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L’italiano: strutture, usi e varietà

6. Le varietà dell’italiano

Ogni comunità linguistica, in qualsiasi territorio geografico o in qualsiasi epoca si trovi ad agire,
non possiede una lingua monolitica, incapace di piegarsi alle tante esigenze comunicative o di
mutare in base alle caratteristiche sociali e culturali dei parlanti; al contrario, ogni lingua dispone di
un più o meno ampio repertorio linguistico, costituito da diverse varietà.

In particolare, con repertorio linguistico si intende, come implicitamente abbiamo detto, l’insieme
di tutte le risorse linguistiche (ovvero di tutte le lingue e di tutte le varietà di una stessa lingua) di
cui dispongono o un’intera comunità (repertorio comunitario) o un unico parlante (repertorio
individuale), il quale, però, costituirà soltanto un sottoinsieme di quello comunitario, giacché è
quasi impossibile che un singolo individuo possa usufruire di tutte le varietà possedute dalla
comunità nel suo insieme. Pertanto, si può comprendere come i concetti di comunità, varietà e
repertorio siano strettamente connessi fra di loro, anche perché è proprio la totalità dei parlanti di
una comunità a regolamentare l’uso e la scelta di una varietà o dell’altra. A questi si aggiunge
anche il concetto di variazione, diverso da quello di varietà.

In particolare, tra i vari tipi di variazione (o cambiamento) linguistica figurano:

 variazione interlinguistica, ovvero la compresenza di lingue diverse in uno stesso


territorio;
 variazione intralinguistica, ovvero quando vi è la compresenza di varietà diverse della
stessa lingua;
 alternanza di codice, ovvero il passaggio da una varietà, o da una lingua, ad un’altra in
situazioni di diglossia (bilinguismo); è importante precisare che l’alternanza di codice
prevede il passaggio tra diverse varietà di lingua a seconda della situazione particolare
(ad esempio, se ci si rivolge a due persone con gradi di istruzione diversi, avendo prima un
codice più articolato e poi uno più “basso”);
 commutazione di codice (o code switching), ovvero il passaggio da una varietà, o da
una lingua, ad un’altra in una medesima situazione comunicativa e ad opera del
medesimo parlante; in questo caso, rispetto all’alternanza di codice, non vi sarà la
distinzione tra le varie situazioni comunicative (ad esempio, se dicessimo Ciao, ich bin ein
Schüler from Italy, avremmo ben tre code switching diversi);
 commistione di codice (o code mixing), ovvero quando lo stesso interlocutore usa unità
sub-frasali (cioè più piccole di una frase, come parole o sintagmi) appartenenti a lingue
diverse (come, ad esempio, nel dire Il prossimo weekend vado a Roma).

Circa il trovare una definizione di comunità linguistica, essa è risultata ai linguisti una questione
spinosa e controversa, giacché in molti cercano di definirla partendo dal dare rilievo alla semplice
condivisione di una stessa lingua, arrivando però, poi, a considerare sia l’importanza della base
sociogeografica, sia anche il peso di un comune atteggiamento verso usi e valori sociali di
determinate varietà e repertori. Ci atteniamo, pertanto, maggiormente alle indicazioni di Gaetano
Berruto, il quale, con l’espressione “comunità linguistica”, considerata, tra l’altro, come sinonimo di
comunità parlante, si riferisce ad un complesso di persone legate da una qualche forma di
aggregazione sociopolitica e in grado di accedere a un insieme di varietà linguistiche. La
comunità linguistica, in particolare, è proprio colei che determina le regole d’uso delle varietà,
ponendole di solito lungo una scala gerarchica, al cui estremo più alto si collocano le varietà
dotate di maggiore prestigio, destinate a comunicazioni e scritture formali, mentre sul gradino più
basso si posizionano quelle adoperate per la conversazione familiare e spontanea.
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L’italiano: strutture, usi e varietà

Anche la definizione di varietà linguistica, tuttavia, non è sempre lineare ed univoca perché, ad
esempio, noi potremmo definire come “varietà” lo stesso italiano regionale, i dialetti e le lingue
trasmesse. Ad ogni modo, attenendoci sempre alle indicazioni di Berruto, ogni varietà è
rappresentata da un fascio di tratti (fonetici, morfologici, sintattici, ecc.) che, in dipendenza di
alcuni fattori non linguistici tendono a presentarsi insieme: dunque, per circoscrivere una varietà
sarà necessario cogliere sia i fattori extra-linguistici che contribuiscono a determinarla, sia anche
gli elementi linguistici che la contraddistinguono. Inoltre, va notato come: se la comunità parlante
ha un peso di rilievo sulle regole che governano il rapporto tra varietà e comunicazione, sarà quasi
consequenziale che l’uso di una varietà o dell’altra e, ancor di più, il modo di alternarne il ricorso in
base alla situazione, forniscano indicazioni eloquenti anche sulla posizione sociale, sulla cultura
e sull’istruzione del singolo individuo.

6.1 - Dimensioni di variazione

Osserviamo, ad ogni modo, come una caratteristica intrinseca delle lingue sia proprio la
mutevolezza, che può coinvolgere anche repertori individuali, oltre che comunitari, in quanto ad
esempio, un singolo individuo può perdere nel tempo la competenza di una delle lingue a lui note,
o acquisirne delle altre; allo stesso modo, una comunità parlante può abbandonare, per ragioni
storiche e culturali, alcune lingue e accoglierne delle altre, oppure modificare la distribuzione del
numero delle varietà.

Ma la mutevolezza delle lingue dipende anche dei modi differenti in cui esse si presentano
nell’enunciazione dei parlanti e, in tal senso, proprio in base al grado di istruzione, alla
provenienza sociale, al contesto in cui si trovano o al mezzo di cui si servono, i parlanti hanno
possibilità di scegliere in modo più o meno ampio tra le varietà del repertorio linguistico da loro
stessi posseduto.

La variazione linguistica, inoltre, è sempre collegata a fattori non linguistici che dipendono: dal
tempo, dallo spazio, dalla posizione sociale del parlante, dalla situazione comunicativa; questi
fattori, definiscono quattro dimensioni di variazione. In particolare, tali dimensioni sono state
denominate a partire dall’unione del prefissoide dia- (dal greco “attraverso”) alle parole khrónos
(“tempo”, per diacronia), tópos (“luogo”, per diatopia), phasis (“emissione di voce”, per diafasia) e
strato (per diastratia). Più chiaramente:

 quando la lingua varia attraverso il tempo, abbiamo una variazione diacronica, da cui
dipendono le varietà diacroniche, come, per esempio, l’italiano del Cinquecento o
l’italiano contemporaneo;
 quando varia attraverso lo spazio, parliamo di variazione diatopica, da cui dipendono le
varietà diatopiche (con le quali si è esposti fin da bambini), come l’italiano regionale,
l’italiano di Firenze o di Roma;
 quando varia attraverso gli strati sociali, ci riferiamo alla variazione diastratica, da cui
dipendono le varietà diastratiche, le quali si differenziano in base alla provenienza sociale
del parlante e in base alla sua appartenenza a determinati gruppi sociali, come nel caso
della lingua adoperata dalle persone colte, delle lingue giovanili e così via;
 quando varia in base alla situazione comunicativa, siamo di fronte alla variazione
diafasica, da cui dipendono le varietà diafasiche, come l’italiano formale, la lingua
colloquiale e le lingue specialistiche.

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Va aggiunta, inoltre, un’ulteriore dimensione, ovvero la diamesia (da dia- + mésos “mezzo”), cui
dipendono le varietà diamesiche, cioè condizionate dal mezzo fisico di cui ci si serve, ovvero il
canale fonico-acustico per il parlato, o quello grafico-visivo per lo scritto (distinguiamo, infatti, uno
scritto che tende allo scritto, uno scritto che cerca di imitare il parlato, un parlato che cerca di
imitare lo scritto e un parlato che è semplicemente tale). Ad ogni modo, va notato come molti
linguisti ritengono che la diamesia non sia una variazione autonoma, poiché comunque
contiene in sé le altre.

Quindi, si può notare come qualsiasi enunciato generato dai parlanti sia sempre prodotto in una
particolare varietà di lingua, ma che può comunque essere ricondotto a più di una dimensione
di variazione: riprovevole, ad esempio, è neutrale in diamesia, marcato medio-alto in diafasia,
marcato alto in diastratia e neutrale in diatopia (quest’ultimo, tuttavia, dipende anche dal modo in
cui viene pronunciata la parola); sto cercando ‘na zita..., invece, sarà marcato come parlato in
diamesia, basso in diafasia, medio-basso in diastratia e regionale in diatopia.

Ad ogni modo, una considerazione a parte va fatta per la variazione diacronica, che lo stesso
Berruto preferisce definire come “mutamento”, piuttosto che come variazione: infatti, il primo
termine indica i cambiamenti che la lingua subisce con il trascorrere del tempo; il secondo,
invece, le diversificazioni che si realizzano in sincronia. Notiamo, infatti, che quando analizziamo
una lingua nella sua contemporaneità prendiamo in considerazione sempre e soltanto le sue
varietà sincroniche, mettendo da parte quella diacronica, sebbene anche l’asse temporale conservi
comunque una sua rilevanza, in quanto gli stessi repertori di una lingua possono mutare con il
passare degli anni (si pensi, ad esempio, al cosiddetto ci attualizzante, un tempo marcato sul piano
diafasico come informale e trascurato, mentre oggi si può incontrare nella scrittura giornalistica).

Ma le dimensioni di variazione sincronica si possono concepire come degli assi lungo i quali le
varietà si dispongono in una successione gerarchica, che vede ai due estremi contrapposti le
varietà più alta e più bassa e, in mezzo, numerose varietà intermedie, queste ultime non facili
da circoscrivere, in quanto non ci sono dei confini netti che le separino: le varietà, pertanto, si
dispongono lungo un continuum linguistico, cioè lungo una sequela che non prevede interruzioni
di continuità, ma solo passaggi graduali da un estremo ad un altro. Se guardiamo all’italiano infatti,
saremo in grado di distinguere solo gli estremi di ciascun asse:

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 sugli estremi dell’asse diafasico avremo, invece, in alto l’italiano accurato e molto
formale e in basso l’italiano informale trascurato;
 all’estremità dell’asse diamesico, poi, pur ricordando che le varietà appena indicate
possono appartenere sia allo scritto che al parlato, troveremo lo scritto monologico (cioè
lo scritto-scritto), rispettoso della norma più alta, e il parlato dialogico (cioè il parlato-
parlato), spontaneo e colloquiale;
 lungo l’asse della variazione diatopica, diversamente dagli altri, più che di poli
gerarchicamente contrapposti di italiani regionali contrassegnati in misura maggiore o
minore dai tratti locali, troveremo disposti orizzontalmente le tante varietà geografiche della
nostra lingua, contrapposte allo standard dell’italiano.

D’altro canto, come possiamo notare,


gli stessi assi di variazione si
intersecano fra di loro poiché, ad
esempio, un italiano piuttosto
marcato dal punto di vista diastratico,
quasi senza dubbio coinciderà con
una varietà accentuatamente
regionale e sarà, quindi, da collocare
anche sull’asse diatopico: il
continuum linguistico, pertanto,
non riguarda solo i passaggi graduali
da una varietà all’altra lungo ciascun
asse di variazione, ma l’intera
architettura del repertorio di una
lingua. Volendo, ad esempio, dire a
qualcuno che non si può andare da lui, potremmo avere:

 Mi pregio informarla che la nostra venuta non rientra nell’ambito del fattibile (varietà di
italiano formale aulico);
 Trasmettiamo a Lei destinatario l’informazione che la venuta di chi sta parlando non avrà
luogo (italiano burocratico);
 La informo che non potremo venire (italiano standard);
 Le dico che non possiamo venire (italiano neostandard);
 Sa, non possiamo venire (italiano parlato colloquiale);
 Ci dico che non possiamo venire (italiano popolare);
 mica possiamo venire (italiano informale trascurato).

6.2 - Spazio linguistico dell’Italia

Lo spazio linguistico dell’Italia non è facile da definire; ad esempio, se considerassimo l’asse


della diatopia dell’italiano o il repertorio del dialetto, al loro interno troveremmo sempre varietà che
si differenziano sulla base dell’area geografica dei parlanti. Si può dire, comunque, che la
comunità linguistica italiana possegga un repertorio costituito da due distinti sistemi linguistici,
ovvero l’italiano e il dialetto, che non si trovano sullo stesso piano né dal punto di vista degli usi né
da quello della percezione sociale.

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Infatti, l’italiano si colloca sempre su una posizione più alta, potendo essere adoperato in tutte le
situazioni comunicative e avendo una norma scritta più stabile e sorvegliata. Il dialetto, al
contrario, è impiegato nella comunicazione familiare, non ha accesso agli usi pubblici e formali
ed è limitato solo ad alcune tipologie di scrittura. Ricordiamo, comunque, che già a partire dal
Cinquecento la lingua fondata sul fiorentino trecentesco venne adoperata per tutti gli usi scritti
e per le comunicazioni orali più elevate, lasciando essere il dialetto il principale strumento di
comunicazione per le situazioni di minore formalità. Questa situazione, rimasta tale fino ai primi
decenni dell’unità politica del paese, si può definire, secondo la definizione che ne diede Charles
Ferguson, di diglossia, ovvero una nozione che si oppone, in linguistica, a quella di bilinguismo,
sebbene entrambe rinviino alla coesistenza di due lingue.

In particolare, con bilinguismo ci si riferisce, genericamente, alla possibilità che un singolo


individuo (o una comunità) sia in grado di adoperare due lingue paritariamente fruibili, cioè
senza differenze funzionali e senza alcuna distinzione tra le situazioni comunicative (si parla
anche, in questo caso, di “bilinguismo sociale”). Tuttavia, il bilinguismo può essere esteso sia ad
una sola intera comunità, come avviene in Valle d’Aosta con l’italiano e il francese, facendo parlare
di bilinguismo monocomunitario, sia a più comunità ufficialmente autorizzate ad adoperare
ognuna la propria lingua per tutti gli usi e in tutte le circostanze, come avviene con l’inglese e il
francese in Canada, facendo parlare di bilinguismo bicomunitario (peraltro più frequente del
primo).

Per diglossia, invece, si intendono due lingue (una A ed una B) che, in una stessa comunità, si
ripartiscono ruoli nettamente separati e gerarchicamente contrapposti, ovvero: la lingua A
possiede uno standard ed è usata esclusivamente per la scrittura, le comunicazioni ufficiali e i
contesti formali; invece, la lingua B, appresa come lingua materna, ricorre solo per le situazioni
informali e le conversazioni private. Insomma, tra i due sistemi non ci sono né scambi né,
tantomeno, sovrapposizioni e ciò è quanto avvenuto in Italia per alcuni secoli. Negli ultimi
decenni, tuttavia, grazie anche al ruolo giocato dalle comunicazioni di massa, la comunità
linguistica italiana è stata considerata come non più recante una situazione di diglossia ma,
secondo un modello realizzato dallo stesso Berruto, avente una situazione di bilinguismo
endogeno (in quanto sia italiano che dialetto sono il frutto di sviluppi interni alla lingua stessa) a
bassa distanza strutturale, oltre che recante anche una situazione di dilalia.

In particolare, in una situazione di dilalia, le lingue A e B rimangono di rango diverso ma, mentre
solo la prima occupa gli spazi della comunicazione alta, entrambe possono ricoprire le funzioni
basse. Infatti, l’italiano si è a mano a mano sovrapposto al dialetto negli spazi dell’informalità,
divenendo in moltissimi casi lingua materna appresa spontaneamente, mentre il dialetto, al
contrario, non è riuscito ad invadere gli ambiti d’uso dell’italiano, né, tantomeno, ne ha mutato le
funzioni.

Ad ogni modo, i dialetti italiani, i quali andrebbero più correttamente definiti come italoromanzi,
presentano pur sempre una loro autonomia e non vanno confusi con l’italiano regionale, il quale
è, al contrario, una varietà diatopica dell’italiano. In particolare, i dialetti italoromanzi sono generati,
al pari degli altri volgari, per via di una lenta trasformazione del latino parlato, avendo proprie
strutture fonetiche, morfologiche e sintattiche ben distinte da quelle della lingua unitaria. Ma un
equivoco che spesso viene commesso è il considerare lingue solo alcuni di loro, cosa che
comunque consiste in un luogo comune che la storia del nostro paese ha contribuito a
sedimentare nel tempo. Infatti, la convivenza antica degli italiani con le tante lingue della penisola
continua a generare sentimenti di grande affezione verso la lingua del proprio territorio, oltre che

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L’italiano: strutture, usi e varietà

ad alimentare pregiudizi e rivalità nei confronti di altre aree. In realtà, così come abbiamo
precedentemente già visto, l’opposizione tra lingua e dialetto si può spiegare solo in termini
sociolinguistici e il discrimine tra i due è segnato solo da criteri spaziali e da possibilità
d’impiego, ovvero, più chiaramente, una lingua conquista una posizione ufficiale solo per via di
ragioni storiche, politiche e culturali e non per maggiore o minore dignità rispetto alle altre.

Circa le varietà dei dialetti, invece, non possono essere trascurate le loro ampie gamme di
variazione, sebbene siano in misura ridotta rispetto all’italiano, proporzionalmente al loro ridotto
spazio d’uso. Ad ogni modo, secondo il modello maggiormente condiviso dai linguisti, si può
distinguere tra dialetto di koinè (“lingua comune”) o regionale, dialetto urbano e dialetto locale
(secondo il modello Pellegrini del 1960, invece, circa la differenza dei repertori linguistici si
distingueva tra: italiano comune, letterario e standard; italiano regionale; dialetto di koinè;
dialetto locale).

Vanno valutati, inoltre, anche i cosiddetti “dialetti italianizzati”, che si caratterizzano per la
presenza di tratti, prevalentemente fonetici e lessicali (delle volte anche morfologici e sintattici),
riconducibili all’influenza dell’italiano. Questo, in effetti, non è altro se non uno dei tanti possibili
fenomeni di contatto linguistico, con la particolarità che una delle due lingue coinvolte nel
contatto ricopre minori ambiti d’uso, finendo col subire, in misura maggiore, le conseguenze del
contatto stesso. Ma, sebbene le pressioni dell’italiano coinvolgano principalmente tutte le strutture
dei dialetti, i cambiamenti più evidenti e analizzati riguardano la fonetica e il lessico che, da molti
punti di vista, incidono in misura minore sulla stabilità di una lingua (a tal proposito, si può proprio
dire che una lingua subisca un grande mutamento nelle sue fondamenta nel momento in cui
variano morfologia e sintassi, non anche gli altri componenti). In particolare, comunque, dal
punto di vista fonetico, i fenomeni d’influenza dell’italiano riguardano soprattutto la sostituzione o
l’inserimento di fonemi spesso estranei al dialetto originario; dal punto di vista lessicale, invece,
sebbene una lingua richieda sempre l’immissione di parole nuove, nei primi decenni della seconda
metà del Novecento l’introduzione di italianismi fu motivata anche dall’uso del dialetto in ambiti
come la politica, l’economia, la società tecnologica, industrializzata e altri ambiti che gli erano
sostanzialmente estranei.

Infine, osserviamo come lo spazio linguistico italiano sia occupato anche dalle minoranze
linguistiche che, secondo l’accezione assunta in Italia, si identificano con le comunità alloglotte,
ovvero quei gruppi di popolazione che parlano una lingua materna diversa sia dall’italiano che
dai dialetti italoromanzi; esempi di tali minoranze sono le lingue italoalbanesi, le varietà calabresi
del greco, friulane dello sloveno e così via. Molto spesso, d’altronde, in queste isole linguistiche si
è soliti parlare di trilinguismo, in quanto all’italiano e alla lingua minoritaria si associa sempre
anche il dialetto dell’area, che finisce spesso con il condividere gli spazi comunicativi della
parlata alloglotta.

Viceversa, vi sono la Toscana e Roma, dove si parla, invece, di “monolinguismo”; per la


Toscana, e in particolar modo Firenze, è semplice comprenderne i motivi, giacché la storia che ha
condotto alla nostra lingua unitaria ha fatto sì che ancor oggi un’altissima percentuale delle sue
forme e delle sue strutture coincidano col fiorentino, motivo per cui non individuiamo un
dialetto autonomo per la regione; per Roma, allo stesso modo, l’impronta fiorentina data alla
comunicazione dai papi medicei Leone X e Clemente VII, oltre che alle immigrazioni dall’Italia
centrale dopo il sacco di Roma del 1527, fecero sì che si perdessero i tratti più marcati del
romanesco, giungendo ad una progressiva toscanizzazione.

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L’italiano: strutture, usi e varietà

6.3 - Italiano standard

In linguistica, la nozione di standard è alquanto complessa e riguarda molteplici aspetti; tuttavia,


semplificando di molto, si può dire che, di solito, con “lingua standard” si intende la varietà di
maggior prestigio, codificata dalle grammatiche e a cui l’intera comunità linguistica guarda come
modello di riferimento per la correttezza normativa e per l’insegnamento scolastico. Questo, allora,
significa che allo standard si associa sia l’idea di lingua neutra sia quella di una lingua in grado di
estendersi uniformemente all’intero territorio nazionale, trascurando il fatto che la lingua standard,
in un modo o in un altro, presenti sempre una certa dose di artificialità, giacché è difficile
incontrarla al di fuori della scrittura.

Ma alla base dell’italiano standard vi è il fiorentino letterario trecentesco, eletto dagli italiani a
lingua unitaria; nei secoli successivi alla codificazione della norma, poi, furono accolti in essa delle
innovazioni e degli apporti da altre aree, distanziando ancor di più l’italiano dalla lingua di Firenze,
la quale, d’altronde, subì anch’essa numerosi cambiamenti, così come tutte lingue vive,
contribuendo ulteriormente ad accrescere la sua diversità rispetto alla lingua unitaria. Un esempio
di quanto detto è il fatto che in italiano non è mai giunta la cosiddetta “gorgia toscana”, cioè la
pronuncia fricativa delle consonanti occlusive sorde (e in qualche caso anche sonore), quando si
trovano in posizione intervocalica (ad esempio, amico  [a’miho]). Ancora, estraneo alla nostra
lingua è anche la realizzazione delle affricate palatali sorde e sonore intervocaliche come
fricative (ad esempio, cacio  [‘caʃo]; agio  [‘aʒo]), oltre che le forme monottongate come
novo e foco invece di nuovo e fuoco. Vi sono, inoltre, anche molte differenze che intercorrono nella
morfosintassi, come l’uso del si + terza persona singolare del verbo, al posto della prima persona
plurale, come in Si torna a casa invece che Torniamo a casa. Ma la distanza maggiore si nota
sicuramente sul piano lessicale, giacché, ad esempio, in italiano si dice l’una per indicare l’ora e
non il tocco, si usa guancia invece di gota, giocattolo e non balocco e così via.

A fronte di queste considerazioni, diremo, quindi, che l’italiano standard è stato definito come un
fiorentino emendato, cioè privato di alcuni fra i tratti più marcati e popolari, sebbene ciò non vuol
dire che esso non possa mai coincidere, in alcuni dei suoi aspetti, ad altre varietà di italiano
effettivamente parlate dalla comunità. In un certo senso, l’italiano standard è definibile come una
lingua astratta, pronunciata correttamente solo da coloro che, avendo frequentato un corso di
dizione, sono riusciti a cancellare ogni traccia della propria area geografica; tuttavia, c’è da dire
come lo stesso modello standard sia condiviso a pieno, almeno per quanto concerne i parlanti
colti, solo sul piano della morfologia e dell’ortografia, mentre non lo è per nulla dal punto vista della
fonetica e dell’intonazione. Pertanto, esso è rintracciabile, oltre che nella norma insegnata a
scuola, soltanto in alcune tipologie di scrittura.

Va detto, tuttavia, che l’italiano in sé, come lingua, si è sempre caratterizzato per alcune
difformità, che non riguardano solo varianti di pronuncia ma, bensì, anche la convivenza di forme
diverse. Infatti, l’antica lingua letteraria era particolarmente segnata dal polimorfismo, grazie al
quale gli autori potevano scegliere tra varianti fonetico-morfologiche pressoché equivalenti,
come, ad esempio, avviene con quistione-questione o lagrima-lacrima, o anche con forme per le
quali, oggi, si tende a preferirne solo una, come per pronuncia-pronunzia, tra-fra, visto-veduto, tutti
casi in cui è la prima forma ad essere preferita.

Ma dopo l’Unità d’Italia e, soprattutto, a partire dalla seconda metà del Novecento, la stabilità che
aveva caratterizzato l’italiano lungo i secoli si dissolse per via del diffondersi della lingua unitaria
nella comunicazione viva e parlata della quotidianità. Proprio questo portò molti tratti, i quali

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L’italiano: strutture, usi e varietà

sebbene entrati da tempo nel sistema linguistico italiano non erano stati accolti dalla norma
grammaticale, a farsi strada anche nell’uso delle persone colte. Di conseguenza, di fianco alla
norma grammaticale, destinata a propagare il modello della lingua standard, i linguisti hanno
individuato anche una norma sociale (detta anche “implicita”), ovvero quella concretamente
adottata e fissata in base all’accettazione o meno di forme, parole e costrutti da parte della
comunità linguistica. In effetti, anche la norma è soggetta a continue evoluzioni, per cui se, ad
esempio, i pronomi lui e lei in funzione di soggetto non erano considerati ammissibili alla metà del
secolo scorso, oggi sono entrati anche in testi di scrittura elevata.

Pertanto, diremo che i rapidi cambiamenti subiti dall’italiano negli ultimi decenni hanno innescato
un processo di ristandardizzazione della norma grammaticale, che avvicina l’italiano della
grammatica all’italiano dell’uso.

6.4 - Italiano neostandard

In linguistica, con “movimenti”, o meglio “tratti in movimento” dell’italiano contemporaneo, ci si


riferisce ai cambiamenti in corso e alle oscillazioni d’uso nella lingua di oggi che, in particolare,
coincidono con:

 gli elementi della lingua, orali e scritti, degli usi informali e mediamente formali;
 gli elementi della lingua avvertiti come aulici o connotati in senso non comune (come nei
linguaggi tecnico-specialistici) oppure obsoleti;
 gli elementi della lingua che costituiscono una diffusa innovazione rispetto all’uso
comune;
 le oscillazioni d’uso che sono relative a scelte linguistiche fondamentalmente diverse
ma pressoché equivalenti sul piano comunicativo (come nel caso delle grafie alternative di
una parola).

Con l’idea di movimento, pertanto, i linguisti fanno riferimento al costante dinamismo, nel
continuum del repertorio odierno, di elementi linguistici di vario livello (fonologico, grafico,
morfologico, ecc.). In particolare, però, i movimenti riguardano proprio i cambiamenti, nel
tempo, del valore di alcuni tratti linguistici nella comunicazione contemporanea, un valore che,
ovviamente, è sempre determinato dai parlati e dal modo in cui essi reagiscono all’uso di tali tratti
nelle varie situazioni comunicative e dalle conseguenti indicazioni dei grammatici. Alla luce di ciò,
quindi, si può dire che il già citato processo di ristandardizzazione della norma grammaticale sia
dovuto proprio a tali tratti in movimento, i quali potrebbero, ovviamente, riassestare la norma in
futuro.

In particolare, questi movimenti dell’italiano si cominciarono a notare già a partire degli anni
Ottanta del Novecento, ovvero quando l’italiano era, oramai, diventato una lingua parlata
quotidianamente, sebbene alcuni dei tratti tipici dello standard, descritti nelle grammatiche, non si
fossero affermati in tali usi quotidiani, venendo, invece, sostituiti da tratti concorrenti. Questo
processo portò alla nascita di una varietà dell’italiano, che Francesco Sabatini e Gaetano Berruto
chiamarono, rispettivamente, come “italiano dell’uso medio” e “italiano neostandard”:

 stando a Sabatini, ‹‹l’italiano dell’uso medio è una varietà parlata e scritta, primariamente
diastratica, impiegata dalla generalità delle persone almeno mediamente colte, dai
giornali e dai mass media in genere››;

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 secondo Berruto, invece, ‹‹l’italiano neostandard è l’italiano parlato realmente in tutta


Italia, nei punti in cui si discosta dalla lingua delle grammatiche››;
 ancora, secondo il linguista Alberto Sobrero, ‹‹il neo-standard è diffuso nelle classi medio-
alte e nella parte più acculturata della popolazione, ed è realizzato nel parlato più che
nello scritto. L’etichetta di neo-standard si riferisce al fatto che su questo livello, oggi in
piena evoluzione, troviamo un gran numero di forme che, via via, “risalgono” dai livelli
inferiori (sub-standard): prima relegate nell’area delle forme “colloquiali” (o, come dicevano
i vocabolari “triviali”), ora si diffondono e sono accettate nella lingua nazionale. Lo standard
così, a sua volta estende i propri confini››;
 infine, secondo Alberto Mioni, ‹‹l’italiano neo-standard è un “italiano tendenziale”, la
varietà propria di quei parlanti, muniti di competenze di basso livello, che si sforzano di
raggiungere le forme linguistiche proprie dello standard››.

Tutte queste definizioni, comunque, indicano un italiano sottoposto a una sensibile


ristandardizzazione da parte dei parlanti, formando un italiano sì comune, ma di fatto diverso in
più punti dalla varietà considerata, ad allora, standard.

Osserviamo che, oggi, buona parte dei tratti tipici dell’italiano neostandard, perlopiù
morfosintattici, sono considerati normali in quasi tutti i livelli di lingua. Ad esempio, tra i suoi tratti
principali ci sono:

 l’uso di due e non ti tre aggettivi e pronomi dimostrativi, cioè il prossimale questo e il
distale quello, mentre il dimostrativo codesto, un tempo codificato nello standard, è rimasto
vivo solo nell’uso regionale toscano e nella lingua burocratica;
 l’uso dei pronomi lui, lei e loro in funzione di soggetto;
 l’uso del ci attualizzante, ovvero l’uso del ci (o ce) con il verbo avere predicativo in frasi
come C’ho fame;
 l’uso dell’avverbio ci con valore locativo (cioè di indicazione spaziale) al posto di vi,
sebbene questa forma sia ancora usata nei testi di registro alto;
 l’uso dei come mai al posto del perché;
 l’uso dei costrutti marcati della dislocazione a destra e a sinistra, oltre che delle frasi
scisse.

Questo tipo di lingua è diventato così normale da essere utilizzato anche nello scritto
mediamente formale del giornalismo. Analizziamo, ad esempio, il seguente testo:

Testo 13____ Agostino, maturità a 42 anni “Ho un lavoro sicuro ma voglio anche
laurearmi”.
Agostino Lavena un’occupazione a tempo indeterminato già ce l’ha. Dal 1994 lavora come
motorista nella Guardia costiera. Eppure a 42 anni, domani, tra i tanti ragazzi alle prese
con l’esame di maturità ci sarà anche lui.

La giornalista avvia la prima frase dell’articolo con il soggetto, ma poi ricorre ad una dislocazione a
sinistra, anteponendo al verbo l’oggetto diretto, il quale funge da tema dell’informazione (attivato,
peraltro, dal titolo dell’articolo); la frase, poi, si conclude con una normale ripresa anaforica
dell’oggetto tramite il pronome la (l’), rafforzato dal ci attualizzante. Successivamente, dopo il
connettivo Eppure e le due espansioni a 42 anni e domani, vi è un’ulteriore dislocazione a sinistra,
in quanto tra i tanti ragazzi alle prese con l’esame di maturità sarà il tema dell’informazione; in
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L’italiano: strutture, usi e varietà

questo modo, il testo termina con la parte rematica dell’informazione, in cui figura l’avverbio ci con
valore locativo, oltre che il pronome lui usato come soggetto, sebbene ciò sia obbligatorio poiché è
un elemento rematico.

Inoltre, in un testo come C’è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e
opprimente. Il populismo, osserviamo come vi sia l’utilizzo del c’è presentativo collocato in una
frase scissa, oltre al fatto che Il populismo indichi il capocatena del testo anticipato da richiami
cataforici.

6.5 - Principali movimenti nell’italiano

Vediamo, dunque, livello per livello, quali sono i principali movimenti nell’italiano di oggi;
noteremo come essi sono sia movimenti endogeni, cioè relativi a movimenti da sempre interni al
sistema dell’italiano di base fiorentina, sia esogeni, cioè relativi a tratti accolti nella lingua comune
da varietà italiane non fiorentine, o anche quelli derivanti dalla lingua straniera oggi più invasiva,
l’inglese.

6.5.1 - Fonetica

Dal punto di vista della pronuncia, va detto che l’italiano non possiede un effettivo standard
fonetico, per cui si parla di pronuncia virtuale, sulla quale, peraltro, non vi è condivisione,
giacché, ad esempio, con il tempo sono entrati in fiorentino modi di pronunciare come il milanese
(per via del fatto che esso sia considerato come di maggior prestigio). Di fatto, la pronuncia
dell’italiano parlato dagli italiani nelle situazioni quotidiane risente quasi sempre delle inclinazioni
proprie della loro regione di provenienza, dalla quale, inoltre, dipendono anche gli aspetti
prosodici del parlato.

Ad ogni modo, nelle normali pronunce degli italiani le più diffuse differenze rispetto a quello che
dovrebbe essere lo standard improntato al fiorentino emendato sono che:

 le vocali medie e e o, dai parlanti di origine non toscana, sono pronunciate con un
timbro diverso rispetto al modello fiorentino e, cioè, ora aperte, ora chiuse, a seconda
dell’influsso regionale, soprattutto in sequenze quali /wɔ/ e /jɛ/;
 l’affricata palatale sorda /tʃ/ non viene rispettata in posizione intervocalica, soprattutto
dagli stessi parlanti toscani e centro-meridionali, venendo, pertanto, sostituita dalla
fricativa palatale sorda /ʃ/ (ad esempio, [‘luʃe] anziché [‘lutʃe]);
 la fricativa e l’affricata dentale, in posizione intervocalica, sono spesso pronunciate in
modo difforme rispetto al modello fiorentino, ovvero ora sorde e non sonore, ora al
contrario (ad esempio, [‘tɛsi] invece di [‘tɛzi] per tesi, oppure [‘dzio] invece di [‘tsio] per zio).

Queste oscillazioni, comunque, sono da considerare tipiche di una pronuncia neostandard e,


pertanto, sono accettabili anche in situazioni formali. Bisogna aggiungere, tuttavia, che esistono
ulteriori tratti, non strettamente fonetici, che caratterizzano talune pronunce:

 la tendenza alla ritrazione dell’accento nella pronuncia di parole polisillabe, soprattutto


per quelle appartenenti al vocabolario tecnico-specialistico (e quindi meno frequenti) o,
comunque, per quanto concerne i forestierismi e cognomi di origine dialettale
(rispettivamente, degli esempi sono le parole: cosmopolita – detto cosmopòlita e non
correttamente cosmopolìta; edile – d èdile c. edìle; Nobel – d. Nòbel c. Nobèl);

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L’italiano: strutture, usi e varietà

 le oscillazioni, che si riflettono anche in grafia, tra a/ad ed e/ed, sebbene i grammatici
raccomandino di riservare le forme con d soltanto in caso di incontro tra vocali identiche;
 la diffusa propensione ad evitare le elisioni, nel parlato quanto nello scritto (infatti, si tende
ad usare una espressione e non un’espressione);
 la maggiore disponibilità dei parlanti ad accettare la pronuncia di parole terminanti in
consonanti, soprattutto se si tratta di anglicismi come app, link o web.

6.5.2 - Grafia

Dal punto di vista grafico, vi sono oscillazioni nella resa delle parole composte, che non sono
ancora stabilizzate. Ad esempio, convivono nell’uso grafie del tutto equivalenti, come per lo più /
perlopiù, oppure coppie in cui una forma è ritenuta migliore dell’altra, come anzitutto al posto di
anzi tutto. Oscillano, inoltre, alcune grafie delle terminazioni plurali dei nomi femminili che
escono in -cia e -gia per cui, ad esempio, ciliege e provincie si alternano a ciliegie e a province,
sebbene quest’ultime siano le grafie raccomandate dai grammatici.

È inoltre frequente l’omissione dell’accento grafico nella scrittura di parole composte (ad
esempio, ventitre al posto di ventitré), nonché una certa estensione dell’uso della maiuscola per
influsso della scrittura inglese, come nei nomi dei mesi o nei nomi (e anche aggettivi) riferiti alle
lingue.

6.5.3 - Morfologia pronominale

Dal punto di vista morfologico, i tratti in movimento riguardano soprattutto l’uso dei pronomi. In
particolare, rispetto allo standard, osserviamo come nell’italiano neostandard vi sia la presenza:

 pronome te, ovvero la forma obliqua (non soggetto) per la seconda persona, che si
alterna, in funzione di soggetto, con tu, sia nell’uso di Firenze che del Nord, nell’uso di
frasi come Te che ne sai? o Se lo dici te;
 pronomi egli, ella, lui, lei, loro, esso per la terza persona, il che dimostra che questo
sistema di pronomi sia particolarmente dinamico. Infatti, osserviamo come siano del tutto
frequenti nel parlato comune i pronomi deittici e anaforici lui, lei e loro in funzione di
soggetto, mentre egli ed essi sono di frequenza molto minore, oltre al fatto che ella,
invece, è pressoché in disuso. Tuttavia, va detto che sia egli che ella sono ancora
abbastanza frequenti negli scritti scolastici, sebbene la loro presentazione come quella
dei soli pronomi adatti allo scritto contribuisce a far sì che studenti di vario livello usino tali
due forme in modo ipercorretto, ritenendole erroneamente una garanzia del registro
formale che conviene con gli scritti scolastici. In particolare, l’ipercorrettismo consiste
principalmente nell’espressione di egli o ella dove sarebbe più corretto, dal punto di vista
testuale, usare come coesivo o un’ellissi (cioè un pronome nullo Ø), o una ripetizione
oppure un pronome che apra una frase relativa. Consideriamo, ad esempio, il seguente
testo:
Testo 14____ Italo Calvino è nato a Cuba e cresciuto a Sanremo. Egli [1] era
compagno di classe del famoso giornalista Eugenio Scalfari [...] si iscrisse alla
facoltà di agraria, seguendo le orme del padre botanico. Ma per questi studi egli [2]
non era portato.
In questo caso, per rendere accettabile il testo, al posto del primo Egli bisognava usare
un’ellissi, mentre al posto del secondo egli si sarebbe anche potuto utilizzare lui, data la
marcatezza dell’informazione nel senso di “al contrario di altri, lui”. Ancora, nel testo:
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L’italiano: strutture, usi e varietà

Testo 15____ Il libro ci parla della storia di Giovanna, una bambina di 12 anni. Ella
malgrado la sua giovane età si ritrova a scappare e a rifugiarsi per non farsi trovare
dai tedeschi, durante la II Guerra mondiale. Lei quindi passò gran parte della sua
vita a nascondersi. Giovanna durante la sua breve vita scrisse un diario che
raccontava tutta la sua vita e le esperienze di paura e di gioia. Quando ella riuscì a
scappare presentò il suo scritto durante quel periodo nero della sua vita e riuscì a
vincere un premio per la scrittura nel 1963 .
In questo caso, tralasciando tutti gli altri difetti, si può notare come vi sia un uso ipercorretto
di ella nel primo caso, dove sarebbe stato migliore inserire una frase relativa; vi è poi l’uso
di lei non corretto, giacché l’indicazione non ha nessuna marcatezza e, infine, l’uso
superfluo del secondo ella.
Notiamo, ancora, come i pronomi lui e lei sono anche diffusamente impiegati per
richiamare referenti inanimati, con la funzione, quindi, che lo standard di anni fa avrebbe
assegnato esclusivamente al pronome esso, come nell’esempio: L’ultima rilevazione
dell’OCSE sulle retribuzioni dice quanto la trasparenza sia preziosa. Grazie a lei sappiamo
che...
Infine, riguardo i pronomi di terza persona, osserviamo come anche il pronome esso può
essere un coesivo ipercorretto negli scritti scolastici e, cioè, viene impiegato quando
sarebbe più adatto riprendere il referente non solo con un’ellissi, ma anche con una
ripetizione o un sinonimo, come in: “Harry Potter” è una lunga serie di romanzi... Il primo
volume fu pubblicato nel 1997 e appartiene al genere fantasy. Esso narra..., dove se al
posto di esso si fosse scelto un sinonimo (o anche una ripetizione), il testo ne avrebbe
guadagnato in leggibilità;
 pronome gli in funzione di oggetto indiretto, esteso sia per il femminile singolare, al
posto di le, sia per il maschile che il femminile plurale, al posto di loro. Tuttavia, mentre
l’uso per il femminile singolare non è ancora ritenuto accettabile nello scritto mediamente
formale (sebbene, poi, nell’oralità esso passi molto inosservato), l’uso per il plurale, al
contrario, è sempre più accolto anche nello scritto di media formalità;
 pronome che polivalente, avvertito ancora come un tratto del parlato colloquiale, sebbene
alcuni dei suoi usi, come quello in cui il che ha valore esplicativo-consecutivo, sembrano
farsi strada verso il registro mediamente formale; tuttavia, altri usi di che, come quello
enfatizzante-esclamativo (Che bella giornata!) o quello relativo analitico, restano ancora
confinati agli usi informali. In particolare, quest’ultimo caso, presente in Il giorno che ti ho
visto risulta essere scorretto poiché il che relativo, sostituendo il quale, la quale, ecc., ha la
funzione di introdurre un oggetto diretto o un soggetto e non un oggetto indiretto come
nell’espressione analizzata (da notare come tale forma risulti ambigua e scorretta alla
maggior parte dei parlanti proprio perché si attribuisce una funzione sintattica ad un
elemento errato, cosa che non avviene, ad esempio, in a me mi, in quanto in quest’ultimo
caso si tratterà semplicemente di un rafforzativo). Nel primo dei seguenti testi, il che
presenta valore esplicativo-consecutivo; nel secondo, invece, il che viene utilizzato al posto
di cui declinato, che nello scritto formale sarebbe sanzionato come errore e letto come
segnale di un livello basso di conoscenza del repertorio linguistico:
Testo 16____
- Ragazzi qualcuno che ha fatto l’esame di linguistica generale (preferibilmente
uno o due anni fa al massimo...) mi potrebbe contattare in privato, che ho
bisogno di alcune informazioni?

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L’italiano: strutture, usi e varietà

- Oggi ho avuto un colloquio in questa Agenzia e mentre stavo presentando il mio


cv lavorativo vengo interrotto subito... e mi viene detto il punto del colloquio... da
un ragazzino di poco più di 18 anni che neanche sapeva quello che stavo
parlando...
 ci in funzione “attualizzante”, soprattutto con l’uso di alcuni verbi con i quali esso
produce particolari lessicalizzazioni, come nel caso di entrarci, che va a significare
“essere pertinente”, e che viene anche ricondotto spesso, erroneamente, al verbo centrare,
che però è inesistente nell’accezione di “avere pertinenza”, ma bensì solo di “colpire il
centro”. Esso, inoltre, produce lessicalizzazioni anche nel caso di starci quale “essere
d’accordo”, metterci per “impiegare tempo” o anche la sua presenza con il verbo stare per
indicare “essere normale” (Ci sta che...);
 pronome ne ridondante nelle frasi relative, in quanto un pronome riprende
pleonasticamente (cioè in modo superfluo) un altro pronome relativo già presente, come in:
[...] è possibile vedere ed utilizzare un veicolo di cui se ne riconoscono facilmente i loghi;
 quello che + verbo essere, soprattutto nel parlato, dove presenta più di una funzione
pragmatica, tra cui quella di rallentare il “dinamismo comunicativo”, di attenuare o
allargare il significato del sostantivo che segue, oppure di creare, grazie alla ridondanza, un
effetto di attesa. Tale formula si sta estendendo anche nello scritto e si connota sempre di
più per una difficile sostituibilità, giacché essa, ad esempio, nella seguente frase
presenta un valore quasi “empatico” che non potrebbe essere espresso con il semplice
che: [...] L’indagine pone l’attenzione su quelli che sono i timori dei lavoratori europei e
italiani verso l’automazione.
 articolo indeterminativo che viene omesso in alcuni contesti, ad esempio davanti ai
nomi di aziende, società ed enti pubblici o privati, oltre al fatto che viene sostituito dalla
preposizione in (quando sarebbe più corretto alla) e viene omesso, inoltre, davanti al
circostanziale di tempo settimana prossima; un esempio è in: Ø Telecom vorrebbe
infatti entrare Ø in Ø Metroweb comprando la quota di Ø F2I [...] e Ø settimana prossima
un incontro tra il numero uno [...] AD di Ø F2I [...]. Inoltre, va detto che gli scriventi attenti
alle possibili implicazioni sessiste della lingua omettono di proposito l’articolo
determinativo femminile nelle indicazioni dei nomi di donne (giacché la presenza
dell’articolo potrebbe essere connotabile in senso ironico e spregiativo) e un esempio è:
Facebook, la sfida di Ø Boldrini a Zuckerberg.

6.5.4 - Morfologia verbale

Dal punto di vista verbale, rispetto allo standard, osserviamo come nell’italiano neostandard vi sia
la presenza:

 uso modale dei tempi che impiega l’indicativo al posto del congiuntivo nelle frasi
completive, fenomeno da confinare ancora al registro colloquiale;
 congiuntivo imperfetto nelle esortazioni come, per esempio, nelle frasi imperative, dove
tra l’altro aggiunge all’ordine espresso un valore polemico, come in E dire che Stefan De
Vrij [...] che andasse lui a scuola d’italiano.

6.5.5 - Sintassi e pragmatica

Circa la sintassi e la pragmatica, osserviamo come tratti dell’italiano in movimento che coinvolgono
questi livelli sono:

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L’italiano: strutture, usi e varietà

 frase scissa, il cui diffuso utilizzo è proprio tipico dell’italiano neostandard, oltre che
sempre più frequente anche nelle comunicazioni formali; tuttavia, nei testi scritti la frase
scissa perde spesso il suo valore pragmatico contrastivo (come in È lui che mi ha
chiamata! = “Non ho chiamato io”), assumendo, nella sua forma inversa ed implicita, un
ruolo funzionale per la progressione tematica del testo, al fine di legare le sue unità
informative. Ad ogni modo, bisogna aggiungere che non è neanche ancora ben chiaro se
alla famiglia delle frasi scisse presenti in italiano neostandard appartengano anche le frasi
dette “scisse della polarità”, cioè quelle frasi introdotte con Non è che... / È che...;
 tema sospeso, il quale viene sentito, tra i costrutti marcati, come l’unico ancora proprio
solo del parlato, sebbene sia comunque presente nella prosa narrativa contemporanea
mimetica dell’uso linguistico medio;
 accusativo preposizionale, tipico delle varietà regionali centro-meridionali e riconducibile
al sostrato dialettale; esso è usato soprattutto se l’oggetto è costituito da un pronome,
come nella frase A me non mi hanno chiamato;
 sintassi frammentata, ovvero una sintassi che, nell’ambito di una generale tendenza alla
riduzione della complessità ipotattica che caratterizza da tempo la prosa giornalistica e
saggistica, presenta un andamento quasi solo paratattico, oltre che un grande uso di
spezzare con un punto i legamenti sintattici. Analizziamo, ad esempio, il seguente testo,
dove evidenziamo sia la rottura dei legami sintattici (in blu), sia l’utilizzo di frasi nominali
(in rosso), tipiche della scrittura giornalistica; inoltre, alla fine vi è anche un Perché che
introduce una frase indipendente con valore esplicativo-argomentativo, assumendo la
funzione che normalmente avrebbe infatti:
Testo 17____ Negli ultimi dieci anni quasi due milioni di studenti hanno lasciato la
scuola secondaria. A dirlo è un rapporto appena pubblicato su “Tuttoscuola”, noto
periodico d’informazione educativa. Che a questo dato scoraggiante aggiunge altre
cifre non meno preoccupanti.
Come la classifica degli abbandoni scolastici che vede l’Italia ai primi posti tra i
paesi UE. Peggio di noi stanno solo Spagna, Malta e Romania. Così, nella società
della conoscenza, una parte del Paese sprofonda nell’ignoranza. Con una perdita
di competenza e di competitività i cui danni ricadono sull’intera collettvità. Gli esperti
sono unanimi nell’evidenziare una connessione diretta tra la “mortalità” scolastica e
l’occupazione giovanile. Che nel nostro Paese è tra le più basse d’Europa, specie
per quei ragazzi che si sono fermati alla licenza media. [...]
Insomma, se la scuola è il passaporto per muoversi nel futuro, il nostro Paese sta
creando una schiera di persone condannate all’immobilità sociale. Sudditi più che
cittadini. Destinati a ripercorrere i passi delle famiglie di origine. La condizione di
queste vittime predestinate rivela il fallimento delle politiche educative. Perché,
diceva Don Milani, se si perdono i ragazzi più svantaggiati, la scuola non è scuola.
È un ospedale che cura i sani e respinge i malati.

6.5.6 - Lessico

Dal punto di vista lessicale, com’è naturale, la frequenza d’uso delle parole è sempre in
movimento. Questo risultato è stato indicato anche dalla recente revisione del vocabolario di base,
la quale attesta che sono numerose le parole entrate per la prima volta tra le 2.000 che
compongono lo strato d’uso più frequente (detto “vocabolario di uso fondamentale”  FO), il
quale è, tuttavia, rimasto stabile per il 73,3%, dagli Ottanta del Novecento ad oggi. Al contrario, la
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L’italiano: strutture, usi e varietà

quota di lessico appartenente al secondo strato d’uso (detto “vocabolario di alto uso”  AU) è
rimasta invariata solo del 47%.

Vanno considerati, infatti, soprattutto i neologismi, che negli ultimi anni hanno visto l’entrata in
scena di vari prestiti dall’inglese, legati alle nuove forme di comunicazione e alla frequentazione
dei social network (da qui, parole come post e postare, screenshot, selfie, ecc.).

Vi sono, poi, neologismi che riguardano l’introduzione di un nuovo significato ad una parola già
in uso, come per:

 la locuzione piuttosto che, che negli ultimi anni ha diffuso un valore disgiuntivo, cioè
con significato di “o”, “oppure”, che si aggiunge al significato avversativo di “anziché”
originario della locuzione. Ovviamente, il suo utilizzo è biasimato dai grammatici poiché
potrebbe ingenerare confusioni, come nel seguente esempio: Uomini e donne da invitare in
un albergo, o in un ristorante, piuttosto che in un supermercato, piuttosto che la macelleria
[...];
 il nome tipo, che negli ultimi anni è stato oggetto di una transcategorizzazione, ovvero di
un passaggio da una categoria grammaticale ad un’altra, giacché viene usato col
significato di “per esempio”, come in: Si mette tipo così..., Pensa tipo che...

6.6 - Esempi di italiano regionale

Nel considerare il repertorio linguistico italiano contemporaneo è importante tenere ben distinti i
dialetti d’Italia dagli italiani regionali, ovvero dai diversi tipi dell’italiano che muta sulla base
dell’area geografica; pertanto, diremo che gli italiani regionali, cioè le varietà parlate dalla
maggioranza della popolazione nelle situazioni comunicative quotidiane e informali, non
corrispondono a quelli che oggi noi definiamo come dialetti.

In particolare, la diffusione degli italiani regionali si realizzò soprattutto con la progressiva


acquisizione, da parte degli italiani, di una “seconda lingua” rispetto al loro dialetto e, cioè,
l’italiano di base fiorentina, avvenuta su larga scala a partire dall’Unità d’Italia (1861). Proprio
questo incontro tra dialetti e italiano ha determinato, nel tempo, la diffusione di vari italiani parlati,
colorati in modo diverso in base ai tanti e differenti sostrati dialettali.

Ma le sensibili differenze regionali nell’italiano parlato dagli italiani si notano immediatamente


anche se solo si fa attenzione alla prosodia (ovvero all’accento, alla cadenza o alla calata di un
modo di parlare), che in Italia è fortemente condizionata dalla provenienza geografica dei
parlanti; proprio questi aspetti prosodici, accanto a quelli fonetici, possono occorrere anche nel
parlato mediamente o totalmente formale, con ricadute anche nello scritto.

È importante, tuttavia, specificare che, parlando di “italiano regionale”, noi non intendiamo
l’aggettivo “regionale” in riferimento alle venti regioni amministrative italiane, quanto più ad aree
linguistiche più o meno ampie che, com’è stato osservato da più di uno studioso, possono
coincidere con lo spazio linguistico proprio degli abitanti di una sola città; pertanto, “regionale” è da
intendere, in questi contesti, con il valore di “locale”. Possiamo passare, pertanto, a descrivere,
livello per livello, i principali tratti tipici dell’italiano regionale di tre grandi città, Milano, Roma e
Napoli, che racchiudono in sé le caratteristiche dell’italiano di determinate isoglosse (ovvero linee
immaginarie che su una carta geografica segnano i confini di un'area linguisticamente uniforme
rispetto a uno o più fenomeni).

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L’italiano: strutture, usi e varietà

6.6.1 - L’italiano di Milano

L’uso dell’italiano, nella città di Milano, si è andato diffondendo in modo capillare dal secondo
dopoguerra in poi, soprattutto grazie ad una notevole crescita demografica, dovuta alla massiva
immigrazione di italiani di altre regioni, attratti dal crescente sviluppo economico della città.
Vediamo, dunque, che i tratti tipici dell’italiano parlato a Milano (con un fascio di isoglosse
che arriva fino a La Spezia-Rimini) sono i seguenti.

 Fonologia
 pronuncia di e e o: infatti, una delle principali differenze fonologiche rispetto allo
standard consistono, come per altri italiani regionali, nella pronuncia delle vocali
medie.
In particolare, nell’italiano di Milano la e tonica finale di sillaba interna alla parola
si pronuncia chiusa e non aperta (come nello standard); avremo, pertanto, esempi
come: bene  [ˈbene]; telefono  [teˈlefono].
Al contrario, vi sono anche casi in cui si pronuncia aperta la e tonica, come in:
freddo  [ˈfrɛdo]; questo  [ˈkwɛsto].
Circa la o tonica, invece, la pronuncia sarà chiusa in parole come: bosco 
[ˈbosko]; costo  [ˈkosto].
Sarà aperta, invece, in parole come: doccia  [ˈdɔttʃa];
 pronuncia sonora delle consonanti fricative e affricate dentali: infatti, è un tratto
tipicamente settentrionale la realizzazione sempre sonora sia della fricativa
dentale intervocalica (/z/ invece che /s/, sebbene non nelle parole composte) sia
dell’affricata dentale /ts – dz/ intervocalica.
Ad esempio: cosa  [ˈkɔza]; mese  [ˈmeze]; riso  [ˈrizo] -
zio  [ˈʣio]; zucchero  [ˈʣukkero];
 abbreviazione (scempiamento) delle consonanti doppie, cioè vi è una tendenza
all’indebolimento delle consonanti doppie; è evidente anche in parole come:
bisogno  [bi’zoɲo]; coscia  [‘koʃa].
Inoltre, a Milano, così come in tutte le altre varietà settentrionali, è assente il
raddoppiamento fonosintattico, per cui forme come a casa [aˈkaza], fa caldo [fa
ˈkaldo] ecc., rimarranno separate nella pronuncia.
 Morfosintassi
 uso particolare dell’articolo, caratteristico soprattutto nelle indicazioni di nomi
propri, sia maschili (ad esempio, Il Gino) che femminili (ad esempio, La Gilda).
Inoltre, è altrettanto regionale l’omissione dell’articolo con i nomi affettivi mamma e
papà: mia mamma, mio papà...;
 uso di così + preposizione, tipicamente milanese, in espressioni come ce n’è
così di roba, oltre all’uso della preposizione con + avverbio (Ti portano i piatti con
su una lunga foglia);
 frequenza di frasi scisse interrogative, come Che cos’è che ha detto? ecc.
 Pragmatica
 costrutto mai che + presente congiuntivo / indicativo, tipicamente milanese, per
indicare con una sfumatura polemica un desiderio, come in Mai che mi porti al
cinema!
 Lessico
 uso di:
- cosa interrogativo con il significato di “perché” (Cosa ridi?);

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L’italiano: strutture, usi e varietà

- appena con il valore di “soltanto” (Siamo appena in tre);


- crescere nel senso di “avere in più” (Ho un biglietto che mi cresce);
- curare nel senso di “sorvegliare” (Puoi curarmi la borsa un momento?);
- parole e locuzioni varie.

6.6.2 - L’italiano di Roma

Dell’uso regionale romano va ricordato, innanzitutto, la breve distanza sia dalla varietà
neostandard sia dall’uso dialettale, giacché, come già detto, il dialetto “romanesco” subì una
progressiva toscanizzazione in età rinascimentale. Va detto, inoltre, che la varietà romana gode
anche di un certo prestigio, o se si vuole “simpatia”, nazionale, non solo in quanto uso
linguistico della capitale politica, quanto anche perché da sempre è stata ampiamente
promossa tanto dal cinema che dalla televisione e, in questo modo, la diffusione mediatica ha
fatto sì che molti tratti romani entrassero e continuino ad entrare nell’uso di altre regioni italiane
(pertanto, nell’uso comune). Vediamo, dunque, i principali tratti dell’italiano di Roma (con un
fascio di isoglosse esteso da Roma ad Ancora).

 Fonologia
 pronuncia di e e o: tende a corrisponde allo standard di base fiorentina,
sebbene vi siano eccezioni, come in: trènta, dòpo, sarébbe e così via.
Vi è, inoltre, la tendenza a chiudere la e nella sequenza iè, come in piéde, Piétro,
ecc.;
 monottongamento tipico, ovvero la riduzione del dittongo [wɔ], come avviene, ad
esempio, in bòno e vòto, sebbene ciò rientri nel registro basso della conversazione;
 chiusura e conservazione di o ed e atone perché, ad esempio, la o della
negazione non si chiude spesso in nun, mentre la preposizione di e i clitici
conservano la e, come in ce, de, me, se, ecc. (ad esempio, consideriamo
l’espressione Nun ce credo);
 pronuncia fricativa /ʃ/ dell’affricata palatale sorda /tʃ/ intervocalica, come, ad
esempio, per dice [‘ditʃe]  [‘diʃe];
 pronuncia affricata /ts/ della fricativa dentale sorda dopo nasale, laterale e
vibrante, come avviene, ad esempio, in penso [‘pɛnso]  [‘pɛntso];
 palatalizzazione del nesso nasale + semiconsonante /nj/, come, ad esempio, in
niente [‘njɛŋte]  [‘ɲɛnte];
 tendenza al raddoppiamento di alcune consonanti, infatti a Roma si tende alla
pronuncia intensa dell’occlusiva bilabiale e dell’affricata palatale sonore (b/ e
/dʒ/) intervocaliche, come gli esempi: sabbato, raggione, ecc.
Si tende, inoltre, a raddoppiare le nasali bilabiali sonore /m/ in parole come:
carammella, nummero, pommodoro;
 forme apocopate, ovvero forme in cui vi è la caduta di un fono o di una sillaba
nella parte finale di parola, da con confondersi con l’elisione; in particolare, sono
comuni, nell’italiano di Roma:
- negli infiniti: fa’  fare (Che stai a fa’?);
- nei nomi propri: Alessandro  Alessà;
- nei titoli appellativi: professore  professò.
 Morfosintassi
 te soggetto, come in Vieni pure te;

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L’italiano: strutture, usi e varietà


uso di a- intensivo, il che consiste nell’inserire il prefisso a-, soprattutto se davanti
al prefisso iterativo ri-, in forme come “Arieccolo!”;
 suffissi tipici, come -aro  kebabbaro “venditore di kebab”, oppure -one 
pancione e -ata  comparsata;
 stare a + infinito apocopato, che corrisponde, all’incirca, alla forma dello standard
“stare + gerundio”; pertanto, Sto lavorando  Sto a lavorà;
 diversi usi di che, in particolare per:
- aprire interrogative polari (Non è che hai un euro?  Che ci hai un euro?);
- formulare interrogative retoriche, dove assume il valore di perché (Perché te
lo dico?  Che te lo dico a fare?);
- formare l’espressione solo che + infinito (Puoi solo che divertirti).
 Pragmatica
 forma verbale dice per indicare i turni verbali durante un resoconto orale;
 segnale discorsivo Ve’? per indicare certezza (L’hai preso te, ve’?);
 vi sono anche altri elementi come l’esclamazione ammazza! o boh!
 Lessico
 presenza di:
- parole = capoccia “testa” – cinta “cintura” – rosicare “provare invidia” –
spicciare “mettere a posto”;
- locuzioni = capito come? “hai capito?”;
- espressione capace = “possibile”, che presenta una particolare sfumatura
semantica (È capace che non ce sta’).

6.6.3 – L’italiano di Napoli

Al contrario dei precedenti, il territorio linguistico di Napoli è assai diversificato (al sud
dell’isoglossa Roma-Ancona); ad ogni modo, i suoi principali tratti sono i seguenti.

 Fonologia
 chiusura delle vocali toniche nelle sequenze uò [wɔ] e iè [jɛ], tratto che
contraddistingue l’intera Campania e che vediamo in esempi come: b[wo]no,
sc[wo]la, p[je]de, ecc.;
 pronuncia aperta delle vocali toniche che normalmente sono chiuse come, ad
esempio, il finale degli avverbi, che viene detto -mènte, mentre nello standard è -
ménte;
 pronuncia della -i- dopo una consonante palatale sorda (come tʃ e ʃ), per cui i
parlanti di Napoli tenderanno a pronunciare cielo facendo sentire la i, cioè non
correttamente [‘tʃɛlo], ma [‘tʃjelo];
 pronuncia indistinta della vocale finale di parola, il che porta al pronunciare il
fono [ǝ], come per bello, che sarà pronunciato come [bɛllǝ];
 raddoppiamento di consonanti intervocaliche, se occlusiva bilabiale o affricata
palatale sonora (/b/ e /dʒ/), come in subbito o staggione;
 pronuncia fricativa /ʃ/ dell’affricata palatale sorda /tʃ/ intervocalica, come per
piace, che diventa [‘piaʃe];
 assimilazione della dentale sonora /d/ a /n/, come, ad esempio, in [‘kwando] 
[‘kwan:o];

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L’italiano: strutture, usi e varietà

 sonorizzazione della dentale sorda /t/ dopo la nasale /n/, detta anche
“assimilazione progressiva”, come in [‘kwanto]  [‘kwando];
 resa affricata /ts/ della fricativa dentale sorda dopo nasale, laterale e vibrante,
come avviene, ad esempio, in salsa [‘zalsa]  [‘zaltsa];
 pronuncia come semiconsonante intensa della laterale palatale /λ/, come
vediamo accadere in famiglia  [fa’mijja];
 viceversa, vi è anche la resa con consonante palatale della semivocale, come
per ieri  [λeri];
 apocope, come a Roma, soprattutto negli allocutivi: Antò, dottò, ecc.;

altri fenomeni, che riguardano, ad esempio:
- la palatizzazione della fricativa dentale davanti a velare e labiale, come
avviene in scusa, spesa e così via ([‘ʃkusa] – [‘ʃpesa]);
- le pronunce con epentesi (cioè elemento supplementare con fini fonetici) in
parole che presentano incontri di consonanti “difficili”, come psicologo 
pisicologo;
- la pronuncia con avanzamento o ritrazione dell’accento: pulmànn – Càvour.
 Morfosintassi
 metaplasmi di genere, cioè alcuni nomi femminili sono trattati come maschili (per
esempio: scatolo e guardio), mentre altri nomi sono usati erroneamente al femminile
(come la ascensore);
 uso del congiuntivo imperfetto al posto del presente congiuntivo nelle
esortazioni, come abbiamo visto per che venisse lui! inteso per “venga”;
 maggiore ricorso al perfetto semplice, in quanto il passato remoto viene utilizzato
anche per descrivere eventi ancora rilevanti per il momento dell’enunciazioni;
 produttività dei suffissi -illo ed -ella, in quanto essi sono adoperati per creare
parole connotate affettivamente, come: bellillo, bellella, ecc.;
 anteposizione di stesso usato come avverbio, per esempio in frasi come: Lo
potete prendere stesso voi;
 uso transitivo di alcuni verbi che nello standard sono intransitivi, come il verbo
entrare o salire (Salimi le chiavi);
 accusativo preposizionale, ovvero la reggenza con preposizione a dell’oggetto
diretto costituito da un nome o da un pronome personale (ad esempio, Hai visto a
Paolo? Oppure Chiama a lui);
 estensione degli usi della preposizione a, che si nota in costruzioni come gelati a
frutta, giocare a porta, ecc.;
 uso della locuzione vicino a, nel senso di a, come in Ha detto vicino a me... (“a
me”);
 anteposizione tematica del dimostrativo quello nelle frasi segmentate, come in
Quello Antonio è già partito (Quello = tema);
 altri fenomeni comprendono, ad esempio, la costruzione avverbiale della
sequenza articolo + nome, come in Lo tratta una chiavica.
 Pragmatica
 la forma del pronome di cortesia a Napoli, come nel resto del meridione, è voi,
mentre il lei, in alcuni casi, potrebbe essere avvertito come un segnale di distanza
e non di cortesia;
 formule come:
19
L’italiano: strutture, usi e varietà

- Non mi dire niente = “non volermene male”;


- Mo ci vuole = “appunto”;
- Ti trovi? = “giusto?”.
 Lessico
 Vari termini e formule regionali come:
- bell’e buon = “improvvisamente”;
- chiatto e chiattone = “grasso, obeso”;
- fare una tarantella = discutere, litigare;
- mantenere = reggere;
- sereticcio = stantio;
- servizi = “pulizie”;
- fare i servizi = “fare le pulizie”;
- arronzare = “fare in fretta e male”;
- boccaccio = “recipiente di vetro”.

6.7 - Varietà diastratiche: italiano popolare

L’italiano popolare è una varietà diastratica tipica dei parlanti dal basso grado di istruzione,
spesso solo elementare, caratterizzata da forti interferenze col dialetto; tuttavia, poiché la
documentazione fornitaci riguardo questo italiano è costituita da sole produzioni scritte, possiamo
esaminarne l’oralità solo perché essa si riverbera nella scrittura. Per quanto concerne questa
varietà, Francesco Bruni, nel 1984, propose di sostituire la denominazione “italiano popolare” (in
quanto non si riferisce all’italiano parlato dalla maggior parte del popolo, che abbiamo visto essere
il neostandard) con “italiano dei semicolti”, ovvero individui non più analfabeti ma neppure del
tutto partecipi della cultura elevata, i quali, avendo acquisito in modo precario la competenza
della scrittura e rimanendo legati alla sfera del parlato, usano l’italiano scritto in maniera
deviante rispetto alla norma corrente e condivisa (tra questi rientrano anche coloro che ricadono
vittima del cosiddetto “analfabetismo di ritorno”, ovvero una condizione per la quale anche gente
un tempo istruita, per mancanza di esercizio, perde le capacità possedute in passato).

Ad ogni modo, i testi che documentano l’italiano popolare sono soprattutto di tipo pratico e
privato, riconducibili alle cosiddette “forme primarie” della scrittura (ad esempio, lettere, diari,
autobiografie, appunti personali, ecc.) e che sono legate soprattutto a situazioni ed esperienze in
cui la scrittura diventa necessità, unica possibilità di mantenere legami e contatti lontani. È
importante, tuttavia, osservare come i semicolti si sforzino, in tali testi, di scrivere in una varietà il
più possibile vicina all’italiano standard, tendendo, perciò, ad evitare elementi percepiti come più
marcati in senso diatopico, sebbene proprio tale “accortezza” è ciò che ribadisce maggiormente la
presenza di componenti locali su tutti i livelli di analisi.

Tuttavia, oggi si ritiene, non unanimemente, che l’italiano popolare sia in via di estinzione, se non
già scomparso del tutto; però, secondo Berruto, il fatto che l’italiano dei parlanti poco istruiti sembri
oggi meno marcatamente substandard e meno deviante rispetto ad alcuni decenni fa non vuol dire
che non esista comunque un nucleo di tratti condizionati dall’estrazione bassa dei parlanti.
Pertanto, secondo Berruto, oggi esiste ancora un italiano popolare che, sebbene sia certamente
meno visibile, non si è estinto (ad esempio, esso è molto vivo soprattutto nei contesti di
migrazione).

D’altronde, è cambiata anche la stessa fisionomia del semicolto in quanto individuo poiché,
mentre il concetto di lingua selvaggia era stato pensato, al tempo, proprio in riferimento a

20
L’italiano: strutture, usi e varietà

produzioni scolastiche, le quali erano caratterizzate proprio dai tratti dell’italiano popolare, negli
ultimi decenni tra i semicolti si è annoverato non solo chi abbia prodotto documenti burocratico-
amministrativi, ma bensì anche gli autori di alcune scritture in rete (post, commenti, ecc.).

6.7.1 - Tratti dell’italiano popolare

Tra i tratti propri dell’italiano popolare possiamo trovare:

 concordanza a senso e non sintattica: La gran parte della gente dormono;


 ridondanza pronominale, ovvero una tendenza a rafforzare il pronome (per indicare, ad
esempio, il possesso): È proprio suo di loro;
 sostituzione di ci con si, come nelle varietà settentrionali: Noi si prepariamo e veniamo;
 ci usato per dativo femminile e maschile al posto di le o gli: Ci dico tutto – Ci ha dato
da mangiare al cane (tuttavia, poiché non indica un essere umano, viene spesso sostituito
con Li, sebbene sia altrettanto scorretto);
 semplificazioni verbali per regolarizzazione analogica, ovvero, per analogia (cioè per
comparazione) alcune forme verbali vengono “semplificate” poiché sentite più concordi ai
referenti di cui si parla: possiamo  potiamo; dite  dicete; vada (lei) pure avanti  vadi
(lei) pure avanti;
 semplificazioni nominali per analogia di genere (ovvero simili ai “metaplasmi di
genere”), per cui, ad esempio, a referenti femminili si pone un suffisso -a a tutte le parole:
mia moglia, mio padro;
 scambi di preposizione, il che fa sì che siano sbagliate le reggenze: vengo a pomeriggio
– preferisco di rimanere a casa;
 uso dell’aggettivo al posto dell’avverbio: ti voglio bene uguale, invece di ugualmente;
 estensione degli articoli un, il e i davanti a z ed s preconsonantica, come in: un zaino
nuovo – il zucchero;
 che ridonante che funge da rafforzativo di congiuntivi: siccome che piove – mentre che
venivo;
 comparativi e superlativi di aggettivi e verbi irregolari, come in: È proprio il più migliore;
 accumulo di preposizioni, come in: Scrivo da sul monte Bianco;
 metaplasmi di genere, come per: la diabete invece di “il diabete”;
 cancellazione di morfemi, per cui si assimila alla prima persona singolare la parola
derivata dal verbo, come: battesimo  battezzo (da io battezzo) – dichiarazione  dichiara
(da io dichiaro);
 aferesi di sillabe, cioè la caduta della parte iniziale delle parole: indirizzo  dirizzo –
l’asilo  la silo;
 malapropismi (o etimologie popolari o paretimologie), ovvero dei processi per cui i
parlanti, al fine di ricordare parole a loro sconosciute, tentano di associare la loro etimologia
a quella di parole a loro più note: Quanto vuoi per un cefalogrammo? (cefalogrammo 
encefalogramma) – Dove fanno le visite alla prostituta? (prostituta  prostata);

Dal punto di vista della scrittura, notiamo come, oltre all’incapacità di discriminazione grafica (la
silo), vi sono anche errori nella punteggiatura e nei segni diacritici, a cui si aggiungono anche
problemi con le maiuscole. Volendo ricercare, inoltre, dei tratti comuni tra questo italiano popolare
e l’italiano dell’uso medio, ritroveremo l’uso del: gli al posto di a lui, a lei, a loro; che polivalente (la
mattina che ti ho visto); si impersonale al posto di noi (noi si va casa insieme).

21
L’italiano: strutture, usi e varietà

6.7.2 - Esempi di italiano popolare

Nel testo, notiamo espressioni come fila per il liscio inappropriata al contesto (oltre che errata,
poiché nell’espressione cristallizzata non vi è la presenza della preposizione + articolo per il),
giacché da una sfumatura di colloquialità ad un testo che dovrebbe essere mediamente formale.
Allo stesso modo, rimando presenta una cancellazione di morfemi, in quanto deriva dalla forma
io rimando del verbo rimandare (la parola corretta sarebbe rinvio); sdegnato, invece, è un
malapropismo, in quanto questa parola dovrebbe essere riferita a persone e non cose. Ancora, in
che è tutto dovuto a me, abbiamo la presenza dell’accusativo preposizionale preceduto da un
che ridonante. Infine, nell’ultimo periodo del testo, troviamo delle espressioni tipiche dell’italiano
burocratico, inadeguato ad un tema scolastico, dovuto al fatto che le persone semicolte siano
esposte, dal punto vista dell’assimilazione, quasi solo ai testi burocratico-amministrativi

Analizziamo, poi, anche il seguente testo, in cui si evidenzia la “sgrammatica” dei semicolti: è una
lettera di Costabile, un semicolto campano originario del Cilento costiero, nato nel 1928 e in
possesso della sola istruzione elementare, che nel 1949 scrive ai genitori da Fossano, in
provincia di Cuneo, dove svolge il servizio militare di leva.

Testo 17________________________________________________________________
Fossano-11-11-49
1 Carissimi Genitori
2 vi scrivo questa mia lettera dove
3 vi comunico che sto bene e godo
4 unottima saluta e cosi vaglio
5 augurare anche di voi tutti di
6 famiglia che ve la passato bene
7 da tempo aspettavo vostre notizie
8 perche dal giorno 26 oggi giorno 11-
9 ebbi una lettera di Antonio il giorno 26
10 e poi non ho avuta nessuna lettera
11 da voi io glio scritto il giorno 1 mi
12 sempra e il giorno 4 ho scritte
13 una cartolline a Luigi unaltra a
14 Peppino una a teresa unaltro a
15 Mamma e unaltro a te papa e adesso
16 che mi scrivi mi fai sapere se la
17 avete ricevute e di piu mi fate sapere
18 se avete ricevuto il mio pacco che ho

22
L’italiano: strutture, usi e varietà

19 spredito i panni qusto pacco lo fatto


20 al consegniato qui al comanto diurno
21 che le spedivano loro aglialtri conpagni
22 io lo domantato e una buona parte le
23 anno ricevute le loro famiglie e voi
24 ve lo mandai adire pure unaltra
25 volto e non avete fatto sapere
26 niente e dora come la lettera mi
27 scrivete subito e mi fate sapere se la
28 avete ricevuto questo doveto fare una
29 cosa alla svelta vi torno aripetere
30 perche da un giorno allatro posso
31 partire da qui e bisognia che io
32 vado non altro mi fate sapere voi
33 qualche cosa di bello che fate adesso
34 se avete finito di seminare e adesso che
35 fate di bello poi vi scrisse anche che
36 il preto zio Amedeo mi scrive e scrive
37 anche al tenente cappellano ma adesso
38 e parechio tempo che non mi e scritto
39 non altro da dirvi vi metto i miei
40 piu cari saluti attuti di famiglia vostro
41 figlio Costabile
42 scrivete presto e buone notizie

Analisi______________________________________________________________
 Totale assenza dei segni interpuntivi (punti, virgole, ecc.) e di accenti e di apostrofi.
 Uso improprio delle maiuscole.
 Errori nella resa del verbo avere.
 Semplificazioni nominali per regolarizzazione analogica.
 Semplificazioni verbali per regolarizzazione analogica (ad esempio, in (12) ho scritte  il
participio dovrebbe sempre avere il suffisso o e non altri);
 Mancata concordanza dei clitici ai verbi.
 Ripetizioni.
 Scritto che imita la resa parlata regionale.
 Errori nella resa della -i dopo il fono [ɲ].
 Irregolare uso delle preposizioni.
 Altri errori ortografici, derivanti da una mancata discriminazione delle parole.
 Ridondanza pronominale.

 Formule erronee ricavate da linguaggi specialistici.

6.7.3 - I gerghi

I gerghi (da non confondere con l’uso improprio che se ne fa in espressioni come gergo medico, in
quanto questo si riferisce ad un linguaggio specialistico) fanno riferimento a quei particolari usi
della lingua che tendono ad escludere chi non fa parte di una certa cerchia di persone,
accumunate da interessi o professioni. Per cui, la differenza tra gerghi e linguaggi specialistici è
che i primi hanno la volontà di escludere, i secondi no.
23
L’italiano: strutture, usi e varietà

La parola “gergo” deriva dal termine francese jargon (“canto degli uccelli”) ed è, pertanto, una
modalità di comunicazione inaccessibile dalla moltitudine. Alcuni tra i gerghi storici sono:

 il furbesco (lingua dei malviventi italiani presente già nel Quattrocento come attesta una
lettera di Luigi Pulci);
 lengua furbesca (gergo dei ladri milanesi);
 rungin (gergo dei calderai ambulanti della zona di Como);
 taròm (gergo degli spazzacamini ticinesi);
 tarusc (gergo degli ombrellai della zona di Novara);
 gaì (gergo delle parlate di Bergamo).

Vediamo un esempio di testo scritto in linguaggio gergale:

Alcuni tratti comuni a tutti i gerghi sono:

 deformazione semantica di alcuni termini: spina  matricola nel linguaggio militare del
tempo;
 uso di metàtesi, ovvero di trasformazioni di parole affinché esse diventino irriconoscibili:
presto  stopre;
 troncature: professore  prof;
 uso di metafore: poliziotto  angelo custode.

Un tipo particolare di gergo è il linguaggio giovanile (detto anche “giovanilese”), il quale presenza
una grandissima rapidità di mutamento (infatti, il gergo dei giovani di oggi è molto diverso da
quello dei giovani di appena pochi anni fa), nonché un’eterogeneità dovuta: dall’età degli utenti, al
luogo di socializzazione (ad esempio, scuola, discoteca, ecc.), all’esperienza culturale (infatti,
studenti di scuole diverse si ritrovano a parlare con linguaggi diversi) e ai gusti musicali. Inoltre,
una grande fonte di influenza dei gerghi giovanili sono le pubblicità.

Tratti tipici a tutti i linguaggi giovanili sono la presenza di:

24
L’italiano: strutture, usi e varietà

 metafore: stare da dio (“divinamente”) – essere un cesso (“brutto”);


 abbreviazioni: mega (“grande”);
 sigle e acronimi: + (“più”) – xké (“perché”);
 suffissi rari: -ozzo  paninozzo;
 forestierismi: new entry (“nuovo”);
 cultismi, ovvero termini che appartengono a registri alti e che vengono amalgamati nel
discorso informale: depravato – omaggiare;
 latinismi: pecunia;
 eufemismi con intendono ironico, al fine di sostituire l’espressione propria e usuale con
un’altra di significato attenuato: morire  andarsene – picchiare  suonarle;
 iperbole, che coincide con l’esagerazione, cioè col proferire un enunciato in cui il
riferimento alla realtà è reso calcolatamente incredibile proprio per intensificare
l’espressione di partenza, fino a portarla al massimo o al minimo grado: amare da morire
– essere stanco morto;
 tecnicismi desemantizzati: cerebroleso – fuso;
 regionalismi: pirla;
 turpiloquio, ovvero il parlare in modo volgare: un cazzo – incazzato;
 richiami ad altri gerghi, come a quello dei tossicodipendenti in: canna – spinello.

Rientrano nel linguaggio gergale giovanile anche le emoticon come: :-) (“felice”); :-P
(“scherzosamente”); ecc. Analizziamo, quindi, il seguente testo in gergo giovanile:

Testo 18____ Ma porca troia nel ‘98 dovevamo nascere noi [postposizione del soggetto per
dare enfasi]? In un’epoca in cui ti guardano solo se sei un metro e settanta, se hai una 36,
un culo bello sodo e un seno giusto per loro? E ovviamente lo shatush, la riga in mezzo,
le Superga alte, i leggings o come cazzo si scrive, il rossetto rosso battona e la maglietta
a stampa animalier. Non possono mancare l’iPhone, meglio se 5s, la borsetta fighissima
in cui entra solo mezzo quaderno, ma chissene frega, a loro non serve, ovviamente il
beauty con il rossetto e il fondotinta, e le sigarette. Quelle non possono mancare. E puoi
anche avere tutte queste cose, ma se non cambi ragazzo ogni settimana non ti vorranno.
Se non la dai al primo che passa, ti guarderanno male. Per non parlare poi del fatto che
ami leggere! Abolito! I libri sono aboliti, la cultura ancor di più. Ti vogliono stupida, con la
bocca che sa fare bei lavoretti, e l’apertura di gambe ampia. Vogliono che il tuo
argomento principale sia ‘ieri in discoteca mi sono fatta uno, non so manco come si
chiama!’, e guai a dire ‘ho letto quel libro, è molto bello e profondo.’ Devi essere stupida
e vuota. L’unica sensazione di pienezza che devi sentire è tra le gambe e in bocca. Ma
per favore, dove sono finiti quei bei vestitini, quelli che te la facevano sognare la notte, una
donna! Quelle ragazze che le conquisti regalando loro un libro, e non tirando fuori i
preservativi.

Nel testo, quindi, troviamo la presenza di:

 turpiloquio;
 marchionimi (cioè il chiamare le cose con il nome della loro marca);
 forestierismi;
 metafore;

25
L’italiano: strutture, usi e varietà

 iperboli;
 eufemismi con intento ironico;
 cultismi.

6.8 - Varietà diafasiche: registri

Come abbiamo visto, la lingua varia anche a seconda della situazione comunicativa (per cui, una
variazione diafasica). Ogni parlante, infatti, fa scelte linguistiche diverse a seconda dei contesti
in cui si trova a comunicare, i quali sono vari perché formati dall’interazione di fattori variabili,
come ad esempio la relazione con il destinatario, l’argomento e lo scopo dei testi, il luogo in cui
avviene lo scambio comunicativo e così via.

Da quanto detto, deduciamo che ogni parlante consapevole, a seconda della situazione
comunicativa, tende ad abbassare, a mantenere nella media o ad alzare il controllo
grammaticale e il livello delle scelte che può fare tra quelle che il proprio repertorio linguistico gli
offre. Pertanto, l’insieme delle scelte linguistiche consapevoli che dipendono dalle diverse
situazioni comunicative determina il cosiddetto registro della lingua.

Alla base dei registri linguistici vi sono tre principi fondamentali, quali quelli: della
pluridimensionalità, ovvero non vi è una sola dimensione di registro linguistico, ma molte; della
continuità, ovvero la loro varietà si realizza in un continuum che si estende dalla dimensione
della massima formalità a quella della massima informalità della comunicazione; della co-
occorrenza, ovvero più registri possono mescolarsi fra loro (ad esempio, Al TG si sente: l’illustre
scrittore è crepato).

Non è facile, tuttavia,


distinguere gradazioni nette
all’interno di un livello alto,
medio e basso ma, se
volessimo semplificare,
diremo che, quanto all’italiano,
si può dire che: il registro
medio (o neutro) sia quello
dei testi che presentano
soltanto tratti appartenenti o
all’italiano neostandard, o
all’italiano regionale o anche
all’italiano standard; il registro
basso sia quello dei testi
formati da tratti riconducibili in
buona parte (o del tutto) ad un
italiano colloquiale; il registro alto, invece, sebbene di difficile identificazione, è assimilabile a
quello dei testi orali e scritti prodotti in occasioni molto formali come, per esempio, le cerimonie
istituzionali e solenni.

Ma le variazioni di registro più sensibili occorrono, in genere, soprattutto nell’ambito del lessico
e della fonetica; in misura minore, avvengono anche in sintassi e testualità, mentre sono molto
rare nell’ambito della microsintassi e della morfologia. Un esempio molto chiaro di variazione
fonetica dovuta al volontario cambio di registro si può avere immaginando un parlante fiorentino

26
L’italiano: strutture, usi e varietà

che, nei dialoghi rilassati, pronuncerà amico come [a’miho], mentre in situazioni che richiedono un
registro più alto e controllato dirà, rispettando lo standard, [a’miko].

D’altronde, vediamo che l’intero contenuto semantico di uno stesso enunciato (come quello di un
testo intero) può essere espresso con registri diversi; ad esempio, possiamo immaginare un
parlante romano a cui siano richieste informazioni specifiche, per via telematica, da: 1) un amico
molo caro di Roma; 2) un conoscente con cui non è in un vero e proprio rapporto di amicizia; 3) un
avvocato con cui intrattiene un rapporto di amicizia. Le sue risposte, pertanto, saranno,
rispettivamente, le seguenti:

1) mo vedo e te faccio sapé se vedemo domani.  registro molto informale e trascurato,


adatto solo alla comunicazione tra amici e caratterizzato da tratti propri dell’italiano
regionale di Roma e del dialetto romanesco;
2) Adesso controllo e ti faccio sapere. Ci vediamo domani, ciao.  registro medio che non
presenta tratti regionali, scritto in un italiano “normale”;
3) Gentile Avvocato,
controllerò subito con molta attenzione i documenti che mi ha indicato per darle più
informazioni domani. Cordialmente...  registro formale, segno di come il parlante rispetti
la norma sociale che regola le interazioni linguistiche in un ambiente professionale tra
persone che, pur conoscendosi, non sono in confidenza.

Ad ogni modo, è difficile distinguere con nettezza dei gradi diversi all’interno dei registri, soprattutto
per quelli inferiori o superiori al livello neutro, sebbene dei registri alti e colloquiali sia possibile
raccogliere i tratti più frequenti, ovvero:

 registri formali (o alti) 


-
tendenza allo standard, con tratti fonetici poco marcati;
-
ridotta velocità di eloquio;
-
tendenza ad un’ampia ipotassi;
-
pianificazione testuale e massima esplicitezza delle
espressioni;
- ricchezza lessicale e uso di termini specifici o aulici (recarsi
 “andare”; adirarsi  “arrabbiarsi”);
- uso di voci lessicali arcaizzanti (ove, affinché);
- tecnicismi.
 registri informali (bassi) 
- tratti fonetici marcati in diatopia e pronuncia regionale;
- velocità di eloquio elevata e ipoarticolazioni (proprio 
“proprio”; professoré  “professoressa”);
- fusione di segmenti (aggià, ebbè, essì, ebbravo);
- scarsa pianificazione testuale, false partenze, cambiamenti
di progettazione, frasi brevi ed ellittiche;
- uso di termini generici (genericismi): coso, tizio, faccenda;
- parole abbreviate: bici, cine, tele, prof;
- disfemismi (opposto degli eufemismi): casino 
“confusione”; cesso  “persona brutta”).

Come si nota, è proprio la descrizione del registro alto e molto formale ad essere sfuggente,
giacché, molto spesso, questo livello è proprio di un sottocodice, ovvero di una varietà diafasica

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L’italiano: strutture, usi e varietà

dipendente dall'argomento del discorso e dall'ambito esperienziale di riferimento, per cui la


discriminazione fra tratti esclusivi di un dato linguaggio specialistico, “tecnico” o “scientifico”, e
quelli che determinano un semplice innalzamento di registro, per cui uno “accademico”, non è
semplice. Questa distinzione, tuttavia, diventa più semplice se si rivolge l’attenzione al linguaggio
settoriale, ovvero la varietà di una lingua dipendente da un settore di conoscenze o da un
ambito di attività professionali, usato da un numero di parlanti ristretto rispetto a quanti parlano la
lingua base e che risponde allo scopo di soddisfare le necessità comunicative di un certo
settore specialistico. Proprio questo, quindi, interagisce stabilmente con la lingua comune.

Ad esempio, consideriamo il foglietto illustrativo (detto anche “bugiardino”) di un medicinale


antipiretico rivolto al pubblico comune; in esso, sarà scontato trovare diversi tecnicismi specifici
dell’ambito farmaceutico e medico, come paracetamolo oppure principio attivo; accanto a quelli
specifici, che sono adoperati al fine di dare autorevolezza scientifica alle indicazioni, nel
bugiardino si possono notare anche diversi tecnicismi collaterali che hanno la funzione di
rendere accademico il linguaggio, elevandone il registro sempre per conservare l’autorevolezza
scientifica del testo: esempi sono assumere (invece di prendere), verificare (al posto di succedere).

Ovviamente, i problemi di coerenza testuale generati da scelte di registro inappropriate (sia


troppo alte che troppo basse) sono abbastanza frequenti negli scriventi che ancora non
dominano l’uso scritto; esempi del genere sono comuni, però, anche nelle e-mail scritte dagli
studenti universitari ai loro docenti (ad esempio, la scelta della formula di saluto salve non è adatta
allo scritto formale, per il quale è più adatto un esordio come Gentile Professore / Dottore), così
come non adatto l’abbreviazione prof, peraltro senza puntino di abbreviazione).

Vanno accennate, infine, le varietà di registri comunicativi del baby-talk e del foreigner-talk. In
particolare, il baby-talk consiste nella lingua con cui gli adulti si rivolgono ai neonati e ai
bambini molto piccoli e il quale presenta dei tratti specifici determinati dalla sua funzione
essenzialmente affettiva e protettiva (come le voci verbali del presente e dell’imperfetto alla terza
persona singolare e alla prima plurale in costrutti come Andiamo a nanna? o Che faceva nonna?).
Il foreigner-talk, invece, è una varietà di lingua notevolmente semplificata che un parlante nativo
sceglie di adoperare con gli stranieri che non conoscono la sua lingua o che ne hanno un livello
elementare. In questo registro, che di solito dimostra la volontà del parlante di aiutare gli stranieri
(sebbene possa anche essere adoperato in modo offensivo), è tipica la semplificazione del
lessico, oltre che delle strutture morfologiche e sintattiche (ad esempio, si eliminano il verbo
essere e le preposizioni, come in Tu adesso casa?  “sei a casa adesso?”).

6.9 - Varietà diafasiche: linguaggi specialistici

I termini “lingua” e “linguaggio”, secondo Luca Serianni, sono equivalenti, ma in linguistica


italiana si preferisce parlare di linguaggio piuttosto che di lingua proprio per evidenziare che i
linguaggi possiedono, oltre al codice verbale, anche dei codici non verbali per esprimersi, come
possono essere, ad esempio, numeri e formule chimiche, che rientrano nel linguaggio della
scienza. Ebbene, i linguaggi specialistici, i quali, come già accennato, rientrano nella categoria
dei sottocodici (o linguaggi speciali), cioè di varietà diafasiche dipendenti dall’argomento del
discorso e dell’ambito esperienziale di riferimento, sono usati prevalentemente nella cerchia di
specialisti, di cui riflettono conoscenze e saperi propri e che, pertanto, hanno una circolazione
più o meno ristretta. Alcuni di essi, come il linguaggio delle scienze, dell’economia, della medicina
o del diritto, presuppongono un alto livello di specializzazione, mentre altri, invece, costituiscono
delle semplici varietà di lingua utilizzate nell’ambito di alcuni settori particolari, senza essere

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L’italiano: strutture, usi e varietà

veramente specialistici in quanto attingono dalla lingua comune o da altri linguaggi specialistici
(LS): è quanto avviene, ad esempio, con il linguaggio della politica e della pubblicità.

Ma i LS, così come tutti gli altri linguaggi, si caratterizzano per alcuni tratti peculiari, tra cui il più
importante è quello della referenzialità, ovvero essi si riferiscono sempre a referenti oggettivi ed
esistenti. Ad ogni modo, fra i suoi tratti principali, quelli di tipo sintattico e testuale sono:

 l’alto livello di formalizzazione, in quanto essi sono adoperati in testi molto vincolanti;
 la deagentificazione, cioè la spersonalizzazione, tramite il ricorso a strutture impersonali
e costrutti passivi privati dall’espressione dell’agente (Si prevede una fase di alti contagi);
 la presenza di fenomeni di condensazione, con una tendenza alla nominalizzazione
(cioè di trasformazione di un sintagma verbale in uno nominale), per cui spesso il peso
preponderante dell’informazione si concentra sul nome, con un depotenziamento del
verbo, che spesso assume un mero significato generico (ad esempio, Il pagamento di
effettua allo sportello invece di Si paga allo sportello);
 l’altissima coesione dei testi grazie a reti di anafore e catafore, oltre che ad una fitta
deissi. Tra l’altro, sono molto frequenti gli introduttori come dato che, ammesso che,
posto che, così come i connettori deduttivi come ne segue che, se ne deduce che.

Dal punto di vista lessicale, i termini utilizzati dai LS sono tendenzialmente monosemici, ovvero
hanno un significato biunivoco e sono necessari per evitare ambiguità e oscurità e fornire la
maggior precisione possibile (proprio per questo, non viene neanche mai utilizzata la sinonimia,
sebbene ciò possa creare delle ripetizioni all’interno del testo).

Ancora, il lessico specialistico tenderà a ridurre al minimo i valori connotativi di un testo,


assicurando neutralità emotiva (ad esempio, non è contemplata la costruzione Il poveretto ha
esalato l’ultimo respiro sul far dell’alba del 3 agosto 1900 su un certificato di morte). Inoltre, rientra
nell’uso specialistico anche l’uso frequente di polirematiche, ovvero coppie di sostantivi che non
possono essere scisse (come macchie solari, disco rigido), e di eponimi, ovvero termini che
derivano il loro nome dal loro scopritore (ad esempio, bosone di Higgs, morbo di Parkinson).

Va sottolineata, poi, la grande presenza, all’interno dei LS, dei tecnicismi, i quali possono essere
sia specifici (come, nel linguaggio medico, emocromo, flebite, ecc.), oppure collaterali, cioè
termini presi dalla lingua comune che non sono legati ad effettive necessità denotative; infatti,
essi sono adoperati, come abbiamo già accennato, per conferire uno stile più elevato e adeguato
al registro (ad esempio, per ragioni di autorità scientifica, in medicina degli esempi di tecnicismi
collaterali sono accusare  “provare”; insorgere  “l’inizio”; ecc.).

Al fine di formare questo lessico tecnico, i LS ricorrono a:

 processi di tecnificazione, ovvero di risemantizzazione di parole dall’uso comune (come


frequenza e forza per la fisica), oppure la scelta di sinonimi più elevati rispetto alle parole
effettive (come decesso invece di morte). Esiste anche il processo inverso
(detecnificazione), detto “osmosi”, secondo cui dai termini propri dei LS passano alla
lingua d’uso, la quale ne “alleggerisce” il significato originario (medico = allergia  lingua
d’uso = “avversione verso qualcosa”);
 processi di transfert, cioè di prelievo di termini da altri LS (il passaggio di un termine da
un LS ad un altro viene indicato come “dimensione orizzontale”): medico = emorragia 
politica = “perdita di voti”;

29
L’italiano: strutture, usi e varietà

 neologia derivativa, ovvero un processo morfologico di affissazione e composizione


attraverso cui ottenere nuovi termini. Ad esempio, osserviamo:
- idoneo  in-doneo (prefissazione);
- nomade  nomad-ismo (suffissazione);
Vi sono, poi, anche i prefissoidi e i suffissoidi (o confissi), che sono come affissi estratti
da altre parole:
- automobile  auto- che significa “da sé”;
- philologia (latino)  -logia che significa “studio di branca specialistica”.
Sempre rientranti in questo processo morfologico vi sono, soprattutto nel linguaggio
medico, numerosi affissoidi neoclassici (emo-, fito-) e affissi specialistici, come:
- -ite  “processo infiammatorio” (appendicite);
- -osi  “processo degenerativo” (scoliosi).
 prestiti da altre lingue, di cui la maggior parte, oltre al latino, viene dall’inglese; essi
possono essere: integrali, come holding “società”; adattati, come devoluzione; semantici,
come realizzare (infatti, in italiano, realizzare significa “fare un qualcosa concretamente”; a
partire dalla Seconda guerra mondiale, tuttavia, esso assunse un significato affine
all’inglese to realise “concepire”);
 processi di riduzione, attraverso sigle, acronimi e abbreviazioni: TAC “Tomografia assiale
computerizzata”; pixel (“picture element”).

Ma i LS possono circolare anche in testi al di fuori dei ristretti ambiti specialistici, variando,
così, sia il registro che il tasso di tecnicità in base al contesto comunicativo; infatti, in un discorso
divulgativo, presente su giornali o quotidiani, il lessico dello specialista che scrive diventerà
comune; su un grado un po’ più altro, poi, troveremo i testi scientifico-pedagogici, come i
manuali di scuola superiore; seguono, poi, i discorsi semidivulgativo-scientifici (ovvero i
manuali universitari e i saggi), in cui lo specialista si rivolge ai non specialisti per spiegare concetti
di una determinata professione; infine, al livello più alto, vi sono i discorsi scientifico-
specializzati, in cui uno specialista si rivolge ad un altro specialista, che avranno un lessico molto
tecnico e comprensibile solo agli addetti ai lavori. Questo tipo di varietà all’interno di uno stesso LS
costituisce la cosiddetta “dimensione verticale”.

Tra i vari LS, quindi, possiamo ritrovare:

 il linguaggio medico che, sebbene specialistico, è molto presente nella lingua d’uso, dato
che la medicina riguarda tutti (tra le sue caratteristiche ritroviamo quelle dette finora);
 il linguaggio giuridico, il quale presenta una forte impronta tradizionale, ovvero fitte
subordinate, molti latinismi non adatti, strutture perlopiù impersonali, forme passive e modi
nominali del verbo. Esso altresì possiede una grande limpidità lessicale e sintattica,
giacché deve evitare ambiguità, comprendendo, nel suo lessico, molti tecnicismi collaterali;
 il linguaggio specialistico della manualistica, caratterizzato da strutture impersonali,
sostantivi astratti, iperonimi e, soprattutto, numeri, simboli, formule e così via;
 il linguaggio specialistico divulgativo, in cui le informazioni vengono presentate al
pubblico in modo poco tecnico e, anzi accattivante, con numerosi espedienti ricavati dalla
scrittura giornalistica.

Sono spesso inclusi tra i linguaggi specialistici anche quello della politica e della pubblicità,
benché non presentino nessuno dei tratti appena visti e, infatti:

30
L’italiano: strutture, usi e varietà

 non dipendono da un settore di conoscenze specifiche e la loro comunicazione è rivolta


all’intera collettività, non a ristrette cerchie di addetti;
 il loro intento non è di comunicare contenuti dimostrabili scientificamente, ma di
convincere consumatori ed elettori, facendo leva soprattutto su meccanismi emotivi;
 nel caso della pubblicità è anche difficile individuare un lessico caratteristico.

Tuttavia, l’elemento che rende settoriali questi due linguaggi è legato a precise strategie
comunicative: infatti, anche se uno slogan si rivolge alla gran parte della gente (poiché scritto in
lingua standard), per costruirlo si rendono necessarie ricerche di mercato, oltre che una grande
consapevolezza degli strumenti linguistico-retorici da impiegare.

6.9.1 - Il linguaggio burocratico

Per caratterizzare il linguaggio burocratico (la cui degenerazione, ovvero il suo uso improprio,
viene detta “burocratese”), leggiamo un brano classico di Italo Calvino, L’Antilingua, in cui l’autore
fornisce un’efficace caratterizzazione della lingua di un impiegato. In esso, un brigadiere si trova
davanti alla macchina da scrivere e, seduto di fronte a lui, l’interrogato risponde alle domande,
attento a dire tutto quello ha da dire nel modo più preciso possibile e senza una parola di troppo; il
brigadiere, pertanto, mette nero su bianco con la sua macchina da scrivere:

In particolare, in questo testo vi è un processo di traduzione da una varietà (versione orale


dell’interrogato, A) ad un’altra di italiano (versione del brigadiere, B): le stesse informazioni sono
fornite linguisticamente in modo diverso.

Infatti, il testo A è in prima persona, è più breve ed è organizzato in una struttura sintattica
semplice, contendendo parole d’uso comune e della vita quotidiana; vi è, inoltre, anche il ricorso a
strutture di tipo colloquiale che creano un rapporto ravvicinato tra discorso e realtà, tra chi parla
e le cose di cui parla.

In B, invece, il discorso viene trascritto in terza persona (il sottoscritto), il testo è molto più lungo ed
è formato da un solo periodo, costituito da una frase semplice e ben sei subordinate, con un ampio
31
L’italiano: strutture, usi e varietà

uso di gerundi e participi. Nel secondo testo, inoltre, alle parole concrete, comprensibili e semplici,
vengono sostituite parole complesse, ad esempio: la locuzione temporale stamattina presto 
nelle prime ore antimeridiane.

In qualche caso, tuttavia, la sostituzione di una parola semplice con un sintagma complesso
genera delle ambiguità; ad esempio: se stufa è un oggetto con caratteristiche tecniche ben
precise, impianto termico indica una classe di dispositivi in generale (per cui è un iperonimo);
ancora, dietro la cassa del carbone  in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento
del combustibile, dove si potrebbero intendere molti altri combustili, non necessariamente il
carbone; fiaschi di vino  quantitativo di prodotti vinicoli; bottiglieria di sopra  esercizio
soprastante.

Concludiamo, pertanto, che mentre il testo A risulta, nel complesso, chiaro ed efficace, B risulta
contorto e non sempre chiaro, a significare che il linguaggio burocratico, nel suo tentativo di
assumere un registro alto e dignitoso, spesso fallisce nell’intento comunicativo per l’eccessiva
difficoltà di cui si serve. A tal proposito, possiamo citare le Regole semiserie che, nel 1946,
George Orwell espose al fine di rendere il più comprensibile ed efficace possibile un testo:

1. Non usate mai una metafora, una similitudine o un’altra figura retorica che si
è soliti veder abusata.
2. Non usate mai una parola lunga laddove va bene una più corta.
3. Se è possibile eliminare una parola, eliminatela.
4. Non usate la forma passiva quando potete usare quella attiva.
5. Non usate mai una parola straniera, un termine scientifico o gergale se
potete pensare a un equivalente nella lingua d’ogni giorno.
6. Infrangete una qualsiasi di queste regole se vi portano a scrivere qualcosa di
assolutamente ignobile.

In particolare, il linguaggio burocratico (LB) si può trovare in avvisi, regolamenti, in moduli di


uffici postali e così via (ad esempio, provvedimento esecutivo di rilascio LB  sfratto). Il suo scopo
è quello intimidire il destinatario, creando uno stato di soggezione tale da farlo ubbidire alle
regole e seguire le prescrizioni, attraverso la scelta di un registro formale e con il tentativo di
nobilitare il discorso (per questo motivo, infatti, è particolarmente presente in esso la figura
retorica della litote, che consiste nell’utilizzo di una forma attenuata di un qualche termine; ad
esempio, rifiuto  mancato accoglimento in LB).

6.9.2 - Tratti del linguaggio burocratese

Interpunzione. È possibile osservare, nel linguaggio burocratese, le seguenti caratteristiche di


punteggiatura:

 difetti nell’interpunzione delle virgole, dovuti alla confusione tra la scansione tipica della
lingua scritta e quella tipica della lingua parlata, la quale si fonda sulla contrapposizione
tema-rema ( 3.4; ad esempio, L’ufficio, ha stabilito le nuove procedure per le domande di
pensione: in questo caso vi è l’errore di porre la virgola tra il soggetto e il verbo);
 difetti nel porre le virgole nella distinzione tra relative appositive e limitative ( 3.4, ad
esempio Le persone anziane che ne hanno titolo possono usufruire degli sconti 
restrittiva; Le persone anziane, che ne hanno titolo, possono usufruire degli sconti 
appositiva);

32
L’italiano: strutture, usi e varietà

 difetti nell’uso del punto e virgola, che separa due frasi indipendenti tra loro ma
concettualmente in rapporto di continuità; pertanto, precede quelle congiunzioni che
introducono una frase principale, come pertanto, quindi, inoltre, infine, ecc.;
 difetti nell’uso dei due punti, i quali presentano una grande rilevanza nella coesione
testuale, avendo un valore cataforico e, cioè, di rinvio a quanto detto
successivamente, sebbene possano anche semplicemente avere un valore connettivo.
In particolare, nei testi burocratici si compie l’errore di porre i due punti davanti agli elenchi
esemplificativi introdotti da quali, come, ecc. (infatti, questi elementi fanno comunque
parte del sintagma che li precede), oltre al fatto che essi spesso precedono, erroneamente,
anche elenchi in cui i membri sono oggetto del predicato (ad esempio, I locali ospitano:
l’ufficio anagrafe, l’ufficio, l’ufficio matrimoniale, l’ufficio atti notori  per rendere la frase
corretta, i due puntini devono precedere l’articolo);
 erronei utilizzi di punti esclamativi o sospensivi (resi con la formula ecc.), in quanto
questi non dovrebbero essere proprio presenti nelle scritture professionali.

Stile. Osserviamo come la lingua della burocrazia ricorre ad alcune scelte stilistiche, frutto della
tradizione o delle mode, che spesso causano veri e propri incidenti comunicativi. Tra questi
ritroviamo:

 lo stile telegrafico  permette di rimuovere le congiunzioni e le preposizioni per


“risparmiare spazio”. Oggi, esso non è più motivato ma, un tempo, si aveva la necessità di
risparmiare parole perché esse avevano un costo come, ad esempio, nei telegrammi
inviati dagli uffici postali;
 lo stile che utilizza sigle e acronimi, oltre che abbreviazioni  è diffuso in molti contesti,
ma ostacola la comunicazione; infatti, la sigla vorrebbe aiutare a ricavare spazio e tempo,
ma in realtà diviene ostacolo per chi legge e non fa parte di un determinato settore e/o
contesto (es. circolare dei MANIFESTI AIL);
 lo stile pubblicitario o manageriale  ricorre all’uso del linguaggio del marketing (ad
esempio webolletta), più vicino allo stile pubblicitario che ad un uso professionale d’ufficio;
 la struttura a lista  che prevede di porre ad elenco le azioni che esso prevede siano
svolte, anche grazie all’uso dei verbi all’infinito (Gli uffici dovranno: inoltrare la domanda
[...], che dovrà verificare la sussistenza dei requisiti, liquidare [...]).

Sintassi. Nella lingua della burocrazia la sintassi è una delle responsabili maggiori del fallimento
comunicativo, giacché alcune costruzioni ricorrenti sono causa di molte oscurità. Alcune di
queste caratteristiche, che sono semi-insostituibili in quanto radicate nel tessuto dei testi
burocratici, sono:

 nominalizzazione, che, come abbiamo già accennato, consiste nel preferire il nome al
verbo in qualità di portatore del significato (per questo, ad esempio Si paga allo sportello 
Il pagamento si effettua allo sportello LB). Su questo meccanismo si formano espressioni in
cui si usa il sostantivo per esprimere il significato e il verbo come mero collegamento
sintattico (ad esempio, Leggere  Dare lettura; Comunicare  Dare comunicazione),
oltre al fatto che la nominalizzazione permette anche di creare formule idiomatiche o dei
participi presenti aventi valore sostantivale (nel primo caso, considerare  in
considerazione di; sottoscrivere  il sottoscritto, che dovrebbe essere usato solo se vi è
realmente la firma scritta alla fine del testo; nel secondo caso, si forma richiedere  il
richiedente);

33
L’italiano: strutture, usi e varietà

 i periodi lunghi, gli incisi e le subordinate, che però, spesso non sono coordinate tra
loro. Al fine di evitare questo espediente, sarebbe utile cercare di ridurre al minimo i
periodi lunghi:
- isolando le informazioni;
- identificando subito le informazioni principali;
- ordinando le informazioni secondo un criterio coerente e riservando ad ogni
periodo un’informazione diversa, così da evitare ridondanze;
- evitando di inserire frasi o elementi tra soggetto e verbo, nonché tra l’ausiliare
e il verbo;
- infine, ordinando il più possibile la frase secondo l’ordine naturale SVO;
 la forma passiva e impersonale, sebbene essa non sia sempre necessaria; infatti, quando
è possibile sarebbe bene volgere le frasi in forma attiva, perché la comprensione delle
frasi passive è più difficile per il lettore, in quanto essa impone una scissione tra il ruolo
sintattico del soggetto e quello semantico dell’agente e, non a caso, la forma passiva è
acquisita più tardi nell’apprendimento del linguaggio (a partire dal 1992 si è avviato un
processo di riscrittura burocratica che prevede l’eliminazione delle nominalizzazioni e
dei passivi);
 le forme sintetiche, che rendono il verbo implicito, come, ad esempio, avviene
nell’enclìsi del -si (si possono istruire  possono istruirsi). Tuttavia, le forme esplicite
sarebbero preferibili, in quanto indicano nella desinenza la persona con cui concordano,
permettono l’esplicitazione del soggetto e forniscono al testo una maggiore logica
temporale;
 l’uso eccessivo dei participi presenti e congiuntivi, con congiunzioni anche abbastanza
arcaiche;
 l’uso di sinonimi aulici, come latinismi (obliterare  cancellare; rinvenire  trovare) o
locuzioni sovrabbondanti (dare comunicazione  comunicare; procedere all’arresto 
arrestare);
 l’uso di strutture che modificano l’ordine naturale SVO delle parole (le riportate
osservazioni  le osservazioni riportate), oltre che spesso viene anteposto l’avverbio al
verbo (la informiamo che immediatamente comunicheremo). Nella traduzione, comunque,
è sempre preferibile ricordare di porre prima il determinato e poi il determinante.

Delle strutture che, invece, potrebbe essere eliminate, sono quelle:

 del futuro deontico (o iussivo), ovvero quando il futuro viene usato con valore
imperativo (L’utente deve presentare la domanda entro...  L’utente inoltrerà la
domanda...), nonché quando l’imperfetto viene usato con valore narrativo, laddove
sarebbe preferibile il passato prossimo;
 delle reggenze errate (attinente alla realtà  attinente la realtà) e delle concordanze a
senso, che conferiscono al testo un senso di trascuratezza (La maggior parte dei proventi
ricavati saranno impiegate  sarà impiegata). Il motivo del perché le reggenze sono
spesso scorrette, come nel caso di attenere, è perché il verbo in sé, nella sua forma latina
originale, possedeva già la preposizione reggente il dativo; proprio per questo, avendo già
la forma del dativo poteva essere seguito dalla forma al complemento oggetto, ma in
italiano questo non è possibile, giacché non esistono i casi e attenere, ad esempio, non
contiene nessuna preposizione, per cui si richiede un complemento di termine introdotto
da preposizione a seguito di tali verbi;

34
L’italiano: strutture, usi e varietà

Lessico. Dal punto di vista lessicale, come accennato nel testo di Calvino, vi si possono trovare
principalmente forme di italiano arcaico e letterario (addì  indicare la data; codesto; altresì;
benché, nonché; ecc.), a cui si aggiungono anche una serie di parole difficili e lunghe
(erogazione  servizio; nominativo  nome; acqua non idonea al consumo umano  acqua non
potabile). Osserviamo, comunque, come il linguaggio burocratico si presenti molto legato alla
precisione terminologica delle parole, determinando, pertanto, una vera e propria rigidità della
lingua per il burocratese.

Testualità. Dal punto di vista testuale, nel linguaggio burocratese sono presenti molti richiami sia
anaforici (suddetto) che cataforici (sottoscritto). Circa l’ordine delle parole, sono presenti gli
espedienti errati della posposizione dei numerali (di anni 40) e della sequenza cognome-
nome, per influsso della classificazione alfabetica (Bianchi Maria).

Infine, vi è l’uso dell’anticipazione delle subordinate, attraverso formule come visto, considerato,
si sollecita, al fine di poter introdurre delle subordinate implicite al participio e delegando in
posizione finale la decisione presa.

6.10 - Varietà diamesiche

In italiano vi sono differenze fondamentali anche tra lingua scritta e lingua parlata, così come già
accennato dal problema dell’enfasi degli enunciati, trasposta nel parlato dall’intonazione e nello
scritto dalla punteggiatura ( 4.4).

Pertanto, quando parliamo di diamesia (varietà circa il mezzo), identifichiamo tre diversi canali
comunicativi: propriamente scritto (tipico di testi fatti per essere letti e non adatti all’oralità);
scritto che tende al parlato (proprio di testi che sono volti all’essere proclamati, come i testi
teatrali); parlato trasmesso (cioè il parlato che viene prodotto attraverso di un mezzo non orale,
come quello digitale nella messaggistica); parlato che tende allo scritto (tipico del parlato che si
poggia su base scritta, come nelle lezioni universitarie); propriamente parlato (tipico dell’oralità
spontanea, priva di meditazione).

Quindi, tra le principali differenze tra scritto e parlato ritroviamo:

 il grado di pianificazione del discorso, il quale è massimo nel propriamente scritto e


minimo nel propriamente parlato;
 il modo pragmatico di organizzare il testo, infatti nello scritto sarà necessaria una
maggiore esplicitezza (dato che, ad esempio, l’esuberanza non può essere espressa
attraverso l’intonazione, assente nel parlato);
 lo stretto legame con il contesto, maggiore nel parlato e minimo nello scritto, dove
bisogna descrivere una situazione affinché essa venga compresa.

Pertanto, sulla base delle considerazioni del linguista Massimo Prada, le differenze scritto-parlato
sono riassumibili nelle seguenti categorie:

 persistenza (capacità di un testo di durare nel tempo, massima nello scritto e minima nel
parlato) e spazialità (capacità di un testo di poter mutare luogo – ovvero di essere prodotto
in più luoghi diversi – massima nello scritto e i suoi sottogruppi e minima nel parlato
spontaneo):

35
L’italiano: strutture, usi e varietà

 contestualità (ovvero il grado di condivisione del contesto, necessario soprattutto


all’interno del parlato spontaneo, mentre nello scritto esso non è indispensabile, giacché
esso contiene comunque descrizioni di situazioni e contesti);
 risoluzione (ovvero il grado di informazioni e particolari contestuali descritti, minimo nel
parlato e alto all’interno dello scritto – il testo è più “risolutivo”);
 ricchezza (ovvero il grado di elementi extra-testuali, massima nel parlato – che può
servirsi, ad esempio, della prossemica o della gestualità del corpo – e minima nello scritto –
che può avvalersi solo di penna e carta);
 relazionalità tra mittente e destinatario (ovvero la variazione del discorso in base a chi
sia il destinatario e a quale relazione egli sia con il mittente; pertanto, essa e massima nel
parlato, dove ci si rivolge sempre a qualcuno di specifico, e minima nello scritto, giacché
non è possibile conoscere il vasto pubblico a cui si rivolgerà una determinata produzione
scritta).

6.10.1 - Esempi di parlato spontaneo

Sulla base di quanto detto, pertanto, possiamo analizzare i seguenti testi, ovvero trascrizioni del
parlato spontaneo:

Testo 18 - Frammentarietà____ D: [Nel tempo libero che fai?]


R : Eh io sto in un gruppo… che-e… siamo studenti nelle… più che altro studenti del liceo
ma anche… universitari… che - facciamo assistenza… assistenza sociale, insomma nei
quartieri popolari più che altro, nelle borgate di Roma o anche a Trastevere, così… con
degli anziani, con persone anziane che hanno problemi… degli anziani poveri insomma…
e con… cerchiamo di fare delle scuole popolari anche con… con dei bambini che hanno
più problemi scolastici così, anche problemi familiari… genitori analfabeti e cose… così, di
questo genere.

Come si nota, il testo presenta un alto grado di frammentarietà del discorso, con cambiamenti di
tema e ripetizioni frequenti, oltre che un ricorso a costrutti marcati. Interessante, tuttavia, notare
che, sebbene il testo non sia coeso, nel parlato la comunicazione sia comunque efficace, in
quanto comprendiamo il contenuto espresso. Ancora:

Testo 19 – Cambio progetto____ […] perché io ecco m’è capitato… quand’è stato…
venerdì sera, no… la scorsa settimana… un ragazzo che- un ragazzo che s’era bucato, io
stavo insieme a altri cinque amici, no […].

Il testo presenta, in questo caso, vari cambi di progetto che sono dovuti, perlopiù, alla difficoltà
nell’esprimere informazioni che sono ritenute imbarazzanti o spiacevoli. Anche in questo caso,
quindi, la coesione è assente ma, dal contesto situazionale, riusciamo comunque a ricavare
coerenza comunicativa.

Testo 20 – Segnali discorsivi____ mentre quello di prima era- una cos- più- diciamo
medioborghese, ecco… poi man mano che si va in alto nelle classi sociali, eh, c’è un tipo
di- dialetto romano molto più raffinato… che non si riconosce a prima vista, ma però si
sente che è romano, insomma, no… e questo non lo saprei fare, cioè di tipo di sapore
intellettuale… ecco… diciamo, no… però questo non, eh, cioè sarebbe […].

36
L’italiano: strutture, usi e varietà

In questo esempio, invece, ritroviamo una serie di segnali discorsivi – ovvero di atti e segnali che
presentano un significato che non potrebbero essere spiegati senza renderli artificiosi – che
sono fastidiosi alla lettura, sebbene non pregiudichino la coerenza del testo.

6.10.2 - I tratti del parlato spontaneo

Tra i tratti della grammatica del parlato spontaneo abbiamo l’utilizzo de:

 la prossemica, ovvero un codice che utilizza lo spazio in funzione comunicativa (distanza


tra gli interlocutori);
 la gestualità, che comprende anche la mimica e l’insieme dei gesti nel corpo;
 le pause, ovvero fattori che garantiscono unità e coerenza al discorso;
 i tratti soprasegmentali, cioè i tratti che vanno al di là del semplice parlato, cioè le
caratteristiche prosodiche quali: intensità (più forte nelle sillabe accentate), ritmo (cioè il
soffermarsi su determinate sillabe) e intonazione (l’alternarsi di diversi toni con cui si
parla);
 le deissi, ovvero le caratteristiche che legano il testo al contesto specifico ( 2.3).

Testualità  In riferimento alla testualità del parlato spontaneo, ricordiamo che la deissi riguarda
tutti gli elementi che possono realizzare il legame di ogni enunciato al contesto extralinguistico,
tra cui abbiamo quelli che richiamano allo spazio (questo, quello, lì, qui, vicino, ecc.), al tempo
(ora, dopo, ieri, ecc.) o ai protagonisti della comunicazione (i pronomi personali, ma anche le
desinenze verbali). Inoltre, ricordiamo che se i deittici rimandano al cotesto linguistico, essi si
dicono coesivi, che possono avere valore anaforico (ripresa di quanto è stato detto) o cataforico
(anticipazione di quanto sarà detto). Pertanto, possiamo dire che, mentre lo scritto privilegia uno
stile dominato soprattutto dalla forte coesione testuale e sintattica, il parlato privilegia uno stile
dominato dalla semantica e dalla pragmatica (ovvero l’uso della lingua all’interno di situazioni
reali). Infine, osserviamo che un altro tratto particolare contraddistingue la grammatica del parlato,
ovvero l’alto impiego di presupposizione, inferenza e implicitezza, con cui si allude alle
conoscenze condivise.

Sintassi  Dal punto di vista sintattico, nel parlato spontaneo l’ordine di frase SVO viene quasi
sempre stravolto, conducendo ai seguenti costrutti marcati ( 2.5): topicalizzazione contrastiva,
tema “libero” (o sospeso), detto anche anacoluto; dislocazione a sinistra o a destra; frase scissa;
c’è presentativo.

Pragmatica  Dal punto di vista pragmatico, si può affermare che ogni enunciato sia un atto
linguistico e che la competenza pragmatica sia proprio la capacità di comprendere gli enunciati
linguistici, basandosi sul contesto comunicativo. In particolare, la comprensione che deriva dalla
pragmatica si basa su convenzioni comunicative variabili da cultura a cultura e attraverso le
quali si può decodificare a pieno l’atto linguistico. Ma proprio riguardo gli atti linguistici, il filosofo
inglese John Austin affermò che ognuno di essi dovesse essere tripartito in:

 atto locutivo (ciò che si dice);


 atto illocutivo (l’azione che viene compiuta a partire da quanto si è detto);
 atto perlocutivo (effetto ottenuto con il dire qualcosa), il cui caso più evidente è dato dai
verbi performativi giuro, ordino, battezzo.

37
L’italiano: strutture, usi e varietà

In particolare, tali atti sono presenti soprattutto nella conversazione, la quale rappresenta la
situazione più tipica di parlato e che si fonda sul principio di cooperazione tra i parlanti. Ma,
proprio riguardo la conversazione, osserviamo che Paul Grice individuò, per la sua ottima riuscita
semantico-pragmatica e comunicativa, quattro massime fondamentali:

 di qualità (cercare di parlare del vero);


 di quantità (non essere reticenti nell’informazione),
 di relazione (essere pertinenti riguardo all’argomento);
 di modo (evitare oscurità e ambiguità riguardo ciò che si dice).

Se queste massime vengono violate, e siamo sicuri che l’interlocutore voglia comunque
comunicarci qualcosa, possiamo ipotizzare che l’emittente abbia deliberatamente inserito, nel suo
atto linguistico, delle implicature conversazionali (ad esempio, in A: Dov’è Marco? B: Ho
incrociato una Yaris verde che andava verso la statale; in questo caso, l’interlocutore B implica che
si parli sempre di Marco nella sua risposta).

Lessico  Circa il lessico, l’italiano parlato spontaneo presenta un ampio ricorso ai segnali
discorsivi, tra cui abbiamo:

 formule di attenuazione: per dire, diciamo, in un certo senso...;


 formule di esitazione: mhmm, vediamo, beh, insomma...;
 formule di semplificazione: mettiamo che, diciamo che...;
 formule di riformulazione della frase: voglio dire, cioè...;
 formule di controllo dell’avvenuta ricezione: mi senti?, no?, capito?, vero? ...;
 formule di demarcazione, ovvero parole o locuzioni che hanno la funzione di aprire o
chiudere il discorso: come va?, che si dice?, a presto...

Vi sono, poi, numerosi vocaboli generici (tizio, affare, fatto, cosa, ecc.), diminutivi affettivi,
semanticamente vuoti (attimino, momentino, pensierino, come in è un attimino difficile per
“abbastanza difficile”), espressioni di quantità (un sacco di, un casino di, tanto di quel +
sostantivo  tanto di quel sonno; sostantivo + della madonna  c’era un vento della madonna).

Per concludere il discorso sul parlato spontaneo, bisogna evidenziare come esso, essendo una
varietà diamesica, interessa, trasversalmente, anche tutte le altre varietà: si può ritrovare,
pertanto, nelle varietà diatopiche, diastratica e così via, non essendo le varietà isolate ed
indipendenti le une dalle altre, ma bensì intersecate fra loro.

6.10.3 - Scritture digitali informali

Non è possibile delimitare ad una specifica ed unica varietà di italiano la moltitudine di testi scritti
che si trovano su Internet; si tratta, infatti, di testi diversissimi per genere, argomento e,
soprattutto, per situazioni comunicative, oltre che per processi e tempi di composizione. Non si può
parlare né isolare, pertanto, un generico “italiano di Internet”.

È possibile, tuttavia, riconoscere e descrivere i tratti linguistici comuni e ricorrenti delle scritture
digitali più informali, ovvero le caratteristiche ricorrenti dei testi scritti che si possono comporre,
pubblicare, trasmettere e leggere con molta rapidità grazie al computer e ai nuovi media e che,
tra l’altro, fanno oramai parte della nostra comunicazione quotidiana, come i messaggi nelle chat, i
post, i “commenti” nei social network e così via.

38
L’italiano: strutture, usi e varietà

Pertanto, definiamo come “scritture digitali” tutti i diffusissimi generi di testi scritti appartenenti
alla cosiddetta CMC (Comunicazione mediata da computer) o, più precisamente, alla CMT
(Comunicazione mediata tecnicamente; la dizione dà conto del fatto che i testi si realizzino e si
facciano circolare, oltre che con i computer, anche con altri dispositivi elettronici). Infatti, i media
hanno accresciuto notevolmente l’uso della scrittura, moltiplicando le possibilità di
comunicazione scritta e anche facilitando, da un punto vista tecnico, la composizione dei testi: in
sostanza, la scrittura ha, oggi, preso molto dello spazio comunicativo che prima era riservato
soltanto alle conversazioni orali informali o alle telefonate.

Proprio questa facilità di accesso alla scrittura, oltre che il progressivo aumento dell’uso di brevi
testi scritti nella comunicazione quotidiana, ha fatto sì che i generi tipici della scrittura digitale
più informale abbiano acquisito caratteri propri e abbastanza comuni, di cui possiamo darne una
descrizione livello per livello, tenendo conto, tuttavia, che si tratta di caratteristiche determinate da
uno stretto intreccio tra la dimensione diamesica (infatti, le scritture digitali rientrano nell’ambito
del parlato trasmesso) e quella diafasica.

 da un punto di vista grafico, la rapidità e l’informalità di molte scritture digitali è visibile


nella diffusa presenza, nei testi, di:
- tachigrafie  iscrizioni veloci, compendiate o abbreviate, come:
o cmq = “comunque”;
o qd = “quando”;
o sn = “sono”;
- troncamenti e simboli, come:
o tel. = “telefono”;
o x = “per”;
o 6 = “sei”;
o k = “ch”;
- leetspeak  codice grafico in cui si sostituiscono lettere con cifre numeriche
simile ad esse, come:
o 4 = “A”;
o 3 = “E”.
- refusi  errori dovuti ad una digitazione veloce, distratta e trascurata, per cui
nel testo possono essere presenti omissioni o scambi di lettere;
- mancato uso dei segni paragrafematici (accenti, apostrofi e maiuscole) e della
punteggiatura;
- uso dell’accento in sostituzione dell’apostrofo (po’  pò);
- uso dell’apostrofo in luogo dell’accento (è  e’);
- uso di grafie espressive, consistenti nella ripetizione di alcuni grafemi per
comunicare particolari stati d’animo (come ciaoooo, noooo!), accompagnato
dall’uso della scrittura in lettere maiuscole per indicare parole o frasi urlate
(BASTA!);
 dal punto di vista dell’interpunzione, oltre che spesso povera o assente, il punto
esclamativo, il punto interrogativo e i puntini di sospensione sono adoperati in modo
espressivo, cioè per attribuire significati e valori pragmatici particolari agli enunciati.
Inoltre, alcuni segni d’interpunzione sono utilizzati per indicare gli emoticons (come :-) o :-
(, ecc.);
 dal punto di vista morfosintattico, sono frequenti gli elementi dell’italiano colloquiale,
come l’uso di gli al posto di le o anche del ci attualizzante con il verbo avere predicativo
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L’italiano: strutture, usi e varietà

(come in ci ho, c’hai, ecc.). D’altronde, nei testi possono anche occorrere tratti regionali,
come le costruzioni attraverso l’accusativo preposizionale (Senti a me);
 da un punto di vista testuale, la maggior caratteristica delle scritture digitali informali è la
frammentarietà, essendo esse tendenzialmente brevi e riflettendo la loro intrinseca
dialogicità. Inoltre, essendo spesso realizzate con una scarsa attività di pianificazione e
di revisione, esse sono caratterizzate anche da un’espressione implicita delle informazioni
e presentando, perciò, espliciti agganci deittici al cotesto proprio della comunicazione.

Vediamo, pertanto, un esempio estratto dalle conversazioni fatte, all’interno di un gruppo di


Facebook, da alcuni studenti universitari.:

Testo 21____ A: Raga salve a tutti, ho bisogno di un (\) info urgente…. dovrei prendere
dei libri in biblioteca a […], ma vorrei prima controllare se ci sono o li ha presi già qlcn,
in modo da non andare a vuoto a perdere tempo. Non sapete se c (\) e (|) un numero che
posso contattare x avere qst info? GRAZIE MILLE 
B: No, non conosco nessun numero, però di solito di fianco ai libri c’è la voce “richiedi
prestito” e c’è scritto se sono disponibili o no… Prova a vedere! Io di solito tutti i libri che
ho controllato dal sito poi c’erano in biblioteca 

In particolare, nel primo messaggio osserviamo, dal punto di vista grafico, innanzitutto il ricorso
all’abbreviazione, a tachigrafie e a simboli; notiamo, inoltre, l’assenza dell’apostrofo (\) e
dell’accento grave (|), oltre chela scritta tutta in maiuscolo nella formula di ringraziamento finale.

Sul piano morfosintattico, notiamo l’uso colloquiale dell’indicativo al posto del congiuntivo nelle
interrogative indirette. Sul piano lessicale, invece, possiamo osservare la perifrasi, molte volte
anche ridondanti, oltre che l’uso della formula di saluto colloquiale salve. Da un punto di vista
testuale, infine, è tipica della scrittura informale l’implicitezza delle informazioni, come si nota,
qui, nell’uso del verbo contattare seguito da un numero, espressione più rapida per indicare “se è
indicato il numero di telefono di una persona a cui posso telefonare per chiedere
quest’informazione”.

Nella risposta, invece, tra i tanti tratti, notiamo, in primo luogo, il tema sospeso nella frase finale,
con una costruzione tipica del parlato meno pianificato, giacché la tematizzazione io di solito
contiene un soggetto che non è seguito da nessun verbo in una frase principale e che viene retto
solo da una relativa; al costrutto, pertanto manca una frase reggente. Infine, notiamo anche
l’assenza del punto finale.

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