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[STORIA DELLA LINGUA ITALIANA]

[BOZZA]

[PERIODIZZAZIONE]
La storia della lingua italiana indaga com’è cambiato l’italiano nel corso del tempo,
fondamentalmente la disciplina che indaga l’evoluzione della lingua nelle sue componenti
essenziali quali la grafia, la sintassi, il lessico e la morfologia e i suoni nel corso dei secoli.
Ovviamente, questa storia linguistica interna deve essere necessariamente adattata ad una
serie di eventi e circostanze storico culturali e sociali che ne hanno permesso in primis lo
svolgimento ma che in aggiunta appartengono ad una storia della linguistica esterna.
Quando ci addentriamo nell’analisi diretta dell’evoluzione di questi fenomeni e della
conseguente nascita della lingua nelle sue forme e caratteristiche, è importante non adottare
una rigida divisione cronologica in secoli poiché non corrisponde sempre all’effettivo
avvenimento degli eventi linguistici e di sopra può spezzare la continuità degli eventi stessi;
semmai va adottata una periodizzazione schematica che si basa su tre fasi principali e
significative.

- [partiamo dall’iniziale frammentazione linguistica medievale al primato del fiorentino


letterario - questo è un periodo che intercorre tra la prima documentazione di testi in
volgare, risalente al nono o decimo secolo circa, alla fine del 300, più precisamente il
1375 che corrisponde con la morte di Boccaccio. Il volgare fiorentino in questo
periodo diviene di alto prestigio anche grazie alla sua correlata letteratura, ricordiamo
le tre corone tra Dante, Petrarca e Boccaccio, e prevale di gran lunga su tutti gli altri
dialetti della penisola]

- [da qui passiamo all’unificazione, norma ed espansione dell’italiano; che è il periodo


che intercorre tra la fine del 300 e l’unificazione d’Italia, precisamente il 1861 che
corrisponde alla nascita del Regno D’Italia. In questo periodo l’italiano si afferma
come lingua letteraria comune anche grazie alla fissazione nel 500 di una norma
basata sul fiorentino trecentesco; conseguentemente l’italiano si diffonde negli ambiti
più disparati tra cui quello scientifico, giornalistico e tecnico ma la prevalenza dei
dialetti nei registri non ufficializzati e locali è ancora presente]

- [Infine, passiamo al periodo che intercorre tra l’unificazione all’età contemporanea


che è il passo decisivo in cui l’italiano progredisce da lingua della letteratura a lingua
d’uso nazionale, mentre in contemporanea si restringono gli utilizzi dei dialetti a
realtà prettamente locali e circoscritte. Nel secondo guerra e negli anni 70 del 900
vedremo anche la comparsa di fenomeni linguistico culturali decisivi quali l’influenza
della lingua inglese, l’introduzione dell’italiano neostandard. o medio, e i mutamenti
nei modelli linguistici dettati dai nuovi mass media]

[AREE DIALETTALI]
L’importanza e la vitalità dei dialetti nella storia della linguistica italiana deve essere
necessariamente correlata ad una almeno generale distribuzione areale nello spazio
linguistico italiano - di fatto i linguisti hanno individuato tre aree principali caratterizzate da
distinti fenomeni di natura sintattica, morfologica, fonetica e lessicale delimitate da due fasci
di isoglosse [che ricordiamo essere la linea immaginaria che attraverso la congiunzione di
due punti estremi permette la circoscrizione di uno spazio linguistico caratterizzato appunto
da una serie di fenomeni linguistici annessi e determinati]

- [iniziamo dalla linea La Spezia - Rimini che caratterizza al di sopra di essa i dialetti
settentrionali, appunto caratterizzati da fenomeni come la sonorizzazione delle
consonanti occlusive sorde intervocaliche; da formica a formiga; o la
degeminazione/lo scempiamento delle consonanti rafforzate; da gallina a galina e
così via. Quando parliamo di dialetti settentrionali è importante fare una suddivisione
tra dialetti galloitalici, i quali devono la maggior parte delle loro caratteristiche
linguistiche e caratteri al sostrato celtico - quindi i dialetti piemontese, ligure,
lombardo, romagnolo e emiliano - e quelli veneti; di fatto i dialetti galloitalici hanno
preservato le vocali turbate o e u, come nel caso di prova o brutto]

- [passiamo poi alla linea Roma - Ancona la quale suddivide i dialetti mediani e centrali
da quelli meridionali, che ricordiamo essere caratterizzati da fenomeni come la
sonorizzazione delle consonanti sorde precedute da nasale; da dente a dende, da
bianco a biango o da campo a cambo e così via; nonché l’assimilazione di nd in nn
come in andare>annare o mondo>monno. Ulteriori divisioni le poniamo tra dialetti
toscani e sordi, nonché i dialetti meridionali che appartengono agli estremi geografici
della penisola; la fine del tacco con l’estremità della Puglia e la punta con l’estremità
della Calabria e della Sicilia. Di parte sono le parlate del Friuli e della Sardegna che
hanno preservato una certa specificità nella lingua attraverso elementi come la s
finale del latino, le quali le rendono autonome nell’ambito delle lingue neolatine
rispetto ai dialetti italiani]

[AREE ALLOGLOTTE E MINORANZE LINGUISTICHE]


In Italia sono presenti delle zone definite alloglotte che usano appunto una lingua diversa
dall’italiano in un’ideale situazione di bilinguismo o plurilinguismo, con l’italiano pur sempre
nella posizione più alta del repertorio linguistico dei parlanti. Nel territorio italiano oltre al
friulano che è parlato da circa 700 mila parlanti e il sardo parlato da un milione e mezzo di
parlanti troviamo alcuni gruppi di parlanti alloglotti; sono considerate invece minoranze
linguistiche storiche quelle che hanno caratterizzato influenze di lingua germanica, slava,
neolatina, greca che si sono insediate nel corso del tempo e in modo diverso ed individuale
per ognuno. Ricordiamo tra le principali

- [provenzali in Piemonte, nelle valli piemontesi confinanti con la Francia che


ammontano a 200mila parlanti; francoprovenzali in Valle D’Aosta dove il dialetto è
riconosciuto come una lingua ufficiale insieme all’italiano e ammonta a 100mila
parlanti; le colonie walser nel versante piemontese del Monte Rosa dove si parla un
dialetto alemannico attualmente sempre meno vitale; bavaro austriaci nell’Altopiano
vicentino di Asiago con poche centinaia di parlanti; bavaro tirolesi dell’Alto Adige in
provincia di Bolzano con 300mila parlanti rispetto ai 150mila italofoni, ma è
importante aggiungere che le parlate bavaro tirolesi non coincidono con il tedesco
che è lingua insegnata a scuole e usata nelle amministrazioni; germanici nel
Bellunese, nei comuni friulani di Sauris e nel Val Canale dove vi è una realtà di
plurilinguismo con poche migliaia di parlanti; ladini in provincia di Trento, Bolzano e
Belluno con circa 300mila parlanti, a Bolzano specificatamente il ladino è tutelato ed
insegnato nelle scuole insieme al tedesco e all’italiano; sloveni al confine nord
orientale in Friuli e Venezia Giulia, specialmente a Trieste dove lo sloveno è tutelato
con circa 70mila parlanti]

- [procedendo verso il centro e il sud si incontrano alcune piccole isole alloglotte che
risalgono ad insediamenti di epoche diverse; partiamo dai gruppi slavi in Molise in
provincia di Campobasso con circa 2000 parlanti di dialetto croato, insediatisi dalla
Dalmazia nel 15esimo secolo; albanesi che si sono insediati dal 15esimo al 18esimo
secolo con nuclei a Pescara e Campobasso, Calabria, Sicilia e Palermo con 100mila
parlanti; gruppi di origine greca insediatisi in epoca bizantina con nuclei in Puglia a
Lecce e Calabria con 20mila parlanti; galloromanzi in Puglia in provincia di Foggia e
Calabria con poche migliaia di parlanti di dialetti di tipo provenzale derivanti da
insediamenti in epoca medievale; catalani in Sardegna con 20mila parlanti ad
Alghero come risultato di un nucleo risalente alla deportazione nell’isola di coloni
catalani e infine i galloitalici in Sicilia e Basilicata con dialetti di tipo lombardo in
seguito alle colonie di popolazioni settentrionali nel 12esimo secolo]

Oltre alle minoranze di natura territoriale troviamo anche minoranze linguistiche come
risultato del nomadismo [i dialetti degli zingari] e della diaspora [i dialetti giudeo-italiani]; la
legge del 15 dicembre 1999 ha posto l’obiettivo di tutelare e valorizzare le lingue presente in
Italia da secoli che conseguentemente vengono definite storiche, quindi è una legge rivolta
ai parlanti del francese, franco provenzale, ladino, tedesco, occitano, friulano, sardo, greco,
sloveno, albanese, greco e così via. La legislazione [Gusmani nel 2002 e Bruni nel 2007]
però si è interrogata su questa eventualità mostrano delle perplessità a riguardo, non solo
non permettendo conseguentemente di tutelare le minoranze storiche e in contemporanea di
accogliere le nuove minoranze dovute ai continui flussi di immigrazione in Italia dagli anni 70
del 900 - flussi che hanno contribuito all’introduzione di lingue dai paesi nordafricani e
africani, la Cina, il Sud America, le Filippine, L’Europa dell’est, l’India e lo Sri Lanka; la cui
varietà pone un accento sulla problematica di un’inclusione multilinguistica, multietnica e
multiculturale omogenea. Il sistema scolastico italiano si è proposto di creare un ambiente
favorevole alla crescita di queste culture ed identità linguistiche con una dovuta
preparazione data anche agli insegnanti.

[I CONFINI DELL’ITALIANO]
I confini linguistici dell’italiano sono ben diversi da quelli politici, fuori dallo Stato Italiano la
lingua italiana è lingua ufficiale solo in Svizzera, nel Canton Ticino e nei Grigioni ma nella
Confederazione elvetica troviamo altre varietà, tra cui l’italiano elvetico - che è una varietà
prevalentemente scritta della burocrazia e dell’amministrazione federale che presenta delle
caratteristiche di natura morfosintattica e lessicale [tra gli elvetismi noi ricordiamo azione
come offerta speciale o papeteria come cartolibreria] - e successivamente l’italiano di
immigrati provenienti dall’Italia, l’italiano parlato nella Svizzera germanofona nei contesti
dove lavoratori italiani comunicano con immigrati di altre nazionalità nonché le varietà
dialettali presenti rispettivamente nel confine sud orientale della Francia fino a Nizza con le
varietà italoromanze e al confine orientale con la Croazia e la Slovenia dove vi sono varietà
dialettali venete; concludiamo con la lingua ufficiale del principato di Monaco che è il
monegasco che altro non è che una varietà ligure o il corso che è stato ufficialmente
riconosciuto come lingua regionale di Francia nel 1974 e che rientra nei dialetti italiani
mediani. La questione dell’italiano diviene intricata quando intravista nella sua complessità di
lingua all’estero e lingua di emigrazione dal nostro paese ad altri dell’Unione Europea e nel
mondo, con circa 26 milioni di persone tra il 1876 e il 1976; questo perché l’evoluzione della
lingua in questo contesto ha risentito di una competenza evidente nei dialetti ma una
conoscenza passiva della lingua unitaria tramandata nei decenni, conseguentemente le forti
identità e connotazioni dialettali nel tempo hanno perso prestigio con le nuove generazioni
che hanno invece prediletto la lingua del paese ospitante. Al di fuori di ciò l’italiano è anche
lingua ufficiale e di lavoro nelle istituzioni comunitarie dell’Unione Europea, ma l’italiano della
legislazione comunitaria è comunque una lingua d’arrivo rispetto alle lingue delle
documentazioni ufficiali quali l’inglese e il francese, lingue nei quali i documenti sono redatti
e tradotti poi in altre lingue.

[ITALIANO E FIORENTINO]
La periodizzazione che abbiamo adottato ha messo in rilievo i caratteri fondamentali della
linguistica italiana, sintetizzando il tutto potremmo dire che l’italiano si è formato sulla base di
un volgare locale definito il fiorentino che ha acquisito rapidamente prestigio e
riconoscimento a seguito della grande produzione letteraria che lo ha accompagnato,
pensando ora alle famose tre corone di Dante, Petrarca e Boccaccio. Il volgare fiorentino
conseguentemente si impone durante il 300 e grazie ad una norma linguistica adottata nel
500 diviene in Italia la lingua letteraria comune senza un necessario sostegno politico.
Intravedendo le vicende storiche che hanno permesso al fiorentino di prevalere sugli altri
volgari della penisola, possiamo suddividere il tutto in circostanze - anche se il fiorentino di
principio parte in vantaggio vista la sua posizione geografica mediana

- [circostanze esterne, in vista della popolarità e prosperità di Firenze sulle altre città
della Toscana nonché la propria fortune economica e politica verso gli ultimi anni del
200; che hanno determinato la diffusione dei propri prodotti culturali]

- [circostanze interne, dato che il fiorentino preservava il maggior numero di


caratteristiche linguistiche simili al latino rispetto alle altre parlate come la vocale
finale del latino; fratello rispetto al milanese fradel; e l’assenza di vocali turbate come
la u milanese in luna]

Visti i punti di forza del fiorentino trecentesco in correlazione alle altre parlate della penisola
e perché ha visto il suo grande successo e prestigio, è importante notare quale sia la
concordanza tra l’italiano e il fiorentino trecentesco e perché si differenzia da altri esiti
linguistici appartenenti a diverse aree dialettali? Vedendone alcune

- [Iniziamo dalla presenza dell’anafonesi dove le vocali toniche e/o si chiudono in i e u


in parole come famiglia o spugna, che in altri dialetti vengono resi come fameglia o
spogna; la dittongazione di e/o toniche a aperte in sillaba libera in parole come piede,
buono, che in altri dialetti hanno pede e bono; il passaggio di e protonica in i in parole
come signore, migliore e nipote che in altri dialetti sono segnore, megliore e nepote;
il passaggio di ar protonica in er in parole come margherita, comperare e nel futuro
dei verbi di prima coniugazione come cantarò>canterò; il passaggio di r intervocalico
in j come in gennaio, notaio da gennaro, notaro; l’estensione del morfema iamo a
tutta la prima persona plurale del presente indicativo come in cantiamo, vediamo,
mangiamo contro i tipi cantamo, sentimo, vedemo; il condizionale in ei formato con il
perfetto del verbo avere “hebui” che fa passare da cantaria a canterei]
Proprio perché l’italiano si è formato sulle radici del fiorentino trecentesco è
conseguentemente esente di fenomeni linguistici correlati al fiorentino argenteo
quattro/cinquecentesco, quindi diversi dal fiorentino aureo trecentesco, aureo appunto in
seguito all’influenza e correlazione con le famose tre corone - tali fenomeni linguistici sono
per esempio la riduzione a o del dittongo [nelle parole come bono o novo da buono e
nuovo], o la gorgia che è un tratto tipico del fiorentino parlato che caratterizza l’aspirazione
delle occlusive sorde intervocaliche p/t/k [amiho da amico, lahasa da la casa] o la pronuncia
fricativa delle palatali [bascio al posto di bacio]

[CARATTERI DELL’ITALIANO]
Una delle marche e caratteristiche tipiche dell’italiano è la letterarietà che ne ha
caratterizzato la storia, vanno però delineati due aspetti differenti della stessa storia ossia la
differenza tra la storia della lingua poetica e la lingua della prosa - di fatto la lingua poetica e
in particolare il genere lirico appariva già stabilito ed unificato verso la fine del 300 sulla base
di un modello raffinato e circoscritto dall’ulteriore presenza ed influenza di Petrarca, che ha
mantenuto la sua essenza inalterata fino al 800; con un’ulteriore patrimonio di forme
specifiche nell’insieme della grammatica della poesia che l’hanno altamente differenziata
dalla prosa. L’unità della prosa invece che doveva assolvere ad una pluralità di funzioni si
sviluppa molto più lentamente rispetto alla poesia a livello letterario di principio, quindi ancor
più lentamente nell’adattamento nei testi pratici e tecnici. Tralasciando la prosa, dobbiamo
anche ricordare che l’italiano si è codificato ufficialmente nel 500 sulla base di modelli
letterari quali Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa ed è sicuramente divenuto
parte della cultura d’Europa, ma la controparte comprende la grande faticosità che la nostra
lingua ha incontrato negli impieghi non letterari ma pratici e scientifici - e da qui nasce una
richiesta di rinnovamento linguistico formulata verso il 700 da parte di intellettuali illuministi e
nei primi anni dell’800 avviene una constatazione; la quale occupava maggior parte delle
riflessioni di Alessandro Manzoni sulla lingua; secondo la quale l’italiano necessitava di
termini unitari per designare oggetti appartenenti alla sfera quotidiana, alla vita domestica e
a usi pratici poiché una caratteristica peculiare è proprio la presenza di geosinonimi che
sono vocaboli che designano lo stesso oggetto ma in una vasta terminologia sulla base
dell’area geografica [rappresenta appunto una conseguenza diretta della nostra storia
linguistica ma è in regresso, basti pensare alle parole ometto o attaccapanni in settentrione
ma gruccia in Toscana]

[ITALIANO E DIALETTI]
Come detto precedentemente, la storia della lingua italiana è stata profondamente segnata
dal fatto che almeno prima dell’unificazione politica sia stata prevalentemente una lingua
scritta mentre per la conversazione parlata e viva - almeno nelle aree non toscane - si
faceva ricorso ai dialetti, anche per le classi colte. Nonostante ciò in molte situazioni
venivano utilizzate delle pure forme ibride tra dialetti italianizzati e italiano, che divenivano
necessarie nel momento in cui si conversava con parlanti di regioni diverse o stranieri, dato
che l’italiano orale era il modo migliore per comunicare; di sopra, la competenza passiva
dell’italiano quindi la comprensione di testi pronunciati, letti o recitati in lingua appare oggi
ben più diffusa in passato di quanto si pensasse. Indipendentemente da ciò, solo dopo
l’unificazione politica si sono create le condizioni sociali e culturali necessarie per permettere
all’italiano poco più di un secolo a passare da lingua degli scritti a lingua parlata della
nazione. Le conseguenze inerenti alla storia della lingua italiana sono presenti tutt’ora nella
sua condizione presente, dato che rispetto alle altre lingue europee che hanno avuto
cambiamenti significativi tra età antica e moderna con un annesso e forte senso di
rinnovamento, l’italiano si è mantenuto relativamente stabile senza cambiamenti radicali e
significativi nel tempo; d'altra parte però l’italiano contemporaneo è una lingua fin troppo
frammentata e disomogenea vista la diversità e la vitalità dei dialetti - i quali erano destinati
ad una brutta sorte - il persistere del bilinguismo e le differenze regionali nell’italiano
soprattutto a livello fonetico; fondamentalmente sono queste le differenze più percettibili per
gli stranieri.

[CAPITOLO 1 - IL LATINO E I VOLGARI ITALIANI DEL MEDIOEVO]


Quando possiamo noi parlare di un punto d’origine della lingua italiana? Tornando alla sua
storia principale, l’italiano è sempre stato caratterizzato dalla sua marcata letterarietà nella
quale ha imposto le proprie radici e i primi sviluppi verso la propria funzionalità - quindi
vediamo nel tempo continue applicazioni in ambito letterario sia nei termini del genere
poetico che di prosa; riguardo quest’ultima vedremo come l’italiano cercherà di applicarsi ad
ambiti che prescindono la letterarietà come l’ambito giuridico ed amministrativo senza che
però possa necessariamente produrre i risultati sperati vista la grande lentezza con la quale
si imposterà rispetto alla lingua della poesia. le prime documentazioni risalgono al nono e
decimo secolo mentre i testi con finalità letteraria li vedremo verso la fine del 12esimo ed
inizio del 13esimo secolo.

Nonostante queste prime datazioni rudimentali delle dirette testimonianze degli scritti in
volgare, noi già in età imperiale vediamo le prime variazioni della lingua rispetto al canone
del latino classico che conosciamo noi e per queste ragioni si diffonderanno le prime
differenziazioni e variazioni della lingua usata - vista anche la vastità della Romania che è
l’insieme dei territori dove si sono diffusi il latino e le lingue neolatine. Queste differenziazioni
possono essere suddivise in variazioni diatopiche [la variazione basata sull’area geografica
che fa sì che la lingua non diventi un’entità fissa e immutabile ma si evolva grazie agli stessi
parlanti], variazioni diastratiche [definita anche sociale è quella basata sulla stratificazione
sociale dei parlanti di una lingua, quindi le caratteristiche intrinseche dei singoli quali età,
istruzione, professione], variazioni diafasiche [che come le variazioni diastratiche tengono
conto delle stratificazioni e differenziazioni sociali ma in questo caso nei termini dei contesti
specifici in cui viene percepito il messaggio; quindi dette anche variazioni situazionali] e
infine diacroniche [che a differenza delle variazioni diatopiche sono correlate ai fenomeni
trasformativi della lingua proiettati nel tempo invece che nello spazio]. Fra i cambiamenti più
significativi che si possono attestare vi sono in primis il differente impiego del pronome
dimostrativo ille, illa, illud che ora è usato come articolo determinativo precedentemente
assente in latino [illa rosa - la rosa] e la caduta dei casi della lingua latina stessa che
costringevano i parlanti ad attenersi ad un modello prefissato dell’ordinamento delle parole
nella frase, il modello SVO [soggetto, verbo, oggetto; ma molto più significativo sarà il
passaggio dal sistema vocalico latino basato sulle lunghezza delle vocali al sistema tonalico
italico che ha 7 vocali toniche e 5 vocali atone

- [I>I; I E>E; E>3; A A>A; O>C; O U>O; U>U]

Di sopra, ad influire ulteriormente sulle variazioni della lingua e le evoluzioni che si sono
presentate nel passaggio dal latino al volgare vi saranno le invasioni barbariche -
fondamentalmente i popoli occupanti decisero di appropriarsi della lingua dei popoli
occupati, dei popoli indigeni per così dire, e lasciare elementi della propria lingua [questo
fenomeno è definito superstrato; la cui terminologia va a riferirsi allo strato in superficie di
una stratificazione dove invece il livello secondario è definito substrato o sostrato.
Essenzialmente caratterizza la coesistenza di due idiomi con la successiva scomparsa della
lingua più recente dopo che avrà lasciato un’impronta su quella indigena/preesistente] -
questi furono i cosiddetti prestiti longobardi. Ciò che ne risulta alla fine è una lingua ibrida
che non è il latino da noi conosciuto ma allo stesso tempo la lingua volgare da noi studiata -
si tratta di una lingua ponte che collegava il latino scritto con le scritture volgari vere e
proprie e numerose saranno, successivamente, i casi di scriptae volgari impieganti questa
lingua ponte.

[CAPITOLO 1.2 - LE PRIME TESTIMONIANZE DEI VOLGARI ITALIANI]


L’avvio delle precedentemente menzionate scriptae volgari sarà stato sicuramente
fomentato dalla riforma carolingia del latino che non causò altro che una maggiore divisione
tra quella che era la lingua scritta normalizzata e la lingua impiegata dai parlanti; a farsi
promotori delle prime scriptae volgari saranno i funzionari pubblici o piu genericamente
figure a stretto contatto con la popolazione come i notai, i mercanti e i religiosi che attuavano
una comunicazione basata su un fondamentale ibridismo non solo nei termini di un’unione
tra il latino classico e il volgare adattato ma anche le annesse variazioni e caratteristiche
linguistiche che caratterizzavano le specificità di una determinata area; conseguentemente
parleremo di un fenomeno di plurilinguismo e policentrismo [un sistema in cui coesistono
appunto più centri, più influenze]. Fra le aree più privilegiate nella penisola italiana che
hanno appunto goduto della produzione delle scriptae volgari troviamo l'area mediana che
godeva già di una profonda influenza della cultura monastica benedettina e fra i primi
esempi di scriptae volgari troviamo L’ISCRIZIONE DELLA CATACOMBA DI COMMODILLA
a Roma che altro non è che una trascrizione muraria recante un probabile invito all'officiante
della messa, detta:

[NON DICERE ILLE SECRITA A BBOCE]


[NON PRONUNCIARE LE ORAZIONI SEGRETE AD ALTA VOCE]

questa stringa di testo è significativa poiché oltre a rappresentare una delle prime
testimonianze dirette è anche un esempio pratico di questo ibridismo della lingua ponte
poiché nella stringa, dicere richiama alla forma latina mentre sono in contemporanea
ricalcati fenomeni tipici del parlato [come il raddoppiamento fonosintattico di bboce nonché il
betacismo in esso, quindi il passaggio da v a b che è un fenomeno tipico delle regioni
mediane]. Quindi come detto in precedenza questa è la testimonianza più antica di scrittura
esposta insieme all’ISCRIZIONE DI SAN CLEMENTE dell’omonima basilica a Roma dove
viene narrato il martirio del santo che mentre veniva trasportato verso la morte da tre pagani
[Albertello, Carboncello, Gosmari] il suo corpo viene miracolosamente trasformato in una
colonna, detta:

[FALITE DERETO COLO PALO CARVONCELLE


ALBERTEL GOSMARI TRAITE
FILI DE PUTE TRAITE; DURITIAM CORDIS VESTRIS SAXA TRAHERE MERUISTIS]

[SPINGILO DENTRO CON IL PALO CARBONCELLO


ALBERTELLO GOSMARI TIRATE
FIGLI DI PUTTANA TIRATE
A CAUSA DELLA DUREZZA DEI VOSTRI CUORI, AVETE MERITATO DI TRASCINARE
SASSI]

Questo spezzone di testo è ancora rilevante per la grande attenzione posta verso il volgare
che caratterizza i dialoghi dei paesani a differenza del latino raffazzonato che si rivede solo
nella frase pronunciata da San Clemente e in una dedica della scrittura esposta del
committente [EGO BENO DE RAPIZA CUM MARIA UXOR MEA PRO AMORE DEI ET
BEATI CLEMENTI PER GRATIAM ACCEPIT - IO BENO DI RAPIZA CON MIA MOGLIE
MARIA PER AMORE DI DIO E DEL BEATO CLEMENTE PER GRAZIA RICEVUTA].

Altrettanto importante risulta essere un documento che attesta l’uso consapevole del volgare
in un documento ufficiale ed è il Placito Capuana - un testo giuridico redatto da un notaio in
sede di una diatriba di fronte al giudice Arechisi riguardante delle terre occupate secondo
alcuni in modo illegittimo da un monastero dei Benedettini; noi analizziamo una
testimonianza a riguardo

[SAO KE KELLE TERRE PER KELLE FINI QUE KI KONTENE TRENTA ANNI LE
POSSETTE PARTE SANCTI BENEDICTI - SO CHE QUELLE TERRE, ENTRO I CONFINI
DI CUI QUI SI DICE “CHE QUI CONTIENE” 30 ANNI LE POSSEDETTE IL MONASTERO
DI SAN BENEDETTO]

La trascrizione della parte orale ovviamente fa in modo che si vadano a perdere numerosi
tratti dell’oralità originale e spontanea con finanche l’aggiunta di formulari tipicamente
giuridici in latino [PARTE SANCTI BENEDICTI], latino che però non vediamo nella
strutturalizzazione della frase secondo i criteri della lingua parlata [KELLE TERRE..LE
POSSETTE..]

[CAPITOLO 1.3 - LA LINGUA DELLA PROSA ALLE ORIGINI]


L’affermazione del volgare negli scritti avviene, come già constatato precedentemente, in
modi e tempi diversi ma si può arrivare ad una prima documentazione verso il nono, decimo
secolo dell’uso pratico di questa lingua; che ha avuto di sopra una maggior prevalenza in
determinate aree come la Toscana e Venezia a seguito della crescente presenza in queste
zone di un ceto medio alfabetizzato - nei termini di una società di stampo mercantile
caratterizzata da congreghe religiose e laiche; e di cosa necessitano tali? di scriptae di
stampo pratico, amministrativo per usi notarili, epistolari ecc anche se il latino continuava ad
essere comunque la lingua più utilizzata. Si avviano quindi nei vari centri le tradizioni di
scrittura di testi in volgare e diviene significativo lo spazio dedicato al volgare nelle scuole e
nelle università; esempio primario la Gemma purpurea di Faba che era un prontuario
[manuale di disciplina] di nozioni formulate in volgare inerenti alla lingua latina e
l’insegnamento di essa, un punto di svolta verso la stesura di questi testi che rappresentano
la diretta influenza del volgare anche nei riguardi della lingua primigenia. Da qui vedremo
come già nella seconda metà del 200 cominciarono a manifestarsi numerosi episodi di
lingua volgare nella sfera letteraria con le lettere morali e religiose di Guittone d’Arezzo e le
traduzioni di opere letterarie francesi - specialmente i testi del ciclo arturiano, con
volgarizzamenti documentati del Tristano che mostrano un’opera in prosa ricolma di
francesismi e da una ripetitività e formularità di schemi sintattici e lessicali. Ma oltre al
mondo prettamente letterario, la stesura in volgare si diffonde anche a livelli popolari
attraverso il Libro di li vitii e di li virtuti dalla seconda metà del 300 mentre da un punto di
vista storiografico dobbiamo citare la Cronica di un anonimo romano che narra della vita
della figura di Cola di Rienzo.

[CAPITOLO 1.4 - LA LINGUA DELLA POESIA]


Nel campo della poesia vediamo un processo di volgarizzazione ben più prolifico rispetto
alla sorte che è spettata alla prosa; di fatto furono molte le correnti letterarie che si
prefissarono l’obiettivo di trasportare il volgare in campo poetico caratterizzando
successivamente quella che sarà la base della nostra tradizione poetica. Già nel corso del
200 si vennero a creare delle vere e proprie scuole letterarie, tra cui la più rinomata di tutte
che risulterà essere la scuola siciliana presso la corte di federico II di Svevia [una scuola che
sperimenta l’impiego del volgare sulle orme e i modelli della scuola lirica provenzale che al
tempo rappresentava il modello per eccellenza - il genere lirico provenzale si diffuse tra la
fine del nono secolo e i primi decenni del 13esimo nel sud della Francia con localizzazione
in Provenza, definito anche come Lirica Trobadorica o Lirica Occitana essa ha permesso di
introdurre la figura del trovatore, ossia cercatore di parole per comporre e cantare la sua
poesia ed è definita lirica in seguito allo strumento musicale di cantori greci e romani, ossia
la Lira che era uno strumento a corde da pizzicare; generalmente questo genere introduceva
un certo carattere individuale con riferimento ai sentimenti verso una donna con tema
centrale essere l’amor cortese e il dolore verso l’adulterio]. Essenzialmente questa prima
tradizione poetica vede le sue radici nella parte meridionale della penisola ma avrà modo di
stabilirsi anche nella zona mediana e settentrionale, specialmente in Toscana dove verrà
riadattata da figure quali Petrarca che stabilirà un repertorio di figure grammaticali e poetiche
il quale avrà riconoscimento fino all’800, grazie anche alla codificazione di Bembo nel 500.

Tra gli esempi pratici di volgarizzazione della poesia noi ricordiamo ed introduciamo i RITMI
ANONIMI della letteratura giullaresca la quale era caratterizzata nei suoi componimenti da
metro irregolare e il costante allontanamento delle forme linguistiche fin troppo locali, in un
tentativo diretto di avvicinarsi al modello della poesia provenzale; ulteriore esempio sono le
cantiche di stampo religioso quali la CANTICA DELLE CREATURE di Francesco d’Assisi nel
1220 [sicuramente un filone poetico poco prolifico ma sicuramente significativo in vista
dell’importanza di queste laudi cantate durante le processioni religiose, e quindi
conseguentemente rappresentative di un contatto diretto con la popolazione; divengono gli
strumenti del mediatore linguistico]. Concludiamo con una poesia che si caratterizzava di
sopra con temi moraleggianti e didascalici come quella realizzata da Uguccione da Lodi - la
quale impiegava nei componimenti un volgare illustre, carico di provenzalismi e latinismi;
fondamentalmente queste sono le prime testimonianze nonché opere che hanno
caratterizzato la base della creazione della poetica italiana già dal 13esimo secolo. Il
conseguimento di questo genere e la sua strutturalizzazione attraverso questi primi esempi
è resa possibile grazie ad una scuola influente e rappresentativa come quella di Federico II
di Svevia - la scuola siciliana - che già dieci anni prima dell’avvento del monarca ha regolato
in zona un certo interesse verso la produzione poetica in volgare come testimoniato da una
trascrizione di versi di Giacomino Pugliese.

Passando alle caratteristiche principali della scuola siciliana e le ricorrenze che avvengono
con la scuola lirica provenzale troviamo dei punti di congiunzione e degli adattamenti di
stampo linguistico come l’uso di gallicismi, già nella presenza di numerosi suffissi i base
anza, enza, aggio [amistanza al posto di amicizia]; l’uso degli allotropi che per definizione
sono due o più parole che sono diverse sul piano formale e semantico ma hanno il
medesimo etimo come per esempio vizio e vezzo che entrambi derivano dal latino vitium; è
un termine che è stato inizialmente coniato nel linguaggio della chimica e fu introdotto in
linguistica italiana da Ugo Canello che lo preferì alla terminologia di doppione,
fondamentalmente si basa sulla concezione che da un’unica forma originale si possono
ricavare fino a dieci e più voci] e in aggiunta l’utilizzo di dittologie sinonimiche che sono
coppie di sinonimi a valore rafforzativo [basti pensare a difettivo e insufficiente, mondissimo
e purissimo, astratta e assoluta e così via]. L’impatto della scuola siciliana fu tale che inizio a
fomentare un processo di imitazione e trascrizione dei manoscritti siciliani stessi che causò
direttamente la nascita in alcuni territori - specialmente in quello toscano - di una società
borghese vivace e desiderosa di stimoli culturali al punto che in questo periodo vennero
pubblicati tre canzonieri di cui il più importante il VATICANO LATINO 3793. I toscani quindi si
misero in opera verso una vera e propria trascrizione delle opere della scuola siciliana ma
ovviamente, questa trascrizione comportò notevoli differenze in vista del sistema vocalico
siciliano che aveva cinque vocali toniche mentre quello toscano sette

[I>I, I E E>E; A A>A; O O U>O; U>U]

Vista la grande differenza nella stesura delle vocali vediamo episodi significativi di
trascrizioni dove le rime imperfette prendono piede [ascoso - rinchiuso] che divennero vero e
proprio indice di una copiatura dei poeti toscani - i quali però erano conosciuti come maestri
delle rime perfette e di conseguenza trascrissero successivamente il vocalismo siciliano,
viste le nuove rime [ascusu - rinclusu]. I copisti diedero sicuramente una patina
toscaneggiante pur sempre però conservando alcuni elementi dei manoscritti come le
desinenze verbali in -ggio [come aggio tradotto in io ho e veggio tradotto in io vedo] e in -ia
per il condizionale [crederei che diviene crederia] e il risultato di queste implementazioni
linguistiche e contemporanea preservazione degli elementi originali dei manoscritti ha dato
vita ad una lingua ibrida con appunto numerosi riferimenti al volgare siciliano ma ricca di
codici toscaneggianti [intrisa di latinismi e gallicismi], con una successiva normalizzazione
delle rime imperfette che hanno caratterizzato l’unione della scuola siciliana con la poetica
toscana in un esito lessicale ben complesso e definito nei termini di una scuola di transizione
o siculo - toscana [noi ricordiamo anche che l’influenza della scuola siciliana fu tale che
venne posta a modello per le correnti poetiche che la seguirono soprattutto a seguito della
disfatta degli Svevi e della distruzione dei manoscritti della scuola; essenzialmente la scuola
siciliana in unione con la poetica toscana ha caratterizzato la base per la fondazione della
poetica italiana. Successivamente a questa fase ibrida dell’unione di due correnti linguistiche
troviamo la corrente del Dolce Stil Novo che a pari merito fu estremamente importante come
principio alla base della nostra tradizione poetica - di fatto si è incentrato questo genere sul
rifacimento di temi amorosi di stampo medievale - giullaresco e cavalleresco in chiave
moderna e uno dei suoi promotori più noti fu Guinizzelli [considerato formalmente come il
capo di questa corrente da Dante] insieme a Cavalcanti, Lapo Gianni e Dante stesso che
prenderà le redini di questo genere attraverso una sua nota opera: La Vita Nuova che fu una
raccolta delle sue rime giovanili in forma di prosimetro [un componimento misto di prosa e
versi dove sono elencate le liriche dantesche inframezzate dalla presenza di parti esplicative
di parti esplicative di tale opera in prosa]. Le caratteristiche del Dolce Stil Novo possono
essere incapsulate nella volontà diretta di intraprendere un lessico sicuramente basato sulla
corrente sicuro toscana ma gradualmente potato potremmo dire, nonché curato attraverso
un atto di nobilitazione della lingua eliminando termini troppo locali o considerati
particolaristici; questo processo anche in virtù di volontà esterne porterà i modelli toscani ad
avere una grande prevalenza nella penisola soprattutto grazie alla vantaggiosa posizione di
Firenze dal punto di vista economico e politico.

[CAPITOLO 1.5 - DANTE E LA SUA PRIMA RIFLESSIONE SUL VOLGARE]


La prima e vera riflessione sul volgare e sull’impiego di questa lingua nella tradizione
letteraria è dovuta a Dante con il De Vulgari Eloquentia - che è un trattato composto nel
periodo dell’esilio e che rimarrà sconosciuto fino al 500. L’oggetto principale della riflessione
dantesca è una ricerca dello stile poetico con il volgare nel ruolo attivo di strumento
d’eccellenza per la comunicazione letteraria; una lingua considerata nobile in vista di ciò.
Nella sua ricerca Dante ha individuato 14 volgari diversi lungo la penisola nel tentativo di
passare da una generale analisi e ricerca alla concreta ricerca di una definizione di lingua
altamente letteraria e la conclusione essenziale, dopo aver valutato i migliori e peggiori
volgari della penisola, è che un volgare che possa essere rispettivamente

- [ILLUSTRE - ovvero nobile letterariamente]


- [CARDINALE - ovvero che faccia da cardine per tutti i volgari]
- [AULICO - che venga quindi impiegato nelle aule, ossia nella reggia]
- [e infine CURIALE - ossia degno della curia che era il tribunale supremo]

non si identifica con quello di una città italiana singola ma appartiene a tutta l’Italia; inoltre,
nel Convivio Dante affronta la questione del latino che era la lingua letterariamente più
diffusa e per quanto ne abbia riconosciuto la superiorità, rimane dell’idea che il volgare
rimanga una lingua più facilmente accessibile ad un largo pubblico.

[CAPITOLO 1.6 - LE TRE CORONE TRA DANTE, PETRARCA E BOCCACCIO]


Affinché il volgare, in veste di sole nuovo, possa essere comparato al latino è importante che
raggiunga la stessa dignità di esso e ciò sarebbe possibile solo se vi fosse la possibilità che
possa arrivare ad un pubblico più ampio, che possa quindi anche comprendere i non letterati
- questo avvenne grazie all’enorme influenza delle tre corone fiorentine con Dante e la
commedia, Petrarca con il canzoniere e Boccaccio con il decameron. Iniziamo introducendo
queste tre figure e il loro rispettivo contributo

- Con Dante, la sua Commedia; che verrà solo successivamente denotata come
Divina in seguito alla sua morte ed è risalente a Boccaccio; vediamo la piu fiorentina
delle rappresentazioni dal punto di vista linguistico ed una che crebbe di grande
fortuna e popolarità dopo la pubblicazione successiva alla morte del poeta, che fu
scritta formalmente durante il suo esilio ma che non vide luce e riconoscimento
almeno fino al 500. Il poema si diffonde nelle zone circoscritte della popolazione che
non era formalmente istruita e viene presto tramandata oralmente sia pubblicamente
che in privato e cantata dalla gente umile; la sua ricchezza espressiva è straordinaria
ed espressa direttamente dalla volontà del poeta di introdurre innanzitutto un nuovo
metro che sarà la TERZINA DANTESCA [definita anche terzina incatenata o terza
rima, sarà costituita da tre versi endecasillabi di cui il primo e il terzo rimano tra di
loro mentre il secondo rima con il primo e terzo della terzina successiva, da cui
l’attribuzione alla qualità di rima incatenata - ogni canto del poema è terminato da un
ulteriore verso che chiude la rima con il secondo verso della terzina precedente e
dividendo per tre il numero dei versi di un canto si avrà sempre il resto di uno.
Questa struttura facilita la memorizzazione della sequenza dei versi e impedisce
anche che un copista possa aggiungere o eliminare terzine perché
conseguentemente perderemmo la sequenza. Questo tipo di rima si chiama anche
terza rima in quanto tutti i versi rimangono a tre a tre tranne una coppia di versi
all’inizio quindi il primo e il terzo della prima terzina e una alla fine che è il secondo
dell’ultima terzina e il verso aggiunto alla fine che rimangono a due a due; lo schema
metrico è ABA BCB CDC UVU VZV Z. Un possibile antenato della terzina dantesca
potrebbe essere il sirventese]. Insieme alla terzina precedentemente menzionata
Dante sperimenta con una unione di stili diversi e una pluralità che si traduce in un
contesto di plurilinguismo, attingerà a svariate funzioni grammaticali del fiorentino
tardo duecentesco attingendo in contemporanea ad una serie di stili diversi tra cui
quello alto, medio, plebeo, arcaico, innovativo in modo da creare una lingua
estremamente variegata con un lessico ricco di neologismi, gallicismi, intarsi siculi,
provenzali, latini e i vari registri linguistici del toscano - in questo modo soddisfa la
necessità di una continua ricerca espressiva non soddisfatta da termini per lui a
portata di mano. La Divina Commedia ha permesso alla lingua fiorentina di affermarsi
in aree aliene a Firenze già dai primi del 300 e divenendo fin da subito un modello
linguistico.

- Se la Commedia, quindi, ha rappresentato il punto d’inizio per il conseguimento di


una lingua letteraria comune, Petrarca e il suo Canzoniere determinarono invece un
processo di unificazione dei modelli e delle norme che caratterizzano la poetica
letteraria italiana. Il Canzoniere come La Vita Nuova di Dante è una raccolta di liriche
e componimenti a differenza di essa è un’opera sviluppatasi durante tutto il corso
della produzione poetica di Petrarca nonché la sua vita in generale, nei termini della
rappresentazione diretta della donna da lui amata in vita e in morte di. Dal punto di
vista linguistico e stilistico il Canzoniere ha rappresentato per Petrarca l’occasione
per attuare un processo di nobilitazione della lingua toscana con un aggiuntivo scarto
di ogni elemento basso e municipale; lui fondamentalmente attua una selezione e un
ammodernamento della tradizione linguistica carica di varietà linguistiche a lui
precedente [lui per esempio riduce il numero dei gallicismi lasciando intatte solo
alcune forme come augello, veglio ecc, passa al setaccio i sicilianismi sostituendoli
con le loro controparti in toscano [da core a cuore, da foco a fuoco], attuando il
dittongamento toscano quindi trasformando e,e,o in sillaba libera e in posizione di
frontiera nei dittonghi je,e,wo - così il Canzoniere diviene modello linguistico alto e
selettivo acquisendo valore esemplare

- Mentre il Canzoniere ha rappresentato un punto di svolta in termini di


ammodernamento della qualità linguistica della lingua fiorentina e degli adattamenti
dei vari volgari e strumenti linguistici affini, questo ha caratterizzato prettamente la
sfera della poetica; dal punto di vista della prosa, l’opera introduttiva del genere e
quella più significativa per la sua crescita è stata il Decameron di Boccaccio. La
prosa è la narrativa della nostra tradizione letteraria ed era prevalentemente rivolta
ad un pubblico femminile e quindi diffusa negli ambienti mercantili; l’opera si
contraddistingue per la capacità di attribuire a vari ambienti e personaggi
appartenenti a ceti sociali vari nonché regioni del territorio italico diverse dei registri
linguistici e varietà di volgare diverse l’una dall’altra tra varianti dotte, popolari ed
idiomatiche che si alternano nell’opera senza intaccare sulla base linguistica
fiorentina. Potremmo dire che la lingua di Boccaccio risulta essere più sporca rispetto
a quella di Petrarca dal punto di vista grammaticale e linguistico dato che
quest’ultimo sperimenta anche con espedienti per richiamare a caratteristiche del
parlato - quali il che polivalente e l’uso ridondante dei pronomi, quello di Boccaccio
divenne, dunque un vero e proprio modello linguistico, sia dal punto di vista dello stile
elevato impiegato in gran parte dell’opera; soprattutto in relazione alla narrazione
della cornice e delle novelle tragiche della decima giornata ma anche per il semplice
motivo che il modello boccacciano poteva rappresentare per molti un ritorno ad una
prosa più semplice e naturale.

[CAPITOLO 2 - LATINO VOLGARE NELL'ETÀ DELL’UMANESIMO]


L’ascesa del volgare come lingua letteraria ha subito una brusca frenata a causa di un
movimento culturale che si andrà a mobilitare verso i primi anni del 400 ossia l’Umanesimo
[l’Umanesimo fu un movimento, una corrente prevalentemente fondata su un pensiero
filologico già esplicitato in precedenza da Petrarca e Boccaccio in relazione alla necessità di
riportare l’attenzione verso i classici greci e latini - vien da sé che i cultori di questa corrente
fossero proiettati verso una grande stima e considerazione del latino ciceroniano in
contrapposizione al latino imbastardito dall’ascesa del volgare; che rimane per loro una
lingua barbarica e di stampo umile che doveva essere impiegata per mere pratiche scritte e
non dover essere tramandata ai posteri]. Come detto in precedenza i cultori di questa
corrente credevano che il latino imbastardito con il volgare che ha caratterizzato la lingua
ibrida delle prime scriptae volgari databili nel nono, decimo secolo fosse un pericolo e che
bisognava riportare in vigore il latino classico che ha caratterizzato la lingua letteraria per
eccellenza; la ribellione, la rivolta dei cultori ha causato lo stesso esito che abbiamo
precedentemente registrato nella riforma carolingia del latino che altro non ha dato che un
ampliamento del divario tra il latino e il volgare [quindi tra lingua letteraria e lingua parlata],
quest’ultimo sempre più impiegato negli scritti epistolari e amministrativi e in vista di lingua
viva, parlata aveva sempre più riferimento alle innovazioni di essa.

Nel frattempo, all’infuori della Toscana l’espansione del volgare aveva gradualmente
innescato la nascita delle lingue koiné che erano lingue di commissione, eclettiche e
caratterizzate da un fondamentale afflusso di elementi linguistici vari tra cui una patina
latineggiante pressante e un avvicinamento alla lingua toscana. Dobbiamo anche specificare
che verso la fine del 15esimo secolo quando gli esponenti dell’Umanesimo iniziarono a
rendersi conto della grande forza dietro l’espansione del volgare si mobilitarono come primi
esponenti del volgare stesso e della normalizzazione di esso [quindi in sostanza
l’Umanesimo non placò realmente l’ascesa del volgare ma la favori eventualmente]. Visto
che il volgare si stava diffondendo a macchia d’olio ed era impiegato nell’utilizzo delle
scritture pratiche nonché di lingua viva e mutabile, è stata conseguentemente soggetta a
vari mutamenti e variazioni linguistiche che lo hanno suddiviso in due categorie; il volgare
aureo definito classico e un volgare argenteo che era di stampo più contemporaneo e vivo,
le cui forme linguistiche sempre estranee al volgare trecentesco delle tre corone
comprendono l’uso di el ed e al posto di il ed i, la mutazione della desinenza verbale
dell’imperfetto in o [come in amavo] e l’impiego di arei, aresti al posto di avrei e avresti. Il
400 è stato caratterizzato da una situazione linguistica particolarmente complessa - da una
parte ci troviamo dinanzi ad uno stile che pone un’estremizzazione artificiosa della prosa
umanistica con un periodare ricco di inversioni sintattiche, incisi, subordinate e un lessico
presi dal latino ma trasferiti nel sistema volgare mentre il secondo è la lingua delle
macaronee; ossia componimenti narrativi in esametri che è il metro dell’epica latina e che
trae il nome dal genere di Tifi Odasi la Macaronea ossia la storia epica degli gnocchi che
non erano di patate visto che non erano ancora arrivate in Europa ma di impasti di farina e
pane grattugiato. Nel Macaronico l’artificiosità della lingua è ottenuta inserendo parole di
volgare del settentrione/veneto nel sistema grammaticale e sintattico latino con una certa
attenzione verso temi bassi e quotidiani come sesso, cibo e sporcizia ma trattati in modo
elevato - in sintesi la lingua della prima è ottenuta inserendo lessico e sintassi latina in un
sistema grammaticale volgare che prende a modello il toscano; quella della seconda,
esattamente al contrario, colloca il lessico più municipale e concreto in un sistema
grammaticale latino [quindi, questo ibridismo seppur causò degli squilibri all’interno della
lingua permise al contempo di vedere gli interessanti esperimenti linguistici visti in
precedenza, esempio concreto fu la poesia macaronica di Odasi che poneva un intento
parodico, canzonatorio e parodico per evidenziare lo squilibrio linguistico dell’autore
contemporaneo/argenteo oppure la lingua polifilesca di Manuzio che evidenzia allo stesso
modo le tendenze linguistiche del tempo ma non in atto canzonatorio, semmai con intento
sperimentale per testare l’unione della lingua volgare con quella latina ma un volgare
nobilitato appunto dalle strutture latine. Come detto in precedenza, all’infuori della Toscana
si formano le lingue koiné che erano lingue di commistione caratterizzate da influssi locali e
regionali da cui i letterati volevano distanziarsi, una patina latineggiante e una grande
tendenza al toscano. Potremmo dire allora che queste lingue potrebbero essere le
successioni naturali delle prime scripate volgari ma non rimasero esclusivamente inerente
all’ambito pratico delle scritture, si espansero anche in ambito letterario ed esempio
lampante fu l’Orlando innamorato di Boiardo che fu scritto tenendo conto delle koiné presenti
nella corte degli Estensi di Ferrara presso cui Boiardo era poeta di corte.

Prima avevamo esposto il grande flusso di esponenti dell’Umanesimo e come si fossero


posti nei confronti del volgare, progredendo la sua espansione una volta riconosciuta la sua
potenza linguistica e mediatica; uno degli esponenti principali di questa validazione e
normalizzazione del volgare fu Leon Battista Alberti che si avvierà in quel processo di
introdurre l’Umanesimo volgare; di fatto in molte sue opere come il suo trattato DE LA
FAMIGLIA vuole rivalutare il volgare partendo dalle tesi umanistiche all’origine dello stesso
facendo particolare caso alle tesi di Biondo Flavio [secondo cui il volgare è nato da un
imbastardimento del latino imperiale a seguito delle invasioni barbariche] che Alberti accetta
ma non per questo il volgare deve essere rilegato al valore di lingua umile ma ha anzi tutte
le potenzialità di essere alla pari del latino; suo fu anche il primo testo di grammatica latina
scritto intorno al 1440 e rimasto inedito fino al secolo scorso in forma di manuale, dove
appunto lui si concentra a analizzare il volgare aureo tralasciando gli influssi del volgare
argenteo. Lui però non fu l’unica figura dato che a lui si affianca Lorenzo De Medici e il suo
circolo letterario; di fatto fu lui a concretizzare il processo di nobilitazione del fiorentino
essendo la lingua della città da lui regolamentata ma anche per motivazioni politiche - nella
sua trattazione e nella sua Epistola della Silloge Aragonese lui si basa sulla nobiltà e grazia
intrinseca del fiorentino in virtù delle tre corone; lui predilige il volgare aureo ma
considerando anche i fenomeni di quello argenteo e non tralasciando mai la patina
latineggiante tipica dell’Umanesimo.

[CAPITOLO 2.1 - DALLA LINGUA TOSCANA A QUELLA ITALIANA]


L’espansione del toscano come lingua letteraria ha trovato come elemento propulsore la
corte, di fatto in tali sedi l’influenza del volgare delle tre grandi opere fu assoluto ma a
garantire la più alta ed ampia popolarità del volgare e soprattutto delle opere delle note tre
corone fu una delle innovazioni più fondamentali della storia - ossia la stampa;
nell’immediato furono stampate la Commedia, il Canzoniere e il Decameron e il successo fu
inimmaginabile, tali opere di fatto divennero modelli da seguire anche in contesti extra
toscani come la corte di Ferrara dove il Canzoniere di Boiardo fu un esempio lampante della
grandissima influenza che ebbe il toscano e in particolare quello petrarchiano, o come
avvenne anche nella corte aragonese di Napoli dove accanto alla stesura delle opere
dialettali viene affiancata una scuola poetica di stampo petrarchesco. la stampa quindi fu fin
da subito risolutiva dato che permise di raggiungere molti obiettivi, tra cui lo stanziamento di
un modello grafico preciso fino a quel momento molto oscillante, permise di veicolare le
regole grammaticali attraverso la letteratura e permise anche di imporre un modello
linguistico e grafico basato sulla letteratura stessa che a sua volta si basa sul volgare
trecentesco - dal punto di vista della normalizzazione linguistica, la svolta si ebbe quando si
unirono due tra le più grandi menti letterarie del tempo: un famosissimo stampatore, Aldo
Manuzio (autore del linguaggio polifilesco) e un letterato veneto, Pietro Bembo [nella stampa
del Canzoniere di Petrarca attuata da Manuzio, Bembo accompagnò una veste letteraria da
lui trattata, veste che rappresenterà la base della formulazione dell’opera probabilmente più
importante della nostra storia italiana: le Prose della Volgar Lingua]

[CAPITOLO 2.2.1 - DALLA QUESTIONE DELLA LINGUA ALLA NORMA; LE PROSE


BEMBIANE]
Le Prose della Volgar Lingua è un tratto in formato dialogico [quindi in forma di
conversazione, dialogo] in tre libri pubblicato nel 1525 ma collocato fittiziamente nel 1502
per darne un valore antecedente rispetto ad un’ulteriore opera pubblicata in quel periodo dal
grammatico e letterato Fortunio Le Regole Grammaticali della Volgar Lingua; ma le due
sono opere ben diverse nel contenuto dato che l’opera di Fortunio è un manuale grammatico
e normativo creato allo scopo di adempiere a quella necessità dei letterati extra – toscani di
avere un modello di riferimento del sistema linguistico toscano; è quindi un manuale diretto
ad un pubblico più o meno ampio, ma comunque ad un pubblico generico. Le prose di
Bembo invece sono tutt’altra storia dato che sono tre libri diretti ad un pubblico di letterati in
cui Bembo studia ed analizza il volgare nel tentativo di nobilitarlo ponendo alla base della
sua trattazione i classicisti e i loro fondamenti, il primo in ciò; vedremo avanti il contesto
sociolinguistico che colora le Prose:

- [Iniziamo dalle teorie cortigiane comunemente denotate come normali e comuni;


sotto questa etichetta si era sviluppato un movimento culturale simile di natura
linguistica e sociale dove si era contrari alla predominanza della lingua toscana sulle
altre e successivamente si sarebbe tentato di ricercare una lingua eclettica sulla
base delle lingue di commistione ossia le koiné - tale che possa rappresentare il
popolo italiano. Il principale esponente di questa teoria fu un letterato settentrionale
di nome Calmeta che secondo Bembo aveva designato un modello linguistico
ispirato alla lingua usata nella corte romana che era un mescolamento di
caratteristiche ed elementi non propriamente italiani ma ricchi di influenze iberiche e
francesi, ma Calmeta non fu l’unico dato che il più fervente oppositore del
fiorentinismo linguistico ed esponente della ricerca di una lingua comune ed italiana
fu il vicentino Trissino vista non solo la sua formazione come grammatico ma anche
la sua riscoperta e rivalutazione del De Vulgari Eloquentia di Dante, che però
interpreterà male nella trattazione dantesca sul volgare illustre [qui Dante dopo aver
generalmente analizzato il territorio italiano per arrivare ad una successiva ricerca
accurata della migliore forma di volgare, un volgare che fosse illustre quindi nobile
abbastanza da essere impiegato nella letteratura, aulico quindi impiegato nelle aule,
nella reggia, cardinale che quindi potesse fungere da cardine per gli altri dialetti della
penisola e curiale per poter essere impiegato nella curia, quindi il tribunale supremo -
essenzialmente il volgare dell’italia, suo pieno rappresentativo comune. Trissino
divenne un sostenitore di questa teoria del volgare comune ed italiano e pubblicò nel
1525/26 delle operette mirate alla riforma del sistema grafico stabilizzatosi con la
stampa; queste teorie verranno supportate e portate avanti fino al 800]

- [Le teorie florentinische e toskanische invece rappresentano i promotori della


fiorentinità della lingua, quindi della lingua viva e del toscano, e che porteranno
un’aspra opposizione alle operette di Trissino del 1525. Figura di rilievo fu Ludovico
Martelli che sosteneva che il fiorentino fosse innatamente nobile e che era degno del
proprio primato, ma l’opera più importante fu il DISCORSO INTORNO ALLA
VOLGAR LINGUA di Machiavelli dove sostiene che il volgare è naturalmente
superiore agli altri volgari e tramite un dialogo fittizio viene discussa la fiorentinità
della lingua con la Commedia di Dante come rilievo]

Infine, date tali premesse sulle due posizioni in merito al destino e all’attribuzione del volgare
fiorentino trecentesco, Bembo nella sua trattazione cercherà di collocarsi a metà strada fra
le due correnti - disdegnerà le teorie cortigiane per supportare la fiorentinità della lingua, ma
nello stesso tempo metterà da parte il volgare argenteo supportato dalle teorie fiorentiniste,
dando invece alla lingua un’impostazione classicista. Come detto precedentemente questo
trattato di Bembo si interpone nelle vesti di un dialogo tra Carlo Bembo, fratello di Pietro, che
supporta il volgare aureo, Giuliano De Medici, il figlio di Lorenzo De Medici, che supporta il
volgare argenteo e infine Ercole Strozzi che supporta il latino - in questa trattazione vengono
trattati tre principi che sono la comparazione e la nobilitazione del volgare rispetto al latino, il
riconoscimento dell’origine del volgare con la teoria di Biondo Flavio secondo cui il volgare è
una forma di latino imbastardito a seguito delle invasioni barbariche e viene riconosciuto il
Trecento come periodo storico in cui il volgare subisce un ingentilimento tale da poter essere
impiegato nella letteratura. Bembo, inoltre, pone come modelli assoluti della letteratura le
figure e le opere di Petrarca (per la poesia) e di Boccaccio (per la prosa), mentre la figura di
Dante è messa da parte, a causa del fondamentale plurilinguismo proprio della Commedia.
Come detto prima, Bembo darà alla lingua un’impostazione classicheggiante: il motivo per il
quale vengono messe da parte le influenze moderne che hanno dato vita al volgare
argenteo [secondo Bembo, la lingua, intesa nei suoi aspetti scritti, retorici e letterari, deve
essere un’entità facente parte di uno spazio atemporale; deve quindi essere distaccata dal
presente e dall’uso]. Nell’opera Bembo si muoverà analizzando le categorie stilistiche e
letterarie delle opere delle tre corone per poi muoversi verso un’analisi di tipo grammaticale
e così facendo creerà un modello normativo analitico della lingua volgare rendendo
conseguentemente la sua opera uno strumento pratico di regolamentazione e unificazione
linguistica

[CAPITOLO 2.2 - DIFFUSIONE E ACCETTAZIONE DELLA NORMA LETTERARIA]


Il 1525 diventa quindi una delle date più importanti della storia della lingua italiana, poiché,
da questa data in poi, il mondo culturale italiano avrà a disposizione uno strumento di
regolamentazione ed unificazione della lingua volgare. Ciò che ne seguì fu automatico:
numerose furono le opere normative grammaticali pubblicate a seguito delle Prose
bembiane, nel tentativo di rendere più accessibili gli argomenti e le tesi trattate da Bembo
nell’opera; esempio è le Osservazioni della volgar lingua di Lodovico Dolce. Molte furono
anche le pubblicazioni lessicografiche, estremamente eclettiche ma ancora lontane dalla
nostra definizione di testo lessicografico; esempio è le Tre Fontane di Niccolò Liburnio, che
si avvia ad un’analisi lessicografica a partire da un’analisi aspettuale delle tre opere volgari
fiorentine. Il modello bembiano rappresentò sicuramente, da questo momento in poi, un vero
e proprio faro: permise il passaggio del fiorentino da lingua volgare a lingua letteraria per
eccellenza. Molte furono le figure che, nelle loro opere, presero a modello i dettami di
Bembo; uno fra tutti, Ludovico Ariosto, che attuò una totale rivolta linguistica all’interno del
suo Orlando Furioso. Ariosto fu uno dei più grandi esponenti della corte di Ferrara, dominata
dagli Estensi, e come tale, impiegò nella prima edizione dell’opera (1519) la lingua di koinè
ferrarese, che era stata propria dell’opera di Boiardo, l’Orlando Innamorato, da cui Ariosto si
ispira sul fronte contenutistico della sua opera. Troviamo infatti qui forme proprie padane
(gionto al posto di giunto), crudi latinismi (formidato per temuto) etc. Già nell’edizione del
1521, tuttavia, cominciano ad emergere delle differenze, seppur in misura ridotta; si assiste
ad un graduale avvicinamento all’impostazione toscaneggiante della lingua, probabilmente
sotto l’influsso dell’opera Regole grammaticali della volgar lingua di Fortunio. Il totale
stravolgimento avviene nell’edizione finale del 1532, risultato di un massiccio lavoro
correttorio, per l’adesione di Ariosto alla norma di Bembo. Vediamo, ad esempio, la
sostituzione di -ar- protonica in -er- (arrivarà in arriverà), l’impiego di termini petrarcheggianti
(destrier al posto di caval) e così via.

[CAPITOLO 2.3 - FIRENZE E L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA]


Le norme bembiane non vennero sin da subito accettate nei contesti culturali di Firenze;
dall’accademia fiorentina, la più grande accusa rivolta a Bembo erano lo sminuimento del
volgare argenteo e della figura di Dante da un punto di vista linguistico, e questa stessa si
mosse verso la loro rivalutazione. Alcune figure si fecero però avanti come mediatori fra la
norma bembiana e gli alti ranghi della cultura fiorentina; importante fu, ad esempio, la figura
di Benedetto Varchi, che mediò fra i due poli rimodulando le teorie bembiane: afferma Varchi
che esiste una fondamentale distinzione fra stile, quanto analizzato da Bembo, quindi
l’aspetto scritto, retorico, letterario della lingua che, come sostenuto da Bembo, doveva
esistere in un contesto atemporale, slegato dal presente e dalla lingua viva, e la lingua vera
e propria, la lingua viva, presente, soggetta a mutamenti e variazioni nel corso del tempo.
Grazie alla mediazione di Varchi, negli ambienti culturali fiorentini si cominciarono a
considerare e ad adottare le norme bembiane, che portarono alla creazione dell’Accademia
della Crusca, il tutto con l’intento di riportare Firenze allo status di città legislatrice della
lingua. Figura preminente dell’Accademia fu quella di Leonardo Salviati, ispiratore di uno dei
più grandi e fondamentali processi della nostra storia linguistica, ovvero la creazione del
Vocabolario dell’Accademia della Crusca, primo vero e proprio dizionario storiografico della
nostra lingua e di tutta l’Europa. Fu pubblicato nel 1612, e seguiva quelli che erano gli ideali
dello stesso Salviati: innanzi tutto, allargava il canone ristrettissimo imposto da Bembo,
analizzando tutti i testi fiorentini del Trecento, in quanto tutte le opere di questo periodo, e
non solo quelle di Dante, Petrarca e Boccaccio, avevano, chi più chi meno, contribuito alla
creazione della neo-lingua letteraria italiana. Vennero presi, inoltre, in considerazione i
fenomeni della lingua viva, seppur in quantità ridotta, mettendo da parte quelle forme
considerate fin troppo plebee. Il Vocabolario divenne così una monumentale cassaforte di
tutta la tradizione letteraria, linguistica e culturale della nostra lingua, realizzata con rigidità
da una equipe specializzata nel settore, la prima vera e propria forma lessicografica della
storia.

[CAPITOLO 2.3.1 - REAZIONI ALLA CRUSCA; MODERNI CONTRO ANTICHI]


Dall’equipe di realizzazione del Vocabolario venne escluso Torquato Tasso, poeta
estremamente criticato, in primis dallo stesso Salviati, per aver impiegato all’interno della
sua opera, la Gerusalemme Liberata, un linguaggio fin troppo anti-tradizionalista, ricco di
influssi piemontesi, latinismi inusuali (formidabile per temibile) e di costruzioni artificiose. Il
Tasso divenne così la figura emblema degli oppositori del sistema estremamente
tradizionalistico dell’Accademia della Crusca, fra i quali Paolo Beni, difensore degli scrittori
del Cinquecento e del Tasso. Bisogna fare quindi una considerazione: l’estrema ricerca degli
elementi tradizionali ed il rigore con il quale questi vennero imposti avevano man mano
generato una corrente diametralmente opposta rispetto a quanto fosse stato stabilito: è la
corrente del Barocco, che divenne il maggior promulgatore della polemica nei confronti
dell’Accademia, baluardo della tradizione. La grande spinta antitradizionale del Barocco
riguardava prevalentemente lo stile: venne impiegato uno stile ricco di metafore, antitesi,
bisticci, una retorica, insomma, estremamente pomposa ed elaborata, totalmente
contrapposta ai valori tradizionali. Ne conseguì una ricerca estenuante, da un punto di vista
lessicale, di termini nuovi. Esempio di ciò è l’opera l’Adone di Gian Battista Marino,
caposcuola della corrente, caratterizzato da un lessico estremamente variegato, ricco di
termini scientifici (cannone, cannocchiale, occhiali) della tradizione linguistica galileiana,
nonché termini medici e botanici. Troviamo inoltre un’esibita propensione all’impiego di
vocaboli esotici, ovvero forestierismi di natura ispanica (squadriglia) o francese (gabinetto),
nonché l’impiego di dialettalismi, latinismi e neologismi, come volatrice “colei che vola,
sovradivino, etc.

[CAPITOLO 2.3.2 - GALILEO E LA PROSA SCIENTIFICA]


A differenza delle tendenze evasive del Barocco, la prosa scientifica si sviluppa in
concomitanza con la tradizione toscana. Innovativa fu la scelta adottata da Galileo con la
documentazione dei suoi esperimenti: dopo gli esordi in latino, lingua scientifica
internazionale, decise di documentare i suoi esperimenti impiegando la lingua italiana,
questo per motivi di divulgazione e permettere così ad un più vasto pubblico in territorio
italiano di comprendere, orientandosi verso la chiarezza e l’accessibilità, spiegando termini
nuovi impiegati o riformulandoli utilizzando termini che oggi diremmo appartenevano al
lessico fondamentale, con più probabilità quindi di essere compresi. Galileo quindi domina la
coerenza logica dell’argomentazione scientifica mantenendo una forte coesione testuale.

[CAPITOLO 2.4 - RESISTENZE ALLA NORMA; SCRITTURE REGIONALI E SEMICOLTE]


L’adozione della norma nel parlato quotidiano fu sicuramente un processo complesso e
tedioso; molti sono stati i compromessi effettuati tra il nuovo sistema e quelli precedenti, in
quanto spesso la nuova norma della lingua italiana entrava in contrasto con le koinè e le
espressioni locali, in particolar modo in settori riguardanti la nomenclatura domestica e
tecnica, delle arti e dei mestieri. In generale, si poté notare che la persistenza di elementi
non appartenenti alla norma connotassero scritture di individui poco colti, che davano vita
alle cosiddette scritture semicolte. Tali realizzazioni delle scritture semicolte si
differenziavano da luogo e luogo, presentando però alcune caratteristiche comuni: - La
scarsa competenza grafica ed interpuntiva; - L’alternanza di registri diversi, da dotti a
popolari; - L’impiego di termini ad alta estensione, ovvero parole generiche (fare, cosa, etc.)
L’applicazione della norma è quindi strettamente legato al processo di alfabetizzazione di un
popolo, che deve essere tale da permettere una sostanziale differenziazione fra lingua
scritta e lingua parlata. In Italia, nel Cinquecento, l’alfabetizzazione non attecchì in modo
omogeneo in tutte le zone; ad esempio, in alcune zone fu determinante l’influsso della
Chiesa, che necessitava di fedeli alfabetizzati per la lettura di scritture devote e preghiere.
Inoltre, la crescita di un pubblico alfabetizzato comportava anche la creazione di opere “di
consumo”, come i giornali, i pronostici, i cantari.

[CAPITOLO 2.5 - USO LETTERARIO DEI DIALETTI]


L’elevazione del fiorentino da volgare a lingua letteraria nazionale faceva inevitabilmente
scadere le altre lingue presenti nel territorio italiano nel rango di dialetti. In contrapposizione
alla norma bembiana, quindi, si vennero a generare le cosiddette letterature dialettali,
caratterizzate da sperimentazioni espressionistiche basate sul plurilinguismo, in contrasto al
monolinguismo fiorentino. In particolare, fiorisce in Toscana la letteratura “rusticale”, ottenuta
tramite l’impiego di un fiorentino popolare e contadinesco; qui, gli autori di teatro utilizzavano
il contrasto linguistico dialettale in funzione comica e parodica; tant’è vero che tale concetto
diventa permeante nel teatro delle maschere. Esempio preminente di ciò è l’opera Las
Spagnolas di Calmo, dove le varie maschere sono cristallizzate in una identificazione
linguistica dialettale: Arlecchino ha il bergamasco, Pulcinella il napoletano, etc.

[CAPITOLO 2.6 - INFLUSSO IBERICO E FRANCESE DEL 500 E 600]


Nell’ambito del plurilinguismo teatrale adottato, il francese presenta una parte subalterna
rispetto allo spagnolo; la stessa Las Spagnolas di Calmo evoca il forte prestigio culturale
linguistico esercitato dalla Spagna a seguito della conquista del ducato di Milano. Nel corso
del Cinquecento, infatti, la conoscenza dello spagnolo diventa fondamentale per gli uomini
politici e di cultura, tant’è vero che vennero pubblicati diversi manuali normativi mirati
all’apprendimento della lingua spagnola per gli italiani. Una conseguenza immediata fu,
senza dubbio, l’entrata nel lessico italiano di numerose voci iberiche. Nel corso del
Cinque-Seicento in Italia, la cui lingua andava pian piano assumendo connotati di lingua di
cultura in tutta Europa, ha preminenza la lingua spagnola, preponderante rispetto a quella
francese.

[CAPITOLO 3 - PERCORSI DELL’ITALIANO E RINNOVAMENTO LINGUISTICO]


Un capitolo importante che caratterizza la storia della nostra linguistica è il percorso
d’espansione e trasformazione che l’italiano ha intrapreso tra il 600 e il 700 con cui
culminerà totalmente verso il secondo 700, in età illuminista. Questo processo di
trasformazione si configura in una vicinanza tra il rinnovamento della lingua e il
rinnovamento delle idee e della cultura che stava procedendo non solo secondo un ordine
europeo [in vista della prevalenza del francese al tempo], ma anche estraneo alla letterarietà
che l’ha sempre caratterizzata - conseguentemente la lingua si espande a fattori sempre più
variegati quali quello tecnico, scientifico, giuridico ed economico. Queste premesse sono
particolarmente importanti dato che l’italiano si trasforma, di fatto la prosa si semplifica, il
patrimonio della lingua si arricchisce di terminologie appartenenti ad ambiti e settori non
letterari e nuove discipline nascono mentre altre si trasformano come la chimica.

[CAPITOLO 3.1 - LESSICO E LESSICOGRAFIA]


Le discipline precedentemente menzionate hanno permesso l’introduzione e formazione
delle nomenclature la cui struttura era principalmente caratterizzata da termini greci e latini
[per la loro monosemia, l’univocità di significato] e questo ha permesso all’italiano di
convergere con le altre lingue europee. Il conseguente panorama lessicografico del 700 si
presenta come principalmente dominato dall'Accademia della Crusca che rappresenta il
punto di riferimento ineliminabile, ma nel 18esimo secolo vedremo un’approfondita ricerca
nello sviluppo lessicografico dell’italiano e di conseguenza escono molti dizionari dialettali,
dizionari specializzati e traduzioni di vocabolari stranieri - specialmente dal francese - con
l’eventuale idea del vocabolario universale che possa accogliere un patrimonio lessicale più
ampio di quello autorizzato.

[CAPITOLO 3.2 - SCUOLA, GIORNALI, TEATRO, MELODRAMMA]


Considerata la precedente letterarietà della lingua e l’uso prevalente nell’ambito della
scrittura, l’italiano non poteva comparare al tempo ai mezzi che conosciamo adesso per la
divulgazione attiva della lingua quali la scuola, le gazzette e i giornali che divulgano la
cultura italiana ai non specialisti e il teatro che si evolve per includere un pubblico più
stratificato e distaccato dagli stereotipi di carattere e la lingua della commedia prende uno
stile più familiare, naturale e facile - e in aggiunta includiamo la poesia per musica e il
melodramma che ne facilitarono la diffusione all’estero della lingua poetica

[CAPITOLO 3.3 - IDEE LINGUISTICHE]


Le idee sulla lingua cambiano drasticamente già nel 600, dove possiamo già intravedere
primi segnali di una crisi delle tradizioni linguistico letterarie che hanno caratterizzato la
norma toscano fiorentina del 300; di fatto si faranno strada le prime innovazioni durante il
periodo illuminista di lingua non come concezione artistico letteraria ma come entità viva di
stampo linguistico - si tratta della prima frattura aperta con la tradizione della linguistica
letteraria italiana attuata dall’Accademia della Crusca, di fatto con le teorie sensiste si
recuperano elementi come il genio retorico della lingua, la sua espressività e potenziale
linguistico che sono inseparabili dall’aspetto grammaticale. Vista l’innovazione venivano
quindi permessi stranierismi e francesismi, avvertiti come necessari per la modernizzazione
della lingua.

[CAPITOLO 3.4 - DIFFUSIONE E USI DEL FRANCESE E DELL’INGLESE]


Riguardo all’importanza della massiccia ondata di influenza del francese possiamo vedere
delle fasi progressive in cui si è affermato. Iniziamo dalla prima fase di penetrazione che
avviene dalla seconda metà del 600 ai primi del 700, la seconda che vede il primo
rinnovamento culturale dell’Illuminismo, la terza che vede le profonde trasformazioni sociali,
politiche e culturali dell’età rivoluzionaria e napoleonica e la quarta con la tanto attesa
ascesa del francese nei settori attinenti alla vita pratica, specialmente in vista del fatto che
l’italiano parlato era di scarsa competenza e gli usi flessibili allo scritto erano scarsi. Il
francese diviene quindi lingua dell’espressione e comunicazione letteraria e del parlato,
nonché delle famiglie e classi nobili e borghesi . In generale possiamo osservare delle
grandi novità in ambito delle gazzette che divulgano innovazioni e scoperte scientifiche e
tecnologiche per la pubblica utilità, in una forma di europeismo linguistico con alla base il
francese e l’inglese che non solo caratterizzano l’aspetto culturale del 700 ma anche
l’aspetto morfo lessicale dell’italiano al tempo; questa è un’età rivoluzionaria di stampo
francese che caratterizza conseguentemente anche il nuovo linguaggio politico che colorerà
il vocabolario dal punto di vista semantico e tecnico - si diffondono di sopra anche molti
francesismi a livello di competenza passiva come risultato di un’intensa opera di propaganda
con teatro, catechismi e giornali. Oltre al francese, vediamo nel corso del 700 svilupparsi un
certo interesse per l’inglese e i conseguenti anglicismi del linguaggio politico, che is
rivelarono essere calchi mediati dal francese e riferiti a istituzioni, la colonizzazione, vita dei
nativi americani, flora e fauna locale e politica; molti voci del lessico entreranno nell’italiano.

[CAPITOLO 3.5 - CONTINUITÀ E SPECIFICITÀ DELLA LINGUA POETICA]


Il richiamo al buon gusto ha portato alla conseguente richiesta di un recupero della
tradizione poetica e un rigetto della poesia barocca, ovviamente la prima in concomitanza ad
una semplicità e chiarezza proprie del classicismo razionalista; qui la lingua della poesia
approfondisce la sua distanza dalla prosa caratterizzandosi per gli usi grammaticali, artifici
retorici e le scelte lessicali nonché un grande inventario a livello di grammatica e sintassi nei
termini di troncamenti, enclisi pronominale, proclisi pronominale, ricerca dell’iperbato.

[CAPITOLO 3.6 - LINGUA, DIALETTI E NAZIONE NEL PRIMO 800]


Già nel corso del 700 e soprattutto in età illuminista vediamo, con l’affermazione del
francese, una reazione a cui consegue la necessità di una lingua unitaria che permetta il
rinnovamento linguistico e che possa costituire uno strumento di vivo di comunità dei parlanti
e ciò fu idealmente conseguito da due fonti che si distinguono in quella del purismo e del
classicismo. La direttiva purista desiderava una lingua naturale e semplice mentre quella
classista una sui valori artistici, letterari e nazionali della tradizione cinquecentesca [si fa
strada chiaramente solo con le idee romantiche ed è affrontato con risolutezza da
Alessandro Manzoni. All’inizio dell'Ottocento il moto di reazione all'influenza francese,
determina un recupero dei valori del patrimonio letterario e linguistico italiano. Si afferma "un
culto fortissimo della lingua, sentita come vincolo della nazione"]. Alessandro Manzoni
arriverà a proporre la lingua viva e parlata di Firenze, il dialetto fiorentino colto, come
strumento di unificazione linguistica nazionale.

[CAPITOLO 4.1 - MANZONI E LA RICERCA DI UNA LINGUA VIVA E INTERA]


Con Manzoni vediamo la stesura dei Promessi Sposi che corrisponde a tre conseguenti fasi
di correzione e composizione che corrispondono a tre diverse elaborazioni linguistiche sulla
lingua - partiamo dal primo Il Fermo e Lucia che va dal 1821 al 1823 e non fu pubblicato alla
prima edizione dei Promessi Sposi che va dal 1825 al 1827, definita la Ventisettana, alla
seconda edizione dei Promessi Sposi che era la definita che va dal 1840 al 1845 definita la
Quarantana. Partendo quindi dall’iniziale abbozzo del Fermo e Lucia vediamo un Manzoni
che lo inizia dopo aver abbandonato le proprie esperienze poetiche giovanili,
conseguentemente inizia ad usare la lingua della tradizione non solo nei componimenti di
gusto neoclassico come il Trionfo della Libertà ma anche negli Inni Sacri o nelle odi civili -
per esempio, l’ode del 5 Maggio dedicata alla morte di Napoleone comprende la forma nui
del siciliano per noi. procedendo al cuore narrativo dei Promessi Sposi, lui pone al centro
della narrazione personaggi popolari come Renzo, Lucia o Agnese che risultano inadeguati
se rappresentati dalla prosa ottocentesca o in particolare dalla lingua individuale di Manzoni
che univa toscano, dialetto milanese, francesismi e lombardismi in un insieme indigesto;
conseguentemente la sua prima bozza risulta carica di quell’ibridismo linguistico che si
appropria del toscano e delle parlanti dialettali per rappresentare anche meglio l’ambiente e i
personaggi della narrazione. Manzoni si trova dinanzi ad un problema della narrazione dato
che si trova a dover ricercare una lingua più unitaria per la sua composizione, una necessità
che rispecchia anche la consapevolezza del tempo che l’Italia non aveva una lingua unitaria
come nel caso del francese - quindi Manzoni, accantonata la prima bozza, si mette a lavoro
per la prima edizione dei Promessi Sposi per garantirne una maggiore uniformità linguistica
basata sulla tradizione letteraria trecentesca, eliminando i lombardismi e garantendo le
forme più vicine al toscano che era ciò che l’Italia aveva di più comune al tempo. Questa
fase di Manzoni è formalmente definita toscano milanese dato che caratterizzava la volontà
di Manzoni di arricchirsi quanto più possibile della tradizionalità del toscano attraverso autori
della scena cinque e seicentesca ma al contempo unire la sua lingua milanese e trovarne le
differenze.

Il suo viaggio a Firenze nel 1827 subito dopo l’uscita dei Promessi Sposi gli permise di
immergersi nel fiorentino e ricercare la vitalità della lingua non nei libri o vocabolari ma
nell’uso vivo di essa come elemento comunicativo di una società reale di parlanti, di fatto
ricerca in amici e conoscenti l’impatto diretto con questa fiorentinità della lingua viva
[ricordiamo Emilia Luti] - poi vedremo la sua riflessione diretta sull’uso di questo fiorentino in
concomitanza al milanese e al francese, suoi altri linguaggi di possesso, specialmente in
correlazione alle opere Sentir Messa e il Della lingua italiana iniziato dopo il 1830 dove lui
elabora in tre decenni ben 5 edizioni [definendolo un lavoro eterno]; questi sono documenti
dove lui si pone nell’ottica di una riflessione della filosofia del linguaggio del 700 e del 800
arrivando alla conclusione che fosse necessario trovare nella lingua comune ideale e
unificata il fiorentino toscano vivo di cui una parte, che rappresenterà la parte letteraria,
poteva essere usata per dare via all’unificazione così come in Francia il dialetto di Parigi ha
caratterizzato la lingua nazionale. Fatta questa premessa della sua grande riflessione
teorica, si mette all’opera per la correzione e conseguente pubblicazione della seconda
edizione dei Promessi Sposi dove l'attenzione è passata da una necessità di uniformità della
scrittura ad una necessità di unificazione sociale e nazionale; quindi a partire dal 1838 lui
avvia la correzione ma senza necessariamente aderire al suo programma - di fatto lui
cercherà più una lingua moderna che una lingua basata sul puro fiorentino, una lingua che
potesse essere scarna dei vari dialettismi o lombardismi e darle un’impronta più moderna e
in uso con gli scritti ottocenteschi, tra le correzioni vediamo l’eliminazione dei lombardismi
quindi da un zucchero a uno zucchero; l’introduzione di fiorentinismi vivi come gioco per
giuoco, move per muove, io avevo per io aveva, gote per guance ecc; l’abbassamento del
tono letterario per favorire forme più correnti come giungendo per giugnendo, cambiando per
cangiando, vedo per veggio, bambini per pargoli e piccolo per picciolo e infine l’eliminazione
di doppioni come il tra/fra lasciando solo tra per dare più uniformità. In breve vi è la ricerca
della semplicità che viene assorbita nel romanzo dagli usi dell’oralità quotidiana che
pervadono sia i dialoghi che la narrativa attraverso esclamazioni, frammentazioni, il
linguaggio dei gesti che colora la psicologia della comunicazione non verbale e così via. I
narratori posteri o coevi a Manzoni non procederanno secondo la stessa linea d’azione ma
semmai tenteranno di procedere secondo l’ibridismo che ha caratterizzato la prima bozza
dei Promessi Sposi, quindi una lontananza dal monolinguismo e la medietà espressiva sua,
nonché la marcata differenziazione tra personaggio e narratore nel proseguimento della
storia. Il miscuglio eterogeneo che vede unire dialettismi per colorare il carattere locale della
narrazione, toscanismi, forme colloquiali e arcaizzanti caratterizza autori come Niccolò
Tommaseo e Ippolito Nievo la cui scrittura si rifà effettivamente alla prima bozza dei
Promessi Sposi. Le poetiche del realismo e l’esigenza del vero durante l’età postunitaria si
porranno il problema del vero narrativo e linguistico, con la questione dialetti che
rappresentano la lingua vera e viva e l’italiano medio comune ancora poco diffuso - a cui la
soluzione sembra essere la vera finzione secondo Cletto Arrighi, cioè il tentativo di
riprodurre l’oralità rifacendosi a forme colloquiali e italianizzate o ricalcate nel proprio dialetto
ma pur sempre versanti su una base narrativa tradizionale e caratterizzerà autori, oltre a
Arrighi, del mondo regionale toscano come Giuseppe Mezzanotte o Matilde Serao che si
porranno nell’ottica di una grande sensibilità verso la realtà di un repertorio nazionale che si
fa sempre più ricco ed elaborato - affianco ai dialetti troviamo l’italiano regionale parlato da
alcuni personaggi o le commistioni stesse di dialetto o italiano regionale.

[CAPITOLO 4.2 - DOPO L'UNITÀ; SCUOLA, ITALOFONIA E DIALETTOFONIA]


Le riflessioni che abbiamo visto precedentemente da parte di Manzoni sulla vitalità del
fiorentino si rivedono e concretizzano già nelle prime edizioni del suo trattato Della lingua
italiana che è stato rielaborato più volte durante i decenni [di fatto fu denominato un lavoro
infinito], ma faranno un ritorno in un’altra opera di Manzoni denominata La Lettera a Giacinto
Carena del 1847 in cui era espressa la necessità in Italia di poter avere una lingua nazionale
che fra le varie parlate della Toscana doveva necessariamente essere il fiorentino colto.
Vent’anni dopo si ritorna all’argomento con la Relazione sull’unità della lingua e i mezzi per
diffonderla inviata personalmente a Emilio Broglio - ormai ci troviamo dinanzi ad un
Alessandro Manzoni anziano che spera ancora in età illuministica che l’Italia un giorno
possa raggiungere la tanto sperata lingua nazionale proponendo delle soluzioni affinché ciò
potesse avvenire; Alessandro proponeva di iniziare dalla scuola come mezzo divulgativo
attraverso la riforma del sistema scolastico e con la successiva aggiunta di nozioni
lessicografiche che comprendessero nel loro lemmario dei vocaboli inerenti ad un fiorentino
vivo e non scritto e letterario - ovviamente quest’ultimi accompagnati da dizionari dialettali
che includessero nel loro lemmario i vocaboli dialettali accompagnati dalla variante in lingua
italiana. Questa riflessione di Manzoni ebbe grande successo dato che furono molte le opere
lessicografiche che seguirono il suo stesso percorso come il Novo Dizionario della lingua
italiana secondo l’uso di Firenze di Emilio Broglio e il Novo Dizionario Universale della lingua
italiana che precisamente, quest’ultimo, poneva una corrispondenza fonica di ogni parola e
accompagnava ogni lemma con la sua variante in lingua ancora in uso o obsoleta; in breve
caratterizza la prima forma antecedente ai dizionari d’uso al giorno nostro. Ovviamente, oltre
al successo della propria inventiva troviamo delle critiche mosse a riguardo, in particolare da
parte di uno dei linguisti più famosi al tempo Graziano Isaia Ascoli che nella sua critica parte
già dal termine Novo [al posto del letterario Nuovo], affermando che è impossibile tentare di
mutare una situazione tanto complessa quanto quella della scena italiana che rispetto alla
Francia e alla Germania non aveva ancora acquisito la propria unità linguistica e che l’unico
modo per sovvertire questo dilemma nazionale era partire dall’alto variando il sistema
linguistico ma pur sempre eliminando le varietà dialettali e il crescente fenomeno di
analfabetismo di tutto il popolo italiano e cercare di avvicinare lo stesso popolo al linguaggio
letterario fiorentino. Ascoli aveva sicuramente ragione ma il metodo di Manzoni si mostrava il
più immediato al momento e di fatto fu attuata una riforma della scuola su impronta
fiorentina che necessitò di un totale stravolgimento delle direttive impartite agli insegnanti
che dovevano superare il dialetto e insegnare la cultura del fiorentino. Congiunta a questa
riforma troviamo le pubblicazioni di editoriali di romanzi per ragazzi che hanno non solo
carattere pedagogico ma anche divulgativo per la lingua parlata e viva - da ricordare sono
Pinocchio di Collodi e Cuore di Edmondo de Amicis ma soprattutto Collodi spicca all’occhio
dato che era autore toscano e rappresentò uno dei migliori esempi di opera editoriale post
unitaria. Il successo era assicurato dalla semplicità compositiva che lo caratterizzava
attraverso l’impiego di vocaboli e fraseologia tipica del parlato toscano sia basso che
familiare [pensiamo a modi di dire fiorentini come leggero come una foglia, legato come un
salame ecc] o di sopra forme dell'espressione colloquiale quali le frasi marcate, dislocazioni
a sinistra dell’oggetto o consecutive con valore iperbolico [sbadigliava così forte che qualche
volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi] o ripetizioni con valore intensificato [cresci,
cresci, cresci]; questa opera tanto semplificata ed immediata era comunque accostata ad
opere di stampo più tradizionale come libri scolastici o grammatiche tradizionali come la
grammatica di Giannetto - sempre un manuale redatto da Collodi che impartiva lezioni di
grammatica con l’impiego di esempi dialogici e fraseologici per dare immediatezza al
concetto grammaticale, ragion per la quale la prosa ottocentesca si rivede di molti termini del
fiorentino vivo come stradicciola per straducciola, io avevo per io aveva ecc.

Manzoni con la sua Relazione sull’unità della lingua e i mezzi per diffonderla si inserisce in
un quadro generale e socioculturale molto complesso in vista delle difficoltà che hanno
caratterizzato l’Italia post unitaria tra cui la dialettofonia predominante e l’analfabetismo, il
quale pochi anni dopo l’Unità aveva raggiunto il 70 per cento ma che, grazie ai
provvedimenti ministeriali, potè ridursi del 40 per cento già per il 1911 - si può intravedere
una grande differenza nei primi anni del 900 nel momento in cui l’italiano parlato e familiare
inizia a inglobare la popolazione dal ceto borghese in su; l’unica problematica comprende il
sud, le isole e il nord est del paese dove la dialettologia era predominante in vista di una
discontinuità con la frequentazione della scuola elementare. Noi ricordiamo che la scuola
era il punto nevralgico della riforma manzoniana che attuava delle correzioni ed esercizi
quali traduzioni attive dal dialetto all’italiano o correzioni degli scritti, ma la vera e propria fine
della dialettologia la si vedrà con l’avvento fascista che sradicherà molti esoterismi presenti
nel nostro lessico [da chaffeur passiamo ad autista, da parquet a tassellato ed epurerà le
giovani generazioni dalla malerba del dialetto. Sorprendentemente, la posizione
antidialettale del dopoguerra fu tale che già negli anni 70 si riconobbe la forza culturale e
sociolinguistica dei dialetti a seguito della loro coincidente scomparsa - quindi si cambia
tendenza e gli stessi libri di grammatica da mera elencazione di cosa fosse giusto o meno
passano a divenire manuali di riflessione linguistica e delle importanti varietà della lingua
stessa.

[CAPITOLO 4.3 - UN ITALIANO PER TUTTI]


Già dopo l’unificazione vediamo il milanese Carlo Tenca intro al 1870 descrivere l’evoluzione
degli usi linguistici [affermando che un pò alla volta l’uso porta alla lingua] e
conseguentemente l’instaurarsi di nuove abitudini dell’italofonia che vede due facce del
fenomeno - in primis l’italianizzazione del dialetto e il formarsi di italiani regionali ma
soprattutto un quadro sociolinguistico che evolve in modo tale da garantire il moltiplicarsi
delle scuole, la divulgazione di giornali, l’aumentare delle comunicazioni e commerci da
parte di varie regioni italiane e le abitudini della vita politica che hanno portato ad un
graduale sradicamento del dialetto. Tra i fattori che hanno portato a ciò ricordiamo

- [il grande fenomeno delle migrazioni interne connesse all’urbanizzazione, quindi il


crescente spostamento dalla campagna alla città che ha portato all’abbandono del
dialetto se non per uso familiare; e almeno fino alla seconda guerra mondiale
l’integrazione del dialetto avverrà su quello d’arrivo, di maggior prestigio - invece dal
secondo dopoguerra negli anni del boom economico l’italiano si fa spazio nelle
presenti generazioni successive a quelle dei migranti che possiedono solo una mera
conoscenza passiva del dialetto; successivamente il fenomeno delle migrazioni verso
l’estero tra 800 e 900 che spingono all’alfabetizzazione e apprendimento della lingua;
il sistema e apparato amministrativo centralizzato sulla lingua italiana di stampo
burocratico e giuridico che nonostante fosse più difficile da apprendere si stava
comunque espandendo anche nei ceti più bassi; il servizio militare obbligatorio che
mettendo in rapporto soldi provenienti da regioni diverse ha anche spinto verso
l'italianizzazione in vista dell’insegnamento nelle scuole militari di esso e della grande
produzione di diari e lettere al tempo dei due maggiori conflitti; e infine la stampa e le
trasmissioni di massa quali cinema, teatro e televisione che hanno permesso una
maggiore divulgazione dell’italiano standard partendo dalla radio nel 1926 e con la
televisione nel 1954 - le quali hanno anche arginato le aree più dialettali e le
problematiche d’alfabetizzazione]

In sintesi, dagli anni dell’Unità fino ad oggi si è verificata una radicale evoluzione degli usi
linguistici dato che si passa da una situazione complessa di sola dialettofonia, nei termini di
un monolinguismo preoccupante in vista della necessità di un italiano standardizzato, ad una
dialettofonia passiva all’italiano in modo da giungere al fenomeno del bilinguismo con
diglossia [ossia, la maggioranza degli italiani è composta da italofoni che hanno una
competenza di dialetto, che viene però percepito come un codice basso e usato a situazioni
e contesti limitati] - la tendenza di fatto sarà quella dell’italiano e le sue varietà regionali che
si espandono e il dialetto che viene usato con più cautela, ma questi sono pur sempre dati
molto approssimativi dato che derivano dalle autovalutazioni degli interessati allo studio.
Analizzando le varianti troviamo

- [l’italiano che si sta progressivamente insinuando sia nell’uso familiare che al di fuori
in parallelo al decentramento del dialetto che perde parlanti - questo è evidente nelle
zone Centro Nord e Nord Ovest della penisola; nel Sud, nelle Isole e nel Nord est
continuando a resistere i dialetti d’uso quotidiano e infine troviamo da una parte una
popolazione che si trova ad essere di base bilingue con un bilinguismo italiano
dialetto che spesso produce fenomeni d’alternanza di codice - quindi si parla in
dialetto a casa e con gli amici e in italiano nei contesti più formali - o di cambio di
codice, dove si passa dal dialetto all’italiano il quale può avvenire come
commutazione di codice; quindi il cambio dal dialetto all’italiano nella conversazione
o di mescolanza di codice nei termini di un insieme di dialetto ed italiano all’interno
della frase. Poi troviamo una fetta di popolazione interamente italofona che parla
quindi solo italiano o possiede una conoscenza molto passiva del dialetto - questa
proprietà cresce molto nei centri urbani e nelle nuove generazioni]

Queste linee evolutive possono cogliere solo superficialmente il fenomeno dell’espansione


dell’italiano a discapito del dialetto in una popolazione presa sotto esame che il più delle
volte non sa neanche riconoscere la differenza tra dialetto italianizzato e italiano regionale -
il dialetto italianizzato è il risultato dell’insinuarsi dell’italiano sulle parlate locali in una
reazione di superstrato derivante quindi dall’influenza della lingua dominante [l’italiano]
sovrapposta al dialetto mentre l’italiano regionale altro non è che una variante di italiano
soprattutto parlata e anche scritta che mostra codici peculiari di un’area geografica, secondo
un fenomeno opposto al superstrato che è il sostrato [essenzialmente l’italiano si afferma in
una determinata area geografica e ne acquisisce l’influenza sulla base della lingua presente
in precedenza nello stesso territorio; queste varietà sono tutt’ora presenti e vive sulla base
dell’intonazione, della pronuncia e del lessico. La presenza di un italiano standard in tutte
queste varietà individuali ha permesso la presenza di concetti o oggetti che coesistono
perfettamente come sinonimi marcati dalla diatopia [quindi dall’area geografica] o
geosinonimi - basti pensare al concetto di saltare la scuola che viene tradotto in bigiare in
Lombardia, salare in Emilia, bucare in Piemonte, far filone nel Meridione e così via. A quasi
150 anni dall’Unità l’italiano diviene lingua parlata almeno dal 90 per cento della
popolazione dopo aver vissuto come lingua prevalentemente scritta e letteraria; il risultato
non fu sicuramente la lingua omogenea ed unitaria che Manzoni aveva desiderato ma è una
lingua più variegata che frammentata, da non definirsi selvaggia ma in movimento a seguito
del ruolo della letteratura sempre meno crescente e una rapida evoluzione nel piano
sociolinguistico. Nel 900 l’italiano si evolverà sull’impronta di altre letterature secondarie
come la letteratura di consumo che caratterizzà le fondamenta dell’italiano contemporaneo.

[CAPITOLO 4.4 - IL RUOLO DEI MASS MEDIA]


I mass media hanno progressivamente acquisito sempre più spessore nel ruolo centrale di
divulgazione della lingua italiana, di fatto già dagli anni 70 si sono moltiplicati i canali di
trasmissione e divulgazione della lingua di cui ne riconosciamo l’importanza e la
responsabilità nelle dinamiche di rinnovamento della lingua contemporanea. La ragione
dietro il grande successo dei media è lo stesso che ha permesso all’italiano di progredire
come lingua viva ed è la sempre meno rilevante posizione dei testi letterari,
conseguentemente i mass media diventano i propulsori della norma linguistica per una
fascia di utenti sempre più stratificata e varia - attraverso la televisione per esempio.
Problematica però risulta essere la valutazione con la quale questi mezzi mediatici vengono
percepiti e rielaborati dai cittadini vista la grande presenza di un interscambio considerevole
tra pluralità di contenuti, registri linguistici e tipologie testuali - conseguentemente non sarà il
ruolo dei mass media quello di far riflettere sulla norma linguistica ma semmai della scuola
che è la prima sede dell’educazione linguistica e il mezzo con il quale i giovani devono
decodificare i crescenti stimoli della cultura dei media.

[CAPITOLO 4.5 - UN BILANCIO]


L’italiano che oggi impieghiamo è ben diverso da quello di 150 anni fa, ma quali sono state
le principali variazioni che hanno caratterizzato la lingua di oggi? partiamo da fenomeni di
natura strutturale, normativa e sociolinguistica:

- [si parte da un aumento sostanziale di apporti angloamericani nella nostra lingua su


cui dobbiamo aprire una parentesi - dagli anni 80 in poi furono molti i prestiti
angloamericani che hanno caratterizzato la nostra realtà linguistica e questo era
dovuto al nuovo assetto economico politico che si era andato ad instaurare nel
secondo dopoguerra; ormai i francesismi che tanto hanno caratterizzato il 700 ed
800 erano andati fuori moda e si vedono sempre più terminologie di origine inglese
come il passaggio da maquillage a make up nell’italiano, ma solo negli ultimi 35 anni
il peso della nuova terminologia inglese nella nostra lingua si fa considerevole in
concomitanza con il ruolo dell’inglese di mediatore linguistico ed internazionale. Tale
fu la portata che si vennero a creare veri e propri movimenti contro il cosiddetto
morbo inglese che aveva apparentemente colpito il lessico italiano, ma si trattava di
reazioni spropositate visto che l’inglese caratterizzava appena il 2 per cento del
nostro patrimonio lessicale e di sopra molti termini coniati dalla realtà
angloamericana erano diventati calchi - basti pensare a verbi come chattare o
scannerizzare che derivano da to chat e to scan, che sono stati soggetti a fenomeni
di mutazione endogena della nostra lingua adattandosi a quello che era il presente
sistema verbale. D’altra parte furono molti i termini importanti per la nostra lingua
quale BIOS - Basic Input Output System o ibridi linguistici come box auto o alga
killer; ma in generale è importante comprendere come la lingua sia pur sempre
un’entità viva e inevitabilmente soggetta alle influenze esterne che è sempre stata
soggetta ai forestierismi nel corso della storia [pensiamo a quelli iberici del 600,
gallici del 700 e 800], in parole come falange, golpe, macho ecc che sono tutti di
origine iberica; è importante quindi riconoscere la potenzialità della lingua ad
accogliere variazioni esterne. Oltre all’influsso inglese troviamo anche la
considerazione verso le varietà regionali soprattutto nell’orale da cui possiamo
identificare la provenienza di una determinata persona; si è sempre parlato anche di
un italiano neostandard/medio che è caratterizzato da influssi, voci e regole
grammaticali che non sono propriamente corrette ma che hanno coinvolto un’ampia
fascia di parlanti come gli usato per a lei, il che polivalente, il presente con funzione
di futuro - domani ci vediamo a Roma piuttosto che ci vedremo a Roma - o la sintassi
marcata da dislocamento a sinistra dell’oggetto. Nell’ambito delle varietà diafasiche
si sono espansi molti linguaggi settoriali come quello dell’informatica e dell’economia,
si sono creati molti linguaggi giovanili dell’italiano medio stesso, le varietà
diamesiche hanno mostrato una differenza tra variazione linguistica fra scritto e orale
quindi l’italiano trasmesso dai media e quello digitato e infine le varietà degli stranieri
che rendono l’italiano loro - italiano dei cinesi, dei filippini, dei rumeni e così via]

[CAPITOLO 4.6 - NUOVE QUESTIONI DI LINGUA]


La questione linguistica ha assunto nuovi connotati, confrontandosi sempre più decisamente
con gli usi comunicativi e sociali della lingua. Negli anni Sessanta fu aperta (dalle tesi
provocatorie di Pier Paolo Pasolini, sulla nascita di un nuovo italiano unitario e "tecnologico"
legato alla borghesia neocapitalista e industrializzata) la discussione sul ruolo della scuola e
dell'educazione linguistica, sull'analisi delle strutture dell'italiano e sulle sue tendenze
evolutive. L'incalzare di alcuni fenomeni, come la pressione dell'orale sullo scritto e
l'invadenza e il prestigio dell'angloamericano, hanno imposto ai linguisti un'attenta riflessione
sull'italiano di oggi. Nell'ultimo decennio si è manifestata l'esigenza di un "ritorno alla
scrittura"': il problema è di chiarezza comunicativa e interessa le istituzioni, il linguaggio
burocratico e amministrativo.

[CAPITOLO 4.7 - APPORTI DI ALTRE LINGUE, ITALIANO ANGLICIZZATO?]


Abbiamo visto che in passato nella nostra stora linguistica, l'apporto maggiore di elementi
stranieri è venuta dalla Francia e dal mondi iberico La campagna di autarchia linguistica del
regime trova espressione dal 1926 su periodici e quotidiani; la peculiarità della battaglia di
questi anni consiste nella continua richiesta di un intervento diretto dello Stato per reprimere
il pullulare di stranierismi che insidiano il concetto di lingua nazionale, l'idea stessa di
nazione. Dopo il 1940, con il divieto di impiegare parole straniere, furono sottoposti a
epurazione i settori maggiormente influenzati dal francese Nel secondo dopoguerra l'afflusso
di francesismi diminuisce drasticamente, per il nuovo assetto storico-politico e la sostituzione
del modello francese, con il modello angloamericano, portatore di nuovi valori economici e
sociali Negli ultimi decenni, tuttavia molte importanti voci del lessico politico ed economico
sono ricalcate sul francese, inoltre il francese ha mantenuto il suo ruolo tradizionale di
mediazione linguistica e culturale: sia dall'inglese, sia da altre lingue. L'influsso dello
spagnolo è stato piuttosto marginale già a partire dal secondo Seicento: nel Settecento
entrano stabilmente in italiano solo una trentina di voci (cioccolato, sigaro, puntiglioso ecc),
nell'Ottocento una novantina appartenenti a vari campi semantici. L'apporto iberico si
rafforza nuovamente nel Novecento, con 'intensificarsi dei rapporti politici, economici e
culturali. L'influsso massiccio dell'inglese è recente e si può datare dagli anni Settanta del
Novecento. Solo negli ultimi trenta- trentacinque anni è cambiato il peso
dell'angloamericano, in concomitanza con il suo prestigio globalizzato e con la sua
prevalenza come lingua di studio. 'infiltrazione dell'inglese riguarda più le varietà diafasiche
(in particolare le lingue speciali, come quelle dell'economia, dell'informatica, dello sport, della
medicina) che la lingua d'uso. Il rischio però è che dall’ambito specialistico gli anglicismi
slittino nell'uso comune. A partire dagli anni Novanta cresce notevolmente la formazione di
parole "miste", "cioè di derivati e composti con formanti inglesi". Altri aspetti che
caratterizzano l'anglicismo in italiano sono il frequente uso di ibridi (sintagmi formati da un
elemento di italiano e uno di inglese come baby pensionato, box auto ecc) e l'accorgimento
dei composti inglesi (soap per soapopera).

[CAPITOLO 4.8 - ITALIANO; UNA LINGUA PER TUTTI]


La fortuna all'estero della lingua italiana sempre stata collegata, soprattutto alla forza
espansiva della sua tradizione culturale, letteraria, artistica, musicale. I prestiti italiani nel
lessico di altre lingue (italianismi) sono stati molto consistenti nei seguenti settori della
musica e dell'opera. Oggi l'italiano è ancora dotato di una grande forza di attrazione e il suo
studio è in espansione in tutti i paesi, anzi risulta al quarto o al quinto posto in molte nazioni.
Sono emersi, accanto a quelli culturali tradizionali, altri fattori di attrattività della lingua
italiana, in particolare il sistema produttivo italiano, i rapporti economici e culturali con
l'estero, soprattutto in relazione ai settori della moda e del design, del cinema, della canzone
e dell’enogastronomia. L'immagine dell'Italia che i mezzi di comunicazione di massa hanno
diffuso, quella di un paese non solo ricco di attrattive naturali o artistiche, ma nel quale si è
affermato e generalizzato uno stile di vita particolarmente attraente.

[CAPITOLO 5.1 - IL LINGUAGGIO POETICO; CRISI E RINNOVAMENTO]


Come abbiamo visto fino ad ora, la lingua poetica sino all’800 ha detenuto una certa linearità
e continuità secolare fondata sulla specificità della sua grammatica e del suo lessico - questi
caratteri tradizionali però andranno a scontrarsi con le esigenze del Realismo durante l’età
romantica e il risultato diretto di ciò sarà una forma di ibridismo con una compresenza del
vecchio e del nuovo; nei termini della preservazione di elementi tradizionali come -nol per
non lo, -immago per immagine o -guardar per guardarono, un certo persistere delle forme
del bagaglio tradizionale nobile quali arabo legume per il caffè e il tutto accostato a elementi
prosaici e quotidiani. Un esempio di questa compresenza saranno le prime due strofe della
Clarina di Berchet

- [SOTTO I PIOPPI DELLA DORA, DOVE L’ONDA È PIÙ ROMITA, OGNI DI, SU
L’ULTIMA ORA, S'ODE UN SUON DI DOLOR; E CLARINA, A CUI LA VITA
RONDON L’ANSIE DELL’AMOR. POVERETTA! DI GISMONDO PIANGE I STENTI,
A LUI SOL PENSA. FUGGITIVO, VAGABONDO, PENA IL MISERO I SUOI DI,
MENTRE ASSISO A REGAL MENSA RIDE IL VIL CHE LO TRADÌ]

Questo elemento di continuità della tradizione grammaticale della poetica e la permanenza


dell’ibridismo visto precedentemente persiste anche negli autori tardo ottocenteschi,
soprattutto in coloro che si facevano della precisione dietro al metro e le tematiche come
Carducci. Ma saranno gli autori della Scapigliatura a rinnovare davvero l’ambito tematico
immettendo elementi bizzarri ma al contempo quotidiani e da qui si apre la creazione di
neoformazioni e tecnicismi inerenti alla settorializzazione della loro realtà circostante; le
principali forme linguistiche e strategie che vediamo sono voci alloglotte in posizione di rima,
la persistenza di arcaismi come arbore o alma in congiunzione alle loro rispettive forme
recenti quali albero e anima e infine una sintassi ben più dialogica e discorsiva; il parlato si
insinua nei versi e viene attualizzata la dissoluzione dal tradizionale monolinguismo che ha
caratterizzato lo stampo petrarchesco e si dissipa la differenziazione tra poesia e prosa.
Citando alcuni autori, iniziamo con Giovanni Pascoli che nelle Myricae ha dimostrato una
sintassi lineare e paratattica [fondata sulla paratassi appunto, come nell’esempio di parlava
e rideva opposta all’ipotassi parlando, rideva] con densa punteggiatura e un andamento
colloquiale che muterà il successivo decorso della poesia, ma l’elemento più noto è l’utilizzo
dell’onomatopea in chiave fonosimbolica ed evocativa nei termini della riproduzione di suoni
animali e rumori [basti pensare al chiù in L’Assiuolo, il tac tac di capinere, un tin tin di
pettirossi in La Pania], nonché l’impiego di dialettismi, voci colloquiali e tecnicismi della
botanica, dell’agricoltura e della zoologia - il tutto in una dimensione innovativa nonostante
Pascoli stesso preservasse anche lessemi poetici come -divo per divino o -oblio per
dimenticanza. Nel suo poemetto Italy del 1904 utilizza le parlate italo americane degli
emigrati lucchesi facendo rimare tra loro parole italiane con parole straniere.

Diversa è invece l’esperienza di Gabriele D’Annunzio che, in direzione opposta alla


quotidianità e idea di realismo, cercherà di aggiungere i primi influssi della ricerca della
lingua alta - di fatto lui porrà l’accento verso terminologie speciali di sapore arcaico e raro
come -coriandro per coriandolo o -appio per sedano, nonché varianti fonetiche arcaiche in
natura come -laude per lode e -drama per dramma. Sono terminologie desunte spesso dai
testi trecenteschi della famosa era nobile delle tre corone per potere creare un connubio
poetico lessicale ricchissimo ma al contempo impreziosito dalle novità tematiche e metriche
del tempo, basti pensare alla sua ricerca attenta nei verbi parasintetici di stampo dantesco
formati da aggettivi o nomi in origine [come s’ingrigia, s’inazzura, s’inciela]. Nel suo Alcyone
che rappresenta il punto focale della sua lirica, D’Annunzio si rifà dei precedentemente
menzionati effetti fonici e fonosimbolici attraverso le sue strutture verbali [sciacqua,
sciaborda, scroscia, schiocca, accorda, discorda; esempio pratico la frase che detta Fresche
le mie parole ne la sera, te sien come il fruscio che fan le foglie nel La Sera Fiesolana]. Una
volta confrontati questi autori e le loro attitudini riguardo il connubio tra vecchio e nuovo e le
esigenze stilistiche e linguistiche dell’età del Realismo, possiamo connotare come nel primo
900 viene sollecitato un confronto reale tra la realtà e la frattura della tradizione in direzione
opposta all’attitudine dannunziana di rifarsi all’estetismo e al ritorno delle forme nobili della
poesia e del suo bagaglio lessicale; di fatto gli autori del crepuscolarismo vorranno attuare
un vero e proprio sliricamento della poesia che viene abbassata al livello della prosa
impiegando quindi un lessico ripetitivo e colloquiale, frammentato e spesso
uniproposizionale con una propensione viva ai segnali discorsivi - anche se verranno
comunque implementati ancora, per poco, gli elementi grammaticali aulici quali -ei per egli, -
facean o -spirto per attuare un contrasto con la prosaicità dei versi; di fatto questi cultismi
lessicali erano posti in sede di rima con un effetto palesemente ironico della rima dissonante
come nell’esempio di divino/intestino, Nietzsche/camicie in vista di un influsso che esercitò
grande influenza al tempo. Quindi, abbiamo specificato che questi strumenti e mezzi
linguistici sarebbero esistiti per poco e di fatto, se i crepuscolari innovano il repertorio
linguistico pur mantenendo i contatti con la tradizione - invece l’avanguardia futurista vorrà
tagliare completamente i ponti con la tradizione a favore della forza rivoluzionaria delle arti
figurative e musicali e del repertorio industriale e tecnologico, figurativamente l’era delle
nuove tecnologie, dell’automobile, dell'aeroplano e dell’elettricità; conseguentemente la
nuova poesia a carico della figura rappresentativa di Marinetti [nel Manifesto tecnico della
letteratura futurista del 1912] vuole sovvertire la lingua attraverso l’eliminazione della
punteggiatura, l’anarchia della metrica e della sintassi, l’introduzione di segni matematici a
scopo grammaticale, caratteri grafici particolari, uso di elementi nominali senza verbo o il
verbo in mera forma dell’infinito e l’unione di due parole in analogia senza nessi [come
uomo-torpediniera]. Questa forza culturale lascerà il segno nelle successive generazioni
sperimentali poetiche.

[CAPITOLO 5.2 - SPERIMENTALISMO ED ESPRESSIONISMO POETICO]


Non saranno però i crepuscolari oppure i futuristi ad attuare una vera e propria riforma della
nuova lingua poetica novecentesca, ma semmai i poeti della rivista fiorentina La Voce dal
1908 al 1916 - i quali rifiutano sia la tradizione che la medietà linguistica di una ricerca
espressiva personale; di fatto le caratteristiche principali di questi poeti, di cui ricordiamo per
esempio Clemente Rebora, è la propensione e vivace attinenza allo sperimentalismo.
L’espressionismo è coniato in ambito linguistico come una deviazione della norma attraverso
elementi stilistico linguistici quali sostantivi deverbali con suffisso 0 come rispecchio,
spalanco, trabocco; verbi parasintetici quali s’inombrano, metafore accorciate sorrette dal di
come pupille d’eclissi e d’assenzio e spostamenti grammaticali quali il passaggio da verbi
intransitivi a verbi transitivi [il corso pullula luci, tu sgretoli giù ecc]. La vera e propria ondata
di espressionismo e sperimentalismo l’avremo con Giuseppe Ungaretti che ridurrà al minimo
l’ossatura e impalcatura della sintassi della lingua poetica rafforzando semmai la
componente semantica delle analogie e le arditezze grammaticali che reinventano il valore
delle parole [come il limpido stupore dell’immensità, ci vendemmia il sole] e così avremo già
un primo esempio pratico della specificità della lingua poetica di questo tempo, che però nel
secondo Ungaretti avrà caratteri meno sperimentali e più incentrati sulla compostezza finale
e uniformità stilistica - tale cambiamento sarà influenzato in parte dal programma espresso
da Vincenzo Cardarelli nella sua Ronda dove esprime la volontà di voler diffidare dagli
sperimentalismi e fare ritorno alla tradizione nazionale [essere moderni alla maniera italiana,
senza spatriarci come diceva lui]. La grammatica di questa nuova poesia è fissata
sull’ermetismo [di cui ricordiamo poeti quali Salvatore Quasimodo] che è un movimento che
ricercava l’autonomia della parola della poesia nei termini di una fuga dal presente,
codificando nella lingua una certa astrazione e allusività con fenomeni ben riconoscibili quali
l'ellissi dell’articolo, il plurale per il singolare, l’uso polivalente di di, a, in, su e l’attacco con e,
ma e molti altri; ma Eugenio Montale differenzierà dagli altri nello spettro di questo
sperimentalismo attraverso un plurilinguismo lessicale attuato tramite il passaggio dalla
lingua rara e letteraria [richiamo diretto alla tradizione dantesca, pascoliana e dannunziana]
al tecnicismo, lingua colloquiale, dialetto ligure e stranierismo che ha colorato nella sua
ultima stagione poetica un registro colloquiale di base che viene ironizzato con l’uso di
stereotipi.

[CAPITOLO 5.3 - UN LINGUAGGIO POETICO MEDIO; ADESIONI E RIFIUTI]


La poesia novecentesca è attraversata da una caratteristica di media colloquialità da autori
come Umberto Saba in cui sono presenti accanto al lessico quotidiano anche relitti poetici
tradizionali [come per le voci natia, rimembranza o tedio] a Cesare Pavese che introduce
tratti dell’italiano parlato e della fascia popolare; ma nel secondo dopoguerra vediamo, con
l'affacciarsi del Neorealismo, una riduzione del precedente influsso ermetico e una maggiore
predisposizione a considerare una lingua poetica accessibile - autori come Paolo Pasolini o
Giorgio Caproni insieme ad altri si confronteranno, con motivazioni differenti, per poter
rendere l’italiano più accessibile attraverso registri parlati ed informali; di fatto negli ultimi
decenni l’italiano diviene da una parte la lingua di tutti mentre la lingua poetica cerca di
incorporare elementi dell’italiano parlato e della dialogicità con la sua diversità appena
segnata dalla strutturalizzazione metrica e ritmico, attraverso l’uso delle inversioni in ambito
sintattico. A questa crescente curvatura vedremo l’opposizione di raffinate sperimentazioni
da parte di Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto che segnano un distacco, tale distacco si
traduce nella destrutturalizzazione della sintassi per arrivare ad una inventiva lessicale, al
plurilinguismo e alla commistione dissacratoria di elementi colti e colloquiali, introduzione di
stranierismi e linguaggi settoriali o dei media. Questa grande inventiva ci fa capire che
anche l’impiego del dialetto nella poesia può rappresentare uno strumento valido e di alta
espressività letteraria in alternativa ad una lingua media e banale a tratti - un esempio è la
produzione di Franco Loi che affianca al milanese della letteratura dialettale le varietà basse
e popolari per far coesistere stranierismi, neoformazioni e voci arcaiche.

[CAPITOLO 5.4 - IL LINGUAGGIO DELLA PROSA NARRATIVA]


Prima di procedere alla successiva narrazione del passaggio dell’italiano da lingua
regionalizzata a lingua media è importante delineare le tendenze del momento,a cui sono
associate delle soluzioni espressive diverse - le quali possono coesistere in uno stesso
autore o essere correlate ad un’idea di rinnovamento o sovvertimento degli schemi narrativi
tradizionali. Noi abbiamo

- [una linea centrale che rappresenta l’adesione all’italiano medio ancora in formazione
durante l’800 e il 900 per poi divenire realtà sempre più comune a partire dal
secondo dopoguerra; e poi una linea che rifiuta la medietà della lingua per
promuovere invece un piano più alto di essa anche attraverso le idee di
espressionismo e sperimentalismo che si rifanno di ingegni linguistici quali i dialetti,
le varietà regionali fino a scendere alle varietà basse del repertorio]

Più avanti vedremo la storia di questa trasformazione, ovviamente non per creare un canone
o inquadrare una storia ben più ampia di quello che viene riportato.

[CAPITOLO 5.4.1 - DA LINGUA REGIONALIZZATA A LINGUA MEDIA]


Dopo l’influenza di Manzoni, mentre la narrativa ispirata al naturalismo continua ad essere
caratterizzata da una certa eterogeneità saranno solo i migliori veristi siciliani del tempo
quali Giovanni Verga e Federico De Roberto ad arrivare ad inventare una vera e propria
medietà linguistica moderna, iniziando con il ravvicinamento della lingua parlata allo scritto -
ovviamente con tecniche e modalità individuali e spesso un faticoso lavoro di rielaborazione
e riscrittura che elimina nel processo le punte linguistiche più locali e regionalizzate quali i
toscanismi, i dialettismi e le forme letterarie auliche fin troppo vistose. Verga
specificatamente, nel suo capolavoro dei Malavoglia del 1881, evidenzia due tecniche
narrative e stilistiche fondamentali per la successiva realizzazione della lingua neutra e
media, ossia la poetica dell’impersonalità e l’occultamento dell’autore nella narrazione che
permette di creare una lingua già più omogenea e di stampo colloquiale; in una direzione
ben opposta al rigido monolinguismo di Manzoni ispirato al primo fiorentino trecentesco. In
questa formula i sicilianismi sono ben pochi e trasformati, quindi italianizzati in proverbi
come [chi nuota e chi va a fondo, a buon cavallo non gli manca la sella e così via, i primi
veicoli della cultura popolare]. Questi sicilianismi precedentemente menzionati vengono
semmai mimetizzati nel tessuto linguistico che è improntato di un registro semi colto e
popolare ottenuto grazie alla libertà morfosintattica, che si rivede sia nell’uso di ci [ed ella ci
aveva la bocca amara], di dislocazioni con ripresa pronominale [il pesce bisogna darlo per
l’anima dei morti] e quello più importante e significativo, che al contempo ha suscitato le
critiche dei contemporanei ed è l’uso polivalente del che connettivo [che ci andate a fare;
dimenava il capo che pareva una campana ecc]. Detti questi strumenti linguistici, dobbiamo
analizzare il vero movente della libertà morfosintattica di una lingua media e comune ai
parlanti, ossia la tecnica del discorso indiretto libero che da uniformità della lingua ma allo
stesso tempo un valore di polifonia linguistica - è una tecnica che permette di passare dalla
voce del narratore a quella del personaggio senza segnali introduttivi; conseguentemente si
sovrappongono. Verga così da spazio al punto di vista dei personaggi [la gente diceva che
Lia era andata a stare con Don Michele, già i Malavoglia non avevano più niente da perdere
e Don Michele almeno le avrebbe dato del pane].

Il discorso libero indiretto è uno strumento stilistico sintattico che Verga utilizzerà anche nel
suo successivo lavoro, Il Mastro Don Gesualdo, dove lo scrittore mette a punto un ulteriore
procedimento espressivo che è la scomposizione analitica della tematica espressa dalla
proposizione principale, ricorrendo quindi allo stile nominale [c’era donna Giuseppina Alosi,
carica di gioie; c’era il marchese Limoli, con la faccia e la parrucca del secolo scorso e così
via]; questa tecnica sarà largamente impiegata ed utilizzata dalla narrativa novecentesca, si
tratta fondamentalmente di uno strumento stilistico sintattico che si rivede anche delle
influenze della psicoanalisi freudiana in vista della dimensione del monologo interiore,
nonché elementi affini alla produzione dell’Ulisse di James Joyce. Successivamente a
Verga, sarà Luigi Pirandello con il suo Il Fu Mattia Pascal del 1904 a sperimentare nuove
tecniche narrative ed espressive cercando ancora di più di allontanarsi dalla
regionalizzazione della lingua marcata geograficamente e socialmente, per la ricerca di una
lingua neutra che sia opposta agli sperimentalismi stilizzati ed estetizzanti di D’Annunzio - in
un insieme linguistico intessuto di monologhi interiori, una forma del parlato scritto e moduli
dell’oralità [naturalmente caratterizzanti di interrogative, ripetizioni, esclamative, sintassi] che
Pirandello naturalmente usa nel suo teatro. Lui prosegue con questa scelta anche nella
traduzione in italiano nel 1928 della sua commedia Liolà, originariamente in siciliano
d’Agrigento, per offrire un’opzione deregionalizzata ma vivificata comunque dal parlato; oltre
a Pirandello anche Svevo sarà protagonista di questa dottrina di pensiero sull’unificazione
della lingua come neutra e slegata dalle implicazioni della mera localizzazione dei dialetti,
soprattutto in vista della sua posizione di autore di confine che possiede l’anima viva dei
dialetto e del tedesco, in contrapposizione alla natura più libresca dell’italiano - le quali gli
hanno permesso di avere una scrittura tendente al colloquiale e al quotidiano che, seppur
composita, ha ricevuto la critica dei contemporanei che hanno accusato Svevo di scrivere
male; viste le incertezze date dall’interferenza del tedesco con il dialetto come da quartierino
ad appartamento, è male abbastanza per dire fa male, usi impropri delle preposizione come
in rinunciava di levarla e un generale uso sbagliato di ausiliari, tempi e modi verbali.
Nonostante queste incertezze linguistiche Svevo non si è mai fermato dal sperimentare un
profondo rinnovamento della scrittura narrativa a partire dai suoi romanzi Una Vita e Senilità,
nonché il più significativo di essi che è stato non solo caratterizzato da queste peculiarità
testuali e novità linguistiche e stilistiche ma anche dal grande influsso sulla psicanalisi nella
Coscienza di Zeno del 1923. In sintesi, vediamo in questo periodo un progetto ben
riconoscibile della lingua narrativa media e uniforme non segnata da particolarità o
specificità geografiche, locali o sociali e come delineava Alberto Moravia nel suo primo
romanzo Gli Indifferenti del 1929 - lui ritrae in modo negativo l’ambiente e la psicologia della
classe borghese; ma in generale il lessico di questo tempo è ricco ma non ricercato, ma
ricco di aggettivizzazioni quali un disgusto meschino e fastidioso, un sorriso goffo e buffo ecc
mentre la sintassi è ben più semplificata, caratterizzata da frasi brevi e il frequente ricorso di
strutture nominali prive di verbo [il cielo era grigio, poca gente passava, una automobile,
ville, giardini ecc in questa consecuzione di nomi e sostantivi]

A questa medietà caratterizzata dall’assorbimento della lingua parlata nello scritto vediamo
una consecutiva opposizione da parte di molti scrittori verso il dialetto che lo rifiutano,
nonostante fosse mezzo espressivo privilegiato nella narrativa del dopoguerra di ispirazione
neorealista. Un esempio pratico della volontà di voler superare il dialetto è espressa da
Cesare Pavese nel suo diario Il Mestiere di vivere dove afferma che il dialetto ormai è sotto
storia, bisogna correre il rischio di utilizzare la lingua ed elaborare in successione un gusto,
uno stile e una retorica; le scelte di Pavese e Vittorini saranno anche influenzate da modelli
di narrativa americana di cui furono traduttori, la lingua di Conversazione in Sicilia del 1938
preservava un’aura aulica e simbolica di cui è composto interamente il romanzo ma allo
stesso tempo erano presenti brevi dialoghi con rapidi scambi di battute, o alla dialettalità che
caratterizza i Paesi Tuoi vediamo subentrare un italiano colloquiale e andamento sintattico
frammentato. Similmente a loro vediamo un’ulteriore serie di autori che ricercano la stessa
semplicità della lingua contro l’artificiosità e ingegno della lingua dialettale e saranno autori
noti quali Natalia Ginzburg Giorgio Bassani, specialmente la Ginzburg nel suo Lessico
Famigliare cercherà quella semplicità e omogeneità stilistica di una sintassi scarna e
sintetica, elementare ed essenziale; quindi un allontanamento dalla letterarietà dell’italiano
per ricercare la banalità e immediatezza della lingua colloquiale [come nelle espressioni a lui
gli piacciono tanto i preti; mia mamma, le piacevano i bambini], quindi strumenti linguistici
portati a rappresentare una lingua secca e immediata, quanto più asciutta possibile, che
avesse lo stesso impatto di uno schiaffo. Nel 1963 vengono pubblicati La Giornata di uno
scrutatore di Italo Calvino e la Tregua di Primo Levi che sono entrambi linguisticamente
importanti per la scrittura narrativa dell’italiano e il suo destino nella penisola; entrambi si
immettono nella linearità sintattica e medietà del tessuto linguistico del tempo, adottando le
classiche caratteristiche di esso quali i tratti morfosintattici del neostandard [lui, lei, loro
soggetto, gli al posto di le] e l’uso di terminologie del linguaggio tecnico e scientifico per
concretezza e precisione; questa ricerca però continuerà anche in età contemporanea
portando però a risultati stilisticamente originali citando Veronesi e De Carlo che però
peccano di banalità sciatteria espressiva ma gli stereotipi utilizzati e la correlazione alla
letteratura di consumo hanno permesso un successo immediato - ne sono esempio gli autori
più recenti della nostra contemporaneità come Federico Moccia nel suo Ho Voglia di Te o
Scusa ma ti chiamo amore del 2007. Lui nei suoi romanzi recupera molti trattati della
narrativa rosa attualizzandoli per un pubblico fortemente influenzato dalla televisione, quindi
nella base molto vicino al parlato giovanile [la frequenza di espressioni come gaggio, una
cifra, fichissimo ecc] che però preserva comunque dei lessemi della tradizione liricheggiante
[nuvole tinte di rosa si lasciano attraversare]

[CAPITOLO 5.4.2 - OLTRE LA LINGUA MEDIA]


La medietà espressiva della lingua si è vista dinanzi a molte avversioni radicali da parte
delle avanguardie novecentesche - dal futurismo alla neoavanguardia del cosiddetto gruppo
63. Già all’inizio del futurismo [inizialmente con il primo manifesto marinettiano del 1909 e
poi nel 1912 con il Manifesto tecnico della letteratura futurista] vediamo un’avversione verso
la sintassi e si promuoveva l’utilizzo di parole libere senza nessun legame periodale o
frasale e richiedeva l’uso di neoformazioni e delle più disparate forme di materiali linguistici e
stili affini [questa rivoluzione artistica e letteraria del futurismo si espanderà nell’uso
gastronomico attraverso termini quali bocconi simultanei e cangianti; nelle neoformazioni
semantiche come bevanda dinamica o i nuovi formati in generale come aeropietanza o
polibibita, per non parlare delle parole composte svegliastomaco. In realtà il fattore più
sorprendente di questa età novecentesca è il graduale recupero programmatico della
letterarietà; in tutto il nostro iter e specialmente in ricordo al destino della poesia, D’Annunzio
si posiziona isolatamente come unico caso che desiderava attivamente ricercare una lingua
alta e colta, come nel suo Il Piacere del 1889 dove prende le distanze dalla medietà della
lingua per appunto tentare di avere una lingua ricercata e intessuta di termini non comuni,
diversi dal quotidiano e risultato di un’attenta ispezione del vocabolario. D’Annunzio adotta
molte varianti dotte o anticheggianti come -delo per dello, -su le per sulle, imagine, dubio ecc
nell’insieme generale di una adozione di un grande gusto estetizzante per il lessico ma
anche per la punteggiatura e il ritmo musicale; la novità con questo autore però si vedrà con
le Faville del Maglio in cui cercherà di creare una nuova prosa volutamente frammentaria ma
non meno ricercata, bisogna quindi riconoscerne la modernità; altra nota menzione
comprende il Notturno caratterizzato proprio dalla sintassi frammentata e paratattica che
avrà molta fortuna nella prosa del 900. In sintesi, vediamo una ricerca della lingua narrativa
lontana dall’italiano medio che accomuna molti narratori e autori quali quelli della Voce, della
Ronda fino a narratori recenti come Sciascia o Bufalino - quest’ultimo specificatamente con il
romanzo Diceria dell’untore del 1987 opera un’azione di favoreggiamento dell’architettura
sintattica complessa, un’impronta di letterarietà e voci non comuni come -chiarìa per
chiarore o -prillare per girare nonché invenzioni vere e proprie come incantesimarsi per dire
incantarsi o bambinamente per indicare un atteggiamento bambinesco; invece dall'altra
parte la corrente espressivista si rifà di un grande plurilinguismo e multilinguismo che già da
fine 800 era presente e contrastava il monolinguismo manzoniano basato sul fiorentino, un
plurilinguismo che si manifesta in una lingua pur sempre ricercata e composita - come negli
autori Giovanni Faldella o Vittorio Imbriani che creano sulla tavolozza linguistica un grande
connubio e insieme di registri e materiali diversi uniti col fine di farli urtare tra di loro; in breve
la tradizione novecentesca dell’espressionismo prezioso desidera combattere l’appiattimento
della lingua e il naturalismo per poter eradicare la lingua banale e semplificata. Esempi di
espressionismo e multilinguismo possono essere da una parte Riccardo Bacchelli che con il
suo Il mulino del Po pur evitando la poliedrica inventiva linguistica desidera rompere nel suo
spettro i margini della letterarietà o Elsa Morante che spicca in Menzogna e Sortilegio con
una grande ricchezza linguistica pur sempre mantenendo una certa letterarietà alta. Per
quanto riguarda il discorso dei dialetti qui bisogna ricordare la volontà di rappresentare o
meno il reale e il mondo popolare della penisola, perciò si configura in modo diverso per
ogni esigenza - in concomitanza con l’ascesa dell’italiano come lingua della anzione la
narrativa d’ispirazione neorealista del secondo dopoguerra attinge a molte realtà dialettali e
regionali mentre si passa dall'italiano stesso a varianti più basse e popolari per operare una
frattura ideologica; sarà però Italo Calvino a delineare il neorealismo nella prefazione a Il
Sentiero dei nidi di ragno del 1964 [dove enuncia che il neorealismo è un insieme di voci
periferiche a seguito della scoperta di diverse Italie o Italie inedite alla letterarietà. Se non vi
fossero stati i dialettali e le varietà regionali da far impastare e lievitare nell’impasto della
lingua letteraria, non avremmo avuto il neorealismo. La caratterizzazione e varietà locali non
dovevano rappresentare la verità regionale del 800 ma semmai colorare o dare sapore di
verità ad una rappresentazione che riguarda tutto il mondo - come la provincia americana
degli scrittori degli anni 30 che rimproveravano noi d’essere allievi diretti o indiretti. In sintesi,
il ritmo, lo stile e il linguaggio sono importanti per noi per rappresentare il realismo che
doveva essere distante dal naturalismo grazie ad un triangolo formato da i Malavoglia,
Conversazione in Sicilia e Paesi tuoi sulla base di un proprio lessico locale e del proprio
paesaggio]

Con il progredire del tempo dell’ascesa diretta dell’italiano come lingua d’uso parlato, il
dialetto può diventare da una parte una ricerca memoriale e ricreazione mitica come nei
primi romanzi di Cesare Pavese e dell’altra può continuare ad essere riserva d’espressività
per la narrativa italiana recente come in Silvia Ballestra o Camilleri che nel suo fortunato
ciclo giallo del commissario Montalbano usa dei richiami al dialetto siciliano, slittando
dall’effetto mimetico alla deformazione ironica e parodistica. invece, le varianti dialettali
giovanili sono mezzi di ribellione per autori come Tondelli che ha ispirato una generazione di
autori cannibali quali Aldo Nove o Niccolò Ammaniti che si ispirano al pulp americano
[essenzialmente Quentin Tarantino] che all’apparenza può sembrare richiamare la letteratura
più bassa dell’industria di consumo ma in realtà è una narrativa molto consapevole che
miscela leggibilità, ironia, patetismo, horror e comicità. Noi diciamo cannibali e lingua
cannibale perché pesca i suoi materiali oltre che nel parlato giovanile, dialettale e delle
varietà basse anche nelle lingue speciali e alte o nei media [basti pensare al parlato
cinematografico e delle fiction americane o la musica rock] - d’altronde questi sono i nuovi
modelli e protagonisti della linguistica contemporanea.

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