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Italiano e dialetti

Le etnie assoggettate dai romani erano una ventina e ciascuna potè


conservare a lungo la propria lingua: il colonialismo romano infatti non si preoccupò
di latinizzare i popoli soggetti, ma si limitò a imporre il proprio apparato giuridico ed
amministrativo. La differenza tra dialetto e lingua è convenzionale in quanto il
dialetto è una lingua, la differenza sta solo nella più limitata diffusione del dialetto
rispetto alla lingua e nella sua minore importanza politica. Nel Medioevo dialetto e
volgare sono la stessa lingua. Si parla di dialetto in senso proprio solo con il nascere
dell’italiano. Cioè a partire dal cinquecento quando l’affermazione del fiorentino
abbassa al rango di dialetti tutte le altre parlate. È in questo secolo che compare la
parola dialetto. Solo nel settecento si ha la differenza tra italiano e dialetto.

Per dialetto si intende un modo di parlare diverso da un punto di vista di


fonetica e di morfosintassi; influenza l’oralità e certe volte anche la scrittura.

Oggi sono pochissimi gli italiani esclusivamente dialettofoni. La competenza


dialettale è comunque molto diffusa, soprattutto nei rapporti confidenziali, come tra
amici o in famiglia. Ci sono vari tipi di dialetto:

per dispetto: uso del dialetto come trasgressione nei confronti della norma
scolastica.

Per difetto: dialetto usato per connotare personaggi negativi o degradati.

Per idioletto:volontà di raccontare un mondo chiuso, un mondo a parte che ha la sua


realtà.

Il bilinguismo è la compresenza di due codici linguistici diversi, ma di pari


dignità (latino-volgare, italiano-tesdesco). La diglossia invece è l’uso di due codici
diversi a seconda delle situazioni comunicative, ad esempio l’italiano e un dialetto. Il
dialetto settentrionale raggruppa dialetti molto diversi tra loro. C’è la tendenza a
perdere le vocali finali. Tra i dialetti del centro abbiamo la gorgia toscana, alterazione
delle occlusive sorde intervocaliche che può portare a spirantizzazione (amico con la
pronuncia di bajo), all’aspirazione (amico con la pronuncia di behave) e alla
scomparsa (amio senza c). Oltre alla c può coinvolgere anche la p e la t. i dialetti
meridionali di solito sono caratterizzati dal raddoppiamento della b,
dall’assimilazione regressiva della n (quando, quanno). Spesso si ha la
sovrapposizione della i con la e (femmina, femmena), e la sostituzione di ll con dd
(bella, bedda).

Il dialetto è diverso dal regionalismo, ossia l’italiano in cui certi termini


vengono sostituiti da altri in base alla regione. Tra le varietà di italiano regionale
ricordiamo il settentrionale (sottovarietà galloitalica, veneta, friulana), centrale
(sottovarietà romana e toscana), meridionale (sottovarietà campana e pugliese), di
Sardegna e ,meridionale estremo (sottovarietà calabrese e siciliana).

L’iperconnettismo è la correzione a sproposito, spontaneamente messa in atto


da parlanti con insufficiente competenza linguistica. Una persona che raddoppia
sempre la b e sa che è sbagliato, tende ad eliminare tutte le b doppie, anche in
parole dove devono stare.

Scritto e parlato

Scritto e parlato hanno leggi e modalità diverse. Nello scritto il destinatario


può essere lontano nel tempo e nello spazio, il destinatario conosce la redazione
finale e non partecipa a stesura, cancellatura, ripensamenti. Nello scritto c’è la
necessità di esplicitare tutto quello a cui faccio riferimento; è conservato e
rileggibile. Nello scritto è obbligatorio conservare la norma: la coerenza del testo, la
coesione, ecc. La coesione fa riferimento alle sue connessioni sintattiche e
morfologiche; la coerenza è la qualità che riguarda i legami logici e semantici. Il testo
scritto è abitualmente diviso in capitoli, paragrafi, punteggiatura; la sintassi è precisa
e il lessico tende a evitare ripetizioni.

Il parlato è legato al qui e ora della situazione comunicativa; è elaborato e


recepito in tempo reale, consente il feedback dell’ascoltatore, ha uno svolgimento
lineare (non si può riascoltare ciò che si è detto e tornare indietro), non c’è
precisione sintattica e coesione testuale, nel parlato ci sono esitazioni, cambiamenti
di soggetto, false partenze, ridondanze, lessico meno rigoroso e spesso ripetitivo; è
volatile, non è correggibile nel tempo, il destinatario è presente, si avvale della
prossemica e della gestualità. Esistono diverse tipologie di parlato: spontaneo, non
spontaneo (programmato in precedenza), monologico (conferenza, lezione fronrtale,
discorso pubblico), e dialogico (conversazione, interrogazione). Esiste un parlato in
presenza di interlocutori (face to face), in assenza di interlocutori (parlato
telefonico). Tra le caratteristiche prosodiche del parlato ricordiamo il ritmo,
l’intensità e l’intonazione. Tipica del parlato è la deitticità, ossia il legame di ogni
enunciato con il contesto extrascolastico. Tra i deittici, da sottolineare gli ostensivi
(“prendi!” e contemporaneamente con la mano faccio anche il gesto), gli elementi
linguistici che determinano lo spazio (questo, lì) e il tempo (ora, dopo). Se i deittici
rimandano al contesto linguistico si parla di coesivi.

Il testo è diverso dal discorso. Il testo scritto da l’idea di compattezza che vive
soprattutto nella dimensione chiusa del monologo. Il discorso orale è caratterizzato
da flessibilità delle articolazioni sintattiche e logich, vive nella dimensione aperta del
dialogo.

Le funzioni linguistiche di Jakobson. Nella comunicazione intervengono sei


fattori: l’emittente, il destinatario, il messaggio, il canale attraverso cui il messaggio
passa, il codice, ossia il linguaggio adoperato e il contesto. Jakobson individua sei
funzioni della lingua:

 Emotiva, espressiva. La lingua per esprimenre emozioni.

 Conativa, persuasiva. La lingua serve a convincere il destinatario.

 Poetica. Per ottenere effetti particolari, lingua letteraria.

 Fàtica. Si mantiene il contatto con il destinatario.

 Metalinguistica. La lingua descrive se stessa, come ad esempio in grammatica.

 Denotativa, referenziale. Descrive, narra una realtà in modo il più possibile


oggettivo.

Nel parlato è importante la presupposizione, cioè di preconoscenze date per


condivise. Tipi del palato sono i segnali discorsivi, cioè formule di attenuazione
(per dire, diciamo), esitazione (uhm), esemplificazione, riformulazione della frase
(cioè), demarcativi (come va? A presto) e feedback (capito?vero?).

Gli atti linguistici corrispondono agli enunciati, perché ci sia una


comunicazione, l’interlocutore deve avere competenza pragmatica, ossia capacità
di comprendere gli enunciati linguistici nel contesto in cui si trovano. Grazie alla
pragmatica possiamo decodificare l’atto linguistico. L’atto locutorio, da
un’informazione, l’atto illocutorio, da un0informazione facendo qualcosa,l’atto
perlocutorio, riguarda il dire qualcosa con effetto sul destinatario (minacce,
adulazione,ecc..).
La conversazione è una situazione più tipica del parlato, si deve prestare attenzione
al cambio di soggetto, alle pause, alle ripetizioni. Le pause della conversazione
possono essere ad effetto, con volontà di stupire, chiedono qualcosa (il silenzio), per
incapacità di proseguire. Nella conversazione esistono anche regole di turnazione
(intervenire quando l’altro ha finito di parlare). Oltre a questa regola ci sono altre
quattro massime conversazionali dette di Erice e sono:

 Di qualità, si parla quando si ha qualcosa da dire;

 Di quantità, bisogna essere né troppo sintetici né troppo prolissi;

 Di relazione, importante è la pertinenza dell’argomento nella conversazione;

 Di modo, bisogna conversare in modo chiaro, evitando ambiguità.

Queste regole possono essere violate per ironia, per non dire cose false, per non far
capire l’argomento trattato. Sono dette anche Principio di cooperazione tra parlanti.

Le variazioni tra i registri del parlato possono essere diacroniche, si riferiscono


alla variazione della lingua nel tempo; diatopiche, varianti nello spazio geografico,
danno origine a dialetti e regionalismi; diastatiche, varianti della lingua in livelli
sociali diversi; di afasiche, varianti legate al come si pronunciano le parole in base al
registro linguistico in cui ci si trova e diamesiche, che riguardano la trasmissione
della lingua orale e scritta.

Le lingue speciali

La lingua speciale riflette un sapere specialistico, condiviso da esperti, utilizza


espressioni proprie della lingua di riferimento e tende ad essere univoca
(monosemia: un solo significato). Alcune lingue speciali hanno un alto grado di
tecnificazione (matematica, medicina, linguistica), altre un grado minore (diritto,
economia). Spesso quando si ha a che fare con un sapere specialistico a livello
linguistico si utilizzano dei tecnicismi specifici, ossia un lessico peculiare sviluppato
dalle scienze. Per tecnicismi collaterali si intende l’utilizzo di espressioni
stereotipiche che danno al testo maggiore adeguatezza stilistica.

L’italiano della comunicazione


Il giornale ha un suo particolare linguaggio, che attinge alle varie lingue
speciali, riformulandole per renderle accessibili al largo pubblico, oppure dando vita
ai testi misti (testi che assumono da altri tipi testuali determinati elementi che
rendono più vario e gradevole il messaggio). L’attenzione del lettore è tenuta viva dal
grande numero di parole nuove usato dai giornali, spesso sono formazioni fantasiose
o ironiche, neologismi, metafore. Il linguaggio cambia a seconda della tipologia
dell’articolo. Ad esempio in un articolo di cronaca si utilizzano spesso metafore e
riformulazioni di discorsi; nell’editoriale (articolo di prima pagina in alto a sinistra,
scritto dall’editore che esprime la propria opinione su un argomento di attualità), si
usa un linguaggio argomentativo e persuasivo. Il linguaggio e lo stile del giornale
viene influenzato anche dagli altri media: ad esempio una sintassi legata alla rapidità
di espressione, articoli brevi come i messaggi del telefonino, aumento della presenza
del parlato tramite il disacorso diretto.

Nelle pubblicità si utilizza un linguaggio composito, formato da verbale e non


verbale. La parola viene messa in secondo piano dalle immagini e dalla musica. Nelle
pubblicità il linguaggio è esclusivamente persuasivo e per questo viene usato un
tono sicuro con slogan dell’imperativo. L’uso della parola deve essere accattivante e
incuriosire il pubblico. Vengono usate molte figure retoriche e giochi di parole,
richiami fonici, lingue straniere, neologismi, parole nuove di uso occasionale
(vespizzatevi, motrbistenza), ellissi soprattutto di preposizioni (moda autunno-
inverno), accostamento asindetico di parole o frasi per rendere più veloce il
messaggio (“Acqua panna. Benessere donna”). Spesso si usano interrogativi retorici
(“voglia di un’auto nuova?”). Alla funzione conativa, nelle pubblicità si affiancano
quella fàtica ed emotiva.

La radio è un mezzo di comunicazione ascoltato dal settantadue per cento


della popolazione. Il linguaggio radiofonico si ispira al parlato spontaneo ed è basato
sul ritmo e sulla velocità. Lo stile è diretto e informale. La lingua è solo
apparentemente spontanea, perché in realtà è stata “studiata a tavolino”. Il lessico
utilizzato è espressivo,colloquiale e giovanile grazie al turpiloquio. Spesso ci sono
ripetizioni di parole-chiave (tormentoni), dialoghi tra due o più conduttori con
variazioni del tono di voce.

La televisione è il mezzo di comunicazione più diffuso in Italia. Nel periodo


paleo televisivo (gennaio 1954- metà anni ‘70), la televisione aveva un ruolo
educativo, utilizzava un linguaggio vicino alla lingua scritta, normativamente
accurato, attento all’uso del congiuntivo e delle relative. Nel periodo neotelevisivo,
che comincia con la fine del monopolio Rai (1976) e l’inizio delle trasmissioni private,
prevale in tv l’intrattenimento. Il linguaggio si avvicina a quello del pubblico per
aumentare l’audience. Il linguaggio cambia in base agli spettacoli, si utilizza un
parlato serio semplice per le trasmissioni culturali e scientifiche, un parlato sciolto
colloquiale, per intrattenimento e quiz, un parlato trascurato o sciatto nei talk show
e un parlato simulato nelle fiction seriali e film televisivi con forte presenza di
anglismi.

Anche l’uso delll’italiano al cinema ha una propria evoluzione. Il cinema muto


(1910) è influenzato dallo stile retorico di D’Annunzio, talvolta venivano lette delle
didascalie. Il sonoro compare nel cinema negli anni ’30.. l’italiano era poco adatto
per rappresentare la realtà, visto l’uso diffuso del dialetto e dei regionalismi. Dagli
anni ’70 in poi si usa un linguaggio colloquiale medio: il dialetto caratterizza solo
alcuni personaggi. I film si ispirano a romanzi ed a traduzioni di opere straniere con
titolo diverso, per renderlo più vicino all’italiano e presenza di spiegazioni. Con i film
si introducono parole ed espressioni nuove (paparazzo, dolce vita, bidone).

La lingua utilizzata nelle canzoni è molto varia. Da una parte ci sono testi che
seguono la prima fase della canzone leggera italiana, con lessico di origine poetico e
rima convenzionale (cuore-amore-dolore), che abusano di futuro e imperativo e di
metafore tradizionali. In questi testi la struttura è : strofa, strofa, ritornello, strofa,
strofa, ritornello. Dall’altra parte c’è un’evoluzione formale e stilistica dal semplice al
complesso, sul modello della canzone d’autore. Si assiste all’uso di un lessico più
ricercato e di una sintassi elaborata.

L’italiano dei media telematici è l’italiano dell’uso quotidiano. La scrittura dei


testi è diventata un’attività frequente grazie ai blog, ai social network, ai forum, ai
messaggi, alle e mail e alle chat. Si registra però un’abbassamento del controllo sulla
lingua che utilizziamo per scrivere. Spesso nell’italiano digitato sono presenti errori
di battitura, di ortografia, l’uso di strutture proprie del parlato, l’ uso del maiuscolo
(BASTA), il ricorso alla replicazione vocalica (mi annoiooooo) ed il ricorso a codici
grafici non verbali o leetspeak, si sostituiscono i numeri alle lettere. Inoltre vi è un
uso intensivo di saluti e formule che avviano la conversazione (“Ciao, dove sei?che
fai?”), la presenza di segnali discorsivi come ah, ecco, scusa, senti, l’uso di fatismi
(certo, ok, eh, si), l’uso di formule tacnigrafiche, ossia espedienti che accorciano una
parola per ragioni di spazio o per velocizzare la scrittura: sigle, grafie consonantiche
(cmq), grafie simboliche, riduzione di diagrammi(k per ch). Alle forme di scrittura
telematica potremmo dare il nome di neoepistolarità tecnologica. Le e mail variano il
loro stile in base al contesto e al destinatario: vanno da un massimo di informalità a
un massimo di formalità.

L’italiano e le altre lingue

Nessuna lingua è pura, perché le lingue sono l’incontro di più componenti. I


prestiti sono entrati nella nostra lingua fin dai primi secoli. I prestiti non vannoo
demonizzati o sentiti come delle minacce, tuttavia questo non toglie che si possano
italianizzare le parole straniere. Esistono prestiti di necessità, definiti così perché non
si ha il corrispondente italiano della parola forestiera (computer, tablet, caffè). Poi vi
sono i prestiti di lusso, o di moda, ossia termini forestieri che vengono utilizzati
anche se c’è il corrispondente italiano (premier- primo ministro, hotel- albergo). I
prestisti possono essere fonetici, quindi relativi ai suoni (r moscia); morfologici, ad
esempio la s finale per il plurale in Italia è un errore; sintattici, ossia costrutti presi da
altre lingue (chi suona che? Who plays what?); lessicali, sono i più comuni.tra i
prestiti lessicali possiamo distinguere i prestiti integrali o non adattati, che
conservano suono e grafia stranieri (cocktail, bouquet, mouse)o prestiti adattati,
quest’ultimi riguardano termini adattati al sistema fonologico italiano (regalo, cugini,
londra). Si hanno prestiti linguistici quando c’è un contatto linguisticoo tra due
lingue. Il contatto può essere: un rapporto di superstrato, in cui la lingua del popolo
invasore influenza alcuni tratti della lingua del popolo conquistato; azione di
sostrato, in cui l’influenza di una lingua scomparsa sulla lingua dei dominatori o
azione di adstrato, in cui l’influenza è esercitata da una lingua confinante. I prestiti
oggi sono trasmessi soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa; un tempo
invece venivano trasmessi grazie allo spostamento fisico delle persone (guerre,
commerci, pellegrinaggi, scoperte geografiche).

Gallicismi: i contatti con le lingue galliche sono dovuti all’influenza della lingua
d’oc durante la presa di Pavia da parte di Carlo Magno, al proliferare di pellegrinaggi
e crociate ma soprattuttoo all’influenza della letteratura francese che fu massima
durante l’Illuminismo (parole della vita cavalleresca, arredi, vestiti,ecc). tra le parole
entrate stabilmente nell’italiano ricordiamo mangiare, parlare, burro, cugino, roccia,
giallo, bugia, coraggio, pensiero, speranza, cavaliere, schiera, stendardo, noia,
talento, partenza, guardare. Tra i termini legati alla moda ricordiamo cravatta,
parrucchiere, bignè, liquore.

Anglismi: all’inizio, durante il Rinascimento, gli scambi linguistici tra Italia ed


Inghilterra si basano sull’italianizzazione delle parole inglesi, ma già nel seicento, in
periodo Barocco, si avverte un cambio di tendenza. Nell ‘ottocento e nel novecento
nascono molti anglicismi grazie alla lingua dei gornali e alle traduzioni di grandi
romanzieri. Romanzi di autori come Walter Scott (Ivanoe) contribuiranno a
diffondere un numero considerevole di anglicismi. Solo con la fine della seconda
guerra mondiale questo fenomeno raggiunge le dimensioni attuali. Parole inglese
oggi ampiamente utilizzate nella lingua italiana sono: shampoo, dispay, quiz, scooter,
hi-fi, video-games, fast-food, light, fitness, manager, check-in, part-time, meeting,
tennis, baseball, volleyball, network, audience, rock, rap, soul, top model.

Germanismi: I contatti germani- romani si hanno nel primo secolo Avanti


Cristo. I germani, longobardi e goti, prendono molto dalla cultura romana e i romani
prendono i termini concreti dei germani. I prestiti più antichi sono addirittura entrati
nel latino prima quarto secolo Avanti Cristo (brace, sapone, vanga). I prestiti goti
riguardano soprattutto la guerra (guardia, guerra, elmo, guardare). I prestiti
longobardi riguardano soprattutto nomi di luogo (Lombardia, Garda), parole legate al
lavoro dei campi (zolla, gora), equitazione e caccia (aizzare, trottare, staffa), termini
anatomici (anca, guancia, milza, schiena, stinco). Anche dai franchi abbiamo preso
parole in prestito, come bosco, guanto, grigio. I prestiti germanici più recenti entrano
tra Ottocento e Novecento e sono parole come walter, recensione, stilistica,
morfologica, divenire, non essere, imperativo categorico (Kant), superuomo
(D’annunzio) e psicoanalisi (Freud).

Arabismi, ebraismi e grecismi: ebraismi sono vocaboli entrati nell’uso comune


attraverso la “vulgata della Bibbia” (manna, serafico, cherubino, amen, alleluia,
sabato, osannare, pasqua). Gli arabismi iniziano ad essere introdotti in Italia nel
Medioevo, grazie agli scambi commerciali e alla dominazione musulmana sulla
Sicilia. Tra i termini scientifici ricordiamo in matematica:algebra, algoritmo, cifra e
zero; in chimica: alchimia, elisir; in astronomia: azimut, nadir, zenit. Tra i termini
politici di derivazione araba abbiamo parole come sceicco, sceriffo, sultano, califfo.
Dall’arabo derivano molte altre parole arabe come materasso, tazza, albicocca,
carciofo, cotone, assassino, zucchero, tamburo, melanzana, scacco matto. I grecismi
si diffondono sul territorio italiano quando i Bizantini entrano in Italia. Termini
marinareschi (molo), militari, commerciali (catasto) e botanici (anguria). Esotismi:
cinese, giapponese e russo. Cinese: la Cina è stata terra di viaggiatori dal Medioevo:
Marco Polo (Il Milione), termini come: cin cin, tè, ginseng, kung fu, tai chi chivan. I
termini giapponesi arrivano in Italia nella metà del Ciquecento con l’arrivo dei
navigatori, missionari e commercianti europei in Giappone. Termini come geisha,
chimonio, tatami, catana, sakè, cachi, fumetti manga, arti marziali (sumo, karate,
judo, jujutsu), karaoke,sudoku, sushi,sushimi, zen, reiki, tsunami. I termini russi
iniziano ad essere utilizzati in Ityalia dagli anni Sessanta. Sono termini presi dai
grandi romanzi dell’Ottocento: gulag, nomenclatura, attivista, “anni trenta”,
collettivoo, zar.

La formazione delle parole

Da una base lessicale si può ricavare un numero di derivati molto elevati. Ci sono tre
modi di formazione delle parole:

1. Prefissazione, si aggiunge un elemento prima della base

2. Suffissazione, si aggiunge un elemento dopo la base

3. Composizione, si uniscono una o più parole formandone una nuova.

La morfologia derivata: la base lessicale più suffissi (disegna-tore), più prefissi (pre-
monizione), più interfissi (libr-ic-ino). La composizione dei nomi composti è variabile:
può essere formata da nome-nome (cassa-panca, calza-maglia), nome-aggettivo
(cassa-forte), aggettivo-nome (alto-piano, mala-fede), verbo-nome (mangia-fuoco). I
vocaboli derivati si possono organizzare o con il paradigma a ventaglio, ossia da una
stessa base lessicale. Hanno più derivati (lavoro: lavoratore, lavorazione,
lavorativo,lavorio). Oppure i vocaboli derivati possono organizzarsi con il paradigma
a cumulo, cioè attraverso una derivazione con trasformazioni successive a partire
dalla stessa base (forma, formale, formalizzare, formalizzazione). Per derivare le
parole con suffissi e prefissi: Suffissi denominali e deaggettivali (bacio-baciare- secco-
seccare, alfabeto-alfabetizzazione, sapone-saponificare, falso-falsificare) o suffissi
nominali deverbali (v,n), (aggio: tatuare, tatuaggio); suffissi aggettivali deverbali (v,a)
(incantare, incantevole); suffisso nominale deaggettivale (a, n) (giusto, giustizia),
suffisso oggettuale denominale (n,a) (nave, navale); suffissi nominali denominali (n,
n)(sterpo, sterpaglia); suffissi verbali deverbali (v,v) (saltare, saltellare); suffissi
oggettuali deaggettivali (a,a) (bello, belloccio). La prefissazione, invece, non implica il
cambio di categoria: nome-nome, verbo-verbo, aggettivo-aggettivo. Tra i prefissi
intensivi ricordiamo super, ultra iper, stra, tra i prefissi negativi in,s,dia, tra quelli
avverbiali pre, post, restro, extra, fuori. Tra le alterazioni ci sono i diminuitivi come
vezzeggiativi (ino,etto, ello) e gli accrescitivi con valenza peggiorativa (one, accio,
azzo). Gli alterati possono essere veri o falsi: falso accrescitivo, falso diminuitivo,
falso alterato.

L’onomastica è il ramo della linguistica che si occupa della classificazione e


dello studio dei nomi propri. I nomi di persona sono detti antroponiomi, quelli di
luogo toponimi. Gli antroponomi possono erssere nomi trasparenti nomi di tipo
augurativo (Bella, Benvenuto), di tipo allusivo (Matteo, Francesco), di natura
evocativa (Garibaldi). Oggi i nomi vengono scelti per simbolismo fonetico, perché
piacciono per il suono (Giulia, Sofia). I toponomi si suddividono in idronomi, nomi
dei fiumi e dei laghi, oronomi, cioè i nomi delle montagne e odonomi, nomi di
strada. Molti toponimi derivano dal latino, altri dall’arabo, dal tedesco, dall’italico,
dall’etrusco. Molte parole dell’italiano derivano da nomi propri, in particolare i nomi
comuni che derivano da nomi propri sono chiamati denonimici. Il ramo della
linguistica che studia i nomi comuni è la deonomastica. Esistono dononimici ottenuti
per antonomasia, come ad esempio il nome cicerone per indicare una guida
turistica. I cambi di nome sono dovuti a ipocoristici, ossia forme colloquiali e
vezzeggiativi usati in famiglia che diventano veri e propri nomi; a pseudonimi;
allonimi indipendenti dal nome originale, cambiato per regioni di estetica;
soprannomi, nascono nel Medioevo per unire al nome qualcosa che individuasse il
soggetto: erano legati a un difetto o ad una particolarità (il Corto, tartaglia). I
cognomi nascono in diverse aree geografiche per indicare i discendenti dai
capofamiglia (barbieri, fabbri, pastore). Derivano da nomi propri, soprannomi,
toponimi o dal mestiere del capofamiglia.

Giusto o sbagliato

Esistono quattro gradi di errore:

 Lapsus, significa dire una cosa per un’altra

Dizionari per ogni esigenza


Nella preistoria di ogni tradizione lessicografica s'incontrano generalmente
glossari bilingui: liste di parole di due lngue diverse compilate allo scopo di
favorire un elementare comunicazione interpersonale. Nel Cinquecento si
cominciano a redigere liste di parole che si avvicinano di più alla moderna idea
del dizionario. Si tratta soprattutto di elenchi di vocaboli attestati in
Dante,Petrarca e Boccaccio, i tre principali modelli dell'uso letterario. Non c'è
un attenzione per la lingua parlata. Il primo vero dizionario dell'italiano si deve
all'inziativa dell'Accademia della Crusca, nata a Firenze nel secndo
Cinquecento su iniziativa di un gruppo di letterati fiorentini che- secondo un
costume molto diffuso all'epoca – aveva preso l'abitudine di promuovere
riunioni giocose. Salviati in poco tempo trasformò qyell'occasionale brigata in
una seria accademia letteraria. Nessun'altra lingua europea poteva vantare,
all'epoca, un'opera così impegnativa e così coerente. Il vocabolario della
Crusca comprendeva in primo luogo le voci usate dagli scrittori “trecentisti” ed
il lemmario era integrato attingendo agli autori minori del Trecento, a scrittori
non fiorentini e infine, con prudenza, all'uso moderno.

Lo scopo del dizionario storico è quello di registrare il patrimonio di una


tradizione scritta fornendo una documentazione con le varie accezzioni. La
fraseologia è essenziale per la comprensione della lingua del passato. Il
Vocabolario degli Accademici della Crusca è appunto un vocabolario storico.

La curiosità etimologica si ritrova in diverse culture antiche, da quella


ebraica a quella greca. Dal secolo scorso l'etimologia ha basi scientifiche e
non si limita a individuare la provenienza di un vocabolario: i moderni
dizionari etimologici mirano a ripercorrere la storia di una parola o di
un'espressione, dalla più antica attestazione in poi.

Nel lessico possono sussistere vari rapporti tra le singole unità. Un


vocabolo può essere dotato di un significato più generale rispetto ad altri,
essere cioè l'iperònimo rispetto a uno o più ipànimi (animale è iperonimo di
felino e felino è iperònimo di gatto); oppure può stabilire un rapporto di
corrispondenza o di contrasto.

Si parla di sinònimi quando due o più vocaboli condividono i tratti semantici


essenziali(vecchio-anziano;toppa-serratura);oppure di analoghi quando la
sovrapponibilità è solo parziale. Si parla inoltre di contrari (o antonimi)
quando i significati si oppongono (bello-brutto); di inversi quando si ha un
rapporto di reciprcocità, nel senso che un vocabolo è necessariamente
definito rispetto al suo inverso (padre-figlio,vendere-comprare). La sinonimia
peerfetta è poco meno di un astrazione. Perfino in coppie come tra e fra la
scelta non è del tutto indifferente, ma è influenzata dal contesto fonetico(fra
tre ore,tra Francia e Spagna). Di norma, anche nei casi in cui due vocaboli
hanno un'ampia area di significato in comune, a renderli non sovrapponibili
intervengono restrizioni semantiche, diafasiche, diatopiche.

Un dizionario generale deve essere cauto nell'accogliere i neologismi,


che potrebbero uscire dall'uso nel giro di pochi anni o addirittura esaurirsi in
un'effimera invenzione giornalistica: basti pensare ai cosiddetti
“occasionalismi”, dalla vita brevissima; per citare qualche esempio: clanista
(1959) 'appartenente a un clan', faxedrendum “referendum fatto attraverso
messaggi via fax”. Ciò non significa che le parole nuove continuamente
proliferanti nell'italiano contemporaneo e imposte all'attenzione generale dei
grandi mezzi di comunicazione di massa non suscitono l'interesse del
linguistica e dello storico della cultura. Alla registrazione dei neologismi sono
consacrati alcuni dizionari speciali.

Il dizionario per antonomasia è certamente quello dell'uso, posseduto


da quasi tutte le famiglie italiane – almeno come libro scolastico -e dunque
oggetto di intense campagne pubblicitarie da parte degli editori. Non è facile,
per un lessicografo, ritagliare la porzione di realtà che abbia i titoli per figurare
in un dizionario di proporzioni medie. Raccogliere molte parole sarebbe fin
troppo facile: basterebbe saccheggiare certe terminologie scientifiche (solo i
termini della chimica ammonterebbero a svariate decine di migliaia). Ma la
documentazione di un determinato lessico specialistico (per esmpio
medico,giuridico,agricolo,informatico) è riservata ad appositi dizionari
settoriali. Il lessicografo generale deve ospitare solo quel tanto di lessico
scientifico che può filtrare nel linguaggio corrente o ha comunque una
ricaduta sull'esperienza linguistica degli utenti. Allo stesso modo il dizionario
dell'uso deve comportarsi con regionalismi, arcaismi o neologismi. In
articolare, un dizionario italiano accoglierà un regionalismo solo quando la sua
diffusione supera i confini originari. Per quanto riguarda gli arcaismi, la natura
conservatrice della lingua italiana e la forte solidarietà esistente tuttora con la
letteratura antica fanno si che nessun dizionario dell'uso possa escluderli del
tutto. Altrettanto complessa, come abbiamo visto, la scelta dei neologismi:
decisamente più numerosi e invadenti degli arcaismi, ma soprattutto non
valutabili da parte del lessicografo col necessario sistacco. Simile il problema
dei forestierismi non adatti, in particolare degli anglicismi, così frequenti
nell'italiano contemporaneo. E' più delicato scegliere cosa escludere piuttosto
che cosa includere e la selezione dei lemmi deve essere improntata a un
atteggiamento equilibrato, che tenga conto delle diverse componenti del
lessico contemporaneo. La ricchezza del lemmario non consiste solo nella
quantità e nella qualità dei singoli lemmi, bensì anche nell'attezione con cui si
segnalano le nuove accezzioni o le diverse connotazioni che parole di uso
tradizionale hanno assunto negli ultimi anni, in seguito al modificarsi del
costume, delle ideologie, del comune sentire.

La definzione di una parola e delle sue accezioni è certo uno degli


aspetti più delicati che il lessicografo deve affrontare. Non si tratta solo di
indicare una perfrasi che riassuma il significato di un vocabolo, per lo più
medimanente il ricorso a sinonimi e a definitori (come lodevole”degno di
essere lodato,che merita lode). Si tratta di indicare l'ambito o il registro d'uso,
in genere con abbreviazioni dette “marche d'uso”;di collocare una parola nei
suoi contesti più tipici attraverso un'opportuna fraseologia;più in generale, di
restituire a una parola, anche molto comune, la sua stratificazione d'uso.

Il dizionario non si consulta soltanto per sapere il significato della parola


che conosciamo poco o non conosciamo affatto, ma anche per risolvere dubbi
grammaticali, e svolge così di fatto anche una funzione normativa rispetto
all'uso della lingua. Un dizionario può riunire i principali dubbi linguistici in una
tabella di “Approfondimento” o di “Note d'uso”, con l'intento non solo di
risolvere un dubbio del lettore, ma di indirizzarne in futuro il comportamento
linguistico, distinguendo anche tra errori veri e propri forme più o meno
preferibili a seconda del contesto e del registro d'uso. In alcuni settori la
risposta è sistematica e definitiva: per esempio per la pronuncia delle lettere a
cui corrispondeno diverse realtà fonetiche, per la corretta ortografia
(efficienza o efficenza?), per la posizione dell'accento (anòdino o anodìno);per
la selezione delle forme verbali irregolari(qual è il perfetto du cuocere?e il
passato remoto di esigere?). Ma, a saperlo consultare, un buon dizionariopuò
dare delle informazioni anche su altri e più complessi settori lingusitici; per
esempio su un punto particolarmente controverso della norma linguistica
italiana: le reggenze sintattiche. Dobbiamo dire :insieme a te o con te?.
Attraverso la fraseologia, ricaveremo indicazioni precise sulla legittimità di
entrambi i csotrutti, se verranno entrambi, oppure saremo orientati verso uno
dei due.

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