel 1950, venne ritrovata dalla signora Gerda (in occasione della vendita dell'immobile) una
valigia con vestiti ed effetti personali che Palatucci aveva lasciato. È dalla lettera che la signora Gerda scrisse
in seguito alla madre di Palatucci (21 agosto 1950) che sono provati i rapporti di amicizia tra il reggente e la
famiglia Frossard. Frossard invitò il dr. Palatucci a seguirlo in Svizzera. L'avrebbe ospitato a Ginevra, in rue
de la Tertasse 5. Pur avendo la possibilità di allontanarsi da Fiume, il reggente non volle lasciare il proprio
ufficio. Il dr. Palatucci, mandò al suo posto una giovane ebrea. Questa donna si chiamava Mika (Mikela)
Eisler Habraham. Proveniva da Karlovac (località situata nella parte più centrale del territorio croato). Suo
padre (Ernesto) era stato arrestato dagli ustaše il 6 luglio 1941 (poi eliminato nel campo di Jadovno). Mika
raggiunse il territorio elvetico insieme alla madre (Dragica Braun) nel dicembre del 1943. Secondo la
testimonianza del medico Giovanni Perini, accettò il compito - affidatole da Palatucci - di consegnare oltre
confine un progetto di autonomia riguardante Fiume.

Alcuni ricercatori si sono chiesti perché Palatucci non lasciò Fiume. Le ipotesi, al riguardo, si sono
accumulate creando nebbia. In realtà, dallo studio dei documenti del tempo, si individuano delle evidenze.
1. Il reggente non volle abbandonare i suoi uomini. Questi, ebbero con lui vari contatti legati
soprattutto a situazioni di incolumità personale e a vicende di famiglia. L'ambiente della Questura
era ormai segnato da paure, insicurezze, previsioni funeste. Palatucci era consapevole di drammi
incombenti (che puntualmente si verificarono: foibe).
2. Esistevano situazioni a rischio per i civili. Quest'ultimi continuavano a vedere nelle ultime autorità
italiane rimaste degli interlocutori naturali.

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3. Il reggente approfittò dell'opportunità fornita dal conte Frossard per mettere in salvo due donne
ebree (cit.). È in questo periodo che Palatucci potrebbe aver cercato di manomettere alcuni
incartamenti di ebrei (altri fecero lo stesso a Roma, Ancona, La Spezia, Trieste...). Comunque, il
reggente non distrusse l'archivio, come è stato erroneamente scritto (sarebbe stata un'eclatante
prova di colpevolezza). I fascicoli restarono al loro posto (e sono stati fotografati).

L'impegno di Palatucci non era diretto solo al salvataggio degli ebrei. Egli era preoccupato anche per le sorti
di Fiume e per la sua popolazione, intuendo cosa sarebbe successo con la fine della guerra. Si evince dalle
testimonianze l'impegno di Giovanni Palatucci, all'interno della resistenza e dunque dei canali non ufficiali,
per la costruzione di una Stato Libero di Fiume, da contrapporre ai titini, che avevano allargato le proprie
mire espansionistiche verso tutta la Venezia Giulia e che minacciavano l'italianità di quelle terre e la sua
popolazione. Il Questore reggente, secondo varie testimonianze, ha tentato di difendere l'italianità e la
libertà di Fiume, «in un contesto federalista che vedesse la pacifica convivenza dell'elemento italiano con
quello slavo». In quel contesto storico molto delicato, nacque il Movimento autonomista liburnico a Fiume
nell'estate del 1943. In seguito al collasso del regime fascista, il 15 luglio 1943, il movimento ampliò i suoi
ranghi grazie all'adesione di altri autonomisti, già militanti fascisti. Dopo aver constatato l'impossibilità di
fare un accordo con il Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia, gli autonomisti, guidati
da Giovanni Rubini, decisero di dar vita ad un progetto che avrebbe dovuto riportare le lancette
dell'orologio indietro fino al trattato di Rapallo del 1920, ovvero la creazione di uno stato libero di Fiume,
indipendente dalla Jugoslavia e dall'Italia ma comunque sotto l'influenza di quest'ultima poiché l'unica
lingua ufficiale sarebbe stata quella italiana (ma col riconoscimento delle altre lingue a livello locale). Lo
stato libero avrebbe dovuto suddividersi su base cantonale sul modello svizzero e comprendere territori più
ampi, ovvero estendendosi fino al litorale dalmata, ad una piccola parte della Slovenia ed alla parte
orientale dell’Istria. È per via di questa nuova organizzazione che il movimento è spesso chiamato
"Movimento federalista liburnico", che rimarca appunto il carattere federale che si voleva dare al nuovo
Stato indipendente. Passando invece a colui che viene identificato come l'ideatore di questo progetto,
chiamato infatti "Memorandum Rubini", abbiamo poche informazioni prima del suo attivismo a Fiume.
Sappiano che Rubini nacque a Laurana nel 1876 e che si laureò al Politecnico di Budapest nel 1900 in
architettura. Nonostante abbia lavorato nel campo dell'edilizia, con circa settanta progetti, la sua principale
passione era l'attivismo politico. Fu l'ideatore del proclama di annessione all'Italia sottoscritto dai fiumani il
30 ottobre 1918 ed appartenne poi al Consiglio Nazionale ed al Direttorio fiumani. Divenne legionario
dannunziano e poi fervente sostenitore dell'indipendentismo come «unica possibilità di tutelare l'identità
fiumana nei prevedibili sconvolgimenti del dopoguerra». E con il Movimento autonomista liburnico e con
Giovanni Rubini che s'intreccia la storia politica del giovane Questore. Secondo numerose testimonianze,
Giovanni Palatucci aveva allacciato dei rapporti col movimento di liberazione nazionale (C.L.N. fiumano)
assumendo come copertura il nome di "dottor Danieli”. Quest'ultimo infatti rimane a Fiume, sempre
secondo tali testimonianze, oltre che per far rimanere aperto il "canale fiumano” e per un proprio senso di
responsabilità verso il personale della questura rimasto in città e verso gli ebrei perseguitati, a causa della
pressione del movimento di liberazione. Per quest'ultimo infatti la posizione di Palatucci era altamente
strategica. La sua carica gli permetteva di agire come un vero e proprio detective per cercare d scoprire le
mosse dei tedeschi, e i loro movimenti, in anticipo. Il Questore Reggente di una ormai "struttura fantasma”
come ben si può osservare dalle sue relazioni sulla situazione della provincia di Fiume che inviava
regolarmente al capo della polizia ed al Ministro dell’interno, venne incaricato, dal Movimento autonomista
liburnico, di consegnare agli alleati tramite i canali svizzeri (i circoli ginevrini dell'intesa), il progetto per
l’indipendenza di Fiume, ovvero il "Memorandum Rubini. Secondo le fonti di cui disponiamo, il piano per
uno stato libero di Fiume che avrebbe dovuto comprendere il litorale dalmata fino a Carlopago, le isole di
Veglia, Arbe, Lussino e Pago, una piccola parte della Slovenia e della Croazia e la parte orientale dell'Istria,
sarebbe stato presentato prima al commissario supremo del Litorale adriatico, Friedrich Rainer, ritenendo
inopportuno provare a trattare con gli slavi. I tedeschi, che pure apprezzavano divisioni sul modello
cantonale non risposero mai a tale progetto. Per questo motivo gli indipendentisti optarono per far giungere
il documento, estremamente segreto, agli alleati. Palatucci fu incaricato di questo pericoloso compito e,
grazie a due testimonianze di grande valore, possiamo tentare di ricostruire la vicenda.

La prima è di Giovanni Perini, medico personale di Palatucci a Fiume. La testimonianza del medico è stata
pubblicata in un suo articolo su "La Favilla", edito dal Comitato di Milano dell'Associazione Nazionale
Vene- zia Giulia e Dalmazia il 6 marzo 1962. Secondo "Nino" Perini, Giovanni Palatucci consegnò a due
donne, madre e figlia, profughe ebree della Jugoslavia, il piano per l'indipendenza, affidando loro il compito
di recapitarlo ai circoli ginevrini dell'Intesa. Una delle due donne, Mika Heisler, giovane ebrea di cui
Giovanni Palatucci sarebbe stato innamorato, avrebbe consegnato questo importante documento per le
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sorti di Fiume. Ne è certo Giovanni Perini. Egli racconta infatti che Palatucci, dopo una serie di episodi
rocamboleschi, riuscì ad accompagnare le due donne al confine con la Svizzera, per farle emigrare
clandestinamente e metterle in salvo, grazie all'aiuto di un suo amico, parroco di un paese vicino al confine.
Giovanni Palatucci, preso ormai dal suo compito per il bene superiore, rinunciando all'amore della donna e
poi alla salvezza, tornò a Fiume, nonostante le richieste dell'amata ed i ripetuti avvisi del Console svizzero a
Trieste (colui che riuscì a far commutare la pena di morte di Palatucci in deportazione in un campo di lavori
forzati), grande amico ed estimatore di Palatucci. In quel momento della sua vita, emblematica è la frase, a
lui attribuita dalla testimonianza di Amerigo Cucciniello, stretto collaboratore di Palatucci: «Dite a tutti gli
amici che fin tanto che sventolerà quel tricolore- indicó la bandiera italiana che garriva alla Questura di
Fiume - io rimarrò qui al mio posto».

La seconda importante testimonianza è quella di Giuseppe Sincich, anch'egli medico, era figlio di uno dei
maggiori finanziatori ed esponenti del Movimento autonomista liburnico. La sua famiglia faceva parte di
quelle "famiglie amiche che costituivano quella rete clandestina, creata da Palatucci, a protezione degli
ebrei. Stando alle parole di Sincich, venuto a mancare nel gennaio del 2012, egli fu incaricato di un compito
molto impor tante e pericoloso. Studiando a Modena, il giovane era poco conosciuto a Fiume, poiché
tornava in città solo per brevi periodi di vacanza. Per questa ragione era l'individuo perfetto per far
consegnare a Palatucci un documento riservato: «Era in una busta chiusa di media grandezza, anonima,
priva di mittente. Entrai e chiesi del- la stanza del commissario Palatucci. Mi ricevette subito, seduto alla
scrivania, attendeva il mio arrivo penso. Gli consegnai il documento. "È da parte di mio padre", gli dissi. Lo
prese senza dir nulla, come se già conoscesse il contenuto, credo gli avesse telefonato mio padre per
annunciarmi. Per quel che ne so c'era un documento volto a ripristinare a Fiume il trattato di Rapallo, da far
pervenire alle forze alleate in Svizzera». Sincich non sa dire sulle sorti del documento, a differenza di Perini
che si dice certo della sua consegna, avvenuta in Svizzera (tramite Mika Heisler). Ulteriore conferma della
partecipazione di Giovanni Palatucci al piano per l'indipendenza di Fiume è il pretesto, usato per il suo
arresto.

I tedeschi, dal canto loro, iniziarono a sospettare di Palatucci a causa di varie ragioni: i documenti
anagrafici non venivano più rilasciati dal Comune ai tedeschi senza previa autorizzazione della Questura; in
più di un'occasione Palatucci trasse in inganno i tedeschi, quando stavano per compiere una retata di ebrei,
avvisandoli e facendoli nascondere dalle famiglie amiche; ed infine l'avviso di alcuni delatori (o forse solo
uno che venne poi identificato da Albertino Remolino al suo ritorno nel paese natale di Palatucci). Il
Capitano delle SS Hoepener capì di esser stato beffato più di una volta e il sospetto verso il questore crebbe
fino a quando non gli venne perquisita anche l'abitazione. Palatucci venne arrestato dalla Gestapo (su
ordine del tenente colonnello delle SS Herbert Kappler) il 13 settembre 1944, dopo una perquisizione del
suo ufficio, dove, all'interno di una scrivania, vennero ritrovati dei documenti compromettenti che, secondo
le fonti di cui disponiamo, non riguardavano la questione dell'aiuto agli ebrei (che aveva fatto distruggere a
tempo debito) ma qualcosa di ancor più pericoloso: un possibile contatto con gli alleati. Il questore reggente
venne torturato e condotto nella sede del comando tedesco ad Abbazia. In seguito venne portato al carcere
di Trieste dove rimase per circa 40 giorni. La ragione ufficiale, fornita dalla Gestapo, del suo arresto fu il
ritrovamento, nella scrivania del suo ufficio, di un documento, denominato "Memorandum Rubini", relativo
alla sistemazione di Fiume come città indipendente, tradotto in lingua inglese. Rimane tuttavia un alone di
mistero attorno al suo arresto a causa di alcune supposizioni, fatte in particolare dai testimoni dei fatti e dai
più stretti collaboratori di Palatucci. Ad esempio, molti additano la responsabilità dell'arresto ad una
denuncia fatta alle autorità germaniche da funzionari interni alla questura di Fiume. Secondo altri invece,
come Alfonso Colussi, giornalista per a Vedetta d'Italia", e Francesco Barra, storico fiumano, vi fu un
accanimento da parte dei comunisti di Tito contro gli autonomisti zanelliani. «l titini non ebbero problemi a
sfruttare ed armare la mano nazista per eliminare esponenti politici o istituzionali italiani che ostacolavano
i propri plani». Infatti Palatucci non fu l’unico elemento "scomodo” ad essere arrestato in quel periodo.
Negli stessi giorni vennero arrestati diversi elementi di cui i titini volevano "sbarazzarsi” tra cui: il
comunista Frausin e l'azionista Ferluga. Secondo vari storici fiumani, due sono i possibili delatori: Oskar
Piskulic, macellaio di Susak, capo della polizia segreta Jugoslava, e la domestica slava di Giovanni Rubini
(esponente di spicco del movimento autonomista fo mano che dona il nome al già citato "Memorandum
Rubini”).

Giovanni Palatucci, dopo i quasi 40 giorni di reclusione nelle carceri di Trieste, venne condannato a morte
da un tribunale delle SS e della Polizia di Trieste. Solo grazie all'intercessione dell'amico e Console svizzero,
Emilio Borzanigo, la pena gli fu tramutata nella deportazione in un campo di lavori forzati. Alla fine
dell’ottobre del 1944 fu deportato a Dachau, come matricola 117826, dove mori di stenti il 10 febbraio 1945,
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a poche settimane dalla liberazione del campo. Il suo corpo venne gettato in una fossa comune sulla collina
di Leiteberg.

Tornando all’azione di Giovanni Palatucci, possiamo solo constatare che il coraggio da lui dimostrato, senza
sminuire quello di tutti i suoi collaboratori, che hanno messo in grave pericolo anch'essi le proprie vite, ha
«contribuito a far sì che nel nostro Paese il numero degli ebrei assassinati o deportati fu più basso rispetto a
quello di molti altri Stati dell'Europa occidentale». Ha dimostrato che anche negli anni più bui della nostra
storia, gli atti di pura umanità, oltre che di eroismo, sono possibili se spinti dall'amore verso il prossimo.
Citando le parole del Professor Amos Luzzato, Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche italiane,
possiamo dare forma al suo eroismo e comprenderlo al meglio: «Ho l'impressione che esistano due forme di
eroismo: quella prima che deriva da un bisogno improvviso e che risponde ad un impulso generoso di un
momento, di un istante, ma non è questo l'eroismo di Palatucci. Quello di Palatucci è l'eroismo quotidiano
che si ripete, si conferma a fronte della certezza del pericolo e del rischio che sta correndo, perché è evidente
che Palatucci, nella situazione fiumana, non poteva non sapere il rischio che stava correndo personalmente.
Era impossibile che non lo sapesse, era troppo dentro ai meccanismi della sicurezza e dei rapporti politici e
militari per non sapere che era come un animale in trappola. Ma si muoveva freddamente, con coscienza di
camminare incontro al proprio sacrificio». Il dr. Palatucci, fervente cattolico credente, era convinto che non
si debba obbedire alla legge del potere civile in contrasto con la legge Suprema della difesa e del rispetto
dell’umanità punto quando ebbe coscienza che nelle sue mani di funzionario ha detto al controllo ed alla
vigilanza degli stranieri, stavano, in gran parte le sorti degli ebrei di Fiume, non esitò un istante a prendere
posizione conforme alla sua coscienza di cristiano ed italiano. Se la sua coscienza di uomo e di cristiano
mosse Giovanni Palatucci ad aiutare gli ebrei perseguitati, la sua coscienza di italiano lo mosse a difendere
la italianità della città di Fiume. È di certo nella sua fede e nei valori in cui credeva e che gli sono stati
tramandati dalla famiglia, che bisogna ricercare i valori in cui lui credev RIP a e le cause per cui Giovanni
Palatucci è riuscito a salvare molti ebrei. Giovanni ha sempre avuto un punto di riferimento nella stima di
cui gode il genitore in virtù del suo senso di giustizia, sposata ad un solido senso pratico. Credeva che i
deboli si soccorrono e non si fa pesare loro la situazione, ma Ii si tratta da pari. Aveva la coscienza religiosa
filtrata dall’umiltà francescana nel servizio costante, silenzioso, gratuito e fraterno, senza ambire AD altro
riconoscimento che la pace della stessa. Sopra tutto questo, si pone la figura di nonna Carmela, una donna
forte d’animo e di fede; la vera anima della casa; colei che insegnerà a Giovanni che la preghiera è qualcosa
di più di un dovere e va vissuto in una misura ben più ampia di semplici giaculatorie mandate a memoria.
Questo ulteriore elemento, nella formazione di Giovanni e di non poco conto. Il giovane impara a fare della
preghiera un colloquio con Dio ed a iniziare ogni sua giornata con la partecipazione alla Santa Messa, tanto
che a Fiume, sino alla fine, frequenterà ogni mattina la chiesa dei frati cappuccini virgola non molto
distante dalla sua abitazione. Un uomo che credeva infatti che le cose si facciano con serietà e con impegno
costante e non con superficialità, né tanto per riempire il tempo; e che è più importante la solidarietà nella
gioia comune che non il piccolo guadagno cui si rinunciava.

Dedicò la propria vita ai principi di solidarietà, dell’umanità, della tolleranza e dell’amore verso il prossimo;
Si oppose all’applicazione delle leggi razziali salvando molti ebrei dalla persecuzione dall’avvio ai campi di
sterminio. Ciò coerentemente col suo più generale convincimento impegno di amore universale oltre ogni
ideologia. Egli fu la figura che bisogna ricordare nel significato più profondo e universale di un funzionario
dello Stato che sa trovare nella propria coscienza e nel rispetto dei diritti umani i limiti di invalicabilità
all’applicazione di leggi ingiuste, discriminatorie e razziste. La storia del poliziotto Giovanni Palatucci non è
una storia dal finale commovente punto la storia finisce in un campo di concentramento nazista col
mostruoso sacrificio di un uomo che ha difeso la vita di altri uomini. Nei libri di scuola non si fa cenno di
questa storia virgola che ci dà solo in qualche testo dove si parla dell’olocausto degli ebrei. Palatucci fu
internato a Dachau dopo aver salvato migliaia di ebrei virgola che cercavano riparo al Fiume, dalla ferocia
dei nazisti e dei fascisti croati. Fece la scelta di seguire il dettato della sua morale e della sua fede punto al
suo nome sono intitolato una strada ed una foresta nella città israeliana di Ramat Gan. È una vicenda che
dura parecchi anni, dal 1938 al 1944, 7 anni dedicati a un solo scopo: aiutare le vittime della persecuzione
razziale.

“Dov’è Dio?”. È la domanda, spesso rivolta come un grido, che drammaticamente affiora nella coscienza e
sulle labbra dei cristiani di fronte alle catastrofi umane causate dalla guerra o da altri tragici avvenimenti
(pandemie, terremoti, alluvioni, terrorismo, stragi, genocidi…). È una domanda che interpella direttamente
Dio, esigendo da Lui una giustificazione riguardo alla sua assenza, al suo mancato intervento nel mondo e
nella storia. Le risposte a tale domanda sono varie e riflettono per lo più l’immagine di Dio che ognuno ha o
pensa di avere; come pure riflettono la propria maturità (o immaturità) di fede, il proprio cammino di
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ricerca o anche la propria presunzione di avere pronta una risposta (spesso di comodo e strumentale) per
ogni tragedia. Tuttavia, accade anche di non saper trovare una risposta adeguata e convincente, di rimane
muti e silenziosi, come di fronte ad un enigma ad un mistero. E questo non è sempre un male. Elie Wiesel
(1928-2016), ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento nazista nel suo La notte, diario
autobiografico dell’esperienza nei campi di concentramento di Auschwitz e Buchenwald. «Dov’è la
misericordia divina? Dov’è Dio?»: è questo che si chiede Elie quando è costretto a separarsi da sua madre e
sua sorella, che continua a chiedersi quando un letto vuoto prende il posto del volto di un amico. Dov’è Dio?
si chiedono tutti, ogni volta che assistono a una nuova esecuzione. Dov’era Dio in quei giorni?
Di certo di fronte a questo quesito, non so dare una risosta certa. Ma quello che sento di poter affermare è
che Dio in quei giorni era in quelle persone e in quelle cose che sono state strumento di bene e sono servite,
in quanto persone normali a salvare le vite di tanti simili, come loro, normali. Era nell’opera di quegli
uomini che lo Stato di Israele ha riconosciuto come giusti tra le nazioni, tra cui Oscar Schindler,
Giorgio Perlasca, Gino Bartali e lo stesso Giovanni Palatucci. 

Giovanni palatucci ha dimostrato al mondo la forza della fede punto a mostrare il valore la differenza che,
anche un solo uomo, può fare in nome dell’amore per il prossimo. Giovanni Paolucci è immolato la sua vita
per persone che non conosceva punto hai imparato dai buoni esempi e da insegnato all’umanità come farli
propri punto è morto stringente al petto gli ideali di giustizia e di cristianità fino all’ultimo sospiro
ritenendo per vero che “il cuore non è solo un muscolo”. Ha saputo davvero cristiano, attraverso le sue
azioni, rendere vivo l’insegnamento di fede ricevuto sin da bambino, quasi come un francescano. Amare il
prossimo, donare incondizionatamente e virgola se necessario, sacrificarsi per gli altri punto ha dato la sua
vita senza mai indietreggiare, senza aspettarsi nulla in cambio: né gloria, né onori, né fama. Giovanni
Palatucci non può essere considerato solo un eroe. Nel buio della notte più atroce, delle barbarie più feroci,
del bagliore dell’odio e del sangue di tutte le vittime, Giovanni, come una luce delle stelle che inspira
speranza, ci indica la strada dell’amore fraterno, fino al sacrificio. Quello del Questore Palatucci è stato
servire l'onore della propria divisa e della propria umanità, non solo disobbedendo all'infamia delle leggi
razziali quanto soprattutto obiettando a favore del la propria coscienza, perché in gioco c'erano, come
sappiamo, valori assoluti sui quali non era possibile un compromesso. Egli pose sé stesso fino in fondo al
servizio di altri uomini, ultimi, perseguitati, stando al suo posto, sereno testimone e inconsapevole simbolo
del senso del dovere di un poliziotto che, proprio in quanto tale, gioca la sua vita per salvarne altre. Un
uomo comune che non vuole separare la sua vita spirituale dalla sua vita pubblica, che se pure possono
essere distinte, restano intrecciate nelle scelte di ogni giorno di chi, appunto, sa farsi testimone. Testimone
di un agire cristiano che con un "granello di fede" è capace di spostare le montagne (Mt 17,20). Qual è la
forza, ci domandiamo, che può segnare così nel profondo un giovane uomo da consentirgli di rischiare tutto
il possibile, non con un atto d'impulso, un moto dell'animo, ma con un razionale disegno di liberazione,
vincendo il conformismo, la paura, il terrore, restando al contempo saldo nel proprio ruolo istituzionale che
solo può consentirgli di agire nel modo più efficace! C'è una risposta laica a questa domanda: l'etica, l'ideale.
Ma Giovanni Palatucci era profondamente cristiano e la sua risposta era la fede, l'amore assoluto per il
prossimo, senza il quale non riusciremmo a capire il senso della sua vicenda umana. La sua fede non era
quella di un mistico, di un missionario, di un asceta, bensì quella di un uomo comune e proprio per questo,
straordinario, che semmai percepisce la santità come esercizio in grado eroico delle comuni virtù umane e
professionali. Il Questore Palatucci è due volte al servizio degli uomini che sono suoi fratelli. Come cristiano
e come rappresentante di un'istituzione che non tradisce, ma nobilita. Come uomo integrale che conosce la
chiave per conferire coerenza alla fede che gli appartiene. È questa la chiave della sua e unica compassione.

Per concludere, cito le parole pronunciate nel discorso da don Ferdinando Palatucci: «per chi ha come
regola di vita di fare il meno che si può, Giovanni Palatucci fu un imprudente, un temerario; per chi vive la
vita astutamente può addirittura uno sciocco; per chi crede ancora nei valori spirituali fu un eroe e un
martire».

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