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Si definisce scritto di carattere pratico il testo che esaurisce la sua funzione nel momento e
nel luogo della sua redazione (es. uno statuto, trattato di pace, una lettera) e si rivolge ad
uno o ad una pluralità. Nello scritto letterario il destinatario è sfuggente poichè l'emittente
può, o meno, aver individuato un destinatario diretto o immaginare un destinatario più
generico, ossia un pubblico. Nel testo letterario l'emittente non trasmette solo il contenuto,
ma anche ciò che è dentro di sè o su di sè, ossia l'intenzione del suo autore.
La lingua orale possiede una spontaneità implicità per fatto che viene verbalizzata. Essa
attua la selezione e la combinazione con una coerenza inferiore alla lingua scritta, come
dimostra la presenza di approssimazioni lessiciali e sintattiche. La lingua scritta sottostà,
invece, a un Iivello di pianificazione maggiore che rompe quel processo che abbiamo
conosciuto fin dall'infanzia tra il pensiero e il suo diventare parola.
I testi analizzati dal punto di vista linguistico durante il corso sono testi scritti di
carattere letterario: in che modo questa scelta condiziona l'analisi
linguistica?
I testi scritti di carattere letterario in prosa dal Duecento alla prima metà dell’Ottocento,
analizzati dal punto di vista linguistico durante il corso, rientrano in un’ampia tipologia di testi
che inseguiremo lungo l’asse diacronico. Esistono differenti strategie testuali e ‘linguistiche’
che includono testi di carattere precettistico e didascalico, narrativo, argomentativo
scientifico o epistolare e così via, ciascuno dei quali è inseribile in ‘forme’ letterarie (se non
veri e propri ‘generi’) che man mano vanno tipizzandosi all’interno dell’evoluzione della storia
letteraria italiana. Quanto più i testi saranno recenti tanto più avanzeranno lungo l’evoluzione
storica della lingua e della letteratura italiana.Quanto più la tradizione prenderà corpo e
autonomia nazionale, tanto i condizionamenti letterari si faranno più forti da avere riflessi
specifici su registri e scelte di tipo linguistico e stilistico ormai non più imputabili
esclusivamente all’autonoma scelta dell’autore, perché sempre più condizionata dal ‘genere’
letterario e dal canone di testi che in quel ‘genere’ sono stati redatti fino ad allora.
LEZIONE 4 -
Lingua e stile: quali dinamiche intercorrono in via generale fra questi due concetti?
La lingua di un autore è, come la lingua di ciascuno di noi, un atto di parole, un atto
linguistico concreto che pone in atto l’astrattezza del repertorio. Lo scrittore è, tuttavia,
inserito in un sistema altamente formalizzato, all’interno del quale opera scelte non
necessariamente coincidenti con quelle che opera per gli atti linguistici orali o per gli scritti di
carattere pratico. L’inserimento in una tradizione letteraria e in un certo genere, attiva, inoltre
l’esperienza di altri autori rendendola disponibile per gesti di adesione o di rifiuto. L’autore
potrà attingere al repertorio della lingua o dello standard in modo inconsueto, inedito rispetto
all’uso quotidiano che ne fanno i parlanti. Quest’uso particolare che l’autore fa della lingua è
detto stile. Lo stile è il risultato di una serie di scelte compiute dall’autore nei confronti della
lingua (inclusione, esclusione etc…). Lo stile non può essere definito senza il concetto di
lingua, se non alla luce della lingua “normale”, quella socialmente condivisa, la lingua d’uso,
alla quale lo stile si adegua o si distanzia.
Inserite il concetto di stile all'interno della dicotomia saussuriana fra langue e parole
Saussure distingue tra lingua e parole. Il linguaggio è un atto di fonazione e dunque si
configura come processo fonetico e articolatorio individuale (parole). A partire dalle singole
scelte del parlante, le parole, si innescano i cambiamenti lungo l’asse diacronico. La
funzione di quell’atto individuale deve essere condiviso nella lingua. La lingua è necessaria
perché la parola sia intellegibile e produca i suoi effetti così come la parola è indispensabile
perché la lingua si definisca. Con lingua si intende tutto il “repertorio” fonetico, morfologico,
sintattico e lessicale che la costituisce. A questo repertorio attinge ogni parlante che,
effettuando una serie di scelte, produce “atti linguistici”, traducendo in forme concrete le
potenzialità del repertorio. La lingua di un autore è anch’essa un atto di parole. L’autore
come ogni altro parlante si inserisce nella dicotomia tra standard e idioletto, fra adesione alla
lingua d’uso ed elaborazione di un linguaggio personale. Di solito chi si prefigge di scrivere
un testo letterario fa ricorso a un sistema altamente formalizzato, nel quale non è più
sufficiente ricorrere unicamente all’idioletto e alla lingua d’uso. Lo stile di un autore può
essere considerato il risultato di un processo di selezione (inclusione o esclusione di forme)
all’interno della varietà linguistica che gli è propria e in base al registro adottato. Lo stile
letterario deve misurarsi con una serie di generi, forme e paradigmi retorici e stilistici del
passato, inserendosi all’interno di una tradizione di altri autori verso i quali lo scrittore potrà
avere un atteggiamento di adesione o di rifiuto.
LEZIONE 7 -
La stilistica descrittiva di Charles Bally e la stilistica genetica di Karl Vossler.
La stilistica di Bally è invece di carattere psicologico e sociologico e ha come oggetto la
lingua comune e non quella letteraria. I suoi studi vertono sui mezzi espressivi che il parlante
utilizza tra le molte offerte dal sistema. Ad accomunare Bally a tutta la linguistica
post-saussuriana è l'attenzione posta alla parola che tiene conto della coesistenza di
variabili generazionali e socioculturali e di fasi conservative, innovative o locali, agenti come
spinte potenziali alla trasformazione non meno che i veri e propri squilibri del sistema
strettamente inteso. La stilistica di Bally discende per via diretta dal magistero di Saussure
per il quale la lingua è un sistema di segni che ha come scopo principale la comunicazione
del pensiero; Bally però mette in guardia dall’attribuire al pensiero umano, trasmesso tramite
la lingua, una valenza puramente logica e razionale invitando a prendere in carico della
lingua l’aspetto ‘affettivo’ o espressivo. Per Bally la lingua è un mezzo, uno strumento che
non veicola solo la razionalità dell’uomo, la sua intelligenza e la sua capacità di trasmettere
significati, ma anche e soprattutto comunica stati emotivi ed espressivi. Se ciascun parlante
esprime a suo modo i propri stati d’animo (esercitando quello che i seguaci di Bally
chiameranno scelta stilistica ), è perché la lingua mette a disposizione una serie di opzioni
specifiche (il che consente di individuare una stilistica propria di ogni lingua), ma non altre
(che magari sono presenti un’altra lingua), finendo con questo per condizionare la sensibilità
di quanti usano quella data lingua. L’atto di volizione (la scelta stilistica ) fatta dall’utente fra
soluzioni ‘affettive’ che la lingua gli offre è valutato dal linguista ponendo a confronto il “modo
di espressione intellettuale” (il pensiero non ancora espresso verbalmente) con i “sinonimi”
(cioè le varie soluzioni sinonimiche che la lingua offre), i quali possono sottolineare
l’‘affettività’ con procedimenti
a) di intensità,
b) di valore,
c) di bellezza.
La scelta operata dal parlante infine produce precisi effetti sul destinatario dell’atto linguistico
(Bally chiama questi ultimi “effetti per evocazione”). Bally distingueva tra la lingua come
istinto sociale (langue) e come espressione individuale (parole) ed il suo concetto di stilistica
era rivolto a caratterizzare le scelte stilistiche e gli aspetti affettivi che la lingua collettiva è
capace di offrire all'individuo. La descrizione stilistica di un testo è la descrizione di tutte le
proprietà verbali. Lo strutturalismo vide la stilistica come la vera indagine linguistica del
testo. La stilistica descrittiva si rifà al pensiero di Humboldt e di Schuchardt e a quanto già
Vossler aveva anticipato con la sua distinzione tra l'insieme dei fatti linguistici che
compongono lo stile di un autore e l'insieme dei fatti stilistici che diversificano le varie fasi
della storia di una lingua. Vossler ritenne che l'essenza del linguaggio fosse da ricercare
nella creatività dell'espressione individuale alla quale si aggiunge, ma solamente in un
secondo tempo, l'accettazione sociale con le sue regole. Prima della grammatica vi è quindi
la fase stilistica e lo studio delle lingue e delle letterature devono procedere con uno stretto
legame.
LEZIONE 9 -
Chiarire la differenza fra fonetica e fonologia, il significato rispettivo di fono e fonema,
indicando almeno cinque coppie minime dell'italiano.
La fonetica si occupa dell'aspetto fisico dei suoni; l'unità di studio della fonetica è quindi il
fono. La fonologia si occupa dell'aspetto astratto dei suoni e la sua unità di studio è il
fonema. La fonologia si occupa di stabilire quali sono i fonemi in una data lingua, ovvero
quali sono i suoni cui corrisponde una differenza di significato (nella parola) fonema è
dunque il segmento fonico con valore distintivo di significato coppie minime:
scena/scema,topo/tomo,varo/faro,pacco/pecco.
Allofoni: sono varianti combinatorie di un fonema.
Illustrate ed esemplificate i seguenti fenomeni fonetici: a) chiusura delle vocali
toniche in iato; b) evoluzione della labiovelare sorda latina.
La chiusura delle vocali toniche in iato segue la regola in virtù della quale la -e- e la -o-
toniche davanti ad un'altra vocale appartenente ad altra sillaba si sono chiuse in i ed u,
dando luogo a forme come mio, tuo, suo, Dio.
La labiovelare sorda iniziale di una parola si riduce ad occlusiva velare se davanti a vocale
diversa da -a- ( a parte i casi di conservazione per latinismo) è secondaria:
quello< ECCU(M)ILLUM.
LEZIONE 10 -
A quali fenomeni si allude con i termini di aferesi, sincope, apocope? Come si
chiamano i loro contrari?
I termini aferesi, sincope e apocope hanno i seguenti contrari:
aferesi -> prostesi, sincope - >anaptissi, apocope -> epitesi.
L’AFERESI è la caduta di una vocale o di una sillaba a inizio parola, il contrario è la
PROTESI ovvero l’aggiunta di una vocale o di una sillaba a inizio parola.
La SINCOPE è la caduta di uno o più fonemi a interno parola, il contrario è l’ANAPTISSI,
l’aggiunta di una vocale tra due consonanti in modo che si abbia una nuova sillaba.
L’APOCOPE è la caduta di una vocale o di una sillaba a fine parola, l’aggiunta si chiama
EPITESI.
Illustrate ed esemplificate uno o più dei seguenti fenomeni fonetici: a) chiusura in
protonia; b) anafonesi; c) assimilazione dei nessi consonantici latini; d)
palatalizzazione delle sequenze consonante + J
1) Chiusura in protonia: senza accento il sistema vocalico tende a ridurre le differenze di
timbro e di apertura. Nel sistema vocalico panromanzo il vocalismo tonico è a sette gradi di
apertura ma il vocalismo atono non distingue cronologicamente tra ed e e tra o ed ) e
dunque il sistema si riduce a 5 gradi. Analogamente in siciliano, il cui vocalismo tonico è a 5
gradi di apertura, fuori d’accento ne esistono solo tre. Questa tendenza assume in fiorentino
una notevole sistematicità e una propria caratteristica: in posizione protonica e, quindi, nella
sillaba precedente a quella tonica le e diventano i e, meno sistematicamente, le o diventano
u. Ciò può verificarsi all’interno di parola ma anche all’interno di frase.
2) Anaforesi: indica un innalzamento della lingua verso il palato ed è tipica del fiorentino. In
certe condizioni la “e” e la “o” brevi si chiudono, rispettivamente, in “i“ e in “u”.
3) Assimilazione dei nessi consonantici latini: con modalità diverse a seconda dei luoghi i
nessi consonantici latini, composti da due occlusive (ct-pt) si evolvono. In toscano
l’assimilazione regressiva (cioè per influsso del secondo elemento sul primo) produce il
suono intenso “tt”.
Indicare il significato delle seguenti coppie di fenomeni fonetici: aferesi/prostesi,
sincope/anaptissi, apocope/epitesi.
L’AFERESI è la caduta di una vocale o di una sillaba a inizio parola, il contrario è la
PROTESI ovvero l’aggiunta di una vocale o di una sillaba a inizio parola.
La SINCOPE è la caduta di uno o più fonemi a interno parola, il contrario è l’ANAPTISSI,
l’aggiunta di una vocale tra due consonanti in modo che si abbia una nuova sillaba.
L’APOCOPE è la caduta di una vocale o di una sillaba a fine parola, l’aggiunta si chiama
EPITESI.
Indicate un fenomeno ciascuno relativo a: a) vocalismo; b) consonantismo; c)
morfologia; d) sintassi avvenuto nel passaggio dal latino volgare al volgare
italiano.
A - Anafonesi: si tratta di un fenomeno fonetico di innalzamento della “e” chiusa e della “o”
chiusa rispettivamente in “i” e “u” in particolari contesti fonetici. La “e” e la “o” chiusa, mutano
in “e” e “u”, in contesto fonetico palatale e la “e” chiusa muta in “i” in un contesto fonetico
velare. Ad esempio: Vinco/Venco/Vinco
B - Un fenomeno del consonantismo è la caduta delle consonanti finali. Non abbiamo piu
“Lupum” bensì “Lupo”. Questo processo avviene in contemporanea con la perdita della
declinazione latina e designa l’italiano come una lingua le cui parole terminano
esclusivamente per vocale.
C - La nascita dell’articolo comune al territorio romanzo. Esso ha origine da un’attenuazione
semantica dei dimostrativi IPSUM (in Sardegna) e ILLUM. Entro questa comune nascita
romanza, quel che caratterizza il toscano è la formazione precoce, accanto alle forma forte
di una forma debole, creatasi in contesti sintattici precisi. In particolare dopo la parole
uscente per vocale: per lo pane, ma anche lo pane > anche ‘l pane.
D - A livello morfologico nascono forme verbali perifrastiche come il futuro. In latino le forme
sintetiche sono fatte dall’infinito del verbo + presente del verbo avere. Ad esempio Cantare +
Abeo ovvero cantare + *ao > cantarò > evolve in canterò a Firenze.
Illustrate la nascita, la storia e le regole d'uso antiche dell'articolo determinativo
L’articolo è assente in latino come categoria grammaticale. L’articolo ha origine da
un’attenuazione semantica dei dimostrativi IPSUM (in Sardegna) e ILLUM (nella Romània).
Il toscano è caratterizzato da dalla formazione precoce, accanto alla forma forte illum di una
forma debole che in tutta la Toscana è el e a Firenze è il (il resto d’Italia non conosce la
forma debole). La maggior parte delle parole italiane deriva dal caso accusativo e anche
l’articolo con le dovute considerazioni: il e lo possono derivare sia da illum che da ille; i e gli
da illi; il femminile la e le da illa e illae (o illas).
Le forme dell’articolo determinativo maschile, si sono prodotte secondo la sequenza
cronologica IL)LUM >lo>’l il/el. Per gli articoli determinativi c’è da ricordare la presenza del
plurale maschile “li” accanto alla forma palatalizzata “gli”, che è documentata in Dante.
L’alternanzatra “il” e “lo” non rispetta le regole dell’italiano di oggi, ma avviene in base alla
cosidetta legge di Groeber “Io”, cosi come i plurali “li” e gli” si usano all’inizio di una frase o di
verso, o dopo la parola terminante per consonante.
Chiarite il significato di segno diacritico e esemplificate tramite il sistema ortografico
italiano
Nella lingua scritta, i segni diacritici sono lettere che non corrispondono a un suono, ma
servono soltanto a determinare (dal greco diakritikòs ‘che distingue’) la giusta pronuncia di
un’altra lettera o gruppo di lettere. In italiano i segni diacritici sono due: la h e la i.
• L’h compare nei gruppi che, chi e ghe, ghi per distinguerne la pronuncia da quella dei
gruppi ce, ci e ge, gi
cheto / ceto, chicca / cicca
ghetto / getto, ghiro / giro
e in alcune voci dell’indicativo presente del verbo avere, per distinguerle da una serie di
➔omofoni
io ho / o (congiunzione)
tu hai / ai (preposizione articolata)
lui, lei ha / a (preposizione semplice
loro hanno / anno (sostantivo)
• La i compare nei gruppi cia, cio, ciu; gia, gio, giù; scia, scio, sciu; glia, glie, glio, gliu per
distinguerne la pronuncia da quella dei gruppi ca, co, cu; ga, go, gu; sca, sco, scu; gla, gle,
glo, glu
Illustrate ed esemplificate i seguenti fenomeni morfosintattici: a) nascita dell'articolo;
b) creazione del futuro e del condizionale romanzi
A - L’articolo ha origine da un’attenuazione semantica dei dimostrativi IPSUM (in Sardegna)
e ILLUM (nella Romània). Il toscano è caratterizzato da dalla formazione precoce, accanto
alla forma forte illum di una forma debole che in tutta la Toscana è el e a Firenze è il (il resto
d’Italia non conosce la forma debole). La maggior parte delle parole italiane deriva dal caso
accusativo e anche l’articolo con le dovute considerazioni: il e lo possono derivare sia da
illum che da ille; i e gli da illi; il femminile la e le da illa e illae (o illas).
Le forme dell’articolo determinativo maschile, si sono prodotte secondo la sequenza
cronologica IL)LUM >lo>’l il/el. Per gli articoli determinativi c’è da ricordare la presenza del
plurale maschile “li” accanto alla forma palatalizzata “gli”, che è documentata in Dante.
L’alternanzatra “il” e “lo” non rispetta le regole dell’italiano di oggi, ma avviene in base alla
cosidetta legge di Groeber “Io”, cosi come i plurali “li” e gli” si usano all’inizio di una frase o di
verso, o dopo la parola terminante per consonante.
B - 1) per il futuro le forme sintetiche latine sono sostituite dall’ infinito del verbo più il
presente del verbo avere (cantare habeo = canterò);
2) Per il condizionale ( assente in latino come categoria morfologica autonoma) abbiamo la
perifrasi dell’infinito seguito dal perfetto del verbo avere (cantare habui= canterei)
LEZIONE 12 -
Elementi fono-morfologici e sintattici che contraddistinguono la lingua del Duecento.
Gli studi critici hanno riconosciuto da tempo che la lingua italiana si fonda storicamente sul
fiorentino antico, in particolare sul modello dei sommi autori del Trecento: Dante, Petrarca e
Boccaccio. L’italiano standard dei giorni nostri, anche in virtù della codificazione
grammaticale che muove a partire dal Cinquecento (promossa molto spesso da letterati non
toscani), arricchito dal contributo di scrittori di tutta la penisola e con la vivacissima
affermazione del parlato, che appartiene però solo all’ultimo secolo, poggia sulle strutture
grammaticali del fiorentino dell’ultimo Duecento e del Trecento, sublimato e promosso ad
altissimi livelli d’arte da quei tre grandi (le cosiddette "tre corone"). Molto meno scontata è
invece un’altra realtà, dalla quale conviene prender le mosse per comprendere la
straordinaria importanza di Dante nella nostra storia linguistica: all’epoca in cui visse Dante
Alighieri (1265- 1321), il fiorentino non era altro che uno dei tanti dialetti parlati nella
penisola, quelli che designiamo come "volgari". Esso era già stato impiegato con fini artistici
in poesia (molto meno in prosa), ma era ancora ben lontano dalla conquista di quel primato
indiscusso di cui avrebbe goduto nei secoli successivi.
Negli anni intorno alla metà del XIII secolo, infatti, poteva vantare la più alta nobilitazione
letteraria un altro volgare, il siciliano: raffinato e arricchito dal ricorso a elementi ripresi dal
latino e dal provenzale, esso era stato lo strumento espressivo della prima scuola poetica
italiana, fiorita intorno alla corte di Federico II di Svevia a partire dal terzo decennio del
Duecento (ad essa diedero voce peraltro anche autori di altra provenienza regionale). Ma,
ancora, esperienze di poesia didattica e moraleggiante si erano moltiplicate nell’Italia
settentrionale; i primi saggi di prosa letteraria aveva tentato, nella prima metà del secolo, il
bolognese Guido Faba, in un volgare locale impreziosito dalla presenza del latino; un
importante filone di poesia religiosa stava prendendo corpo in Umbria, a cominciare dal
celebre Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi, composto intorno al 1224-25.
In molta prosa del Duecento si coglie il forte influsso delle grandi lingue di cultura: il
francese, il provenzale, con fitti apporti lessicali, e il latino, che incide soprattutto sugli
andamenti sintattici e sull’ordine delle parole. Latineggianti sono per esempio la tendenza a
privilegiare la subordinazione e la collocazione del verbo in posizione finale. Grazie a
Brunetto e al contributo di altri scrittori (fra gli altri Bono Giamboni e l’anonimo autore del
Novellino, che realizza un dettato molto semplice, con periodi brevi e preferenza per la
coordinazione) la cultura fiorentina recupera così anche per gli impieghi prosastici il ritardo
dei suoi esordi; essa affina il suo volgare e si pone come un centro alternativo a Bologna e
soprattutto ad Arezzo, dove Guittone aveva dato con le sue Lettere l’esempio più rilevante di
prosa volgare retoricamente impegnata.
Lingua e letteratura nel Duecento
La letteratura italiana nasce solo nel XIII sec., in forte ritardo sulle altre letterature europee,
per la forza di conservazione del latino. Punto di partenza è la fondazione della Scuola
poetica siciliana, fiorita tra il 1230 e il 1270 ca. alla corte di Federico II. I testi arcaici della
fine del XII sec. e il Cantico delle creature di s. Francesco (1224) sono già componimenti
letterari, ma la loro apparizione come fenomeni poetici è episodica. L'iniziativa della Scuola
siciliana è invece unitaria: propone l'adozione di una lingua d'arte italiana (il volgare siciliano
colto); elabora quelli che saranno i metri principali della lirica posteriore: la canzone e il
sonetto, ispirandosi ai modelli provenzali. La sconfitta di Benevento, con la morte di re
Manfredi (1266), disperde la Scuola. Ma il suo ricupero era già avvenuto in Toscana: i testi
siciliani vi si diffondono, linguisticamente toscanizzati, mentre i rimatori delle varie province
della regione (Guittone d'Arezzo, Chiaro Davanzati) ne assimilano temi, schemi e linguaggio
arricchendoli di un fervore speculativo più vivacemente interessato ai tradizionali temi
provenzali dell'amore, della cortesia e della virtù. Nasce la prosa in volgare nella quale
elementi culturali diversi sono ancora confusi: Guittone d'Arezzo, Brunetto Latini, i vari 'fiori'
(raccolte di prov 555i83f erbi, sentenze di filosofi, aneddoti con finalità morali), i
volgarizzamenti del francese e del latino, le raccolte di novelle come il Novellino. L'uso del
volgare subisce tuttavia ancora la concorrenza di altre lingue più autorevoli: il latino, che è
pur sempre la lingua dei dotti, e il francese, che sembra preferibile per la sua larga diffusione
(il Tresor di Brunetto Latini e il Milione di Marco Polo). Nel Veneto e in Italia settentrionale
fioriscono, sin dalla fine del XIII sec., i poemi cavallereschi detti franco-veneti e una più
originale produzione religiosa, sociale e moraleggiante, collegata al movimento ereticale
lombardo della pataria (Girardo Patecchio, Uguccione da Lodi, Bonvesin de la Riva,
Giacomino da Verona). In Umbria, la poesia religiosa ispirata a s. Francesco trova la sua
espressione collettiva nella lauda, destinata a evolversi in primitiva rappresentazione
drammatica (sacra rappresentazione): di essa si servì il più grande poeta religioso del
tempo, Iacopone da Todi. La poesia religiosa ha il suo corrispettivo gioioso e terreno
nell'ispirazione popolareggiante dei poeti comico-realistici o giocosi della Toscana (Rustico
di Filippo, Cecco Angiolieri, Folgore da San Gimignano): malgrado l'apparente
antiletterarietà dell'espressione, anche questa è poesia dotta. Lo stesso fenomeno si verifica
con le tipiche forme popolari dell'alba e della ballata, che sono elevate a raffinato motivo
lirico dai poeti del dolce stil novo. La poetica del bolognese Guido Guinizelli, estrema
spiritualizzazione della concezione dell'amor cortese, è arricchita di toni personali, oltre che
psicologicamente approfondita, nei poeti toscani (Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni
Alfani, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia e, soprattutto, Dante Alighieri).
LEZIONE 13 -
Illustrate l'opposizione fra enunciato e enunciazione formulata da Émile Benveniste
La distinzione tra soggetto dell'enunciato e soggetto dell'enunciazione risale a Benviste, la
quale fa una distinzione tra due aspetti del linguaggio:
quello in cui appare come un insieme di enunciati ovvero espressioni linguistiche e quello
della produzione di enunciati attraverso l’atto d’enunciazione ovvero il processo di
formulazione di un atto linguistico che ogni locutore compie nel momento in cui parla. Tutto il
lavoro di Benveniste consise nell’elaborare una linguistica dell’enunciazione, la quale non ha
per oggetto, come la linguistica classica, il testo stesso dell’enunciato, ma la definizione del
quadro formale di realizzazione dell’enunciazione.
LEZIONE 14 -
Illustrate la figura di Bono Giamboni e fornite alcuni elementi linguistici e stilistici
della sua scrittura letteraria così come li abbiamo desunti dal brano
analizzato durante il corso.
L'attività di giudice e la partecipazione alle istituzioni cittadine sono in stretto rapporto con la
produzione letteraria di Giamboni., il quale si colloca, a fianco del contemporaneo Brunetto
Latini, come esponente di rilievo di quella intellettualità fiorentina che esercitava l'attività
giuridica, che partecipava attivamente alla vita politica della città e che, attraverso i
volgarizzamenti e la scrittura di opere originali in volgare, era impegnata nella creazione di
una nuova cultura laica. Non vi sono elementi che consentano di determinare la datazione
precisa né l'ordine di composizione delle opere del Giamboni; si sa però che egli sarebbe
tornato più volte sullo stesso testo perché esistono redazioni e forme diverse sia di alcuni dei
volgarizzamenti, sia dell'unica sua opera originale, il Libro de' vizî e delle virtudi. Si tratta di
un trattato di argomento morale e allegorico, conosciuto anche con il titolo Introduzione alle
virtù, non attestato nei codici, ma usato autorevolmente nel vocabolario della Crusca, e
ripreso quindi in diverse edizioni ottocentesche. Nel Libro de' vizî e delle virtudi il Giamboni
inserì l'immagine della battaglia fra gli eserciti dei vizi e delle virtù (tipica di tanta letteratura
medievale dalla Psychomachia di Prudenzio in poi), così come le parti propriamente
didascaliche del suo discorso, all'interno di una sorta di narrazione autobiografica, che trova
nella Consolatio philosophiae di Boezio il suo antecedente più diretto. Molte delle fonti e dei
modelli tardoantichi e medievali del Libro (oltre a Prudenzio e Boezio si possono ricordare
Claudiano, s. Bernardo, Alano da Lilla) sono stati conosciuti dal Giamboni assai
probabilmente per mezzo di testi intermedi, in alcuni casi in volgare.
Filosofia viene a consolare l'autore che sta soffrendo e piangendo per la perdita dei beni
terreni. Ella lo convince però che il lamentarsi per la perdita delle cose del mondo è vano e
ingiusto e che meglio per lui sarebbe l'intraprendere il cammino per la conquista del regno
dei cieli, recandosi presso le virtù. Dopo essere stato sottoposto a esame presso la prima
delle virtù, la fede cristiana, l'autore è quindi ammesso alla visione della battaglia fra le virtù
e i vizi, che hanno come loro alleate le fedi non cristiane: ebraismo e islamismo. Al termine
della battaglia l'autore viene finalmente ammesso come fedele delle virtù: "E dacché [le virtù]
m'ebbero benedetto e segnato e ricevuto per fedele, scrissero Bono Giamboni nella
matricola loro, secondo che la Filosofia disse ch'io era chiamato" (p. 120).
Sotto il profilo dell'analisi linguistica: il dittongamento toscano è regolare (buon(o)), la
sistematica applicazione della chiusura delle vocali toniche in iato: si veda Dio e Idio, tua,
sue. A questa, va aggoiunto un dato che riguarda le forme declinabili (il plurale maschile
dell'aggettivo e pronome possessivi tuo' e tuoi). Sono particolari condizioni fonetiche in cui si
attua la chiusura delle vocali toniche in iato (presenza o assenza di una -i a contatto con una
vocale tonica) che determina una irregolare declinazione delle forme: mio, mia, mie, ma miei
- tuo, tua, tue, tuoi. Si noti, inoltre, la presenza di monosillabi atoni proclitici ed enclitici, la
presenza di alcuni latinismi fonetici, cioè di quelle parole che non recano traccia di quei
fenomeni fonetici che avrebbero dovuto colpirli, evidentemente per recupero dotto della
forma latina. presenza di raddoppiamento fomosintattico, ossia del fenomeno di
rafforzamento della consonante iniziale di parola che si verifica nella catena fonica tra parola
e parola; compresenza della forma forte dell'articolo (lo<(IL)LUM) e della forma debole 'l del
singolare.
LEZIONE 25 -
Definite in che cosa consiste la tematizzazione e illustratene le modalità di
funzionamento nella prosa di Iacopo Passavanti.
La tematizzazione consiste nella messa in evidenza sintattica, in apertura di nuovo periodo,
del tema del nuovo periodo espresso mediante pronome anaforico che rinvia e riprende il
rema del periodo precedente. La tematizzazione nella prosa del Passavanti è un elemento
fondamentale che riesce a funge da coesione tra due frasi differenti e viene utilizzato per
giustificare e regolare le inversioni da Soggetto Verbo a Verbo Soggetto tramite il
complemento e con l’anteposizione del complemento al Verbo e Soggetto. La distinzione fra
tema cioè l’argomento di partenza e rema l’argomento informativo nuovo si può disporre
come una serie di periodi in cui un tal rema di un periodo diventi il tema del periodo
successivo. E proprio nella prosa del Passavanti, tale funzione logica di legame tra le frasi è
svolta con l’apertura del periodo con l’aggettivo o pronome dimostrativo con valore
anaforico. A volte utilizza anche semplici congiunzioni e, ma, per rafforzare i collegamenti
interfrasali, congiunzioni non con funzione coordinativa o avversativa ma per segnalare la
continuità del discorso e renderlo al lettore unitario e continuo nonostante periodi separati.
LEZIONE 27 -
Dalle due lingue dei secoli precedenti (latino/volgare) alle tre lingue del Quattrocento
(greco/latino/ volgare)
Nella prosa letteraria del 400 rinasce il modello classico del Dialogo che nel medioevo era
imitato semplicemente come uno scambio di battute tra interlocutori senza riuscire a toccare
i picchi classici, ciceroniani, in cui da posizioni contrapposte si giunge a una sintesi
superiore. Il dialogo nel 400 avviene per mano di Lorenzo Valla. Questa imitazione deve
molto alle traduzioni del greco, la terza lingua che arriva a insinuarsi nella diglossia
volgare/latino. Quindi nella prima metà del 400 il greco inizia a penetrare nella cultura
umanista. Ci sono figure come Guarino Guarini o Giovanni Aurispa che vanno in oriente per
imparare il greco e tornano carichi di sapere e libri, che diffondano personalmente la lingua
dei filosofi. Poi ci sono ragioni storiche che hanno contribuito allo sviluppo: la caduta di
Costantinopoli ad esempio, da cui molti intellettuali fuggirono in Italia in cerca di riparo. Ma è
nella seconda metà del Quattrocento, con Cosimo de’ Medici che commissiona traduzioni di
Platone a Marsilio Ficino che il greco del 400 conosce la sua fase di massima espansione. Il
greco quindi entra ufficialmente come terza lingua nella situazione diglottica italiana, a
nonostante tutto, il volgare non perde la sua spinta espansionistica. Anzi, grazie al lavoro dei
poeti vicini a corte, si sviluppa sempre più.
Illustrate le dinamiche intercorrenti fra latino e volgare nel Quattrocento
All’interno di questo periodo storico si distingue la fase dell’Umanesimo, il latino classico
diventa il principale strumento espressivo in ogni campo della cultura, anzitutto in quello
letterario. Gli umanisti scrivono le loro opere esclusivamente in latino, perché lo considerano
perfetto e immutabile. il volgare attraversa una fase di crisi e viene sempre più relegato a usi
pratici e a generi letterari popolari. Dopo la metà del, la fase della cultura umanistica, si
avvale non solo del latino ma anche del volgare, si usa appunto la formula di Umanesimo
volgare. Volgare e latino: descrivete la polemica che oppose Flavio Biondo a Leonardo Bruni
e le differenti posizioni da essi rappresentate.
Biondo Flavio lancia l’idea rivoluzionaria che nella Roma antica si parlasse, accanto alla
lingua usata da Cicerone e dai grandi scrittori, una varietà «popolare». Il latino si presentava
per il Flavio in tre varietà linguistiche distinte (poetica, oratoria, vulgaris), Bruni non
accettava questa idea. Secondo lui c’erano state due lingue nettamente distinte: un latino
vero e proprio, corrispondente a quello di uso letterario, e uno del volgo.
LEZIONE 28 - El / il; mila / milia; fusse / fosse; quali termini di queste coppie
appartengono al fiorentino aureo e quali al fiorentino argenteo?
“El” e cominciano a sostituire “i” e “il” per influsso dei dialetti occidentali nel fiorentino
argenteo. Mila fa parte del fiorentino argenteo e sostituisce milia, fusse è fiorentino argenteo
e si affianca a fossi, fusti.
Fra fiorentino aureo e fiorentino argenteo (indicate alcuni dei fenomeni distintivi).
Il termine fiorentino "argenteo" fu coniato da Arrigo Castellani, mentre il fiorentino "aureo" del
Trecento il cui mito si era formato nell'ambiente dell'Accademia della Crusca. Nel suo saggio
del 1967 Italiano e fiorentino argenteo (Arrigo Castellani mostra come «il fiorentino
posteriore al Boccaccio», che chiama argenteo (contrapposto a quello aureo, di matrice
trecentesca), «sia responsabile di vari tratti fonetici, morfologici e sintattici dell’italiano
d’oggi». Di seguito un elenco di sintesi.
1. Il tipo trecentesco brieve, pruova (dittongamento di è e ò in sillaba libera) passa a breve,
prova.
2. L’antico ragghiare, tegghia si palatalizza in ragliare, teglia.
3. Le forme dea(no), stea(no) diventano dia(no), stia(no).
4. I numerali aurei diece, dicessette, dicennove, milia si trasformano in dieci, diciassette,
diciannove, mille.
5. Domane e stamane (benché quest’ultima forma si sia conservata) si mutano in domani e
stamani.
6. Il tipo lo mi è soppiantato da me lo; similmente, al posto dell’antico invariabile gliele si
hanno le forme glielo, gliela, ecc.
7. Si abbandona la trecentesca ciriegia, che diviene ciliegia; e all’aureo pippione s’è
sostituito l’argenteo piccione.
8. Sopra, che nel Trecento non determinava il raddoppiamento, diventa cogeminante intorno
al Quattrocento - Cinquecento: sopracciglio, sopraffare, sopraggiungere
9. Si monottonga uo dopo palatale: fagiolo, gioco, figliolo (anticamente fagiuolo, giuoco,
figliuolo).
10. La prima persona dell’imperfetto indicativo prende –o invece che –a (io era –> io ero,
ecc.).
11. Si sostituiscono le forme dell’imperativo di dare, fare, stare, andare con le forme
corrispondenti dell’indicativo (dai/da’ in luogo di da cogeminante, che però conserva la
cogeminazione con le enclitiche [dammi]).
12. L’antica pronuncia delle lettere dell’alfabeto (a, be, ce, de...) passa a (a, bi, ci, di...).
13. Si diffonde la costruzione noi si fa (anche presso scrittori settentrionali, come Pavese, ad
esempio) per noi facciamo.
LEZIONE 30 - Indicate i latinismi lessicali e sintattici nel seguente brano della Lettera
proemiale alla Raccolta Aragonese: “Ripensando assai volte meco medesimo,
illustrissimo signor mio Federico, quale in tra molte e infinite laudi degli antichi tempi
fussi la più eccellente, una per certo sopra tutte l’altre esser gloriosissima e quasi
singulare ho giudicato: che nessuna illustre e virtuosa opera né di mano né d’ingegno
si puote immaginare, alla quale in quella prima età non fussino e in publico e in
privato grandissimi premi e nobilissimi ornamenti apparecchiati”.
- Laudi : dal latino Laudem che conserva il dittongo -AU- latino Singulare: che sta per “senza
pari”, “unica”
- publico: conserva la scempia del modello latino
- illustruìssimo e nobilissimi e grandissimi: sono superlativi assoluti
- una per certo sopra tutte l’altre esser gloriosissima e quasi singulare ho giudicato: questa
frase è costruita per iperbato ovvero con un architettura simile al latino che pone il verbo in
conclusione di frase.
- non fussino e in publico e in privato: altra costruzione tipica del latino ovvero l’iterazione di
“E” anche davanti alle dittologie.
Analizzate dal punto di vista linguistico il seguente brano estratto dalla Lettera
proemiale alla Raccolta Aragonese:
"Imperocché, essendo la sacra opera di questo celebratissimo poeta dopo la sua
morte per molti e vari luoghi della Grecia dissipata e quasi dimembrata, Pisistrato,
ateniese principe, uomo per molte virtu? e d'animo e di corpo prestantissimo,
proposti amplissimi premi a chi alcuni de' versi omerici gli apportassi, con somma
diligenzia ed esamine tutto il corpo del santissimo poeta insieme raccolse, e si? come
a quello dette perpetua vita, cosi? lui a se stesso immortal gloria e clarissimo
splendore acquistonne"
Il legami interfrasali con la coniunctio relativa tematizzano di rado, e, rinunciando a condurre
per mano il lettore attualizzando il già detto, Poliziano preferisce rilanciare il discorso in
avanti mediante la congiunzione. Imperocché (6, 27, 31, 44, 53, 64) che spiega ma
soprattutto arricchisce con ulteriori precisazioni e corollari quanto espresso in precedenza.
Alcune forme particolari del congiuntivo, quali essendo.Per il consonantismo emergono,
accanto al rifiuto delle innovazioni quattrocentesche, il costante riferimento al latinismo
fonetico, in particolare per l’accoglienza di nessi di consonante + l conservati e indenni dalla
palatalizzazione del volgare: clarissimo , amplissimi e splendore. Essendo la sacra opera di
questo celebratissimo poeta dopo la sua morte per molti e vari luoghi della Grecia dissipata
e quasi dimembrata : Le forme verbali composte sono un’innovazione linguistica romanza e
dunque sono caratteristiche del volgare; numerosi umanisti, nel desiderio di modellare il
proprio volgare sul latino, tentarono di ridurne le occorrenze, sostituendo, laddove fosse
possibile, il passato remoto al passato prossimo (così fa per esempio Leon Battista Alberti).
Il Poliziano invece non censura tali forme, ma piuttosto le ‘depotenzia’, separando di
frequente l’ausiliare dal participio passato (e dunque riducendo la visibilità del tempo
composto) e ponendo in evidenza in fine di periodo il participio passato (ottenendo in tal
modo un effetto latineggiante analogo a quello della posposizione dell’intero sintagma
verbale) dissipata e dimembrata: latinismi lessicali.
LEZIONE 35 -
Quali problemi vengono affrontati e quali soluzioni vengono proposte nelle prime
grammatiche del volgare, in particolare nelle Regole del Fortunio e nelle Prose del
Bembo?
La prima grammatica italiana ad uscire in stampa fu quella di Giovanni Francesco Fortunio,
rimasta incompiuta per la morte improvvisa dell'autore, si intitolava le Regole grammaticali
della volgar lingua. A questa prima edizione fecero seguito due altre edizioni milanesi del
1517.La pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Bembo nel 1525 non interruppe la
fortuna di questa prima grammatica, più volte andata in ristampa. Attento al problema
ortografico, l'autore scriveva una grammatica diretta a letterati, esaltando e valorizzando le
basi letterarie che sole permettevano di parlare di una lingua volgare, e non di molteplici
varietà, spazialmente e geograficamente differenti. L'impostazione data era di tipo filologico,
cercava cioè di trasferire al volgare quella tradizione umanistica che nei decenni precedenti
era stata applicata al latino. Fortunio interpretava esigenze importanti per chi volesse porsi
la questione di una normazione del volgare (ortografia e modelli di riferimento), ma rimaneva
distante dal pubblico di utenti: un pubblico di letterati e scriventi, bisognosi di una norma
sicura a cui adeguare la propria produzione, che non sapeva o poteva contentarsi di richiami
alla tradizione grammaticale latina oppure disinteressati alla visione filologica umanistica del
Fortunio. Era, piuttosto, necessaria loro una grammatica letteraria e retorica in prospettiva
ad una nuova letteratura. A questa esigenza risposero le Prose del Bembo (probabilmente
ideate prima della prima grammatica del Fortunio) del 1525, poi edite nuovamente nel 1549.
La proposta di Bembo fu quella di indicare a modello della scrittura letteraria dei propri
contemporanei la lingua di Bocaccio per la prosa e di Petrarca per la poesia, formulando
giudizi molto limitativi su Dante.
La posizione linguistica di Pietro Bembo e il ciceronianismo.
Bembo nel 1525 era un intellettale di spicco e la comparsa delle Prose beneficiò di questa
sua autorevolezza. La sua presa di posizione sul tema della lingua fu quindi notata da tutti.
Bembo individua due modelli di scrittura. Boccaccio per la prosa e Petrarca per la poesia.
Una scelta che equiparava il volgare al modello classico del binomio: Cicerone-Virgilio. Già
solo con questo parallelismo Bembo da parità letteraria al volgare rispetto al latino. C’è un
precedente che porta a questa posizione, ovvero uno scambio epistolare tra Bembo e Pico.
Quest’ultimo prospettava una certa libertà anarchica per gli scrittori, che secondo lui
avevano la libertà di attingere a momenti diversi della latinità. Bembo risponde a questa
epistola con la sua De Imitatione, in cui ribadisce regole più rigide ma con una base solita: la
considerazione che la più alta forma latina si è raggiunta con Cicerone in prosa e Virgilio in
poesia e sulla base di questi due importantissimi nomi, andavano costruite delle ferree
regole grammaticali.
Pietro Bembo: la posizione teorica vista alla luce del dibattito quattrocentesco e
contemporaneo sul ciceronianesimo
Tra il 1510 e il 1530 trionfa a Roma il “ciceronianesimo”, l'imitazione del sonoro periodo del
grande modello, che ebbe sanzione ufficiale quando Leone X elesse suoi segretari due
eleganti ciceronianisti: Pietro Bembo e Jacopo Sadoleto. Classicismo, imitazione della lingua
e dello stile degli antichi diventano canoni in tutti i generi letterari per ottenere risultati artistici
universali e perenni. Predomina con l'opera del Bembo la forza istituzionale ed esemplare
dell'imitazione dei grandi modelli. Anche in questa direzione la scelta del Bembo è contraria
all'arricchimento linguistico mediante l'uso quotidiano. La lingua letteraria non deve
accostarsi a quella del popolo ma «discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a
mantenersi in vago et in gentile stato» Quando l'affermazione del volgare è definitiva e lo
sviluppo della stampa crea un pubblico più vasto Bembo accentua la frattura fra lingua
letteraria e lingua parlata per favorire la produzione aristocratica – produzione di classe –
gradita ai signori dai quali umanisti e letterati dipendevano.
LEZIONE 37 -
Analizzate nei suoi tratti fonomorfologici la lingua di Machiavelli utilizzando il breve
brano tratto dal De principatibus: "[III] DE PRINCIPATIBUS MIXTIS. [De' principati
misti] - [1] Ma nel principato nuovo consistono le difficultà. E prima, s'e' non è tutto
nuovo, ma come membro - che si può chiamare tutto insieme quasi misto -, le
variazioni sue nascono in prima da una naturale difficultà quale è in tutti e' principati
nuovi. Le quali sono che li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare, e
questa credenza li fa pigliare l'arme contro a quello: di che e' s'ingannano, perché
veggono poi per esperienza avere piggiorato".
L’assetto fonomorfologico la avvicina al secolo e alla geografia linguistica e culturale di una
parte della prosa che la precede. Riprendendo la sequenza dei tratti fiorentini
quattrocenteschi verifichiamo nella morfologia nominale l’incidenza dei nomi femminili della
III terminanti in e anzi che in i (arme). Per quanto riguarda l’articolo la variante li potrebbe
essere un arcaismo grafico.
- Latinismi fonetici: difficultà;
- Il rigore definitorio, oltre che con la disgiuntiva si esprime anche attraverso l’avversativa: III
1, 1 Ma nel principato nuovo consistono le difficultà ;
Individuate nei due brani di Poliziano e Machiavelli riportati qui sotto l'affioramento
dei tratti del fiorentino argenteo:
a) "Conosceva questo egregio principe li altri suoi virtuosi fatti, comeché molti e
mirabili fussino, tutti nientedimeno a quest'una laude essere inferiori";
b) "E sempre interverrà ch'e' vi sarà messo da coloro che saranno in quella
malcontenti o per troppa ambizione o per paura: come si vidde già che li etoli
missono e' romani in Grecia, e, in ogni altra provincia che gli entrorno, vi furno messi
da' provinciali".
a) Morfologia verbale 1) nel verbo essere : (tu) sè >sei ; siete > sete ; fossi > fussi ; fosti >
fusti;
b)Poliziano: Morfologia verbale - il passato remoto di mettere (e composti) con - s - > - ss -:
missi , promisse;
LEZIONE 38 -
Analizzate dal punto di vista linguistico e stilistico il seguente brano tratto dal De
principatibus di Machiavelli:
"[14] L'altro migliore remedio è mandare colonie in uno o in dua luoghi, che sieno
quasi compedes di quello stato: perché è necessario o fare questo o tenervi assai
gente d'arme e fanti. [15] Nelle colonie non si spende molto; e sanza sua spesa, o
poca, ve le manda e tiene, e solamente offende coloro a chi toglie e' campi e le case
per darle a' nuovi abitatori, che sono una minima parte di quello stato".
Se l’assetto fonomorfologico la avvicina al secolo e alla geografia linguistica e culturale di
una parte della prosa che la precede la sintassi e lo stile la proiettano senz'altro verso il
secolo e la geografia linguistica e culturale di una parte della prosa che la segue le categorie
della forza, le strategie generali di organizzazione del testo e alle strutture della sintassi
mirano alla brevità e all’evidenza per dare un effetto razionalizzante e di categorizzazione
del reale raggiunto ad esempio col ricorso insistito al modulo il modulo o ... o : *III 14, 1-
2 colonie in uno o in dua luoghi * ... + perché è necessario o fare questo o tenervi assai
gente d’arme e fanti; III 15, 2 e sanza sua spesa, o poca Latinismi: -- uso del latino nei titoli
generale e dei capitoli, ma anche gli inserti latini nella trattazione: compedes ‘ceppi’ III 14, 1,
quest’ultimo un esplicito rimando a Livio, ab Urbe condita , XXXII, 37, 2-4) Riprendendo la
sequenza dei tratti fiorentini quattrocenteschi verifichiamo nella morfologia nominale
l’incidenza dei nomi femminili della III terminanti in e anzi che in i (arme).
LEZIONE 40 -
Tracciate un quadro dei rispettivi ambiti d'uso del latino, del volgare e del dialetto nel
secondo Cinquecento e nel Seicento.
La seconda parte del secolo (più coerente, sotto vari punti di vista, con il secolo successivo),
rimarca il valore di svolta della fine del Concilio di Trento, che, oltre che una data epocale in
fatto di costume e di ideologia “ebbe effetti rilevanti nel campo della comunicazione sociale,
della politica linguistica della Chiesa, della predicazione”.
La seconda metà del Cinquecento e il Seicento sono normalmente associati a due categorie
interpretative entrambe desunte dal mondo delle arti (il Manierismo e rispettivamente il
Barocco) il concetto di Manierismo è entrato nella storia dell’arte per indicare tendenze e
caratteri propri del secondo Cinquecento. La sua fortuna deriva dal fatto che si tratta di un
comodo raccordo tra due realtà apparentemente incommensurabili, come sono il
Rinascimento e il Barocco. È perfino banale ricordare come la diffusione del concetto di
Manierismo sia stata parallela ad un riesame del giudizio sul Barocco [...] che da equivalente
di deviazione e di perversione del gusto, quale era stato reputato a partire dal Settecento e
dall’Illuminismo, venne interpretato come la cifra di una crisi del razionalismo
cinquecentesco, con sbocchi verso forme di soggettivismo accentuato e di svuotamento
della tradizione, tappa necessaria, insomma per lo sviluppo di quello che si usa chiamare lo
‘spirito moderno’. Anche in questo senso è di importanza determinante il richiamo al
Manierismo come transizione tra due poli estremi (il classicismo razionalista e il Barocco
anticlassico. Nell’Accademia Fiorentina in verità si fronteggiarono istanze ‘classicheggianti’ e
filobembiane come quella di Benedetto Varchi (1503- 1565) da una parte, e pretese di
superiorità del fiorentino (anche nella sua versione contemporanea, di lingua parlata e
mutevole nella diatopia e della diastratia) rispetto agli altri volgari, come quelle di Giovan
Battista Gelli (1498-1563) e Pier Francesco Giambullari (1495-1555), dall’altra. Se tali
posizioni si trovavano contrapposte riguardo al modello linguistico da proporre, esse erano
però concordi nella necessità di rivendicare a Firenze il proprio ruolo di sede privilegiata di
lingua (nativa o letterariamente educata), e sulla necessità di recuperare un ‘primato’ che,
per quanto riguardava la redazione della grammatica del volgare era stato sottratto a
Firenze da i non fiorentini Fortunio e Bembo. Con Salviati il fiorentino non teme rivali,
essendo lingua viva e non morta come il greco e il latino, e avendo fra i suoi autori «quello
stupore e quel miracolo» che è Dante.
LEZIONE 48 -
Francesco Algarotti, l'Accademia della Crusca e la Francia
Francesco Algarotti riconosce come la condizione socio-politica di un paese ne influenzino il
panorama culturale ed imputa alla ‘picciolezza e divisione degli stati’ la decadenza letteraria
italiana. Lo stato presente della lingua italiana, così come, viceversa, il corrispondente stato
del francese, collimano in maniera speculare con lo stato sociale in cui vivono e pensano i
parlanti. Egli attribuisce le caratteristiche del francese a lui contemporaneo all’efficacia della
riforma attuata già nel Seicento da un organo ufficiale e centrale, l’Académie française. Ben
diverso il contesto in cui era nata la Crusca, organo in origine assolutamente privato e che
dunque né aveva espresso la volontà di un centro politico e culturale paragonabile alla
Parigi della monarchia francese, né aveva potuto prescindere dal ricchissimo passato
letterario. Altra fondamentale differenza era nell’atteggiamento: da un lato l’Accademia
italiana guarda all’indietro e svolge un ruolo di “conserva”, di tesaurizzazione della tradizione
linguistica, dall’altro l’Académie che guarda al futuro avendo come obiettivo di riformar la
lingua “a benefizio degli scrittori che doveano venire dipoi”.
Quali sono i piani linguistici più permeabili ai francesismi introdotti nel Settecento?
A partire dagli anni Trenta del Settecento, dunque, si vengono man mano stabilendo su
territorio italiano dinastie francofone o francofile. Già nel secondo Seicento si era andata
sempre più concretizzando una apertura internazionale (cosmopolita) dell’Italia nei confronti
della cultura europea con particolare riguardo alle letterature francese, inglese e, seppure in
minor misura, tedesca. Il “frazionamento politico-culturale” da sempre lamentato per l’Italia e
ricordato sopra per l’Italia del Settecento risulta agli uomini di quel secolo e del precedente
ancora più grave e manifesto se posto in confronto alla situazione delle grandi
organizzazioni statali inglese e soprattutto francese. La “gallomania” si esercitò tanto a livello
letterario e linguistico, quanto a livello del costume, della moda, dei comportamenti. Il
fenomeno gallicizzante dunque che, a partire dalla seconda metà del Seicento, interesserà
con sempre maggiore forza l’intero secolo XVIII, non è esclusivamente linguistico, né
linguistico-letterario. È infatti impossibile decidere se, a determinare la scelta del francese
come lingua della conversazione delle classi colte per esempio a Milano (dove si parlava
francese anche in contesti familiari, come avviene nella famiglia Verri nell’avanzato XVIII
secolo), sia stata la penetrazione della cultura letteraria della Francia (il teatro tragico del
Seicento di Jean Racine [1639-1699] e Pierre Corneille [1606-1684] o il teatro comico di
Molière [1622-1673] o, più tardi, le idee dei philosophes illuministi), o se, viceversa, il fatto
che il francese sia divenuto una sorta di lingua franca dell’Europa abbia facilitato la fortuna e
la diffusione della letteratura di quel paese.
Illustrate i temi e le posizioni della querelle des anciens et des modernes e di quella
correlata fra Dominique Bouhours e Giovan Gioseffo Orsi.
Nel 1688 Fontanelle interviene con la cosiddetta querelle des anciens et des modernes, una
polemica relativa al rapporto gerarchico da stabilirsi o da riconoscere alla tradizione antica
rispetto alla cultura e alla letteratura moderne. Fontanelle sostiene l'uguaglianza di natura tra
antichi e moderni. Il tempo determina, poi, la superiorità dei moderni nella scienza e nella
filosofia, mentre riguardo alla letteratura e alla poesia egli ammette che gli antichi siano
superiori o al massimo eguagliati. la polemica fra antichi e moderni, dominò anche nel
Settecento, Nella contrapposizione fra vecchio e nuovo, fra anciens e modernes si celava
anche la contrapposizione fra italiano e francese. Nel 1671, e poi nel 1687 Dominique
Bouhours aveva espresso giudizi poco lusinghieri sulla la bizzarria e l'artificiosità della prosa
e poesia barocca accusata di eccessiva innaturalezza sia a causa della scrittura per
immagini metaforiche sia, e soprattutto, a causa del ‘disordine’ e artificiosità sintattica,
contrapponendo all’ ordine inverso l’ ordine naturale proprio del francese. A quelle critiche, in
difesa della tradizione letteraria italiana rispose Giovan Gioseffo Felice Orsi, che distinse le
lingue in propense alla costruzione inversa , portate all’espressione dell’immaginazione e
propense alla costruzione diretta proprie del francese.
LEZIONE 51 - Illustrate un argomento a vostra scelta fra quelli studiati nel volume di
Roberta Cella o, a seconda dell'anno di corso, nel volume di Francesco Bruni
Bruni sostiene nel capitolo 10 di l’italiano letterario che la diffusione dell’italiano in Europa sia
dovuto all’inventiva e alla vivacità culturale della lingua. L’italiano si afferma infatti poiché
lingua di cultura. Il suo sviluppo culturale è dovuto all’iniziativa di gruppi o singoli, sulla base
di idee esportabili come l’umanesimo e il classicismo. Il Rinascimento italiano ha avuto un
ruolo determinante nel diffondere l’alta considerazione per la tradizione latina e greca,
insegnandola alla cultura europea. Recenti studi hanno poi dimostrato come in alcuni luoghi
del Mediterraneo e in oriente l’italiano abbia avuto la funzione di lingua internazionale per
trattati di pace e giornali, che fosse la lingua più usata per testi di carattere commerciale e
politico presso i consolati francesi ed inglesi di Tunisi e Tripoli e che fosse conosciuta nei
Balcani da greci e albanesi.
Illustrate dal punto di vista linguistico, stilistico e ideologico il seguente brano tratto
dalla Rinunzia avanti il notaio di Alessandro Verri:
"Cum sit, che gli Autori del Caffè siano estremamente portati a preferire le idee alle
parole, ed essendo inimicissimi d'ogni laccio ingiusto che imporre si voglia
all'onesta libertà de' loro pensieri, e della ragion loro, perciò sono venuti in parere di
fare nelle forme solenne rinunzia alla purezza della Toscana favella, e ciò per
le seguenti ragioni".
Commentate dal punto di vista grafico, fono-morfologico e sintattico il seguente
brano della Rinunzia di Alessandro Verri:
"6. Porteremo questa nostra indipendente libertà sulle squallide pianure del dispotico
Regno Ortografico e conformeremo le sue leggi alla ragione, dove ci parrà
che sia inutile il replicare le consonanti o l'accentar le vocali, e tutte quelle regole che
il capriccioso Pedantismo ha introdotte, e consagrate, noi non le rispetteremo
in modo alcuno. In oltre considerando noi che le cose utili a sapersi son molte, e che
la vita è breve, abbiamo consagrato il prezioso tempo all'acquisto delle idee,
ponendo nel numero delle secondarie cognizioni la pura favella, del che siamo tanto
lontani d'arrossirne, che ne facciamo amende honorable avanti a tutti gli
amatori de' riboboli nojosissimi dell'infinitamente nojoso Malmantile, i quali sparsi
quà e là come giojelli nelle Lombarde cicalate, sono proprio il grottesco delle
belle Lettere".
La libertà rivendicata significa dunque, prima di tutto liberazione da un’ortografia (6,1-4)
fissate sulla base del fiorentino del Trecento e, per volontà dei Grammatici. verifichiamo che
la liberazione dal laccio cruscante è rappresentata da un’assenza, dalla mancata adesione
cioè a quei fiorentinismi, esibiti dai puristi di stretta osservanza. Si veda del resto come
alcuni sintagmi fissi siano segnalati come citazione mediante il corsivo: pura favella (6,6);
È ‘citazionale’ infine l’uso di ribobolo (6,7), nelle due prime edizioni della Crusca registrato
con rinvio ad enigma, nella III e IV Crusca glossato come ‘Sorta di dire breve, e in burla’).
Usi grafici divergenti dalla ortografia moderna
1) uso di “j” che ricorre in nojosissimi 6, 7; nojoso 6, 8; giojelli 6, 8; relativa libertà nell’uso
delle maiuscole:
A) la maiuscola è usata a) per aggettivi denotanti l’origine geografica (Lombarde 6,8).
Il quadro fono-morfologico e ormai quello dell’italiano moderno Anche l’adozione di apocopi
ormai appartenenti alla lingua letteraria media, indica un registro linguistico sostenuto, ma
non particolarmente connotato in tal senso. Si vedano: -- dopo n : (che però è un sintagma
fisso); le cose utili a sapersi son molte 6,4-5; dopo r : l’accenta r le vocali 6,3;
Il francese è esibito come lingua delle buone maniere e della socievolezza nella ‘citazione’
della formula “amende honorable” a 6,7, con provocatoria ostentazione proprio nel momento
in cui si chiede formale perdono ( amende ) di una cosa di cui Verri dichiara in realtà di non
vergognarsi (6,6- 7: “del che siamo tanto lontani d’arrossirne”).
LEZIONE 55 - Alessandro Manzoni e la lingua: dal primo abbozzo del romanzo, alla
prima edizione dei Promessi Sposi, all'edizione definitiva.
Alessandro Manzoni individuò il problema dell’ibridismo nella stesura del Fermo e Lucia che
a suo avviso era un composto indigesto di frasi lombarde, toscane, francesi e latine. La
prima stesura del romanzo comportò una pronta revisione per risolvere il problema messo a
fuoco e quindi Le soluzioni per sfuggire al lombardismo e al francesismo le trova nella
lessicografia settecentesca di ascendenza cruscante o purista o dagli autori cinquecenteschi
comici e popolari. Mentre sta ultimando la revisione del romanzo I Promessi Sposi uscita a
dispense fin dal 1825 progetta un viaggio a Firenze che risulterà di forte impatto per il
contatto con il fiorentino vivo, parlato. La prima revisione dell’opera fu dunque il passaggio
dal modello linguistico del toscano letterario e libresco al modello linguistico fiorentino
colloquiale vivo ma non plebeo ascoltato da amici e conoscenti proprio nel soggiorno
fiorentino. Ne sarebbe uscita una seconda e definitiva edizione che fu contrastata e
censurata a causa della coraggiosa scelta linguistica.
Graziadio Isaia Ascoli e il Manzoni della Relazione.
Graziadio Isaia Ascoli linguista di professione guarda con occhi da scienziato al problema
nei modi con cui creare e diffondere una lingua nazionale: In Italia secondo Ascoli non c’è un
centro culturale e politico da cui può scaturire un linguaggio nazionale e Firenze non lo ha
mai rappresentato. Una soluzione linguistica letteraria non serve, occorre che in Italia si
formi quella società civile che solo la scuola e l’istruzione può creare, fatta l’Italia restano da
fare gli italiani e fatti gli italiani ne discenderà la loro lingua. Ascoli contraddisse le proposte
per una lingua comune espresse dal Manzoni nella Relazione presentata alla Commissione
nominata dal ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio nel 1868 ovvero la
compilazione di un vocabolario basato sull’uso del linguaggio vivo fiorentino, preferenza
accordata ad insegnanti toscani o educati in Toscana, sussidi statali ai comuni che si
dotassero di maestri nativi toscani; conferenze di maestri toscani nelle scuole delle varie
province; borse di studio ad allievi di scuole magistrali che consentissero di trascorrere un
anno scolastico a Firenze, per fare pratica in una delle migliori scuole primarie.
LEZIONE 57 - Tracciate per sommi capi l'evoluzione del genere romanzo in Italia dal
Seicento all'Ottocento e collegate tale genere alla problematica linguistica
dell'Unificazione politica.
Il romanzo seicentesco e primo-settecentesco aveva assunto le caratteristiche di un prodotto
di massa venendo ad occupare i margini della letteratura. Fra la fine del Settecento e gli inizi
dell’Ottocento però in Italia si erano avuti alcuni tentivi di “nobilitare” il genere della
narrazione lunga di tupo romanzesco: tentativi molto diversi per forme e caratteristiche, ma
significativi in quanto esperimenti di collocazione del romanzo nella letteratura italia. E’ con il
terzo decennio dell’Ottocento che l’ostracismo decretato dal classicismo italiano alla nuova
forma, venne prima combattuto e poi vinto. Nel 1827 si ha la data del romanzo italiano
moderno e a questo stesso anno si ha la prima edizione dei Promessi Sposi. Il successo dei
romanzi di Walter Scott si unì al successo interno dei romanzi dove il “vero”, l’ambientazione
storica accoglie e si mescola al “verisimile”, alla storia dei personaggi, alle loro vicende, ai
loro affetti, una forma di “storia finta” che lascia spazio alla “umana fantasia”.
La diffusione dei giornali e dei romanzi d’appendice, scritti con un lessico moderno,
diventano di facile lettura e favorendo l’aumento dell’alfabetizzazione anche per gli strati
sociali più bassi.
L'Ottocento: la nascita del romanzo
Nell’Ottocento si afferma il romanzo come genere letterario. Alessandro Verri, alla fine del
Settecento, diedeo alle stampe due romanzi: “Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene” e
“Notti romane del sepolcro degli Scipioni” e così i due romanzi costituiscono l’atto di
rifondazione nobilitante del genere in Italia con riferimenti al mondo classico, alle rovine della
città antica. Ugo Foscolo e Vincenzo Cuoco, subito dopo diedero vita al romano epistolare
con Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis e Platone in Italia. Il tentativo di Verri, Foscolo e Cuoco
di nobilitare il genere romanzo seppur da apprezzare, non riuscì in modo incisivo nello scopo
di abbattere le resistenze dei letterati italiani posizionai sui modelli classicistici. Il terzo
decennio dell’Ottocento fu decisivo in tal senso con il movimento romantico a vincere le
resistenze del classicismo italiano. Nel 1827 viene pubblicata la prima edizione de I
Promessi Sposi di Manzoni e molti autori contribuirono alla diffusione di questo genere. In
più il romanzo, avendo un lessico più comprensibile, rese le pubblicazione di facile
consultazione e quindi di largo consumo.
Verga nasce a Catania nel 1840, lo stesso anno dell'uscita della seconda edizione de
I Promessi Sposi revisionata da Manzoni con il fiorentino parlato dalle classi colte. La sua
formazione letteraria parte dai maestri e i classici della della generazione precedente.
Verga, come ci informa il suo amico De Roberto, studiò presso la scuola tenuta dal maestro
Francesco Caranna mentre gli studi secondari li fece presso Antonio Abate.
Presso Abate l'insegnamento della lingua era però trasmessa tramite l'emulazione
l'insegnamento sinonimico piuttosto che tramite regole e precetti. Lo studio del latino era
trasmesso attraverso la lettura dell'opera “Histoire romaine depuis la fondation de Rome
jusqu'à la batalile d' Actium” pubblicata in cinque volumi fra il 1738 eil 1741 da Charles Rollin
(1661-1741), che fin dal 1761 era stata tradotta in italiano, un testo manualitico sorpassato
da un secolo. Il giovane Verga non poteva accorgersi certo della limitatezza di quella scuola
pur avendone il sentore. La maturazione del giovane scrittore e il distacco dal maestro
avvenne nel decennio 1850-1850. Verga era ormai consapevole dell'esigenza di una
padronanza dell'italiano.
LEZIONE 63 - Individuate alcuni elementi della lingua del giovane Verga nel breve
brano riportato qui sotto, tratto dai Carbonari della montagna (versi 20 - 25):
"alla nostra volta ripresimo i capitoli che dormivano da qualche mese in mezzo alle
ansie supreme dell'aspettativa dell' Aprile 1860.
Li ripresimo quasi con slancio... e poi, ci si perdoni il peccato, in quei momenti ci
parevano belli, ci pareva di combattere anche la nostra battaglia morale ai Borboni e a
Clery"
Gli elementi della lingua del Giovane Verga presenti in questo brano (versi 20-25) tratto dai
Carbonari della Montagna sono: a livello di morfologia la presenza della forma verbale
cosiddetta forte di I persona plurale del perfetto “Li ripresimo” verso 21. L’origine di tale
forma è analogica e si riconduce alla I persona singolare con la desinenza –mo caratteristica
della II plurale per creare la forma binaria io ripresi, noi ripresimo. La presenza di questo tipo
di forme verbali fu segnalata da Luigi Russo nel libro Giovanni Verga e precisamente nel
capitolo intitolato Nei versi presi in esame si notano forme dell’imperfetto che dominano nel
resto dell’opera e il cui uso si deve anche ad un rilievo sintattico e non solo stilistico o di
pertinenza narrativa. Gli imperfetti dormivano, parevano e pareva sono degli imperfetti che
hanno un valore aspettuale della continuità d’azione.
LEZIONE 67 - Individuate alcuni elementi della lingua del giovane Verga nel breve
brano riportato qui sotto, tratto da Sulle lagune:
“Che ci resta ora, amico mio? Io veggo tutto nero, sarà il pianger molto che ho fatto…
io, sì… vorrei sperare, Dio mio! come?... e non posso… e non ne ho il coraggio!...”
“Ieri ricevemmo una lettera da mio fratello che è a Brescia; egli ci scrive di sperare,
che nostro padre non corre pericolo di venir processato per ora, e che fra breve, a
quel che si dice, sarà liberato anche lui, come tutti noi poveri prigionieri, dai nostri
fratelli liberi… Oh, se potessi sperare com’egli spera! Sento che ciò mi farebbe un
gran bene… Dice che egli verrà colle prime guide dei nostri liberatori.”
Il romanzo “Sulle Lagune” presenta un narratore onnisciente che conduce ad una narrazione
opaca. Le caratteristiche linguistiche sono le incertezze sulle reggenze preposizionali. Si
notano periodi brevi, ridotti ad una principale e ad una subordinata di primo grado. Troviamo,
nel testo frasi esclamative, interazioni, puntini di reticenza che connotano il tono di sfogo e
lamento. Sono presenti frasi ellittiche. Verga usa l’avverbio di luogo “ce e ci” che deve
invece svolgere la funzione di pronome di prima persona plurale. Nella morfologia nominale:
uniforme masch.; “ce, ci” in funzione di pronome di prima persona plurale (55 Che ci resta,
58 ci scrive).
Illustrate dal punto di vista sintattico (tenendo conto delle due parti narrativa e
epistolare che vi si alternano) il seguente brano tratto da Sulle lagune:
"Quelle date dovevano molto parlare al cuore del giovane ungherese, poiche? dopo
aver baciato l'immagine, egli baciava ognuna di quelle date. | Poscia comincio?
a rileggere, forse per la ventesima volta, quelle lettere, mentre insieme ad altre carte le
andava ordinando dentro una grossa sopracoperta, nella quale avea scritto
in antecedenza l'indirizzo di Collini. [...] Mio buon amico, | Vi scrivo la prima volta dal
mio paesello nativo, seduta innanzi la mia finestra, da cui un raggio allegro
di sole si riflette sul mio tavolino, frastagliato dalle foglie del vecchio pergolato che
incorona il davanzale. Ho dinanzi a me quest'immenso orizzonte, inondato di
luce splendida e cerulea, che si stende sino alla laguna, ove voi dovete essere a
quest'ora... fors'anche affacciato alla vostra finestra e cogli occhi rivolti verso...".
Il brano è per lo più costituito da periodi brevi, normalmente ridotti ad una principale e a una
subordinata di primo grado. Rari invece sono i casi in cui alla principale si accompagnano
subordinate che superino il terzo grado di subordinazione. Quando ciò avviene assistiamo a
un impacciata collocazione degli elementi frasali o parentetici: “Vi scrivo la prima volta dal
mio paesello nativo, seduta innanzi la mia finestra, da cui un raggio allegro di sole si riflette
sul mio tavolino, frastagliato dalle foglie del vecchio pergolato che incorona il davanzale” (rr.
26-28) nel quale, contro l’interpretazione che verrebbe spontanea, non è il più vicino tavolino
ad essere frastagliato bensì il più lontano raggio. nella sezione narrativa che apre il cap. XVI
si avverte la tensione insoddisfatta ad essere chiaro e inequivoco mostrata dal ricorso
ridondante ai deittici quelle. Dal punto di vista del tono e della sintassi la sezione epistolare
presenta Rari capoversi più ampi e distesi ma anch’essi, sono costituiti da allocuzioni, frasi
esclamative e interrogative, interiezioni, puntini di sospensione, a connotare il tono di sfogo
e di lamento; quest’ultimo si esprime tramite periodi brevi o brevissimi, di solito monofrasali,
o tramite frasi nominali (e dunque ellittiche) che, anziché legarsi per il mezzo di connettivi
logici (congiunzioni subordinanti), si affidano ad una sintassi paratattica e slegata tenuta
insieme sulla pagina dall’interpunzione marcata (punti interrogativi, esclamativi e punti di
sospensione), esplicito segnale di emotività.
Collocate Eva nel percorso linguistico e letterario di Verga e illustrate gli aspetti
linguistici interessanti del seguente brano:
"Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un
mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli
infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla
poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo
che moriva. | Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare.
Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento
per levarsi"
Verga nel 1872 decide di abbandonare il giovanile inedito Frine, scritto durante in primo
soggiorno fiorentino. Eva uscì, nell’estate del 1873 e racconta la storia d’amore della
ballerina Eva e del pittore Enrico Lanti per tanti tratti narrativi e tematici alla storia raccontata
in Frine. Le obiezioni fatte dai recensori alla lingua di Eva, riguardavano vari aspetti: il
lessico in primo luogo (forestierismi, povertà lessicale, inappropriatezza), ma anche e
soprattutto contorsione sintattica e ‘barocchismo’ di immagini. Ma possiamo dire che la
critica ha riconosciuto uno snodo artistico importante, sia nella gestione sapiente dei
momenti di dinamicità e di stasi, sia nella piena percezione dell’autonomia dei tempi della
storia narrata e dei tempi del racconto, sia infine nella costruzione del discorso riportato
Levarsi: Un'opzione in senso favorevole al toscano potrebbe sembrare anche l’insinuarsi
nella lingua del Verga di levarsi nel significato di ‘alzarsi in piedi’. L’ intero testo di Eva
mostra una netta preferenza di levare (sei casi) contro alzare (due casi) quando significhi
‘tirar su, sollevare’; la situazione si ribalta se consideriamo esclusivamente il significato di
‘alzarsi in piedi’; in questo senso la forma riflessiva alzarsi ricorre in otto casi mentre levarsi
compare solo in tre casi . Che in questi casi il Verga stia tentando di sganciarsi da scelte
lessicali che gli sono più naturali, pare confermato dall'incertezza con cui a 22 all’iniziale “
fece istintivamente un moto per levarsi” di Frine tiene dietro in Eva “fece come un
movimento per alzarsi”, subito di nuovo corretto in levarsi.
LEZIONE 82 - Nedda: la scoperta della novella, la scoperta del mondo degli umili e le
strategie linguistiche verghiane.
Nedda cambia la visione della vita, cambia anche il contenuto della nuova arte: non più
duelli, non più amori raffinati di artisti e di ballerine, ma passioni semplici, tragedie silenziose
e modeste di povere contadine. L’adesione umana di Verga al mondo degli umili e l’ingresso
letterario nel genere “rusticale” che Nedda rappresenta non corrispondono a mutamenti
sostanziali né nelle strategie narrative messe in atto, né nelle scelte linguistiche del nostro
autore, aspetti complementari dal punto di vista stilistico: è infatti facile decretare (alla luce
degli sviluppi che verranno) come la presenza di un narratore e dunque l’assenza
dell’impersonalità e/o coralità, che verranno conquistate con le novelle e i romanzi
successivi, corrispondano in maniera pienamente giustificata ad una lingua governata
ancora da una personalità narrativa. Nel caso specifico di Nedda poi si tratta di un narratore
che si autorappresenta (nella sezione proemiale della novella) come appartenente ad una
classe sociale differente dal mondo narrato, appartenente ad un luogo geograficamente
distante da quello delle campagne siciliane in cui la vita di Nedda si svolge, appartenente
infine ad un milieu culturale e intellettuale che fin da subito viene caratterizzato come
superiore a quello cui appartiene la ragazza.
Uso dei tempi verbali nella lingua letteraria verghiana in genere e nei Malavoglia in
particolare.
Verga nei malavoglia usa spesso il tempo verbale dell'imperfetto perchè adatto ad esprimere
il discorso indiretto. Il discorso indiretto legato è collegato al verbo introduttore “da che”
oppure da altri elementi variabili “come, perché” ecc.., ma il connettore di massima
ricorrenza il “che” dichiarativo viene spesso omesso e sostituito da elementi di
interpunzione, ma bisogna fare attenzione perché non sempre questi segni sostituiscono il
“che” dichiarativo e spesso introducono un discorso indiretto libero segnalato dalla presenza
dei deittici come “già, ora” ecc..
Analizzate, dal punto di vista del discorso, il seguente brano dei Malavoglia,
individuando nell’indiretto libero i connettori, e illustrandone il rilevatore
primario della trasposizione e i rilevatori secondari (per es. deissi, enfasi, formule
idiomatiche, esclamative e interrogative).
“Alessi tornava a casa il sabato, e gli veniva a contare i denari della settimana, come
se il nonno avesse ancora giudizio. Egli rispondeva sempre di sì, col capo; e
bisognava che andasse a nascondere il gruzzoletto sotto la materassa, e gli diceva,
per farlo contento, che ci voleva poco a mettere insieme un’altra volta i denari
della casa del nespolo, e fra un anno o due ci sarebbero arrivati. | Ma il vecchio
scrollava il capo, colla testa dura, e ribatteva che adesso non avevano più bisogno
della casa; e meglio che non ci fosse mai stata al mondo la casa dei Malavoglia, ora
che i Malavoglia erano di qua e di là”.
Il discorso indiretto libero è individuabile mediante tratti pertinenti che si distinguono in
rilevatori primari, cioè costanti grammaticali di natura formale, e rilevatori secondari, cioè
elementi variabili e meno formalizzabili. Rilevatori sono la trasposizione, che investe tempi,
modi e persone del verbo, pronomi personali (gli), avverbi circostanziali (adesso), aggettivi e
pronomi dimostrativi e possessivi, trasformandoli da elementi formali del discorso diretto in
elementi formali del discorso indiretto; e l’indipendenza del costrutto dal verbum dicendi o
putandi . Rivelatori secondari sono tutti quegli elementi del parlato, principalmente di
carattere enfatico o idiomatico, che collaborano al riempimento lessicale o sintattico del
costrutto; essi da un lato sono legati al contenuto, dall’altro ricorrono con più o meno
frequenza a seconda che lo scrittore inclini più o meno al discorso diretto. Possono essere
formule asseverative, imprecative o esecrative, appellativi, frasi nominali, frasi interrogative
o esclamative, topicalizzazioni, proverbi.
Analizzate, dal punto di vista del discorso, il seguente brano de I Malavoglia,
individuando nell’indiretto libero i connettori, e illustrandone il rilevatore
primario della trasposizione e i rilevatori secondari (per es. deissi, enfasi, formule
idiomatiche, esclamative e interrogative).
“Gli parlava pure di quel che avrebbero fatto quando arrivava un po’ di provvidenza, per
fargli allargare il cuore; gli diceva che avrebbero comprato un vitellino a
San Sebastiano, ed ella bastava a procurargli l’erba e il mangime per l’inverno. A maggio si
sarebbe venduto con guadagno; e gli faceva vedere pure le nidiate di
pulcini che aveva messo, e venivano a pigolare davanti ai loro piedi, al sole, starnazzando
nella polvere della strada. Coi denari dei pulcini avrebbe anche
comperato un maiale, per non perdere le buccie dei fichidindia, e l’acqua che serviva a
cuocere la minestra, e a fin d’anno sarebbe stato come aver messo dei soldi
nel salvadanaio. Il vecchio, colle mani sul bastone, approvava del capo, guardando i pulcini”.
LEZIONE 94 -
Il problema della lingua dopo I Malavoglia.
Il problema della lingua dopo i Malavoglia si presenta quando Verga inizia a scrivere gli
abbozzi di Mastro Don Gesualdo. Nei primi elaborati del Mastro Don Gesualdo si riscontra
una narrazione monotona e soprattutto è evidente l’assenza assoluta del discorso indiretto
libero a fronte di un poco uso del discorso diretto. Verga infatti utilizza il discorso indiretto
tradizionale. Altri elementi riscontrabili sono nel lessico le incertezze tipiche della fase
giovanile ed individuabili nella novella Nedda. I sette abbozzi incompiuti sono la
testimonianza della crisi che investe il sistema espressivo verghiano dopo la stesura della
novella I Malavoglia che induce l’autore a rinnovarsi grazie ad una ricerca durata sette anni
dall’82 al ’89. Il Verga utilizza il laboratorio della novella per sperimentare un nuovo stile
come già era successo per l’elaborazione travagliata de I Malavoglia.
Dopo i malavoglia verga inizia a scrivere gli abbozzi di Mastro Don Gesualdo , ma in questi
scritti troviamo una narrazione monotona, manca del tutto il discorso indiretto libero e il
discorso diretto è poco usato, perchè tende ad usare il discorso indiretto tradizionale invece
nel lessico ci sono delle incertezze tipiche della fase giovanile in particolare della Nedda.
Questi 7 abbozzi rimasti incompiuti costituiscono la testimonianza della crisi che investe il
sistema espressivo verghiano dopo i malavoglia, che porta l'autore a rinnovarsi attraverso
una ricerca durata sette anni dall'82 all'89. Come già era successo durante il lungo travaglio
che aveva accompagnato l’elaborazione de I Malavoglia, il Verga utilizza il laboratorio della
novella per sperimentare un nuovo stile.
Illustrate brevemente il contenuto di uno dei volumi a scelta (Daria Motta, La lingua
fusa; Fulvio Leone, La lingua dei Malavoglia rivisitata; Gabriella Alfieri,
Giovanni Verga) o, a seconda dell'anno di corso, uno dei capitoli del volume di
Gabriella Alfieri indicati nel programma.
Lingua fusa: L’Autrice ha indagato sulle scelte linguistiche e stilistico retoriche delle novelle
di Vita dei campi, fornendo così il primo studio sistematico sulla raccolta. Nel primo capitolo,
una ricca introduzione all’analisi linguistica, l’Autrice, oltre a ripercorre le motivazioni che
hanno spinto gli scrittori del secondo Ottocento a cercare una lingua semplice e moderna,
indaga le soluzioni adottate per la resa dello stile popolare. Il secondo capitolo è dedicato
all’analisi dei tratti fonografemici e morfosintattici. Le scelte di Verga relative alla grafia e alla
fonetica sono conformi alla prassi scrittoria di fine Ottocento. ma è sul piano sintattico che
Verga riesce ad ottenere i maggiori effetti della sperimentazione dello stile popolare
attraverso l’uso dei moduli del parlato: il ci attualizzante, le dislocazioni a destra e a sinistra,
il che polivalente, la frase foderata, le frasi scisse, il c’è presentativo. La sintassi è
probabilmente, insieme al lessico, il livello linguistico nel quale Verga ha conseguito le più
grandi novità. Il terzo capitolo analizza minuziosamente il lessico, indagando sui toscanismi,
sicilianismi, colloquialismi e aulicismi che all’interno dei testi si intrecciano creando un
perfetto equilibrio.
Analizzate dal punto di vista linguistico il brano, estratto dal Mastro-don Gesualdo:
"Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua;
ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come
fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di
stoffa che pendevano ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti,
vociando per udir l'eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le
dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che
sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni
che faceva ballare il pavimento".
Quel che colpisce è l'uso dell’imperfetto per i tradizionali usi ‘di lingua’. L’imperfetto è adibito
a segnalare la ripetizione e la continuità. Se ne trae la contrapposizione canonica fra
narrazione di eventi tramite l’uso del passato remoto e descrizione di stati tramite
l’imperfetto, fra movimento e avanzamento della storia e stasi, blocco dell’azione;
contrapposizione particolarmente evidente quando alla sequenza di imperfetti esprimenti
esclusivamente la continuità di una condizione (magari anche immutabile, come avviene con
il dato paesaggistico) fa seguito all’improvviso l’intromissione del dato temporale tramite il
passato remoto. Si assiste, nel testo sottoposto ad analisi, a periodi nominali nei quali la
principale manca del verbo reggente (o perché non ripetuto o perché non esplicitato)
sebbene le subordinate relative o implicite attestino il verbo alla forma dell’imperfetto o del
gerundio.