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Il concetto di dialetto

LEZIONE I
La prima attestazione del termine dialetto si ha nel 1546 di Niccolò Liburnio in “Occorenze
umane”, dove si adoperava un paragone tra la situazione greca e quella italianai del XVI secolo:
«li studiosi giovani in lettere latine mediocremente ammaestrati ormai hanno per cosa aperta che
la dotta Grecia usava in commune cinque distinzioni di lingue, come chiaramente siamo insegnati
dalle scritture del greco Giovanni grammatico e dal dottissimo Plutarco, il quale chiama
grecamente dialettò, cioè proprietà della lingua. La prima delle quali lingue è nomata attica, la
seconda dorica e susseguentemente eolica, ionica e comune: sì come, per cagione di essempio,
oggidì lo idioma, cioè proprietà della lingua firentina, romana, napolitana, siciliana, lombarda, o se
alcuno volesse più minutamente partire la varietà del sermone volgare odierno di tutta l’Italia»
Possiamo considerare Dante una sorte di dialettologo ante litteram, sebbene usasse il termine
“vulgares”. Il termine dialetto deriva dal greco, dialektos (the linguistic situation in ancient Greece
was both the model and the stimulus for the use of the term in modern writing -Haugen):
nell’antica Grecia indicava i diversi tipi di greco dorico, ionico, eolico, attico. Queste etichette
avevano diversi valori: geografico; artistico, ossia a ogni dialektos veniva associato uno specifico
genere letterario (x es. lo ionico era il dialetto dell’epica, il dorico quello della tragedia e della
commedia). Proprio dal ‘500 il termine dialetto comincia a indicare un sistema linguistico
subordinato alla lingua, in Liburnio non c’è ancora questa accezione negativa, che si intravede già
in Borghini qualche anno dopo (1570/75): fa notare come in Grecia antica i dialetti fossero
approvati e regolati universalmente, a differenza della situazione italiana.
«i dialetti greci erano tutti quattro regolati e belli e buoni, e in tutti si scrivea leggiadramente con
approbazione universale, cosa che non accade nei nostri che non sono approvati, né si scrivono se
non talvolta per burla o in qualche commedia»
Il ‘500 è anche il secolo della questione della lingua, dove si riscontrano tre posizioni principali:
1. Arcaicizzante: Bembo era un cardinale, il segretario di Leone X, propose di adottare il
modello delle “Tre Corone”, ossia Dante, Petrarca e Boccaccio. In particolare, la sua
ammirazione andava alla lingua poetica di Petrarca e a quella prosaica del Boccaccio della
cornice del Decameron, mentre criticava le scelte linguistiche troppo composite e variegate
del Dante della Commedia.
2. Cortigiana: come lingua comune si deve adottare quella della Koinè delle corti, prendendo
come modello la corte romana.
3. Fiorentina: a favore del fiorentino contemporaneo e non esclusivamente letterario; molto
vicina alla prospettiva manzoniana per cui si dovrebbe adottare come modello il fiorentino
vivo e non quello delle Tre Corone.
A prevalere sarà la proposta bembiana e per questo si verrà a configurare una nettissima
contrapposizione tra dialetto e lingua nazionale, che rimarrà esclusiva dell’uso scritto per molto a
lungo. Basti pensare che al momento dell’unità, nel 1861, solo il 2,5% degli italiani parlava italiano,
mentre il resto era esclusivamente dialettofono. Questo ovviamente ebbe delle conseguenze
importanti sulla lingua italiana:
 Le parlate non toscane, i vulgares, vengono retrocessi a dialetti
 Carattere elitario e atrofizzato dell’italiano non sarà una reale lingua viva fino al XX secolo e
non ebbe possibilità di sviluppo (x es. la prima persona singolare dell’imperfetto in o
“mangiavo” rimarrà molto a lungo in a “mangiava” nonostante nessuno utilizzasse più tale
forma nel fiorentino parlato Manzoni ancora nell’edizione dei PS del 1827 usa la forma in
-a, che correggerà poi in quella del 1842; dittongamento toscano della o breve in sillaba
libera che diventa uo e poi successivamente si assiste al fenomeno del monottongamento
per cui da bonum>buono>bono regola del dittongo mobile ipercorrettismi/analogia
movemus>muoviamo)
Diamo tre definizioni di dialetto, tratte da tre dizionari non specialistici di lingue diverse:
• GRADIT, Dialetto: «sistema linguistico usato in zone geograficamente limitate e in un ambito
socialmente e culturalmente ristretto, divenuto secondario rispetto a un altro sistema dominante
e non utilizzato in ambito ufficiale o tecnico-scientifico»  sistema linguistico socialmente
subordinato alla lingua nazionale, le limitazioni sono: geografiche, ossia viene parlato in un’area
spazialmente limitata rispetto all’intera estensione dei confini statali (!non confondere glottonimo
con il dialetto! Piemonte=/= piemontese); socioculturale, ossia è usato maggiormente da una certa
classe sociale e da persone che affrontano determinati argomenti; funzionale, ossia non viene
utilizzato in certi ambiti, come quello istituzionale esistono ambiti storicamente preclusi al
dialetto, che presenta carenze lessicali soprattutto in ambito tecnico-scientifico. Essendo un
sistema linguistico ha tutti i mezzi necessari, ma non ha sviluppato un grado di specificità tale per
essere utilizzato in alcuni ambiti. [Gloss: il catalano è più lingua del provenzale perché quest’ultimo
non presenta tratti tecnico-scientifici]
• ROBERT, Dialecte: «1. forme régionale d’une langue considérée comme un système linguistique
en soi. 2. Système linguistique qui n’a pas le statut de langue officielle ou nationale, à l’intérieur
d’un groupe de parlers»  due accezioni che insistono su aspetti diversi: 1 elemento diatopico,
ma c’è un’ambiguità di interpretazione, “considerata” si riferisce a forma regionale o a lingua?
Sembra parli delle varietà regionali di francese e in effetti in francese il termine dialecte viene
utilizzato per entrambe le concezioni (ambiguità di fondo del termine francese). Spesso il termine
è usato a metà tra langue e patois, che è un’accezione più bassa di dialetto. 2 si concentra sulla
limitatezza funzionale
• CHAMBERS, Dialect: «a variety or form of a language peculiar to a district or class, esp but not
necessarily other than a standard form»  definite proprio come una varietà di lingua, non come
qualcosa di indipendente; inoltre è messo in risalto l’aspetto sociale, l’esistenza di caratteristiche
proprie della working e middle class. C’è una precisazione (esp): perché non è detto che sia diverso
dalla forma standard? In inghilterra ha un’accezione più di varietà, non è detto si allontani dalla
forma standard.
In parte è vero che sono una peculiarità italiana, ma il concetto esiste anche in altre lingue. È più
corretto parlare di dialetti d’Italia, piuttosto che usare l’espressione “dialetti italiani”, che dà l’idea
che questi siano varietà geografiche della lingua nazionale, quando in realtà sono veri e propri
sistemi linguistici indipendenti dall’Italiano. Inoltre, è importante saper distinguere tra il dialetto e
la varietà regionale di Italiano, che non è altro che un italiano che risente del sostrato dialettale. La
distinzione tra dialetti italiani e dialetti d’Italia è un tipo di distinzione che, utile quando si scrive in
italiano per un pubblico italiano, diventa imprescindibile quando si scrive in italiano o in un’altra
lingua per un pubblico straniero, che spesso ha in mente altre accezioni di dialetto.
«The often used term ‘Italian dialects’ may create the false impression that the dialects are
varieties of the standard Italian language. In fact, the Italian language represents the continuation
of one of the dialects (a Florentine variety of Tuscan) which achieved national and international
prestige from the fourteenth century onwards as a literary language and later (principally in the
twentieth century) as a spoken language. […] The other ‘dialects of Italy’ are ‘sisters’ of Italian,
locally divergent developments of the Latin originally spoken in Italy» -Maiden/Parry
È una definizione che però porta a fare delle esclusioni a tutte quelle parlate strettamente
imparentate con quelle italo-romanze ma che non rientrano a far parte dei confini della Penisola,
come per esempio le parlate dei Canton Ticino e del Canton Grigioni.
LEZIONE II
Definizione tecnica di Dialetto data da Berruto:
«Fra ‘lingua’ e ‘dialetto’ vi sono […] differenze di natura prettamente sociale, culturale e
sociolinguistica. Una lingua ha diffusione geografica (più) ampia, ha carattere sovraregionale, e,
come conseguenza del fatto di essere impiegata in un raggio più ampio di ambiti (e in particolare
nei domini scientifici e tecnologici), è più elaborata, cioè presenta una maggior quantità di risorse
linguistico-strutturali effettive (specie quanto al lessico). Un dialetto ha diffusione geografica
ridotta, ha carattere locale, e, come conseguenza del fatto di essere impiegato in un raggio più
ristretto di ambiti, per lo più limitato a determinati domini della vita quotidiana, presenta un grado
ridotto, o comunque minore rispetto a una lingua, di elaborazione, e in particolare ha un lessico
meno esteso. Lingua (nel senso di ‘lingua standard’) e dialetto sono quindi concetti relativi e
complementari. In linea di principio, tutte le ‘lingue’ all’inizio della loro vita sono state, erano, dei
dialetti»
«i dialetti sono le varietà linguistiche definite nella dimensione diatopica (geografica), tipiche e
tradizionali di una certa regione, area o località. In quanto tali, i dialetti non sono mai varietà
standard (anche se possono godere di un certo grado di standardizzazione e codificazione) […]; ma
sono subordinati ad una lingua standard […] che fa loro da tetto»
Lingua e dialetto sono termini complementari, nel senso che prima bisogna avere una lingua
sovraregionale di riferimento per poter parlare di dialetto, motivo per cui non si può parlare di
dialetto prima del ‘500 in Italia. Ogni dialetto necessita di una “lingua tetto” (dachsprache), ossia di
una lingua delle istituzioni e della scolarizzazione primaria nello stesso territorio in cui i dialetti
sono parlati e strettamente imparentata con essi. Il dialetto ha bisogno di una lingua standard,
ossia un codice linguistico sovralocale e codificato, usato in contesti istituzionali, dotato di domini
d’uso alti e formali e che venga insegnato nelle scuole. In italiano non esistono dialetti standard,
soprattutto perché manca il fattore dei domini d’uso: esistono infatti dei dizionari/ delle
grammatiche dialettali, per cui il dialetto di fatto può essere codificato, ma non esistono dialetti
italiani in grado di ricoprire certi domini d’usoSi parla di eteronomia del dialetto, nel senso che
ha bisogno di appoggiarsi a un’altra lingua per ampliare il proprio lessico, nel caso in cui venga
usato in ambiti tecnici e specifici. La lingua ha un’estensione geografica maggiore ed è quindi
dotata di competenze strutturali e lessicali maggiori, perché utilizzata da un maggior numero di
persone in un maggior numero di ambiti. Al dialetto, inoltre, viene applicato una sorta di stigma
sociale, questo perché il dialetto veniva visto come ostacolo alla diffusione di una lingua nazionale
e quindi tra gli anni ’60 e ’70 del ‘900 si può parlare di una sorta di crisi del dialetto, che invece
viene riscoperto in questi ultimi decenni soprattutto in ambito pubblicitario e gastronomico, in cui
viene usato per restituire un senso di genuinità e legame con il territorio. La distinzione tra italiano
e dialetto non attiene dunque alle strutture dei due sistemi linguistici, ma alla loro natura storico-
politica
«La lingua è un dialetto che ha fatto carriera» -Berruto
«Una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta» -Weinreich
È applicabile in molti casi, ma non a quello dell’italiano, dove la lingua non è definibile come un
dialetto che si è imposto sugli altri, semplicemente per il fatto che i dialetti non esistevano ancora,
ma esistevano esclusivamente i volgari. Si dovrebbe adottare un uso anacronistico del termine
dialetto. Sono definizioni che si basano sul paradosso cronologico.
Coseriu, un linguista romeno specializzato nelle lingue romanze ha elaborato la distinzione tra:
1. «dialetto primario» varietà coeve del dialetto da cui si è originata la lingua comune (ad
es. i dialetti italo-romanzi),
2. «dialetto secondario»  Sono le parlate regionali, le varietà formatesi per differenziazione
diatopica dopo la diffusione della lingua comune (ad es. gli italiani regionali, varietà
geografiche di una stessa lingua). Quando si sono formati? Dipende da quando si è diffusa
la lingua comune, in Italia si ha una lingua comune dal ‘500, ma non era davvero usata T.
De Mauro fissa la nascita tra le due Guerre Mondiali. (x es. usi morfosintattici errati come
osarsi o chiamare per chiedere)
3. «dialetto terziario»  nel momento in cui la lingua comune dispone di una varietà
standard, allora si delineeranno varietà geografiche dello standard (ad es. gli italiani
regionali standard). Vari esempi sono: Il focalizzatore unico “solo più”.
Qual è la differenza tra 2 e 3? Nel punto 2 il parlante è madrelingua dialettale, ossia è abituato a
parlare il dialetto e si trova a modificare l’Italiano in funzione del dialetto. Nel punto 3 il livello
culturale del parlante è più alto e il parlante ha come lingua madre la lingua comune

Storia della dialettologia italiana


(Capitolo secondo del libro)

Prima ancora della dialettologia c’era una sorta di interesse storico-etnografico nei confronti di
una presunta “lingua primigenia” = Ursprache. Attraverso il metodo storico comparativo si cercava
di ricostruire questa lingua, cercando di stabilire anche una relazione tra i gruppi di lingue e i
gruppi di popoli, secondo la teoria dell’albero genealogico (Schlegel). I primi a prendere in
considerazione i dialetti furono i neogrammatici, sebbene non fosse un interesse genuino per il
dialetto in sé, che veniva più che altro usato come mero strumento per dimostrare le proprie
teorie sulla lingua, che erano soprattutto a livello lessicale/fonetico. Nel secondo ‘800 si sviluppa
anche un interesse spaziale per quanto riguarda i fenomeni linguistici e una delle prime teorie fu
quella di Schmidt: sosteneva che esistesse una sorta di centro irradiatore da cui si sviluppano a
onda caratteristiche di un determinato tratto linguistico.
LEZIONE III
Il padre della dialettologia romanza, e italiana in particolare, è considerato G.I. Ascoli (1829-1907),
ma non bisogna trascurare il ruolo dei cosiddetti preascoliani, attivi a Milano già verso la metà del
XIX secolo. Sono tre i principali assunti linguistici che troviamo presso questo gruppo di autori:

 l’idea che la ‘natura’ della lingua non sia dettata da fattori climatici, etnici o razziali, ma dalle
vicende storiche in cui tale lingua è coinvolta
 il rifiuto di qualsiasi prospettiva glottogonica, e della conseguente ricerca della lingua madre
originaria
 il concetto di sostrato (C. Cattaneo, 1801-1869, e B. Biondelli, 1804- 1886)
Sostrato è il fenomeno per cui una lingua precedente, eventualmente scomparsa, influenza una
lingua successiva. La teoria del sostrato spiega l’occorrenza di alcuni fenomeni, attestati in varietà
regionali di latino o nei dialetti moderni, mediante fenomeni propri di varietà prelatine. Ascoli
rielabora il concetto di sostrato, muovendo da una critica all’impiego troppo disinvolto fattone da
Cattaneo e a Biondelli: si può ricorrere alla spiegazione sostratica soltanto quando non soccorrano
spiegazioni più semplici e convincenti dei mutamenti linguistici. Ascoli introduce anche tre
congruenze:

 «congruenza corografica»: coincidenza della diffusione geografica delle due lingue, l’attuale e
l’antica (= lingua di sostrato), nelle quali si osserva il fenomeno
 «congruenza intrinseca»: corrispondenza tra il dato linguistico odierno e l’evoluzione propria
della lingua preromana, anche laddove questa lingua non costituisce un sostrato
 «congruenza estrinseca»: presenza dello stesso fenomeno in lingue che si sono sovrapposte al
medesimo sostrato etnico
Nel 500 a.C ci sono state influenze nella nostra penisola:

Nei dialetti dell’Italia settentrionale, è stata attribuita al sostrato celtico la palatalizzazione di Ū:


LŪNA > piem. [ˡlyŋa] ‘luna’, ma ci sono varie riserve su questa causa sostratica:
1) nelle iscrizioni galliche la palatalizzazione non compare
2) il fenomeno in francese non sembra prodursi prima dell’VIII sec.
Nei dialetti toscani, è stata ricondotta a un retaggio etrusco la gorgia, ovvero il fenomeno che
comporta la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (-C-, -T-, -P-): FŎCU > fior. [ˡfɔːho]
‘fuoco’; NEPŌTE > fior. [ˡniɸoːθe] ‘nipote’, ma:
1) se gli etruschi avessero imparato il latino sottoponendo a spirantizzazione le occlusive sorde
intervocaliche, i toscani dovrebbero oggi dire [ˡpaːχe] e [ˡvoːχe] anziché [ˡpaːʃe] e [ˡvoːʃe] (< PĀCE,
[ˡpaːke], e VŌCE, [ˡvoːke]). Questo perché avrebbe dovuto agire anche sulla spirantizzazione delle
occlusive sorde intervocaliche latine!  sembra che la gorgia abbia cominciato ad agire quando
alcuni suoni han smesso di essere velari in latino.
2) se la gorgia fosse di origine etrusca, essa dovrebbe comparire anche nei dialetti del Lazio
settentrionale (territorio di insediamento etrusco) e nei dialetti della Corsica settentrionale
(“toscanizzati” a partire dall’VIII-IX sec.) crisi della prova corografica
3) il primo riferimento alla gorgia pare essere nel Polito di Claudio Tolomei (1525)
La gorgia si fa sempre meno intensa allontanandosi da Firenze teoria delle onde di Schmidt.
Oggi si pensa che la spirantizzazione sia avvenuta in conseguenza e come reazione alla pronuncia
settentrionale di questi suoni.
Nei dialetti dell’Italia centro-meridionale, è stata ascritta al sostrato osco l’assimilazione
progressiva di -ND- e -MB-, passati rispettivamente a [nː] e [mː]: MŬNDU > [ˡmonːo] ‘mondo’;
PALŬMBA > [paˡlomːa] ‘colomba’, ma il fenomeno sembra essersi irradiato dall’Italia centrale
soltanto a partire dal Medioevo. I testi del XIII-XIV sec. attestano la presenza regolare
dell’assimilazione a Roma, ma una sua diffusione soltanto incipiente in Campania; l’assimilazione
avrebbe raggiunto Lucania, Calabria e Sicilia non prima del Cinquecento.
Più facile, ma comunque non privo di rischi, è individuare tracce di sostrato a livello di lessico o di
toponomastica: gall. vern- ‘ontano’ > piem. verna; gall. benna ‘specie di carro’ > piem. [ˡbǝnːa]
‘carreƩo per il trasporto del fieno’, spezz. [ˡbena] ‘slitta da traino’; etrusco Seina ‘nome di persona’
> Saena > Siena; messapico bàris ‘casa’, ‘riparo’ > Barium > Bari.
Il fenomeno simmetrico al sostrato è detto superstrato, ovvero l’influsso di una lingua egemone su
un’altra lingua sottomessa. Alcuni esempi di prestito che denunciano un rapporto di superstrato
tra lingua fonte (= lingua egemone) e lingua mutuante sono:
•dall’arabo hāršuf > all’italiano carciofo; ar. tābūt ‘cassa di legno’ > sic. [taˡbːʊtʊ] ‘cassa da morto’;
germanico werra > it. guerra; germ. *skina > it. schiena; germ. *wankja > it. guancia
Occorre aggiungere l’adstrato, che prevede fenomeni di contatto tra due lingue, senza che vi sia
tuttavia prevalenza dell’una sull’altra: è il caso dei prestiti tra lingue moderne dotate di pari status
sociolinguistico
Ascoli elabora, nei Saggi ladini (1873), un modello per lo studio delle caratteristiche interne,
ovvero della struttura linguistica, dei dialetti. Tale modello si fonda sulla contrapposizione
sistematica tra le articolazioni del latino e gli esiti rintracciabili nelle parlate romanze (o neolatine);
il procedimento è di semplice applicazione ed efficace dal punto di vista descrittivo. Inoltre, Ascoli
introduce anche il concetto di isoglossa: termine coniato sul modello di isòbara ‘linea ideale che
congiunge i punti della superficie terrestre aventi, in un determinato istante, la stessa pressione
per indicare la linea immaginaria che collega tutti i punti e delimita le aree aventi in comune il
medesimo uso o fenomeno linguistico (che può essere una particolarità fonetica, morfologica,
sintattica o lessicale).Tale linea viene perciò a separare due aree contigue che divergono nei
rispetti di due o più fenomeni linguistici. A seconda che si tratti di fenomeni fonetici, morfologici o
lessicali, si parla più frequentemente di isófona, isomórfa e isoléssi. Ovviamente in una singola
area possono sovrapporsi più isoglosse, creando quindi fasci di isoglosse.
Rohlfs traccia una serie di isoglosse: quella che lega La Spezia e Rimini, dando vita alla cosiddetta
linea gotica, e quella che lega Roma-Ancona. Queste due linee dividono l’Italia in varie zone
dialettali: Settentrione, Italia centrale e Mezzogiorno.
LEZIONE IV
L’applicazione di questo procedimento consente ad Ascoli di seguire un cammino inverso rispetto
a quello compiuto dai suoi predecessori:
«anziché partire da una situazione storica preventivamente nota, come la presenza dei Galli in una
parte dell’Italia settentrionale, per andare a cercare tratti caratterizzanti della loro lingua nelle
parlate attuali, egli si valse di un certo numero di isofone opportunamente scelte per identificare,
sulla base di caratteristiche comuni, insiemi dialettali indipendentemente dal sostrato etnico» -
Grassi
Ascoli si allontana dall’abitudine di studiare i dialetti a partire dalla prospettiva storica
precedentemente nota, ridimensionando il concetto di sostrato. Si avvaleva di un certo numero di
isofone opportunamente scelte per identificare, sulla base di caratteristiche comuni, insieme
dialettali indipendentemente dal sostrato etnico. Questo procedimento gli permette di individuare
due varietà linguistiche che fino ad allora non godevano di alcun riconoscimento: il ladino e il
franco provenzale [ladino era una denominazione che era già stata usata per la lingua degli ebrei
sefarditi]. Il ladino di Ascoli comprende: il ladino occidentale, oggi conosciuto come romancio,
palato nel Canton Grigioni della Svizzera; il ladino centrale o dolomitico, parlato nella provincia di
Bolzano e Trento e Belluno; ladino orientale, che coincide con il friulano. Per quanto riguarda il
franco provenzale la caratteristica è la palatalizzazione condizionata di a tonica ed è una varietà
romanza che si trova in un’area grossomodo a forma di triangolo con vertici: Sud= Centro di Susa;
Ovest= Francia; Nord=Svizzera. Il glottonimo franco provenzale non è stata una scelta delle più
adatte, perché sembra riferirsi a una lingua mista tra francese e occitano; fu proposto anche il
glottonimo di “arpitano”, ma non ottenne grande successo.
Ci furono due principali detrattori del metodo ascoliano:
1. Schuchardt le isoglosse così nitidamente individuate sembrano suggerire confini netti tra
i dialetti, ma non è così. Risulta chiara la differenza tra dialetti molto lontani tra loro, ma
nelle zone intermedie, ossia nelle aree di transizione, i dialetti diventano molto sfumati e
quindi difficili da distinguere x es. l’area del Piemonte orientale di Vercelli/Alessandria è
un’area di transizione tra piemontese e lombardo. Viene incriminata una certa staticità
cronologica e spaziale metodo ascoliano, cui viene anche obiettato il fatto di non aver
affatto tenuto in conto del modello a onde (Wellentheorie) di Schmidt, che invece teneva
conto di una certa variabilità nel corso dello spazio e del tempo.
2. Meyer critica soprattutto la questione del franco provenzale e gli obietta di aver
semplicemente codificato l’estensione spaziale di una serie di fenomeni e che questo non
significa che si sia individuato un nuovo dialetto.

Geografia linguistica
In questo quadro che matura un approccio che avrebbe rivoluzionato il modo di condurre la
ricerca dialettale: quello della geografia linguistica, che studia la distribuzione dei fenomeni
linguistici nello spazio. La disciplina si propone, tra i suoi obiettivi principali, quello di descrivere il
mutamento linguistico e di spiegarne cause e modalità.
L’atlante linguistico è il prodotto e lo strumento fondamentale della geografia linguistica; esso è
formato da una serie di carte linguistiche carta linguistica = «una carta geografica, di solito assai
sfoltita dei suoi elementi di rappresentazione geo-politica, sulla quale una serie di punti, numerati
secondo modalità prestabilite, rappresenta l’insieme delle località di cui si è indagato il dialetto.
Anziché il toponimo (come accade nelle comuni carte geografiche), in corrispondenza di tali punti
si ritroveranno i termini dialettali corrispondenti alla parola o al sintagma che fa da titolo alla carta
stessa» -Grassi
Ci sono differenti tipi di carta linguistica; quella onomasiologica, dove mancano i riferimenti fisici e
i nomi delle città e si tratta dei diversi esiti lessicali dello stesso concetto.
L’esempio è tratto dall’AIS (= atlante italo-svizzero) e tratta dei diversi termini esistenti del
concetto di “falce fienaia lunga”.
La carta semasiologica = proposti tutti i significati che un significante può assumere nella
medesima area geografica.

L’esempio tratta
del termine
clapìe, dalla
radice clap, una
radice molto
antica,
sicuramente
preromana e
forse addirittura
preceltica.
Il primo
progetto
europeo di
atlante
linguistico si
deve a G. Wenker (1852-1911); la pubblicazione del suo Sprachatlas des deutschen Reichs viene
avviata nel 1889 e terminata dai suoi successori di nel 1926. Sarà poi l’Atlas Linguistique de la
France (ALF) (1902-1910) di J. Gilliéron (1854-1926) e E. Edmont (1849-1926) il primo atlante
linguistico in senso moderno, frutto di indagini dialettali sul campo, composto da 9 volumi in cui le
carte sono raccolte in ordine alfabetico (impostazione superata dal raggruppamento semantico).
Gilliéron viene infatti considerato il fondatore della geolinguistica; fu infatti un grande innovatore,
perché le inchieste vengono tutte effettuate sul campo (639 località) a partire da un questionario
di 1920 domande. La ricerca era basata sul principio positivista del raccoglitore unico (Edmont),
secondo il quale, avendo basandosi sempre sul medesimo ascoltatore, i dati sarebbero stati
raccolti nel modo più uniforme possibile (un po’ come se l’uditore fosse lo strumento che
permette di misurare un dato, si pensa che nel caso in cui ci fosse stato un errore sistematico che
si ripeteva sempre uguale, allora quello si sarebbe potuto individuare ed eliminare nell’analisi
dati). Il problema maggiore era che Edmont non era un dialettologo (forse fu una scelta voluta, in
modo che non fosse condizionato dalle varie teorie), ma proprio per questo registrò dati errati x
es. registra in Corsica e al Sud della Francia parole ossitone, il che è un fenomeno molto raro,
essendo in questa varietà prevalenti le parole piane, ma Edmont registrava le parole sull’influenza
della propria parlata (era della Piccardia).
L’ALF vede la luce nel momento in cui «il problema che più impegnava la dialettologia francese era
[…] costituito dalla definizione dei limiti dialettali fra l’area centro-settentrionale, antico dominio
della lingua francese, e quella meridionale, occupata dal tipo provenzale» -Massobrio
Gilliéron aveva come obiettivo quello di tracciare un confine tra parlate del Nord e del Sud, ma le
carte mettevano piuttosto in luce come non fosse possibile tracciare un tale, presunto, confine.
Una caratteristica del modus operandi gilliéroniano è il non limitarsi a produrre soltanto una
raccolta di carte, ma lavora anche all’interpretazione dei dati linguistici raccolti e riportati su carta;
egli cerca di accertare, in particolare, quali siano le cause delle innovazioni. Uno dei principi della
geolinguistica gilliéroniana è quello della concomitanza geografica, ovvero la sovrapposizione di
due aree geografiche coincidenti in cui ha luogo un fenomeno di convergenza linguistica Dalla
carta n. 1323 dell’ALF, «Mungere», si ricava che i continuatori del lat. classico MULGĒRE ‘mungere’
si trovano soltanto nelle parlate meridionali e in quelle più settentrionali, mentre la zona centrale
è dominata dai continuatori del lat. classico TRAHĔRE (fr. traire) e del lat. volg. tirare (fr. tirer).
Gilliéron si pone due interrogativi: 1) perché si sono affermati i continuatori di TRAHĔRE e tirare,
che hanno in origine un altro significato, a scapito dei continuatori di MULGĒRE? 2) perché tale
sostituzione è avvenuta soltanto in una parte della Francia? Per spiegare il fenomeno G.
sovrappone la carta n. 1323 alla carta n. 879 «Macinare» e scopre che le aree dialettali di TRAHĔRE
e tirare sono quelle in cui MOLĔRE ‘macinare’ si evolve in moudre, esattamente come MULGĒRE.
Per evitare la collisione omonimica tra i due moudre, i parlanti hanno conservato moudre nel solo
significato di ‘macinare’, mentre per ‘mungere’ hanno deciso di ricorrere a traire o tirer
Nb: nella carta non compaiono solo i tre tipi principali citati. Aria deriva da una base gotica.
Questo fenomeno prende il nome di collisione omonimica e può talvolta essere portata anche
dall’usura fonetica ciò è dimostrato dalla carta n. 1 dell’ALF «ape», in cui il latino APE (o APIS) è
stato quasi ovunque sostituto da forme diminutive (abeille, avette, ecc.) o da perifrasi (mouche à
miel) e questo perché in francese l’esito dalla base originale aveva esiti fonetici che rischiavano di
far confondere la parola con altre e la soluzione più intuitiva era quella di aggiungerci un suffisso.
L’innovazione non va dunque ricercata in leggi fonetiche cieche ed ineccepibili, come voleva la
teoria neogrammaticale, ma nei parlanti e nelle valutazioni che essi operano sul linguaggio G.
mette il parlante al centro.

Uno dei meccanismi attraverso i quali le innovazioni entrano nel sistema linguistico è l’etimologia
popolare (o paretimologia o etimologia associativa), ovvero «il processo attraverso il quale,
generalmente presso i non addetti ai lavori, una parola viene interpretata nelle sue origini storiche
per mezzo di associazioni che fanno leva su parziali somiglianze di forma o di significato». Questo
processo si verifica quando un parlante si trova di fronte a una parola ormai per lui opaca,
sconosciuta e cerca di effettuare dei rimandi a termini da lui conosciuti Gilliéron, ad esempio,
ricorre all’etimologia popolare per spiegare il fr. fumier ‘letamaio’; esso deriverebbe dalla
sovrapposizione tra FĬMUS ‘letame’ e FŪMUS ‘fumo’, con allusione al fumo che si leva dai letamai
nella stagione fredda.
LEZIONE V
L’etimologia popolare può avere una spiegazione
semantico referenziale come x es. aria
congestionata può provocare una congestione;
oppure può essere prodotta da un semplice
suggerimento fonetico. I seguenti esempi sono tutti
esiti senza ripercussioni sul sistema linguistico; i
dizionari continuano a portare la versione originaria.

Alcuni casi di etimologia popolare penetrati nel


sistema linguistico:

 Dal latino tardo liquiritia  dal greco glycyrrhiza=


sciroppo dolce+ latino liquor (liquido). La radice
si scioglie in bocca, divenendo dunque liquida.
 lat. med. *bonacia dal lat. MĂLĂCĬA < gr. malakía ‘calma del mare’ per antifrasi e per
influsso del lat. BŎNU ‘bene, buono’ perché si voleva scongiurare il presunto riferimento al
male e all’evento pericoloso.
 Melanzana dall’arabo bādinǧān per influsso dell’it. mela;
 Negromanzia dal latino tardo necromantia < gr. nekrománteia ‘evocazione dei morti’, per
influsso dell’it. Negro in riferimento al colore nero, spesso associato alla morte e all’arte della
magia oscura.
 fr. contre-danse ‘antica danza in cui le coppie si muovevano l’una di fronte all’altra’ (< ingl.
country-dance)
M. Bartoli (1873-1946), caposcuola della «neolinguistica» o «linguistica spaziale» e allievo di W.
Meyer-Lübke a Vienna e di Gilliéron a Parigi. Lo citiamo soprattutto per due motivi: è stato il primo
direttore dell’atlante linguistico italiano (ALI) a Torino e per le sue quattro norme areali. Bartoli
non si interessa del momento in cui le innovazioni avvengono, bensì della ricostruzione ex post
della stratificazione delle innovazioni e a tal fine elabora quattro principi assiomatici («norme
areali»), volti a spiegare la cronologia relativa dei fenomeni linguistici. Di questi, i primi due
risultano i più largamente confermati, ovvero la norma «dell’area meno esposta o isolata», in base
alla quale «l’area più isolata conserva di solito la fase linguistica anteriore» come x es. la Sardegna
in cui le parole equa e domus si sono conservate in abba e domus, contro il rinnovamento toscano
in cui si riscontrano caballa e casa (non a caso il Sardo era considerato da Dante il volgare più
conservativo della gramatica) e la norma «delle aree laterali», in base alla quale, «se di due fasi
linguistiche una si trova in aree laterali e l'altra in un'area di mezzo, la fase delle aree laterali è di
norma la fase anteriore, purché l'area di mezzo non sia l'area più isolata». Esempi pratici delle due
norme:

Di capitale importanza per lo sviluppo della geografia linguistica è l’adesione di K. Jaberg (1877-
1958) e J. Jud (1882-1952) nella progettazione del loro Sprach- und Sachatlas Italiens und der
Südschweiz, ossia della progettazione avvenuta negli anni ’20 dell’atlante svizzero-italiano.
Quest’opera è basata sul nuovo orientamento che nasce dalla consapevolezza che la ricerca
dialettale non può prescindere dagli aspetti culturali che legano strettamente le parole e gli oggetti
(o referenti) da esse designati. La carta passa così da linguistica ad etnolinguistica, riportando
disegni o fotografie del designatum, corredati da eventuali informazioni sull’oggetto.
Tre importanti novità dell’AIS rispetto all’ALF:
1. attenzione al dato etnografico (interviste a due tipi di abitanti: uno di estrazione alta e
quindi colto, uno appartenente a una classe sociale inferiore e quindi meno istruito—
particolare sensibilità diastratica; anticipazione della sociolinguistica)
2. inclusione, nella rete d’inchiesta, dei grandi centri urbani (quando l’ALF si era limitato a
indagare i centri minori, come portatori di una maggiore genuinità)
3. impiego di una pluralità di raccoglitori (di contro al raccoglitore unico dell’ALF. Il
raccoglitore cambia a seconda della zona ed è un esperto della situazione linguistica di
quell’area).
I numeri dell’AIS: 405 punti d’inchiesta, ca. 4000 quesiti, oltre 1600 carte pubblicate in 8 volumi.
Inizialmente doveva occuparsi solo della Svizzera e dell’Italia centro settentrionale, ma poi la
ricerca fu estesa a tutta la Penisola.
LEZIONE VI
Quasi contemporaneamente all’AIS, tra il 1926 e il 1939 (scoppio Seconda guerra mondiale) Bartoli
raccoglie i dati per l’ALI. Esso segue il principio del raccoglitore unico, nella persona di Pellis, per
poi affidarsi, con la ripresa delle inchieste nel Dopoguerra (1952), a un collegio di raccoglitori
comprendente tra gli altri Grassi. La raccolta dei dati terminò nel ’64, ma la pubblicazione cominciò
solo a partire dal ’95 e non è mai stata completata. Per ora sono stati pubblicati solo 9 volumi, la
pubblicazione è in corso tutt’ora. I numeri dell’ALI: 1065 punti d’inchiesta, ca. 7000 domande, 8 i
volumi già editi (con ca. 800 carte in totale)
Gli atlanti di prima generazione sono solitamente nazionali come l’ALF/ALI, invece gli atlanti di
seconda generazione sono regionali e subregionali e si propongono di precisare e di scandagliare
in profondità aspetti della storia linguistica e della cultura specifica di una regione o subregione
indicati solo a grandi linee nelle opere di taglio nazionale. Essi completano dunque il grande
affresco fornito dagli atlanti di prima generazione, grazie a una rete di inchieste a maglie più
strette e a questionari meglio tarati sulle singole realtà regionali o subregionali. La loro
progettazione ha portato a un nuovo modo di concepire i questionari, redatti e predisposti alla
regione da scandagliare. Non sono molti gli atlanti di seconda generazione e molti devono ancora
essere pubblicati o sono in corso di pubblicazione. Alcuni esempi sono:
• Valle d’Aosta: **Atlas des patois valdôtains (APV), diretto da S. Favre e G. Raimondi
• Piemonte: *Atlante linguistico ed etnografico del Piemonte occidentale (ALEPO), diretto da S.
Canobbio e T. Telmon (2004-)
• Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia: Atlante linguistico del ladino
dolomitico e dei dialetti limitrofi (ALD) di H. Goebl et al. (1998-2012)
• Friuli-Venezia Giulia: Atlante storico-linguistico-etnografico del Friuli (ASLEF) di G. B. Pellegrini
(1972-1986)
• Toscana: Atlante lessicale toscano (ALT) di G. Giacomelli et al. (2000)
• Campania: **Atlante linguistico campano (ALCam), diretto da E. Radtke
• Basilicata: *Atlante linguistico della Basilicata (ALBa), coordinato da P. Del Puente e E. Giordano
(2008-) già pubblicati 2 volumi
• Calabria: **Atlante linguistico etnografico della Calabria (ALECal) di J. Trumper e M. Maddalon
• Puglia: *Atlante linguistico etnografico della Daunia (ALED), di A. M. Melillo (1979-); **Nuovo
Atlante dei Dialetti e dell’Italiano per Regioni (NADIR) fermo d 15/20 anni. Salento, ideato da A.
A. Sobrero, M. T. Romanello e I. Tempesta
• Sicilia: **Atlante linguistico della Sicilia (ALS), diretto da G. Ruffino numerosissime
pubblicazioni (50 volumi) ma non esiste un ALS consultabile come gli altri come insieme coerente.
• Sardegna: Saggio di un atlante linguistico della Sardegna in base ai rilievi di Ugo Pellis (ALSar) di
B. A. Terracini e T. Franceschi (1964)
Legenda: * = atlanti in corso di pubblicazione; ** = atlanti in corso di ideazione/progettazione
Il riferimento alla «seconda generazione» può assumere due valori distinti: 1) un senso
esclusivamente cronologico l’atlante di seconda generazione è temporalmente successivo agli
atlanti di prima generazione 2) un senso cronologico e metodologico insieme l’atlante di
seconda generazione non solo è temporalmente successivo agli atlanti di prima generazione, ma
ne aggiorna l’apparato teorico-metodologico. Esistono poi atlanti che, pur collocandosi nell’alveo
degli atlanti tradizionali, si sono molto giovati della tecnologia informatica, nell’archiviazione e
nella gestione dei dati

Classificazioni dialettali
(Integrazione da Fondamenti di Dialettologia Italiana)

La prima classificazione dei dialetti si trova nei capitoli IX-XV del De Vulgari Eloquentia (1304) di
Dante, che viene spesso considerato un dialettologo, nonostante sia una definizione imprecisa e
anacronistica perché non esistevano ancora i dialetti a suo tempo, ma solo i vulgares. L’obiettivo di
Dante era di trovare la “panthera”, ossia il volare illustre, un volgare universale e utilizzabile da
tutta la Penisola. Dante ipotizzava una lingua demunicipalizzata, libera dai più stretti confini
geografici. Di sicuro però Dante dimostra una grande sensibilità per la variabilità geografica delle
lingue.
«Itaque, adepti quod querebamus, dicimus illustre, cardinale et curiale vulgare in Latio, quod
omnis latie civitatis est et nullius esse videtur, et quo municipalia vulgaria omnia Latinorum
mensurantur et ponderantur et comparantur»
[trad.: ‘Abbiamo così conseguito ciò che cercavamo, e dichiariamo che in Italia il volgare illustre,
cardinale, regale e curiale è quel volgare che appartiene a tutte le città italiane senza apparire
proprio d
i alcuna di esse, quel volgare con cui vengono misurati, valutati e confrontati i volgari italiani’]
Il primo libro del DVE compie una panoramica linguistica sulla situazione linguistica europea
dividendola in più aree: 1) nell’area orientale di parlano dialetti greci 2) nell’area settentrionale si
trovano gli “slavones” e i “sassoni”; si rivela una grande variabilità linguistica interna, ma sono
tutte accomunate dalla particella affermativa “yo” 3) l’area meridionale dove si trova un idioma
“trifarium” ossia a tre teste dettagliatamente scomposto in base alle particelle affermative: la
langue d’oil; la langue d’oc e la lingua del sì.
«Totum vero quod in Europa restat ab istis tertium tenuit ydioma, licet nunc tripharium videatur:
nam alii oc, alii oil, alii sì affirmando locuntur, ut puta Yspani Franci et Latini»
[trad.: ‘Tutta la restante parte dell’Europa fu occupata da una terza lingua, che era unica, anche se
ora appare triforme: infatti alcuni per affermare dicono oc, altri oil, altri sì, come fanno per
esempio Ispani, Francesi e Italiani’]
Dante fa seguire una dettagliata presentazione dei volgari d’Italia (Latium): il punto di riferimento
usato da Dante è la dorsale appenninica (fictile culmen Dante ha della penisola italiana
un’immagine capovolta rispetto a quella, orientata con il Nord in alto; egli colloca l’Adriaco a
sinistra e il Tirreno a destra): distingue 7 vulgares a destra della dorsale e 7 a sinistra. La divisione
dantesca si fonda su criteri geografici ed etnici; il poeta non manca però di constatare l’esistenza
di ulteriori variazioni all’interno dei singoli volgari: Dante è molto preciso anche nella
classificazione delle subaree come x es. i vulgares toscani (=della Tuscia) che sono fiorentino,
senese, aretino, verso i quali Dante non si mostrò particolarmente clemente, mostrando di essere
in realtà un giudice severo. Distingue poi all’interno della Lombardia, intesa geograficamente come
una zona più ampia di quella odierna, la parlata ferrarese e quella piacentina. Il volgare di Torino e
Alessandria (sermoni subalpini) è ritenuto, in particolare, «turpissimum», perché è un volgare di
confine, fortemente influenzato da altre lingue. Per quanto riguarda i Sardi Dante sostiene che
sembra che tentino di scimmiottare la gramatica nota la forte conservatività del sardo, ma non
individua un rapporto genealogico tra le due lingue. Critica ai genovesi l’abitudine di abusare della
lettera “z” “se i genovesi non avessero la lettera z, probabilmente sarebbero muti”.
Nonostante lo iato temporale tra il XIV e il XIX secolo sia evidente, a dorsale appenninica è alla
base anche della proposta classificatoria di C.L. Fernow (1763- 1808), che nei suoi Römische
Studien (1808, Studi Romani) dà conto della variazione interna dell’Italia e in modo assai adeguato
rispetto a Dante l’unica innovazione consiste nel porre il toscano- proprio per motivi geografici- al
centro della ripartizione (Mittelpunkt) e individua, accanto al toscano (con 6 sottovarietà), i
seguenti dialetti: il romanesco; il napoletano; il calabrese; il siciliano; il sardo (con 3 sottovarietà); il
corso; il genovese; il piemontese; il milanese; il bergamasco; il bolognese; il veneziano; il
padovano; il lombardo
Per la classificazione e la caratterizzazione dei singoli dialetti Fernow fa ricorso costante ai tratti
linguistici: per i dialetti del Nord-Ovest fa riferimento all’occorrenza delle vocali turbate [ø] e [y];
per il toscano alla gorgia (fu il primo a ipotizzare l’origine sostratica di tipo etrusco della gorgia);
per i dialetti del Meridione al passaggio del nesso -ND- > [nː]. Fernow pose una grande attenzione
soprattutto all’Italia Settentrionale, considerando i dialetti meridionali, tra i quali distingueva solo il
napoletano, il calabrese e il siciliano, più omogenei e simili tra loro.
LEZIONE VII
Tra i preascoliani va ricordato anche Francesco Cherubini che con il suo Dialettologia Italiana,
ritrovato in bozza tra i manoscritti della Biblioteca Ambrosiana, rimasto inedito (prima
pubblicazione nel 1966) ci lascia una sorta di sommario delle varietà dialettali da lui distinte, dato
che l’opera rimase in realtà incompiuta. Un primo problema dell’esposizione di Cherubini è l’uso
ambiguo dei termini dialetto e vernacolo (= teoricamente un a forma più popolare di dialetto,
come in Francia il patoi); non è chiaro se l’alternanza tra i termini sia semplice gusto per la variatio
o se ci sia in effetti una motivazione scientifica dietro tale scelta. Si nota che quando usa
“vernacolo” parla soprattutto al plurale, mentre dialetto è un termine utilizzato esclusivamente al
singolare: è possibile che i vernacoli siano maggiormente diversificati? La suddivisione del
Cherubini implica curiose commistioni tra criteri che potremmo definire come quasi
burocraticamente geografici (x es. il fatto che il formazzino, dialetto walser, venga classificato,
insieme all’ossolano e al vallanzasco, come una sezione dell’alto novarese, a sua volta suddialetto
piemontese) e criteri che invece mostrano una visione dialetticamente avvertita, quale ad esempio
porre il corso quale suddialetto del toscano. Non dovrà sorprende il trovare l’immissione di tutti i
suddialetti dell’Emilia nel grande capitolo dei Vernacoli Lombardi (come nel DVE)
La suddivisione di Cherubini è la seguente:
1. Dialetto Piemontese «Generico o Torinese» ( fra il XVII e il XVIII secolo la varietà di Torino
diventa egemone in Piemonte, un po’ come capitò in Toscana con il fiorentino) + 21 suddialetti. Vi
si includono il «Suddialetto de’ Valdesi» ( oggi si sa che non è un suddialetto del Piemontese, ma
una varietà occitana), le varietà del Novarese e del Verbano (in realtà lombarde); il formazzino
( dialetto della val Formazza o solo di Formazza? A Formazza si parla una varietà non neolatina, il
cosiddetto walzer, una varietà germanica, ma in Val Formazza si parlano anche varietà lombardo-
alpine) e il «Vigevanesco» e il «Lumellino» ( oggi parlati in Lombardia, ma restano comunque
varietà piemontesi)
2. Dialetto Valligiano Italo-Svizzero + 14 suddialetti  tipico di una zona a confine tra due stati
influenzati dal lombardo, perché entrambi erano sotto la diocesi ambrosiana.
3. Vernacoli Lombardi + 26 sottocategorie situazione linguistica ingarbugliata: all’etichetta di
«suddialetto», si affiancano non di rado quelle di «dialetto» e «vernacolo». Forse Cherubini adotta
il termine vernacolo perché appunto si riscontra una maggiore varietà, dato che la Lombardia non
ha un centro egemone e propulsore del dialetto, tipo il Piemonte, ma Milano influenza soprattutto
la zona occidentale e la diocesi ambrosiana, mentre la zona orientale è fortemente influenzata dal
veneto. I dialetti dell’Emilia sono considerati parte dei dialetti lombardi
4. Dialetto Nizzardo  stupisce trovarlo in una dialettologia italiana perché è una varietà di
occitano/provenzale.
5. Dialetto Ligustico o Genovese + 13 suddialetti  come con il Piemontese, identificato con il
Torinese, anche in questo caso identifica la varietà regionale con quella del capoluogo.
6. Dialetto Veneto + 11 suddialetti
7. Dialetto Franco-Veneto + 7 suddialetti; «Franco-Veneto» sembra qui doversi intendere nel senso
di Veneto (o meglio veneziano). Tra il XII-XIV secolo il veneto viene utilizzato come lingua franca,
come lingua commerciale per gli scambi sul Mediterraneo, cambiando denominazione a seconda
dell’area in cui veniva parlato: «Grechesco-Veneto», «Turchesco-Veneto», ecc.
8. Dialetto Tirolese-italiano + 6 suddialetti diffuso nelle valli con parlate di tipo trentino, anche
se sono assimilabili a parlate lombardo/venete.
9. Dialetto Friulano «Vernacolo Generico o Centrale o Udinese» + 4 suddialetti non si è mai
stabilita una koinè regionale. Quello che Ascoli chiamerà ladino suddividendolo in ladino
dolomitico, romancio e friulano.
10. Dialetto Romagnolo + 6 suddialetti differenziato dall’emiliano, invece assimilato ai dialetti
lombardi.
11. Dialetto Marchigiano + 8 suddialetti
12. Dialetto Toscano + 19 suddialetti, inclusi il «Suddialetto Perugino e di Città di Castello» e il
còrso  non ha una posizione più elevata degli altri; il corso cismontano è assimilabile ad altri
dialetti toscani a causa del dominio Pisano e Livornese durante il Medioevo; il corso ultramontano
è invece simile al sardo settentrionale e viene per questo soprannominato sardo-corso.
13. Dialetto Romano + 6 suddialetti, compreso il «Suddialetto Umbro», che prevede a sua volta 6
ulteriori vernacoli
14. Dialetto Napoletano «Dialetto di Napoli Generico» + 5 suddialetti, comprendenti: 1) «il
Suddialetto Pugliese», 2) il «Suddialetto di Altamura», 3) il «Suddialetto Abruzzese» (con 3
suddialetti) e 4) il «Suddialetto Provenzale di Faido e Cette (o Le Celle) presso Troja» (si pensava
parlassero varietà
di tipo provenzale, ma sono colonie franco-provenzali.)
15. Dialetto Calabrese + 7 suddialetti + il «Dialetto Albanese» (parlato da’ Ramieri in Calabria e in
Sicilia, che prende il nome di Arbresh); tra i suddialetti compaiono i dialetti lucano, tarantino e
salentino, «Otrantino» e «Leccese»
16. Dialetto Siciliano + 6 suddialetti
17. Dialetto Sardo con 4 vernacoli – tra cui il «Vernacolo Algherese» – e 2 suddialetti  ad Alghero
son presenti influenze catalane dal XIV secolo.
18. Dialetto Pantellerese (Moresco)  si parlava una varietà semitica poi sostituita da una varietà
siciliana.
19. Dialetto Maltese varietà semitica con influenze romanza, inizialmente assimilabile al
Pantellerese per queste influenze semitiche.
È chiaro come Cherubini abbia seguito diversi e compositi criteri per compiere una tale
classificazione: a volte i affida esclusivamente a un criterio geografico, come nel caso del
formazzino, che nonostante sia una varietà germanica viene annoverata sotto l’etichetta di
suddialetto piemontese; mentre in altri casi segue un criterio meno legato alla geografia e più
strettamente dialettologico, come nel caso dei dialetti emiliani che vengono inclusi nei vernacoli
lombardi.
Anche Biondelli fornì una descrizione dei dialetti galloitalici (piemontese, lombardo ed emiliano),
che distingueva basandosi sul concetto di sostrato e sull’antica etnografia italiana. Distingue:
1)famiglia carnica (suddivisa in: friulano, goriziano, bellunese) il nome viene da “Carni”, un
popolo celtico che occupò l’area tra l’Isonzo e il Tagliamento.
2)famiglia veneta (suddivisa in: centrale, occidentale, orientale) dai Veneti di origine Illirica.
3)famiglia gallo-italica (suddivisa in: lombardo, emiliano, pedemontano) B. considerava il ligure,
poi incluso da Ascoli nei dialetti galloitalici, un dialetto a parte con caratteristiche proprie.
(sebbene presenti dei tratti tipici dei dialetti galloitalici, come la u alterata, presenta anche tratti
eccentrici, soprattutto consonantici, più vicini a quelli dei dialetti meridionali)
4)famiglia ligure (suddivisa in: occidentale e orientale)
5)famiglia tosco-latina (suddivisa in: tosco= fiorentino, senese, tiberino e corso; latino= umbrico e
romano) è una scelta particolare quella di unire i dialetti tosco-latini, perché sono due aree dai
sostrati diversi, una a sostrato etrusco e una a sostrato latino e quindi indoeuropeo.
6)famiglia sannitico-iapigia (suddivisa in: abruzzese, campano, «appuliese», tarantino) da popoli
italici
7)famiglia lucano-sicula o bruzio-sicula (suddivisa in: calabrese, siciliano, gallurese) popolazioni
italiche indoeuropee come Lucani, Siculi e Sicani; è presente il gallurese, nonostante sia più vicino
al sardo.
8)famiglia sarda (suddivisa in: logudorese e campidanese) popoli preindeuropei
La suddivisione di Biondelli non è sostanziata dal riferimento a fatti linguistici, a differenza che
nella monografia dedicata ai dialetti gallo-italici Saggio sui dialetti gallo-italici (1853), dove aveva
raccolto le diverse versioni della parabola del Figliol Prodigo, raccolta grazie alla quale oggi
conosciamo forme che oggi non saremmo in grado di ricostruire come x es. la prima persona
plurale presente senza la u cantma e non cantuma dato di diacronia breve che altrimenti
sarebbe andato perduto.
Ad Ascoli si deve la prima classificazione scientificamente motivata dei dialetti d’Italia in Italia
dialettale, atto di nascita della dialettologia italiana. Egli suddivide i vari dialetti combinando
aspetti sincronici e diacronici. Il principio classificatorio che guida Ascoli è di tipo prevalentemente
storicistico, anzi genealogico: si tratta di stabilire quali, tra gli idiomi sviluppatisi in Italia dal latino,
abbiano conservato una maggiore affinità con esso. Una volta risolto che tale dialetto è il toscano,
il metodo di Ascoli passa da genealogico a comparatistico; cosicché la classificazione risulta
fondata su criteri sincronici. Si tratta di una quadripartizione il cui centro è rappresentato dal
toscano (come già avveniva in Fernow); ne consegue che i tre raggruppamenti dialettali ritenuti
«non toscani» vengono decritti in funzione della loro distanza dal toscano. La scelta di mettere il
toscano al centro è dovuta al fatto che Ascoli la considerasse la varietà che meno si è allontanata
dal latino a livello fonetico (a livello strutturale è il sardo la varietà più conservativa). Avremo
dunque tra i gruppi:
A. «Dialetti che dipendono, in maggiore o minore misura, da sistemi neo-latini non peculiari
all’Italia»  il provenzale, il franco-provenzale, che vengono definiti galloromanze, e il ladino,
definito retromanzo. Sono i dialetti più distanti dal toscano e dipendono da sistemi neolatini non
peculiari dell’Italia, quindi non sono italoromanzi. Per le due lingue galloromanze la lingua di
riferimento è il francese, mentre si pensa che il ladino sia risalente a un popolo non indoeuropeo, i
Reti.
B. «Dialetti che si distinguono dal sistema italiano vero e proprio, ma pur non entrano a far parte
di alcun sistema neo-latino estraneo all’Italia»  «quei dialetti che soglionsi chiamare gallo-
italici», comprendenti «a. il ligure; b. il pedemontano; c. il lombardo; d. l’emiliano» e il sardo.
Abbastanza lontani dal toscano, ma fanno comunque parte del sistema neolatino.
C. «Dialetti che si scostano, più o meno, dal tipo schiettamente italiano o toscano, ma pur possono
entrare a formar col toscano uno speciale sistema di dialetti neo-latini» il veneziano, il còrso, i
«Dialetti di Sicilia e delle provincie napolitane» e i «Dialetti dell’Umbria, delle Marche e della
provincia romana» D. «Il Toscano e il linguaggio letterario degli Italiani». Non è semplice inserire il
marchigiano perché a Nord presenta influenze settentrionali e a Sud influenze abruzzesi.
LEZIONE VIII
Negli anni che intercorrono tra le due guerre mondiali la geniale ripartizione ascoliana è ripresa da
Clemente Merlo, il quale coglie, piegandoli a una sorta di determinismo meccanicistico, alcuni
spunti di spiegazione storica che Ascoli aveva avanzato per spiegare i fenomeni di apprendimento
differenziato del latino nelle diverse regioni. Si ha un deciso passo indietro rispetto ad Ascoli con
Clemente Merlo (1879-1960). Leggendo le sue considerazioni riguardo la classificazione dei dialetti
italiani sembra di tornare ai preascoliani: fonda la propria classificazione su criteri etnici e dà
grande importanza al sostrato. Secondo Merlo, i condizionamenti sostratici sarebbero stati imposti
addirittura da fattori fisiologici dovuti alla conformazione degli organi fonatori.
«La classificazione dei dialetti italiani, se non è un problema esclusivamente etnico, perché
bisogna tener presente anche il momento, l’età della romanizzazione, è soprattutto un problema
etnico»
Merlo limita la propria proposta «alle varietà dialettali italiane che non dipendono da sistemi neo-
latini estranei all’Italia» ed esclude dunque dal proprio ambito d’interesse gli «alloglossi», ossia
quelle varietà che Ascoli aveva posto nel gruppo A. A queste premesse consegue la suddivisione in
tre grandi gruppi a discriminante etnica:

 “dialetti italiano settentrionali” (sostrato celtico) i dialetti galloitalici di Ascoli. Il sostrato di


questi dialetti può ritenersi celtico, dato che i Liguri e i Veneti si sono commisti ben presto
a popoli celtici.
«i dialetti della Liguria e della valle del Po che l’Ascoli, non senza riserve, chiamò col Biondelli gallo-
italici, e io preferisco chiamare italiani settentrionali, non hanno caratteristiche loro proprie,
comuni a tutti quanti, tali da contrapporli decisamente agli altri italiani. Essi costituiscono […] una
unità negativa. Li riunisce insieme, più che altro, quel trovarsi stretti tra linguaggi di tipo differente:
provenzali, francoprovenzali e ladini da un lato, toscani e umbro-marchigiani dall’altro. Il loro
sostrato etnico può ritenersi celtico, Liguri e Veneti essendosi presto commisti fortemente coi Celti»
È davvero una scelta terminologica azzeccata? Rimane l’ambiguità dell’uso “dialetti italiani”.

 Dialetti centro-meridionali (sostrato italico)  non comprende la Toscana, sulla base di un


ragionamento sostratico: la Toscana ha un sostrato non indoeuropeo di tipo etrusco.
Anche il sostrato del Sardo non è indoeuropeo, ma non etrusco, bensì “mediterraneo”. Per
quanto riguarda la zona dalle Marche all’Umbria, da lui identificata come “italiana centro-
meridionale”, presenta un sostrato italico di tipo umbro-sannita e viene quindi inquadrata
in un’unica famiglia forte prospettiva sostratica.
 Dialetti toscani (sostrato etrusco)
«Se si prescinde dall’estremo lembo settentrionale che ci dà, a oriente, condizioni romagnolo-
emiliane, a occidente condizioni toscane, i dialetti che si parlano nella parte centrale e meridionale
della nostra penisola, dalle Marche e dall’Umbria alla Sicilia, possono costituire una sola grande
famiglia, l’italiana centro-meridionale […]. Come il sostrato etnico dei dialetti italiani settentrionali
è celtico, così quello dei dialetti italiani centro-meridionali è italico, e propriamente italico di tipo
umbro-sannita»
«Della famiglia italiana centro-meridionale non fanno parte i vernacoli toscani. Il loro sostrato
etnico non è italico, ma etrusco»
«Il sardo […] occupa un posto a sé tra i dialetti italiani, tra i dialetti romanzi: esso non muove da
quella fase nella evoluzione della lingua latina che precede da vicino il sorgere dei singoli volgari,
ma da una fase manifestamente anteriore […]. Anche il sostrato etnico del sardo non è
indoeuropeo, ma non è etrusco. Chiamiamolo mediterraneo, se si vuole così, ma è mediterraneo di
tipo diverso»
Ciascuno dei tre gruppi e suddiviso in base a ipotetici sostrati minori: quello mediterraneo
determinerebbe i dialetti corsi, lunigianesi; il sostrato ligure starebbe alla base dei dialetti liguri
moderni; l’influsso del venetico spiegherebbe le differenze dei dialetti veneti rispetto agli altri
dialetti settentrionali etc
Nonostante la staticità del modello sostratico, questa immagine tripartita dei dialetti d’Italia
ritorna in G. Rohlfs (1892-1986) fu un esperto di dialetti meridionali e soprattutto calabresi, autore
dell’unica grammatica storica dell’Italiano e dei suoi dialetti. Rohlfs presenta un’immagine
tripartita dell’Italia dialettale, sulla base di una serie di tratti fonetici, morfologici e lessicali. Egli
decide di affidare la propria classificazione a criteri esclusivamente geolinguistici. Ne derivano due
fasci di isoglosse, in séguito denominati linea La Spezia-Rimini e linea Roma-Ancona, e tre grandi
aree dialettali: una settentrionale, una centrale e una meridionale. Non tiene conto della
Sardegna, perché secondo lui il sardo esula dalle strutture tipiche dell’italiano.
1) PRIMA FASCIO DI ISOGLOSSE: linea La Spezia-Rimini si nota un fenomeno di lenizione di primo
grado (sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche quindi da k,t,p > g,d,b) URTICA> ortiga
(in piemontese dà “urtia” perché si ha un passo ulteriore, ossia la caduta dell’occlusiva sonora
intervocalica) [Colpisce gli stessi elementi consonantici della gorgia]; caduta delle finali vocaliche
atone diverse da -A, un fenomeno in realtà con grandi limitazioni in zona ligure e veneta; lenizione
di secondo grado (spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche), un tratto
pansettentrionale CAPILLI> kavei; degeminazione consonantica, un tratto specialmente Nord-
occidentale, dove le consonanti intense in latino perdono la loro intensità LITTERA> letera; caduta
vocali atone pre e post toniche, un tratto tipico del piemontese e del veneto urbani e del ligure
SELLARIU> sler, slar; nasalizzazione delle vocali a fine di sillaba; lessotipo han hodie> inco per
“oggi”.
2) SECONDO FASCIO DI ISOGLOSSE: line Roma-Ancona lessotipo FERRĀRIU (?) > ferrariu
‘fabbro’, individuato da Rohlfs al Sud, ma in realtà presente anche al Nord, come attesta l’AIS ne
sono un esempio quei cognomi come Ferrero, Faré , Ferrara, tutti legati alla professione del
fabbro; lessotipo FRATRE > frate ‘fratello’ ; lessotipo FĒMINA (?) > femmina ‘donna’ con
contrapposizione evidente tra Sud e Centro, in cui si usa soprattutto donna. Tuttavia in
piemontese sono presenti delle continuazioni di femina; posposizione in enclisi dell’aggettivo
possessivo: FĪLIU MEU > fígliomo ‘mio figlio’ fenomeno attestato anche in una commedia di
Macchiavelli e quindi nel ‘500 l’isoglossa si dev’essere spostata più a Nord; uso dell’ausiliare
tenere ‘avere’; evoluzione di -X + Voc.- > -ss- CŎXA > còssa ‘coscia’ ; mantenimento del genere
masch. lat. (laddove l’it. presenta nomi di genere femm.): lu cìmice ‘la cimice’; lessotipo FĀGU (?) >
fagu ‘faggio’. Al Nord è presente l’utilizzo di fo, fau, fagu; sonorizzazione delle consonanti sorde in
posizione postnasale: *MULTONE > mondone ‘montone’; Metafonia per influsso di –I: NĬGRI >
neri> niri ‘neri’; Metafonia per influsso di –U: ACĒTU > acitu ‘aceto’.
Nb: la metafonia è un cambiamento del timbro della vocale tonica per influenza della vocale finale.
Nella sua classificazione, Giacomo Devoto (1970) combina due criteri: quello della reazione
diversificata a taluni fenomeni linguistici e quello dell’accettazione delle suddivisioni geografiche
tradizionali, come una sorta di “a priori” euristico. Prende in considerazione i seguenti fenomeni:
sistema vocalico (epta/pentavocalico); anafonesi; dittongamento interno o esterno; frangimento;
esistenza di vocali turbate; caduta delle vocali atone; metafonia; palatalizzazione e assimilazione
delle consonanti velari davanti a vocali palatali e dei gruppi consonantici KL, GL, PL, BL, FL;
lenizione; aspirazione, cacuminalizzazione, nasalizzazione e labializzazione; assimilazione e
dissimilazione; assimilazione dei gruppi consonantici ND e MB. A ogni regione attribuisce un
punteggio da 1 a 0 a seconda che la risposta comporti maggiore o minore stabilità rispetto all’età
romana. Ne scaturisce una graduatori da cui risulta che il fiorentino è la varietà più vicina al latino.
Se si esclude la novità di tentare di quantificare i fenomeni linguistici, questa classificazione non
giunge a conclusioni molto diverse da quelle dell’Ascoli.
Il metodo di classificazione di Z. Muljačić è basato su una lista di 40 tratti analizzati
binaristicamente, verificando cioè l’assenza o la presenza di ciascuno delle varietà linguistiche
prese in esame. Il metodo viene quindi anche applicato da Pellegrini 2 punti alle rispose diverse,
1 punto alle risposte ambivalenti e 0 punti alle risposte uguali; quanto maggiore sarà il punteggio
complessivo, tanto più grande sarà la distanza tra le parlate.
La classificazione di Pellegrini è in qualche modo ibrida, nel senso che combina criteri linguistici
interni (come il ricorso costante alle isoglosse per tracciare i confini tra sistemi e all’interno di uno
stesso sistema) con criteri extralinguistici. La sua classificazione è stata proposta principalmente in
due sedi: nella carta dei dialetti d’Italia, un volumetto in commento alla carta dei dialetti d’Italia,
dove egli identifica delle isoglosse; ne “I 5 Sistemi dell’Italo Romanzo”. P. identifica con l’etichetta
di «italoromanzo», le «varie parlate della Penisola e delle Isole che hanno scelto, già da tempo,
come “lingua guida” l’italiano» (lingua guida ≠ lingua tetto di Kloss. La lingua guida è depotenziata;
è solo la lingua delle istituzioni x es. il walser ha come lingua guida, quindi tetto socioculturale,
l’italiano, ma il tetto linguistico è costituito dal tedesco standard). Secondo questo criterio include
il friulano nei dialetti italo-romanzi, perché ha come lingua guida l’italiano, mentre non include il
ladino dolomitico e il romancio perché hanno come lingua guida il tedesco. Secondo Pellegrini,
cinque sono i «gruppi di parlate “italo-romanze” caratterizzate da una notevole autonomia
dialettale»:
1)il sistema settentrionale o cisalpino, nel quale sono inclusi il galloitalico (ligure, piemontese,
lombardo, emiliano-romagnolo) e il veneto, con ulteriori suddivisioni interne.
2)il friulano, tripartito in centro-orientale o aquileiese, occidentale o concorduese, carnico
3)il sistema dei dialetti centro-meridionali, analizzabile in «mediano», «meridionale intermedio»,
«meridionale estremo», con ulteriori suddivisioni interne
4)il sardo, quadripartito in logudorese, campidanese, sassarese, gallurese
5)il toscano, articolato in sei sezioni: fiorentino, senese, toscano occidentale (pisano-livornese-
elbano, pistoiese, lucchese), aretinochianaiuolo, grossetano e amiatino, apuano
LEZIONE IX
Pellegrini, sulla base di studi precedenti di Z. Muljačić, tenta di quantificare la distanza tra varietà
neolatine (lingue o dialetti) a partire da 40 tratti fonetici e morfologici ritenuti significativi. Questo
metodo ha alcune difficoltà di applicazione evidenti da alcuni dati x es. la distanza del romeno dal
lucano sarebbe quantificata a 34 e quella del lucano e dell’italiano a 39. È chiaramente una
conclusione dubbia e sorprendete. Il problema tipico della distanza linguistica sta in che peso dare
ai vari tratti, perché non dando il giusto peso rischio di ottenere un risultato falsificato e appiattito.
L’accento è posto sulle questioni fonetiche e morfologiche, ma bisognerebbe tener nel dovuto
conto anche la morfosintassi e il lessico, che è del tutto trascurato. Pellegrini spezza una lancia in
favore del lessico, ma in realtà è uno dei tratti più facilmente variabili e meno conservativi.
«Ma debbo ancora una volta esprimere francamente un mio parere e cioè che nella classificazione
e caratterizzazione delle lingue neolatine i risultati saranno sempre falsati se non si terrà nella
debita considerazione il lessico»
Tuttavia, il criterio del progressivo raffronto tra coppie di dialetti è scientificamente ineccepibile: si
confrontano le grammatiche di due parlate vicine, A e B, se ne evidenziano le differenze, si
confrontano con la grammatica di C, si evidenziano le differenze di C con B; si fa lo stesso con D ed
E etc. il confine tra due aree linguistiche sarà tracciato in corrispondenza dei punti in cui la
differenza fra due grammatiche contigue aumenta in modo particolarmente significativo.  base
del criterio prototipico, che consiste sull’individuazione di una sorta di gradiente.

Dialetti d’Italia
Divideremo «le varietà dell’Italia linguistica diverse dall’italiano» in due grandi categorie:
• dialetti italo-romanzi: dialetti settentrionali (gallo-italici [piemontese, ligure, lombardo, emiliano-
romagnolo] + veneto); dialetti friulani; dialetti toscani; dialetti centro-meridionali (area mediana e
area meridionale); dialetti meridionali estremi; dialetti sardi
• minoranze linguistiche: neolatine (occitano, provenzale, ladino); non neolatine (walzer, abresh)
DIALETTI SETTENTRIONALI manifestano una serie di caratteristiche linguistiche comuni:
• a livello fonetico:
– il passaggio di Ŏ e Ū [ø] e [y] (eccetto che in veneto e in parte dell’emiliano-romagnolo): FŎCU >
piem. [fø], lomb. [føk] ‘fuoco’; MŪLU > piem./lomb. [myl] ‘mulo’
– la caduta delle vocali finali diverse da -A (eccetto che in ligure e in veneto): NĀSU > piem./lomb.
[naz] ([nas]) ‘naso’, CAMPU > piem./lomb. [kaɱp] ‘campo’
– la lenizione (sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, che può spingersi, per le
consonanti labiali, fino alla spirantizzazione, per le consonanti dentali o velari, fino alla caduta):
PĬPĔR > tor. [ˡpɛjver], mil. [ˡpever] ‘pepe’; RŎTA > mil. [ˡrøda], piem. [ˡrua] ‘ruota’; URTĪCA > mil. e
ven. [urˡtiga], piem. [yrˡtia] ‘ortica’
– lo scempiamento delle geminate (o degeminazione): SEPTE > gen., venez. [ˡsɛte], piem., lomb.
[sɛt] ‘sette’; SPĂTULA > piem., lomb., ven. [sˡpala] ‘spalla’
– l’assibilazione (in [s]/[z]) delle velari latine seguite da vocale palatale: CENA > gen. [ˡsɛŋa], tor.
[ˡsiŋa] ‘cena’; GĔNUCULU > ven. [zeˡnɔʧo], tor. [znuj] ‘ginocchio’
– la palatalizzazione dei nessi (-)CL- e (-)GL-: CLĀVE > tor. [ʧaw], lomb. [ʧaf] ‘chiave’; GLĂNDE >
piem., lomb., ven. [ˡʤanda] ‘ghianda’; ŎC(Ŭ)LU > lomb. [øʧ], gen. [ˡøʤu]
• a livello morfosintattico:
– la doppia serie di pronomi soggetto, una tonica, l’altra atona (o clitica): tor. [ti ət ˡkante] ‘tu Ø
canti’ l’elemento clitico dipende dalla persona del verbo
– l’inversione pronominale nelle interrogative (tipica del friulano): dialetto di Grizzana (BO)
[ˡkεːtet]? ‘canti-Ø’ nel torinese questa costruzione è piuttosto in crisi, mentre sopravvive in area
langarola e nelle zone periferiche.
PIEMONTESE
Il Piemonte non è occupato per intero da dialetti di tipo piemontese. I dialetti parlati nella parte
occidentale della regione sono di tipo galloromanzo (occitano e francoprovenzale); i dialetti parlati
nella parte nord-orientale della regione sono di tipo lombardo (province di Novara e Verbano-
Cusio-Ossola). Sono generalmente considerati di tipo ligure i dialetti parlati nella parte meridionale
della regione da Ormea alla Valle dello Scrivia, a cui si aggiunge un’arèola di parlata emiliana a sud-
est. In alcune località delle province di Verbano-Cusio-Ossola e di Vercelli si parlano dialetti
germanici di tipo alemannico («walser»). La classificazione dei dialetti piemontesi di Pellegrini
1977 prevede soltanto la bipartizione tra alto-piemontese (nelle province di Torino e Cuneo) e
basso-piemontese (nelle province di Asti, Alessandria, Vercelli e Biella). Una classificazione più
meditata consiglierebbe almeno di distinguere fra torinese (che è alla base della cosiddetta koinè
piemontese), altopiemontese (parlato nella pianura a sud di Torino, fino a Cuneo), canavesano,
biellese, langarolo, monferrino, alessandrino, vercellese.
Fonetica:
• vocalismo: -
-Ē tonica > [ɛj]: CANDĒLA > [kanˡdɛjla] ‘candela’ ; TĒLA > [ˡtɛjla] ‘tela’
-Ā tonica > [ɛ] (ma solo nei continuatori di -ĀRE e -ĀRIU): PARABULĀRE > [parˡlɛ] ‘parlare’
MACELLĀRIU > [mazˡlɛ] ‘macellaio’
-conservazione di -U atona nelle parole sdrucciole con uscita bisillabica (-ĬNU, -ŎLU, ecc.): ASĬNU >
[ˡazu] ‘asino’, TERMĬNU > [ˡtɛrmu] ‘termine’
-pl. nomi femm in [e] (piem. occ.) vs. [i] (piem. or.): PLANTÆ > piem. occ. [ˡpjante] vs. piem. or.
[ˡpjanti]
• consonantismo:
-CT- > [jt], [ʧ]: LACTE > tor. [lajt], lang./monf. [laʧ] ‘latte’; NOCTE > tor. [nøjt], lang./monf. [nøʧ]
‘notte’
-velarizzazione di -N- intervocalica: LĀNA > [ˡlaŋa] ‘lana’, LŪNA > [ˡlyŋa] ‘luna’
Morfologia/morfosintassi:
-desinenza di I plurale (ind. pres., fut., ecc.) [ˡuma] (dall’origine molto discussa e incerta)
-cliticizzazione del pronome sul participio nei tempi composti: a l’ha mangialu tüt ‘l’ha mangiato
tutto’ (lett. ‘Ø Ø ha mangiato-lo tutto’)
- negazione postverbale: chiel a màngia nen ‘egli non mangia’ (lett. ‘egli Ø mangia non’) coincide
con l’ultima fase del ciclo di Jespersen che prevede tre livelli: 1) negazione preverbale 2) negazione
discontinua 3) negazione post verbale (come in francese PASSUM> pas; NEC> nen) Q\
LEZIONE X
LIGURE
Il ligure occupa quasi per intero la Liguria (il limite orientale è rappresentato dal torrente Vara e
dal basso corso del Magra) e sconfina in territorio piemontese; non c’è, come molto spesso
accade, una corrispondenza precisa tra il glottonimo e la regione amministrativa. I dialetti liguri si
suddividono in: 1) genovese, 2) ligure orientale (o delle Cinqueterre), 3) ligure occidentale (da Noli
a Taggia), 4) intemelio (costiero e alpino), 5) ligure d’Oltregiogo (da Ormea alla Valle dello Scrivia).
Varietà di ligure coloniale sono parlate a Carloforte e Calasetta (CI), nonché a Bonifacio (Corsica
meridionale). Sono considerate di tipo ligure/piemontese le cosiddette varietà gallo-italiche della
Sicilia, della Basilicata e della Campania. Biondelli non annovera il ligure tra i dialetti gallo-italici,
ma sarà poi incluso da Ascoli. Anche in Sardegna si parla una varietà di ligure, in particolare nella
Sardegna meridionale, dove si parla il cosiddetto ligure tabarchino; il nome deriva dall’isola di
Tabarca, in Albania, da cui provenivano i pescatori che colonizzarono la zona Sarda.
Fonetica:
•vocalismo:
-conservazione di -E e -U atone, tranne che dopo -N- e -R-: NĀSU > [ˡnazu] ‘naso’, CAMPU >
[ˡkaɱpu] ‘campo’ vs. FLŌRE > [ʃu] ‘fiore’, CĂNE > [kaŋ] ‘cane’
•consonantismo:
- nessi consonantici come (-)PL- > [ʧ], (-)BL- > [ʤ], (-)FL- > [ʃ]: PLĂTĔA > [ˡʧasa] ‘piazza’, germ. blank
> [ˡʤaŋku] ‘bianco’, FLĀTU > [ʃow] ‘fiato’, SUFFLĀRE > [syˡʃa] ‘soffiare’ (palatalizzazione
avanzata) il nesso Fl che dà [ʃ] è un tratto che avvicina il ligure ai dialetti meridionali.
- nessi consonantici come -CT- > [jt], [ʧ], [t]: LACTE > intermelio/lig.occ. [ˡlajte], oltregiogo [laʧ],
genovese [ˡlɛte] ‘latte’; NOCTE > int. [ˡnøjte], oltreg. [nøʧ], gen. [ˡnøte] ‘notte’
- le consonanti -L-, -R- > [ɹ], Ø: ALA > int./oltreg. [ˡaɹa], gen. [aː] ‘ala’, MĀTRE > int. [ˡmajɹe], gen.
[mwɛː] ‘madre’
Per Toso alcune varietà sono presenti sia nel piemontese sia nel ligure; si è scoperto che il cairese
(una varietà in sintonia con varietà monferrine) presenta affinità fonetiche con il ligure, sebbene in
realtà sia morfologicamente e sintatticamente più vicino al piemontese; si può quindi dire che sia
una varietà di transizione. Superficialmente sembra un dialetto ligure, ma se ci si sposta a strati più
interni della lingua è una varietà chiaramente piemontese.
LOMBARDO
In Lombardia sono presenti varietà molto differenti tra loro; i dialetti lombardi possono essere
distinti in: 1) occidentali (o cisabduani = al di qua dell’Adda), che si estendono nelle province di
Milano, Varese, Como, Sondrio (eccetto l’Alta Valtellina), Novara, nella parte meridionale della
provincia di Verbano-Cusio-Ossola e della Svizzera (Sottoceneri); 2) orientali (o transabduani = al di
dà dell’Adda), che interessano le province di Bergamo e Brescia, la parte settentrionale delle
province di Cremona e Mantova e il Trentino occidentale; 3) alpini, che abbracciano l’Ossola, la
Valle Spluga, l’Alta Valtellina e, in Svizzera, l’Alta Valle del Ticino, il Sopraceneri e le Valli
Mesolcina, Calanca, Bregaglia e Poschiavo del Canton Grigioni. I dialetti parlati nella parte
meridionale della regione sono da considerarsi di transizione verso il tipo dialettale emiliano
(Cremona/Mantova), a cui si aggiungono influssi piemontesi e liguri nel Pavese, influssi veneti nel
Mantovano.
Fonetica:
•vocalismo:
-(-)A- tonica prima di cons. laterale > [o]: ALTERU > [ˡolter] ‘altro’ (unico esempio, fenomeno più
diffuso in passato)
-metafonia (un tratto che solitamente caratterizza solo le zone a Sud della linea Roma-Ancona):
CAPĬLLU/ CAPĬLLI > milanese [kaˡvel]/[kaˡvij] ‘capello’/ ‘capelli’; SŎL(Ĭ)DU/ SŎL(Ĭ)DI > lombardo
alpino [sɔld] / [søld] ‘soldo’/‘soldi’
- articolo femminile plurale ILLÆ > [i]: ILLÆ DŎMĬNÆ > [i dɔn] ‘le donne’
•consonantismo:
- il nesso consonantico -CT- > [ʧ]: LACTE > [laʧ] ‘latte’; NOCTE > [nøʧ] ‘notte’
-indebolimento della nasale + nasalizzazione della vocale tonica che la precede: PĀNE > [pãː]
‘pane’ (similmente al francese)
Morfologia/morfosintassi:
-negazione postverbale: Lü l màngia no ‘egli non mangia’ (lett. ‘egli Ø mangia non’)
EMILIANO-ROMAGNOLO
Il dialetto emiliano-romagnolo si estende ben oltre i confini amministrativi regionali: verso ovest
nell’alessandrino (Tortona); verso nord, nella parte settentrionale delle province di Pavia, Cremona
e Mantova; verso sudovest, nelle province di La Spezia, Massa-Carrara e Lucca; verso sud-est, nelle
province di Firenze («Romagna toscana») e Pesaro-Urbino. Le divisioni interne dell’emiliano-
romagnolo sono: 1) occidentale (province di Piacenza, Parma, Reggio, Modena); 2) orientale
(province di Bologna e Ferrara); 3) romagnolo (province di Forlì-Cesena, Rimini, Ravenna, Pesaro-
Urbino); 4) aree di transizione (Mantovano con elementi veneti; Pavese-vorghese, con elementi
piemontesi e liguri; Lunigiana, con elementi liguri). L’area romagnola non presenta un centro forte
che abbia influenzato l’area intera, come Torino per il Piemonte, a seguito di un mancato
condizionamento storico.
Fonetica:
•vocalismo:
-A- tonica in [ > [ɛ]: LĂCŬ > bol. [lɛːg] ‘lago’, NĀSU > [nɛːz] ‘naso’ (palatalizzazione generalizzata, a
differenza del piemontese)
-presenza delle vocali arrotondate con diversa distribuzione areale: Ū tonica > [y] sino al Panaro
(fiume), oltre il Panaro Ū > [u]: DUO > d. di Verica (Pavullo nel Frignano, MO) [dyː], d. di San
Giacomo Maggiore (MO) [duː] ‘due’; in pianura, il limite di Ū tonica > [y] è più occidentale (cfr.
parm. [duː])
-Ŏ tonica in [ > [ø] sino al Parmense, più a est Ŏ [ > [ɔ]: NŎVU > parm. [nøːv], regg., mod., bol.
[nɔːv] ‘nuovo’
-dittongazioni frequenti delle vocali toniche: TĒLA > bol. [ˡtajla], SENIŌRE > bol. [sɲawr] ‘signore’;
-sincope delle vocali protoniche: latino tardo de mane > mod. [dman] ‘domani’, HOSPITALE > bol.
[zbdɛːl] ‘ospedale’
Morfologia/morfosintassi:
-presentano negazione discontinua o preverbale
LEZIONE XI
VENETO
L’estensione territoriale del dialetto veneto è, nel contempo, inferiore e superiore ai confini della
regione amministrativa. Se il tipo dialettale veneto deborda in Trentino e in Friuli-Venezia Giulia
(ma si tenga conto anche del «veneto d’esportazione» e il «veneto coloniale» per es. in Brasile),
la regione Veneto include al suo interno due varietà non venete: alloglotte di ceppo germanico (il
«cimbro»); alcune varietà di ladino nell’alto bacino del Piave (BL). Il veneto risulta così ripartito: 1)
veneziano; 2) centrale (padovano-vicentino-polesano); 3) occidentale (veronese); settentrionale
(trevigiano-feltrino-bellunese).
•Il veneto condivide con i dialetti gallo-italici alcune tendenze, come:
– la lenizione: PĬPĔR > [ˡpeːvaro] ‘pepe’, RŎTA > [ˡroːda] ‘ruota’, URTĪCA > [urˡƟːga] ‘ortica’
– la degeminazione consonantica: SEPTE > [ˡsɛːte] ‘sette’, SPĂTULA > [sˡpaːla] ‘spalla’
– la presenza dei pronomi clitici soggetto: eu el magna ‘egli Ø mangia’
• D’altro canto, il veneto non reca traccia:
– né delle vocali turbate [ø] e [y], per cui: FŎCU > [ˡfɔːgo] ‘fuoco’, MŪLU > [ˡmuːlo] ‘mulo’
– né della caduta delle atone finali (come in ligure), per cui: NĀSU > [ˡnaːzo] ‘naso’, CAMPU >
[ˡkampo] ‘campo’

FRIULANO
È un altro sistema dei dialetti del Nord Italia, ma non è considerato un sistema italoromanzo. La
novità di Ascoli fu quella proprio di porre il friulano nei dialetti di tipo ladino, diversamente dai
suoi predecessori. Oggi si usano le denominazioni di ladino occidentale, orientale e centrale.
Pellegrini invece propose una differenziazione del ladino a seconda che la lingua guida fosse
l’italiano o il tedesco e il friulano, insieme al sardo, erano per Pellegrini gli unici due dialetti a
godere dello stato di lingua di minoranza. Oggi in effetti Il friulano è una delle minoranze
linguistiche storiche riconosciute dalla LN 482 del 15 dicembre 1999.
Non tutti i linguisti accettano l’esistenza di un’unità linguistica ladina: «Rientra nel gruppo “italo-
romanzo” […] anche il “sistema friulano” il quale presenta una discreta autonomia (un tempo forse
meno netta) rispetto al veneto e al cisalpino in genere […]; esso deve tuttavia essere tenuto
distinto, specie sul piano diacronico, anche dal ladino centrale atesino e ancor più dal ladino
occidentale o dal “retoromanzo” (favelle che hanno conservato un tipo cisalpino in fasi assai
arretrate e che hanno risentito, spesso profondamente, della lingua e cultura tedesca)» -Pellegrini
All’interno del friulano possono essere individuate tre sottovarietà principali: 1) occidentale,
situato alla destra del Tagliamento; 2) centro-orientale, situato alla sinistra del Tagliamento; 3)
carnico, nella zona montana. Il Friuli-Venezia Giulia rivela una situazione linguistica piuttosto
complessa, comprendendo al suo interno il friulano, il veneto, dialetti sloveni e dialetti germanici
(di tipo carinziano), ma il friulano è la parlata più diffusa nel Friuli propriamente detto, la Venezia
Giulia essendo dialettalmente veneta.
•Il friulano concorda con i dialetti di tipo gallo-italico per:
-la lenizione PĬPĔR > [ˡpɛːvar] ‘pepe’, RŎTA > [ˡrweːde] ‘ruota’, URTĪCA > [urˡƟːe] ‘ortica’
-la degeminazione consonantica SEPTE > [sjet] ‘sette’, SPĂTULA > [sˡpale] ‘spalla’
-la caduta delle vocali finali diverse da -A NĀSU > [naːs] ‘naso’, CAMPU > [ʧaɱp] ‘campo’
•Si differenzia da essi, ad esempio, per:
-l’assenza delle vocali turbate FŎCU > [fɔk] ‘fuoco’; MŪLU > [mul]
•Tra le caratteristiche che distinguono il friulano dagli altri dialetti italo-romanzi settentrionali
(gallo-italici + veneto):
-palatalizzazione di CA- e GA-: CANE > [kjaŋ]/[ʧaŋ] ‘cane’; GALLĪNA > [gjaˡline]/[ʤaˡline] ‘gallina’
-conservazione dei nessi consonante + -L-: CLĀVE > [klaːf] ‘chiave’; GLĂNDE > [glant] ‘ghianda’;
PLĂTĔA > [ˡplase] ‘piazza’, germ. blank > [blaŋk] ‘bianco’, FLĀTU > [flaːt] ‘fiato’
-conservazione di -S, nella morfologia nominale e verbale: CANES > [kjans]/[ʧans] ‘cani’, GALLĪNAS
> [gjaˡlines]/[ʤaˡlines] ‘galline’; TU DORMIS > [tu tu ˡdwarmis] ‘tu Ø dormi’
TOSCANO
Avevamo detto che i dialetti italoromazi sono tutti dialetti secondari (derivante da un adattamento
a un modello), ma il toscano è di tipo primario (derivante dal latino standard); non ci riferiamo a
una somiglianza strutturale, ma a una valutazione di tipo cronologico. Solo dal ‘500 la storia
dell’italiano si separa dalla storia dell’italiano regionale di toscana. Il toscano è una varietà
diatopica dell’italiano, essendo la sorgente della lingua nazionale.
“Nel caso […] della Toscana, l’italiano regionale odierno non è altro che l’organica prosecuzione
degli sviluppi linguistici che già nel Quattro-Cinquecento erano in atto e che, naturalmente, il
Bembo si era ben guardato dal prendere in considerazione” Telmon
Il toscano si estende al di fuori dei confini amministrativi regionali; di tipo toscano sono, ad es., i
dialetti della Corsica settentrionale e orientale («cismontani», mentre i dialetti «oltramontani»
presentano notevoli consonanze con i dialetti sardi). All’interno dei confini regionali, tuttavia, non
si parla ovunque toscano: si trovano dialetti di tipo settentrionale in Lunigiana (SP/MS), nell’Alta
Garfagnana (LU) e nell’Appennino fiorentino. Il tipo dialettale toscano presenta la seguente
ripartizione: 1) fiorentino, 2) toscano occidentale, 3) senese, 4) aretino-chianaiolo, 5) grossetano-
amiatino
Il toscano presenta un vocalismo tonico a sette vocali («eptavocalico»).
Fonetica:
•Vocalismo:

-opposizione fonematica fra /o/  /ɔ/, /e/  /ɛ/: /ˡbotte/ ‘recipiente’  /ˡbɔtte/ ‘percosse’, /peska/
‘frutto’  /pɛska/ ‘attività sportiva’
-mancato dittongamento Ŏ tonica in [: BŎNU > [ˡbɔːno] (it. standard [ˡbwɔːno])
-sviluppo di Ĭ e Ŭ toniche in [i] e [u], anziché in [e] e [o], per influsso di alcuni nessi consonantici
(anafonesi): – -LJ-: FĂMĬLĬA > [faˡmiʎːa]
– -N- + voc. palatale: VĬNĔA > [ˡviɲːa], lat. tardo *patrignu > [paˡtriɲːo]
– -N- + -C-, -G-: LĬNGUA > [ˡliŋgwa], VĬNCĔRE > [ˡvinʧere], ŬNGŬLA > [ˡuŋgja]
-convergenza di -U e -O atone in [o]: LŬPU > [ˡluːpo], QUANDO > [ˡkwando]
•Consonantismo:
-spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche («gorgia»): FŎCU > fior. [ˡfɔːho] ‘fuoco’,
DĬGĬTU > fior. [ˡdiːθo], CAPUT > fior. [ˡkaːɸo], ILLA CĂSA > fior. [la ˡhːasa] ‘la casa’
- -R- + voc. palatale > [j]: CŎRIU > [ˡkɔːjo], AREA > [ˡaːja]
- -C-, -G- intervocaliche > [ʃ], [ʒ]: CĬCER > [ˡʧeʃe] ILLA CĒNA > [la ˡʃena], ARGILLA > [arˡʒilːa] ILLA
GĔNTE > [la ˡʒɛnte]
-raddoppiamento fonosintattico: fior. [ɔ ˡvːisto] ‘ho visto’, [ɔ ˡfːatːo] ‘ho fatto’
Morfologia/morfosintassi:
-sistema del dimostrativo a tre livelli: questo (indica cosa o persona vicina a chi parla), codesto
(indica cosa o persona vicina a chi ascolta), quello (indica cosa o persona lontana da chi parla e da
chi ascolta)
-Noi si + III p. sing. in luogo della prima persona plurale: noi si va
– doppia serie di pronomi soggetto, una tonica, l’altra atona (o clitica): [mi e], [te ttu], [lɛj la], ecc.
Quando il toscano diverge dall’italiano standard?
- L’italiano ha mantenuto il dittongamento cosiddetto toscano, che in realtà nel dialetto ha
subito un’involuzione tornando al monottongo BONU(M)> BUONO (IT, TOSCANO ANTICO)>
BONO (TOSCANO ATTUALE)
- Gorgia
- Sistema dei dimostrativi a tre livelli, ancora presente nelle grammatiche ma in realtà
utilizzato in modo naturale solo dai toscani
- Raddoppiamento fonosintattico, utilizzato solo da chi fa del parlato un mestiere e quindi fa
corsi di dizione (attori, doppiatori). Consiste nel raddoppiamento subìto nella pronuncia
dalla consonante iniziale di una parola legata alla precedente.
LEZIONE XII
DIALETTI CENTRO MERIDIONALI
Questi dialetti manifestano alcuni tratti comuni:
fonetica:
– la “palatalizzazione adriatica” di -A- tonica> [ɛ]: MĂLU > d. di Bucchiànico (CH) [mɛl] ‘male’,
CĂPRA > d. di Canosa di Puglia (BAT) [ˡkrɛːpa] ‘capra’
– la metafonia, condizionata da -I o -U con due esiti principali:
a) dittongazione della vocale tonica in dipendenza di una -i e di una -u finali: PĔDE > *pedi > nap.
[ˡpjɛːrə] ‘piedi’ (vs. [ˡpɛːrə] ‘piede’), BŎNU/BŎNI > bar. [ˡbːweːnə] ‘buono/buoni’ (vs. [ˡbːɔːnə]
‘buona/buone’ da notare l’opposizione piede i singolare/plurale; buono/a maschile/femminile
b) innalzamento della vocale Tonica per influenza della -i finale: NĬGRI > d. di Amelia (TR) [ˡniːri]
‘neri’ (vs. [ˡneːro] ‘nero’), FRATRE > *fratri > d. di Vasto (CH) [ˡfrɛːtə] ‘fratelli’ (vs. [ˡfraːtə] ‘fratello’)
– apocope della desinenza dell’inf.: PARABULĀRE > d. di Luogosano (AV) [parˡla]; FINĪRE > d. di
Trebisacce (CS) [fiˡni] ‘finire’;
– l’assimilazione progressiva per contatto di -ND- e -MB-: MŬNDU > bar. [ˡmunːə] ‘mondo’;
PLŬMBU > d. di Muccia (MC) [ˡpjumːu] ‘piombo’ alcuni sostengono sia attribuibile alla presenza
di un sostrato tosco-umbro, però è impossibile perché pare essere un fenomeno recente, in
quanto non ci sono attestazioni fino al 1550; certo è che potrebbe essere a causa delle correzioni
dei copisti che percepivano questo tratto come troppo marcatamente regionale.
– il passaggio da V- a [b] (betacismo), in determinati contesti fonetici: ILLA VACCA > [(l)a ˡvakːə] ‘la
vacca’ vs. TRĒS VACCAS > [tre ˡbːakːə] ‘tre vacche’
– la palatalizzazione dei nessi consonante + laterale (come in ligure): CLĀVE > nap. [ˡcaːvə] ‘chiave’,
PLANGĔRE > d. di Norcia (PG) [ˡpjaːɲe] ‘piangere’, germ. blank > d. di Picerno (PZ) [ˡjaŋgə] ‘bianco’,
FLĀTU > d. di S. Giovanni Rotondo (FG) [ˡʃatə] ‘fiato’
– il passaggio di [s] preceduta da cons. nasale, laterale, vibrante a [ʦ], [ʣ]: ASCENSIONE > d. di
Acerno (SA) [la ʃinˡʣjuni] ‘ascensione’; FALSU > d. di Colle Sannita (BN) [ˡfaːvəʦə] ‘falso’; ŬRSU > d.
di Gubbio (PG) [l ˡorʦo] ‘orso’
morfologia e morfosintassi:
– la formazione del plurale In -ORA (TEMPŎR-A > TEMP-ŎRA): d. di Subiaco (RM) [ˡtɛmpora]
‘tempie’, [ˡpɛːkora] ‘pecore’, asc. [ˡfiːkora] ‘fichi’; bar. [kaˡvadːərə] ‘cavalli’, d. di San Chirico Raparo
(CS) [ˡɔcːərə] ‘occhi’
– la posposizione del possessivo, nei nomi di parentela (in genere al sing.): abr. [ˡpaːtrəmə] ‘mio
padre’, [ˡsɔːrəmə] ‘mia sorellla; laz. [ˡfiːʎemo] ‘mio figlio’, [ˡnɔːrema] ‘mia nuora’
AREA MEDIANA
Quest’area comprende le Marche centrali, il Lazio fino a Frosinone /Terracina, L’Umbria e
l’Aquilano.
Fonetica:
• Vocalismo:
– conservazione della distinzione tra -O e -U (Marche centro-meridionali, Umbria meridionale,
Lazio, Abruzzo aquilano): LŬPU > reat. [ˡluːpu] ‘lupo’, QUANDO > reat. [ˡkwanːo] ‘quando’
• Consonantismo:
– assimilazione progressiva per contatto di -LD-: CAL(Ĭ)DA > d. di Sonnino (LT) [ˡkalːa] ‘calda’
ROMANESCO
È un dialetto a parte rispetto agli altri dell’area mediana. Nella vita di Cola di Rienzo (XIV secolo) si
attesta che al tempo il romanesco era molto più affine ai dialetti del Mezzogiorno, ma la presenza
dei vari papi medicei (Leone X, Clemente VII), che attirarono la loro corte di intellettuali e artisti
fiorentini e del sacco di Roma del 1527, che comportò un successivo ripopolamento della città,
subì una ri-orientazione verso i dialetti dell’area mediana. La dialettizzazione, a Roma, è
confrontabile con il processo che, nelle altre regioni, avrebbe portato alla formazione degli italiani
regionali; se ne distingue, tuttavia, per la precocità, avendo avuto luogo nel Cinquecento anziché
nel Novecento. Il romanesco è «dialetto dell’italiano, cioè sua derivazione, e non dialetto del
latino» sarebbe pertanto più corretto parlare di «italiano regionale di Roma» piuttosto che di
«dialetto di Roma».
AREA MERIDIONALE INTERMEDIA
Comprende le Marche meridionali, l’Abruzzo, il Molise, la Basilicata e la Puglia.
Fonetica:
• Vocalismo:
– ammutimento delle vocali finali: CASA > d. di Spinazzola (BAT) [ˡkasə] ‘casa’; VACCA > d. di Pisticci
(MT) [ˡvakːə] ‘vacca’
– inserimento di un suono vocalico all’interno di un nesso consonantico (anaptissi): BUBULCU > d.
di Tagliacozzo (AQ) [boˡfuːliko] ‘bifolco’; CALCE > d. di Ascoli Satriano (FG) [ˡkaːləʧə] ‘calce’
• Consonantismo:
– sonorizzazione di -T-, -P- dopo cons. nasale: lat. pop. *montania > d. di Lucera (FG) [munˡdaɲa]
‘montagna’; lat. tardo campana ‘vasi (di bronzo) della Campania > nap. [kaɱˡbaːna] ‘campana’ (cfr.
abr., camp., pugl. [ˡkwanːə] ‘quando’ vs. [ˡkwandə] ‘quanto’)
– passaggio di -MJ- a [ɲ]: VĪNDĒMIA > d. di Ripacandida (PZ) [vəˡnːeɲə] ‘vendemmia’
– rotacizzazione di [d]: CLAUDĔRE > lat. tardo clùdere > d. di Monte di Procida (NA) [ˡcuːrə]
‘chiudere’; RIDĒRE > lat. tardo rìdere > d. di Roccasicura (IS) [ˡriːrə] ‘ridere’
LEZIONE XIII
AREA MERIDIONALE ESTREMA
Comprende la Puglia meridionale, la Calabria centro meridionale e la Sicilia
I dialetti meridionali estremi manifestano un vocalismo tonico a cinque vocali («pentavocalico»),
asimmetrico rispetto all’asse delle palatali e velari:

Il sistema pentavocalico dei DME è ritenuto da alcuni studiosi uno sviluppo indipendente
all’origine, da porsi sullo stesso piano del sistema pentavocalico del sardo, del romeno o della
cosiddetta area Lausberg (Lucania); questi studiosi sostengono sia una diretta derivazione dal
sistema a 10 vocali latine. Questa teoria è stata però messa in discussione da Fanciullo (1984)
secondo il quale tale sistema sarebbe soltanto uno sviluppo del sistema eptavocalico panromanzo
(toscano), in séguito al contatto col greco bizantino. Fanciullo in pratica sostiene che il sistema
pentavocalico siciliano deriverebbe da quello eptavocalico toscano, o meglio, sarebbe un
adattamento di tale sistema avvenuto su contatto con il greco bizantino. forme come CANDĒLA>
*[kanˡdela] e FŌRNU> *[ˡfornu] sarebbero dunque diventate [kanˡdila] e [ˡfurnu] per influsso del gr.
biz. kandila e phournos
Fonetica:
– conservazione della desinenza infinitivale: sicil., cal. merid. CANTĀRE > [kanˡtaːri] ‘cantare’;
(DI)SCĒDĔRE > [ˡʃːinːiri] ‘scendere’; FINĪRE > [fiˡniːri] ‘finire’
– retroflessione o cacuminalizzazione di -LL- e -(S)TR-: CABALLU > d. di Salve (LE) [kaˡvaɖɖu]
‘cavallo’; STRATA (VIA) > sic. [ˡʂʈʂata] ‘strada

Morfologia:
– impiego ristretto del passato prossimo, con valore iterativo-durativo (sic., calab. centro-merid.):
L’amu circatu tutta a mattinata ‘l’abbiamo cercato tutta la mattinata’ (detto in mattinata) vs. U
circammu tutta a mattinata ‘lo cercammo tutta la mattinata’ (detto la sera)
Morfosintassi:
– impopolarità dell’infinito con esplicitazione delle infinitive: salent. Òle ku bbene ‘vuole venire’
(lett. ‘vuole che viene’), calabria centr. Vògghiu mu (mu = congiunzione subordinante non
specializzata solo per le infinitive) dòrmu ‘voglio dormire’ (lett. ‘voglio che dormo’); la stessa
congiunzione è utilizzata quando non vi sia coreferenza di soggetto tra reggente e dipendente (al
congiuntivo e, in genere, dopo verbi di volontà: calab. centro/meridionale vògghiu mu/mi veni
‘voglio che tu venga’)
SARDO
La precoce latinizzazione (III sec. a.C.) su elementi di sostrato mediterraneo e semitico, unita alla
condizione di oggettiva insularità, fa del sardo una lingua unica nel panorama delle varietà
romanze. Alcuni studiosi riconoscono all’interno del sardo quattro varietà: logudorese (la più
conservativa), campidanese, sassarese, gallurese. La descrizione del sardo è basata sui dialetti
logudorese e campinese, perché il sassarese e il gallurese presentano peculiarità specifiche, infatti
in molte altre classificazioni, «a logudorese e campidanese si limita la dizione di “sardo
propriamente detto”», da cui in tal caso vengono escluse le due aree dialettali dell’estremo nord
dell’isola, la gallurese a nord-est […] e la sassarese a nordovest»
«Molti dei caratteri distintivi che differenziano il sardo non solo fra i dialetti italiani bensì fra le
lingue romanze nel loro complesso sono propri soltanto del logudorese e del campidanese […], ma
sono invece estranei al sassarese/gallurese o, secondo i casi, al solo sassarese» -Loporcaro
Il sardo è stato riconosciuto, in base alla legge 482/99, «minoranza linguistica storica», così come il
catalano di Alghero (SS). Non gode invece di alcuna tutela nazionale il «tabarchino» di Carloforte e
Calasetta (CI), il dialetto dovuto alla colonizzazione del ‘700 di pescatori liguri provenienti da
Tabarca (si erano trasferiti a Tabarca nel ‘500).
Come nei dialetti meridionali estremi, il sardo presenta un vocalismo tonico a cinque vocali
(pentavocalico), direttamente derivato dal latino:
• Consonantismo:
– conservazione delle consonanti finali: TEMPŬS > d. di Baunèi (OG) [ˡtempus] ‘tempo’; FĒMĬNAS >
cagl. [ˡfeminas] ‘donne’; LĔGIT > d. di Bitti (NU) [ˡleʤete] ‘legge’ (non si conserva la velare latina
“gh”, che viene palatalizzata in + con vocale paragogica o epitetica)
– conservazione di [k] e [g] (conservazione di velarità) davanti a vocale palatale: CĒRA > d. di
Dorgàli (NU) [ˡkeːra] ‘cera’; GINGĪVA > d. di Fonni (NU) [giŋˡgiːva] ‘gengiva’
– develarizzazione (si legge mag-nu> mannu) del nesso -GN-: MAGNU > cagl. [ˡmannu] ‘grande’;
LIGNA > d. di Baunèi (OG) [ˡlinna] ‘legna’
– labializzazione dei gruppi -GW-, -QW-: LINGUA > d. di Làconi (OR) [ˡlimba] ‘lingua’; AQUA > d. di
Macomèr (NU) [ˡabba] ‘acqua’; QUĪNQUE > d. di Bitti (NU) [ˡkimbe] ‘cinque’
-Sonorizzazione o spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (lenizione) e dileguo delle
occlusive sonore intervocaliche, anche in fonosintassi: IPSU PĬPĔR > cagl. [su ˡβiβiri] ‘il pepe’; RŎTA
> d. di Dorgàli (NU) [ˡroða] ‘ruota’; URTĪCA > d. di Macomèr (NU) [urˡƟːɣa] ‘ortica’; FABA > d. di
Busachi (OR) [ˡvaːe] ‘fava’; *ADRIDĒRE > cagl. [arˡriːri] ‘ridere’
– retroflessione o cacuminalizzazione di -LL-: CABALLU > nuor. [kaˡvaɖɖu] ‘cavallo’; PELLE > nuor.
[ˡpeːɖɖe] ‘pelle’
– conservazione dei nessi consonantici (-)PL-, (-)BL-, (-)FL-, (-)CL-, (-)GL-: PLĂTĔA > cagl. [ˡpratsa]
‘piazza’; lat. volg. *blastemàre > d. di Fonni (NU) [brastiˡmaːre] ‘bestemmiare’, FLŪMEN > d. di
Macomer (NU) [ˡfruːmene] ‘fiume’; CLĀVE > d. di Bitti (NU) [ˡkraːe] ‘chiave’; GLĂNDE > d. di Làconi
(OR) [ˡlande] ‘ghianda’
Morfologia:
– formazione dell’articolo determinativo da IPSU(M) anziché da ILLU(M): IPSU FENU > cagl. [su
ˡveːnu] ‘il fieno’; IPSOS ŎCŬLOS > d. di Baunèi (OG) [sos ˡorkos] ‘gli occhi’
Morfosintassi:
– futuro e condizionale perifrastici (con HABĒRE e DEBĒRE, rispettivamente): av a kkantare
‘canterà’ (lett. ‘ha a cantare’); dia kkantare ‘canterebbe’ (lett. ‘deve cantare’)
– aspetto durativo espresso mediante ESSE + gerundio: so benninde ‘sto venendo’ (lett. ‘ sono
venendo’)
LEZIONE XIV

MINORANZE LINGUISTICHE
Giuseppe Francescato fu uno dei primi studiosi a interessarsi delle minoranze linguistiche in Italia.
«Si usa […] correntemente la denominazione di “minoranza” per indicare un gruppo, di solito non
molto numeroso (a volte anche piccolissimo), nel quale i parlanti “alloglotti” hanno come “prima
lingua” o “lingua materna”, cioè acquisita con la prima socializzazione, una lingua diversa da
quella nazionale. Poiché per molte ovvie ragioni tali parlanti non possono esimersi dall’apprendere
anche la lingua della nazione (o lingua del gruppo maggioritario o lingua dominante) si instaura
tra le due lingue, quella maggioritaria e quella minoritaria o subalterna, un rapporto che
suggerisce la presenza di una situazione di bilinguismo» -Francescato
Questa definizione di minoranza linguistica non si rivela, ai nostri fini, particolarmente
soddisfacente, perché potrebbe coinvolgere il rapporto tra uno qualsiasi dei dialetti italo-romanzi
precedentemente trattati e l’italiano. È qui importante sottolineare che possono esistere gradi
diversi di minor(izz)azione: una minor(izz)azione di I grado, che è quella di un qualsiasi dialetto
italo-romanzo regionale rispetto all’italiano, e una minor(izz)azione di II grado, che si verifica tra
una varietà alloglotta e il dialetto italo-romanzo regionale. Tra il piemontese e l’italiano esiste un
rapporto di minor(izz)azione di I grado, mentre quello dell’occitano rispetto al piemontese è un
rapporto di minor(izz)azione di II grado: l’occitano sarebbe dunque una minoranza linguistica
stricto sensu, a differenza del piemontese. Talvolta entrano però in gioco valutazioni di altro tipo,
che possono portarci a considerare talune minoranze linguistiche di I grado alla stregua di
minoranze linguistiche stricto sensu
«Dal punto di vista linguistico interno, ci sono buone ragioni per considerare le due lingue [il sardo
e il friulano] o varietà come appartenenti al gruppo linguistico italoromanzo, al pari dell’italiano e
dei vari dialetti delle regioni d’Italia; così come appaiono analoghi a quelli dei tradizionali dialetti la
collocazione all’interno del repertorio e il rapporto nei domini d’impiego con la lingua standard
nazionale. Questo porterebbe a concludere che non vi sia una reale diversità di situazione
sociolinguistica fra il sardo e il friulano e i vari dialetti italoromanzi della penisola, e che quindi o
non ha fondamento considerare il friulano e il sardo effettive lingue minoritarie, o, se li si considera
tali, bisognerebbe trattare come lingue minoritarie anche i dialetti piemontese, lombardo, veneto,
napoletano, siciliano e così via. Il riconoscimento dei parlanti sardi […] e dei parlanti friulani come
minoranze linguistiche trova solo giustificazione, da un lato, negli originali caratteri strutturali,
molto specifici e spesso conservativi, delle due lingue, che hanno fatto sì che fin dagli albori della
linguistica romanza venissero annoverate nel panorama delle lingue neolatine (specie il sardo)
come lingue autonome e non come dialetti, e, dall’altro lato, nel forte senso di una propria
diversità e identità particolare caratteristica, e di affermazione di autonomia culturale, ben
radicato presso le popolazioni sarda e friulana» -Berruto.
L’Italia è uno degli Stati europei occidentali che presentano il maggior numero di «minoranze
assolute». Si calcola che i parlanti di varietà alloglotte (inclusi i parlanti friulano – ca. 450 mila – e
sardo – ca. 1 milione –) siano all’incirca il 5% della popolazione italiana. Le minoranze linguistiche
(ML) possono essere trattate da punti di vista differenti; useremo nel prosieguo un criterio di tipo
genealogico, distinguendo tra «ML neolatine» e «ML non neolatine»
MINORANZE NEOLATINE: OCCITANO
L’occitano appartiene al gruppo linguistico gallo-romanzo, al pari del francese e del franco-
provenzale. L’occitano è parlato in un’ampia area del Piemonte occidentale, che va dalla Val
Vermenagna all’Alta Val di Susa, oltreché a Guardia Piemontese (CS), insediamento di coloni
valdesi risalente ai secc. XIII-XIV, anche se oggetto di disputa è stata, negli ultimi anni,
l’attribuzione all’area occitana di due varietà del Piemonte meridionale, il cosiddetto kje (Alte Valli
Ellero, Maudagna, Corsaglia) e il brigasco (Alta Valle Tanaro), perché non appartengono all’area
tradizionalmente considerata occitana, ma all’area alpino ligure. Esistono anche delle colonie
occitanofone nell’Italia meridionale, una minoranza non solo linguistica, ma anche religiosa (nella
provincia di Cosenza si rifugiarono dei coloni valdesi per sfuggire alle persecuzioni). Per quanto
riguarda l’area occitano-piemontese si può considerare una sorta di ultimo residuo della regione
della lingua d’oc parlata nella Gallia Narbonensis. Le stime sul numero dei parlanti attivi di
occitano sono molto discordanti le une dalle altre, variando da 180/200 (Telmon) a mila a 40 mila
(Toso) unità. Circa 340 sarebbero i parlanti del guardiolo, la varietà dialettale occitana parlata nel
borgo storico di Guardia Piemontese, comune della provincia di Cosenza.
Fonetica:
• Vocalismo:
– mancata dittongazione di Ĕ tonica latina, eccetto nei casi in cui la sillaba postonica termina in -I:
PĔDE > [pɛ] ‘piede’, ma HĔRI > [jɛr] ‘ieri’
– dittongazione di Ŏ latina, in sillaba aperta e chiusa: FŎCU > [fwek], PŎRCU > [pwerk]; –
conservazione di -A- tonica latina: PANE > [paŋ] ‘pane’, PRATU > [pra] ‘prato’
-conservazione della A tonica latina, senza palatalizzazione come avviene nelle aree emiliano-
romagnole
– passaggio di -A atona finale a [o]: FEMINA > [ˡfenːo] ‘donna’, terra > [ˡtero] ‘terra’
• Consonantismo:
– palatalizzazione di CA- e GA-: CANE > [ʧaŋ] (talvolta esito in affricata alveolare sorda: [ʦaŋ])
‘cane’, CATTU > [ʧat] (talvolta esito in affricata alveolare sorda: [ʦat]) ‘gatto’ (come in friulano e
ladino dolomitico)
– palatalizzazione, in area centro-meridionale, dei gruppi consonantici PL, BL, FL,CL, GL: FLŎRE >
[fjur] ‘fiore’, CLAVE > [kjaw] ‘chiave’; i nessi in questione vengono invece mantenuti in area
settentrionale: [flɔr], [klaw];
Morfologia:
– tendenziale presenza del plurale sigmatico: AQUAS > [ˡajges] ‘acque’; PATRES > [ˡpajres] ‘padri’
– sviluppo, nel tardo latino, di un suffisso -ICULU: apicula > [aˡbeʎo] ‘ape’, soliculu > [soˡlɛʎ] ‘sole’
MINORANZE NEOLATINE: FRANCOPROVENZALE
Varietà galloromanza, il francoprovenzale è oggi parlato fra l’Alta Val Sangone (a sud) e la Valle
d’Aosta (a nord); tale territorio comprende, da sud a nord, la Bassa Valla di Susa, la Val Cenischia,
le Valli di Lanzo (Valle di Viù, Val d’Ala, Val Grande), la Val d’Orco, la Val Soana. Una varietà di tipo
presumibilmente francoprovenzale è presente nei comuni di Faeto e Celle San Vito (Foggia),
insediamenti risalenti all’epoca angioina (XIII sec.; nel 1269, dopo un duro assedio, i saraceni erano
riusciti a impadronirsi di Lucera e l’avevano rasa al suolo; successivamente Carlo D’Angiò face
venire dalla Francia dei coloni per il ripopolamento della città e del contado). La stima del numero
di parlanti proposta da Francescato, ca. 120 mila unità, pare alquanto generosa; Berruto quantifica
in 70 mila unità i parlanti della Valle d’Aosta, in 15 mila i parlanti delle province di Torino e Foggia.
Faeto e Celle San Vito contano, insieme, ca. 1000 abitanti. L’area francoprovenzale è
approssimabile alla forma di un triangolo con vertici Susa (Sud), Francia (Ovest) e Svizzera (Nord);
conserva una buona vitalità in area valdostana.
Fonetica:
• Vocalismo:
– palatalizzazione di -A- condizionata dalla presenza di un suono palatale (Valli Orco, Soana,
Cenischia): [ʧanˡtaʀ] ‘cantare’ vs. [minˡʤeʀ] ‘mangiare’
– palatalizzazione di CA-: CAMPU > [ʧaɱp] (bassa Valle d’Aosta e Val Soana), [ʧam] (alta Valle
dell’Orco), ecc. ‘campo’; esito in affricata alveolare sorda nell’alta Valle d’Aosta: [ʦã]
• Consonantismo:
– conservazione di -S come a) desinenza verbale di II e IV persona e b) marca del femm. pl.: a)
CANTAS > [ˡʧantes] ‘(tu) canti’, CANTĀTIS > [ʧanˡtades] ‘(voi) cantate’; b) FLŎRES > [fjurs] ‘fiori’;
CĂPRAS > [ʧiˡvres] ‘capre’
Morfologia:
– costruzione mod.to + mod.te nei nomi designanti i giorni della settimana: DĬĒ VĔNĔRIS >
[dəˡvɛdro] ̃ (Valle d’Aosta), [diˡvendo] (Val Soana) [diˡvɛndru] (Noasca, Ceresole Reale), ecc.
‘venerdì’
MINORANZE NEOLATINE: LADINO
Per «ladino» s’intende qui la varietà parlata nelle valli dolomitiche situate intorno al massiccio del
Sella (TN, BZ) e nelle Alte Valli del Boite e del Piave (BL). Si tratta di quello che, nell’ottica di chi
sostiene l’unità di romancio, ladino dolomitico e friulano, si chiama «ladino centrale». Berruto
attribuisce al ladino ca. 35 mila parlanti attivi.
• Consonantismo:
– palatalizzazione di CA- e GA-: CANE > fass., gard. [ʧaŋ] ‘cane’; GALLĪNA > fass. [gjaˡlina]/gard.
[ʤaˡlina] ‘gallina’
– conservazione dei nessi consonante + -L-: CLĀVE > gard. [tlɛ] ‘chiave’ (vs. fass. [ˡkieːf]); PLĂTĔA >
gard. [ˡplaʦa] ‘piazza’ (vs. fass. [ˡpjaʦa]), germ. blank > gard. [blaŋk] ‘bianco’ (vs. fass. [bjaŋk]),
FLĀTU > gard. [flaː] ‘fiato’ (vs. fass. [fja]); – conservazione di -S, nella morfologia nominale e
verbale: CANES > fass., gard. [ʧans] ‘cani’, GALLĪNAS > fass. [gjaˡliːnas]/gard. [ʤaˡlinˑas] ‘galline’; TU
DORMIS > fass. [tu te ˡdormes] ‘tu Ø dormi
Notevoli, come s’è visto, sono le consonanze tra ladino dolomitico e friulano. Se su tali affinità si
basano le tesi dei sostenitori dell’unità ladina (Ascoli, Merlo), su quelle stesse affinità si fondano le
tesi degli oppositori. Pellegrini (1991) afferma che nessuno dei fenomeni citati è la spia di
innovazioni comuni, ma, piuttosto, di un paradigma conservativo tipico delle aree periferiche.
Abbiamo infatti vari indizi sul fatto che Il veneziano antico, almeno fino al XIV sec., conserva i nessi
cons. + laterale (L), così come la desinenza sigmatica. Allo stesso modo, nel Vicentino sopravvivono
toponimi quali Chiampo (< CAMPU) e (Contrada del) Chian (< CANE), che sono il sintomo di
un’area di palatalizzazione di CA- un tempo molto più ampia. Anche nel piemontese si registra una
presenza residuale di desinenze sigmatiche nei verbi x es. “ti fas” per “tu fai”.
LEZIONE XV
ALTRE MINORANZE NEOLATINE
• Ci sono minoranze di lingua francese in Valle d’Aosta, dove il francese è lingua ufficiale accanto
all’italiano, nell’Alta Valle di Susa e nelle Valli Valdesi. Nella seconda metà del XVI secolo vengono
emanati due editti da Emanuele Filiberto per avviare una politica linguistica nei possedimenti
Sabaudi e il latino viene sostituito dai volgari locali anche nei documenti ufficiali; le Alpi sono
utilizzate come limite, per cui nei territori al di qua delle Alpi, considerati italiani, sarà il volgare
italiano a sostituire il latino, mentre nei territori transalpini verrà utilizzato il francese la Valle
D’Aosta venne riconosciuta come territorio intramontano e quindi poteva utilizzare come lingua
ufficiale il francese. Per quanto riguarda l’alta Val di Susa fino al 1713 con il trattato di Utrecht è
territorio francese. Nelle Valli Valdesi l’uso del francese è per lo più legato alla religione perché il
francese è lingua di culto a partire dal 1552 e lo rimarrà fino agli anni ’30 del ‘900, che furono
chiaramente e per ovvi motivi anni funesti per ogni tipo di minoranza.
• minoranze gallo-italiche al di fuori del territorio Gallo Italico.
- di tipo emiliano nei centri di Gombitelli (Camaiore, LU) e Sillano (LU) negli ultimi anni c’è stato
un ridimensionamento perché tutti i dialetti dell’Alta Val Garfagnana presentano caratteristiche
gallo-italiche
- di tipo ligure-piemontese in alcuni centri della Sicilia (ca. 60 mila abitanti), della Basilicata e della
Campania trasferimenti di epoca medievale per alleanze matrimoniali degli Angioini con nobili
del Monferrato.
• minoranze catalane, ad Alghero (SS) (ca. 20 mila parlanti)  insediamento di cui non
conosciamo la data d’inizio. La presenza catalana è dovuta a Pietro D’Aragona che, intorno alla
metà del XIV secolo, attuò una politica di ripopolamento (1354), questo perché la popolazione
locale era ostile al dominio spagnolo (Sardi e Genovesi) e per questo furono cacciati.
• giudeo-italiane (ca. 35 mila persone di confessione israelitica) è una varietà che consiste nel
dialetto cui sono mischiati elementi lessicali ebraici. Se ne trovano esempi nella letteratura di
Primo Levi.
•liguri di Sardegna a Carloforte e Calasetta, in provincia di Cagliari: insediamento di cui si conosce
perfettamente la data, poiché si tratta di pescatori di coralli proveniente dalla Liguria, emigrati
nell’isola tunisina di Tabarca per esigenze lavorative e infine accorsi in Sardegna a seguito di un
bando emanato da Carlo Emanuele III nel 1738 per ripopolare i possedimenti acquisiti nel 1720.
MINORANZE NON NEOLATINE
•Germaniche (alto-tedesche):
– alemanniche («walser») in alcuni centri del Piemonte (nelle province di Verbania e Vercelli) e
della Valle d’Aosta. Centri come Formazza, Rimella, Macugnaga in Piemonte.  coloni giunti nel
Medioevo come dissodatori di terreni, chiamati dai territori nordici dai signori locali. Walser è un
nome etnico che dignifica “vallesano” cioè “proveniente dal Vallese Svizzero”
– bavaresi: 1) cimbre nei cosiddetti Tredici Comuni Veronesi e Sette Comuni Vicentini, con
un’appendice a Luserna (TN) oggi in realtà la presenza del dialetto cimbro si è notevolmente
ridotta ai soli 3 centri di Giazza (VE) e Roana e Rotzo (VI). Il nome deriva dalla falsa credenza
secondo la quale questa minoranza discenderebbe dal popolo dei cimbri sconfitto da Caio Mario 2)
mòchene in Val Férsina (TN) moken = fare, probabilmente è un verbo usato talmente spesso da
aver dato il nome a tale ML 3) sudtirolesi e tedesche in Alto Adige. Si tratta della minoranza di
origine germanica più estesa, numerosa e tutelata in Alto Adige la maggioranza dei parlanti è
costituita da germanofoni e vige un regime di parità istituzionale tra Italiano e Tedesco fin dagli
accordi De Gasperi-Gruber. In realtà il tedesco standard è molto poco parlato, mentre sono molto
usati i dialetti sudtirolesi locali, similmente alla Val D’Aosta, dove in realtà è parlato di più il
dialetto che il francese; è una situazione paradossale perché a essere protetto istituzionalmente è
il tedesco standard e non il dialetto, realmente parlato 4) carinziane, in alcune località della
provincia di UD (Sauris e Timau) e a Sappada in provincia di Belluno sono spesso affiancati ai
dialetti sloveni.
Stime numeriche: ca. 290 mila parlanti per i dialetti sudtirolesi e il tedesco in Alto Adige; ca. 10
mila parlanti per tutte le altre varietà.
•slave:
– slovene, lungo la fascia di confine delle province di UD, GO e TS (ca. 90 mila) ovviamente
queste minoranze si trovano al confine con la Slovenia e si tratta di insediamenti rurali sloveni
presenti fin dal Medioevo, di insediamenti urbani più recenti (‘800). Lo sloveno gode di una tutela
ufficiale, similmente al tedesco e al francese, a Gorizia e a Trieste, dopo degli accordi stipulati tra
lo Stato italiano e Tito. La “Benecija” è una fascia di territorio nel quale gli sloveni “sono sempre
rimasti marginali rispetto al particolare sviluppo culturale e linguistico della Slovenia vera e
propria” per questa ragione “le loro parlate hanno conservato uno schietto carattere dialettale e
no sono state inserite nella cornice degli accordi diplomatici”
– croate (slavisane), in tre comuni della provincia di Campobasso (ca. 2 mila parlanti), il cui
popolamento, a opera di colonie sarebbe avvenuto nel secolo XV.
• albanesi (arbëresh), in una cinquantina di centri sparsi nel centro-sud (Abruzzo, Molise,
Campania, Puglia, Basilicata, Calabria) e in Sicilia (ca. 80 mila parlanti; Berruto) si tratta per molti
casi di minoranze islamiche albanesi, che per sfuggire alla persecuzione si trasferirono in Italia.
L’ultima colonia fu quella di Villa Badessa (Pescara), della cui fondazione si conosce anche la data:
1744, ma oggi la comunità albanese si è estinta, anche se la popolazione continua a praticare il
culto cristiano-bizantino. Spesso gli albanesi venivano denominati greci dove fondavano degli
insediamenti; è il caso della città di “Greci” in Basilica e “Piana dei Greci”, poi divenuta “Piana degli
Albanesi.
• greche (grecàniche), in pochi centri della provincia di LE e RC (ca. 12 mila parlanti) Rohlfs
sostiene un’origine megaloellenica, ossia si tratterebbe di discendenti diretti degli abitanti della
Magna Grecia, mentre la maggioranza degli studiosi ritiene che si tratti di colonie bizantine
• romanì o romanès (ca. 120 mila parlanti; Berruto) unici ad impiegare attivamente il
piemontese sono i sinti che parlano una varietà torinese con influenze dal monferrino come per
esempio il plurale femminile in -i x es. le femmine le fumne i fimni
MINORANZE LINGUISTICHE: ALTRI CRITERI DI CLASSIFICAZIONE
Il criterio genealogico è soltanto uno dei possibili criteri di classificazione delle ML. Un altro criterio
è quello dell’autoctonia vs. alloctonia, che porta a distinguere, rispettivamente, tra le ML da
sempre presenti sul territorio e le ML che si sono insediate in un certo luogo in séguito ad un
trasferimento, più o meno recente. Toso utilizza, «in forma incrociata, categorie sociolinguistiche e
geolinguistiche», identificando le seguenti tipologie di minoranza:
– lingue delle minoranze nazionali: francese, tedesco, sloveno possiedono un legame con una
lingua tetto fuori d’Italia
– lingue regionali: ladino, friulano, sardo non possiedono legame con una lingua tetto fuori
d’Italia
– penisole linguistiche: francoprovenzale, occitano propaggini che continuano, al di qua dei
confini politici italiani, un’identica situazione linguistica
– colonie linguistiche (isole linguistiche): greco, gallo-italico nel Meridione e in Sardegna, gallo-
romanzo nel Meridione, dialetti germanici, catalano, albanese, croato
– varietà non territorializzate/ varietà diffuse o migranti: romanì, giudeo-italiano
LEZIONE XVI
MINORANZE LINGUISTICHE: ASPETTI LEGISLATIVI
L’Art. 6 della Costituzione recita:
«La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche»
Ci sono voluti però più di 50 anni prima che questo principio trovasse un’applicazione legislativa,
che è arrivata con la legge 15 dicembre 1999, n. 482, «Norme in materia di tutela delle minoranze
linguistiche storiche». La 482/99 è stata oggetto di numerose critiche, per il carattere arbitrario ed
ambiguo di alcune formulazioni e per l’esclusione di alcune minoranze dal quadro di tutela:
• Art. 1: «La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano»
• Art. 2: «In attuazione dell'articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti
dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle
popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il
francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo»  le lingue tutelate e
riconosciute come ML sono 12, divise in 2 sottogruppi; molti linguisti ha tentato un’esegesi di
questa dicotomia, ma senza buoni risultati
•Art. 3: «1. La delimitazione dell'ambito territoriale e subcomunale in cui si applicano le
disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche previste dalla presente legge è adottata
dal consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei
cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri
comunali dei medesimi comuni. 2. Nel caso in cui non sussista alcuna delle due condizioni di cui al
comma 1 e qualora sul territorio comunale insista comunque una minoranza linguistica ricompresa
nell'elenco di cui all'articolo 2, il procedimento inizia qualora si pronunci favorevolmente la
popolazione residente, attraverso apposita consultazione promossa dai soggetti aventi titolo e con
le modalità previste dai rispettivi statuti e regolamenti comunali»  solo il comune decide, non
esperti del settore.
•Art. 4: «1. Nelle scuole materne dei comuni di cui all'articolo 3, l'educazione linguistica prevede,
accanto all'uso della lingua italiana, anche l'uso della lingua della minoranza per lo svolgimento
delle attività educative. Nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie di primo grado è previsto
l'uso anche della lingua della minoranza come strumento di insegnamento»  lingua di minoranza
non solo come lingua di studio, ma anche come lingua veicolare. Ci sono pochi esempi di
attuazione, anche perché spesso mancano persone con una competenza tale da poter insegnare.
• Art. 9: «1. […] è consentito, negli uffici delle amministrazioni pubbliche, l'uso orale e scritto della
lingua ammessa a tutela. Dall'applicazione del presente comma sono escluse le forze armate e le
forze di polizia dello Stato»  LM nella pubblica amministrazione, ma in realtà il decreto attuativo
della legge garantisce la validità giuridica del documento solo se tale documento è redatto in
entrambe le lingue.
Tutti questi articoli, inoltre, presuppongono l’esistenza di una varietà standard di dialetto, ma è un
presupposto non realistico.
Abbastanza curiosamente sono escluse dal quadro di tutela nazionale le eteroglossie interne (=
quando un dialetto è una minoranza in mezzo a un altro dialetto dominante, come l’occitano nel
piemontese) e le minoranze non territorializzate. Non è chiara la motivazione di tale esclusione:
forse per evitare che si creasse una catena di richieste di tutela da altre realtà italoromanze.

Sociolinguistica
COMUNITÀ, REPERTORIO, VARIETÀ
•Il concetto di comunità linguistica è un concetto di difficile definizione; spesso in sociolinguistica
concetti fondamentali sono mal definiti. La comunità linguistica è costituita da «un insieme di
persone, di estensione indeterminata, che condivid[o]no l’accesso a un insieme di varietà di lingua
e che s[o]no unite da una qualche forma di aggregazione socio-politica» -Berruto
•Il repertorio linguistico rappresenta la controparte, in termine di mezzi linguistici, della nozione di
comunità linguistica, ovvero «l’insieme delle risorse linguistiche possedute dai membri di una
comunità linguistica, […] la somma di varietà di una lingua o di più lingue impiegate presso una
certa comunità sociale»
•Per varietà si intende «un insieme di forme linguistiche (lessicali, morfologiche, sintattiche,
foniche, ecc.) riconoscibile, e riconosciuto in quanto tale, dai parlanti». Possiamo dunque
affermare che il repertorio linguistico medio della comunità linguistica italiana è formato da due
sistemi, l’italiano e il dialetto, all’interno dei quali è possibile distinguere una serie di varietà.
Varietà è un termine che si presta solitamente a due usi diversi: 1) termine neutro per indicare
tanto una lingua quanto un dialetto 2) termine tecnico che indica una serie di forme/di tratti
linguistici all’interno di uno stesso sistema linguistico.
VARIETÀ DELL’ITALIANO
Le varietà della lingua possono essere classificate in base a quattro parametri:
– in base al parametro «spazio», avremo le varietà geografiche o diatopiche, legate, appunto, alla
differenziazione geografica: ad es., le varie manifestazioni dell’it. Regionale (!NO DIALETTI!)
– in base al parametro «società», avremo le varietà sociali o diastratiche, connesse con fattori
quali lo strato sociale, l’età, il sesso: ad es., l’it. Popolare
– in base al parametro «funzione», avremo le varietà contestuali o diafasiche, relative cioè al
contesto comunicativo o all’argomento: ad es., it. formale aulico e l’it. tecnico-scientifico
– In base al parametro «mezzo», avremo le varietà diamesiche, condizionate cioè dal canale, orale
o scritto, usato per comunicare: ad es., it. parlato colloquiale
Berruto osserva nondimeno che, nella situazione italiana, “la differenziazione geografica ha un
ruolo ‘primitivo’, a parte”
È importante il modello proposto da Eugenio Coserio: idea che la lingua possieda una sua propria
architettura giocata su vari assi di variazione: diafasica, diatopica, diacronica, diastratica. Da notare
nell’immagine sottostante che l’ellissi non è perfettamente al centro: il centro sociolinguistico è
diverso dal centro geometrico.  questo particolare spostamento verso l’alto deriva dalla
particolare storia sociolinguistica dell’Italia.
L’it. standard e l’it. neo-standard costituiscono il nucleo, il «centro sociolinguistico»,
dell’architettura dell’italiano contemporaneo. L’italiano standard è la lingua descritta e regolata
dai manuali di grammatica, priva, in linea teorica, di qualsivoglia marcatezza geografica o sociale.
In realtà, anche l’italiano standard non è esente da marcatezza geografica (è pur sempre un
«fiorentino emendato» (Galli de’ Paratesi) e sociale (è usato da parlanti colti, appartenenti ad uno
strato sociale medio-alto). Si tratta di una varietà scarsamente impiegata nel parlato, se non in
contesti altamente formali o presso classi specifiche di utenti. Con «neo-standard» si intende la
varietà di italiano comunemente usata dalle persone colte, che però, a differenza dell’it. standard,
accoglie forme e costrutti che, fino a tempi recenti, non venivano considerate parte della «buona
lingua». Il «neo-standard» è il frutto di un processo di ristandardizzazione nel quale è avvenuta la
«risalita» di alcuni tratti di origine regionale, o più Alcune
LEZIONE XVII
ITALIANO NEO STANDARD
caratteristiche dell’italiano neo-standard (dalla lista di Lo Duc):
– Lui, lei, loro in posizione di soggetto: Domani loro andranno al cinema
– uso della forma dativale gli al posto di loro (a loro): Gli (= a loro) ho detto che non saremmo
andati al cinema
– partitivo preceduto da preposizione: Vado al cinema con degli amici
– dislocazioni a destra e a sinistra: L’ho già visto, quel film e Quel film l’ho già visto; genericamente
substandard (cfr. le etichette quasi sinonimiche di «neo-standard» e «italiano regionale colto
medio» in Berruto)
frasi scisse: Sono io che ho visto il film
– c’è presentativo: C’è un film che non ho ancora visto
– uso pleonastico di particelle pronominali: Di film non ne ho più visti
– concordanze ad sensum: Ci sono una decina di film da vedere; – uso dell’indicativo al posto del
congiuntivo in alcune subordinate: Credo che quel film deve essere premiato
– verbi in forma pronominale, per indicare partecipazione affettiva: Mi sono visto un bel film
“Che fosse emozionato, diamine, lo si può anche capire. Che con quel completino scuro da ometto
perda parecchio appeal, come direbbe lui, è anche scontato. I pantaloni «a cica», d’altra parte, e la
camicia bianca di Scervino sono per Renzi come una seconda pelle, comunque la più riconoscibile
ed efficace uniforme. Si narra che Craxi, nel 1979, salì sul Colle per ricevere l’incarico in jeans e
Pertini lo cacciò via. Dunque non è che Renzi potesse presentarsi nel modo in cui milioni di italiani
hanno ormai imparato a identificarlo.” (fonte: La Repubblica, 18 febbraio 2014)
ITALIANO REGIONALE COLTO MEDIO
Cerruti (2009) ha rilevato come alcuni tratti dell’italiano regionale piemontese siano ormai diffusi
presso ogni categoria di parlante, indipendentemente dal grado di istruzione o dall’appartenenza
ad uno strato sociale specifico; ricordiamo, fra gli altri, l’uso:
– di alcuni sintagmi avverbiali o avverbi: solo più ‘ancora soltanto, ormai soltanto’, già (come
marca pragmatica di ripetizione: Come si chiama già il tuo amico?)
– di pronomi non riflessivi di III e di VI persona con valore riflessivo: così il deputato offende lui e il
partito
– di possessivo + variante affettiva di singenionimo, senza articolo det.: sua mamma
– delle perifrasi verbali «essere qui/lì che + verbo flesso», «fare che + infinito» e «non stare (lì) a +
infinito»: ero lì che mangiavo, facciamo che andare, non stare lì a pensarci
La variazione diafasica dipende sia dai rapporti tra i partecipanti a una certa situazione
comunicativa e sia dal carattere della situazione comunicativa. Essa si realizza attraverso registri e
sottocodici: i primi “sono varietà diafasiche dipendenti primariamente dal carattere
dell’interazione e dal ruolo reciproco assunto da parlante (o scrivente) e destinatario”; i secondi,
detti anche lingue speciali, “sono varietà diafasiche dipendenti primariamente dall’argomento del
discorso e dall’ambito esperienziale di riferimento”. I sottocodici dipendono soprattutto
dall’argomento e dal gruppo di riferimento, sono delle lingue speciali che utilizzano un’apposita
nomenclatura o dei gerghi.
REGISTRI ALTI O FORMALI
•A livello fonologico: bassa velocità di eloquio e maggiore accuratezza nella pronuncia

•a livello morfosintattico e testuale: massima esplicitezza verbale, pianificazione accurata del


testo, uso frequenti di connettivi, sintassi elaborata (ipotattica), scarsi riferimenti al contesto in cui
ha luogo lo scambi
•a livello lessicale: variazione spinta e tendenza alla verbosità, preferenza per termini specifici o
aulici, alto impiego di parole complesse (derivate o composte)
“Nel prendere la parola in questa solenne adunanza, che ancora una volta e non senza difficoltà
abbiamo voluto celebrare per antica e irrinunciabile tradizione in Castel Capuano, luogo simbolo
della giustizia napoletana e sede dell’omonima Fondazione, alla quale tanti di noi hanno prestato il
loro impegno, rivolgo a Voi tutti un deferente saluto, a cominciare dal Capo dello Stato, on. Giorgio
Napolitano, e per la loro ambita partecipazione a: Sua Eminenza il Cardinale Crescenzio Sepe; il
rappresentante del CSM; il rappresentante del Ministero della Giustizia; le Autorità Civili e Militari;
i rappresentanti dell’Avvocatura e del mondo accademico; i Capi delle altre Magistrature e degli
Uffici giudiziari del Distretto; Il Direttore Generale dell’Ufficio per la gestione degli uffici giudiziari di
Napoli e, infine, a tutti i magistrati, gli avvocati e i collaboratori amministrativi che con la loro
preziosa disponibilità corrispondono al disegno di miglioramento del servizio giustizia in questa
stagione di crisi. […]”
-Dalla relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 nel distretto della Corte d’appello di
Napoli
REGISTRI BASSI O INFORMALI
•A livello fonologico: alta velocità di eloquio e scarsa accuratezza nella pronuncia, con una
tendenza al troncamento, all’aferesi, alla semplificazione di nessi «difficili», alla fusione di
segmenti; emersione di tratti regionali, più o meno marcati;
•a livello morfosintattico e testuale: ricorso all’implicito, scarsa pianificazione del testo, scarso uso
di connettivi, sintassi «spezzata» (frasi brevi e spesso ellittiche)
•a livello lessicale: scarsa variazione lessicale, uso frequente di parole abbreviate, uso frequente di
lessico connotato in senso colloquiale
“[…] anche di politica se-e se ne parla a scuola… è-e così per puro miracolo no… non è che ti diano
un’idea… che puoi dire-e o io scelgo questo, scelgo l’altro… faccio qualcosa di nuovo… non accetto
niente-e le cose passano… no così-i… vai avanti… e poi vedrai… magari qualcosa succede no… non
so… poi se si guardano gli hippies per esempio no… cioè han voluto cambiare tutta la società… han
voluto… vivere in un modo semplice … ma poi adesso come-e adesso… sono quasi sfumati cioè…
ehm… non so… il commercio ha subito-o o si-i sono inventati i blue jeans… hanno messo subito dei
blue jeans… magari-i migliori… magari fatti già preparati… che sembrano brutti… poi ci hanno
attaccato il risvolto… poi ci hanno fatte-e tutte le cose possibili no […]”. Italiano informale
trascurato di un giovane parlante della Svizzera italiana (fonte: Berruto)
SOTTOCODICI
a) Le lingue speciali sono dei sottocodici veri e propri, dotati di un lessico particolare (ovvero un
vocabolario tecnico, detto nomenclatura) e possono manifestare tratti peculiari a livello di
morfosintassi e testualità. Sobrero propone di denominare le lingue speciali in senso stretto lingue
specialistiche, perché concernono discipline ad altro grado di specializzazione (come la fisica,
l’informatica, la linguistica)
b) i gerghi hanno un lessico particolare, “con propri meccanismi semantici e di formazione (e
deformazione) delle parole ma senza il carattere di nomenclatura, e sono legati non a sfere di
argomenti ed aree extralinguisticamente ben definite, ma piuttosto a gruppi o cerchie di utenti”;
essi sono, nel contempo, varietà diafasiche e diastratiche. Un procedimento tipico del gergo è
quello di aggiungere sillabe per celare il significato originale di una parola x es. fuorarma per fuori
“[...] Ma quel dritto da quel treppo / Batte il tacco per fuorarma / Caccia presto da fiancarma / Lo
taccagno togo e fier / Dal vegliante scarpinato / Per la lunga stesa batte / Quando a un tratto un
pisto imbatte / Che lo vuole inciampicar / Fischia al pisto raccagnate / Senza punto baccagliare / E
lo manda a puleggiare / In casanza del dolor […]”. (Ma quel malvivente da quell’assembramento /
Se ne scappa fuori / Tira fuori presto dal fianco / Il coltello bello e fiero / Dal teatro scappato / Per
la lunga strada se ne va / Quando a un tratto in un prete si imbatte / Che lo vuole ostacolare / Dà
al prete coltellate / Senza affatto parlare / E lo manda a dormire / In ospedale) Gergo camorristico
(fonte: Ernesto Ferrero, I gerghi della malavita dal Cinquecento a oggi, Mondadori, Milano, 1972,
p. 318)
“La variazione diastratica è quella correlante con lo strato o classe sociale dei parlanti. Nella
situazione italiana, fattori assai importanti per determinare l’appartenenza a classi sociali sono il
grado di istruzione e i modelli culturali e comportamentali di riferimento” -Berruto
LEZIONE XVIII
ITALIANO POPOLARE
La varietà sociale per eccellenza dell’italiano è il cosiddetto italiano popolare. Più precisamente,
l’italiano popolare è “quell’insieme di usi frequentemente ricorrenti nel parlare e (quando sia il
caso) nello scrivere di persone non istruite e che per lo più nella vita quotidiana usano il dialetto,
caratterizzati da numerose devianze rispetto a quanto previsto dall’italiano standard normativo”.
In linea generale un italiano popolare è tanto più popolare (vale a dire marcato in diastratia)
quanto più è caratterizzato da peculiarità locali e interferenza dal dialetto (vale a dire marcato in
diatopia).
•A livello morfologico e morfosintattico: uso preponderante di verbi all’indicativo, regolarizzazione
di forme verbali irregolari, notevole frammentazione sintattica (impiego assai scarso di
subordinate), rafforzamento dei pronomi mediante ridondanza, uso insistito del che polivalente
• a livello lessicale: reinterpretazione di parole difficili, uso di genericismi
“Preg. Rettore Dell'Università Agli Studi di [...], sono il Sig. [... ...] concorrente per il Concorso di
Bidelli presso codesto Università spedito il 15-2-1983, tutta la mia documentazione, con Racc. N.
8649 - essendo conseguito il Ɵtolo di Studio il Diploma di 3ˆ Media, che quì allega, con un
certificato di nascita dell'altra figlia [... ...] - come giustifica il certificato di nascita, ora sono Tre
figli e moglie a carico, che Le invio affinché possa rinnovare il mio punteggio. Sig. Rettore, pur non
avendo lonore, ed il piacere di conoscerLa di persona, La prego nel nome del Signore IDDIO, se mi
potrebbe aiutare, sono nelle pessime condizioni, morale e materiale, perché disoccupato da oltre 8
mesi, ed Ella mi potrebbe capire e considerare cosa vuol dire stare al verde per 8 mesi,
disoccupato, con una famiglia di ben 5 persone, ai tempi di oggi….!!! si figura che mia moglia è
andata a […..] all’intervento chirurgo per un parto male…!!!! solo IDDIO ci ha assistiti…!! Anzi Lei
possa anche fare degli accertamenti, ed informazioni, sulle mie misere condizioni economiche
pessime in cui vivo… non ho altre risorse, sono un onesto operaio, sarò molto riconoscente se Ella
mi aiutasse, glie Le dico in quattrocchi, e La chiedo perdono se parlo in questo tono: ma è la forza,
in cui mi trovo, Le ripeto che volessi che mi conoscessi per il motivo che ho detto di essere un
operaio onesto, e cittadino ottimo. Le chiedo una grazia quella di un aiuto, quì faccio il muratore
ma è tutto fermo da molto tempo il lavoro di muratura.”
Italiano popolare di area meridionale (lettera al Rettore di uno scrivente semicolto)
Analisi: riduzione del sistema delle desinenze, riduzione delle forme verbali (si figura);
eliminazione di morfemi finali (intervento chirurgo). Linguaggio arricchito dalle forme tipiche del
linguaggio burocratico, che di solito si condensano nelle prime righe: chi scrive le usa per
rimediare alle debolezze della propria competenza linguistica.
La variazione diastratica è correlata anche con il sesso e con la classe di età del parlante
• Nel parlato femminile è stata notata “un’alta ricorrenza di marche di cortesia e di formule di
esitazione e di attenuazione della forza delle affermazioni”  indagine per una tesi in cui in una
panetteria sono state registrate le frequenze dell’uso dell’imperfetto di cortesia.
• È stata poi osservata anche “una certa propensione all’eufemismo, specie nel lessico relativo alla
sfera sessuale e agli stati fisiologici della donna
• Le donne sembrano “più propense degli uomini, ceteris paribus, ad adottare le varianti
normative o dotate di maggior prestigio”
Quanto alla variabile «età», è stato molto studiato, negli ultimi 20 anni, il linguaggio giovanile (che
è spesso erroneamente assimilato ai gerghi; Berruto preferisce parlare di “varietà paragergali”)
• Il linguaggio giovanile è molto differenziato al suo interno ed è tipicamente transeunte; tra le
caratteristiche comuni: uso di intercalari frequenti, riscoperta di dialettismi, uso insistito di parole
o di espressioni «interdette», adozione di internazionalismi e di pseudo-forestierismi tra italiano
(standard) e dialetto. Spesso il linguaggio giovanile è stato associato ai gerghi, ma non è del tutto
corretto. Una caratteristica sono i neologismi destinati a tramontare molto presto e, nella
messaggistica, le abbreviazioni x es =PG sta per “Preso gaillo”, ossia “Infastidito”
• Il confine tra dialetto italianizzato e italiano dialettizzato è, in certe situazioni, davvero labile: – Y.
s-ië non comprasse o ggiornale non potesse sapere quello ch’avesse successo, presempio in altre
partë dell’Italia, dal mondë; però mi sembrë chennuj c’interessammë chiù dei probblema di fuora
casë che i probblema di casa nostrë
VARIETÀ DI DIALETTO
Il dialetto presenta, al suo interno, una notevolissima variabilità diatopica, ma una variabilità
diastratica e diafasica, oggi, assai limitata; il che è una diretta conseguenza del suo status di varietà
(in genere) poco o nulla standardizzata. Il dialetto regionale (o koinè regionale) è caratteristico
soltanto di alcune aree d’Italia (Piemonte e Veneto, e, almeno parzialmente, Liguria, Lombardia e
Campania). Si tratta di una varietà modellata sul dialetto del centro più prestigioso, solitamente il
capoluogo regionale: una varietà, dunque, urbana e più incline ad essere influenzata dall’italiano
di quanto non lo sia il dialetto rustico (che conserverà, per contro, le varianti più arcaiche). Sul
territorio italiano sono (o erano) presenti quattro tipologie di repertorio linguistico:
1) il bilinguismo sociale, ovvero «la situazione in cui due lingue chiaramente diverse ed entrambe
elaborate, potremmo dire due lingue di cultura, sono compresenti presso la comunità sociale ed
entrambe vengono usate, o possono venire usate, senza subordinazione funzionale, sia negli
impieghi scritti formali che nella conversazione informale, e i cui domini sono dunque in
sovrapposizione»; come italiano e francese in Valle d’Aosta (bilinguismo monocomunitario);
italiano e tedesco in Alto Adige (bilinguismo bicomunitario)
2) la diglossia, cioè la «compresenza di più lingue o varietà sociogeografiche diverse di lingua
socio-funzionalmente ben differenziate, […] usate dalla comunità parlante con specializzazione per
diverse funzioni»; nell’Ottocento, in varie regioni d’Italia, il rapporto tra italiano (A [= codice alto])
e dialetto italo-romanzo locale (B [= codice basso])
3) la dilalia, che si manifesta «nei repertori con lingua standard e dialetti sensibilmente
differenziati, con uso di entrambi nel parlato quotidiano e con sovrapposizione in alcuni domini»;
italiano (A) e dialetti italo-romanzi (B) oggi
4) Il bidialettismo, o polidialettismo, o dialettìa sociale, «in cui nel repertorio ci sono una varietà
standard e diverse varietà regionali e sociali, manca un grado relativamente alto di distanza ai
diversi livelli di analisi, la popolazione possiede con maggior o minore agio sia la varietà standard
sia la varietà regionale e sociale che le pertiene, anche se usa normalmente solo quest’ultima […]
nella conversazione quotidiana; la vicinanza strutturale impedisce una reale coscienza di
promozione di B come lingua alternativa, e favorisce la frequenza degli usi commisti di A e B»;
italiano e toscano, italiano e romanesco.
La commutazione di codice (o code-switching), in senso lato, «è il passaggio da una lingua all’altra
all’interno del medesimo discorso da parte di un parlante bilingue»:
– alternanza di codice: A (rivolto a una cliente): Eh, è un po’ caro, ma è bello. (rivolto alla moglie):
… [ˡzbasa ke ma'dama aj da faˡstidi] (italiano/piemontese; ‘abbassa [scil. il volume della radio] che
alla signora dà fastidio’)
– commutazione di codice stricto sensu: Ma l’hai visto? Io non l’ho mai vista una campagna
elettorale così, Questo oggi dicevamo con A. Neppure nel quarantotto, che era il dopoguerra, che
c’erano … che c’erano proprio umori tremendi. Mai si era verificato. N’àuʈɽa cosa t’ai ‘a cchièdiri,
G. Cambiamo discorso, io continuo a telefonare a M., perché è da Pasqua che le voglio fare gli
auguri, le cose. Perché non la trovo? (italiano/siciliano; ‘Un’altra cosa ti devo chiedere’) (Alfonzetti
1992: 102)
– enunciazione mistilingue (o code-mixing): a) […] anche la mia moglie [la lɛːz]
(italiano/bergamasco; ‘legge’) b) ma si s’occupazione d’urgenza chi este una fesseria mi l’ana dada
un annu (sardo/italiano; ‘ma se l’[…] che è […] me l’hanno data un anno’).
L’ultimo esempio, tuttavia, differisce dai precedenti, perché in esso l’italiano sembra colmare una
lacuna lessicale del dialetto. Non è del resto infrequente che al dialetto manchino i mezzi linguistici
per esprimere un certo concetto o per indicare un certo referente, attinenti a settori del lessico
estranei al suo normale ambito d’uso. Il dialetto, in tali frangenti, può reagire in tre modi: 1)
assumere la parola italiana così com’è (prestito non adattato); 2) conformare la parola italiana alle
proprie regole fono-morfologiche (prestito adattato); 3) riprodurre con i propri mezzi un significato
(calco semantico) oppure un composto, un sintagma o una costruzione italiani (calco
traduzione/strutturale). In un caso come nell’altro, siamo di fronte ad un fenomeno di
convergenza (o, per meglio dire, di advergenza) del dialetto nei confronti dell’italiano, che porta
all’italianizzazione del dialetto.
L’italianizzazione del dialetto non interessa soltanto il lessico, ma anche la Italianizzazione
lessicale:
– introduzione di termini italiani (in genere adattati) per indicare referenti sconosciuti al dialetto:
piem., lomb. [diriˡʤent] (< it. dirigente), emil. [suʧaˡlesta] (< it. socialista), piem. [telefuˡniŋ] (< it.
telefonino), gen. [fedeaˡliʒimo] (< it. federalismo)
– introduzione di termini italiani (in genere adattati) per indicare referenti per i quali il dialetto già
possiede dei termini: piem. [ˡsista] (< it. cesta) vs. [kaˡvaɲa], march. [ˡgomːa] (< it. gomma [per
cancellare]) vs. [skanʤiˡlːina], cal. [fidanˡʦatu] (< it. fidanzato) vs. [ˡtsitu], sardo [ˡnonna] (< it.
nonna) vs. [ˡjaja]
– sostituzione di termini locali specifici con un solo termine generico, calcato sull’italiano: il bol.
[pukˡten] ‘piccolo pezzo’ ha sostituito, ad es., tre termini dialettali specifici indicanti il pezzo di
salsiccia ([muˡrel]), di burro ([baˡlok]) o di carne ([trok])
Italianizzazione fonetica:
– introduzione di vocali protoniche a interrompere nessi consonantici estranei all’italiano: piem.
[dvenˡte] → [divenˡte] (cfr. it. diventare), emil. [zgumˡte] → [zgumiˡte] (cfr. it. sgomitare)
– eliminazione di foni non presenti in italiano: ven. rust. [ˡθiŋkwe] → [ˡtsiŋkwe] ‘cinque’, tor.
[kɑwd] → [kawd] ‘caldo’
– introduzione, sul modello dell’italiano, di nuove sequenze fonetiche: rom. [ˡkoro] → [ˡkorːo],
[koˡlomːa] → [koˡlomba], [ˡkarʦa] → [ˡkalʦa]
Italianizzazione morfosintattica: – introduzione, in alcuni dialetti gallo-italici, dell’elativo sintetico
in luogo dell’elativo analitico: mil. bu tant + Agg. → tant + agg. → multu + Agg. → Agg. + -issim; tor.
mutu ben + Agg. → Agg. + -issim (cfr. it. Agg + - issimo)

– cedimento diffuso, nell’area meridionale estrema, del tipo proposizionale mu/mi/u/ku + verbo
all’indicativo, in favore del tipo prep. + verbo all’infinito: ògghiu ku sàcciu (‘voglio sapere’, leƩ.
‘voglio che so’) → ògghiu a sapì

Appendice sui fenomeni che permettono di classificare i dialetti d’Italia


(Tratta dal cap. III di fondamenti di dialettologia)

Fonetica:
• Vocalismo:
▪ Sistemi vocalici: in generale, in tutti i dialetti d’Italia, si è passati da un sistema quantitativo a
dieci vocali, a un sistema qualitativo a sette o cinque vocali. In latino la lunghezza della vocale
aveva pertinenza fonologia, mentre era assai meno importante la maggiore o minore apertura che
poteva esser conferita alle vocali. Dal sistema latino di giunge poi al sistema vocalico panromanzo,
alla base dei sistemi vocalici delle parlate neolatine (consiste nello schema vocalico fiorentino
privato dei dittonghi in sillaba libera).
I dialetti toscani sviluppano un’ulteriore distinzione per la E breve e O breve, che, in sillaba aperta,
dittongano.
Il sistema vocalico del siciliano è pentavocalico (anche in quelli salentini e calabresi estremi): I
lunga, I breve ed E lunga> i E breve> e aperta A lunga e A breve>a O breve> o aperta O lunga, U
breve, U lunga> u
Anche il sardo ha un sistema pentavocalico (logudorese). Ogni coppia lunga-breve delle vocali
latine neutralizza la lunghezza vocalica
Esempi di vocalismo asimmetrico sono quello romeno(esavocalico) e quello lucano
(pentavocalico). L’asimmetria del dialetto lucano consiste nello sviluppo differenziato sull’asse
palatale rispetto a quello velare.
Il sistema eptavocalico galloitalico (del torinese e del piemontese occidentale): I lunga> i; I breve E
lunga>ɛj; E breve>e; A lunga e A breve>a; O breve>oe; O lunga U breve>u; U lunga>y
▪ Anafonesi: consiste nella chiusura della vocale tonica [e]>[i] davanti alle consonanti laterali o
nasali palatali [ʎ] [ɲ]. Consiste anche della chiusura di [e]>[i] ed [o]<[u] davanti a consonante
nasale seguita da velare sorda [k] o sonora [g]. x es. FAMĬLIA>*faméglia ([e]+[ ʎ])> famiglia;
LĬNGUA> *léngua ([e]+[n]+[g])> lingua. È un fenomeno tipico del fiorentino.
▪ Dileguo/caduta delle vocali atone: il dileguo vocalico prende il nome di aferesi se la vocale che
cade si trova in posizione iniziale di parola; sincope se cade una vocale all’interno di parola;
apocope se la vocale che cade è in posizione finale. In linea di massima possiamo dire che i dialetti
settentrionali conoscono il dileguo vocalico in misura notevolmente superiore a quelli meridionali,
e che questi a loro volta lo conoscono di più dei dialetti toscani. Nel settentrione le vocali finali
conoscono vari esiti: la [a] non cade mai; [e] [i] cadono in quasi tutti i dialetti piemontese, emiliano
romagnoli, lombardi, ma non in ligure e veneto. La [o] anche cade quasi sempre, anche nel veneto
dopo consonante nasale semplice. I dialetti meridionali conoscono quella forma debole di caduta
chiamata “distinzione a indistinta”/”ammutinamento”. Non vale per i dialetti meridionali estremi,
in cui le vocali finali rimangono bene salde.
▪ Epentesi vocalica: il dileguo delle vocali atone porta a incontri di consonanti non previsti dal
sistema fonologico del dialetto interessato, provocando epentesi vocalica
▪ Metafonia: mutamento di timbro della vocale tonica di una parola, condizionato dalla presenza, a
fine parola, di una vocale chiusa. La riduzione a indistinta della vocale finale provoca un severo
condizionamento alla possibilità di riconoscere le categorie grammaticali di numero e di genere:
spesso le marche morfologiche che veicolano significati importanti come il genere e il numero
sono state salvaguardate per mezzo della metafonia. I dialetti più colpiti da metafonia sono il
lugudoro, in Sardegna, dove si trovano sia mutamento metafonico della vocale tonica e
permanenza della vocale finale; aree come quella siciliana e salentina in cui la metafonia si
potrebbe interpretare come una difesa preventiva, dovuta soprattutto alla tendenza di -e ed -i
finali a fondersi in -i. pedi per piede e pedi per piedi (singolare vs plurale); aree settentrionali in cui
la vocale finale è caduta, ma la metafonia agisce solo sulle forme che avevano -i finale e non su
quelle con -u viene così a costituirsi una solida marca di numero x es kwest questo kwist questi
in lombardo; in molti dialetti meridionali non estremi si indeboliscono non soltanto le vocali finali,
ma anche le atone intermedie e talvolta l’indebolimento colpisce anche la vocale tonica, che si
sottopone allora a dittongazioni di vario tipo, dette anche frangimenti.
▪ Palatalizzazione: è una tendenza all’avanzamento del punto di articolazione di taluni suoni e può
interessare sia le vocali sia le consonanti. Fin da Ascoli, la palatalizzazione delle vocali è stata
identificata come “spia acutissima” del sostrato celtico. Le vocali che maggiormente possono
essere coinvolte da questo processo sono A breve e lunga latina e U lunga latina. La
palatalizzazione di U avviene indipendentemente dalla posizione tonica o atona e da U si passa a
[y]. Si pensa sia dovuta al sostrato celtico perché riguarda zone come Piemonte, Lombardia, Liguria
e la fascia appenninica fino ai dialetti dolomitici, ma non il Veneto e l’Emilia. La palatalizzazione di
A riguarda soprattutto i dialetti “gallo-italici-ladini” e si realizza trasformando la A in [ɛ], [e], [i] o in
dittongo palatale. In Piemonte si ha la palatalizzazione incondizionata per la [a] della desinenza
dell’infinito presente della prima coniugazione; in area francoprovenzale, però, la palatalizzazione
avviene solo in presenza di suono palatale. Dal Piemonte meridionale iniziano le condizioni
emiliane, ossia la [a] palatalizza regolarmente in sillaba aperta/ quando è seguita da un nesso
consonantico comprendente una liquida [r] o [l] davanti ad altra consonante. In Emilia Romangna
inoltre si ha palatalizzazione anche davanti a nasale.
▪ Armonia vocalica: consiste di una sorta di assimilazione a distanza in cui la vocale tonica
condiziona l’atona finale. Così accade per esempio in alcuni dialetti piemontesi a confine tra area
occidentale, dove la vocale finale dei plurali femminili è e], e l’area orientale, dove tale vocale è [i].
in questi dialetti si ha la [e] o la [i] a seconda della vocale tonica.
▪ Dittongamento: il più celebre è sicuramente quello toscano, ma esistono casi di dittongamento
spontaneo anche a partire da vocali lunghe come quelli che abbiamo chiamato frangimenti.
▪ Epìtesi: detta anche paragoge, consiste nell’aggiunta di una vocale a finale di parola. Fenomeno
che tocca le varietà dialettali che non ammettono finale consonantica di parola, ossia tutti i dialetti
centro-meridionale e soprattutto il toscano. Addirittura, in alcuni dialetti toscani si ha epitesi
sillabica -ne in alcune forme monosillabiche (none, sine, tene etc). anche il sardo tende a far uso di
vocali paragogiche, nonostante la finale consonantica sia ammessa per conservazione di -s finale;
la vocale che si aggiunge solitamente ha lo stesso timbro della vocale che precede la consonante
finale.
• Consonantismo:
▪ Assimilazione: dati due foni più o meno vicini, si definisce assimilazione, la tendenza ad adattare
in modo completo o parziale quello che precede a quello che segue, o viceversa. Il fenomeno è di
vastissima portata e investe più o meno ogni lingua essendo legato a principi di economia
linguistica. Esistono diversi tipi di assimilazione:
1) Per contatto quando le articolazioni interessate sono tra loro adiacenti. X es. fricativa
dentale (sibilante) davanti a consonante occlusiva, che in italiano si realizza come sorda o
sonora a seconda che preceda consonante sorda o sonora x es spalare (sibilante+occlusiva
sorda)> [spalare] vs sbagliare (sibilante+ occlusiva sonora)> [zba ʎ:are]
2) Assimilazione a distanza quando le articolazioni interessate NON sono tra loro adiacenti;
tipici i casi della metafonia o dell’armonia vocalica
3) Assimilazione totale quando la consonante oggetto di mutamento viene a identificarsi
completamente con la consonante modello
4) Assimilazione parziale solo alcuni dei tratti del fono assimilato si adattano a quelli del
fono assimilante, come nel caso [skolare] vs [zgolare], dove la fricativa dentale non
modifica la propria modalità combinatoria di fricativa, né il proprio luogo di articolazione
(dentale), ma si adegua al grado di sonorità della consonante seguente.
5) Assimilazione progressiva si attua quando la consonante che subisce assimilazione viene
dopo, come nel caso dei dialetti meridionali di assimilazione del nesso -ND- a -NN-
6) Assimilazione regressiva la consonante-bersaglio è quella che precede come octo>otto
-CT- nei dialetti centro-meridionali e in quelli veneti ed emiliano-romagnoli si osserva
un’assimilazione regressiva totale in -TT-; poi soggetta a scempiamento nei dialetti veneti e
romagnoli. Si ha invece assimilazione totale progressiva nei nessi -ND-, -MB-, -LD- nei dialetti
dell’Italia meridionale.
▪ Palatalizzazione: può abbinarsi spesso con l’assimilazione nel caso in cui il fono modello sia una
palatale. Il latino conosceva soltanto una pronuncia velare delle occlusive segnate C e G. le
risposte dei dialetti d’Italia sono le più svariate: il sardo conserva tale pronuncia; i dialetti
meridionali danno un’affricata palatale; i dialetti toscani danno una fricativa palatoalveolare;
l’Italia settentrionale dà affricate/fricative alveolari; i dialetti liguri e veneziani danno l’assibilazione
completa (uso di s e di z).
Evoluzione dei gruppi consonantici latini -CL-, -GL, -PL, -BL, -FL a inizio di parola si conservano in
Sardegna, Abruzzo, alcuni patois occitani e francoprovenzali del Piemonte occidentale, di alcune
parlate ladine e quelle friulane. In Toscana si ha una palatalizzazione lieve, ma costante ed
omogenea: l si palatalizza e si vocalizza CLAMARE> chiamare PLATEA> piazza etc. in Piemonte,
Lombardia ed Emilia la palatalizzazione è quella toscana, eccetto per CL e GL. I dialetti meridionali
presentano una tendenza al conguagliare gli esiti dei gruppi in velare con quelli con consonante
labiale: CL e GL si sviluppano in kj- e lj, Pl si identifica con CL, BL si avvicina a GL e FL giunge a ʃ. In
ligure concorda con i dialetti meridionali
▪ Lenizione: consiste nell’indebolimento, soprattutto in posizione intervocalica, di un suono
consonantico. I casi più caratteristici nelle lingue neolatine occidentali sono costituiti dalla
sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, quindi dalla loro spirantizzazione e infine della
loro caduta. Una sorta di norma generale consiste nel dire che i dialetti centro-meridionali non
attuano sonorizzazione, quelli settentrionali la attuano e quelli toscani mostrano notevoli
oscillazioni (è probabile che le forme sonorizzate in toscana siano dovute a influssi settentrionali). I
dialetti veneti e lombardi prediligono la sonorizzazione, il piemontese e il ligure il grado zero.
▪ Gorgia Toscana: un caso particolare di lenizione consiste nella spirantizzazione delle
consonanti occlusive sorde e soprattutto della velare, in posizione intervocalica, sia all’interno di
parola sia in fonosintassi.
▪ Scempiamento delle geminate: abbastanza isolato e indipendente lo scempiamento della doppia
-r tipicamente romano. A parte questo caso è un fenomeno tipicamente settentrionale; in
particolare dell’Italia Nord-Orientale.
▪ Rotacismo: sull’Appennino tra Piemonte, Liguria ed Emilia ed è collegabile con la lenizione ligure
e veneziana delle laterali, che porta dalla dorsolaterale [l] alla apicolaterale [r]. Un altro tipo di
rotacismo è proprio di molte aree meridionali, dal napoletano al molisano all’abruzzese orientale
dove la [d] passa a [r] x es PEDE(M)> [pirə]. Un terzo nucleo di rotacizzazione è individuabile
presso i parlanti albanesi in Italia, dove si rotacizza la [n] intervocalica infatti la loro parlata è detta
arberesh (<albanese).
▪ Retroflessione o cacuminalizzazione: le consonanti interessate al fenomeno sono [l, r, t, d, n] e il
fenomeno interessa i dialetti meridionali estremi, la Sardegna e alcune zone della Toscana
(Lunigiana, Garfagnana). Mentre nei primi la retroflessione dà sempre una consonante rafforzata,
in Toscana la cacuminale è scempia. Esempi sono la tipica pronuncia di bello beddu.
▪ Betacismo: è un fenomeno tipico dei dialetti meridionali e in quelli sardi e si tratta del passaggio
della fricativa labiodentale sonora [v] alla occlusiva bilabiale corrispondente [b]; il mutamento
avviene soprattutto in posizione iniziale
▪ Labializzazione: il processo delle consonanti labiovelari [k,g] dell’articolazione secondaria labiale,
a scapito di quella velare. Gli esempi più evidenti del fenomeno sono osservabili nei dialetti sardi
EQUA>abba LINGUA>limba etc
Morfologia
▪ Articolo determinativo: l’articolo determinativo deriva da IPSE nel sardo, mentre nelle restanti
regioni sono presenti i succedanei i ILLE.
Maschile singolare: 1) galloitalici e venti, in accordo con la Toscana, sviluppano allomorfi derivanti
dalla prima sillaba (-il): el al, il, ul etc 2) galloromanzi e liguri puntano sulla forma aferetica -lu: lu,
ru, u (liguri 3) i dialetti centro-meridionali anche prendono le mosse da -lu: lu, ju, u
Maschile plurale: 1) galloromanzi e maggior parte dell’Italia hanno lu/i ed entrambe le forme
risultano dall’ultima sillaba. “i” è la forma più diffusa, si trova poi una forma “li” di cui “i” è forma
aferetica. 2) in Friuli si ha la forma lis 3) nel Grigioni ils
Femminile singolare: si trova il morfo “la” praticamente ovunque
Femminile plurale: le più diffuse sono le forme da ILLAS, che danno “le”; l’alternativa è costitutita
dalle forme “li”/”i”: il Piemonte è diviso longitudinalmente tra “le” ed “i”. sono ladine e friulane le
forme che presentano conservazione della -s finale come las, les
▪Conservazione del piuccheperfetto latino: forme del tempo latino rimangono vive in alcuni
dialetti, dove però assumono la sfumatura di condizionale e non di tempo passato. È un tratto
tipico dell’Italia meridionale.
▪L’aggettivo possessivo: i possessivi si rivelano degli ottimi reattivi al fine di individuare le grandi
aree di tendenza.
La posizione dell’aggettivo rispetto al sostantivo: il latino classico lo poneva quasi
obbligatoriamente dopo, mentre alcune tracce sembrano indicare che i dialetti celtici coevi al
latino preferissero preporre l’aggettivo: nei dialetti settentrionali è quasi sempre posto davanti al
sostantivo, in quelli meridionali va dopo. Nei dialetti toscani si trova la possibilità di entrambe le
posizioni. Nell’ambito della tendenza meridionale a postporre l’aggettivo vanno messe in evidenza
le forme enclitiche, che formano una vera e propria appendice morfologica.
Presenza o meno dell’articolo determinativo: mentre nell’italiano standard l’articolo determinativo
è sempre, obbligatoriamente, presente salvo che davanti a nomi di parentela al singolare (le tue
sorelle, mia sorella), il toscano antico sembra preferire le forme senza articolo. L’introduzione
dell’articolo costituisce perciò un’innovazione, generalizzatasi soltanto in epoca relativamente
tarda. Per quanto riguarda il toscano odierno, si può notare che si tende a porre l’articolo anche
davanti a nomi di parentela flessi al singolare (il mi’ babbo). Tra i dialetti settentrionali, quelli
piemontesi possono omettere l’articolo, che sia in Piemonte sia in Veneto, spesso si estende anche
ai plurali (tò frei = i tuoi fratelli). Nei dialetti meridionali bisogna distinguere quelli siciliani (solo i
dialetti di Agrigento conoscono l’uso postposto) e calabresi, perché solo in questi il possessivo
precede il sostantivo, da tutti gli altri dove è postposto: in quest’ultimi l’articolo è di uso generale
(lu frate miu), mentre nel primo si registrano influssi settentrionali.
▪Condizionale: modo verbale nuovo rispetto al latino; si è già visto come molti dialetti investissero
il piuccheperfetto in valore ipotetico. Un altro tipo di condizionale è creato da infinito + perfetto
latino di avere.
▪Altri fatti notevoli:
-Area abruzzese e molisana: uso della desinenza neutre in -ora per raccogliere la categoria della
generalità x es kasa-kase-kasera “case in generale”
- avverbi azione ottenuta tramite il suffisso -mente solo in Toscana; nel dialetti settentrionali
prevalgono sintagmi preposizionali con valore avverbiale “da bun” “bene”; nei dialetti meridionali
è frequente l’uso dell’aggettivo con uguale funzione “sunu veru malatu”

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