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L’ITALIANO CONTEMPORANEO E LE SUE VARIETA’

L’ITALIANO E LA VARIAZIONE LINGUISTICA


L’italiano come tutte le altre lingue si presenta in forme diverse a seconda delle varie modalità con cui ne possiamo fare
uso (ciò dipende dalla natura del messaggio, dalle sue finalità, dalle situazioni in cui si attua la comunicazione).

ES. lingua di un romanzo  lingua di un manuale di medicina

Il codice è sempre lo stesso, la lingua italiana, ma la sua attuazione cambia per molti aspetti in tutti i suoi livelli
(pronuncia, stile, forme grammaticali, scelta di parole).

Pertanto la nostra lingua costituisce una delle possibilità espressive degli italiani, inserita in un repertorio più ampio che
ciascuno ha a disposizione.

L’italiano standard rappresenta la varietà di maggior prestigio ma anche il punto di riferimento per comprendere le
multiformi manifestazioni nelle quali si materializza la nostra lingua.
Le varietà dell’italiano contemporaneo dipendono da 5 parametri fondamentali designati con altrettanti nomi in cui
riconosciamo il prefisso “DIA” (attraverso), il quale indica differenza e separazione. Essi sono:

1. DIAMESIA: mutamento della lingua secondo il mezzo fisico impiegato (aria, onde radio, televisione, pagina
scritta).
2. DIASTRATIA: mutamento legato alle condizioni sociali dell’utente.
3. DIAFASIA: variazione che dipende dalla situazione comunicativa.
4. DIACRONIA: trasformazione legata alla dimensione cronologica, all’evoluzione della lingua nel tempo.
5. DIATOPIA: mutamento della lingua nello spazio.

Il repertorio linguistico italiano è l’insieme di tutte le varietà di lingua presenti in una comunità di persone (ES. una
nazione). Nel concetto di varietà di lingua rientrano sia le lingue ufficiali, nazionali, regionali, standard, sia i dialetti. Il
repertorio linguistico contemporaneo italiano contiene, oltre all’italiano standard, anche i dialetti e molte lingua non
italiane. In alcune parti d’Italia si parla di repertori regionali.

ES. in Valle d’Aosta abbiamo il bilinguismo tra italiano e francese, mentre nella provincia di Bolzano tra italiano e
tedesco, ma le due lingue sono usate da due diverse comunità, una italofona e una germanofona. Bilinguismo: uso
corrente di due lingua da parte di un individuo o di una popolazione.

Inoltre la nozione di repertorio può valere anche in riferimento al singolo individuo, si parla quindi di repertorio
linguistico individuale, ovvero l’insieme delle varietà di lingua usate da una singola persona.
DIAMESIA
Dal greco “mesos”, “mezzo”, individua le due fondamentali varietà dello scritto e del parlato. Essi rappresentano due
modi diversi di esprimersi differenziati entrambi dal canale di trasmissione: il primo anagrafico e destinato alla lettura, il
secondo fonico e uditivo.

PUNTO DI PIU' AMPIA


DIVERGENZA: PIANIFICAZIONE
DEL DISCORSO

SCRITTURA ORALITA'
Consente la progettazione, l'elaborazione Si avvale di mezzi prosodici come
del testo, il controllo, la correzione e la l'intensità, l'intonazione (accento), la
rielaborazione. durata e il ritmo, e dei tratti
Questo controllo è minimo in tutte le forme paralinguistici come la gestualità e la
del parlato, il quale ha possibilità di distanza tra gli interlocutori.
correzione, ma esse non possono essere La scrittura può rappresentare i primi con
cancellate. la punteggiatura e con imprecisione, non
riuscendo però a tradurre i secondi.

DESTINATARIO

Il parlato è per sua natura


Chi ha davanti un testo scritto può sfuggevole, evanescente e lineare
ripercorrerlo a ritroso, (chi ascolta percepisce il messaggio
riesaminarlo e approfondirlo. solo nello steso ordine nel quale
viene realizzato).

Esistono altri tipi di comunicazione parlata:

 Il monologo, il quale differisce dal dialogo per una maggiore coerenza tematica.
 La conferenza, l’oratoria politica, fondati su uno schema succinto degli argomenti da trattare (la scaletta) o da
appunti essenziali.
 I copioni teatrali e cinematografici (PARLATO-RECITATO) redatti come testi scritti e poi letti. Si parla in questo
caso di italiano trasmesso (per quanto riguarda la lingua del web, chat ed sms, di trasmesso-scritto).
DIASTRATIA
Da “dia” e “stratos”, variazione determinata da fattori di tipo sociale, collegata allo status socio-economico di chi usa la
lingua. Riconoscere dei confini precisi tra le classi è un compito difficile, in quanto si deve tenere conto sia dei fattori
tradizionali (reddito economico e patrimonio posseduto), ma soprattutto dell’incrocio fra indicatori di vario tipo
(istruzione scolastica, tipo di attività lavorativa, consuetudine alla lettura). Distinguiamo pertanto:

 Persone più acculturate, le quali sanno padroneggiare un italiano formale, colto (lo standard).
 Classe dotata di minor dimestichezza con a sfera culturale con una competenza attiva o solo dialettale o
dell’italiano popolare.
COMPETENZA: capacità di un parlante/scrivente di usare la lingua. Competenza attiva: conoscenza di un codice
che ne consente l’uso sia nella comprensione sia nella produzione di enunciati. Competenza passiva: permette
solo la comprensione di enunciati altrui.
 Ceti che si collocano in una fascia intermedia con varietà vicine allo standard ma interferite da elementi tipici del
parlato, popolarismi e tratti dialettali.
 Italiano praticato dagli immigrati occupati nei lavori più umili.

Rientrano nel concetto di diastratia anche le varietà legate al sesso e all’età. Le donne fanno proprie le varianti
rispettose della norma e di forme più affettuose, gli uomini sono più inclini alla bestemmia e all’uso di parole volgari.
Inoltre è stata individuata una lingua particolare nell’espressione dei giovani, il giovanilese.

DIAFASIA
Dal greco “phasia”, “il parlare”, varietà della lingua determinate dalla situazione comunicativa, dalle funzioni e finalità
del messaggio, dal contesto, dagli interlocutori, a anche dall’argomento trattato. Pertanto tutti adottiamo, sia nello
scritto che nel parlato, una varietà del codice in relazione al tipo di comunicazione in cui siamo coinvolti.

ASSE DIAFASICO

VARIETA’ PIU’ FORMALI DELLA LINGUA linguaggio aulico


(occasioni comunicative di maggior linguaggio colto
impegno che richiedono un forte autocontrollo) linguaggio sostenuto

VARIETA’ PIU’ INFORMALI linguaggio familiare


(caratterizzate da linguaggio colloquiale
immediatezza e linguaggio trascurato
spontaneità) linguaggio popolare

DIFFERENZA

VARIETA’ DIAFASICHE
VARIETA’ DIASTRATICHE
Sono molteplici in quanto ogni
Sono legate all’utente in modo
parlante può esprimersi in un
univoco: ognuno di noi può far
ampio ventaglio di registri
uso di una sola varietà diastratica,
quella del ceto di appartenenza

DIACRONIA
Dal greco “Kronos”, “tempo”, parametro legato alla dimensione cronologica. Tutte le lingue si evolvono nel tempo e
cambiano la loro fisionomia: gli anziani ad esempio conservano abitudini linguistiche che oramai sono in declino, i
giovani sono invece portatori di usi innovativi, dovuti alle abitudini dei nuovi codici.

ES. GRAFIA: l’uso di x sta per “per”, anche nella parola “perchè”, “xchè”. Ciò è dovuto alle innovazioni dei telefoni
cellulari e della posta elettronica.
LESSICO: neologismi come cannare (sbagliare), impanicato (preso dal panico). In alcuni casi essi sono destinati a radicarsi
nella lingua comune, nei registri meno formali, come sfiga.

Il giovanilese pertanto entra a far parte del fattore diacronico, diamesico e diatopico: viene usato soprattutto nelle
situazioni comunicative che richiedono minor controllo formale e a proposito degli argomenti che accomunano i giovani
(gli studi, lo sport, gli svaghi), in particolare nell’oralità e nella trasmissione di chat ed sms. Inoltre i dialetti, i gerghi e le
lingue straniere contribuiscono a configurare il suo lessico.

DIATOPIA
Dal greco “topos”, “luogo”, è la variazione determinata dalla dimensione spaziale. Essa era colta da Dante all’interno di
una stessa città, la Bologna della tarda età medievale, e ancora oggi le differenze fra gli italiani a seconda della
provenienza geografica sono ben percepite da tutti. Bisogna considerare che esistono in Italia tanti dialetti raggruppati
in 3 grandi aree, ciascuna caratterizzata da tratti specifici: dialetti settentrionali, centrali e meridionali. Perciò la
variazione diatopica dell’italiano è data dall’influsso che i dialetti esercitano sulla nostra lingua. Si configurano così molte
varietà regionali di italiano.

LINGUA, DIALETTI, ITALIANI REGIONALI


Da un punto di vista scientifico, tra lingua e dialetti non vi è nessuna differenza, in quanto i dialetti possiedono, come la
lingua, un lessico e una grammatica codificabili in vocabolari, vengono usati con alte finalità letterarie e assecondano le
principali funzioni del linguaggio.

In realtà le differenze tra lingua e dialetti esistono, devono essere però cercate in fattori sociali, storici e culturali.
Un dialetto di solito è utilizzato in un’area più circoscritta, la sua codificazione descrittiva è meno raffinata, la sua
terminologia esclude il vocabolario scientifico e intellettuale o lo mutua dalla lingua nazionale. Nonostante ciò i dialetti
godono di un prestigio inferiore rispetto alla lingua: negli strati sociali meno acculturato della società i dialetti sono stati
simbolo di arretratezza e di ostacolo all’emancipazione sociale, oltre all’avanzamento economico.
Per comprendere la dinamica che si instaura fra lingue e dialetti dobbiamo pensare che l’italiano si fonda sul fiorentino
antico e scritto, stilizzato dai grandi autori del 1300 e arricchito dai letterati di tutta la nazione.

L’ITALIA DIALETTALE
L’Italia dialettale si ripartisce in tre grandi aree geografiche, delimitate da due fasci di isoglosse noti come le linee La
Spezia-Rimini e Ancona-Roma (isoglossa: linea tracciata su una carta linguistica a separare un’area geografica in cui si
realizza un determinato fenomeno linguistico da un’altra in cui esso non si realizza). La prima è molto netta lungo lo
spartiacque dell’Appennino settentrionale e segna il confine meridionale dei dialetti del nord, la seconda è meno
compatta, segue in parte il corso del fiume Tevere e individua il limite tra le parlate centrali e quelle del Mezzogiorno.

I DIALETTI SETTENTRIONALI sono caratterizzati da:

 Riduzione delle consonanti rafforzate [spala], [mama]


 Sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche [fadiga], “fatica”
 Indebolimento delle occlusive che può giungere alla caduta “formica”, [furmiga] o [furmia]
 Caduta delle vocali finali diverse da –a “gatto”, [gat]

I DIALETTI MERIDIONALI sono caratterizzati da:

 Sviluppo della vocale indistinta [𐐨] in posizione atona, “Napoli”, [Napul 𐐨]


 Assimilazioni di “nd” > “nn” ed “mb” > “mm” in parole come “quando” e “sambuco”, [quann], [sammuc]
 Sonorizzazione di consonanti sorde dopo nasale “bianco”, [

bjang 𐐨]

 Posposizione del possessivo “mia madre”, [matrema]


 Uso di “tenere” per “avere”

I DIALETTI CENTRALI sono più conservativi rispetto alle basi latine, per esempio per la resistenza alla caduta delle vocali
finali, fra i quali primeggiano i dialetti toscani. Le parlate toscane sono molto più vicine al latino e per la loro centralità
geografica sono più esposte agli influssi delle parlate settentrionali. Di fatto nei dialetti toscani si trovano forme come
AGO da ACUM e LUOGO da LOCUM.

All’interno di queste tre grandi aree si individuano altre suddivisioni:

NORD SUD SARDEGNA E FRIULI


DIALETTI GALLO- DIALETTI VENETI Confine tra aree continentali ed Marginali anche dal punto di vista
ITALICI (spiccata (ampia estremo sud (Puglia, Calabria, Sicilia geografico, Sardo e Friulano sono
tendenza alla caduta conservazione accomunate da contrassegnati da fenomeni che ne
delle vocali atone, delle vocali disegnano la fisionomia di due veri e propri
 Sistema a 5 vocali toniche
“dnè”, “denaro”) atone sia codici autonomi.
 Assenza delle assimilazioni –
 Piemontesi all’interno che al  Sardo: l’articolo è formato a
 Liguri finale di parola, nd > nn, mb > mm e della partire dal latino IPSUM/IPSAM
 Lombardi “puleze”, vocale indistista [𐐨]) (sa femena, la donna)
 Emiliani “pulce”) Comune a tutti e due è la –s finale
 Romagnoli (murs, muri)

L’uso dei dialetti oggi è in declino in quanto è contrastato dall’espansione della lingua comune grazie all’insegnamento
scolastico e ai mass media. Ci sono però degli ambiti in cui tali parlate sembrano ritagliarsi nuovi spazi come negli sms,
web, email e chat (trasmesso-scritto), nelle pubblicità, nelle insegne di attività commerciali, nella musica giovanile. Non
dimentichiamo inoltre il successo dei romanzi di Andrea Camilleri.

Distinguiamo inoltre dialetti italianizzati e italiani regionali. Per capire questi due concetti abbiamo bisogno di sapere
cos’è una lingua di sostrato e di superstrato. Una lingua di sostrato è quella che, diffusa in un’area geografica prima che
ad essa se ne sovrapponesse un’altra (es. quella portata da un popolo conquistatore), abbia in seguito influenzato lo
sviluppo di quest’ultima e si manifesti in tratti linguistici peculiari. Una lingua di superstrato è la lingua che si impone. Il
latino ad esempio è una lingua di superstrato per le lingue italiche.

I dialetti italianizzati sono il risultato dell’influsso dell’italiano sulle parlate locali, in una reazione di superstrato. Si assiste
così alla nascita di nuove parole, dialettali per quanto riguarda i tratti fonetici ma introdotte a partire dalla lingua, per
designare nuovi referenti (ES. il siciliano televisiuni, il toscano autobusse). D’altro lato tendono ad affermarsi parole
locali ma più vicine ai modelli della lingua comune, come il lombardo fragula.

Per italiano regionale si intende la varietà di italiano, parlato ma anche scritto, che mostra a tutti i livelli del codice
caratteristiche peculiari di un’area geografica. Da notare che l’aggettivo “regionale” non è del tutto esatto in quanto non
si deve pensare ai confini delle regioni amministrative in quanto essi non coincidono sempre con quelli linguistici.

ES. La Lombardia dialettale comprende anche il territorio extra italiano del Canton Ticino e non l’Oltrepò pavese e
mantovano. I dialetti pugliesi invece sono bipartiti nettamente in una zona settentrionale (nord linea Ostuni-Taranto) e
in una meridionale (Salento).

TRATTI TIPICAMENTE SETTENTRIONALI:

- In fonologia si osserva una distribuzione dei timbri vocalici di e ed o toniche diversa dalla pronuncia standard. La
pronuncia standard è la pronuncia dei ceti colti di Firenze, senza le particolarità estranee agli altri parlanti
italiani (la cosiddetta gorgia, ovvero la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, “la casa”, [la hasa]).
In parte della Lombardia e in altre aree si presentano [o] toniche chiuse in voci che presentano in fiorentino una
o aperta, [bosko].
In Piemonte, molte zone della Lombardia e in Alto Adige si tende a realizzare [e] tonica in sillaba libera e chiusa
che termina in nasale, [bene], [telefono], e ad aprire la vocale negli altri tipi di sillaba chiusa, [tetto], [felpa]. Il
timbro è aperto anche nelle parole tronche, [perchè].
In tutti i dialetti a nord della linea La Spezia-Rimini le consonanti rafforzate sono realizzate come scempie (ES.
nell’assenza del raddoppiamento sintattico, [ vero]). Ciò si realizza invece nelle regioni centro-meridionali, [
vvero].
- In morfosintassi è generalizzato in tutto il settentrione l’uso del passato prossimo (nel 2001 siamo andati) per
indicare avvenimenti che non hanno più riflessi al momento dell’enunciato (enunciato=insieme di elementi
verbali, parole, prodotti nel corso di uno scambio comunicativo che si presenti come oggetto compiuto e che sia
distinguibile dai precedenti e dai successivi).
In Lombardia e in Trentino abbiamo la presenza dell’articolo determinativo con i nomi di persona (la Giovanna, il
Carlo).
- Per il lessico abbiamo voci come anguria, “cocomero”, vera, “fede nunziale” del tutto sconosciute in altre aree.

TRATTI TIPICAMENTE CENTRALI:

- In fonologia (in particolare della varietà romana) abbiamo l’affricazione della fricativa alveolare [s] > [ts]
preceduta dalla vibrante, nasale o laterale, [bortsa].
Il rafforzamento di [b] e [dʒ] in posizione intervocalica, [abbile].
La monottongazione di “uo”, [le ova].
- Per il lessino invece abbiamo parole del tipo “caciara” chiasso, “pedalini” calzini, “ditale” anello.
- In morfosintassi sopravvive il sistema tripartito dei pronomi e aggettivi dimostrativi, questo, codesto quello,
anche se l’uso di “codesto” è utilizzato soprattutto nell’italiano burocratico.

TRATTI TIPICI MERIDIONALI:

- I timbri delle vocali e ed o sono difformi in molti casi rispetto alla pronuncia fiorentina, con la realizzazione ad
esempio di e aperta nel suffissati –etto e –mente [kassotto].
Nei dialetti siciliani, calabresi e salentini le vocali intermedie toniche sono sempre aperte e l’opposizione tra i
timbri è neutralizzata come in “professͻre”. Pertanto è difficile distinguere tra [peska] l’azione del pescare e
[pska] il frutto.
L’italiano di Sardegna invece conosce solo timbri chiusi [e] [o].
In tutto il meridione si tende alla sonorizzazione delle occlusive sorde in posizione post nasale, [biango] bianco,
[anghe] anche.
- Si contrappone all’italiano settentrionale per l’uso del passato remoto in riferimento ad eventi che si riflettono
ancora nel presente (persi il treno).
La posposizione del possessivo (il libro mio).
La costruzione del complemento oggetto preceduto da a (chiama a Giovanni).
La collocazione del verbo al finale della frase (a Roma vado).
- Per il lessico abbiamo “faticare” lavorare, “ciuccio” asino.

L’italiano regionale quindi consiste in una reazione di sostrato, ovvero quel meccanismo per il quale la lingua che si
afferma in una determinata area geografica (italiano standard della nostra penisola) subisce l’influenza della lingua
dominante in precedenza nello stesso territorio, ma ormai in declino (i dialetti). Di fatto le varietà regionali oggi sono
ben percepibili soprattutto nell’intonazione. La pronuncia e il lessico, e si verificano anche casi di sinonimi (termine,
sintagma o espressione che ha significato assimilabile a quello di un’altra parola o gruppo di parole, ES. topo e ratto) o
geosinonimi (parole di uso regionale, regionalismi, che nelle varie parti del territorio designano uno stesso oggetto).

ES. la nozione “marinare la scuola”:

- LOMBARDIA: bigiare
- EMILIA: salare
- A ROMA: far sega

Abbiamo anche casi di geomonimia, omonimi che designano referenti diversi a seconda delle aree regionali
(omonimo=parole che hanno nome identico ma significato diverso), ad esempio “quartino” indica un bicchiere di vino al
nord, un appuntamento al sud.
Si osservi che le varietà diatopiche emergono soprattutto nel parlato, in alcuni casi nella scrittura, sono percepibili in
tutti i registri della diafasia e sono riconoscibili ai livelli inferiori della scala diastratica.
DIALETTISMI: è ormai patrimonio dell’italiano comune un ampio ventaglio di parole di matrice locale che si sono
affermate nella lingua:
dal Piemonte “bocciare”, rimandare agli esami,
da Milano “barbone”,
dal Veneto “giocattolo” che contrasta il toscano “balocco”,
dall’Emilia “birichino” e “sballottare”,
dalle regioni centrali “giornalaio”, “sbarazzino”, pattumiera“,
da Roma “fregarsene”, da Napoli “malocchio”, “vongola”,
dalla Puglia “cozza”.

Le minoranze linguistiche: a completare il quadro delle varietà diatopiche ci sono le lingue diverse dall’italiano presenti
nel territorio nazionale, quelle parlate nelle minoranze linguistiche o alloglotte (alloglossia=è la situazione di una
comunità, detta alloglotta, che utilizza una lingua diversa rispetto all’elemento demografico maggioritario di un’entità
statale o amministrativa). Gli alloglotti sono poco meno del 5% della popolazione italiana, percentuale che fa el nostro
paese uno degli stati europei occidentali più ricchi di minoranze linguistiche:

1. Le parlate provenzali delle valli del Piemonte che confinano con la Francia, si estendono oltre i confini di stato
nella Francia meridionale.
2. I dialetti franco-provenzali della Valle d’Aosta e alcune province di Torino, sono un’entità linguistica
imparentata con il provenzale per alcuni dialetti della Francia settentrionale.
3. Le parlate ladine delle valli del Sella suddivise tra le province di Bolzano, Trento e Belluno. A Bolzano il ladino
(complesso di idiomi neolatini parlati nella regione alpina centrale e orientale) è tutelato ormai da anni ed è
inserito nei programmi scolastici alla pari del tedesco e dell’italiano.
4. Le parlate bavaro-tirolesi della minoranza tedescofona dell’Alto Adige concentrate nella provincia di Bolzano;
all’interno della zona essi sono in maggioranza rispetto agli italofoni. Il tedesco è la lingua ufficiale nella scuola.
Ciò significa che il quadro del plurilinguismo si complica (plurilinguismo=è la capacità di un individuo o di una
comunità di usare più di un idioma) in quanto italiano e tedesco sono utilizzati solo per le situazioni formali ma
sono affiancati anche dall’italiano regionale degli italofoni nella vita quotidiana.
5. I dialetti sloveni della provincia di Trieste, che godono di alcune forme di tutela, e quelli di Udine e Gorizia che
sono meno compatti.
6. Il croato parlato da poco più di 2000 persone in alcuni centri del Molise, importato dagli emigrati della Dalmazia
nel XV secolo.
7. Le parlate albanesi importate da movimenti migratori sono sparse in tutta l’Italia meridionale, soprattutto in
Calabria. Le località interessate sono 45 e si estendono fino a Palermo, in cui vi è l’insediamento più importante.
8. I dialetti di origine greca sono concentrati in molte aree della Puglia salentina (Calimera, Castrignano,
Corigliano) e della Calabria. Tali parlate sono ormai utilizzate dai ceti più bassi. I grici non sono gli eredi della
Magna Grecia, ma i residui dell’occupazione bizantina nel meridione.
9. Il catalano parlato ad Alghero da almeno la metà della popolazione residente nel comune.
10. Altre comunità e parlate alloglotte minori in via d’estinzione: colonie tedescofone del Monte Rosa, quelle di
origine tedesca del Trentino e del Veneto, le parlate galloromanze della provincia di Foggia, quelle di origine
provenzale, le parlate delle comunità zingare come i rom e i sinti.

Dal punto di vista linguistico si distinguono le parlate neolatine (provenzale, catalano, ladino) da quelle provenienti da
altri ceppi (greco, slavo, albanese). Dal punto di vista sociolinguistico osserviamo che alcune comunità parlano varietà
dialettali che nei rispettivi stati sono lingue nazionali come il tedesco, lo sloveno e il croato, altre hanno come punto di
riferimento le parlate minoritarie. Dal punto di vista storico distinguiamo minoranze autoctone costituite da popolazioni
indigene (valdostani, ladini) Da quelle che si sono insediate in seguito a movimenti migratori. Dal punto di vista politico,
la legge del 15 dicembre 1999 prevede che le lingue di minoranza siano insegnate nelle scuole, impiegate negli uffici
pubblici e la loro tutela.
A tutti questi alloglotti si deve poi aggiungere la presenza dei paesi del Terzo Mondo (Asia, Africa, America latina), che
rappresentano un numero di persone non valutabile per il fenomeno della clandestinità, fenomeno sempre più in
crescita. La maggior parte degli immigrati ha un grado di analfabetismo elevato fino ad arrivare a livelli culturali più alti,
abbiamo infatti diplomati, laureati nei propri paesi d’origine. Essi costituiscono una nuova entità sociale collocata ai
margini inferiori della scala diastratica, la cui integrazione nel nostro paese è ricca di conflitti. Nella maggior parte dei
casi gli immigrati giungono senza nessuna conoscenza dell’italiano, pertanto devono passare attraverso un tirocinio, dal
quale si è osservato che i primi tempi e modi acquisiti sono l’infinito “tu comprare” e la terza persona singolare “io no
parla italiano” per proseguire poi con il participio “io entrato in Italia”. Si deve sottolineare che le situazioni sono diverse
a seconda della lingua madre, di fatto imparare l’italiano è più semplice per coloro che parlano lingue neolatine
(equadoregni e peruviani) e che acquisiscono piena padronanza dell’italiano in poco tempo. Più difficile è invece per i
cinesi che parlano una lingua tipologicamente diversa, detta isolante, costituita da monosillabi invaiabili.

Pertanto i tentativi di organizzare forme di insegnamento dell’italiano incontrano molte difficoltà.


L’ITALIANO PARLATO
L’oralità è la varietà del repertorio che mostra la maggiore capacità espansiva. Nel parlato dialogico gli interlocutori
(locutore e ascoltatore) si scambiano i ruoli con un’alternanza non programmata, irregolare e con sovrapposizioni di
turno. Hanno inoltre la possibilità di intervenire in vari modi nel messaggio secondo i meccanismi del feedback o
retroazione, ovvero l’autocorrezione, correzione degli errori altrui, interventi sugli enunciati dell’interlocutore.
I tratti principali del parlato sono:

 Linearità e immediatezza nella produzione e ricezione del messaggio,


 Evanescenza del messaggio,
 Uso dei tratti prosodici e paralinguistici,
 Compresenza di parlante e interlocutore nello stesso spazio,
 Interazione fra parlante e ascoltatore.

SINTASSI E TESTUALITA’
Nella sintassi della frase il parlato predilige andamenti che adottano un ordine delle parole diverso rispetto a quello non
marcato, che allinea soggetto, predicato verbale e complemento oggetto (Mario compra il giornale) o indiretto (Mario
mangia con la zia). Abbiamo inoltre una serie di costrutti che mettono a fuoco un elemento della frase attraverso la sua
collocazione in prima sede nella posizione di TEMA, ovvero il dato che si presuppone noto all’interlocutore, ciò di cui si
sta parlando, contrapposto al REMA, l’elemento informativo nuovo.

 La tematizzazione più ricorrente è la dislocazione a sinistra, l’anteposizione di un elemento della proposizione


rispetto alla posizione che occuperebbe normalmente.
ES. Il giornale lo compra Mario  si presuppone che si stia parlando di un giornale da comprare. L’elemento
anticipato messo in evidenza è integrato sintatticamente nella frase e ripreso da un elemento anaforico che
rinvia a un elemento antecedente, a sinistra.
La topicalizzazione contrastiva viene usata in assenza di ripresa anaforica. Così l’elemento dislocato a sinistra ha
nel parlato la funzione di rema, fornisce cioè un’informazione nuova.
ES. Il giornale compra Mario (e non il pane)
Il tema sospeso o nominativo assoluto è un altro caso di dislocazione a sinistra. In questo caso l’elemento
dislocato a sinistra è esterno alla frase in quanto non è preceduto da preposizione ed è sempre separato da una
pausa (la virgola).
ES. La mamma, le ho regalato un bracciale.
Anche l’anacoluto appartiene alla stessa tipologia e viene usato nella frase per indicare una frattura che lascia
incompiuto il costrutto d’apertura, il primo elemento resta campato in aria. Questo fenomeno è molto utilizzato
nel parlato e risponde ad un affioramento del soggetto logico posto all’esordio del discorso per poi lasciare
spazio ad un’informazione più urgente.
ES. Il più svelto a finire, gli prometto un premio.
 La dislocazione a destra è meno frequente. L’elemento a destra è sempre già un dato nel discorso, o tema, ed
è anticipato da un pronome cataforico (che rinvia a ciò che segue, a destra) ed è preceduto nella pronuncia da
una breve pausa.
ES. Lo compra Mario, il giornale. Chi viene spostato non è quindi il complemento ma il predicato verbale. Si dà
per scontato che qualcuno debba comprare il giornale.
 La frase scissa è il risultato della divisione di una frase semplice ed è formata da una proposizione reggente con
il verbo essere in funzione di copula che mette in rilievo il dato nuovo, e da una subordinata introdotta dal CHE
in funzione di pronome relativo o di congiunzione, per fornire il dato già nuovo.
ES. È Mario che compra il giornale. Si isola a sinistra l’informazione nuova: la frase costituita dal verbo essere più
l’elemento è “è Mario”, la falsa relativa introdotta dal CHE è “che compra il giornale”. Con questo costrutto si
spezza l’informazione in due blocchi.
 Un altro costrutto è il c’è presentativo.
ES. C’è Luigi che vuole parlarti. In questo caso non ci sono dati già noti all’atto della comunicazione, la quale è
tutta costruita su elementi di novità rematici. Il fine di questo costrutto è quello di spezzare l’informazione in
due momenti distinti e più semplici a vantaggio sia del locutore che del destinatario che lo riceve in due frasi
distinte: la prima introdotta dal c’è presentativo, la seconda costituita da una relativa adibita alla seconda
informazione.

Nella sintassi del periodo si espandono andamenti coordinativi e giustappositivi. Pertanto la subordinazione non viene
eliminata dal parlato ma si presenta con costrutti lineari, come ad esempio l’uso dei modi impliciti (vado a fare la
spesa), e si avvale nelle proposizioni esplicite di una gamma di congiunzioni più ristretta che nella scrittura: non si usano
affinché, poiché, giacché ma siccome, dato che, visto che.
Molto frequente è l’uso delle subordinate introdotte da un CHE non sempre definibile, spesso ha funzione causale o
esplicativa o modale, il cosiddetto che polivalente. Di fatto nella lingua parlata soprattutto il che molte volte assume un
significato generico. ES.
Vai a letto che è tardi. Siamo arrivati che eravamo stanchi morti.
Polivalente è anche il che relativo usato come pronome indeclinato in enunciati meno controllati (la pizzeria che siamo
andati l’altra sera).

Per la sintassi del verbo il parlato si caratterizza per la presenza di usi che contraddicono l’osservanza del dato
temporale (anteriorità, posteriorità contemporaneità dell’evento descritto rispetto al momento dell’enunciazione). ES.
avevo un esame il 18 ma ho accettato una proposta di lavoro e non ce la farò più a prepararlo (si intende una data
posteriore).
I tempi e i modi verbali impiegati nell’oralità sono (per MODO si intende quella categoria del verbo che segnala
l’atteggiamento del parlante nei confronti del contenuto dell’enunciato: certezza, probabilità, possibilità):

1. L’imperfetto fantastico: evoca un accadimento immaginario del passato, una possibilità che non si è attuata.
“Avremmo potuto entrare senza far timbrare il biglietto. Bravo, poi magari saliva il controllore” (controllore che
non è mai salito)
2. L’imperfetto ipotetico all’indicativo: sostituisce il congiuntivo imperfetto e il condizionale composto. “Se lo
sapevo non ci venivo” > italiano standard “se l’avessi saputo non sarei venuto”
3. L’imperfetto potenziale: esprime una forma di supposizione. “Non capisco cosa è successo, doveva venie alle 8”
4. L’imperfetto ludico: quello dei giochi infantili. “Dai giochiamo, tu eri la maestra e io l’alunna”
5. L’imperfetto di modestia: per rendere meno categorico il tenore di una richiesta che invece è attuale. “Volevo
un chilo di pere”
6. L’imperfetto epistemico che si riferisce al futuro: richiama in previsione al futuro presupposti, credenze
precedenti. “Partivano stasera ma gli si è rotta la macchina”

Quindi l’area dell’imperfetto si espande lasciando sempre meno spazio a quella del futuro. È frequente infatti la
sostituzione del futuro con il presente in casi come “parto domani mattina alle 8“. Si parla in tal caso di presente pro
futuro il quale ricorre in riferimento ad eventi di un futuro prossimo e non lontano (non si dice “nel 2025 tutti hanno un
cellulare”), a meno che l’accadimento sia previsto con assoluta certezza, “nel 2061 si festeggia il secondo centenario
dell’unità italiana”. Pertanto l’estensione del presente sembra rispondere ad un’esigenza di semplificazione del sistema.
Anche nella nostra penisola il futuro è sconosciuto a molte parlate dialettali, specie nel sud in cui il futuro viene espresso
o con il presente o con delle perifrasi, “lu fazzu crai”, “ha a venì”.
Non a caso si stanno diffondendo molte perifrasi con valore di futuro nel parlato contemporaneo: ANDARE+A+INFINITO
(la canzone che vado a presentarvi), STARE PER+INFINITO (sto per uscire), STARE+GERUNDIO (sto andando al
supermercato).
A causa di tale arretramento del futuro, uno dei suoi usi rimane in crescita, il futuro epistemico, che esprime congetture
in riferimento al presente, quindi con valore modale “quanti anni ha Mario? Mah, sarà sui 25”.

Per quanto riguarda i modi verbali si pensa che l’indicativo guadagni sempre più terreno a scapito del congiuntivo nella
lingua parlata. Si tratta delle subordinate completive soggettive (mi pare che il raffreddore è diminuito), le oggettive
(penso che vengono domani), le interrogative indirette (non ho capito cosa voleva dire), le ipotetiche. Inoltre il
congiuntivo risulta debole nella seconda persona del presente ma mostra zone di resistenza alla prima e terza persona.
L’inclinazione all’indicativo concerne le varietà diastratiche più basse ed è marcata dalla diatopia: l’indicativo viene
utilizzato soprattutto a Roma e negli italiani regionali meridionali.

Per quanto riguarda i pronomi, vengono impiegati i pronomi LUI, LEI e LORO sia nel parlato che nella scrittura come
pronomi tonici di terza persona con funzione di soggetto. I pronomi egli, ella sono invece in disuso. Un discorso simile
riguarda anche l’uso di GLI con valore di dativo (se vengono i ladri, gli preparo una bella sorpresa), il quale viene usato
anche per esprimere il dativo femminile singolare (ogni volta che vede una ragazza gli fa l’occhiolino), ma anche TE con
funzione di soggetto (sei te che hai cominciato).
I pronomi atoni nel parlato sono più fitti che nella scrittura, indotti da un’esigenza di rafforzamento dell’informazione.
Rientrano poi nella stessa strategia altri usi pronominali censurati come errori, come A ME MI PIACE, interpretabile
come una dislocazione a sinistra nella quale è posto a tema un pronome personale.

Dal punto di vista testuale e pragmatico la lingua della conversazione fa ricorso a una serie di elementi linguistici, i
segnali discorsivi, i quali hanno un ruolo primario nel funzionamento dell’interazione verbale e nell’organizzazione del
testo, di fatto sono dei connettivi testuali. Gli intercalari inconsapevoli che affiorano nel parlato discorsivo, come cioè,
insomma, è vero, ci permettono di riprendere e correggere gli enunciati dopo un errore. Al tempo stesso, i segnali
discorsivi contribuiscono a tenere vivo il contatto tra gli interlocutori, hanno quindi funzione fatica (è quella legata al
canale fisico e alla connessione psicologica che si instaura tar gli interlocutori).
Nella conversazione si distinguono, dal punto di vista del locutore, gli elementi che segnalano l’inizio del turno (pronto,
senti, allora, dunque, ecco, scusa) e quelli che lo chiudono (segnali di solito pronunciati con tonalità ascendente, “Allora,
ci siamo capiti per domani, no?”). L’ascoltatore fa invece uso di segnali di interruzione per impadronirsi del turno
conversativo (ma, allora, eh no), segnali di ricezione (si, perfetto, d’accordo, assolutamente, davvero) e segnali di
disaccordo (per niente, assolutamente no).

Analoghe ai segnali discorsivi sono le ripetizioni lessicali. Nel monologo le ripetizioni possono rispondere a enfasi (la
lotta deve continuare, è la lotta dei lavoratori e sarà una lotta vincente) oppure all’esigenza di spiegarsi con maggior
chiarezza e tenere vivo il filo del discorso. Sono quindi un meccanismo di coesione.

IL LESSICO
Il lessico dell’italiano parlato non è diverso per natura da quello dello scritto, sono diversi però i meccanismi di
selezione, in quanto il parlato privilegia il lessico dei registri informali ed esclude quello di sapore più letterario. Sono
diverse anche le scelte semantiche e le proporzioni quantitative; la lingua parlata fa uso di un nucleo ristretto di voci,
molto spesso di significato generico (roba, affare, fatto, tizio, tipo). Tra i verbi sono frequenti DARE (non darti troppe
arie), ANDARE (la lampadina è andata), FARE (lo ha fatto fuori). Inoltre abbiamo anche i verbi pronominali come
PRENDERSELA (se la prende per niente), ENTRARCI, VOLERCI, CONTARCI, AVERCI.

Nascono da esigenze di affettività le forme di diminutivo (ci ho fatto su un pensierino) le quali rispondono alla volontà di
rendere un ordine non troppo perentorio. Sono usate spesso infatti le forme diminutive MOMENTINO, ATTIMINO,
quest’ultimo esprime una nozione temporale molto elastica essendo privo di ogni riferimento cronologico quando
assume il ruolo di attenuativo generico (la camicia le va un attimino stretta).
Frequenti sono in tal caso i superlativi assoluti enfatici (no no, sono sicuro, sicurissimo), e le espressioni lessicali di
enfasi accrescitiva (tanto di, un sacco di, un tubo signora-e, “si è comprato una signora bicicletta”).
Continuiamo poi con i raddoppiamenti (cos’è quella faccia nera nera?), le esclamazioni enfatiche che spesso sfociano
nella blasfemia e volgarità (cavolo, cribbio, porca miseria) e le espressioni onomatopeiche (patapum, bang, splash,
trac). Inoltre la lingua orale si avvale di suffissati in –ata (abbuffata, calmata, stupidata, sbandata).
Ricorrono nell’oralità dei giovani troncamenti affettivi come PROF, FILO (filosofia), DISCO, RETRO (retromarcia).
Altri usi lessicali sono AGGIUSTARE (conciare per le feste), BECCARE (colpire), FRANA (insuccesso).

TRATTI FONOLOGICI
I fenomeni più importanti sono la metatesi (fenomeno per cui all’interno di una parola due suoni si invertono
prendendo uno il posto dell’altro, “aeroplano”) e la tendenza alla ritrazione dell’accento sulla terzultima sillaba in una
fitta serie di voci (l’accento è un aumento dell’intensità con cui è pronunciata una sillaba).
Si verificano poi fenomeni di allegro, cioè fenomeni d riduzione della forma fonetica di una parola o di un sintagma
riscontrabili nella pronuncia veloce e trascurata del parlato colloquiale, i quali investono la catena parlata: le apocopi
(apocope=caduta della vocale finale di una parola ed eventualmente della consonante che la precede) post
consonantiche (son venuta presto) e le forme con aferesi (aferesi=soppressione di una vocale o sillaba iniziale) sillabica
(bastanza per abbastanza).
Il parlato colloquiale appartiene a tutti gli strati sociali in quanto anche gli italiani più acculturati hanno le loro occasioni
di colloquio informale.
IL TRASMESSO RADIOTELEVISIVO E DEI NUOVI MEDIA

Una forma particolare di oralità è quella veicolata dalla radio e dalla televisione. Essa ha un ruolo centrale nello sviluppo
dell’italiano contemporaneo in quanto raggiunge un pubblico vasto. La peculiarità più evidente del parlato radio
televisivo risiede nella sua direzione a senso unico: l’emittente può adeguare il suo messaggio alle reazioni del
destinatario, il quale a sua volta è assente dal luogo della produzione linguistica, e ha un ruolo passivo in quanto non
può interloquire. Si può solo intervenire nei programmi televisivi e radiofonici tramite le domande del pubblico da casa,
ma con modalità comunque diverse dal colloquio faccia a faccia. Infatti l’uso del telefono quando si interviene in un
dibattito radiofonico è diverso da quello del libero scambio conversazionale: il canale comunicativo è governato da una
delle due parti, può quindi decidere a chi dare la voce, per quanto tempo durerà il colloquio e quando interromperlo.

La varietà diamesica della radio e della televisione dunque, l’italiano trasmesso, partecipa di alcuni caratteri del parlato
ma anche dello scritto: esso si colloca sullo stesso versante dell’oralità per la forma del parlato-parlato in quanto si
utilizza la voce (con le intonazioni, le pause, i segnali discorsivi e la gestualità per la televisione). Ma a partire da queste
caratteristiche, l’italiano trasmesso si presenta con uno dei tratti fondamentali del parlato, ovvero la fuggevolezza,
l’evanescenza nel tempo.
D’altra parte esso si accosta alla scrittura per altri tratti: la comunicazione è a una sola direzione, dall’emittente al
destinatario; l’emittente e il destinatario non condividono la stessa situazione spaziale; la comunicazione è rivolta a una
pluralità di persone molto alta, inoltre essa avviene a partire dalla scrittura, quindi attraverso la lettura di testi.
Il linguaggio della radio e della televisione si pone quindi come espressione scritta nell’atto della produzione ma orale
per il punto di vista della ricezione.

FRUIZIONE ORALE E DESTINAZIONE AD UN PUBBLICO ANCHE BASSO = FATTORI CHE CONTRIBUISCONO IN MODO
DECISIVO A DETTARE LE CARATTERISTICHE ESPRESSIVE DELL’ITALIANO TRASMESSO.
Il linguaggio della radio e della televisione deve essere quindi chiaro e conciso in quanto chi ascolta non può farsi
rispiegare o ripetere gli enunciati già percepiti, e non può neanche ritornare sul testo (a meno che non abbia registrato
la trasmissione).

CARATTERISTICHE ITALIANO TRASMESSO:

 STRUTTURA DEL PERIODO: il linguaggio televisivo tende a una struttura del periodo semplice, preferendo la
paratassi (costruzione del periodo fondata sulla coordinazione) e lo stile nominale (stile che fa ampio ricorso a
componenti nominali come sostantivi, aggettivi, avverbi, e tende a ridurre la presenza dei verbi).
 LESSICO: il linguaggio del trasmesso spesso sfocia nei gradini più bassi della diafasia, fino alla blasfemia e
all’insulto (non a caso a volte si parli di tv spazzatura). Radio e televisione divulgano ogni giorno nelle nostre
case tratti regionali, e ciò contribuisce a far sì che gli italiani conoscano da vicino le varietà fonetiche presenti
nella penisola.
 PRONUNCIA: si parla oggi di pronuncia sregionalizzata. Fino agli anni ’70 dalla radio e televisione si diffondeva
una pronuncia che richiamava il fiorentino emendato, priva di tratti fonetici regionali; oggi invece con l’avvento
delle emittenti private queste occasioni stanno svanendo, anche se in alcuni programmi culturali, nel doppiaggio
di film ecc. si cerca di diffondere una pronuncia priva di marcatezza regionale.

I testi che si trasmettono attraverso lo schermo di un computer sono continuamente modificabili e modificati e vengono
organizzati in pagine collegate da links, che possono essere gestiti dall’utente in qualsiasi modo.
Negli scambi di messaggi via internet si riproducono le movenze del parlato: con le faccine, gli emoticons, si cerca di
rendere l’espressività; lo stile è improntato sull’immediatezza e la noncuranza delle norme grammaticali; il lessico è
pieno di anglicismi e dialettismi. Una situazione analoga si ha per lo schermo del cellulare e gli sms: le parole sono
accorciate e sintetizzate in acronimi, la comunicazione è essenziale e si ricerca l’espressività dell’oralità con l’uso
enfatico della punteggiatura.

L’ITALIANO POPOLARE
L’italiano popolare è l’espressione linguistica propria degli incolti, gli analfabeti (2,5% della popolazione sopra i 14 anni)
e dei semicolti, coloro che hanno un’istruzione scolastica di base ma non hanno mai acquisito piena competenza della
lingua italiana.
Per essi l’occasione di produrre testi scritti o orali in lingua italiana sono del tutto episodiche. È una fascia della
popolazione per la quale si parla di ANALFABETISMO DI RITORNO, in quanto hanno l’incapacità di non saper intendere
in modo corretto un testo anche breve ed elementare.

CARATTERISTICHE ITALIANO POPOLARE:

 Nella scrittura ci sono molte incertezze grafiche: punteggiatura incorretta o assente, insicurezza nell’uso delle
maiuscole, uso errato di H (anno senza h per il verbo avere) e di Q (quore con la Q), oscillazione delle palatali
(coniglo, Franciesco), segmentazioni errate (l’aradio, lo rigano), scrittura delle consonanti scempie e doppie
(eppoca). Si manifesta a volte il fenomeno dell’ipercorrettismo, ovvero la sostituzione di forme ritenute
scorrette per analogia con altre che di fatto lo sono: chi è insicuro sull’uso di Q in italiano, può capitare che essa
non viene impiegata quando è prescritta dalla norma e viceversa.
 In fonetica appare il riflesso di abitudini dialettali: abbiamo pronunce come PISSICOLOGA tipiche del meridione.
La pronuncia dei ceti incolti quindi è marcata in diatopia: realizzazione di fricative alveolari in luogo di affricate
nel settentrione (kantsone>kansone), della vibrante non rafforzata nel centro Italia (trra>tra) o con
assimilazioni –nd>-nn nel meridione (mondo>monno).
 Per la morfologia: l’estensione dell’articolo un e il davanti a z ed s preconsonantica (i spagnoli, i zii), l’uso di “ci”
con valore di dativo maschile e femminile, singolare e plurale (ci ho dato un ceffone), il possessivo “suo” riferito
alla terza persona plurale (i miei amici hanno speso tutti i suoi risparmi), formazioni irregolari del comparativo e
superlativo (più migliore), la costruzione di paradigmi errati (la moglia), diverse riformulazioni per il verbo
(potiamo, facete, dicete), congiuntivi errati.
 Nella sintassi: incertezze nell’uso delle preposizioni (non sono bravo di cucinare), ampiezza dell’uso del che
polivalente (una bottiglia che c’erano dei vermi dentro), temi sospesi (la nostra tavola, si sono dimenticati
l’acqua), periodo ipotetico espresso con doppio condizionale (se sarei…comprerei) e con doppio congiuntivo (se
fossi…comprassi).
 Il lessico è contrassegnato dalle stesse voci generiche che costellano il parlato. Inoltre abbiamo parole formate
con suffissi errati (sollecitudine per sollecitazione) e la loro cancellazione (la dichiara per la spiega). Si parla
anche di malapropismi, cioè storpiature erronee di voci (pendice per appendice, palchè per parquet).

QUESTIONI AOERTE SULL’ITALIANO POPOLARE: La questione sull’italiano popolare fu introdotta e approfondita nel 1970
da Tullio de Mauro e Manlio Cortelazzo. De Mauro lo definiva “il modo di esprimersi di un incolto che sotto la spinta di
comunicare e senza addestramento, maneggia quella che si chiama lingua nazionale”. Cortelazzo invece “il tipo di
italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto”. Quindi abbiamo due diverse concezioni
dell’italiano popolare che hanno portato gli studiosi ad una netta contrapposizione fra due opposte valutazioni.
Alcuni hanno colto nell’italiano popolare il patrimonio di classi sociali portatrici di una competenza linguistica subalterna
ma spontanea e genuina, tale da sopperire all’inesistenza di un italiano comune. Altri hanno accentuato la natura di una
varietà inferiore e bassa, marginale nelle dinamiche dell’italiano contemporaneo, pertanto deve essere sradicata e
superata in direzione dello standard.
Inoltre secondo De Mauro l’italiano popolare ha origine solo dopo l’unità italiana del 1861 e si sviluppa per tutto il ‘900;
secondo altri studiosi è già ben documentato da secoli in diari, lettere e autobiografe, cioè nelle scritture dei semicolti.

Pertanto osserviamo che:

- La presenza di tratti panitaliani è molto modesta, inconsistente nei settori della fonetica e del lessico,
- Le sue radici affondano nei secoli passati ma resta vero che il suo uso ha avuto un forte incremento dopo l’unità
d’Italia,
- È innegabile che nei tratti individuati come italiano popolare si colgano delle tendenze che non sono solo dei
nostri tempi ma percorrono tutta la storia della lingua sin dalle origini.

IL GERGO
Il gergo è la lingua propria di alcuni gruppi di persone ai margini della società, che ne fanno uso all’interno della loro
cerchia con il fine di promuovere il senso di appartenenza al gruppo, la sua autoidentificazione e coesione interna, e con
il risultato di escludere dalla comprensione gli estranei.
Il parametro fondamentale per individuare il gergo è quello diastratico, come risulta dalla sua storia, che è quella di una
lingua parlata da categorie di bassa estrazione sociale, un mondo parassitario e dedito ad attività illecite o a forme di
commercio e artigianato minore oggi in declino. Predominano la consapevolezza e la rivendicazione di appartenere a
un’umanità diversa e alternativa che si contrappone alla società ufficiale per i costumi di vita e per la lingua, nasce da
qui infatti la percezione del gergo come lingua segreta.
I tratti più rilevanti dei gerghi li riscontriamo nel lessico che si forma su basi dialettali: l’uso del suffisso –oso (le fangose
scarpe), il troncamento di alcune parole comuni con varie forme di storpiatura (polizia > pula, carabinieri > caramba),
l’uso di parole che cominciano per N ed S per esprimere negazione (nisba) e affermazione (siena). Frequente è l’uso
della metafore (la bruna > la notte, la neve > la cocaina).

Accanto ai gerghi storici si trovano i gerghi transitori, ovvero i gerghi che hanno origine dalla convivenza temporanea in
ambienti di segregazione coatta, come il carcere e il collegio. Essi condividono con i primi la funzione di rafforzare
l’identità del gruppo.

Per la sua varietà transitoria il gergo penetra nella lingua dei giovani, si notino infatti i suffissati in –oso (palloso), il verbo
allargarsi per esprimere superiorità (ehi, non ti allargare), gergalismi di ambiente mafioso. Molte voci dei gerganti sono
giunte anche nell’italiano comune nei registri più bassi e colloquiali (sfottere, malloppo, monello). Infine al termine
“gergo” si attribuiscono il significato di terminologia specifica di una certa classe o professione (il gergo dei medici) e di
modo di parlare oscuro.

L’ITALIANO BUROCRATICO
È una particolare varietà dell’italiano contemporaneo, vicina allo standard, il cui linguaggio è quello degli uffici pubblici.
Tutti siamo i destinatari di avvisi, regolamenti, pagamenti di imposte ecc. ed è proprio questo il carattere particolare
dell’espressione burocratica, quello di incutere nel destinatario un certo rispetto, uno stato di soggezione che lo induca
ad ubbidire alle regole e a seguire le prescrizioni che gli sono rivolte.

CARATTERISTICHE:

 LESSICO: abbondanza di sinonimi pretenziosi, frequente è il ricorso ai termini latini (obliterare, rinvenire,
istanza). Tipiche sono le locuzioni sovrabbondanti “dare comunicazioni”, “procedere all’arresto”, “sottoporre
alla verifica”, tutte sostituibili da sinonimi monorematici dell’italiano comune (frase costituita da una sola
parola o un solo elemento morfematico) “comunicare”, “arrestare”.
Nella formazione delle parole sono graditi i sostantivi deverbali di grado zero, ovvero nomi assunti da basi
verbali senza alcun suffisso “inoltro” da inoltrare, “delega”, “addebito”. In modo analogo molti verbi si formano
da nomi o aggettivi (disdettare, evidenziare). Abbiamo inoltre forme ormai antiquate come ADDI’ e LI nelle
indicazioni di data e il dimostrativo CODESTO; le congiunzioni benché, nonché, ovvero, onde, ove.
 SINTASSI: è esclusiva la sequenza cognome nome ed è gradita la posposizione del numerale in espressioni come
“di anni 35”, “metri 50”. Si segnalano poi l’esteso procedimento di nominalizzazione in formule del tipo “in
considerazione di” e “ai fini di”; il ricorso al futuro deontico, che esprime quindi un dovere (la domanda dovrà
essere presentata entro…); la presenza di participi presenti con valore sostantivale e verbale (il dichiarante; il
decreto avente per oggetto).
Nella macro sintassi predominano subordinazioni complesse in quanto la struttura del testo anticipa le
motivazioni dei provvedimenti introdotte da subordinate implicite (considerato, visto, ritenuto).

Anche i cittadini più istruiti molte volte incontrano delle difficoltà nell’interpretare i testi degli uffici, al punto che alla
lingua burocratica si invoca una semplificazione dell’espressività. I primi interventi governativi risalgono ad una decina di
anni fa e sono continuati negli anni successivi, con l’istituzione di corsi appositi presso la scuola superiore della pubblica
amministrazione, e la divulgazione in internet di un correttore automatico.

LE LINGUE SPECIALI
L’espressione “lingue ufficiali” è in concorrenza presso gli studiosi con molte altre: la più diffusa è quella di “linguaggi
settoriali” ma si parla anche di lingue tecniche, professionali, di microlingue, tecnolingue e tecnoletti.
Nelle lingue speciali si accomunano spesso i linguaggi tecnico-scientifici, quelli di discipline umanistiche, quelli dei mass
media, della pubblicità ed altri ancora.

La prima importante distinzione è la nozione di SOTTOCODICE, le varietà della lingua correlate all’argomento, alla
disciplina di cui si tratta, la cui peculiarità è proprio il riferimento a un determinato ambito specialistico (es. biologia,
chimica, medicina). All’interno di ogni sottocodice possono esserci ulteriori specializzazioni (es. cardiologia e pediatria,
calcio e ciclismo), e si parla in questi casi di SOTTOSOTTOCODICI.
Tutt’altra cosa sono invece le espressioni veicolate da particolari mezzi di comunicazione, come il linguaggio dei giornali,
quello cinematografico, quello televisivo e radiofonico e quello di internet. La loro caratteristica consiste nella specificità
del canale di trasmissione.
Il discrimine tra lingue speciali e lingue veicolate dai mass media resta comunque netto e ciò appare evidente in quanto
il linguaggio dei giornali è portatore di informazioni sulla realtà quotidiana (politica, cronaca, economia) mentre il
linguaggio giornalistico è un sottocodice che ospita voci specialistiche talora sconosciute ai non addetti ai lavori (es.
occhiello, frase posta sopra il titolo in caratteri di dimensioni inferiori a quelle del titolo stesso). Il confine è ben
percepibile poi se consideriamo che il lessico dei sottocodici tende alla monosemia, ovvero il fatto che un vocabolo o
un’espressine abbia un significato unico (es. in medicina “paralisi” ha lo specifico ed unico significato di “perdita della
sensibilità e della motilità dovuta a lesioni delle vie nervose motorie”). Si osservi come molte parole dell’italiano dotate
di polisemia specializzino in più sottocodici alcune delle loro accezioni, ciascuna differente dall’altra (es. “base” che ha
come primo significato “parte inferiore di una struttura”, in chimica significa “composto che in soluzione con acqua dà
luogo ad una reazione alcalina”, in matematica ha un significato diverso, in geometria un altro ancora).
La tendenza alla monosemia non investe il linguaggio dei mass media.

Sono inclusi nei sottocodici sia quelli delle scienze più formalizzate nei metodi e nella terminologia e quelli delle
discipline meno formalizzate che hanno rapporti più vicini con la lingua comune (scienze naturali, medicina,
giurisprudenza, economia, filosofia, linguistica, storiografia), ma entrano a pieno titolo anche i linguaggi relativi allo
sport, la moda, il turismo, i trasporti e la gastronomia.
Tutte le lingue speciali si possono realizzare in una vasta pluralità di registri, differenziandosi al loro interno secondo il
parametro della diafasia: altro è il linguaggio di un biologo altro quello di un impiegato dallo stesso scienziato in una
trasmissione televisiva. Per concludere la variazione diafasica delle lingue speciali è circoscritta verso il basso,
l’informalità, per le scienze più sistematiche e codificate, e verso l’alto, la formalità, per le attività sociali che non
vengono catalogate nell’ambito delle discipline scientifiche.

LESSICO:

 Il lessico delle lingue speciali è caratterizzato dalla MONOSEMIA. La corrispondenza fra parola e significato è
biunivoca in quanto non solo i significanti delle lingue speciali hanno un solo significato, ma anche i significati
sono rappresentati da un solo significante. Ciò accade in obbedienza alla necessità della precisione denotativa
(denotazione = indica l’elemento significativo stabile e oggetto di una unità lessicale, indipendente da ogni
elemento soggettivo e affettivo che può avere all’interno di una frase. Connotazione = varia a seconda del
contesto, indica i significati che vengono attribuiti ad una parola insieme al suo significato basilare), di una
puntualizzazione semantica per la quale i referenti devono essere individuati in modo esatto.
 Detto ciò, il lessico sarà riluttante alla SINONIMIA, caratteristica specialmente propria delle scienze ad alta
specializzazione definitoria (es. “lepidotteri” non patisce concorrenza di alcun sinonimo e lo stesso accade per le
voci della chimica come “solfato”, della geologia, della botanica ecc.). Se guardiamo invece il campo
farmaceutico notiamo che il termine “anticoncezionale” coincide con almeno due sinonimi ovvero
“contraccettivo” e “antifecondativo”. Non a caso queste sinonimie si affacciano in un sottocodice più vicino alla
lingua comune, quello che tutti abbiamo modo di accostare nella nostra quotidianità.
Quanto alle lingue speciali no scientifiche, si pensi all’estesa sinonimia che investe per es. la lingua dei trasporti
o il linguaggio sportivo.
 Si osserva quindi una distinzione tra tecnicismi specifici, che individuano in maniera univoca e precisa i concetti
propri di un certo settore, e tecnicismi collaterali, i quali possono essere usati in maniera interscambiabile
rispetto a unità lessicali differenti, senza dispersioni di significato.
 Il lessico delle lingue speciali inoltre si avvale del ricorso ai codici stranieri: in molte discipline la comunicazione
scientifica avviene ormai in inglese, pertanto abbondano gli anglicismi. Ciò riguarda on solo i livelli più
specializzati ma anche le scienze meno formalizzate (es. la terminologia dell’informatica è così pervasiva che
non occorre nemmeno tradurre le voci citate, entrate nell’uso con la stessa veste della lingua d’origine). Quindi
ricorre tutta la tipologia del PRESTITO: voci integrali, adattate, calchi strutturali e semantici.
 Altro codice dal quale attingono le lingue speciali è quello del latino, che ha i suoi campi elettivi nel linguaggio
giuridico, “corpus”, e della medicina,” ictus”.
 Come per l’italiano standard, anche il lessico delle lingue speciali incrementa il suo patrimonio con il ricorso ai
materiali preesistenti in lingua: i neologismi si realizzano con l’attribuzione di nuovi significati a voci già presenti
in lingua con altri valori, per es. “candela” e “frizione” nel campo automobilistico.
Si segnala in particolare l’adozione di suffissi dotati di significati specifici: in chimica –oso individua i composti
con grado di valenza minore, in medicina –ite designa un’infiammazione cronica o acuta ecc.
 L’uso delle SIGLE è fondamentale, quasi sempre di circolazione internazionale (DNA, AIDS, TAC, DOC, SMS, CD-
ROM).
 Frequente è l’uso di voci di origine greca e latina che concorrono alla formazione di famiglie di parole: con emo-
si sono formati “emofilia”, “emodialisi”, con fito- “fitopatologia”. Il fenomeno si realizza nel linguaggio medico
ma si estende anche a quello fisico.
 Si aggiunge il meccanismo delle voci polirematiche, ovvero parole composte formate da più elementi che
costituiscono un insieme non scomponibile, il cui significato complessivo è autonomo rispetto ai singoli
costituenti.
 Frequente è la presenza di eponimi, voci polirematiche che indicano un prodotto, un fenomeno, una teoria
attraverso il nome dello studioso che a quel prodotto o teoria ha legato il suo nome (leggi di Keplero, teorema di
Pitagora). Un campo privilegiato è quello delle unità di misura, volt, watt, ampere.
 Per ultimo si verifica un travaso terminologico da un settore all’altro, come il trasporto aereo che ha mutato
parte del suo lessico da quello della marineria (navigazione aerea, navetta spaziale).

TRATTI TESTUALI E SINTATTICI:

Le lingue speciali non si differenziano dall’italiano standard solo per il lessico

 A partire dal lessico stesso, la ripetizione di una parola a breve distanza si verifica molto più spesso che
nell’espressione comune. In un testo tecnico la frequenza con la quale si ripete uno stesso termine è d a8 a 20
volte superiore rispetto alla lingua comune.
 Sul piano della strutturazione sintattica si mostrano alcune scelte preferenziali che si condensano nell’intenso
sfruttamento di andamenti che sono possibili anche nella lingua comune ma non così insistiti. Il tratto più
comune è la cancellazione del verbo, NOMINALIZZAZIONE, che può essere sostituito da locuzioni preposizionali
(“processi infiammatori a carico del palato molle” al posto di “processi infiammatori che interessano il palato
molle”) e sintagmi nominali (la presenza di proteine > le proteine possono essere presenti).
 Il verbo non è solo eliminato ma i suoi usi vengono limitati dai tempi, dai modi e dalle persone. Prevale tra i
tempi il PRESENTE, affiancato anche dal FUTURO; fra i modi domina l’INDICATIVO, ma viene utilizzato anche il
congiuntivo soprattutto nel linguaggio giuridico e amministrativo. Per quanto riguarda le persone si escludono la
prima e la seconda persona singolare e la seconda plurale; sono invece utilizzate le forme impersonali, in
obbedienza alle esigenze di neutralità scientifica. Con valore analogo si deve interpretare la spiccata
propensione per le forme passive del verbo, in quanto esse consentono di porre in prima sede nell’enunciato il
processo o il fatto di cui si è discorso nella frase precedente della trattazione.
L’ITALIANO STANDARD
L’italiano standard è la lingua ereditata dalla trattazione letteraria, descritta nelle grammatiche e insegnata nelle scuole
e agli stranieri. Anche se gli studiosi non sono tutti d’accordo su tale definizione.
Per lingua standard intendiamo un’espressione dotata di una sostanziale stabilità, garantita dalla codificazione
grammaticale, depositata nei vocabolari, capace di piegarsi alla produzione di qualsiasi tipo testuale. In quanto standard
una lingua ha una funzione unificatrice (in essa si riconoscono parlanti di differente origine sociale e geografica) e al
tempo stesso separatrice, in grado di simboleggiare un’identità nazionale diversa da altre.
Per quanto riguarda le vicende storiche individuiamo nell’italiano contemporaneo il punto di arrivo di una lingua che ha
le sue origini nel fiorentino scritto del Trecento ed è diventata una lingua letteraria comune nel corso del Cinquecento,
anche in assenza di unità politica. Nei secoli ha poi consolidato la sua dimensione parlata, ha mutato la sua fisionomia,
presenta di fatto molti tratti divergenti da quelli del XIV secolo.

Per la maggioranza degli italiani lo standard è un’entità del tutto virtuale. Se guardiamo all’oralità infatti notiamo che
esso è posseduto da un numero di parlanti assai ristretto, una cerchia ristretta di gruppi professionali specifici che
abbiano seguito appositi corsi di dizione.
Sul piano diamesico del parlato-parlato lo standard è marcato in qualche modo lungo l’asse diatopico, infatti anche se
viene attribuito un valore di pronuncia standard al fiorentino emendato, il riferimento sarà sempre in direzione di una
varietà locale particolare. Pertanto lo standard nel parlato non è patrimonio nativo di alcun cittadino italiano.

Quanto alla scrittura, la conquista di un italiano standard scritto è conseguita da settori assai più consistenti della
popolazione. Nelle scritture di alta e media formalità di fatto la variazione diatopica appare neutralizzata: nella prosa
della saggistica, delle trattazioni e divulgazioni scientifiche, in quella del giornalismo ecc. i contrassegni della diatopia
non sono più percepibili. Ciò significa che un italiano comune esiste, e quindi lo standard si pone come modello di
riferimento per l’insegnamento scolastico.

LINEE DI TENDENZA

Sappiamo che una lingua standard è stabile ma non immobile: in quanto strumento di comunicazione e di interazione
fra gli uomini, ogni lingua non può mai essere statica.
Alberto Mioni, Francesco Sabatini e Gaetano Berruto hanno cercato di definire intorno alla metà degli anni ’80 quei
tratti che conferiscono una rinnovata fisionomia alla lingua d’oggi, sia scritta che parlata, e che consentono di
fotografare lo status attuale dell’italiano e di ipotizzare la nascita di un nuovo standard, o NEOSTANDARD. Alcuni di
questi tratti sono biasimati dalla norma grammaticale della tradizione, accettati solo in parte o del tutto ignorati nei
manuali. Essi sono:

1. Per i pronomi: l’uso di LUI, LEI, LORO in funzione di soggetto; di GLI come dativo plurale; di LO come pronome
neutro che riprende un predicato o una proposizione (lo vedo che sei stanco); di CI con avere e con altri verbi (ci
ho fame, contarci, volerci); di CHE e COSA interrogativi a scapito di “che cosa”.
2. Per altri fatti della microsintassi: i costrutti preposizionali con il partitivo (esco con degli amici); l’impiego come
aggettivi invariabili di voci appartenenti ad altre categorie grammaticali (una giornata no, la Milano bene); l’uso
di COME MAI interrogativo; le giustapposizioni di sostantivi CANE POLIZIOTTO nelle quali il secondo sostantivo
ha funzione aggettivale.
3. Per la sintassi della frase e del periodo: il presente pro futuro; il futuro epistemico; i verbi pronominali con
valore di intensificazione affettiva (stasera mi vedo la partita in televisione, fatti una bella merenda).

Si è osservato che alcuni esiti e costrutti sono però in forte declino, in particolare le varianti sintetiche per le preposizioni
articolare PER e CON (pel, pei, pello); le forme eufoniche AD, ED (a Empoli, e Antonio); VI sostituito da CI con valore
locativo (ci andremo un’altra volta) e con l’ausiliare essere (ci sono ancora posti liberi?); l’uso di CODESTO, COSTI’,
COSTA’ e del dimostrativo CIO’.

Tutte queste evoluzioni nel loro complesso definiscono secondo Francesco Sabatini un italiano dell’uso medio, diverso
dallo standard tradizionale, ormai ammissibile nel parlato e negli scritti di media formalità.
Gaetano Berruto ha invece proposto l’etichetta di italiano neostandard, intesa a sottolineare la contiguità con lo
standard e l’accettabilità nella norma dei fenomeno innovativi della lingua contemporanea. Per Mengaldo è inevitabile
approfondire in prospettiva futura i tratti dell’italiano medio in relazione all’asse diafasico, individuando in particolare
quelli squilibrati verso l’informalità e quelli ai confini con l’italiano popolare. Berruto non è lontano dalla linea di
Sabatini, ma sottolinea la priorità degli assetti morfosintattici e lessicali su quelli della fonetica.

Maggiore è la distanza da queste posizioni di altri linguisti come Maurizio Dardano, il quale non attribuisce un’identità
autonoma al neostandard, negandone la centralità nelle dinamiche dell’italiano contemporaneo, che si caratterizza
piuttosto per la mescolanza delle varietà e delle tipologie testuali, per la forte incidenza dei mass media; e Luca Serianni,
promotore della più completa grammatica di riferimento della lingua italiana, il quale rivendica la buona salute dello
standard tradizionale e ha posto l’accento sulla riluttanza della lingua scritta ad accogliere tratti grammaticali neologici
che appartengono al parlato.

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