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L’italiano e le sue varietà.

L’italiano, come tutte le lingue storico-naturali, si presenta in forme diverse a seconda delle varie modalità
con cui ne possiamo fare uso. La nostra lingua non è solo quella ereditata da una secolare tradizione
letteraria, codificata nelle grammatiche e insegnata nelle scuole e agli stranieri, che si denomina
variamente come ITALIANO STANDARD, ITALIANO COMUNE o ITALIANO SENZA AGGETTIVI.

L’italiano standard si pone come la varietà di maggior prestigio e inimitabile punto di riferimento per capire
le altre multiformi manifestazioni nella quale si materializza la nostra lingua.

Le varietà dell’italiano contemporaneo dipendono da cinque fondamentali parametri:

1. Diamesia: il mutamento della lingua secondo il mezzo fisico impiegato;


2. Diastratia: la variazione legata dalle condizioni sociali dell’utente;
3. Diafasia: la variazione che dipende dalla situazione comunicativa;
4. Diacronia: l’evoluzione della lingua nel tempo;
5. Diatopia: i mutamenti della lingua nello spazio.

Il repertorio linguistico dell’Italia contemporanea include anche i dialetti e le lingue alloglotte e le lingue
immigrate. In alcune parti dell’ialia esistono repertori regionali molto particolari. Per esempio, in Valle
D’Aosta esiste un sostanziale bilinguismo tra italiano e francese. Il repertorio linguistico individuale è
l’insieme delle varietà di lingua usate da una singola persona.

La diamesia:

la diamesia indica in prima approssimazione le due fondamentali varietà tra scritto e parlato i quali si
differenziano principalmente per il canale di trasmissione.

La scrittura consente una progettazione, una possibilità di elaborare il testo, di correggerlo e riformularlo;
anche nel parlato vi è una possibilità di riformulazione ma a differenza dello scritto non si può cancellare
quello che è stato enunciato in precedenza.

L’oralità si avvale con larghezza dei mezzi prosodici e dei tratti paralinguistici; la scrittura può rappresentare
i primi attraverso la punteggiatura. Fra scrittura e parlato è molto diversa la condizione del destinatario: chi
ha sott’ occhio un testo scritto può essere ripercorso a ritroso, riesaminarlo e approfondire la sua
comprensione.

La distratia:

con distratia intendiamo la varione determinata da fattori di tipo sociale, correlata allo status
socioeconomico di chi usa la lingua.

Per la linguistica le variabili pertinenti sono costituite dall’incrocio fra indicatori di vario tipo, economici ma
anche culturali dall’altro: l’istruzione scolastica, il tipo di occupazione o di attività lavorativa, la
consuetudine alla lettura. Su queste basi si distingueranno:

1. le persone più acculturate;


2. la classe dotata di minor dimestichezza con la sfera culturale, con una competenza attiva o solo
dialettale e del cosiddetto italiano popolare;
3. i ceti che si collocano in una fascia intermedia, portatori di varietà vicine allo standard ma
influenzate da elementi tipici del parlato, da popolarismi, da origini dialettali.

Si aggiungerà che si possono iscrivere in un concetto di distratia anche le variazioni linguistiche legate al
sesso e all’età.
Si è osservato che le donne sono più propense a far proprie le varianti più rispettose della norma e di
maggior prestigio mentre gli uomini sono più inclini alle imprecazioni, all’uso di volgarità.

Per la variabile legata all’età, si è individuata una lingua particolare nell’espressione dei giovani.

La diafasia:

la diafasia individua le varietà della lingua determinate dalla situazione comunicativa. Faremo uso di una
scrittura diversa a seconda che siamo impegnati in una tema scolastico o una tesi universitario, in una
lettera confidenziale a un biglietto di auguri; e nel parlato sarà diversa la lingua di un convegno rispetto a
quello di un esame universitario.

Si delinea così una scala nella quale trovano posto i diversi registri della lingua. Si fanno rientrare nel
parametro della diafasia anche le varietà della lingua che definiamo sottocodici, correlatati all’argomento
quel messaggio: sottocodici tecnico-scientifici e quelli meno specializzati, dello sport, della moda, dei mezzi
di trasporto…

La diacronia:

la diacronia è il parametro di variazione legato alla dimensione cronologica. L’italiano parlato oggi non è
solo diverso da quello parlato da Dante o dal Manzoni, ma si stratifica secondo gli usi delle diverse
generazioni. I giovani in particolare sono portatori di usi innovativi. Nel linguaggio giovanile sono diffuse
peculiari nuove abitudini a tutti i livelli del codice. Ma le innovazioni del giovanilese sono numerose
soprattutto nel lessico: cannare>sbagliare.

La diatopia:

La diatopia è la variazione determinata dalla dimensione spaziale. Le differenze fra gli italiani a seconda
della provenienza geografica sono ben percepite. Per esempio, l’italiano parlato dai siciliani è diverso
dall’italiano parlato da un romano, un veneto o un piemontese.

Dobbiamo, dunque, considerare che esistono in Italia tanti dialetti che si possono raggruppare in tre grandi
aree: i dialetti settentrionali, centrali e meridionali. Vengono così a configurarsi molte varietà regionali di
italiano. A sua volta l’italiano va ad agire sulle parlate locali, tanto che si può parlare di dialetti italianizzati.

Lingua, dialetti e italiani regionali:

fra lingue e dialetti non esiste alcuna differenza. I dialetti, così come la lingua, possiede un lessico e una
grammatica codificabili in vocabolari e trattazioni scientifiche. Le differenze tra dialetto e lingua dev’essere
ricercata in fattori di carattere storico, culturale e sociale. La sua codificazione è meno raffinata, la sua
terminologia esclude di norma il vocabolario scientifico e intellettuale. Ma i dialetti soprattutto godono
presso la comunità dei parlanti di un prestigio inferiore rispetto alla lingua, un simbolo di arretratezza, un
ostacolo all’emancipazione. Tuttavia, l’italiano non è altro che uno dei tanti dialetti presenti nella penisola
nel XIII secolo, si fonda sul fiorentino antico e scritto, affermato da Dante.

L’Italia dialettale si ripartisce in tre grandi aree delimitate da due fasci di isoglotte:

1. La Spezia-Rimini;
2. Ancona-Roma.

La prima segna il confine meridionale dei dialetti del Nord; la seconda individue il limite fra le parlate
centrali e quelle del mezzogiorno. All’interno di queste grandi aree si individuano altre suddivisioni.

Al nord distinguiamo i dialetti GALLO-ITALICI da quelli veneti; al sud si segnala il confine che separa le aree
continentali dalle estreme propaggini meridionali, la Puglia salentina e la Calabria peninsulare, solidali con
la Sicilia in alcune caratteristiche. In posizione particolare si collocano le parlate della Sardegna e del Friuli.
L’uso dei dialetti oggi è in declino. Ci sono, però, degli ambiti in cui i dialetti sembrino ritagliarsi degli spazi.
Per esempio, il successo dei romanzi di Andrea Camilleri.

Dialetti e italiano comune, nella situazione odierna, costituiscono solo due degli estremi di una linea ideale
al cui interno si individuano due varietà principali: i dialetti italianizzati e gli italiani regionali.

I dialetti italianizzati:

i dialetti italianizzati sono il risultato dell’influsso dell’italiano sulle parlate locali, in una reazione di
superstrato. Assistiamo così alla frequente nascita di nuove parole, dialettali per i tratti fonetici ma
introdotte a partire dalla lingua, per designare nuovi referenti come il siciliare televisiuni.

Gli italiani regionali:

con l’italiano regionale si intende quella varietà di italiano che mostra tutti i livelli del codice caratteristiche
peculieri di un’area geografica.

Nel settentrione in fonologia si da una distribuzione dei timbri vocalici di e/o toniche diversa dalla
pronuncia standard, cioè il fiorentino: la cosiddetta gorgia, la spirantizzazione delle occlusive sorde
intervocaliche e la pronuncia di semiocclusive palatali.

Per il lessico si pensi a voci come vera>fede nuziale, ometto>appendiabiti.

Dell’Italia centrali si possono segnare: l’afficativa alveolare preceduta da vibrante nasale o laterale. Per il
lessico si ricordano le voci cencio, mota, rena>insipido.

In Italia meridionale i timbri delle vocali e/o sono in molti casi difformi rispetto alla pronuncia fiorentina. In
Sicilia, per esempio, le vocali intermedie toniche sono sempre aperte. Si contrappone al settentrione, la
popolarità nel meridione di usare il passato remoto anche per tempi presenti e di collocare il verso alla fine
di una frase.

Le minoranze linguistiche:

a completare il quadro delle varietà diatopiche bisogna considerare le lingue in uso presso le minoranze
linguistiche/alloglotte. Si individuano:

1. Le parlate provenzali delle valli del Piemonte sud-occidentale confinanti con la Francia;
2. I cosiddetti dialetti franco-provenzali, in Valle d’Aosta;
3. Le parlate ladine suddivise fra le province di Trento, Bolzano e Belluno. Con ladino si designa il
complesso di idiomi neolatini;
4. Le parlate bavaro-tirolesi della cospicua minoranza tedescofono dell’Alto-Adige;
5. Il croato parlato in alcuni centri del Molise;
6. Le parlate albanesi che sono sparsa in modo puntiforme in tutta l’Italia meridionale;
7. I dialetti di origine greca in alcune località della Puglia salentina e Calabria;
8. Il catalano, parlato ad Alghero, in provincia di Sassari.

A tutte queste minoranze si può guardare secondo molteplici prospettive. Dal punto di vista linguistico si
distinguono le parlate neolatine da quelle di altri ceppi. Da quello sociolinguistico si osserva che alcune
comunità parlano varietà dialettali che, nei rispettivi Stati, hanno dignità di lingua nazionale. Sotto il profilo
storico si distinguono le minoranze autoctone, popolazioni indigene, da quelle che si sono insediate
inseguito a movimenti migratori. A questi alloglotti si deve ormai aggiungere la rilevante presenza dei nuovi
flussi migratori provenienti dai paesi del Terzo Mondo.
L’italiano parlato:

i tratti principali del parlato spontaneo sono: la linearità e immediatezza nella produzione e nella ricezione
del messaggio; evanescenza del messaggio; uso dei tratti prosodici e di quelli paralinguistici; compresenza
di parlante e interlocutore nello spazio; interazione fra parlante e ascoltare.

Sintassi e testualità:

Si accampa nell’oralità una serie di costrutti che obbediscono al fine di mettere a fuoco un elemento della
frase attraverso la sua collocazione in prima sede, nella posizione di tema.

La tematizzazione più ricorrente è la dislocazione a sinistra: gli enunciati il giornale lo compra Mario, con la
zia ci mangia Rosanna, presuppongono, rispettivamente che si stia parlando di qualcuno che deve
comprare il giornale e di qualcuno che deve mangiare con la zia; l’elemento anticipato e posto in evidenza è
integrato sintatticamente nella frase, ripreso da un elemento anaforico. In assenza di ripresa anforico
l’elemento dislocato a sinistra veicolo una nuova informazione il giornale compra Mario; il costrutto ha il
nome di tropicalizzazione contrastiva.

Un altro caso di dislocazione a sinistra è il cosiddetto tema sospeso nel quale l’elemento dislocato è del
tutto esterno alla frase la mamma, le ho comprato uno scialle.

Alla dislocazione a sinistra si affianca la dislocazione a destra lo compra Mario, il giornale; l’elemento a
destra è anticipato da un pronome cataforico e preceduto nella pronuncia da una breve pausa.

Il parlato ricorre volentieri alla frase scissa: è Mario che compra il giornale si isola l’informazione nuova, in
una frase costituita dal verbo essere più l’elemento focalizzato, seguita da una falsa relativa.

Un altro costrutto molto diffuso è il c’è presentativo: c’è di là uno studente che vuole parlarti, il fine sembra
quello di spezzare l’informazione in due momenti distinti e più semplici.

Nella sintassi del periodo si espandono andamenti coordinativi e giustappostivi. Frequentatissimo è l’uso
della subordinazione, soprattutto, il che polivalente che non è sempre definibile nelle grammatiche.

Per la sintassi del verbo, il parlato si caratterizza per l’uso dell’imperfetto indicativo, nonostante il dato
temporale. Si segnala:

1. L’imperfetto fantastico: quando si parla al passato di qualcosa di immaginario o che non si è mai
avverato;
2. L’imperfetto ipotetico: che sostituisce il congiuntivo imperfetto e il condizionale;
3. L’imperfetto potenziale: che esprime supposizione;
4. L’imperfetto di modestia: per essere meno categorici quando si chiede qualcosa;
5. L’imperfetto epistemico: al posto del futuro.

Quanto all’uso dei modi è corrente l’indicativo.

Abbondanti sono le considerazioni intorno all’uso dei pronomi: ormai accettati come pronomi tonici di
terza persona singolare come soggetto lui, lei e loro. Così come l’uso di “gli” al dativo e per esprimere il
femminile singolare.

Il lessico:

il lessico dell’italiano parlato non è diverso da quello dello scritto, dal momento che attinge le stesse parole
allo stesso repertorio. Sono però diversi i meccanismi di selezione, nel senso che il parlato privilegia il
lessico dei registri informali.
La lingua parlata, già incline alla ripetizione, fa uso rispetto allo standard di un nucleo più ristretto di voci,
spesso di significato molto generico. Il lessico del parlato si connota per la coloritura dei toni, per una
ricerca di espressività, attenuata secondo varie modulazioni. Nascono da esigenza di affettuosità le forme
diminutive per rendere meno perentorio un ordine. Un’evidente espressività induce all’uso di superlativi
assoluti empatici e ai raddoppiamenti: cos’è questa faccia nera nera? le espressioni onomatopeiche: bang,
splash, patapum. Ricorrono in particolare nell’oralità dei giovani troncamenti affettivi come prof per
professore.

Alcune tratti fonologici:

tra i tratti fonologici del parlato meritano riflessione solo alcuni fenomeni di metatesi e la tendenza alla
ritrazione dell’accento sulla terzultima sillaba in una fitta serie di voci. Degne di nota sono quelle esecuzioni
di pronuncia trascurate o veloci, designate come fenomeni di allegro che investono una catena parlata: le
apocopi post-consonantiche; son venuta oggi; e le forme con aferesi sillabica: spetta>aspetta; sto>stare.

L’italiano popolare:

verso i gradini più bassi della scala diastratica si colloca l’italiano popolare. Si tratta dell’espressione
linguistica propria degli incolti e dei semicolti, cioè di coloro che non hanno mai acquisito piena
competenza della lingua italiana.

1. Nella pratica della scrittura sono continue le incertezze grafiche: la punteggiatura incoerente o
quasi inesistente; uso errato di h e q, segmentazioni erronee ecc.…
2. In fonetica i tratti di italiano popolare individuati sono quasi tutti il riflesso di abitudine dialettali. La
pronuncia dei ceti medi è sempre molto marcata in diatopia.
3. Per la morfologia i tratti che si riscontrano sono più numerosi: nell’articolo l’estensione delle forme
un e i/il; il possessivo suo riferito alla terza persona plurale; nel pronome l’uso di ci al dativo di tutte
le forme; nell’aggettivo l’uso irregolare di comparitivi e superlativi. L’ampiezza del che polivalente,
dei temi sospesi; il periodo ipotetico espresso dal doppio condizionale o con doppio congiuntivo
imperfetto.
4. Il lessico è contrassegnato dall’impiego delle stesse voci generiche che costellano il parlato e di
alcune voci di ampia polisemia.

La nozione di italiano popolare fu introdotta nel 1970 e fu definita il modo di esprimersi di un incolto. Alcuni
studiosi basandosi sulla convinzione che l’italiano standard non esita, affermano che l’italiano popolare sia
una lingua spontanea, genuina, tale da sopperire all’inesistenza di un italiano comune. Altri ne hanno
accentuato la natura di una varietà inferiore, bassa.

Il gergo:

il gergo è la lingua propria di alcuni gruppi di persone ai margini della società, che ne fanno uso all’interno
della loro cerchia, con la finalità primaria di promuovere il senso di appartenenza al gruppo e di
autoidentificazione. È una lingua parlata da categorie di bassa estrazione sociale e collocate alla periferia
del consorzio civile. Nasce la percezione del gergo come lingua segreta, non comprensibile a coloro che
sono fuori dal gruppo.

Si definiscono transitori i gerghi che hanno origine dalla convivenza temporanea in ambienti di
segregazione come il carcere, il collegio o la caserma. Il gergo penetra anche nella lingua dei giovani: si
pensi all’uso dei suffissati in -oso, allargarsi per indicare superiorità o di ciospo e ciospa per indicare
qualcuno o qualcosa privo di attrattiva.
L’italiano burocratico:

una particolare varietà dell’italiano contemporaneo è costituita dal linguaggio della burocrazia, quello
presente negli uffici pubblici.

1. Il lessico dell’italiano burocratico abbonda di sinonimi pretenziosi;


- Frequente ricorso al latino;
- Locuzioni sovrabbondanti (dare comunicazione, procedere all’arresto, opporre il diniego) tutte
sostituibile da sinonimi monorematici dell’italiano comune;
- Nella formazione delle parole sono graditi i sostantivi deverbali di grado zero, cioè nomi assunti da
basi verbali senza suffisso (inoltre, riassetto, delega);
- Forme antiquate (addì, lì) nelle indicazioni di data; il dimostrativo codesto e gli allocutivi ella e
signoria, le congiunzioni benché, qualora, nonché.
2. Per i tratti sintattici:
- L’esteso procedimento di nominalizzazione in forme del tipo: in considerazione di, ai fini di, a mezzo
di;
- Il ricorso al futuro deontico (esprime un dovere, un obbligo);
- La frequenza di participi presenti con valore sostantivale e verbale

Le lingue speciali:

l’espressione lingue speciali è in concorrente presso gli studiosi con molte altre: la più diffusa è linguaggi
settoriali. Le lingue speciali consistono non nel riferimento a un argomento specialistico (sottocodici) ma
nella specificità del canale di trasmissione.

1- Lessico:
- Il lessico delle lingue speciali è caratterizzato dalla monosemia (in medicina la paralisi indica la
perdita di sensibilità dovuta a lesione alle vie nervose). La corrispondenza fra parola e significato è
biunivoca, nel senso che non solo i significanti hanno un solo significato ma anche i significati sono
rappresentati da un solo significante;
- Il lessico delle lingue speciali è riluttante alla sinonimia che costituisce un potenziale attentato alla
precisione, all’univocità delle designazioni semantiche.

L’italiano standard:

per lingua standard intendiamo un’espressione dotata di una sostanziale stabilità garantita dalla
codificazione grammaticale, depositata nei vocabolari, capace di piagarsi alla produzione di qualsiasi tipo
testuale, anche di alta estrazione. In quanto standard una lingua ha funzione unificatrice e allo stesso
tempo separatrice, in grado di simboleggiare un’identità nazionale diversa dalle altre.

Individuiamo nell’italiano standard il punto di arrivo di una lingua che ha le sue origini nel fiorentino scritto
del Trecento che è cresciuto e si è consolidato nel corso della storia.

Si constata che l’italiano standard è parlato solamente da una ristretta cerchia, l’élite che ha preso lezioni di
dizione. Neanche un fiorentino presenta i tratti tipici di questa lingua in quanto dovrebbe evitare, per
esempio, la spiralizzazione delle occlusive intervocaliche.

Altro è il discorso sulla scrittura in quanto l’uso dell’italiano standard è riscontrabile in gran parte della
popolazione.

Tuttavia, una lingua standard è stabile ma non immobile. I linguisti Mioni, Sabatini e Berruto hanno cercato
di definire quei tratti che conferiscono una rinomata fisionomia alla lingua d’oggi, scritta e parlata, e che
consentono di fotografare lo status attuale dell’italiano e di ipotizzare la nascita di un nuovo standard o
neo-standard.

I principali tratti sono:

1- Per i pronomi, l’uso di lui, lei, loro in funzione di soggetto; di “gli” come dativo plurale; di lo come
pronome neutro; di ci con avere e con altri verbi; di cosa e che interrogativi al posto di che cosa;
2- Per la microsintassi, i costrutti preposizionali con il partitivo; l’uso di come mai interrogativo e delle
congiunzioni subordinate tipiche del parlato;
3- Per la sintassi, gli imperfetti modali, il presente pro-futuro, il passato prossima al posto del remoto
e il modo indicativo insidia il congiuntivo.

PROFILO DI STORIA LINGUISTICA ITALIANA:

se pensiamo alle prime attestazioni scritte dei volgari parlati nel territorio italiano dobbiamo riferirci a un
periodo tra il IX e il X secolo per quanto riguarda i testi scritti con finalità pratiche, più tardi per i testi che
hanno qualche intenzionalità letteraria. Ma l’impiego del volgare anche per usi scritti non è, in realtà, che
l’ultimo atto di un processo di trasformazione durato alcuni secoli.

Il più antico esempio di scrittura volgare è l’Iscrizione di San Clemente che correda l’affresco raffigurante un
episodio della Passione di San Clemente nella basilica sotterranea di Roma. Il testo è rilevante per il ruolo di
diverso prestigio assegnato al volgare e al latino, impiegato anche nella cornice in riferimento ai
committenti e per la caratterizzazione parlata e bassa delle battute in volgare; si tratta anche di un
importante documento dell’antico romanesco.

Risulta di grande importanza il primo documento che attesta l’uso consapevole del volgare in un
documento ufficiale: il Placito di Capua. È un verbale scritto in latino su pergamena da un notaio: in esso il
giudice accerta il diritto al possesso di alcune terre da parte del monastero di Montecassino, sulla base di
tre testimonianze, che vengono trascritte in volgare.

Già nel corso del ‘200 si avvia una tradizione di lingua poetica in volgare. La nascita di una vera e propria
scuola, la scuola siciliana, che sperimenta l’impiego letterario del volgare sulle orme della prestigiosa poesia
provenzale. La scuola siciliana impiega consapevolmente il volgare. Temi, immagini e repertorio stilistico ed
espressivo vengono derivati dalla prestigiosa esperienza trobadorica: nella lirica siciliana abbondano
provenzalismi e i frequenti suffissati in -anza, -enza, -aggio ecc… È caratteristico l’impiego di allotropi e il
ricorso a dittologie sinonimiche.

In Toscana, furono confezionati i tre grandi canzonieri che ci hanno trasmesso la lirica antica. Com’era
consuetudine medievale, i copisti toscani, trascrivendo i testi siciliani, li adattarono al loro sistema
linguistico, divergente dal siciliano specie nel vocalismo.

I poeti dello stilnovo innovano profondamente le tematiche amorose e vi immettono venature intellettuali
e psicologiche. I principali rimatori assimilano e trasfigurano le forme linguistiche della lirica siculo-toscana,
selezionando i dati della tradizione ed elaborando una lingua raffinata, anti-realistica, illustre.

L’esperienza stilnovista di Dante nella Vita Nuova conferma questi caratteri. Va osservato che nelle parti in
prosa, meno legata ai modelli tradizionali, Dante, assume più frequentemente elementi fiorentini.

È di Dante, infatti, la prima riflessione teorica e storica sul volgare e sulla tradizione di poesia volgare dai
siciliani ai siculi-toscani, allo Stilnovo, già chiaramente delineata: il De Vulgari eloquentia è un trattato in
latino. Oggetto del trattato è una ricerca non di lingua ma di stile poetico. Si parla cioè del volgare come
elaborazione artistica e come strumento di comunicazione letteraria di alto livello.
Dante individua 14 varietà principali di volgari parlati nella Penisola. Tuttavia, il volgare illustre, cardinale,
curiale non si identifica con quello di nessuna città italiana. La riflessione fi Dante sul volgare si arricchisce
nel Convivio in cui Dante giustifica la scelta del volgare per commentare le sue canzoni morali: il poeta
ammette la superiorità del latino ma giudica il volgare accessibile a un più largo pubblico.

Le tre corone, che pur nella loro diversità, contribuirono a innalzare letterariamente il fiorentino.

L’espansione del fiorentino trecentesco come lingua letteraria subisce un processo di rallentamento in età
umanistica. In Italia la riscoperta e l’ammirazione per i classici greci e latini, il culto soprattutto della latinità,
indagata con rigore filologico e grammaticale applicato ai testi e alla lingua. Si manifesta un atteggiamento
dispregiativo e di rifiuto nei confronti del volgare, ritenuto lingua inferiore.

Il trionfo del latino e la “crisi” del volgare come lingua della cultura ebbero importanti conseguenze. Fuori
Toscana, l’espansione del volgare dava luogo a scritture composite, in cui convivevano in modo variabile,
elementi ormai genericamente regionali, forme latineggianti e toscane: questa crescita, in assenza di una
norma uniforme, è stata ritenuta una vera e propria “crisi di crescenza” del volgare.

Con Leon Battista Alberti si avvia il processo di rivalutazione letteraria del volgare che va sotto il nome di
“Umanesimo volgare”. Alberti mostra un impegno teorico non indifferente. A lui si deve infatti una
grammatica della lingua toscana. Il proposito era di mostrare le possibilità del volgare. Con Lorenzo de
Medici e il suo circolo letterario il riscatto del volgare si fonda sulla rivalutazione della tradizione linguistica
e letteraria tosco fiorentina, e diventa sicuro strumento della politica medicea.

Invenzione della stampa:

la lingua delle stampe quattrocentesche è ibrida e non unitaria, ma tipografi e revisori editoriali cominciano
a porsi il problema di una regolarizzazione grafica e linguistica dei testi e mostrano lo sforzo di un
adeguamento al toscano letterario.

La scolta avviene col sodalizio tra il più importante stampatore rinascimentale, Manuzio e il letterato
veneziano Bembo che applicò la sua agguerrita esperienza di filologo umanista alla stampa dei classici
volgari.

Le Prose della volgar lingua furono pubblicate a Venezia nel 1525. Nelle Prose Bembo arriva a definire, la
retorica, la stilistica e la norma letteraria del volgare. Ma le indicazioni grammaticale sono sorrette da una
forte consapevolezza teorica; i fondamenti classicisti della norma vengono discussi e giustificati. Nelle Prose
la fissazione della grammatica del volgare letterario si collega strettamente alla teoria del classicismo
volgare elaborata da Bembo e alle discussioni linguistiche del primo ‘500.

La fondazione dell’Accademia della Crusca (1582) e l’attività letteraria e filologico-grammaticale di Salviati,


fu di fatto l’ispiratore della grande impresa, il Vocabolario degli Accademici della Crusca, la cui prima
edizione uscì nel 1612. Il Vocabolario si costituiva come roccaforte della tradizione linguistico-letteraria
tosco fiorentina, nel momento in cui erano già attive le spinte antitradizionaliste e moderniste del barocco.

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