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Appunti del corso di Tecniche espressive e tipologie dei testi – II semestre

Prof.ssa Maria Chiara Tarsi


a.a. 2020-2021

13. le varietà del codice


14. la varietà standard (italiano standard)
15. le varietà diafasiche: registri e sottocodici
16. le varietà diatopiche: italiani regionali. I dialetti
17. le varietà diastratiche: italiano popolare, linguaggi giovanili, gerghi
18. le varietà diamesiche: scritto, orale, trasmesso

19. la retorica
20. le figure paradigmatiche: la metafora
21. le altre figure paradigmatiche
22. le figure sintagmatiche
23. le figure fonetiche

24. le tipologie testuali: la classificazione funzionale-cognitiva

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13. LE VARIETÀ DEL CODICE
Una varietà di lingua si può definire come un insieme coerente di elementi (forme, strutture,
tratti, ecc.) di un sistema linguistico che tendono a presentarsi in concomitanza con
determinati caratteri extralinguistici (sociali, geografici, situazionali). È quindi sempre un’entità
che presuppone una correlazione tra fatti linguistici e fatti non linguistici. Le varietà dunque sono
le diverse realizzazioni in cui la lingua si manifesta concretamente, e ognuna presenta tratti che la
distinguono dalle altre e, naturalmente, tratti che le accomunano. Le varietà si definiscono sulla base del
confronto con la lingua di riferimento, ovvero con l’italiano standard.
Una lingua contiene al suo interno molteplici varietà, un’ampia gamma di variazioni, grazie alle quali
essa si può adattare alle diverse e numerose esigenze comunicative. Queste varietà si mantengono però
all’interno di una stessa lingua. Si definisce repertorio di una lingua l’insieme di tutte le sue varietà.
Accanto al repertorio di una comunità linguistica (quindi comune, universale), ognuno di noi ha un
proprio repertorio, un repertorio individuale: l’insieme delle varietà della lingua che il singolo
parlante ha a disposizione. Più il singolo parlante ha esperienza di gruppi sociali diversi, partecipa a
esperienze diverse, è istruito, più il suo repertorio individuale sarà vasto.

L’ASSE DELLA DIACRONIA


In base a quali criteri si determinano le varietà di una lingua? In base a quali assi di variazione la lingua
si manifesta in modi diversi? Un primo asse di variazione è legato al tempo, è cioè l’asse della
diacronia: la lingua evolve nel tempo, e si modifica più o meno velocemente, a seconda dei fattori
storici, economici, sociali, culturali.

L’ASSE DELLA SINCRONIA


Se però guardiamo alla lingua senza prendere in considerazione il suo modificarsi nel tempo, se cioè ci
poniamo sull’asse della sincronia, vediamo che gli assi di variazione di una lingua, cioè le variabili che
definiscono le varietà di una lingua, sono 4: diatopia (secondo lo spazio o l’area geografica), diastratia
(secondo lo strato, la fascia o il gruppo sociale di appartenenza), diamesia (secondo il canale attraverso
il quale si attua la comunicazione), diafasia (secondo la situazione comunicativa in cui si usa la lingua).
Fra tali assi di variazione, la differenziazione diatopica è fondamentale e basilare, e deve essere
considerata per prima, come ‘sfondo’ sempre presente. Naturalmente bisogna tener conto del fatto che
non è possibile separare drasticamente una varietà dall’altra con confini rigidi, perché gli assi di

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variazione si incrociano e si sovrappongono continuamente. Ogni uso concreto del linguaggio si
colloca simultaneamente su diversi assi di variazione. D’altra parte i medesimi tratti linguistici
possono essere caratteristici di diverse varietà: se consideriamo, ad esempio, il ‘che polivalente’,
vediamo che esso è coinvolto nell’oralità (varietà diamesica), nel registro medio-basso (varietà diafasica
situazionale), nell’italiano popolare (varietà diastratica); se pensiamo, invece, alla sintassi ipotattica ed
elaborata, essa è coinvolta nello scritto (varietà diamesica), nelle situazioni formali (varietà diafasica
situazionale), nel sottocodice (varietà diafasica funzionale).

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14. LA VARIETA’ STANDARD (ITALIANO STANDARD)
Concetto generale standard: la varietà di lingua che viene assunta, anche implicitamente, come
modello per l’uso corretto della lingua e per l’insegnamento scolastico. Ne deriva che essa è
impiegata soprattutto dalle persone con alto grado di istruzione ed è tradizionalmente riservata agli usi
scritti più alti e formali, come quello intellettuale, scientifico, letterario, burocratico, e in ogni caso nelle
scritture accurate. Lo standard rappresenta dunque il punto di riferimento per chi voglia usare
correttamente una lingua.
Una varietà diventa standard non per le sue caratteristiche intrinseche, linguistiche, ma per ragioni
storiche.
Una varietà può essere definita standard, e quindi valere come modello, quando possiede alcune
caratteristiche:
► è codificata: esistono un insieme di testi di riferimento e un insieme di norme che si appoggiano
all’autorità di istituzioni, esperti e membri prestigiosi, riconosciuti dalla comunità che parla una certa
lingua. È questa la condizione necessaria, e dunque più importante, perché una varietà possa dirsi standard.
► è stabile: è cioè fissa in quanto codificata da norme
► è sovraregionale: è avvertita come modello in tutto il territorio nazionale
► è elaborata: può essere utilizzata in ogni campo del sapere e in ogni ambito, ed è in grado di
soddisfare a tutti gli usi
► è scritta: non è usata solo oralmente, ma anche nello scritto
► è usata dai ceti alti: fin dall’origine è usata dalle fasce socialmente alte, generalmente più istruite.

Anche la lingua italiana presenta una varietà standard (italiano standard), che nasce dal volgare
fiorentino trecentesco: esso si impose grazie al prestigio delle cosiddette ‘tre corone’ Dante, Petrarca e
Boccaccio e grazie alla supremazia economica e culturale raggiunta da Firenze nel corso del
Quattrocento e del Cinquecento. È proprio nel Cinquecento che su questa base venne codificato un
modello di riferimento: si tratta di un fiorentino ‘allargato’ (tosco-fiorentino), che cioè accoglie
alcune influenze da altri volgari. Nel corso dei secoli l’italiano standard ha accolto alcune innovazioni e
per alcuni tratti si è progressivamente allontanato dal tosco-fiorentino; ma si può affermare che esso si è
mantenuto sostanzialmente stabile fino a tutta la prima metà del Novecento e ha coinciso di fatto con
la lingua letteraria scritta.
Nella seconda metà del Novecento, e in particolare a partire dagli anni Ottanta, l’italiano standard ha
iniziato a subire un’evoluzione interna e un processo di allargamento, che hanno portato i linguisti a
parlare di italiano dell’uso medio parlato e scritto (Francesco Sabatini, 1985) o italiano

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neostandard (Gaetano Berruto, 1987): un ‘nuovo’ standard, che solo in parte si discosta dall’italiano
standard, e che si va affermando sia nel parlato che nello scritto, in situazioni di media formalità.
In generale si può dire che l’italiano neostandard (o dell’uso medio) è caratterizzato
► da un avvicinamento fra scritto e parlato
► dall’apertura alle diverse varietà regionali.
► dalla tendenza alla semplificazione. La semplificazione riguarda in generale la morfologia (uso dei
modi verbali); il lessico (più concreto e meno astratto; più comune e meno specialistico; più ridotto, più
generico); la sintassi (prevalenza di paratassi su ipotassi, scarso uso di pronomi e congiunzioni, uso non
perfettamente corretto della consecutio temporum).
Tutto ciò porta alla presenza di tratti che finora erano esclusi dall’italiano standard, ma che
appaiono ora ampiamente diffusi e accettati.

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15. LE VARIETÀ DIAFASICHE
Sono le varietà che dipendono dal contesto comunicativo. Si distinguono in:
► varietà diafasiche situazionali (registri)
► varietà diafasiche funzionali (sottocodici).

REGISTRI
Il registro è una varietà della lingua di tipo diafasico situazionale: cioè è legato alla situazione
comunicativa, alla situazione concreta in cui avviene la comunicazione, e in particolare al tipo di
rapporto esistente tra i soggetti della comunicazione, al grado di formalità della situazione
comunicativa.
I registri non vanno confusi con altre varietà della lingua, ad esempio con l’italiano popolare (varietà
diastratica) o con varietà diatopiche (italiani regionali), anche se queste possono essere utilizzate in
situazioni informali, dunque in registri bassi e trascurati.
I parametri linguistici che definiscono i vari registri sono la maggiore o minore accuratezza
espressiva, la maggiore o minore formalità, la maggiore o minore adesione agli standard grammaticali.
I parametri socio-linguistici concomitanti sono il grado di familiarità tra gli interlocutori, la
situazione, il tempo, il luogo.
La diversificazione tra i vari registri coinvolge quasi tutte le strutture della lingua: la morfologia, che
però risulta meno coinvolta; la fonetica (ad es. la pronuncia più o meno corretta, più o meno
sorvegliata); la sintassi; il lessico. Se ci soffermiamo in particolare sul lessico, notiamo che esistono in
italiano serie di parole che di per sé sono sinonimi, ma che non possono essere usate in modo
indifferenziato, cioè non possono essere usate indifferentemente in tutti i contesti comunicativi.
Naturalmente si verifica una grande variabilità di situazioni comunicative e per questo non è possibile
stabilire dei confini netti tra diversi livelli di formalità e quindi tra un registro e l’altro: la lingua è un
continuum lungo il quale si possono riconoscere dei ‘gradini’ o livelli collegati in modo fluido. Perciò
si parla, a proposito della variazione di registro, di parametro a variazione continua.

REGISTRO FORMALE (AULICO)


Si usa in situazioni solenni e formali, in cui è richiesto un grado molto elevato di accuratezza.
Tratti linguistici: pronuncia molto controllata; tendenza alla verbosità (perifrasi, ricca aggettivazione);
ampia gamma lessicale; uso di lessico astratto e arcaizzante; preferenza per le forme impersonali;
sintassi elaborata.

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REGISTRO STANDARD LETTERARIO
Si usa in contesti comunicativi formali, in cui è richiesto un grado elevato di accuratezza: non è dunque
solo la lingua letteraria, ma un registro che ha come riferimento quella lingua, così come è descritta e
regolata dai manuali e dalle grammatiche. Tratti linguistici (in misura leggermente inferiore rispetto al
registro aulico): accuratezza nella pronuncia; rispetto rigoroso delle norme grammaticali; ampia varietà
lessicale; uso frequente di termini astratti; uso di parole letterarie e di arcaismi; frequenza dei connettivi;
preferenza per una sintassi elaborata con periodi complessi.
■ Spesso si verifica un fraintendimento: si ritiene che parole o espressioni tecniche e specialistiche, ad
esempio del sottocodice burocratico, siano di per sé di registro elevato e formale. Ciò però non è vero
(o per lo meno non lo è sempre) e l’uso di queste espressioni andrebbe limitato appunto ai sottocodici
di rispettiva appartenenza.

REGISTRO MEDIO
Si usa in contesti comunicativi di livello medio, nei normali rapporti sociali e in testi scritti non
‘impegnati’. È dunque il registro che risponde alle esigenze della quotidianità. È caratterizzato da
sostanziale correttezza, appropriatezza nell’uso della lingua e un lessico vario, ma rispetto al registro
standard letterario è più flessibile e ‘aperto’. Di seguito si fornisce una breve esemplificazione:
► lessico
● uso di forestierimi, soprattutto anglicismi (anche modificati)
● uso di parole appartenenti ad altre classi grammaticali con funzione di aggettivi: niente, zero, no,
gratis
● creazione di neologismi con suffisso in -ismo, -ista, -bile, -eria, in -ata/o
● uso di prefissi superlativi: mega-, maxi-, iper-, super-, ultra, extra-
● uso di diminutivi e vezzeggiativi
● uso di espressioni come ‘si capisce’ (è ovvio), ‘si vede’ (è chiaro), ‘ci vuole’ (occorre), ‘lo stesso’
(ugualmente), ‘se no’ (altrimenti), ‘solo che’ (tuttavia)
► morfologia e sintassi: sostituzione delle forme più colte con altre meno colte, o meno conformi
alla grammatica standard, o più semplici
● uso di ‘piuttosto che’ con valore disgiuntivo
● uso del pronome ‘gli’ sia per il maschile che per il femminile, e sia per il singolare che per il plurale
● estensione dell’uso dei pronomi ‘questo’ e ‘quello’ che tendono a sostituire ‘ciò’
● ‘ci’ in funzione avverbiale, al posto di ‘lì’, ‘qui’, ‘qua’
● preferenza per la forma del pronome relativo soggetto ‘che’
● semplificazione delle congiunzioni
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● uso di forme vuote come ‘in realtà’, ‘praticamente’
● tendenza al rafforzamento di aggettivi e sostantivi attuato secondo vari meccanismi
● semplificazione del sistema verbale: uso prevalente del modo indicativo e del tempo presente; il
tempo futuro viene usato per lo più a esprimere opinioni, ipotesi, deduzioni ecc. – il cosiddetto ‘futuro
epistemico’
● uso del cosiddetto ‘che polivalente’: ‘che’ come introduttore generico di frasi subordinate, che
possono avere valore temporale, causale, finale ecc.
● uso di frasi pseudorelative introdotte da ‘quello che è’, ‘quelli che sono’ ecc.
● uso frequente della sintassi marcata
● uso di segnali discorsivi a inizio frase (ma, dunque, allora, insomma, bene ecc.) con funzione diversa
da quella tradizionale, cioè parzialmente svuotati del loro significato proprio
● uso della concordanza a senso
● nell’organizzazione sintattica, prevalenza della paratassi rispetto alla ipotassi

REGISTRO PARLATO COLLOQUIALE


Si usa in un contesto comunicativo informale, familiare, confidenziale, in generale in una conversazione
non impegnata. È usato prevalentemente, ma non solo, nella comunicazione orale e ha un’estensione
molto vasta, cioè può andare da un grado molto colloquiale e informale a un grado solo lievemente
informale.
Tratti linguistici: nella pronuncia, scarso controllo sulle inflessioni regionali e municipali; scarsa varietà
nel lessico; uso di lessico popolare ed espressivo, colorito; nello stesso tempo, uso di lessico generico,
comune e ‘banale’; apertura alle forme regionali; uso di forme abbreviate e di alterati (diminutivi,
accrescitivi, dispregiativi, vezzeggiativi); preferenza per il modo verbale indicativo; sintassi semplificata
che privilegia la paratassi; uso della sintassi marcata; impiego ripetuto di pochi connettivi; rispetto non
costante delle norme grammaticali; mancanza di un’attenta pianificazione del discorso.

REGISTRO INFORMALE TRASCURATO


È il registro più ‘basso’ fra quelli presi qui in considerazione, utilizzato in situazioni di estrema
informalità e caratterizzato da trascuratezza formale, da mancanza di controllo nella elocuzione,
dall’assenza di un preciso progetto comunicativo e piuttosto da improvvisazione.
Tratti linguistici: pronuncia trascurata e semplificata (ad esempio dei nessi ‘difficili’); ripetitività del
lessico; prevalenza di lessico generico; uso di lessico espressivo e colorito; uso di commenti, epiteti,
imprecazioni; l’uso di lessico scatologico e volgare; abbondanza di parole abbreviate; uso di frasi brevi e
molto brevi; scarsa progettazione dell’architettura testuale.
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■ Nell’italiano contemporaneo è indubbio l’ampliamento dei registri bassi, informali e colloquiali,
spesso anzi ipercolloquiali, anche grazie alla comunicazione dei cosiddetti ‘nuovi media’, che è
immediata, spontanea, non sorvegliata. Siamo infatti esposti ai modelli linguistici che provengono dai
nuovi media e che sono generalmente informali, ‘sciolti’, ‘brillanti’, talvolta anche trascurati. Tuttavia
non bisogna perdere di vista la necessità di adeguarsi al contesto comunicativo. Dobbiamo insomma
acquisire una buona competenza comunicativa, cioè la capacità di adeguare la lingua al contesto e alla
situazione comunicativa.
■ Detto questo, è però anche vero che il singolo parlante può fare una scelta, può cioè scegliere uno
stile pur sempre adeguandosi alle esigenze del contesto comunicativo

SOTTOCODICI
I sottocodici sono varietà della lingua di tipo diafasico funzionale, legate a particolari ambiti
extralinguistici, cioè a particolari e specifici campi del sapere e dell’attività umana. I sottocodici
(detti anche lingue speciali, linguaggi settoriali, linguaggi specialistici, microlingue ecc.) sono dunque
usati dagli specialisti e dagli esperti di un dato settore e hanno diffusione limitata e ristretta.
In realtà i sottocodici possono essere posseduti dai parlanti in base alla loro competenza in un
determinato settore: si può quindi andare da un possesso totale a un possesso parziale da parte di non
addetti ai lavori, ma dotati di un livello di istruzione medio-alta e di una buona cultura, oppure dotati di
conoscenze derivate dall’esperienza personale in un determinato settore), fino alla quasi totale
ignoranza. Si pone qui il problema della comprensibilità, cioè dell’uso adeguato di un determinato
sottocodice.

Quando si parla di sottocodici ci si riferisce a un insieme numeroso e variegato, all’interno del quale
ci possono essere molte differenze. Inoltre i sottocodici possono avere un diverso grado di
specializzazione: in alcuni è molto alto, in altri invece è minore e il lessico può essere ampiamente
tratto dalla lingua comune. Naturalmente anche il grado di specializzazione può essere adattato a
seconda delle diverse situazioni comunicative, del contesto in cui avviene la comunicazione, del
pubblico a cui ci si orienta.
Bisogna poi considerare che nella lingua italiana contemporanea l’insieme dei sottocodici è aperto e in
continua evoluzione, in relazione: a) ai numerosi settori e sottosettori che si vengono a creare; b) alle
innovazioni tecnologiche del settore di riferimento.

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I sottocodici producono testi in cui predomina la funzione referenziale, cioè informativa. L’utilizzo
dei sottocodici permette una comunicazione efficace rispetto allo scopo della comunicazione settoriale,
cioè:
a) emotivamente neutra: si tratta però di un criterio che va ben inteso, e considerato in senso non
assoluto
b) chiara, precisa, senza ambiguità
c) economica e rapida, sintetica.

In generale si può dire che i sottocodici presentano caratteristiche particolari sia nell’organizzazione del
testo, sia sul piano morfologico e sintattico: a livello testuale, spesso il discorso è organizzato in modo
rigido, come una sequenza di informazioni, in blocchi tematici, fa uso di definizioni e di esempi; a
livello morfosintattico, tende a usare la nominalizzazione e la paratassi.
Senz’altro però l’aspetto più rilevante dei sottocodici è quello lessicale: mantenendo come base la
lingua comune, essi infatti si caratterizzano per l’utilizzo di un lessico speciale (specialistico, di
specialità), cioè per una terminologia, che si riferisce a un determinato settore di attività culturale,
professionale, disciplinare. Esso comprende un alto numero di tecnicismi, cioè parole specifiche di
un dato settore o sapere, che hanno natura referenziale e che all’interno di quel settore non
possono essere soggette a più interpretazioni (sono dunque monosemici).
I tecnicismi possono essere:
► tecnicismi specifici o primari (termini): propri di un determinato sottocodice
► parole che hanno subito una rideterminazione semantica (specializzazione): termini già esistenti
nella lingua comune, cui viene assegnato un significato specifico relativo a un particolare settore
► forestierismi
► sigle: sequenza delle lettere iniziali di una serie di nomi, enti, ditte o termini scientifici
► acronimi: sono così definiti sia le sigle vere e proprie, sia le parole composte che si ottengono
mettendo in sequenza più di una lettera delle parole abbreviate

Molto spesso, inoltre, i sottocodici fanno uso di tecnicismi collaterali, cioè di parole o espressioni
caratteristiche di un certo ambito settoriale, ma non necessarie di per sé alla comunicazione: essi
piuttosto rispondono all’opportunità di adoperare un registro elevato in situazioni formali, quali sono,
tipicamente, quelle in cui si esercitano alcune professioni e contribuiscono così a distinguere il
sottocodice dalla lingua comune.
■ Fra lingua comune e sottocodici si verifica un continuo interscambio, in entrambi i sensi.

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L’italiano manageriale (‘aziendalese’)
È il sottocodice nato nelle filiali italiane di grandi aziende internazionali e spesso usato nella
comunicazione aziendale: è usato da dirigenti, imprenditori, funzionari amministrativi, tecnici,
impiegati. Si caratterizza in particolare per la forte presenza di tecnicismi collaterali e di anglicismi: il
loro uso spesso non si giustifica per esigenze oggettive (di precisione ed economia comunicativa, quindi
di efficacia: per questo sono detti ‘collaterali’), ma per il loro valore connotativo. Essi infatti hanno lo
scopo di suggerire un’idea di efficienza, modernità, imprenditorialità; di veicolare l’idea del lavoratore
moderno, dell’imprenditore.
■ Naturalmente non si tratta di rinunciare al forestierismo, che spesso è più sintetico del corrispettivo
italiano, e che può esprimere inoltre un giusto sentimento di appartenenza, purché usato in modo
critico. Si tratta di diventare consapevoli della ricchezza del lessico della lingua, di padroneggiare la sua
‘struttura’, fatta sia di termini autoctoni che di forestierismi, e infine di non cadere negli automatismi
linguistici, nello stereotipo.

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16. LE VARIETÀ DIATOPICHE
Sono le varietà che dipendono dall’area geografica di appartenenza. Anche se sono meno marcate
che in passato, soprattutto presso le nuove generazioni, sono però ancora ben presenti. Anzi, la
variazione di tipo spaziale e geografico, come già detto, è il più importante elemento di differenziazione
linguistica in Italia.

GLI ITALIANI REGIONALI


In particolare i vari italiani regionali sono le varietà usate nelle diverse regioni italiane, dove però
‘regione’ non coincide con la regione amministrativa, ma con l’area geografica in cui una data
varietà appunto è usata, e che può essere poco o molto estesa. Le varietà regionali derivano dall’italiano,
sul quale agiscono in modo più o meno evidente i vari dialetti locali. Ciò deriva soprattutto da ragioni
storiche: soprattutto nel parlato, fino al XX secolo si usavano quasi esclusivamente i dialetti (che sono
una cosa diversa dagli italiani regionali). A partire dall’inizio del Novecento la progressiva diffusione
dell’italiano ha causato la regressione dei dialetti, ma l’italiano a sua volta è stato modificato dal sostrato
dialettale, dando vita agli italiani regionali. Gli italiani regionali sono oggi di fatto la varietà
linguistica più usata dagli italiani, perché è il tipo di lingua che viene usata quotidianamente.

Sul piano morfologico (ad es. l’uso dei tempi verbali, l’uso dell’articolo davanti ai nomi propri, l’uso del
‘si’ impersonale con pron. di 1a pers. plur.) e sintattico le differenze sono meno percepibili ed evidenti
di un tempo. È invece soprattutto sul piano fonetico e lessicale che le variazioni diatopiche sono ancora
marcate. Per quanto riguarda la fonetica, di fatto quasi nessuno usa la pronuncia standard dell’italiano
letterario. L’intonazione (quello che comunemente si chiama parlata o accento) e le varie realizzazioni
fonetiche (ad es. il diverso grado di apertura delle vocali) sono nella quasi totalità dei casi di tipo
‘regionale’: ogni parlante conserva un ‘accento’ proprio del luogo in cui vive o del quale è nativo.
Per quanto riguarda il lessico si parla di geosinonimi, cioè di sinonimi che hanno diffusione solo in
alcune aree. Si tratta per lo più, ma non solo, di parole che riguardano la vita quotidiana.
Diverso è il caso dei geoomonimi, cioè di parole diffuse in più italiani regionali ma con significati
diversi:

I DIALETTI
I dialetti, a differenza dell’italiano regionale, sono lingue autonome, che cioè si sono gradualmente
sviluppate dal latino parlato (non dall’italiano): essi hanno strutture fonetiche, morfologiche e
sintattiche proprie, distinte da quelle della lingua italiana.

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Rispetto alla lingua i dialetti a) hanno una diffusione geografica limitata; b) hanno minori
possibilità di impiego, perché sono generalmente usati nel parlato (anche se esiste, almeno per
alcuni, una tradizione letteraria dialettale: ad esempio, per il dialetto milanese, veneziano, napoletano) e
in contesti familiari e informali; c) da ciò deriva che i dialetti godono di minor prestigio sociale.
I dialetti in Italia sono assai numerosi, come si può verificare concretamente spostandosi nella penisola:
è possibile tuttavia classificarli in gruppi tenendo conto di alcune caratteristiche che li accomunano. Nel
corso del tempo sono state proposte diverse classificazioni. Una tappa importante è rappresentata dagli
studi di Gerhard Rohlfs che nel 1937 stabilì due spartiacque linguistici principali: la linea La Spezia-
Rimini e la linea Roma-Ancona.
Come succede con i vari italiani regionali, anche tra i dialetti e l’italiano si sono verificati e continuano a
verificarsi passaggi di lessico:

Si parlano ancora i dialetti oggi? Se è vero, come abbiamo visto, che nel Novecento l’uso del dialetto è
arretrato a causa di numerosi fattori (storici, sociali, economici ecc.), è però vero che i dialetti sono
ancora oggi vitali. In alcune aree italiane troviamo anzi una situazione di dilalia: la presenza di due
lingue utilizzate in ambiti separati, una sia in contesti ‘alti’ e formali sia in contesti bassi,
colloquiali, familiari, l’altra solo in contesti informali. Nel caso dell’Italia, le due lingue sono
italiano e dialetto.
Inoltre da qualche decennio è cambiato l’atteggiamento nei confronti del dialetto: se è pur sempre
avvertito come lingua di minor prestigio rispetto all’italiano, il dialetto viene oggi avvertito a) come
simbolo identitario; b) come mezzo adatto all’espressione di contenuti ironici e umoristici, oppure
metaforici; c) anche del dialetto, infine, si è fatto un uso ‘creativo’, come nella pubblicità.

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17. LE VARIETÀ DIASTRATICHE
Sono le varietà che dipendono dalle diverse condizioni sociali e culturali (ad es. classe sociale;
posizione sociale; grado e tipo di istruzione; età; appartenenza a determinati gruppi sociali; ambiente di
lavoro; sesso).

L’ITALIANO POPOLARE
Una varietà diastratica importante è l’italiano popolare, che però non va confuso con il registro
familiare e basso. Per italiano popolare si intende la varietà di lingua usata da parlanti appartenenti
a strati sociali bassi incolti o semi incolti e caratterizzata dalla presenza di tratti non standard.
È una varietà soprattutto parlata ed è caratterizzata da forti interferenze con il dialetto.
In particolare grazie all’aumento della scolarizzazione, nell’italiano contemporaneo l’italiano popolare è
molto meno diffuso rispetto a qualche decennio fa; tuttavia esiste ancora, però con tratti che si
allontanano meno dall’italiano standard. Esso è utilizzato non tanto da parlanti analfabeti, quanto da
parlanti semicolti.

I LINGUAGGI GIOVANILI
Sono varietà utilizzate da parlanti giovani (il primo problema, tuttavia, è definire che cosa si intende
per ‘giovani’).
Il linguaggio giovanile è fortemente influenzato anche da fattori diatopici e diafasici, tanto che i
linguisti non sono unanimi nel collocare questa varietà tra quelle diastratiche. In effetti l’uso di questo
linguaggio non dipende solo dall’età anagrafica, ma anche dall’appartenenza a un gruppo giovanile (che
si manifesta nella condivisione dei luoghi di incontro e nelle diverse occasioni di aggregazione e
socializzazione, cioè appunto in diverse situazioni comunicative). Per questo c’è una forte
eterogeneità: non si dovrebbe parlare di ‘linguaggio giovanile’, ma più opportunamente di ‘linguaggi
giovanili’.
In linea generale, possiamo dire che i linguaggi giovanili si costituiscono su una base di italiano
colloquiale e sono caratterizzati da:
► tendenza alla brevità, con uso di troncamenti, contrazioni, sigle
► uso di lessico informale e ‘basso’
► tendenza all’esagerazione e all’iperbole
► tendenza a creare neologismi o a usare in senso diverso o metaforico parole già appartenenti alla
lingua comune
► uso frequente del linguaggio figurato (in particolare della metafora, su cui ci soffermeremo)

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Il linguaggio giovanile è contraddistinto da rapidità di mutamento: si assiste dunque a un continuo e
rapido ricambio lessicale (anche se una parte può per ragioni varie entrare stabilmente nel lessico
comune).

I GERGHI
Sono varietà di lingua legate a gruppi o cerchie di persone ristretti. La loro caratteristica principale
è di essere dotati di un lessico ristretto e specifico, che non si intende condividere: i gerghi insomma
hanno in genere un forte valore di contrapposizione e un valore criptico.

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18. LE VARIETÀ DIAMESICHE
Sono le varietà che dipendono dal mezzo fisico di trasmissione del testo, cioè dal canale.
Una prima grande distinzione riguarda quella tra il parlato (canale fonico-acustico) e lo scritto (canale
grafico-visivo). Essi si differenziano per molti aspetti:
► il parlato permette una comunicazione interattiva (feedback), lo scritto no
► il parlato può sfruttare il tono della voce, le curve intonative; può sfruttare la prossemica (parte della
semiologia che studia il significato, nel comportamento sociale dell’uomo, della distanza che l’individuo
pone tra sé e gli altri/gli oggetti, quindi del modo di porsi nello spazio), la cinesica (studio della
comunicazione non verbale, che si attua attraverso i movimenti, i gesti, le posizioni, la mimica del
corpo, in modo volontario o involontario)
► il parlato permette un’unica esecuzione, lo scritto ne permette numerose
► parlato e scritto tollerano un diverso grado di presupposizione, cioè di informazioni implicite; lo
scritto è dunque più ricco di informazioni
► nel parlato mittente e destinatario sono compresenti e possono sfruttare le opportunità offerte dal
contesto; il contesto inoltre chiarisce il significato dei deittici (cioè gli elementi che servono a situare
l’enunciato nello spazio e nel tempo: qui, là, lui, eccolo ecc.). Nello scritto, al contrario, manca la
contestualità
► a differenza del parlato, lo scritto, soprattutto in alcune tipologie testuali, presenta ricchezza di
connettivi
► lo scritto presente una maggiore ricchezza lessicale rispetto al parlato
► a differenza del parlato, lo scritto presenta un’accurata pianificazione del testo e quindi una sua
attenta organizzazione

È una griglia che tuttavia oggi non appare più del tutto adeguata, perché non copre tutte le varietà
diamesiche. All’interno di questa distinzione si possono infatti individuare altre varietà più particolari
(ad es. il trasmesso, cioè affidato ai mezzi di comunicazione linguistica a distanza: radio, televisione,
cinema). Inoltre negli ultimi anni la situazione si è fatta molto più complessa per l’uso esteso dei social
media. In particolare a partire dagli anni Settanta-Ottanta del Novecento si è cominciato a parlare di
CMC (comunicazione mediata dal computer) e di lingua del web (o lingua della rete, o lingua di
internet, o e-taliano), cioè la varietà di lingua scritta utilizzata appunto nei social media, che dunque
utilizza il canale scritto ma che è diversa dalla varietà scritta tradizionalmente intesa: essa infatti utilizza
in misura maggiore o minore strutture dell’orale in forma scritta (per questo è chiamata anche ‘written

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speech’) e rimane per alcuni aspetti ancorata alla scrittura ‘tradizionale’. Ciò che è assodato è che oggi si
scrive moltissimo.
La lingua del web è infatti molto variegata al suo interno, tanto che sarebbe più corretto parlare di
‘lingue della rete’. In questo mondo di testi eterogenei si può però operare almeno una distinzione
generale fra:
a) testi ‘tradizionali’ poi importati nella rete (semplicemente copiati)
b) testi scritti con il supporto digitale ma concettualmente simili ai testi ‘tradizionali’
c) testi nati appositamente per la rete.
Un fattore che risulta ormai determinante nel modificare le abitudini linguistiche è inoltre la possibilità
di usare la lingua del web sul cellulare, che condiziona anche il modo di usare la lingua.
In linea generale si può dire che la lingua del web:
► è inscindibilmente connessa con altri codici: sonoro, grafico, ma soprattutto iconico (che è
appunto simultaneo). In alcuni casi il codice visivo recupera almeno in parte l’oralità; in altri il codice
iconico e quello grafico svolgono la funzione di coesione, perché suggeriscono la relazione fra due o
più parti di testo
► tende ad esaltare la velocità di esecuzione più che la riflessione della scrittura tradizionale, la
simultaneità rispetto alla linearità
► è semplificata
► è ‘piatta’, cioè dispone tutte le informazioni sullo stesso piano
► tende ad essere lontana dalla varietà standard, a posizionarsi cioè nelle fasce diafasicamente basse
► presenta spesso notevoli oscillazioni di registro, con la compresenza di tratti colloquiali e ‘bassi’
con altri medi e ‘alti’
► è ricca di fenomeni transitori, di vere e proprie ‘mode’

Inoltre in linea generale si può dire che i testi del web:


► tendono ad essere brevi e frammentari (anche quando il testo disponibile è più lungo, una buona
parte è ‘nascosto’)
► tendono ad essere incompleti e incompiuti perché i testi sono potenzialmente espandibili
all’infinito attraverso il rimando ad altri contenuti
► tendono ad essere dialogici, cioè a chiamare in causa altre voci e altri testi, in un continuo flusso
interattivo: i messaggi dunque fanno riferimento ad altri testi (senza conoscere i quali talvolta non è
possibile capirli), in una sorta di intertestualità esasperata. Ci si può allora chiedere: in queste condizioni,
si può ancora identificare un cotesto? Quanto può essere espandibile)? E qual è il contesto? Uno dei

17
problemi di internet riguarda proprio la difficoltà di contestualizzare le informazioni che si ricevono:
ma le informazioni vanno sempre contestualizzate per interpretarle correttamente.

A proposito della lingua della rete va anche osservato che essa non è collocabile semplicemente e solo
all’interno della variazione diamesica, perché molto forte è anche il peso della variazione diafasica, cioè
relativa alla situazione comunicativa.
■ L’importante è adottare la varietà giusta, coerente, adatta al tipo di canale utilizzato. Può sembrare
una banalità, ma il rischio è che il modo di scrivere sui social media sia utilizzato anche nelle varietà
scritte tradizionalmente intese (ad es. una tesi, una relazione); che insomma il modo di scrivere su un
social media sia indebitamente esteso a tutti gli altri.

18
19. LA RETORICA

PREMESSA
La retorica è l’arte del persuadere attraverso il discorso.

Per effetto della decadenza plurisecolare di una disciplina dalle origini illustri, la parola ‘retorica’ è
comunemente intesa in senso negativo, deteriore, con sfumatura dispregiativa. Eppure, a partire dalla
metà del XX secolo la retorica è stata ‘riabilitata’ nel campo degli studi linguistici: oggi se ne occupano
non solo le discipline linguistiche (oltre naturalmente alla letteratura), ma anche la filosofia, la semiotica,
gli studi sulla comunicazione e sulle tecniche dell’informazione. Importanti punti di svolta per questa
rinascita sono stati la pubblicazione nel 1949 del volume di Heinrich Lausberg, Elementi di retorica
(trad. in italiano nel 1969) e la pubblicazione nel 1958 del volume di Chaïm Perelman e Lucie
Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione (trad. in italiano nel 1966).
Questa ‘rinascita’ si spiega con la constatazione che la retorica è una ‘tecnica’ che noi tutti, nella nostra
quotidianità, utilizziamo; è alla base dello scambio comunicativo. Insomma, la retorica entra di diritto in
una molteplicità di testi a cui quotidianamente siamo esposti.
■ Proprio perché la retorica ha lo scopo di persuadere, essa non si occupa di dimostrare il vero, ma di
convincere riguardo a ciò che è verosimile (ciò che ha l’aspetto della verità e dunque è credibile; ciò di
cui si presume la credibilità). L’argomentazione, che è al cuore del discorso persuasivo, è diversa dalla
dimostrazione.
Nel campo del vero, del necessario, che si accerta per dimostrazione, non c’è bisogno di argomentare,
di aderire, di assentire: di fronte all’evidenza del vero dimostrato non vi può essere disaccordo.
Il discorso persuasivo, invece, opera in relazione al verisimile: cioè a ciò che sfugge all’evidenza
empirica, alla certezza del calcolo, alla logica formale. Diversamente dalla dimostrazione, la conclusione
dell’argomentazione non è coercitiva: il destinatario è libero di fare una scelta (aderire o meno).
■ Quanto appena detto ci rimanda allo statuto ineludibilmente ambiguo del discorso: la lingua è un
mezzo di comunicazione, non di accertamento della verità. La parola, cioè, è un mezzo, che può essere
volto ad indicare il vero (parola autentica, veridica) o il falso (parola fallace, menzognera). Anche la
retorica, in quanto arte del discorso, può essere impiegata a fine di bene, come a fin di male.

CENNI STORICI/1
La retorica, intesa come tecnica e come teoria, nasce nel V secolo a.C. in Magna Grecia (Sicilia) e in
Grecia (Atene) e si configura come arte del persuadere attraverso il discorso, cioè come arte del

19
discorso persuasivo. La sua nascita e il suo sviluppo sono strettamente collegati al costituirsi delle polis e
della democrazia: in Sicilia, dopo la cacciata dei tiranni (465 a.C.), i cittadini che da quelli erano stati
derubati intentano numerose cause giudiziarie per riavere i propri beni; ad Atene, dove non c’è un
tiranno, le questioni che riguardano il bene comune sono oggetto di discussioni e dibattiti; chi vorrebbe
esercitare il potere deve essere eletto e per questo deve convincere i suoi potenziali elettori; le leggi e le
decisioni politiche sono oggetto di dibattiti; le contese politiche si risolvono attraverso il confronto e
non con la forza.
È Aristotele, nel IV secolo a.C., a dare una prima, grande sistemazione all’arte retorica nei tre libri della
sua Retorica. Essa fu tenuta come modello nei secoli successivi e si rivelò fondamentale per i futuri
sviluppi dell’arte retorica. Comprendeva infatti una ricchissima casistica; illustrava molti concetti che
sarebbero rimasti alla base dell’insegnamento e della pratica della retorica, per poi essere ripresi in epoca
moderna; analizzava molte forme e molti artifici dell’espressione (quella che i latini avrebbero chiamato
elocutio), indicando alcune ‘virtù’ necessarie (come la chiarezza, l’appropriatezza, la naturalezza, la
correttezza); dava una definizione di alcune figure retoriche, prima fra tutte la metafora.
Aristotele distingue tre generi del discorso oratorio: giudiziario, deliberativo, epidittico.
► genere giudiziario o giudiziale: è legato all’ambito processuale giudiziario e ha la funzione di
persuadere dell’innocenza o della colpevolezza di qualcuno
► genere deliberativo: è legato all’ambito politico e ha la funzione di consigliare o dissuadere
rispetto a una determinata scelta politica, rispetto a ciò che è utile, buono ecc.
► genere epidittico: è legato all’ambito celebrativo ed è volto a persuadere i cittadini che
qualcuno, o qualcosa, è degno di lode, o, al contrario, di riprovazione
■ Naturalmente oggi la situazione è ben più complessa, ed esistono altre e diverse forme di discorso
persuasivo. Tuttavia, sebbene mutati per molti aspetti, anche nella nostra società attuale questa
tripartizione del discorso oratorio mantiene la sua validità

CENNI STORICI/2
Nata in Grecia, l’arte retorica è trapiantata a Roma e nel mondo romano nel II sec. a.C., e qui conosce
una grande fioritura. La retorica romana eredita e fa suoi, rielaborandoli, i concetti fondamentali della
retorica greca. In particolare, conobbe uno sviluppo straordinario e assunse una particolare importanza
l’oratoria politica (il genere deliberativo), proprio perché l’impegno politico era prevalente su ogni
altra attività sociale.
Alcune opere in particolare furono fondamentali per la trasmissione di quest’arte al Medioevo: il
trattato Rhetorica ad Herennium (che a lungo fu erroneamente attribuito a Cicerone) e le opere di Cicerone
(fra le quali De inventione, De oratore, Orator, Brutus).
20
Per Cicerone (106 a.C.-43 a.C.), oltre alla preparazione relativa alla tecnica propriamente retorica, il
buon oratore egli deve essere anche un uomo colto. L’oratore, inoltre, deve essere dotato di alto
spessore morale; riprendendo un precetto di Catone il Censore (234 a.C.-149 a.C.), anche Cicerone
afferma che l’oratore deve essere vir bonus dicendi peritus (l’uomo retto esperto nell’arte del dire).
I grandi oratori e maestri di retorica del mondo latino, non solo Cicerone, hanno infatti chiara la
consapevolezza del grande potere della parola. Per questo essi ritengono che sia necessario che chi
possiede al massimo grado la capacità di usare la parola sia un uomo ‘buono’, cioè moralmente retto,
capace di esercitare questo potere a fin di bene.
Secondo Cicerone (che si rifà ad Aristotele), sono tre i modi in cui il discorso può agire
sull’interlocutore:
► docere: insegnare, informare, recare all’interlocutore un accrescimento di conoscenza in merito ad
una certa materia
► delectare: dilettare, recare all’interlocutore un piacere
► movere: commuovere, suscitare emozioni, sentimenti, affetti nell’interlocutore, coinvolgerlo
attraverso il pathos
Questi tre modi fanno capo a due aspetti del discorso persuasivo, e quindi della retorica: l’aspetto
argomentativo, che cioè implica il ragionamento (docere); e l’aspetto oratorio (psicologico, emotivo),
che invece implica il ricorso all’affettività, ai sentimenti (delectare, movere).

Già per Cicerone, e prima di lui per Aristotele e più in generale nel mondo greco, la retorica implica,
accanto ad una teoria del discorso (come costrutto logico e linguistico, nei modi che vedremo), una
riflessione ‘pragmatica’, che riguarda, cioè, il rapporto tra gli interlocutori coinvolti nella situazione
comunicativa. Infatti, mettere in opera questi tre modi implica da un lato, che l’oratore si mostri
‘credibile’, ovvero tale da poter insegnare, dilettare, commuovere; dall’altro, che egli conosca bene i
propri interlocutori, il proprio uditorio.

A partire dal I secolo d.C. la retorica subisce un progressivo mutamento: la caduta della repubblica e il
consolidarsi del potere imperiale la privano dell’importanza che aveva avuto nei secoli precedenti, come
arte del discorso persuasivo, prima di tutto politico. La retorica tende così man mano a diventare
precettistica con poche ricadute concrete sulla vita quotidiana, politica e civile: diventa soprattutto ‘arte
del parlare e dello scrivere bene’. In questo secolo, tuttavia, il grande maestro di retorica Quintiliano
(circa 35-96 d.C.) compone un’opera monumentale, la Institutio oratoria, che traccia una summa di tutta
l’arte oratoria precedente e nello stesso tempo la ‘consegna’ ai secoli successivi. Come infatti ha scritto
la studiosa Bice Mortara Garavelli, «le età successive non hanno fatto altro che riprendere, più o meno
21
criticamente, le dottrine antiche, per rielaborarle adattandole a contenuti nuovi e, sempre,
sviluppandone singoli aspetti a scapito di altri. La storia della retorica classica […] è storia degli
ampliamenti parziali e delle riduzioni, degli acquisti e delle perdite, ridistribuite le parti e mutati i
rapporti di forza, nell’immane congegno impiantato dai greci, passato poi ai romani e modellato
esemplarmente, nel suo ultimo assetto antico, dalla summa quintilianea» (Manuale di retorica, Milano,
Bompiani, 1988).

CENNI STORICI/3
Il complesso di riflessioni e di precetti elaborati dalla retorica greca e romana viene ereditato dal
Medioevo, ed occupa un posto centrale entro il sistema delle arti liberali, cioè le discipline in cui era
necessario un lavoro intellettuale: grammatica, retorica, dialettica (il trivium); aritmetica, geometria,
astronomia, musica (il quadrivium). La retorica (intesa come ars bene dicendi: ‘arte del parlare bene’) subisce
però una progressiva erosione di prestigio da parte delle arti affini, grammatica e dialettica (la tecnica e
l’arte della discussione).
Durante l’Umanesimo (seconda metà del Trecento e Quattrocento) vengono riscoperte molte fonti
originali della retorica classica ed essa viene portata ad un nuovo splendore, basandosi principalmente
sul modello di Quintiliano. A partire dal Cinquecento si assiste a una progressiva divaricazione fra
teoria e tecnica dell’argomentazione da una parte, normativa dello stile e degli ornamenti dall’altra: gli
ornamenti del discorso non sono più intesi come parte dell’argomentazione, funzionali al discorso, ma
si specializzano in norme e regole del ‘bel parlare’. Si consuma insomma una divisione delle due anime
che caratterizzano la retorica delle origini come complesso unitario: un’anima logica (volta
all’argomentare, al persuadere per mezzo dei ragionamenti: docere) e un’anima poetica (volta
all’ornamento, al dilettare e al commuovere per mezzo del bello: delectare, movere). Ciò implica un
impoverimento della retorica, una restrizione del suo campo di pertinenza: non più arte del discorso
nella sua totalità, ma tecnica concentrata sulla forma dell’espressione, pratica formale, esteriore, fine a se
stessa.
Questa tendenza si conferma nel Seicento e poi nel Settecento: la retorica è tramandata come insieme
di precetti orientati unicamente all’ornamento del discorso, come rigida precettistica. Essa è ‘l’arte del
parlare e dello scrivere ornato’, con una particolare sottolineatura del valore e dell’ornamento linguistico
e dell’elocuzione artificiosa (cioè elaborata sul piano formale e ricca di figure). In quanto tale, la retorica
diviene spesso oggetto di dispregio.
Così è anche nell’Ottocento: contro i vincoli della retorica il Romanticismo proclama la spontaneità
della creazione, la libertà dell’ispirazione, l’importanza dei sentimenti, il mito del ‘genio’, l’insistenza
sulla naturalezza dell’espressione. E più tardi il positivismo rigetta la retorica in nome della verità
22
scientifica. Tuttavia nell’Ottocento continua, come era continuata nei secoli precedenti, la produzione
manualistica, cioè di numerosi trattati di retorica, frutto di un continuo lavoro classificatorio: si ricorda
in particolare l’opera di Pierre Fontanier (1765-1844), Les figures du discours (1830), che definisce e
classifica tutte le figure retoriche, proponendone un ricchissimo inventario.
A partire dalla metà del Novecento la retorica è stata riscoperta: ne è stata rivalutata l’importanza, la
centralità nella vita quotidiana. La sua rinascita si deve innanzitutto al lavoro di Perelman e Tyteca, ma
a partire dalla metà del secolo si sono moltiplicati gli studi sulla retorica, in prospettive anche molto
diverse. Alcune, in particolare, si sono incentrate sull’elocutio, sul discorso, sulle figure retoriche:
ricordiamo almeno il Gruppo di Liegi (o Gruppo μ), negli anni Sessanta.

LE 5 FASI DELL’ELABORAZIONE DEL DISCORSO SECONDO LA RETORICA


CLASSICA
Spettano a Cicerone (De oratore) la sistemazione e la definizione delle cinque fasi di elaborazione del
discorso dal momento in cui viene concepito fino al compimento.
1) inventio (ricerca e ritrovamento): consiste nel ricercare tutto ciò che occorre – idee, argomentazioni,
esempi, concetti – per svolgere il proprio discorso, per sostenere la propria tesi, per costruire il proprio
testo
2) dispositio (disposizione): la distribuzione del materiale stabilito dall’inventio in modo ordinato e
rispondente alla finalità del nostro discorso. È la ‘scaletta’, l’ordine, lo schema, insomma
l’organizzazione in cui si dispongono gli argomenti per renderli più efficaci, che deve essere costruito in
modo tale da essere funzionale al senso e allo scopo complessivo del discorso, al pubblico a cui è
rivolto ecc. Cambiare l’ordine, e quindi distribuire il materiale (idee e parole) in un ordine o in un altro
significa modificare anche in modo sostanziale il discorso.
Fin dalle origini il discorso retorico viene articolato solitamente in quattro parti (i momenti, o passaggi
del testo, che si susseguono in ordine ‘cronologico’):
▬ introduzione (exordium, proemium): la parte iniziale del discorso, in cui si espone il tema o
oggetto dell’orazione e in cui si suscita l’attenzione, l’interesse e l’atteggiamento benevolo del
destinatario; ne fa parte infatti anche la captatio benevolentiae. Quando l’introduzione è soppressa, si
dice che il discorso inizia ex abrupto (ed è un artificio retorico)
▬ esposizione o narrazione (propositio, narratio): racconto dei fatti, o sviluppo dell’argomento
trattato, o esposizione della tesi che verrà sostenuta
▬ argomentazione (argumentatio): si compone di confermazione (probatio), nella quale si
espongono le prove a favore della propria tesi, e di confutazione (refutatio), nella quale si rigettano
23
le tesi opposte, argomentando contro di esse
▬ conclusione (conclusio, peroratio): conclusione del discorso, in cui ci si ricapitola il discorso e si
auspica il favore, il consenso degli ascoltatori.
Non è detto che ogni discorso debba contenere tutti i passaggi canonici, così come, a volte, i discorsi
possono contenerne di più: ad esempio, può esserci il riassunto o all’interno dello svolgimento può
inserirsi una digressione. Inoltre anche all’interno di ogni parte (introduzione, esposizione,
argomentazione, conclusione) i contenuti dovevano rispettare un ordine opportuno e adatto al singolo
caso.
3) elocutio (elocuzione): il rivestimento verbale, la forma dell’espressione dei concetti trovati
nell’inventio e ordinati della dispositio
4) memoria (memoria): la fase in cui l’oratore, terminata la stesura del discorso, lo impara a memoria
5) actio (declamazione, pronuncia): la gestualità e la recitazione dell’oratore nella fase finale di
pronuncia del discorso davanti al pubblico. È un momento che gli antichi consideravano molto
importante, anzi essenziale.

Le prime due parti riguardano la progettazione e l’organizzazione del discorso; la terza la sua
espressione. Sostanzialmente tutte le teorie retoriche si sono concentrate sulle prime tre parti: inventio,
dispositio, elucutio, e soprattutto su quest’ultima, da cui l’identificazione della retorica con l’eloquenza (la
tecnica e l’arte di parlare con efficacia). Le ultime due parti (memoria e actio) pertengono invece all’oralità,
alla ‘rappresentazione’ del discorso in atto, di fronte agli uditori (tecniche di gestione della voce, di
gestualità, di prossemica ecc.), cioè alla dimensione ‘performativa’ del discorso.

Come si è detto, molti dei concetti e dei principi elaborati in epoca classica sono stati ereditati dalla
cultura moderna e, pur discussi e modificati, sono alla base degli studi recenti di retorica, ma anche di
altre discipline affini (come la linguistica e la pragmatica). Anche le 5 parti del discorso costituiscono
passaggi che ancor oggi, sostanzialmente, ogni ‘produttore’ di testi efficaci è chiamato a rispettare.
Possiamo dunque fare qualche riflessione a partire dalle varie fasi di elaborazione del discorso appena
esposte.
● inventio: si pensi al problema del pubblicitario di che cosa dire, che cosa comunicare (indirettamente,
il più delle volte) al potenziale cliente
● dispositio: si pensi, a proposito dell’introduzione, all’importanza che ha l’inizio di un testo, la
presentazione dell’argomento: il modo in cui questo viene presentato deve essere coerente con il tipo di
testo che si elaborerà e a seconda del modo in cui il testo inizia il destinatario si aspetta un certo tipo di
testo; l’inizio del testo, inoltre, può influenzare la lettura e l’interpretazione del testo nella sua globalità.
24
● actio: si pensi all’importanza di come è ‘recitato’ un discorso di un politico (il tono, la voce, i gesti,
ma anche il suo look e nel complesso il suo comportamento).

■ Prima di addentrarci in maggiori dettagli e approfondimenti, possiamo chiederci che senso può avere
studiare un testo dal punto di vista retorico. Conoscere il modo in cui un testo è costruito consente di
interpretarlo e capirlo meglio.

L’ELOCUTIO
Ci concentriamo ora sull’elocutio. Il termine ha la stessa radice di ‘eloquenza’: entrambe le parole
derivano da ‘e-/ex-’ (‘fuori’) e ‘-loqui’ (‘parlare’), e rimandano dunque al significato ‘parlare
apertamente, in modo chiaro, efficace’. L’elocutio è l’espressione linguistica delle idee trovate
nell’inventio e ordinate nella dispositio.
Secondo gli antichi l’elocutio doveva rispettare un requisito fondamentale: la convenienza (aptum:
idoneo, adatto), cioè che il discorso si addica, si convenga, a quanto è richiesto dalle circostanze, alla
situazione comunicativa, in altre parole che sia adatto agli scopi prefissi. Questo è il principio che
sostiene tutte le parti della retorica, il criterio ultimo che orienta le tre virtù richieste all’elocutio:
● la correttezza linguistica (puritas)
● la chiarezza (perspicuitas), necessaria perché il discorso sia comprensibile
● l’eleganza (ornatus), tutto ciò che abbellisce, impreziosisce, adorna l’espressione. È questa la
dimensione più propriamente estetica, che però presso gli antichi era subordinata allo scopo della
persuasione.
La moderna riscoperta della retorica come arte dell’argomentazione ha portato anche alla rivalutazione
di quella che gli antichi chiamavano elocutio Il modo in cui si dice una cosa non è indifferente, ma
produce sul pubblico un effetto e quindi incide sul significato e sull’efficacia di un testo: «uno stesso
contenuto […] non è identico a se stesso quando è presentato diversamente» (Perelman, Olbrechts-
Tyteca, Trattato dell’argomentazione).
I fenomeni e gli artifici che pertengono all’elocutio, e che costituiscono un insieme molto ricco e
complesso, già a partire dall’antichità sono stati organizzati secondo diverse classificazioni; anche gli
studi moderni e più recenti non sono concordi nel classificare il materiale retorico relativo all’elocutio.
Una tappa fondamentale, come si è anticipato, è stata comunque la sistemazione operata da Lausberg.
Dunque si propone di seguito una classificazione composta, adattata e semplificata a partire proprio
dalla sistemazione di Lausberg, Elementi di retorica (1949), integrata da Mortara Garavelli, Manuale di
retorica (1988). Tale classificazione è da intendersi come supporto al ragionamento e alla memoria, non

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come sistemazione esaustiva.
Parleremo dunque di figure: esse sono configurazioni del discorso. Come si vede, è una definizione
molto generale. D’altra parte la nozione di ‘scarto’ dalla norma è insufficiente e problematica. Infatti,
come si può definire l’uso comune della lingua? Inoltre anche nella lingua quotidiana usiamo molte
figure e quindi esse fanno parte anche dell’uso comune. Infine non è possibile pensare alle figure come
a semplici abbellimenti dovuti appunto a una deviazione dall’uso comune.
Prima di iniziare lo studio delle figure retoriche dobbiamo riprendere la fondamentale distinzione
introdotta dal linguista Ferdinand de Saussure fra asse paradigmatico e asse sintagmatico:
● asse paradigmatico (della selezione): è l’inventario degli elementi/delle parole a disposizione
nella competenza del parlante e che nella sua mente si associano
● asse sintagmatico (della combinazione): è costituito dalla catena lineare in cui si posizionano gli
elementi/le parole prodotte dal parlante
Distinguiamo tre tipi di figure:
► paradigmatiche (tropi): si basano sul procedimento della sostituzione
► sintagmatiche: si basano su procedimenti di aggiunta, soppressione o modificazione
► fonetiche (di suono): operano per ripetizione di materiale fonetico

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20. LE FIGURE PARADIGMATICHE: LA METAFORA
Le figure paradigmatiche operano mediante il meccanismo della sostituzione: ad una parola o a
un’espressione se ne sostituisce un’altra.
Le figure paradigmatiche sono dette anche tropi (‘direzione, svolta’): il termine indica il processo per
cui un’espressione viene deviata dal suo significato proprio per rivestire un significato traslato o
figurato. Una parola lascia cioè il suo significato più comune per assumerne un altro. Un altro modo per
indicare le figure paradigmatiche è traslato (dal lat. transferre, ‘portare al di là’; è sempre lo stesso
concetto di deviazione, trasferimento).

LA METAFORA
La figura paradigmatica per eccellenza, tanto da essere stata definita la ‘regina dei tropi’, è la metafora.
Del suo primato già si erano accorti gli antichi: Aristotele dedica alla metafora uno spazio centrale, sia
nella Retorica che nella Poetica; essa inglobava allora altri tropi, ad esempio la sineddoche e la metonimia.
Si tratta in effetti di una figura retorica molto usata non solo nei testi formali, colti e dunque nei
registri alti, ma anche nella comunicazione scientifica e nella vita quotidiana. Tuttavia il meccanismo
metaforico è risultato e risulta ancora di difficile definizione.
Diamo della metafora una definizione che si basa su una concezione sostitutiva. La metafora è la
sostituzione di una parola (o un’espressione) con un’altra parola (o un’altra espressione) che
ha con la prima un tratto semantico (sema) comune, detto tertium comparationis. Della seconda
parola (o espressione) viene scelto solo il tratto semantico che essa ha in comune con la prima parola,
mentre altri eventuali tratti semantici sono lasciati cadere.
La metafora può attingere dagli ambiti semantici più diversi: dal mondo vegetale, animale, minerale,
cosmico, dal corpo umano, dai diversi campi di attività, dalle arti, dai mestieri, dai manufatti ecc.
■ Qualunque uso se ne faccia (ne vedremo degli esempi: pubblicità, informazione ecc.) la metafora
deve essere comprensibile dal destinatario. La metafora è indissolubilmente legata alle conoscenze
del destinatario, al suo codice culturale.

LE RIFLESSIONI DI ARISTOTELE SULLA METAFORA


Aristotele (384-322 a.C.) dedica alla metafora un’ampia trattazione sia nella Retorica, sia nella Poetica.
Nella riflessione aristotelica la metafora ha una valenza conoscitiva, perché permette di ipotizzare una
nuova conoscenza attraverso l’individuazione di similarità tra elementi: «metaforizzare bene è lo
scorgere il simile» (Poetica). Secondo Aristotele le metafore sono figure di apprendimento e questo è
vero soprattutto per le metafore meno ovvie e scontate. La metafora coglie spesso una somiglianza,

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un’analogia non ovvia ed evidente tra cose lontane per ambiti esperienziali.
Aristotele individua una seconda caratteristica fondamentale della metafora, cioè il fatto di essere
concentrata, dal porre quasi sotto gli occhi istantaneamente due immagini contemporaneamente
(referenziale e ‘figurata’).
Inoltre secondo Aristotele (e in generale secondo la tradizione classica) la metafora procura un piacere
estetico.

LE RIFLESSIONI MODERNE SULLA METAFORA


Le riflessioni sulla metafora hanno seguito la storia della retorica. Con la rivalutazione novecentesca
della retorica, anche la metafora è tornata a rivestire una funzione conoscitiva, oltre che ornamentale.
Gli studi più recenti attribuiscono alla metafora un ruolo centrale non solo nell’uso della lingua, ma
anche nell’elaborazione del pensiero e della conoscenza: la metafora è studiata oggi sia come elemento
linguistico che come elemento cognitivo.
Il panorama degli studi e delle ricerche sull’argomento è molto vasto e la bibliografia è ricchissima: va
preliminarmente riconosciuto che, nonostante secoli e secoli di dibattiti, non è ancora stata trovata una
teoria unica che dia conto di tutta la ricchezza e complessità della metafora.

Nel 1958, lo studioso di estetica Monroe C. Beardsley pubblica un’opera, Aesthetics, nella quale
distingue due tipi di enunciato:
1. enunciato referenziale: in esso le parole rappresentano la realtà;
2. enunciato auto-contraddittorio: in esso le parole non rappresentano la realtà e l’enunciato è
dunque privo di senso.
La metafora, secondo Beardsley, è una struttura linguistica auto-contraddittoria che però è portatrice di
senso. Il carattere fondamentale del processo retorico sarebbe dunque la costruzione di meccanismi
linguistici auto-contraddittori a livello referenziale, ma portatori di significato nello spirito del
destinatario. Allora alle due precedenti tipologie di enunciato Beardsley ne aggiunge una terza:
3. enunciato auto-contraddittorio portatore di senso.

Una tappa fondamentale, nelle recenti ricerche sulla metafora, è rappresentata dagli studi di George
Lakoff e Mark Johnson, che nel 1980 hanno pubblicato il volume Metaphors we live by (trad. it. Metafora
e vita quotidiana). I due studiosi hanno elaborato il concetto di metafora concettuale, inaugurando la
cosiddetta ‘teoria cognitiva’ della metafora: la metafora, non più concepita come un processo
unicamente ornamentale, è anche un processo insito nella nostra mente.
L’intero sistema di pensiero umano è infatti metaforico: senza la metafora non sarebbe possibile
28
esprimere che cosa sono l’amore, la giustizia, la personalità ecc.: la metafora domina nei processi di
astrazione, rendendoli concretamente possibili.
Il trovare metafore è dunque connesso alla capacità di astrazione (tra ambiti di realtà differenti colgo
il simile) e insieme capacità di immaginazione (sono in grado di rappresentarmi il concetto astratto
in termini concreti).
Dunque l’ambito degli studi sulla metafora eccede di molto il solo campo letterario, e si presta ad
indagare il modo stesso in cui l’uomo pensa, conosce, si rappresenta i vari campi del reale.

Riprendiamo la definizione data di metafora, che si basa sulla categoria della ‘sostituzione’. È chiaro
che essa è una semplificazione: il processo metaforico implica in realtà una interazione e riformulazione
dei due ambiti semantici coinvolti, il proprio e il metaforico. Ad esempio la frase ‘Luca è una volpe’
significa qualche cosa di irriducibilmente diverso dal significato letterale ‘Luca è astuto’: questo
‘qualcosa’ è anche nuovo, perché crea nuove connessioni tra due concetti, che prima non esistevano.
Pur essendo un fatto di parola singola (è la singola parola ‘volpe’ ad essere metaforica), la metafora
genera un fatto di pensiero che investe due interi ambiti concettuali. La relazione che si instaura tra
l’elemento metaforizzato e l’elemento metaforizzante genera un significato non preesistente, ma
formulato nel momento stesso in cui si formula la metafora. Tra metaforizzato e metaforizzante si crea
una sorta di reciproca influenza, quasi che un termine proietti qualcosa di sé sull’altro.

LE METAFORE LESSICALIZZATE
Sono le metafore entrate stabilmente a far parte del codice, ‘cristallizzate’ e fissate nell’uso, tanto da non
essere di fatto più avvertite come tali (sono insomma ‘spente’; ma fra gli studiosi circolano molte
definizioni, come metafore ‘assopite’, ‘convenzionali’, ‘ordinarie’, ‘ibernate’).
Ciò succede perché spesso le metafore sono fatti culturali, cioè funzionano all’interno di un patrimonio
di sapere condiviso: un modo che ormai è scontato, entrato stabilmente nel patrimonio collettivo.
Molte delle metafore comunemente usate nel linguaggio quotidiano sono tratte dall’ambito zoomorfo,
ma le metafore lessicalizzate provengono comunque da ogni ambito della realtà.
Sono metafore lessicalizzate, molto spesso e in ogni codice linguistico, i fraseologismi.
Quando una metafora entra a far parte stabilmente del codice (quando cioè diventa lessicalizzata) essa
contribuisce a creare polisemia.

LE METAFORE TENUTE
La metafora tenuta (o continuata) è una serie di metafore che sfruttano elementi appartenenti ad
uno stesso campo semantico (cioè, l’insieme di parole che appartengono alla stessa area di
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significato) e che investe una porzione più ampia di testo.

LE METAFORE E IL SIGNIFICATO
L’uso delle metafore influsice sul significato di ciò che diciamo. È dunque importante usare le metafore
in modo consapevole, e nello stesso tempo saper interpretare i testi con cui entriamo in contatto.
Quando si usano metafore si attivano presupposizioni e inferenze, si evocano e si suggeriscono cornici
concettuali, schemi di interpretazione della realtà, quadri di riferimento concettuale.

L’USO DELLE METAFORE NELLA PUBBLICITÀ


Nella pubblicità è molto frequente l’uso di metafore, oltre che di altre immagini. L’uso della metafora
risponde a due criteri antitetici: convenzionalità (richiamare e alludere a schemi concettuali comuni,
ricavabili facilmente) e creatività (essere originali, nuove per attirare e coinvolgere).
Un’altra caratteristica importante della pubblicità, anche nell’uso delle metafore, è il ricorso al linguaggio
visivo

L’USO DELLE METAFORE NEL GIORNALISMO


Anche nel giornalismo la metafora è intensamente sfruttata, secondo gli stessi criteri visti per la
pubblicità: convenzionalità e creatività.

L’USO DELLE METAFORE NELLA POLITICA


Anche nel linguaggio dei politici la metafora è uno strumento comunicativo di primaria importanza:
attraverso la metafora, infatti, si impostano le diverse ‘narrazioni’ della realtà.

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21. LE ALTRE FIGURE PARADIGMATICHE
Di seguito si fornisce una breve illustrazione delle principali figure paradigmatiche. Bisogna tener
presente che spesso in una parola o in un’espressione si condensano due o più figure retoriche.

SINEDDOCHE
La classificazione di questa figura, così come della metonimia, ha destato problemi fin dall’età classica e
continua a suscitarne: scuole retoriche diverse ne hanno dato definizioni diverse. Se ne propone qui la
definizione adottata dalla maggioranza delle retoriche più recenti.
Il nome deriva dal greco synekdoché (prendere insieme). La sineddoche consiste nella sostituzione di un
termine con un altro che abbia con il primo rapporti di natura estensionale (cioè in una
relazione di quantità).
Quando il termine usato ha un’estensione minore del termine sostituito, si dice che la sineddoche è
particolarizzante. Quando invece il termine usato ha un’estensione maggiore del termine sostituito la
sineddoche è generalizzante.
Di seguito si propongono i principali tipi di sineddoche:
► sineddochi particolarizzanti (dal più al meno)
● la parte per il tutto: al posto di nominare tutto l’oggetto, se ne nomina una parte
● il singolare per il plurale: al posto di nominare un concetto generale se ne nomina il singolare.
● la specie per il genere: al posto di nominare una categoria di oggetti ne nomino uno specifico che a
tale categoria appartiene.

► sineddochi generalizzanti (dal meno al più)


● il tutto per la parte
● il plurale per il singolare
● il genere per la specie

METONIMIA
Il nome deriva dal greco metonymía (‘scambio di nome’). È la sostituzione di una parola (o
un’espressione) con un’altra che abbia con essa un rapporto di contiguità logica o materiale. Nella
figura della metonimia sono coinvolti campi concettuali contigui.
I principali tipi di metonimia sono:
► sostituzione di una parola (un’espressione) con un’altra che stia ad essa come la causa sta
all’effetto, o come l’effetto sta alla causa
In questo tipo di metonimia possono rientrare tipi più particolari, come:
● l’autore al posto dell’opera
● il produttore per il prodotto
● il santo per la chiesa che gli è dedicata
● la divinità mitologica per i suoi attributi o la sua sfera d’influenza

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► sostituzione di una parola (un’espressione) con un’altra che abbia con essa un legame di
dipendenza reciproca, che cioè sia legata ad essa da altri tipi di rapporti logici o materiali:
● il contenente al posto del contenuto
● la materia per l’oggetto
● la sede per l’istituzione che ospita
● il luogo al posto dei suoi abitanti
● la qualità per chi ne è fornito
● l’astratto per il concreto e il concreto per l’astratto
● lo strumento per la persona che lo usa
● una parte del corpo per l’elemento morale di cui è simbolo
● il simbolo per la persona o la cosa simboleggiata (rientra in questa tipologia anche la divisa al posto di
chi la porta)
● la marca per il prodotto
● il luogo di produzione per il prodotto

Alcune metonimie sono passate nell’uso comune e non sono più di fatto riconoscibili.

PERIFRASI
Detta anche circonlocuzione, la perifrasi è la sostituzione di una parola con un giro di parole. Si
tratta di un fenomeno ricorrente che moltiplica indefinitamente le potenzialità del linguaggio.
Anche la perifrasi è una figura retorica ampia, che al suo interno può contenere altre figure retoriche.
La perifrasi
► contribuisce a mantenere coeso un testo, costituendo una sorta di ‘sinonimo’
► può avere valore eufemistico (moltissimi eufemismi sono perifrasi eufemistiche)
► può contribuire a innalzare il registro
► può avere valore informativo-didascalico
► può contenere una valutazione, più o meno esplicita (perifrasi valutativa)

Naturalmente anche nel caso della perifrasi, è necessario che il destinatario sia in grado di interpretarla
facendo ricorso al contesto e alla sua enciclopedia. Ricordiamo anche quanto già detto sulla perifrasi
parlando della coesione: oltre a contenere un’informazione in più rispetto alla parola che sostituisce e a
poter essere valutativa, la perifrasi isola un solo aspetto del significato della parola sostituita.

ANTONOMASIA
Il nome di questa figura paradigmatica deriva dal greco antonomazo, che significa ‘nomino con altro
nome’: è proprio questo il meccanismo di base dell’antonomasia. Esistono in realtà due tipologie di
antonomasia, che sono l’una l’inverso dell’altra, ma che appunto ‘funzionano’ con lo stesso
procedimento.

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L’antonomasia è
► la sostituzione del nome proprio di una cosa o di una persona famose con una parola (o
un’espressione) che ne indichi l’attività preminente o una qualità molto nota
► la sostituzione di una parola (o espressione) che indichi un’attività o qualità preminente con
il nome proprio di una persona o cosa o evento noti ed emblematici di quella attività o qualità.
In alcuni casi si è assistito al passaggio dall’antonomasia al nome comune: cioè un nome proprio usato
inizialmente per attribuire una qualità o un’attività preminente (il secondo caso di antonomasia) è
entrato nell’uso e si è trasformato in nome comune.
■ Molte antonomasie sono lessicalizzate, cioè si sono sedimentate nel codice. Tuttavia, benché
lessicalizzate, le antonomasie, forse più di ogni altra figura retorica, sono soggette all’evoluzione
culturale.

EUFEMISMO
È la sostituzione di una parola (o un’espressione) diretta con un’altra attenuativa,
linguisticamente più debole.
■ Anche l’eufemismo è una figura retorica sottoposta all’evoluzione culturale.
■ Molto spesso l’eufemismo è anche una perifrasi; spesso può inoltre essere una litote.

IPERBOLE
È la sostituzione di una parola (o un’espressione) con un’altra che la amplifica o la diminuisce
in modo esagerato, cioè fuori dai confini della verosimiglianza ma mantenendo con ciò che è vero
una qualche somiglianza.
Naturalmente il destinatario capisce che non deve prendere alla lettera la parola o l’espressione
iperbolica e riconosce il meccanismo che ne consente il funzionamento. Il fraintendimento
(involontario o volontario) dell’iperbole può dare origine al comico.

LITOTE
È la negazione del contrario di ciò che si vuole affermare: cioè la sostituzione del termine
referenziale appropriato con la sua negazione (non affermo una cosa, ma nego il suo contrario).
La litote può assumere diverse funzioni, diversi ‘valori’:
► eufemistico: attenua la forza dell’espressione
► iperbolico: accresce la forza dell’espressione.

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Ancora una volta, solo il riferimento al contesto comunicativo può permettere al destinatario di
comprendere il valore (attenuativo o iperbolico) della litote.
■ La litote è una perifrasi ed è molto spesso in combinazione con altre figure (ad es. con l’eufemismo,
con l’ironia).

IRONIA
È la sostituzione di ciò che si vuole dire con il suo contrario, cioè l’affermazione del contrario.
Nell’ironia si usa un’espressione per significare esattamente il contrario di ciò che essa dice. Per cogliere
la presenza di questa figura retorica è necessario far riferimento al contesto in cui avviene la
comunicazione. Chi usa l’ironia chiama in causa il destinatario, lo chiama a collaborare attivamente
all’interpretazione perché il procedimento ironico sia scoperto. Tuttavia il fraintendimento è spesso un
rischio concreto.
La definizione di ironia che si è data è in realtà riduttiva. Le forme in cui la figura dell’ironia può
manifestarsi sono infatti molto numerose e non si limitano certo all’antifrasi: si tratta di una figura
retorica ampia, che può contenere altre figure retoriche e che può essere più o meno esplicita; una
figura per certi versi inafferrabile. Di fatto l’ironia può presentarsi commista praticamente a tutte le altre
figure: ad esempio ci possono essere metafore ironiche, ma anche iperboli ironiche.
In generale si può parlare di ironia come invito al distanziamento; come espressione di un
atteggiamento critico e valutativo; come capacità di superare i luoghi comuni e gli stereotipi.
L’ironia può essere sottile, leggera, oppure sferzante. Le sue funzioni e i suoi usi sono molti e sono stati
variamente studiati: si può accennare almeno allo scopo comico, nelle sue molteplici manifestazioni.
L’uso dell’ironia consente di affermare in modo indiretto e prudente, di esprimere elegantemente un
contenuto che può essere duro. L’ironia è intelligenza, l’opposto dell’istintività.

SINESTESIA
È l’associazione di due parole (o espressioni) che appartengono a diverse sfere sensoriali.
Anche le sinestesie si possono cristallizzare, cioè possono divenire ‘spente’; vale a dire che di fatto non
si avverte più la natura figurata dell’espressione.

Non sono riconducibili alla metafora altre due figure paradigmatiche: la catacresi e l’allegoria.
CATACRESI
Molti trattatisti la identificarono con la metafora. Quintiliano (I sec. d.C.) la definì una parola usata
impropriamente per supplire alla inopia linguae (povertà della lingua), cioè alla mancanza nel codice di un
termine specifico per designare un determinato oggetto.
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La catacresi si verifica quando si deve indicare un oggetto, una cosa, una nozione per i quali una lingua
non ha a disposizione un vocabolo specifico. Si ricorre così o alla creazione di una parola nuova
(neologismo) o all’estensione di una parola già esistente oltre i limiti del significato proprio
(appunto la catacresi). Dunque la catacresi non sostituisce una parola già esistente.
■ Si tratta molto spesso di espressioni ormai stabili, abituali (e quindi con un significato che non è più
avvertito come traslato, ma come proprio): per questo c’è chi definisce anche la catacresi una metafora
consumata, o totalmente lessicalizzata.
■ Le catacresi sono strettamente legate al codice.

ALLEGORIA
L’allegoria è l’attribuzione di un significato simbolico, diverso rispetto a quello letterale. Il testo
ha dunque due livelli di senso: il primo, letterale, rinvia al secondo, l’allegorico, che in genere è un
insegnamento di ordine morale, intellettuale, sociale. L’allegoria non riguarda una singola parola o
espressione, ma un’intera struttura testuale. Nell’allegoria, cioè, tutto il testo è figurato.
Tipica struttura allegorica è, ad esempio, il genere della favolistica animale fondata nell’antica Grecia da
Esopo. Racconti allegorici sono le parabole evangeliche. In ambito letterario, molte opere, poemi,
romanzi, racconti sono grandi allegorie.
Il significato allegorico è presente in modo intenzionale, cioè l’autore lo ha volutamente attribuito alla
sua opera; ma nel corso dei secoli, soprattutto nel Medioevo, il significato allegorico è stato attribuito
dai lettori a opere o episodi storici e mitologici (e anche a persone).
L’allegoria differisce dalla metafora perché nell’allegoria si può sempre riconoscere un significato
letterale accettabile.

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22. LE FIGURE SINTAGMATICHE
Le figure sintagmatiche operano mediante il meccanismo della modificazione. In particolare esse
possono operare:
► per aggiunta di elementi
► per soppressione di elementi
► per modificazione della combinazione fra gli elementi.
Nella sua moderna classificazione Lausberg distingue, all’interno delle figure sintagmatiche, tra figure di
parola (che riguardano l’espressione linguistica) e figure di pensiero (che riguardano le idee): in
entrambe queste categorie si verificano meccanismi di aggiunta, soppressione o modificazione
dell’ordine degli elementi. Nelle pagine seguenti, che propongono una rassegna delle principali figure
sintagmatiche, non si terrà tuttavia conto di tale distinzione.

A) FIGURE SINTAGMATICHE PER AGGIUNTA

EPANALESSI
Ripetizione di una o più parole in posizione contigua, eventualmente inframmezzate da altri
elementi. La ripetizione può essere all’inizio, all’interno o alla fine di un segmento sintattico. Ha un
effetto di intensificazione semantica.

ANADIPLOSI
Ripetizione di una o più parole alla fine di un segmento sintattico e all’inizio di quello
immediatamente successivo. Come nell’epanalessi, anche nell’anadiplosi fra le due parole possono
essere interposti altri elementi. E come l’epanalessi, anche l’anadiplosi ha un effetto enfatico.

EPANADIPLOSI
Ripetizione di una o più parole all’inizio e alla fine di un segmento sintattico.

ANAFORA
Ripetizione di una o più parole all’inizio di frasi o segmenti di frasi successivi.

EPIFORA
Ripetizione di una o più parole alla fine di frasi o segmenti di frasi successivi.

DITTOLOGIA SINONIMICA

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Accostamento di parole con significato simile, con effetto di enfasi e amplificazione.

FIGURA ETIMOLOGICA
Ripetizione di una stessa radice lessicale in parole vicine, con effetto di intensificazione semantica.
Ha l’effetto di rinforzare il significato.

ENUMERAZIONE
Accostamento di una serie di parole o di sintagmi, per asindeto o per polisindeto. Le parole o
sintagmi accostate appartengono alla stessa categoria concettuale, alla stessa macroarea semantica;
altrimenti si parla più propriamente di enumerazione caotica. L’enumerazione può rallentare il
discorso, può scandire il progredire di una narrazione può rendere più dettagliata una descrizione.
Quando i vari elementi enumerati sono distanziati fra loro da altri elementi o da altre espressioni, si
parla più propriamente di distribuzione.

DEFINIZIONE
Spiegazione di una parola o di un’espressione che accompagna la parola o l’espressione stessa.
Svolge la funzione di chiarificazione semantica.

OSSIMORO
Accostamento o unione di parole semanticamente opposte, in contraddizione, riferite ad uno
stesso elemento. L’ossimoro riferisce contemporaneamente a uno stesso elemento contenuti
contraddittori, in modo paradossale. Si tratta dunque di una figura che mira a creare sorpresa e
meraviglia e che coinvolge il destinatario.

ANTITESI
Contrapposizione di due o più concetti realizzata attraverso la corrispondenza di parole o
segmenti di frase di significato opposto. È dunque una opposizione combinata a una
corrispondenza di strutture sintattiche. Nell’antitesi i concetti contrapposti devono avere un aspetto in
comune, o comunque appartenere allo stesso campo semantico.

SIMILITUDINE
Paragone tra due elementi diversi sulla base di una somiglianza (tratto semantico comune detto
anche tertium comparationis) che viene introdotta per mezzo di un modalizzatore. La similitudine può
avere un’estensione molto variabile; in effetti la similitudine è una figura retorica ‘narrativa’, che cioè
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offre la possibilità di ampliare il confronto con numerosi dettagli.
La similitudine è diversa dalla comparazione: nella similitudine infatti i termini che vengono
confrontati fra loro non sono reversibili, diversamente appunto dalla comparazione.

B) FIGURE SINTAGMATICHE PER SOPPRESSIONE

ELLISSI
L’ellissi in quanto figura retorica va distinta dall’ellissi grammaticale, di cui si è già detto a proposito
della coesione. L’ellissi retorica prevede che il destinatario debba compiere uno sforzo, più o meno
grande, per ricostruire la lacuna e il senso complessivo. Il senso non è dunque pregiudicato, ma va
ricostruito.
L’ellissi (come figura retorica) permette di rendere più snello il discorso, ma anche di suscitare
l’interesse del destinatario; inoltre, pur non compromettendo la comprensione del significato, l’ellissi
può essere usata per mantenere volutamente un certo grado di ambiguità e di indeterminatezza del
senso.

RETICENZA (APOSIOPESI)
Interruzione del discorso che però lascia intendere ciò che non si dice (che dunque è alluso).
Anche in questo caso il destinatario è fortemente coinvolto nel processo di interpretazione.

PRETERIZIONE
Affermazione che si vuole tacere di qualcosa di cui tuttavia si parla o a cui si fa comunque
cenno. Ha lo scopo di dare evidenza a ciò che apparentemente viene tralasciato e ha quindi un carattere
paradossalmente enfatico.

C) FIGURE SINTAGMATICHE PER MODIFICAZIONE

ANASTROFE
È l’inversione nell’ordine naturale di due o più parole o sintagmi. La modificazione dell’ordine
consueto comporta una modificazione nella distribuzione delle informazioni.

CHIASMO
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Disposizione incrociata di elementi corrispondenti per struttura fonetica, natura grammaticale,
funzione sintattica o valore semantico, secondo lo schema ABBA.

CLIMAX
Disposizione di due o più parole o sintagmi secondo un ordine di progressione semantica
(intensificazione o attenuazione del tratto semantico comune).

PARALLELISMO
Disposizione simmetrica di suoni, parole, sintagmi, elementi grammaticali, strutture
sintattiche.

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23. LE FIGURE FONETICHE
Sono le figure retoriche che operano per ripetizione di materiale fonetico.
Le figure fonetiche (o figure di suono o ricorsi fonetici) sono alla base della comunicazione
fonetica, cioè della strutturazione del testo in funzione del significante, al fine di renderlo
foneticamente coeso.
Poiché i fenomeni di ricorso fonetico sono colti immediatamente, i testi caratterizzati da tali fenomeni
si imprimono con maggior forza nella mente: la coesione fonetica è dunque uno strumento per
rendere efficace e persuasivo un discorso.
Le figure fonetiche sono intraducibili; e sono figure ‘fragili’.
Se i fenomeni di ripetizioni fonica non sono consapevolmente ricercati per particolari scopi espressivi, è
consigliabile evitarli, perché rischiano di generare effetti fastidiosi e cacofonici.

ALLITTERAZIONE
Ripetizione di uno o più suoni (vocali, consonanti, sillabe), a inizio o all’interno di parole vicine.

ASSONANZA
Ripetizione delle sole vocali, a partire dalla vocale tonica inclusa, in due o più parole vicine

CONSONANZA
Ripetizione delle sole consonanti che seguono la vocale tonica, in due o più parole vicine.

OMOTELEUTO
Ripetizione di suoni simili o uguali alla fine di due o più parole, esclusa la vocale tonica.

RIMA
Ripetizione di suoni uguali alla fine di due o più parole, a partire dalla vocale tonica

PARONOMASIA
Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole quasi identiche in tutti i suoni che le
compongono, ma diverse quanto alla radice e al significato.
L’accostamento delle due parole può essere anche implicito,: si parla in questo caso di paronomasia in
absentia.

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La paronomasia è ampiamente sfruttata in pubblicità, nei titoli di giornale, ma anche a fini comici e
umoristici.
Quando la paronomasia è involontaria si ha malapropismo (dal nome di Mrs Malaprop, protagonista
di una commedia di Richard Sheridan, 1775, a sua volta derivato dal francese mal à propos).

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24. LE TIPOLOGIE TESTUALI
Fin dall’antichità si è sentita l’esigenza di raggruppare i diversi testi in classi omogenee. Già i greci e poi
i romani avevano distinto fra tipi di testo giudiziari, deliberativi ed epidittici. Anche nel corso del
Novecento sono emerse alcune proposte di classificazione, che distinguono i testi sulla base di diversi
criteri. Il concetto di tipologia testuale e la classificazione tipologica dei testi sono momenti importanti
nel processo di comprensione e produzione di un testo. A seconda del tipo di testo cambia il modo
in cui esso è pianificato, costruito, organizzato. Dunque imparare a distinguere i vari tipi di testo
permette:
1) di capire la loro vera natura e il loro vero scopo;
2) di produrre testi pertinenti al contesto e alla necessità per cui sono scritti, dunque efficaci.
Fra gli studiosi esistono numerose proposte per l’identificazione delle diverse tipologie e d’altronde i
testi sono irriducibili ad una classificazione rigida. Bisogna infatti sempre tener presente che il tipo
di testo è un modello astratto e che nella realtà i singoli individui (i singoli testi) hanno caratteristiche
appunto individuali. Ed è bene tener presente anche che anche all’interno dei diversi tipi di testo che è
possibile individuare si possono poi ulteriormente distinguere anche sottotipi più ristretti.

LA CLASSIFICAZIONE FUNZIONALE-COGNITIVA
Si tratta di una classificazione già elaborata nell’antichità (nella dispositio erano previsti momenti
descrittivi, narrativi, argomentazioni ecc.), ma ripresa in epoca moderna. In particolare illustriamo la
classificazione proposta dallo studioso tedesco Egon Werlich (1975 e 1976), oggi la più conosciuta.
È una classificazione dei testi che considera:
1) il tipo di operazione cognitiva messo in atto dagli interlocutori, cioè il modo e i processi attraverso
i quali conosciamo, gli schemi astratti attraverso i quali elaboriamo linguisticamente l’esperienza;
2) lo scopo comunicativo del mittente.
In base a questo duplice criterio, si distinguono 5 tipi fondamentali di testi: descrittivo, narrativo,
espositivo, argomentativo, prescrittivo. Bisogna però ricordare quanto già detto: questi tipi di testo
sono molto generali, per così dire astratti. Essi in realtà si manifestano concretamente (e si sono
manifestati nel corso dei secoli) in modi diversi.

TESTI DESCRITTIVI
La descrizione è collegata alla capacità cognitiva di cogliere le percezioni relative allo spazio
(cogliere persone e oggetti nello spazio). I testi descrittivi hanno lo scopo di descrivere qualcosa
(una persona, un oggetto, una situazione, un concetto, un fenomeno ecc.) soffermandosi sui dettagli e i
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particolari e considerandoli in un contesto spaziale statico e atemporale: i testi descrittivi sono
dunque statici.
L’oggetto di una descrizione può essere:
► reale, cioè far parte dell’esperienza diretta di mittente e destinatario
► fittizio, immaginario o ipotetico.

Solo raramente la descrizione è fine a se stessa; molto spesso, invece, essa ha una funzione precisa
(informare, convincere, persuadere, emozionare, argomentare ecc.) e, altrettanto spesso, diverse
funzioni si sovrappongono. In base alla funzione (alla finalità), la descrizione può essere:
► oggettiva (informativa): presenta una descrizione neutra
► soggettiva: esprime l’esperienza personale, la risonanza affettiva (dominante emotiva) ed è dunque
connotativa; oppure vuole sostenere un’argomentazione, un’opinione, un giudizio ecc. (dominante
argomentativa); o infine vuole convincere il destinatario (dominante suasoria).

Che riguardi oggetti reali o fittizi, che sia oggettiva o soggettiva, la descrizione è sempre selettiva.
Infatti quando si descrive si selezionano:
► le parti da descrivere: ne deriva che una descrizione non è mai completa
► le proprietà da applicare a tali parti (o ad alcune di esse)
► la successione, l’ordine in cui disporre e presentare le parti descritte: può essere lineare oppure può
seguire un criterio particolare; o ancora può essere ‘casuale’.
Questa scelta è condizionata dallo scopo della descrizione.

Dal punto di vista linguistico il testo descrittivo si caratterizza per: la presenza di enumerazioni di
entità e di proprietà (il numero delle proprietà è maggiore di quello delle entità descritte); la prevalenza
di predicati stativi; la prevalenza di tempi verbali come il presente o l’imperfetto, con valore
durativo e/o atemporale; la prevalenza di relazioni logiche di organizzazione testuale di aggiunta.
Esempi di testi descrittivi: guide turistiche, parti di opere letterarie, presentazioni di prodotti.

TESTI NARRATIVI
La narrazione è correlata alla capacità cognitiva di cogliere le percezioni relative al tempo
(cogliere avvenimenti e trasformazioni nel tempo). I testi narrativi hanno lo scopo di raccontare
un evento o una serie di eventi (realmente accaduti o inventati) tra loro collegati. Il testo narrativo è
dinamico, e ha il suo fulcro della successione nel tempo.
Nell’analisi di un testo narrativo bisogna tener conto di tre parametri fondamentali:
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► la selezione degli eventi da narrare, dei personaggi ecc.
► la maggiore o minore ‘distanza’ del narratore dal mondo narrato
► l’ordine con cui gli eventi sono presentati all’interno del testo. Nella narrazione bisogna infatti
distinguere due livelli: l’ordine con cui gli eventi si sono realmente succeduti (o si immagina che siano
accaduti, nel caso di fatti inventati), indicato con il termine fabula; e l’ordine con cui gli eventi
(realmente accaduti o no) vengono raccontati, indicato con il termine intreccio.
La narrazione può coincidere con la fabula: essa prevale nella narrazione oggettiva, a dominante
referenziale. Oppure può modificarlo, seguendo un intreccio (è quello che già i latini chiamavano ordo
artificialis): esso prevale nella narrazione soggettiva, a dominante emotiva o suasoria. L’intreccio fa uso di
prolessi (flash forward) e di analessi (flashback): la prolessi (flash forward) è un ‘salto in avanti’, cioè
un’anticipazione di eventi; l’analessi (flashback), al contrario, è un ‘salto all’indietro’, un recupero di
eventi già accaduti ma introdotti in un secondo momento.
Dal punto di vista linguistico il testo narrativo si caratterizza per: l’uso di verbi di azione (la
caratteristica della narrazione è infatti la dinamicità); l’uso di indicatori temporali, che specificano i
rapporti cronologici tra gli eventi narrati, così come il rapporto tra il tempo narrato e il tempo della
narrazione; la preferenza per tempi verbali al passato; l’uso al presente o al futuro di eventuali
verbi di commento del narratore.
Esempi di testi narrativi: articoli di cronaca, biografie, favole, racconti, romanzi, aneddoti, barzellette,
resoconti di viaggi.

Lo storytelling
Lo storytelling è l’arte di raccontare storie. Negli ultimi decenni si è affermata come attività
fondamentale nella comunicazione aziendale e pubblicitaria. Le ‘storie’ infatti colpiscono il lettore nella
sua componente emotiva e nella sua immaginazione: appassionano, coinvolgono, rimandano a miti e
archetipi, convincono. In ambito aziendale lo storytelling (ad es. presentazioni dei manager nei
convegni, siti aziendali ecc.: tutti racconti di successi) non è altro che una ripresa del genere epidittico
della classicità.

TESTI INFORMATIVI (ESPOSITIVI)


L’esposizione di un sapere nuovo è correlata alla capacità cognitiva che permette di cogliere
relazioni tra concetti generali, che sono analizzati, e concetti particolari, che sono invece
sintetizzati; che cioè permette di analizzare i primi e sintetizzare i secondi (e dunque
comprendere concetti mediante l’analisi e la sintesi degli elementi che li costituiscono). I testi
informativi hanno la funzione di trasmettere informazioni in modo oggettivo. Perché un testo sia
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effettivamente informativo non deve infrangere il criterio dell’informatività; e allo stesso tempo esso
non può contenere unicamente informazioni nuove per il ricevente. È inoltre importante che le
informazioni siano fornite in modo chiaro, ordinato e progressivo.
Esempi di testi espositivi: manuali scolastici e universitari, articoli scientifici, referti medici, verbali di
riunioni, vocabolari, enciclopedie, relazioni, articoli di cronaca, elenchi di dati, orari, cartelli stradali (ad
esempio quelli che indicano le distanze), guide turistiche, avvisi, annunci.
I testi espositivi presentano alcuni tratti tipici: spesso si articolano chiaramente in blocchi, che
articolano le informazioni; si sviluppano attraverso vari processi di rielaborazione di materiale già
presente (definizioni, riformulazioni, illustrazioni, esemplificazioni); bilanciano il tasso di
specialismo in base alle conoscenze del destinatario; sono spesso corredati da testi complementari e
componenti di paratesto; le informazioni sono spesso introdotte da nessi logici che rendono chiaro il
contenuto.

TESTI PRESCRITTIVI (REGOLATIVI)


La prescrizione si collega alla capacità cognitiva che pianifica il comportamento futuro. I testi
prescrittivi hanno la funzione di fornire la regolamentazione di un comportamento immediato o
futuro mediante obblighi, divieti, istruzioni.
Dal punto di vista linguistico sono caratteristici del testo prescrittivo: l’uso di un registro ‘alto’ e
formale; l’uso di verbi impersonali e della terza persona (esclusione di riferimenti a persone
particolari); l’uso del modo imperativo e del futuro iussivo; l’uso di strutture lessicali e
morfosintattiche che esprimono l’obbligo; l’uso di tecnicismi. Il testo prescrittivo, inoltre, tende ad
organizzarsi in modo gerarchico.
Esempi di testi prescrittivi: istruzioni per l’uso, regolamenti, testi normativi (leggi, regolamenti,
costituzioni, normative varie), ricette di cucina, foglietti illustrativi di medicinali, regole di gioco, cartelli
stradali, avvisi.

TESTI ARGOMENTATIVI
L’argomentazione è correlata alla capacità cognitiva di selezionare e valutare concetti messi in
relazione tra loro, gli argomenti ritenuti più adatti a persuadere un destinatario. I testi argomentativi
hanno lo scopo sostenere una tesi con un ragionamento (hanno dunque una forte funzione
conativa). Come abbiamo visto parlando della retorica, si tratta della tipologia testuale intorno alla
quale si è sviluppata la trattatistica antica.
I testi argomentativi seguono la seguente struttura di base:
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► si espone una questione, un problema, un argomento ecc. in una premessa
► si esprime una tesi a riguardo
► a sostegno della tesi si portano delle prove, dette argomenti
► allo scopo di privarla di validità, si può presentare una tesi contraria a quella sostenuta, ovvero
un’antitesi, e confutarla
► infine, nella conclusione si ribadisce la tesi iniziale, richiamandone gli obiettivi, oppure indicando le
soluzioni, i vantaggi ecc. che essa implica.
Spesso i testi argomentativi propongono due o più punti di vista su un determinato tema: l’autore del
testo ha l’obiettivo di convincere il destinatario della bontà del proprio. La struttura che si è indicata
rappresenta tuttavia un modello astratto e generale (può variare, ad esempio, l’ordine tesi-argomento).
Molto dipende dal contesto comunicativo.
Per sostenere la propria tesi, l’autore può ricorrere a diverse strategie, riconducibili a quattro tipi
fondamentali di argomenti:
► logici: mettono in evidenza rapporti causali tra gli argomenti addotti e la tesi da dimostrare
► pragmatici: consistono nel far notare i risultati positivi derivati dall’accettazione della tesi, o gli
svantaggi derivanti dalla non accettazione
► di autorità: consistono nel portare a sostegno della propria tesi un’opinione autorevole
► pratici: esempi, fatti concreti.

In linea generale, i testi argomentativi devono essere chiari e precisi, privi di ambiguità interpretative ed
efficaci nel sostenere una determinata tesi. Dal punto di vista linguistico sono caratteristici del testo
argomentativo: il rilievo dato al destinatario, chiamato in causa perché la sua attenzione rimanga
desta e perché egli abbia l’impressione che le sue opinioni siano tenute in grande considerazione; l’uso
di espressioni che danno rilievo al mittente; l’uso di espressioni che al contrario presentano la
tesi come inconfutabile; la preferenza per il tempo presente; l’uso di parole e sintagmi che
contengono un giudizio di valore; la presenza di connettivi logici che segnalano la struttura del
ragionamento.
Spesso inoltre i testi argomentativi possono coinvolgere la sfera emotiva e sentimentale (già Cicerone
aveva individuato nel movere una componente fondamentale del meccanismo della persuasione): in
questo caso si fa ricorso a enfatizzazioni, iperboli, superlativi e, in generale, a un linguaggio ‘forte’ e
coinvolgente.
Esempi di testi argomentativi: discussioni, discorsi di politici e avvocati, interventi nei dibattiti, editoriali
dei quotidiani, temi scolastici, saggi, recensioni, pubblicità.

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■ Perché un testo possa definirsi argomentativo, è necessaria la presenza dell’argomento, cioè della
prova (o di più prove) a convalida e sostegno della propria tesi.

TESTI MISTI
Spesso nella comunicazione reale i testi non si presentano perfettamente adatti a l’una o all’altra
categoria: nell’atto comunicativo concreto, al contrario, molto spesso le varie tipologie descritte (tutte
o alcune) convivono all’interno di un testo, anche se in genere è possibile individuare una tipologia
prevalente. Ogni testo, poi, ha uno scopo, una funzione prevalente, che può essere quella di convincere,
di informare, di dare un ordine ecc.
Queste considerazioni sono tanto più vere per i testi giornalistici e più in generale dei mass media, e
soprattutto per i testi adattati o concepiti per il web: in essi molto spesso si intrecciano narrazione,
descrizione, commento, argomentazione, informazione, cosicché è forse meglio parlare (almeno in
alcuni casi) di testi misti.

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