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LEZIONE 2 - Lingua orale/lingua scritta, scritti di carattere pratico/scritti letterari

Si definisce scritto di carattere pratico il testo che esaurisce la sua funzione nel momento e
nel luogo della sua redazione (es. uno statuto, trattato di pace, una lettera) e si rivolge ad
uno o ad una pluralità. Nello scritto letterario il destinatario è sfuggente poichè l'emittente
può, o meno, aver individuato un destinatario diretto o immaginare un destinatario più
generico, ossia un pubblico. Nel testo letterario l'emittente non trasmette solo il contenuto,
ma anche ciò che è dentro di sè o su di sè, ossia l'intenzione del suo autore.
La lingua orale possiede una spontaneità implicità per fatto che viene verbalizzata. Essa
attua la selezione e la combinazione con una coerenza inferiore alla lingua scritta, come
dimostra la presenza di approssimazioni lessiciali e sintattiche. La lingua scritta sottostà,
invece, a un Iivello di pianificazione maggiore che rompe quel processo che abbiamo
conosciuto fin dall'infanzia tra il pensiero e il suo diventare parola.

Illustrate il significato di deissi e presupposizione come segnali linguistici dell'oralità


La lingua orale è fortemente caratterizzata dalla deissi e dalla presupposizione. La deissi
consiste in un segnale linguistico dell’oralità nel riferimento al contesto, in relazione al tempo
o allo spazio (attraverso l’utilizzo di avverbi come ieri, oggi, qui, lì, questo, quello) o
riferendosi alle persone implicate per esempio io, tu. Con la presupposizione s’intende
quell’insieme di conoscenze comuni tra locutore e interlocutore che vengono date per
presupposte e quindi da questo bagaglio di conoscenze condivise viene avviata la
conversazione che dunque si configura come un frammento di conversazione che fa
riferimento ad uno o piu’ frammenti precedenti. Presupposizione e deissi, dunque, sono
procedimenti linguistici tipici del linguaggio orale. Possono talvolta essere usati nel
linguaggio scritto ma in tipi di testo particolari (un testo narrativo ad esempio).

Indicare i tratti distintivi nell'opposizione lingua orale/lingua scritta


La lingua orale è coadiuvata da altri linguaggi di tipo non verbale ed è fortemente
caratterizzata dalla presupposizione e dalla deissi, che sono assenti nella lingua scritta.
Gli altri tipi di linguaggi caratterizzanti della lingua orale sono:
- mimico (affidato all’atteggiamento del volto e dell’espressione dello sguardo),
- gestuale (insieme di gesti che compiamo soprattutto con mani e testa),
- prossemico (legato alla distanza fisica che stabiliamo rispetto al nostro interlocutore).
La presupposizione è legata alla conoscenza dell’interlocutore e sulla base di ciò avviamo la
conversazione. Strettamente legato alla conoscenza condivisa è il ricorso del parlato alla
deissi che consiste nel riferimento al contesto, al tempo (per esempio l’utilizzo di avverbi ieri,
oggi), allo spazio ( qui, lì, questo, quello ), o alle persone implicate ( io, tu )”.
La lingua scritta invece richiede maggiore riflessione sulle strategie enunciative.
Nello scritto, l’assenza di presupposizione e di deissi cambia le regole comunicative e
impone un registro meno spontaneo, rispetto al parlato. Inoltre, l’assenza di condivisione o la
minore condivisione di conoscenze pregresse impone allo scritto di agire in maniera diversa
su entrambi gli assi sintagmatico (della selezione) e paradigmatico (della combinazione).
La lingua scritta rappresenta da un lato un filtro selettivo e dall’altro una griglia ordinante. Lo
scritto deve raggiungere il destinatario e dunque separarsi dallo scrivente, in una forma
definitiva e irrevocabile, e raggiungere fisicamente e nel tempo il destinatario. Manca allo
scritto la possibilità di retroazione. Lo scrivente è consapevole dell’handicap di non poter
utilizzare nel linguaggio scritto i linguaggi non verbali e deve quindi pianificare la
formulazione linguistica allo scopo di sottrarla alle ambiguità morfologiche o sintattiche. Il
linguaggio scritto però ha dei punti di forza, in quanto offrono a chi scrive la possibilità di
scegliere con cura il lessicalo e la sintassi.

I testi analizzati dal punto di vista linguistico durante il corso sono testi scritti di
carattere letterario: in che modo questa scelta condiziona l'analisi
linguistica?
I testi scritti di carattere letterario in prosa dal Duecento alla prima metà dell’Ottocento,
analizzati dal punto di vista linguistico durante il corso, rientrano in un’ampia tipologia di testi
che inseguiremo lungo l’asse diacronico. Esistono differenti strategie testuali e ‘linguistiche’
che includono testi di carattere precettistico e didascalico, narrativo, argomentativo
scientifico o epistolare e così via, ciascuno dei quali è inseribile in ‘forme’ letterarie (se non
veri e propri ‘generi’) che man mano vanno tipizzandosi all’interno dell’evoluzione della storia
letteraria italiana. Quanto più i testi saranno recenti tanto più avanzeranno lungo l’evoluzione
storica della lingua e della letteratura italiana.Quanto più la tradizione prenderà corpo e
autonomia nazionale, tanto i condizionamenti letterari si faranno più forti da avere riflessi
specifici su registri e scelte di tipo linguistico e stilistico ormai non più imputabili
esclusivamente all’autonoma scelta dell’autore, perché sempre più condizionata dal ‘genere’
letterario e dal canone di testi che in quel ‘genere’ sono stati redatti fino ad allora.

LEZIONE 3 - Definite e contestualizzate i livelli di analisi diafasico, diamesico,


diastratico, diatopico
Eugenio Coseriu elaborò negli anni settanta la teoria della variazione con lo scopo di
inaugurare un nuovo metodo analitico che concepisse la lingua come un sistema mobile ed
in continua evoluzione. Egli introdusse le seguenti nomenclature per indicare i differenti assi
della variazione linguistica:
- DIAMESICO (introdotto da Mioni): riguarda il mezzo impiegato all’interno della
comunicazione (canale visivo-grafico o fonico-acustico)
- DIASTRATICO: riguarda le variabili di tipo docaile, legate alla stratificazione in classi
sociali
- DIATOPICO: riguarda le variazioni nello spazio (dal greco Topos=Luogo)
- DIAFASICO: riguarda la situazione comunicativa, la relazione di ruolo tra gli interlocutori,
l’argomento della conversazione e tutto il contesto globale o particolare in cui la
comunicazione avviene.
Illustrate in termini oppositivi i livelli diafasico e diastratico
Sul piano dell’asse diafastico, si prendono in considerazione: la situazione comunicativa, la
funzione del messaggio, il contesto in cui si verifica l’interazione linguistica.
L’asse diafasico è invece inerente alla lingua selezionata in base al contesto sociale, ovvero
include variabili legate alla stratificazione sociale. La dimensione diafasica, è in certa misura,
indipendente dalla condizione sociale ma si è registrato uno stretto legame tra le variazioni
tra gruppi di parlanti e quelle interne al modo di parlare del singolo individuo. Dalle ricerche
effettuate, col modello Laboviano, è emerso che molte variabili diastraticmaente significative
sono altrettanto significative sul piano della variazione diafasica, ad esempio le varianti
utilizzate dai gruppi che si collocano più in basso nella scala sociale sono anche quelle
usate nelle situazioni più informali, e al contrario, le varianti più vicine allo standard sono
utilizzate in situazioni più formali.

Livelli di analisi linguistica (assi di variazione) nella teoria di Coseriu


Per Coseriu un qualsiasi messaggio linguistico è sempre prodotto in una determinata varietà
di lingua e ha una sua collocazione in ognuna di queste dimensioni.
L’asse di Variazione Diafasico indica la variazione della lingua, condizionata dalla situazione
comunicativa, dalla funzione del messaggio e dal contesto.
L’asse di Variazione Diamesico indica la variazione della lingua condizionata dal mezzo di
trasmissione del messaggio ed è stato introdotto da Mioni negli anni Ottanta. L’asse di
Variazione Diatopico riguarda la variazione nello spazio della lingua. L’asse di Variazione
Diastratico riguarda la scelta della lingua condizionata dall’appartenenza dei parlanti a
diversi strati sociali.

Illustrate le dicotomie saussuriane: sincronia / diacronia, asse paradigmatico / asse


sintagmatico.
Ferdinand De Saussure è il teorico della dicotomia tra asse paradigmatico (della selezione)
e asse sintagmatico (della combinazione). Il parlante o lo scrivente sceglie dall’asse
verticale, quello paradigmatico, da cui tra elementi linguistici che tra di loro tessono un
rapporto associativo, come i nomi e i verbi. In un secondo processo, il parlante li disponde in
seguenza logica sull’asse sintagmatico, quello orizzontale, secondo un criterio consizionato
dalle scelte adottate. La natura del rapporto tra gli interlocutori, può essere di sincronia (cioè
di contemporaneità), di isotopia (condivisione dello stesso spazio), oppure di entrambe. La
natura diacronica si occupa invece dell’evoluzione della lingua nel tempo, sulla base di un
asse temporale.

Elencare e descrivere i livelli di analisi linguistica utilizzati nella teoria variazionistica


di Coseriu.
I livelli di analisi linguistica utilizzati nella teoria variazionistica di Coseriu, sono 5:
- variazione diacronica (indica la variazione lungo l’asse del tempo, quindi dall’italiano antico
al contemporaneo)
- variazione diatopica (esprime il variare della lingua in relazione allo spazio geografico, es.
italiano centrale, settentrionale o dialetti.)
- variazione diastratica (indica le variazioni della lingua condizionate dall’appartenenza a
diversi strati sociali, es. colti, semicolti, giovani o adulti.)
- variazione diafasica (indica la variazione della lingua condizionata dalla situazione
comunicativa, dalla funzione del messaggio e dal contesto globale o particolare, es.
linguaggio tecnico, formale, informale.)
- variazione diamesica (indica la variazione condizionata dal mezzo fisico, quindi scritto o
orale, con cui viene realizzato il messaggio linguistico.) Quindi questo asse, si colloca
trasversalmente ai precedenti.

LEZIONE 4 -
Lingua e stile: quali dinamiche intercorrono in via generale fra questi due concetti?
La lingua di un autore è, come la lingua di ciascuno di noi, un atto di parole, un atto
linguistico concreto che pone in atto l’astrattezza del repertorio. Lo scrittore è, tuttavia,
inserito in un sistema altamente formalizzato, all’interno del quale opera scelte non
necessariamente coincidenti con quelle che opera per gli atti linguistici orali o per gli scritti di
carattere pratico. L’inserimento in una tradizione letteraria e in un certo genere, attiva, inoltre
l’esperienza di altri autori rendendola disponibile per gesti di adesione o di rifiuto. L’autore
potrà attingere al repertorio della lingua o dello standard in modo inconsueto, inedito rispetto
all’uso quotidiano che ne fanno i parlanti. Quest’uso particolare che l’autore fa della lingua è
detto stile. Lo stile è il risultato di una serie di scelte compiute dall’autore nei confronti della
lingua (inclusione, esclusione etc…). Lo stile non può essere definito senza il concetto di
lingua, se non alla luce della lingua “normale”, quella socialmente condivisa, la lingua d’uso,
alla quale lo stile si adegua o si distanzia.

Proponete una definizione di stile e tracciate in sintesi l'evoluzione del concetto.


Lo stile è una "differenza", uno "scarto" della norma, ma è anche aggiunta di tratti stilistici e
"connotazione" all'interno di un contesto linguistico o una situazione comunicativa. per
spiegare il concetto di stile è necessario ricorrere alla tradizione movecentesca della stilistica
e Saussure con la sua opposizione langue/parole. Per Saussure il linguaggio è un atto di
fonazione individuale (parole) che per funzionare efficacemente deve essere condiviso
(langue). La langue è il repertorio di una lingua (che Saussure chiama dizionario) e può
essere astratto o virtuale. A questo repertorio il parlante attinge mediante un atto concreto di
“parole” che è un atto linguistico, ovvero un passaggio dalla virtualità alla realtà, dalla
potenza all'atto del repertorio. La parola “stile” risale al 200, ma ne inizia a fare un uso più
frequente dal 300 in poi. L’uso diventa più marcato nel 500 durante il Neoclassicismo, e
nell’800 con Foscolo, il quale rivendica l’unicità di ogni personalità, sostenendo che non è
possibile “insegnare” lo stile attraverso dei modelli.
Sintassi e stile: illustrarne il rapporto all'interno di uno dei testi analizzati durante il
corso
Con il termine “stile” si intende lo scarto con cui un autore utilizza in maniera personale lo
strumento sociale della lingua. E’ un uso particolare da parte dell'autore ed è per lo più
ricercato, individuale, con l'introduzione consapevole di elementi e definibile per via di
comparazione, secondo Elisabetta Saletti, come uno scarto, una selezione dello scrivente o
parlante tra una varietà linguistica. La sintassi si occupa della combinazione di parole in frasi
o della struttura delle frasi stesse. Tramite un'analisi sintattica è possibile identificare le
novità stilistiche, nelle forme diverse dall'usuale, nei costrutti arcaici, dialettali, stranieri o
ripresi dalla lingua viva.

Stile: storia di una parola


Lo stile è la forma particolare in cui si concretizza l’espressione letteraria o artistica di un
autore, di un’epoca o di un genere. La parola stile risale al 200 ma se ne inizia a fare un uso
più frequente dal 300 in poi. I momenti in cui l’uso è più marcato sono il 500 e l’800 che
coincidono con la questione della lingua e la ricerca di una norma letteraria unitaria. In
epoca latina lo stile consisteva nell’elocutio, nel modo di esprimersi in una composizione
scritta, comprendendo l’insieme dei tratti formali che si possono attribuire ad una corrente
artistica o a un singolo individuo. Nel periodo medievale il concetto di stile è ripreso e
ampliato in riferimento a veri e propri generi letterari che vanno costituendosi. Nasce e si
diffonde l’idea che lo stile debba adeguarsi alla materia trattata e si costituisce una vera e
propria gerarchia tra gli stili. Nel 500, Tasso parla dello stile come della somma tra i concetti
e le voci, ovvero le parole che usiamo per definire i concetti. Esso doveva adeguarsi alla
materia trattata (ad esempio l’epica per il proprio contenuto aulico doveva avere uno stile
magnifico). Durante il periodo neoclassico, nel settecento torna in auge l’imitazione dell’arte
classica ma inizia a formarsi una diversa idea di stile più individuale che trova la sua
massima espressione nell’800, durante il periodo romantico, con Foscolo che rivendica
l’unicità di ogni personalità e dice che non è possibile insegnare lo stile tramite i modelli
classici. Secondo Foscolo le varie correnti letterarie credono che lo stile possa ridursi ai
vocaboli, alla costruzione del periodo o alla sintassi di una lingua, mentre la vera sostanza
dello stile consiste nel modo di esprimere i pensieri, i sentimenti, le emozioni che essendo
individuali e soggettive non possono essere esternate allo stesso modo da tutti gli autori.
Impadronirsi dello stile di altri autori sarebbe come indossare abiti di una taglia diversa dalla
propria. Oggi crediamo che la maggiore o minore fortuna di un autore possa fare in modo
che altri autori lo abbraccino fino a trasformare lo stile da un fatto privato ad un fatto
collettivo, ciò ci consente di integrare al significato moderno, ottocentesco (stile come fatto
privato) a quello antico (stile inteso come insieme di tratti condivisi).

Inserite il concetto di stile all'interno della dicotomia saussuriana fra langue e parole
Saussure distingue tra lingua e parole. Il linguaggio è un atto di fonazione e dunque si
configura come processo fonetico e articolatorio individuale (parole). A partire dalle singole
scelte del parlante, le parole, si innescano i cambiamenti lungo l’asse diacronico. La
funzione di quell’atto individuale deve essere condiviso nella lingua. La lingua è necessaria
perché la parola sia intellegibile e produca i suoi effetti così come la parola è indispensabile
perché la lingua si definisca. Con lingua si intende tutto il “repertorio” fonetico, morfologico,
sintattico e lessicale che la costituisce. A questo repertorio attinge ogni parlante che,
effettuando una serie di scelte, produce “atti linguistici”, traducendo in forme concrete le
potenzialità del repertorio. La lingua di un autore è anch’essa un atto di parole. L’autore
come ogni altro parlante si inserisce nella dicotomia tra standard e idioletto, fra adesione alla
lingua d’uso ed elaborazione di un linguaggio personale. Di solito chi si prefigge di scrivere
un testo letterario fa ricorso a un sistema altamente formalizzato, nel quale non è più
sufficiente ricorrere unicamente all’idioletto e alla lingua d’uso. Lo stile di un autore può
essere considerato il risultato di un processo di selezione (inclusione o esclusione di forme)
all’interno della varietà linguistica che gli è propria e in base al registro adottato. Lo stile
letterario deve misurarsi con una serie di generi, forme e paradigmi retorici e stilistici del
passato, inserendosi all’interno di una tradizione di altri autori verso i quali lo scrittore potrà
avere un atteggiamento di adesione o di rifiuto.

LEZIONE 7 -
La stilistica descrittiva di Charles Bally e la stilistica genetica di Karl Vossler.
La stilistica di Bally è invece di carattere psicologico e sociologico e ha come oggetto la
lingua comune e non quella letteraria. I suoi studi vertono sui mezzi espressivi che il parlante
utilizza tra le molte offerte dal sistema. Ad accomunare Bally a tutta la linguistica
post-saussuriana è l'attenzione posta alla parola che tiene conto della coesistenza di
variabili generazionali e socioculturali e di fasi conservative, innovative o locali, agenti come
spinte potenziali alla trasformazione non meno che i veri e propri squilibri del sistema
strettamente inteso. La stilistica di Bally discende per via diretta dal magistero di Saussure
per il quale la lingua è un sistema di segni che ha come scopo principale la comunicazione
del pensiero; Bally però mette in guardia dall’attribuire al pensiero umano, trasmesso tramite
la lingua, una valenza puramente logica e razionale invitando a prendere in carico della
lingua l’aspetto ‘affettivo’ o espressivo. Per Bally la lingua è un mezzo, uno strumento che
non veicola solo la razionalità dell’uomo, la sua intelligenza e la sua capacità di trasmettere
significati, ma anche e soprattutto comunica stati emotivi ed espressivi. Se ciascun parlante
esprime a suo modo i propri stati d’animo (esercitando quello che i seguaci di Bally
chiameranno scelta stilistica ), è perché la lingua mette a disposizione una serie di opzioni
specifiche (il che consente di individuare una stilistica propria di ogni lingua), ma non altre
(che magari sono presenti un’altra lingua), finendo con questo per condizionare la sensibilità
di quanti usano quella data lingua. L’atto di volizione (la scelta stilistica ) fatta dall’utente fra
soluzioni ‘affettive’ che la lingua gli offre è valutato dal linguista ponendo a confronto il “modo
di espressione intellettuale” (il pensiero non ancora espresso verbalmente) con i “sinonimi”
(cioè le varie soluzioni sinonimiche che la lingua offre), i quali possono sottolineare
l’‘affettività’ con procedimenti
a) di intensità,
b) di valore,
c) di bellezza.
La scelta operata dal parlante infine produce precisi effetti sul destinatario dell’atto linguistico
(Bally chiama questi ultimi “effetti per evocazione”). Bally distingueva tra la lingua come
istinto sociale (langue) e come espressione individuale (parole) ed il suo concetto di stilistica
era rivolto a caratterizzare le scelte stilistiche e gli aspetti affettivi che la lingua collettiva è
capace di offrire all'individuo. La descrizione stilistica di un testo è la descrizione di tutte le
proprietà verbali. Lo strutturalismo vide la stilistica come la vera indagine linguistica del
testo. La stilistica descrittiva si rifà al pensiero di Humboldt e di Schuchardt e a quanto già
Vossler aveva anticipato con la sua distinzione tra l'insieme dei fatti linguistici che
compongono lo stile di un autore e l'insieme dei fatti stilistici che diversificano le varie fasi
della storia di una lingua. Vossler ritenne che l'essenza del linguaggio fosse da ricercare
nella creatività dell'espressione individuale alla quale si aggiunge, ma solamente in un
secondo tempo, l'accettazione sociale con le sue regole. Prima della grammatica vi è quindi
la fase stilistica e lo studio delle lingue e delle letterature devono procedere con uno stretto
legame.

Illustrate la posizione teorica e il metodo stilistico di Leo Spitzer.


La stilistica vossleriana (interpretativa o genetica) e la stilistica di Bally (descrittiva) sono
state strettamente legate l’una all’altra da Leo Spitzer (1887-1960). Filologo romanzo, di
formazione linguistica, visse i suoi anni di apprendistato a Vienna, in un momento di grande
vitalità intellettuale. È grazie agli studi di Spitzer, iniziati nel 1910, se la stilistica è ormai
considerata una disciplina autonoma (trasferitosi in America in seguito alle leggi razziali
antiebraiche, Spitzer continuerà lì le proprie ricerche alla luce delle sollecitazioni della
linguistica e della critica letteraria americana). Il metodo è descritto da Spitzer stesso: una
lettura lenta e auscultatoria del testo letterario oggetto di studio metteva alla fine in rilievo
(con un’illuminazione, con un “clic”, come lo chiamava Spitzer) nella lingua del testo e del
suo autore un elemento caratterizzante che lo rendeva singolare rispetto alla lingua del suo
tempo (rispetto cioè alla norma o alla norma letteraria del suo tempo) e che chiedeva di
essere interpretato; era quest’interpretazione quello che Spitzer chiamava l’“etimo
spirituale”, la molla propulsiva dell’autore a quella particolare formulazione. L’individuazione
dell’“etimo spirituale” da parte del critico (una sorta di ipotesi di lavoro) veniva poi verificata
di nuovo sul testo, alla ricerca di altri ‘segnali’, “spie” che alleandosi a quel primo elemento
caratterizzante, consentivano di emettere una e una sola diagnosi interpretativa di carattere
critico. Accanto al metodo, l’uso e la definizione del concetto o categoria di stile.
Egli fonda il suo metodo sul seguente presupposto:
«A qualsiasi emozione, ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale,
corrisponde, nel campo espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale; e,
viceversa, un allontanamento dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico
inconsueto. Una particolare espressione linguistica è, insomma, il riflesso e lo specchio di
una particolare condizione di spirito». Spitzer sarebbe diviso tra la Stilgeschichte, che con il
suo orientamento a vedere nello stile, di un autore o di un’epoca, un atto creativo, e la
Geistesgeschichte, impegnata a cogliere nelle produzioni artistiche e culturali le tracce
nascoste di un sentire comune.
La distinzione tra l'insieme dei fatti linguistici che compongono lo stile di un autore e
l'insieme dei fatti stilistici che diversificano le varie fasi della storia di una lingua. Essa ha
come fondatore Leo Spitzer (1928) che mette al centro del suo concetto di stile la nozione di
"scarto". Con questa prima formulazione lo studioso collega lo stile del testo alla psiche
dell'autore mentre in un secondo tempo seguirà solamente il sistema dei procedimenti
stilistici interni al testo. In questa definizione si sottolinea il ruolo attivo dell’autore espresso
con la formula impiego pianificato che assomiglia all’atto (che i seguaci di Bally chiameranno
scelta ) da parte dell’utente all’interno delle opzioni espressive offerte dalla lingua. Solo più
tardi Spitzer elaborerà la definizione ormai vulgata di stile come scarto , ‘deviazione dalla
norma linguistica’ (o anche deviazione dalla norma letteraria) che abbiamo visto soggiacere
alla illustrazione del suo metodo (e di cui abbiamo parlato in sede definitoria).

Illustrate i momenti e le figure principali della nascita della stilistica


La nascita della stilistica è da tracciare tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. a mettere
sotto scacco la visione ottocentesca linguistica di Saussure due visioni contrappposte del
mondo: sul versante linguistico la nuova linguistica di Saussure, sul versante filosofico
l'idealismo crociano. Prima della riforma didattica, introdotta dall’idealismo, la stilistica era
l’arte dello scrivere bene. La perdita di fiducia nella retorica classica che il Romanticismo
aveva prodotto, da un lato aveva incoraggiato una critica letteraria sbilanciata verso lo studio
dei contenuti a scapito della forma, dall’altro aveva favorito la nascita della linguistica come
scienza autonoma, improntata ad una visione naturalistica e organicistica della lingua, intesa
come un corpo naturale e, in quanto tale, soggetta a nascita, vita e morte, al pari di un
organismo vivente, soggiacente a regole fisse e stabili (leggi linguistiche). Tale visione
meccanicistica fu messa in discussione da Ferdinand de Suassure sul versante linguistico e
da Benedetto Croce su quello filosofico (idealismo). Dalla scuola di Suassure nasce la
linguistica descrittiva di Bally, suo allievo, che crede che la lingua abbia come scopo
principale quello di comunicare e non sia riducibile unicamente al pensiero razionale
dell’uomo ma che veicoli anche i suoi stati emotivi ed espressivi. Ogni parlante compie
scelte individuali per esprimere il suo mondo interiore in modo personale. Un altro linguista,
Von Humbolt distingueva tra una forma esteriore della lingua (il linguaggio inteso in termini
meccanici) ed una interiore (il modo di vedere le cose di ognuno di noi), dal suo pensiero e
dalla filosofia di Croce nasce la stilistica genetica, secondo la quale dalle caratteristiche dello
stile è possibile risalire alla genesi spirituale di un autore. Tale pensiero fu ripreso e
sistematizzato da Leo Spitzer, il quale afferma che compito del critico è quello di individuare
l’etimo spirituale di un autore.

LEZIONE 9 -
Chiarire la differenza fra fonetica e fonologia, il significato rispettivo di fono e fonema,
indicando almeno cinque coppie minime dell'italiano.
La fonetica si occupa dell'aspetto fisico dei suoni; l'unità di studio della fonetica è quindi il
fono. La fonologia si occupa dell'aspetto astratto dei suoni e la sua unità di studio è il
fonema. La fonologia si occupa di stabilire quali sono i fonemi in una data lingua, ovvero
quali sono i suoni cui corrisponde una differenza di significato (nella parola) fonema è
dunque il segmento fonico con valore distintivo di significato coppie minime:
scena/scema,topo/tomo,varo/faro,pacco/pecco.
Allofoni: sono varianti combinatorie di un fonema.
Illustrate ed esemplificate i seguenti fenomeni fonetici: a) chiusura delle vocali
toniche in iato; b) evoluzione della labiovelare sorda latina.
La chiusura delle vocali toniche in iato segue la regola in virtù della quale la -e- e la -o-
toniche davanti ad un'altra vocale appartenente ad altra sillaba si sono chiuse in i ed u,
dando luogo a forme come mio, tuo, suo, Dio.
La labiovelare sorda iniziale di una parola si riduce ad occlusiva velare se davanti a vocale
diversa da -a- ( a parte i casi di conservazione per latinismo) è secondaria:
quello< ECCU(M)ILLUM.

Descrivete le condizioni in cui avviene il dittongamento toscano


Nel fiorentino il vocalismo tonico del latino volgare, ha avuto sviluppi che si sono poi
trasmessi alla lingua italiana come nel caso del dittongamento toscano, impropriamente
chiamato dittongamento spontaneo, per cui le vocali “e” e “o” aperte toniche, quando si
trovano nella sillaba aperta danno luogo a due dittonghi ascendenti. Ad esempio la “e” breve
e “o“ breve dittongano in j e in w)se in posizione tonica e in sillaba libera(cioè che termina in
vocale). Es: pedem- pj de/ bonum-bw)no.
Descrivete il fenomeno dell'anafonesi
L'anafonesi (dal greco anà "sopra" e fonè "suono" = "innalzamento di suono") è una
trasformazione che riguarda due vocali in posizione tonica, ovvero [o] e [e] derivanti dal
latino E/I e O/U. In determinati contesti queste due vocali passano rispettivamente a i e a u,
o meglio é > i e o > u, costituisce un innalzamento articolatorio (nel pronunciarle la lingua e il
labbro inferiore sono più in alto).
L'anafonesi si verifica in due casi:
[e] > i quando è seguita da l palatale o da n palatale: familia > faméglia > famiglia.
[e] e [o] si chiudono rispettivamente in [i] e [u] se sono seguite da una nasale velare, cioè da
una n seguita da una velare sorda [k] o sonora [g], come per esempio nelle sequenze
-énk-,-ong-, (mentre l'anafonesi non si produce nella sequenza -onk-). Es: tinca > ténca >
tinca oppure vinco > venco > vinco.
Quindi l'anafonesi si produce con [e] e [o] toniche. Poiché il fenomeno è tipicamente
fiorentino, è anche una delle tracce più evidenti dell'origine fiorentina dell'attuale lingua
italiana.
Illustrare ed esemplificate a scelta uno dei seguenti fenomeni fonetici attinenti al
vocalismo: a) chiusura delle vocali in iato; b) chiusura delle vocali
protoniche; c) riduzione dei dittonghi discendenti.
- Chiusura delle vocali in iato: Lo iato consiste in un gruppo di due vocali consecutive
pronunciate in modo distinto e appartenenti a due sillabe diverse, è il contrario del dittongo.
- Chiusura in protonia: Senza accento il sistema vocalico tende a ridurre le differenze di
timbro e di apertura. Nel sistema vocalico panromanzo il vocalismo tonico è a sette gradi di
apertura ma il vocalismo atono non distingue cronologicamente tra ed e e tra o ed ) e
dunque il sistema si riduce a 5 gradi. Analogamente in siciliano, il cui vocalismo tonico è a
5gradi di apertura, fuori d’accento ne esistono solo tre. Questa tendenza assume in
fiorentino una notevole sistematicità e una propria caratteristica: in posizione protonica e,
quindi, nella sillaba precedente a quella tonica le e diventano i e, meno sistematicamente, le
o diventano u. Ciò può verificarsi all’interno di parola ma anche all’interno di frase.
Indicate le principali differenze fra il sistema vocalico latino e i sistemi vocalici
italo-romanzi?
Il sistema vocalico latino comprende dieci vocali perché ciascun timbro è realizzabile nella
varietà breve e in quella lunga. Con la perdita della distinzione di quantità il sistema latino si
infrange e nascono i vari tipi di vocalismi volgari che differiscono in base alle varie zone
(vedi vocalismo sardo, siciliano e pan romanzo). Nel tardo latino le vocali, perduta la loro
opposizione di lunghezza, si sono differenziate per la loro apertura dando luogo a casi di
defonologizzazione. La “i” breve è passata ad “e” concidendo con l’esito di “e” lunga, e “u”
breve ha dato luogo ad “o” coincidendo con l’esito di “o” lunga.
Illustrate le diverse caratteristiche dei volgarizzamenti in Italia fra Duecento e
Quattrocento
Il rinnovamento culturale che caratterizzò il XIII e il XIV secolo e l’emancipazione della
cultura volgare favorirono la diffusione presso il nuovo pubblico cittadino di testi che fino ad
allora erano appannaggio di chi sapeva il latino (chierici e notai in primo luogo): si assistette
quindi a un moltiplicarsi di traduzioni, adattamenti, rimaneggiamenti in volgare di opere
relative agli ambiti più vari, dall’epica classica alla storia (almeno inizialmente romanzata),
dalla trattatistica (retorica, filosofico-morale, scientifica) alla narrativa, dalla letteratura
religiosa a quella didattica. La dizione volgarizzamenti indica il solo modo di produzione,
ovvero la dipendenza della sostanza del discorso da un’opera preesistente (originale o essa
stessa frutto di volgarizzamento) e comprende quindi entità disomogenee, prodotte a partire
da lingue diverse in luoghi e in contesti culturali differenti, realizzate, in prosa e più
raramente in versi, in modi molto vari, anche a seconda della perizia del volgarizzatore, e
soprattutto appartenenti a generi testuali anche molto distanti tra loro.
Si volgarizza a partire da lingue diverse: dal latino in primo luogo e poi dal francese,
marginalmente dal provenzale e dal castigliano e, nel Trecento, anche dal toscano.
Primi esempi di prosa letteraria in volgare databili metà del Duecento: pamphilius,
volgarizzamento veneziano di una commedia elegiaca mediolatina; Miracole de Roma,
volgarizzamento dei Miriabilia urbi Romae. la funzione della prosa sono assolte dal latino e
dal francese. Il latino, di uso ininterrotto dalla classicità al Medioevo, era il dominatore
incontrastato dei generi più prestigiosi , da esso dipendono i volgarizzamenti di retorica e
arte oratoria o epistolografica, di filosofia e scienza, di religione e devozione, nonché di
letteratura, di storiografia, di polemistica, condotti su opere classiche, tardoantiche e
mediolatine. Il francese, della prosa narrativa tra il XII e il XIII sec. fu di enorme successo in
Italia. Da esso dipendono i romanzi, anche se di materia, la letteratura didattica e in genere
la produzione di livello concettuale inferiore; infine il provenzale, lingua per eccellenza della
poesia. Nel Trecento non sono rari i casi di volgarizzamenti realizzati a partire dal toscano.
Le prime opere in prosa sono volgarizzamenti, cioè traduzioni in altre lingue di opere già
circolanti: con il formarsi di un pubblico estraneo alla lingua latina ma desideroso di
acculturarsi, la richiesta di opere relative agli ambiti più vari, dall'epica classica alla storia.
Volgarizzare, che all'inizio significava volgere in volgare un testo latino, ben presto passa ad
indicare anche la traduzione dall'uno all'altro volgare romanzo. Designa solo il modo di
produzione del testo, ovvero la dipendenza della sostanza del discorso da un'opera
preesistente, originale o essa stessa frutto di volgarizzamento. nel mondo medievale sono
rare le traduzioni fedeli al testo di partenza, libere da contaminazioni con altre fonti o da
aggiunte secondarie o ancora prive di debiti più o meno dichiarati nei confronti di altri testi.
disomogeneità e pervasività dei volgarizzamenti sono tipici. il lessico e la sintassi sono gli
ambiti più esposti alla pressione della lingua del testo di partenza: nel volgarizzare si è
arrivati ad una vera e propria fondazione del vocabolario volgare, con tanto di
lemmatizzazione e definizione delle parole chiave del sapere volgarizzato. il volgare ha così
acquisito alcune parole per designare concetti astratti e specialistici (alleanza,amicizia). I
volgarizzamenti dei romanzi dal francese, spesso realizzati da anonimi traduttori per diletto e
da mercanti, sono in genere di qualità più modesta rispetto a quelli del latino, opera invece di
giudici e notai. Quanto alla sintassi, il costante confronto con i modelli latini a concorso
all'arricchimento delle strutture volgari, specie subordinanti. nei volgarizzamenti sono
frequenti i calchi del participio congiunto latino, reso in volgare con una frase subordinata al
participio passato. Al contrario, non mancano i volgarizzamenti che mostrano una spiccata
tendenza all'abbandono dei costrutti latini in favore di altri tipicamente volgari, per e.
rendendo il participio congiunto latino con il gerundio.
L’operazione di transcodifica culturale messa in atto tra metà Duecento e metà Trecento è
motivata dall’intenzione di divulgare i saperi necessari al nuovo pubblico cittadino, in
Toscana soprattutto mercantile, al Nord già signorile.
I primi generi coinvolti sono quindi l’oratoria e la retorica, intesa come arte del rettore
comunale (ne sono esempio la Rettorica di Brunetto Latini, dal ciceroniano De inventione, e
le varie versioni toscane e bolognesi del Fiore di rettorica, dalla Rhetorica ad Herennium), o
la storia, fondativa del mito della continuità con l’epoca classica; al Nord non mancano la
letteratura e la precettistica morale. La lingua dei volgarizzamenti – a parità di registro e di
tipo di pubblico – non è in sostanza diversa da quella della coeva prosa originale. Lessico e
sintassi sono gli ambiti più esposti alla pressione del modello linguistico del testo originale: le
acquisizioni maturate nella pratica traduttiva possono divenire patrimonio stabile della lingua,
consolidare modelli già produttivi oppure restare confinate nella contingenza del singolo
volgarizzamento. Va però precisato che non si tratta mai di un passaggio meccanico del
lessico e delle strutture sintattiche dal testo originale al testo tradotto, ma di una
‘accelerazione’ conseguente alla pratica traduttoria, che, confrontando costantemente
sistemi culturali, modelli linguistici e testuali diversi, sollecita e arricchisce di per sé la prosa
volgare allora in formazione. Se così non fosse, non si darebbe ragione della quantità di
francesismi presenti nei volgarizzamenti dal latino o della presenza di latinismi privi di esatto
corrispondente nel testo latino di partenza; il volgarizzare, soprattutto quando esercitato su
testi di rilievo concettuale o di forte tecnicizzazione, ha comportato «una vera e propria
fondazione del vocabolario volgare, con tanto di lemmatizzazione e definizione delle parole
chiave del sapere volgarizzato». Il volgare si è così dotato di nuove parole (per latinismo o
per neoformazione), relative soprattutto ai concetti astratti e alla terminologia specialistica:
per es., sono i volgarizzamenti ad attestare per primi gli astratti alleanza, amicizia, asprezza,
azione, cautela, contraddizione, contrapporre, dannoso, difficoltà, discernere, disporre,
elevare, facile e facilità, favorire, faticoso, fatuo, ecc. L’attività traduttiva ha concorso,
insieme al costante confronto con i modelli latini, all’implementazione delle strutture
sintattiche volgari, consentendo il progressivo superamento della paratassi tipica della prima
prosa in volgare. Sono frequenti i calchi del participio congiunto, sia presente ,sia passato. A
partire dalla metà del Trecento acquista rilievo anche la costruzione dell’accusativo con
l’infinito, fino allora poco presente nei volgarizzamenti, seppure già ben attestata nella prosa
latineggiante di Guittone e di Dante. Per contro, non mancano i volgarizzamenti che
mostrano una spiccata tendenza all’abbandono dei costrutti latini in favore di «altri
genuinamente volgari»; lo stesso participio congiunto è spesso reso con il gerundio,
produttivo anche nella prosa coeva. Il rapporto diretto con l’antichità affermato
dall’Umanesimo rinnovò profondamente la traduzione, che con Coluccio Salutati, Leonardo
Bruni e Guarino Veronese divenne oggetto anche di teoria; ma poiché «il banco di prova del
tradurre umanistico è in sostanza di greco in latino», la traduzione dal latino al volgare perse
di centralità culturale e digradò «verso livelli di cultura più bassi». Solo verso l’ultimo quarto
del XV secolo, anche grazie alla politica filo-volgare di Lorenzo il Magnifico, si riaccese nei
colti l’interesse per i volgarizzamenti.

LEZIONE 10 -
A quali fenomeni si allude con i termini di aferesi, sincope, apocope? Come si
chiamano i loro contrari?
I termini aferesi, sincope e apocope hanno i seguenti contrari:
aferesi -> prostesi, sincope - >anaptissi, apocope -> epitesi.
L’AFERESI è la caduta di una vocale o di una sillaba a inizio parola, il contrario è la
PROTESI ovvero l’aggiunta di una vocale o di una sillaba a inizio parola.
La SINCOPE è la caduta di uno o più fonemi a interno parola, il contrario è l’ANAPTISSI,
l’aggiunta di una vocale tra due consonanti in modo che si abbia una nuova sillaba.
L’APOCOPE è la caduta di una vocale o di una sillaba a fine parola, l’aggiunta si chiama
EPITESI.
Illustrate ed esemplificate uno o più dei seguenti fenomeni fonetici: a) chiusura in
protonia; b) anafonesi; c) assimilazione dei nessi consonantici latini; d)
palatalizzazione delle sequenze consonante + J
1) Chiusura in protonia: senza accento il sistema vocalico tende a ridurre le differenze di
timbro e di apertura. Nel sistema vocalico panromanzo il vocalismo tonico è a sette gradi di
apertura ma il vocalismo atono non distingue cronologicamente tra ed e e tra o ed ) e
dunque il sistema si riduce a 5 gradi. Analogamente in siciliano, il cui vocalismo tonico è a 5
gradi di apertura, fuori d’accento ne esistono solo tre. Questa tendenza assume in fiorentino
una notevole sistematicità e una propria caratteristica: in posizione protonica e, quindi, nella
sillaba precedente a quella tonica le e diventano i e, meno sistematicamente, le o diventano
u. Ciò può verificarsi all’interno di parola ma anche all’interno di frase.
2) Anaforesi: indica un innalzamento della lingua verso il palato ed è tipica del fiorentino. In
certe condizioni la “e” e la “o” brevi si chiudono, rispettivamente, in “i“ e in “u”.
3) Assimilazione dei nessi consonantici latini: con modalità diverse a seconda dei luoghi i
nessi consonantici latini, composti da due occlusive (ct-pt) si evolvono. In toscano
l’assimilazione regressiva (cioè per influsso del secondo elemento sul primo) produce il
suono intenso “tt”.
Indicare il significato delle seguenti coppie di fenomeni fonetici: aferesi/prostesi,
sincope/anaptissi, apocope/epitesi.
L’AFERESI è la caduta di una vocale o di una sillaba a inizio parola, il contrario è la
PROTESI ovvero l’aggiunta di una vocale o di una sillaba a inizio parola.
La SINCOPE è la caduta di uno o più fonemi a interno parola, il contrario è l’ANAPTISSI,
l’aggiunta di una vocale tra due consonanti in modo che si abbia una nuova sillaba.
L’APOCOPE è la caduta di una vocale o di una sillaba a fine parola, l’aggiunta si chiama
EPITESI.
Indicate un fenomeno ciascuno relativo a: a) vocalismo; b) consonantismo; c)
morfologia; d) sintassi avvenuto nel passaggio dal latino volgare al volgare
italiano.
A - Anafonesi: si tratta di un fenomeno fonetico di innalzamento della “e” chiusa e della “o”
chiusa rispettivamente in “i” e “u” in particolari contesti fonetici. La “e” e la “o” chiusa, mutano
in “e” e “u”, in contesto fonetico palatale e la “e” chiusa muta in “i” in un contesto fonetico
velare. Ad esempio: Vinco/Venco/Vinco
B - Un fenomeno del consonantismo è la caduta delle consonanti finali. Non abbiamo piu
“Lupum” bensì “Lupo”. Questo processo avviene in contemporanea con la perdita della
declinazione latina e designa l’italiano come una lingua le cui parole terminano
esclusivamente per vocale.
C - La nascita dell’articolo comune al territorio romanzo. Esso ha origine da un’attenuazione
semantica dei dimostrativi IPSUM (in Sardegna) e ILLUM. Entro questa comune nascita
romanza, quel che caratterizza il toscano è la formazione precoce, accanto alle forma forte
di una forma debole, creatasi in contesti sintattici precisi. In particolare dopo la parole
uscente per vocale: per lo pane, ma anche lo pane > anche ‘l pane.
D - A livello morfologico nascono forme verbali perifrastiche come il futuro. In latino le forme
sintetiche sono fatte dall’infinito del verbo + presente del verbo avere. Ad esempio Cantare +
Abeo ovvero cantare + *ao > cantarò > evolve in canterò a Firenze.
Illustrate la nascita, la storia e le regole d'uso antiche dell'articolo determinativo
L’articolo è assente in latino come categoria grammaticale. L’articolo ha origine da
un’attenuazione semantica dei dimostrativi IPSUM (in Sardegna) e ILLUM (nella Romània).
Il toscano è caratterizzato da dalla formazione precoce, accanto alla forma forte illum di una
forma debole che in tutta la Toscana è el e a Firenze è il (il resto d’Italia non conosce la
forma debole). La maggior parte delle parole italiane deriva dal caso accusativo e anche
l’articolo con le dovute considerazioni: il e lo possono derivare sia da illum che da ille; i e gli
da illi; il femminile la e le da illa e illae (o illas).
Le forme dell’articolo determinativo maschile, si sono prodotte secondo la sequenza
cronologica IL)LUM >lo>’l il/el. Per gli articoli determinativi c’è da ricordare la presenza del
plurale maschile “li” accanto alla forma palatalizzata “gli”, che è documentata in Dante.
L’alternanzatra “il” e “lo” non rispetta le regole dell’italiano di oggi, ma avviene in base alla
cosidetta legge di Groeber “Io”, cosi come i plurali “li” e gli” si usano all’inizio di una frase o di
verso, o dopo la parola terminante per consonante.
Chiarite il significato di segno diacritico e esemplificate tramite il sistema ortografico
italiano
Nella lingua scritta, i segni diacritici sono lettere che non corrispondono a un suono, ma
servono soltanto a determinare (dal greco diakritikòs ‘che distingue’) la giusta pronuncia di
un’altra lettera o gruppo di lettere. In italiano i segni diacritici sono due: la h e la i.
• L’h compare nei gruppi che, chi e ghe, ghi per distinguerne la pronuncia da quella dei
gruppi ce, ci e ge, gi
cheto / ceto, chicca / cicca
ghetto / getto, ghiro / giro
e in alcune voci dell’indicativo presente del verbo avere, per distinguerle da una serie di
➔omofoni
io ho / o (congiunzione)
tu hai / ai (preposizione articolata)
lui, lei ha / a (preposizione semplice
loro hanno / anno (sostantivo)
• La i compare nei gruppi cia, cio, ciu; gia, gio, giù; scia, scio, sciu; glia, glie, glio, gliu per
distinguerne la pronuncia da quella dei gruppi ca, co, cu; ga, go, gu; sca, sco, scu; gla, gle,
glo, glu
Illustrate ed esemplificate i seguenti fenomeni morfosintattici: a) nascita dell'articolo;
b) creazione del futuro e del condizionale romanzi
A - L’articolo ha origine da un’attenuazione semantica dei dimostrativi IPSUM (in Sardegna)
e ILLUM (nella Romània). Il toscano è caratterizzato da dalla formazione precoce, accanto
alla forma forte illum di una forma debole che in tutta la Toscana è el e a Firenze è il (il resto
d’Italia non conosce la forma debole). La maggior parte delle parole italiane deriva dal caso
accusativo e anche l’articolo con le dovute considerazioni: il e lo possono derivare sia da
illum che da ille; i e gli da illi; il femminile la e le da illa e illae (o illas).
Le forme dell’articolo determinativo maschile, si sono prodotte secondo la sequenza
cronologica IL)LUM >lo>’l il/el. Per gli articoli determinativi c’è da ricordare la presenza del
plurale maschile “li” accanto alla forma palatalizzata “gli”, che è documentata in Dante.
L’alternanzatra “il” e “lo” non rispetta le regole dell’italiano di oggi, ma avviene in base alla
cosidetta legge di Groeber “Io”, cosi come i plurali “li” e gli” si usano all’inizio di una frase o di
verso, o dopo la parola terminante per consonante.
B - 1) per il futuro le forme sintetiche latine sono sostituite dall’ infinito del verbo più il
presente del verbo avere (cantare habeo = canterò);
2) Per il condizionale ( assente in latino come categoria morfologica autonoma) abbiamo la
perifrasi dell’infinito seguito dal perfetto del verbo avere (cantare habui= canterei)

Illustrare la formazione del futuro e del condizionale romanzi


Le forme verbali perifrastiche nascono così:
1) il futuro romanzo, che nel latino tardo sostituisce il futuro sintetico, è una forma
perifrastica formata dall’infinito del verbo più la forma monosillabica del presente indicativo di
Habere, *ao = cantar*ao > cantarào > cantarò.
2) Per il condizionale romanzo, la forma perifrastica è formata dell’infinito del verbo seguito
dal perfetto indicativo = Habere, *ei : cantare*ei > canterei.

LEZIONE 12 -
Elementi fono-morfologici e sintattici che contraddistinguono la lingua del Duecento.
Gli studi critici hanno riconosciuto da tempo che la lingua italiana si fonda storicamente sul
fiorentino antico, in particolare sul modello dei sommi autori del Trecento: Dante, Petrarca e
Boccaccio. L’italiano standard dei giorni nostri, anche in virtù della codificazione
grammaticale che muove a partire dal Cinquecento (promossa molto spesso da letterati non
toscani), arricchito dal contributo di scrittori di tutta la penisola e con la vivacissima
affermazione del parlato, che appartiene però solo all’ultimo secolo, poggia sulle strutture
grammaticali del fiorentino dell’ultimo Duecento e del Trecento, sublimato e promosso ad
altissimi livelli d’arte da quei tre grandi (le cosiddette "tre corone"). Molto meno scontata è
invece un’altra realtà, dalla quale conviene prender le mosse per comprendere la
straordinaria importanza di Dante nella nostra storia linguistica: all’epoca in cui visse Dante
Alighieri (1265- 1321), il fiorentino non era altro che uno dei tanti dialetti parlati nella
penisola, quelli che designiamo come "volgari". Esso era già stato impiegato con fini artistici
in poesia (molto meno in prosa), ma era ancora ben lontano dalla conquista di quel primato
indiscusso di cui avrebbe goduto nei secoli successivi.
Negli anni intorno alla metà del XIII secolo, infatti, poteva vantare la più alta nobilitazione
letteraria un altro volgare, il siciliano: raffinato e arricchito dal ricorso a elementi ripresi dal
latino e dal provenzale, esso era stato lo strumento espressivo della prima scuola poetica
italiana, fiorita intorno alla corte di Federico II di Svevia a partire dal terzo decennio del
Duecento (ad essa diedero voce peraltro anche autori di altra provenienza regionale). Ma,
ancora, esperienze di poesia didattica e moraleggiante si erano moltiplicate nell’Italia
settentrionale; i primi saggi di prosa letteraria aveva tentato, nella prima metà del secolo, il
bolognese Guido Faba, in un volgare locale impreziosito dalla presenza del latino; un
importante filone di poesia religiosa stava prendendo corpo in Umbria, a cominciare dal
celebre Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi, composto intorno al 1224-25.

In molta prosa del Duecento si coglie il forte influsso delle grandi lingue di cultura: il
francese, il provenzale, con fitti apporti lessicali, e il latino, che incide soprattutto sugli
andamenti sintattici e sull’ordine delle parole. Latineggianti sono per esempio la tendenza a
privilegiare la subordinazione e la collocazione del verbo in posizione finale. Grazie a
Brunetto e al contributo di altri scrittori (fra gli altri Bono Giamboni e l’anonimo autore del
Novellino, che realizza un dettato molto semplice, con periodi brevi e preferenza per la
coordinazione) la cultura fiorentina recupera così anche per gli impieghi prosastici il ritardo
dei suoi esordi; essa affina il suo volgare e si pone come un centro alternativo a Bologna e
soprattutto ad Arezzo, dove Guittone aveva dato con le sue Lettere l’esempio più rilevante di
prosa volgare retoricamente impegnata.
Lingua e letteratura nel Duecento
La letteratura italiana nasce solo nel XIII sec., in forte ritardo sulle altre letterature europee,
per la forza di conservazione del latino. Punto di partenza è la fondazione della Scuola
poetica siciliana, fiorita tra il 1230 e il 1270 ca. alla corte di Federico II. I testi arcaici della
fine del XII sec. e il Cantico delle creature di s. Francesco (1224) sono già componimenti
letterari, ma la loro apparizione come fenomeni poetici è episodica. L'iniziativa della Scuola
siciliana è invece unitaria: propone l'adozione di una lingua d'arte italiana (il volgare siciliano
colto); elabora quelli che saranno i metri principali della lirica posteriore: la canzone e il
sonetto, ispirandosi ai modelli provenzali. La sconfitta di Benevento, con la morte di re
Manfredi (1266), disperde la Scuola. Ma il suo ricupero era già avvenuto in Toscana: i testi
siciliani vi si diffondono, linguisticamente toscanizzati, mentre i rimatori delle varie province
della regione (Guittone d'Arezzo, Chiaro Davanzati) ne assimilano temi, schemi e linguaggio
arricchendoli di un fervore speculativo più vivacemente interessato ai tradizionali temi
provenzali dell'amore, della cortesia e della virtù. Nasce la prosa in volgare nella quale
elementi culturali diversi sono ancora confusi: Guittone d'Arezzo, Brunetto Latini, i vari 'fiori'
(raccolte di prov 555i83f erbi, sentenze di filosofi, aneddoti con finalità morali), i
volgarizzamenti del francese e del latino, le raccolte di novelle come il Novellino. L'uso del
volgare subisce tuttavia ancora la concorrenza di altre lingue più autorevoli: il latino, che è
pur sempre la lingua dei dotti, e il francese, che sembra preferibile per la sua larga diffusione
(il Tresor di Brunetto Latini e il Milione di Marco Polo). Nel Veneto e in Italia settentrionale
fioriscono, sin dalla fine del XIII sec., i poemi cavallereschi detti franco-veneti e una più
originale produzione religiosa, sociale e moraleggiante, collegata al movimento ereticale
lombardo della pataria (Girardo Patecchio, Uguccione da Lodi, Bonvesin de la Riva,
Giacomino da Verona). In Umbria, la poesia religiosa ispirata a s. Francesco trova la sua
espressione collettiva nella lauda, destinata a evolversi in primitiva rappresentazione
drammatica (sacra rappresentazione): di essa si servì il più grande poeta religioso del
tempo, Iacopone da Todi. La poesia religiosa ha il suo corrispettivo gioioso e terreno
nell'ispirazione popolareggiante dei poeti comico-realistici o giocosi della Toscana (Rustico
di Filippo, Cecco Angiolieri, Folgore da San Gimignano): malgrado l'apparente
antiletterarietà dell'espressione, anche questa è poesia dotta. Lo stesso fenomeno si verifica
con le tipiche forme popolari dell'alba e della ballata, che sono elevate a raffinato motivo
lirico dai poeti del dolce stil novo. La poetica del bolognese Guido Guinizelli, estrema
spiritualizzazione della concezione dell'amor cortese, è arricchita di toni personali, oltre che
psicologicamente approfondita, nei poeti toscani (Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni
Alfani, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia e, soprattutto, Dante Alighieri).
LEZIONE 13 -
Illustrate l'opposizione fra enunciato e enunciazione formulata da Émile Benveniste
La distinzione tra soggetto dell'enunciato e soggetto dell'enunciazione risale a Benviste, la
quale fa una distinzione tra due aspetti del linguaggio:
quello in cui appare come un insieme di enunciati ovvero espressioni linguistiche e quello
della produzione di enunciati attraverso l’atto d’enunciazione ovvero il processo di
formulazione di un atto linguistico che ogni locutore compie nel momento in cui parla. Tutto il
lavoro di Benveniste consise nell’elaborare una linguistica dell’enunciazione, la quale non ha
per oggetto, come la linguistica classica, il testo stesso dell’enunciato, ma la definizione del
quadro formale di realizzazione dell’enunciazione.

LEZIONE 14 -
Illustrate la figura di Bono Giamboni e fornite alcuni elementi linguistici e stilistici
della sua scrittura letteraria così come li abbiamo desunti dal brano
analizzato durante il corso.
L'attività di giudice e la partecipazione alle istituzioni cittadine sono in stretto rapporto con la
produzione letteraria di Giamboni., il quale si colloca, a fianco del contemporaneo Brunetto
Latini, come esponente di rilievo di quella intellettualità fiorentina che esercitava l'attività
giuridica, che partecipava attivamente alla vita politica della città e che, attraverso i
volgarizzamenti e la scrittura di opere originali in volgare, era impegnata nella creazione di
una nuova cultura laica. Non vi sono elementi che consentano di determinare la datazione
precisa né l'ordine di composizione delle opere del Giamboni; si sa però che egli sarebbe
tornato più volte sullo stesso testo perché esistono redazioni e forme diverse sia di alcuni dei
volgarizzamenti, sia dell'unica sua opera originale, il Libro de' vizî e delle virtudi. Si tratta di
un trattato di argomento morale e allegorico, conosciuto anche con il titolo Introduzione alle
virtù, non attestato nei codici, ma usato autorevolmente nel vocabolario della Crusca, e
ripreso quindi in diverse edizioni ottocentesche. Nel Libro de' vizî e delle virtudi il Giamboni
inserì l'immagine della battaglia fra gli eserciti dei vizi e delle virtù (tipica di tanta letteratura
medievale dalla Psychomachia di Prudenzio in poi), così come le parti propriamente
didascaliche del suo discorso, all'interno di una sorta di narrazione autobiografica, che trova
nella Consolatio philosophiae di Boezio il suo antecedente più diretto. Molte delle fonti e dei
modelli tardoantichi e medievali del Libro (oltre a Prudenzio e Boezio si possono ricordare
Claudiano, s. Bernardo, Alano da Lilla) sono stati conosciuti dal Giamboni assai
probabilmente per mezzo di testi intermedi, in alcuni casi in volgare.
Filosofia viene a consolare l'autore che sta soffrendo e piangendo per la perdita dei beni
terreni. Ella lo convince però che il lamentarsi per la perdita delle cose del mondo è vano e
ingiusto e che meglio per lui sarebbe l'intraprendere il cammino per la conquista del regno
dei cieli, recandosi presso le virtù. Dopo essere stato sottoposto a esame presso la prima
delle virtù, la fede cristiana, l'autore è quindi ammesso alla visione della battaglia fra le virtù
e i vizi, che hanno come loro alleate le fedi non cristiane: ebraismo e islamismo. Al termine
della battaglia l'autore viene finalmente ammesso come fedele delle virtù: "E dacché [le virtù]
m'ebbero benedetto e segnato e ricevuto per fedele, scrissero Bono Giamboni nella
matricola loro, secondo che la Filosofia disse ch'io era chiamato" (p. 120).
Sotto il profilo dell'analisi linguistica: il dittongamento toscano è regolare (buon(o)), la
sistematica applicazione della chiusura delle vocali toniche in iato: si veda Dio e Idio, tua,
sue. A questa, va aggoiunto un dato che riguarda le forme declinabili (il plurale maschile
dell'aggettivo e pronome possessivi tuo' e tuoi). Sono particolari condizioni fonetiche in cui si
attua la chiusura delle vocali toniche in iato (presenza o assenza di una -i a contatto con una
vocale tonica) che determina una irregolare declinazione delle forme: mio, mia, mie, ma miei
- tuo, tua, tue, tuoi. Si noti, inoltre, la presenza di monosillabi atoni proclitici ed enclitici, la
presenza di alcuni latinismi fonetici, cioè di quelle parole che non recano traccia di quei
fenomeni fonetici che avrebbero dovuto colpirli, evidentemente per recupero dotto della
forma latina. presenza di raddoppiamento fomosintattico, ossia del fenomeno di
rafforzamento della consonante iniziale di parola che si verifica nella catena fonica tra parola
e parola; compresenza della forma forte dell'articolo (lo<(IL)LUM) e della forma debole 'l del
singolare.

Tracciate un quadro della prosa letteraria del Duecento


Possiamo risalire all’utilizzo del volgare in prosa letteraria sin dal 1243 ad opera di Guido
Faba, in “Gemma Purperea” e “Parlamenti in volgare”. Si tratta di due opere che
comprendono la parte latina e quella volgare. E’ interamente volgare la cosiddetta “Omelia
volgare padovana”, un breve passo volgarizzamento da un passo evangelico.
Anzitutto siamo in un secolo di volgarizzamenti, che avvengono sulla base di due culture:
quella francese contemporanea e quella classica. La cultura francese in questa fase
attraversa un grande periodo di fama, offrendo le originali opere carolinge e opere storiche,
morali e filosofiche. Gli anni Sessanta del Duecento vedono una grande crescita dei
volgarizzamenti in area toscana, primo fra tutti quello del “De Invenrione Ciceroniano” di
Brunetto Latini. Solo vent’anni dopo, nel 1280, si registra la prima prosa volgare originale di
carattere letterario: la “Composizione del mondo con le sue cascioni” di Restoro d’Arezzo.
Anteriore al 1292 è l’attività di autore e di traduttore di Bono Giamboni, che scrive il “Trattato
di Virtù e Vizi” e, successivamente, una rivisitazione dello stesso dal titolo “Libri de’ vizi e
delle virtudi”, inoltre compone probabilmente “Fiore di rettorica!. A questo ultimo decennio
del XIII (13) secolo, risalgono la scrittura de “Vita Nova” di Sante e le “Lettere” di Guizzone
D’Arezzo. Stupisce ad oggi notare come gli scritti di carattere religioso siano in netta
minoranza rispetto ai testi retorici, attinenti all’ambito morale e alle norme di comportamento,
testi di ambito scientifico, romanzi cavallereschi, testi di materia storica, ecc…
Questo perchè nella societa si ha l’emergere di una nuova classe sociale che chiede la
produzione di queste opere.
Nel seguente brano di Bono Giamboni individuate elementi (parole, sintagmi,
caratteristiche fonetiche) ascrivibili alle tre componenti della sua lingua, latino,
francese, toscano: “Considerando a una stagione lo stato mio, e la mia ventura fra me
medesimo esaminando, veggendomi subitamente caduto di buon luogo in malvagio
stato, seguitando il lamento che fece Iobo nelle sue tribulazioni, cominciai a maladire
l’ora e ’l dí ch’io nacqui e venni in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo
m’avea nutricato e conservato.”
- stagione: l'esito indigeno fiorentino -TJ- è l'affricata dentale sorda /ts/ che non ha avuto
seguito in stagione<STATIONEM, per la quale sarebbe stazzone (stagione, come palagio, è
un francesismo, mentre il latinismo fonetico corrispondente è l'it.stazione);
- veggendomi: per influsso di veggio< VĬDEO tramite*vedjo, è una forma antica,
foneticamente regolare, confortata dalla I pers. sing. come faccio<FACIO.
- mi<ME: monosillabo atono proclitico ed enclitico in veggendomi.
- malvagio: 'cattivo', 'sfortunato', ma senza la specificazione odierna che non attribuisce
l'aggettivo a cose. l'aggettivo è riferito qui a stato.; è il francese mauvais, dal lat. popolare
malifatius (<MALUM+FATUM), 'che ha cattiva sorte'.
- tribulazioni: è un latinismo fonetico, oltre che per la conservazione di u<Ŭ, per l'esito
TJ-,che si adegua alla pronuncia ecclesiastica latina;
- maladire: come maledire deriva da MALE DI(CĔ)RE; la seconda -a- è frutto di
assimilazione (progressiva) alla -a- della sillaba precedente (tonica nell'avverbio male,
colpita da accento secondario nel composto).
- 'l: articolo debole che compare nella forma originaria apocopata, o solo dopo parola che
termina in vocale.
- avea: il fenomeno non ha origine fonetica, ma va interpretato come dissimilazione a partire
da aveva>avea (la desinenza -ea si sarebbe poi estesa a tutti i verbi della II e III
coniugazione latina e successivamente alla IV con uscita-ia). Se oggi queste forme non
hanno più corso è dovuto al fatto che al modello di avea, cui si erano uniformati i verbi di II,III
e IV coniugazione, non poteva adeguarsi la numerosissima classe dei verbi della I classe
per i quali un'evoluzione CANTABAT>cantava>*cantaa>*cantaa non era possibile.
- considerando (...) e (...) esaminando e in ch'io nacqui e venni: ricorso alla coordinazione,
con esplicitazione della congiunzione.
- considerando: subordinazione con verbo ad un modo non finito, ossia con gerundio
(considerando, veggendomi, seguitando) oppure con l'infinito (a maladire).
- che in questo mondo m'avea nutricato e conservato: subordinazione con verbo finito,
sempre mediante il che relativo che esprime il soggetto o l'oggetto o un complemento
indiretto (il dì ch'io nacqui).
- fra me medesimo: indica un momento intimo in cui il tempo esterno, che scorre, non esiste
(a una stagione). Tale condizione è rappresentata dalla serie di gerundi; il fluire del tempo
sarà annunciato da seguitando e anticipato dal passato remoto di fece, ma irromperà
effettivamente nel presente del protagonista della sua storia solo con incominciai, che
innesca l'azione del personaggio (incominciai a maladire).
Analizzate dal punto di vista sintattico il seguente brano di Bono Giamboni:
“Considerando a una stagione lo stato mio, e la mia ventura fra me medesimo
esaminando, veggendomi subitamente caduto di buon luogo in malvagio stato,
seguitando il lamento che fece Iobo nelle sue tribulazioni, cominciai a maladire l’ora e
’l dí ch’io nacqui e venni in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo
m’avea nutricato e conservato”.
Esempio di paratassi
- stagione: l'esito indigeno fiorentino -TJ- è l'affricata dentale sorda /ts/ che non ha avuto
seguito in stagione<STATIONEM, per la quale sarebbe stazzone
- per influsso di veggio< VĬDEO tramite*vedjo, è una forma antica, foneticamente regolare,
confortata dalla I pers. sing. come faccio<FACIO.
- mi<ME: monosillabo atono proclitico ed enclitico in veggendomi.
- tribulazioni: è un latinismo fonetico, oltre che per la conservazione di u<Ŭ, per l'esito
-TJ-,che si adegua alla pronuncia ecclesiastica latina;
- maladire: come maledire deriva da MALE DI(CĔ)RE; la seconda -a- è frutto di
assimilazione (progressiva) alla “a” della sillaba precedente (tonica nell'avverbio male,
colpita da accento secondario nel composto).
- 'l: articolo debole che compare nella forma originaria apocopata, o solo dopo parola che
termina in vocale.
- avea: il fenomeno non ha origine fonetica, ma va interpretato come dissimilazione a partire
da aveva>avea (la desinenza -ea si sarebbe poi estesa a tutti i verbi della II e III
coniugazione latina e successivamente alla IV con uscita-ia).
- considerando: subordinazione con verbo ad un modo non finito, oppure con l'infinito (a
maladire).
- che in questo mondo m'avea nutricato e conservato: subordinazione con verbo finito,
sempre mediante il che relativo che esprime il soggetto o l'oggetto o un complemento
indiretto (il dì ch'io nacqui).
Paratassi e ipotassi nella prosa letteraria del Duecento
Lo stile di un autore o di un opera dipende dal modo in cui sono costruite le frasi. Se la
sintassi è breve, semplice e preferisce frasi brevi, indipendenti l’una dall’altra, unite tra loro
da una virgola o da una congiunzione allora si ha una coordinazione o paratassi. Questa
modalità espressiva è tipica della lingua parlata e, sulla pagina di narrativa, risulta
particolarmente accessibile al lettore perché frutto di un meticoloso lavoro di ricerca e
correzione da parte dell’autore. Questo tipo di struttura contribuisce anche a determinare un
ritmo narrativo veloce e conciso. Si ha, invece, la subordinazione o ipotassi quando la
sintassi è elaborata e presenta frasi lunghe e complesse, costituite da proposizioni principali
dalle quali dipendono le subordinate unite tramite congiunzioni. Questa modalità espressiva,
ereditata dalla prosa latina, è tipica dell’espressione colta e letteraria e comporta quindi un
maggior impegno da parte del lettore per la sua piena comprensione. Questa struttura
sintattica, contribuisce inoltre, ha determinare un ritmo narrativo più lento perché comporta
riflessione analitica e ragionamenti più profondi.
Descrivete cosa è e come funziona la regola del dittongo mobile
In sillaba accentata aperta le vocali latine “e” breve e “o” breve hanno dato origine ai
dittonghi “ie” ed “ou”. Negli altri casi, quando la vocale non è accentata o la sillaba termina in
consonante, invece del dittongo abbiamo vocali semplici “e” aperta e “o” aperta. Da qui
l’alternanza che prende il nome di dittongo mobile.
È un fenomeno tipicamente toscanp che consiste nella regressione dei dittonghi ascendenti
“uo” e “ie” (buono/piede) accentati che diventano i ed e nei derivati o nei composti.

LEZIONE 19 - Illustrate ed esemplificate uno o più dei seguenti fenomeni


morfosintattici: a) nascita dell'articolo; b) perdita delle desinenze latine e nascita dei
complementi preposizionali; c) legge Tobler-Mussafia
a) nascita dell’articolo: L’ articolo è assente in latino come categoria grammaticale. Esso ha
origine da un’attenuazione semantica dei dimostrativi IPSUM (in Sardegna) e ILLUM (nella
Romània). Il toscano è caratterizzato da dalla formazione precoce, accanto alla forma forte
illum di una forma debole che in tutta la Toscana è el e a Firenze è il (il resto d’Italia non
conosce la forma debole). La maggior parte delle parole italiane deriva dal caso accusativo
e anche l’articolo con le dovute considerazioni: il e lo possono derivare sia da illum che da
ille; i e gli da illi; il femminile la e le da illa e illae (o illas).
c)Tobler-Mussafia: tale legge rende fissa la posizione del clitico in alcune precise situazioni,
lasciandola libera nelle altre.
Descrivete le condizioni in cui vige la legge Tobler-Mussafia
La Legge Tobler-Mussafia (che prende il nome dai due studiosi che per primi l'hanno
studiata, il primo riconoscendola nell'antico francese, il secondo verificandone la validità
anche nell'antico italiano) rende obbligatoria la posizione del clitico in alcune precise
situazioni, lasciandola libera in altre. Attiva fino agli inizi del Quattrocento, ma già fortemente
indebolita in Boccaccio: ad inizio assoluto di frase, in genere dopo "e" o "ma" è obbligatoria
la posposizione dei pronomi personali atoni e delle particelle avverbiali al verbo (posizione
enclitica). Infine, all'inizio di una principale preceduta da una secondaria introdotta sa se,
quando, o da gerundio.
LEZIONE 21 -
Poesia, prosa, volgarizzamenti nel Trecento italiano.
Rispetto alla prosa duecentesca, nel Trecento si assiste ad una articolazione maggiore
dovuta ad una crescente alfabetizzazione della classe media, cittadina e comunale, in
prevalenza mercantile. La produzione in francese di romanzi cavallereschi affascina anche
la bassa feudalità e le piccole corti signorili. Aumenta, pertanto, la domanda di scritture di
carattere letterario. Notevole ancora la produzione di volgarizzamenti ma, rispetto al
Duecento, nel Trecento lo sguardo è rivolto verso la riscoperta dei classici latini, non solo
volgarizzati ma anche letti in originale e presi a modello. Ad una prospettiva di inferiorità
rispetto alla letteratura provenzale per la poesia, francese per la prosa, caratteristica del
Duecento, si sostituisce man mano la riscoperta di una tradizione autoctona che assume
dentro di sè la tradizione classica. Similmente per la poesia, quando Dante indica i tratti
della poesia in volgare, accanto ai provenzali indicherà i poeti latini (Orazio, Virgilio).
Nonostante l'importanza di Dante e Petrarca per la poesia del Trecento, nel XIV secolo non
assistiamo più alla preponderanza della poesia rispetto alla prosa, a cui si era assistito nel
Duecento.

LEZIONE 25 -
Definite in che cosa consiste la tematizzazione e illustratene le modalità di
funzionamento nella prosa di Iacopo Passavanti.
La tematizzazione consiste nella messa in evidenza sintattica, in apertura di nuovo periodo,
del tema del nuovo periodo espresso mediante pronome anaforico che rinvia e riprende il
rema del periodo precedente. La tematizzazione nella prosa del Passavanti è un elemento
fondamentale che riesce a funge da coesione tra due frasi differenti e viene utilizzato per
giustificare e regolare le inversioni da Soggetto Verbo a Verbo Soggetto tramite il
complemento e con l’anteposizione del complemento al Verbo e Soggetto. La distinzione fra
tema cioè l’argomento di partenza e rema l’argomento informativo nuovo si può disporre
come una serie di periodi in cui un tal rema di un periodo diventi il tema del periodo
successivo. E proprio nella prosa del Passavanti, tale funzione logica di legame tra le frasi è
svolta con l’apertura del periodo con l’aggettivo o pronome dimostrativo con valore
anaforico. A volte utilizza anche semplici congiunzioni e, ma, per rafforzare i collegamenti
interfrasali, congiunzioni non con funzione coordinativa o avversativa ma per segnalare la
continuità del discorso e renderlo al lettore unitario e continuo nonostante periodi separati.

Posizione degli aggettivi attributivi e ricadute stilistiche.


Le due funzioni fondamentali dell'aggettivo sono: la funzione attributiva e quella predicativa.
L’aggettivo, in rapporto al nome a cui si riferisce ha due funzioni a seconda se appartiene al
gruppo nominale o al gruppo verbale.
Una “funzione attributiva” avviene quando l’aggettivo fa parte del gruppo del nome e il
collegamento tra l’aggettivo e il nome è diretto, ad esempio “Il mare agitato mi mette paura”.
In questo caso l’aggettivo espande o determina il nome cui si riferisce ed è un aggettivo
attributivo o attributo.
La “funzione predicativa” si presenta quando l’aggettivo fa parte del gruppo del verbo e il
collegamento tra l’aggettivo e nome avviene tramite il verbo essere in funzione di copula o
verbo copulativo, ad esempio “Il mare è calmo”. In questo caso, l’aggettivo specifica quale
qualità o caratteristica ha il soggetto, forma la parte nominale di un predicato e si chiama
aggettivo predicativo.
La sintassi e lo stile di Iacopo Passavanti.
Nella sintassi del Passavanti qualsiasi regola relativa all'enclisi del pronome atono in rispetto
della legge Tobler-Mussafia è scomparsa, lasciando posto a preferenze di tipo stilistico o
prosodico che non sintattico a tutti gli effetti. La posizione preferenziale dei clitici è quella
proclitica, anche quando l'antica regola prevedeva l'enclisi. quest'ultima è limitata alle
condizioni moderne: dopo infinito, più frequente ma sempre dopo imperativo o modo non
finito. Al di fuori di questi casi, che avvicinano la prosa del Quattrocento alle condizioni che
sono anche della lingua moderna, compaiono due casi di enclisi che rispondono ad
esigenze di tipo stilistico: acquistonne e partorissi. Entrambi i casi sono finali di periodo e
perciò pare opportuno interpretare l'enclisi come volontario adeguamento ad un'esigenza
prosodica che sa da un lato vuole evitare che il periodo si concluda su un elemento
ossitono, dall'altro vuole adeguarsi al cursus, un modello di clausola catalogato secondo
l'andamento ritmico ottenuto mediante l'alternanza di parole piane e sdrucciole.

Illustrate dal punto di vista linguistico (fono-morfologico, sintattico e stilistico) uno


dei due brani riportati sotto, inquadrando gli autori (Bono Giamboni e Jacopo
Passavanti) nel contesto storico-culturale:
a) “– Figliuol mio, forte mi maraviglio che, essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, in
ciò che stai sempre col capo chinato, e guardi le scure cose della terra,
laonde se’ infermato e caduto in pericolosa malatia”;
b) “Così avviene degli uomini che vivono in questo mondo, il quale è appellato mare
per lo continovo movimento e inistabile istato, e per le tempestose avversitadi e
gravi pericoli che ci sono, ne’ quali la maggiore parte della gente perisce.
b)Passavanti in Specchio di vera penitenza sotto il profilo fonetico si registra uomini: dittongo
regolare in velare.
- istato: protesi di i- nelle parole che cominciano per s+consonante;
- continovo: caso di epentesi (anaptissi) di v. nella banca dati OVI la forma continovo e
declinati ha solo cinque attestazioni, contro 146 di continuo e derivati. nel Trecento la forma
continovo e dervivati ha 356 attestazioni.
L'epentesi è spiegabile con il fenomeno cosiddetto dell'estirpazione di iato.
Pur avendo un andamento didattico, lo Specchio ha un tono medio; le storie letterarie hanno
qualche incertezza nel catalogare lo Specchio né trattato filosofico né semplice trascrizione
di prediche oralmente recitate. È però lo stesso Passavanti ad indicare il genere di
riferimento entro il quale inscrive la propria opera: il titolo di Specchio si rifà alla ampia
tradizione medievale e umanistica degli specula (appunto ‘specchi’), che erano trattati di
comportamento, morale o civile, in cui si illustrava il modello di costumi considerato come
preferibile. Gli specula più fortunati furono quelli destinati a signori e principi nei quali si
indicavano i comportamenti dei principi nei confronti dei sudditi, di altri signori, della
religione, delle arti e della guerra. Il trattato tratteggiava un modello ideale di principe alla
luce del quale il signore (se giovane) poteva educarsi e nel quale il signore poteva
specchiarsi per verificare la corrispondenza del suo comportamento reale, concreto e
quotidiano. Non esistono altre opere italiane che traducano in volgare questo genere da
adottarne il titolo tanto esplicitamente e consapevolmente come fa il Passavanti.

Tema e rema: tematizzazione come tratto stilistico in Iacopo Passavanti.


La tematizzazione nella prosa del Passavanti è un elemento fondamentale e principale che
riesce a fungere da coesione tra due frasi differenti e viene utilizzato per giustificare e
regolare le inversioni da Soggetto Verbo a Verbo Soggetto tramite il complemento e con
l’anteposizione del complemento al Verbo e Soggetto. La distinzione fra tema cioè
l’argomento di partenza e rema l’argomento informativo nuovo che è poi il contenuto del
messaggio si può disporre come una serie di periodi in cui un tal rema di un periodo diventi il
tema del periodo successivo. E proprio nella prosa del Passavanti, tale funzione logica di
legame tra le frasi con inversioni dei costituenti di frase per creare una serie interrotta di
passaggi da rema a tema della successiva, dal punto di vista lessicale, è svolta con
l’apertura del periodo con l’aggettivo o pronome dimostrativo con valore anaforico. A volte
utilizza anche semplici congiunzioni e, ma, per rafforzare i collegamenti interfrasali,
congiunzioni non con funzione coordinativa o avversativa ma per segnalare la continuità del
discorso e renderlo al lettore unitario e continuo nonostante periodi separati.

Durante il corso abbiamo connesso la prosa di Jacopo Passavanti ad uno stile


caratteristicamente omiletico. Perché?
Jacopo Passavanti, a metà Trecento, precisa che la «scienza della divina scrittura» non
deve essere appresa da tutti allo stesso modo e profondità. I raccontini esemplari, tipici della
tradizione omiletica medioevale a cui egli ricorre in Specchio di vera penitenza fungono da
exempla e sono un modo piacevole per evitare certe
difficoltà e raggiungere più direttamente l’animo degli uditori meno colti.

Indicate sommariamente alcuni fenomeni fonetici, morfologici o sintattici del


seguente brano (da Iacopo Passavanti, Specchio di vera penitenza):
“Solo Iesu Cristo salvatore, Iddio e uomo, sanza peso di peccato, leggiermente
notando, passò il mare di questo mondo. E ciò significò egli, quando, essendo i
discepoli suoi nella nave nel mare di Galilea, e avendo grande fortuna per la forza del
contrario vento, egli venne a loro andando leggiermente sovra l’onde del
turbato mare”.
Tutto il presente brano è esempio di tematizzazione, ovvero la messa in evidenza sintattica,
in apertura del nuovo periodo, del tema del nuovo periodo espresso mediante pronome
anaforico che rinvia e riprende il rema del periodo precedente. Il principale elemento di
coesione interfrasale (e ciò) che giustifica e regola le inversioni.
- “sanza”: Nel settore del consonantismo, va segnalato l’uso delle soluzioni semivolgari
anzia , enzia (occasionalmente alternanti con l’esito interamente volgare anza , enza ) delle
desinenze latine -ANTIAM e -ENTIAM; è un fenomeno la cui origine risiede nella pronuncia
ecclesiastica del latino e la cui frequenza caratterizza la prosa del Passavanti in senso
mediamente latineggiante, tenuto conto per di più che la natura stessa dello Specchio
richiede l’ampio uso dei nomi astratti appartenenti a questa categoria, volgarismo fonetico.
“E ciò significò egli”: CVS (Complemento+Verbo+Soggetto);
“E”: congiunzioni (apparentemente) coordinanti utilizzare per rafforzare i collegamenti
interfrasali;
- “turbato mare”: l'aggettivo è prenominale ed è la posizione degli aggettivi di preferenza nel
Prologo allo Specchio di vera Penitenza.
Analizzate dal punto di vista linguistico e stilistico il seguente brano tratto dallo
Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti: “Secondo che dice el venerabile
dottore messere santo Ierolimo, Poenitentia est secunda tabula post naufragium: la
penitenzia è la seconda tavola dopo il pericolo della nave rotta. Parla il santo dottore
della penitenzia, per somiglianza di coloro che rompono in mare, de’ quali spesse
volte interviene che, rotta la nave per grande fortuna e per tempestade che sia
commossa in mare, coloro che sono più accorti prendono alcuna delle tavole della
rotta nave, alla quale attegnendosi fortemente, soprastando all’acqua, non affondano;
ma giungono a riva o a porto, iscampati del periglio del tempestoso mare”.
- dice el venerabile dottore: rispetto alla linearià della sintassi volgare che si stabilizza in
VSC, si registra la scelta in contrasto con questo schema astratto. Anteposizione del Verbo
al Soggetto espresso esplicitamente VS.
- el: ’unica attestazione dell’articolo debole el a 1 (la forma debole senza vocale d’appoggio
compare due volte, sempre dopo la congiunzione e : e ’l conducimento 42 e e ’l
conturbamento 72) contro 21 attestazioni di il penitenzia: (20 occorrenze complessive).
Nel settore del consonantismo, va segnalato l’uso delle soluzioni semivolgari “anzia , enzia”
(occasionalmente alternanti con l’esito interamente volgare anza, enza per es.somiglianza) -
- delle desinenze latine -ANTIAM e -ENTIAM; è un fenomeno la cui origine risiede nella
pronuncia ecclesiastica del latino e la cui frequenza caratterizza la prosa del Passavanti in
senso mediamente latineggiante (tenuto conto per di più che la natura stessa dello Specchio
richiede l’ampio uso dei nomi astratti appartenenti a questa categoria).
- iscampati: protesi di i- nelle parole che cominciano per s+consonante;
- della nave rotta: la posizione dell'aggettivo rotta è denotativa e l'aggettivo svolge una
funzione definitoria.
Nel caso di rotta nave l'aggettivo è prenominale ed è la posizione degli aggettivi di
preferenza nel Prologo allo Specchio di vera Penitenza.

LEZIONE 27 -
Dalle due lingue dei secoli precedenti (latino/volgare) alle tre lingue del Quattrocento
(greco/latino/ volgare)
Nella prosa letteraria del 400 rinasce il modello classico del Dialogo che nel medioevo era
imitato semplicemente come uno scambio di battute tra interlocutori senza riuscire a toccare
i picchi classici, ciceroniani, in cui da posizioni contrapposte si giunge a una sintesi
superiore. Il dialogo nel 400 avviene per mano di Lorenzo Valla. Questa imitazione deve
molto alle traduzioni del greco, la terza lingua che arriva a insinuarsi nella diglossia
volgare/latino. Quindi nella prima metà del 400 il greco inizia a penetrare nella cultura
umanista. Ci sono figure come Guarino Guarini o Giovanni Aurispa che vanno in oriente per
imparare il greco e tornano carichi di sapere e libri, che diffondano personalmente la lingua
dei filosofi. Poi ci sono ragioni storiche che hanno contribuito allo sviluppo: la caduta di
Costantinopoli ad esempio, da cui molti intellettuali fuggirono in Italia in cerca di riparo. Ma è
nella seconda metà del Quattrocento, con Cosimo de’ Medici che commissiona traduzioni di
Platone a Marsilio Ficino che il greco del 400 conosce la sua fase di massima espansione. Il
greco quindi entra ufficialmente come terza lingua nella situazione diglottica italiana, a
nonostante tutto, il volgare non perde la sua spinta espansionistica. Anzi, grazie al lavoro dei
poeti vicini a corte, si sviluppa sempre più.
Illustrate le dinamiche intercorrenti fra latino e volgare nel Quattrocento
All’interno di questo periodo storico si distingue la fase dell’Umanesimo, il latino classico
diventa il principale strumento espressivo in ogni campo della cultura, anzitutto in quello
letterario. Gli umanisti scrivono le loro opere esclusivamente in latino, perché lo considerano
perfetto e immutabile. il volgare attraversa una fase di crisi e viene sempre più relegato a usi
pratici e a generi letterari popolari. Dopo la metà del, la fase della cultura umanistica, si
avvale non solo del latino ma anche del volgare, si usa appunto la formula di Umanesimo
volgare. Volgare e latino: descrivete la polemica che oppose Flavio Biondo a Leonardo Bruni
e le differenti posizioni da essi rappresentate.
Biondo Flavio lancia l’idea rivoluzionaria che nella Roma antica si parlasse, accanto alla
lingua usata da Cicerone e dai grandi scrittori, una varietà «popolare». Il latino si presentava
per il Flavio in tre varietà linguistiche distinte (poetica, oratoria, vulgaris), Bruni non
accettava questa idea. Secondo lui c’erano state due lingue nettamente distinte: un latino
vero e proprio, corrispondente a quello di uso letterario, e uno del volgo.

LEZIONE 28 - El / il; mila / milia; fusse / fosse; quali termini di queste coppie
appartengono al fiorentino aureo e quali al fiorentino argenteo?
“El” e cominciano a sostituire “i” e “il” per influsso dei dialetti occidentali nel fiorentino
argenteo. Mila fa parte del fiorentino argenteo e sostituisce milia, fusse è fiorentino argenteo
e si affianca a fossi, fusti.

Fra fiorentino aureo e fiorentino argenteo (indicate alcuni dei fenomeni distintivi).
Il termine fiorentino "argenteo" fu coniato da Arrigo Castellani, mentre il fiorentino "aureo" del
Trecento il cui mito si era formato nell'ambiente dell'Accademia della Crusca. Nel suo saggio
del 1967 Italiano e fiorentino argenteo (Arrigo Castellani mostra come «il fiorentino
posteriore al Boccaccio», che chiama argenteo (contrapposto a quello aureo, di matrice
trecentesca), «sia responsabile di vari tratti fonetici, morfologici e sintattici dell’italiano
d’oggi». Di seguito un elenco di sintesi.
1. Il tipo trecentesco brieve, pruova (dittongamento di è e ò in sillaba libera) passa a breve,
prova.
2. L’antico ragghiare, tegghia si palatalizza in ragliare, teglia.
3. Le forme dea(no), stea(no) diventano dia(no), stia(no).
4. I numerali aurei diece, dicessette, dicennove, milia si trasformano in dieci, diciassette,
diciannove, mille.
5. Domane e stamane (benché quest’ultima forma si sia conservata) si mutano in domani e
stamani.
6. Il tipo lo mi è soppiantato da me lo; similmente, al posto dell’antico invariabile gliele si
hanno le forme glielo, gliela, ecc.
7. Si abbandona la trecentesca ciriegia, che diviene ciliegia; e all’aureo pippione s’è
sostituito l’argenteo piccione.
8. Sopra, che nel Trecento non determinava il raddoppiamento, diventa cogeminante intorno
al Quattrocento - Cinquecento: sopracciglio, sopraffare, sopraggiungere
9. Si monottonga uo dopo palatale: fagiolo, gioco, figliolo (anticamente fagiuolo, giuoco,
figliuolo).
10. La prima persona dell’imperfetto indicativo prende –o invece che –a (io era –> io ero,
ecc.).
11. Si sostituiscono le forme dell’imperativo di dare, fare, stare, andare con le forme
corrispondenti dell’indicativo (dai/da’ in luogo di da cogeminante, che però conserva la
cogeminazione con le enclitiche [dammi]).
12. L’antica pronuncia delle lettere dell’alfabeto (a, be, ce, de...) passa a (a, bi, ci, di...).
13. Si diffonde la costruzione noi si fa (anche presso scrittori settentrionali, come Pavese, ad
esempio) per noi facciamo.

LEZIONE 30 - Indicate i latinismi lessicali e sintattici nel seguente brano della Lettera
proemiale alla Raccolta Aragonese: “Ripensando assai volte meco medesimo,
illustrissimo signor mio Federico, quale in tra molte e infinite laudi degli antichi tempi
fussi la più eccellente, una per certo sopra tutte l’altre esser gloriosissima e quasi
singulare ho giudicato: che nessuna illustre e virtuosa opera né di mano né d’ingegno
si puote immaginare, alla quale in quella prima età non fussino e in publico e in
privato grandissimi premi e nobilissimi ornamenti apparecchiati”.
- Laudi : dal latino Laudem che conserva il dittongo -AU- latino Singulare: che sta per “senza
pari”, “unica”
- publico: conserva la scempia del modello latino
- illustruìssimo e nobilissimi e grandissimi: sono superlativi assoluti
- una per certo sopra tutte l’altre esser gloriosissima e quasi singulare ho giudicato: questa
frase è costruita per iperbato ovvero con un architettura simile al latino che pone il verbo in
conclusione di frase.
- non fussino e in publico e in privato: altra costruzione tipica del latino ovvero l’iterazione di
“E” anche davanti alle dittologie.

LEZIONE 32 - Poliziano fra istanze umanistiche e istanze ‘popolari’: la Lettera


proemiale alla Raccolta Aragonese e i Detti piacevoli.
La Raccolta Aragonese costituisce un primo bilancio della tradizione poetica in volgare; la
Raccolta si apre sulla figura di Dante a cui era dato massimo risalto: introdotto dalla Vita di
Dante di Giovanni Boccaccio, vi era accolto il prosimetro della Vita nova , le grandi canzoni
dantesche, un certo numero di sonetti. A Dante seguivano Guido Guinizzelli, Guittone
d’Arezzo e Guido Cavalcanti; la cronologia poi riprendeva la sua funzione ordinatrice con la
sequenza di Cino da Pistoia e una raccolta ampia di poeti trecenteschi (fra cui il Boccaccio
delle rime) e primoquattrocenteschi. La Raccolta non comprende invece Petrarca. La
Raccolta si concludeva poi con una piccola antologia di Lorenzo de’ Medici poeta, di cui
venivano accolti nove sonetti, due canzoni e cinque ballate. Quest’ultima scelta dimostra
quanto, a considerazioni di tipo strettamente letterario, si coniugassero ragioni, dai riflessi
anche politici, di autopromozione del signore di Firenze. Il quadro fonetico offerto dalla
Lettera proemiale alla Raccolta Aragonese mostra in genere una sostanziale fedeltà ai tratti
del fiorentino trecentesco; per lo più, infatti, gli elementi innovativi del fiorentino “argenteo”, a
causa della connotazione ‘bassa’ che li caratterizza, non sono accolti, evidentemente perché
di difficile acclimatamento nella prosa ‘alta’ di questa epistola. La regola del dittongo mobile
non è contraddetta ( trovasti 26, ritrovare 59; troverrei e trovatolo in Detti piacevoli 1,4 e
10,2). Per affermare che il monottongamento quattrocentesco non sia avvenuto infatti non è
risolutivo drieto 106 (accanto a dietro 85): le due varianti fonetiche dell’avverbio (D(E)
RĔTRO > dietro per dissimilazione della sequenza r - r ) dimostrano la vitalità del fenomeno
della metatesi, cioè dello spostamento di un suono, nel nostro caso r , da una sillaba alla
sillaba vicina (dunque diet r o accanto a d r ieto ), in cui il dittongo viene conservato per
solidarietà dell’una forma con l’altra. Ancora dal punto di vista del vocalismo tonico va
annotata la conservazione di -AU- latino nelle varie forme riconducibili a LAUDEM.
Analogamente, per il consonantismo emergono, accanto al rifiuto delle innovazioni
quattrocentesche, il costante riferimento al latinismo fonetico, in particolare per l’accoglienza
di nessi di consonante + l conservati e indenni dalla palatalizzazione del volgare: preclare
10, clarissimo 30 e 36. I latinismi fonetici segnalati per l’ Epistola sono o meno frequenti o
addirittura assenti nei Detti , dove non compare alcun caso di conservazione di -AU- latino (
pauroso e paura di 6,1 e 6,1 sono esiti volgari da PAU(O)REM con cambio di suffisso).
Analogamente non ci sono casi di conservazione di consonante + l (si vedano cerchio , più ,
vecchio e soprattutto il nome proprio Tegghia e del Tegghia nel Detto 4, esito regolare da
TEGULAM). A sublevato dell’ Epistola fa da contraltare soggiunse in Detti 7,8; a estimati
corrisponde nei Detti 4,3 stimava . I latinismi lessicali dei Detti sono però di ambito diverso
da quello dei latinismi lessicali e fonetici censiti nell’ Epistola : dove quelli erano collegati
all’ambito retorico, critico, filosofico, implicando dunque un recupero più o meno evidente
della tradizione classica, questi rimandano ad un lessico latino di ambito
giuridico-amministrativo che si era tramandato anche e principalmente nel Medioevo.
Ciò che caratterizza maggiormente la sintassi dell'Epistola ponendola su un piano ben
diverso dai Detti è una serie di richiami di varia natura alla sintassi latina:
1) alcuni latinismi di costruzione, in particolare: a) la costruzione dei superlativi relativi; b)
l'uso di quale relativo; c) la iterazione di e anche davanti al primo elemento delle dittologie.
2) la posizione del verbo (finito o infinito) in fine di periodo o di frase con i connessi casi di
iperbato;
3) l'adeguamento alla costruzione latina delle oggettive o soggettive implicite con infinito.

Latino, greco e volgare nell'Umanesimo quattrocentesco.


Nei primi decenni del Quattrocento gli umanisti, identificandosi nella tradizione culturale
classica, considerano il latino, da loro recuperato a una nuova regolarità e dignità, come sola
lingua elevata, adatta a scopi d'arte; e manifestano un atteggiamento di disprezzo e di rifiuto
nei confronti del volgare, ritenuto lingua inferiore, corrotta, da impiegarsi solo per usi pratici e
per scrivere. Nel corso del Quattrocento mutano anche i procedimenti con cui si insegna a
comporre in prosa e vengono rivoluzionati la concezione e l’insegnamento della retorica
(considerata non più disciplina filosofica, ma linguistico-letteraria) grazie alla scoperta di testi
fondamentali come il De oratore di Cicerone. Gli umanisti condannavano il versatile latino
medievale, che viveva nei tes in simbiosi col volgare, e volevano restaurare il la no
ciceroniano e gramma cale. In tal modo, però, rendevano, di fatto, più forte il bilinguismo
latino-volgare: il latino era sempre meno utilizzabile per gli usi pratici per i quali si esigeva
l’impiego del volgare. Tale bilinguismo favorì scambi in entrambe le direzioni: mentre il latino
degli umanisti impiega alcuni moduli volgari che non hanno precedenti nell’antichità, il
volgare si arricchisce di nuovi costrutti sintattici (per es. l’accusativo con infinito come sento
qualcuno cantare) e di forme lessicali del latino classico (per es. il termine tradurre
sostituisce il trecentesco tralatrare, o la reintroduzione dei termini repubblica e accademia). Il
volgare, emarginato dalla letteratura e ancora mancante di una norma di riferimento, si
espandeva in usi scritti epistolari, amministrativi e burocratici, libri di famiglia, cronache, e
accoglieva, fra Tre e Quattrocento, a Firenze e in Toscana, fenomeni innovativi, usi parlati
popolari ed extraurbani.
Illustrate in che misura i tratti del fiorentino argenteo si manifestano nella prosa del
Poliziano esemplificando dalla Lettera proemiale alla Raccolta Aragonese e dai Detti
piacevoli.
Nella Lettera Proemiale i tratti del fiorentino argenteo per lo più non sono accolti,
evidentemente non ritenuti al livello della prosa “alta”. Raffrontando due testi di natura così
diversa (una lettera a un principe e un testo di natura ridanciana) si notano i diversi registri
del Poliziano. Possiamo accostare al fiorentino argenteo la forma sei al posto di se tanto
nell’Epistola quanto nei Detti e di fussi, fusseno. Nell’indicativo la desinenza della 1° persona
plurale del presente è -iamo (riceviamo, abbiamo). Nell’Epistola troviamo anche le
desinenze argentee della forma -orono per la terza persona plurale del perfetto di verbi
come cominciorono , ebbono e anche al condizionale come dovrebbono, avrebbono.
Illustrate la presenza e la natura dei latinismi nella scrittura di Agnolo Poliziano.
Anzitutto va annotata la conservazione di -AU latino nelle sue varie forme riconducibili a
Laudem (laudi, laude, laudazioni). Poi nel vocalismo è frequente l’adesione al timbro delle
vocali corrispondenti al termine latino come: singulare (SINGULAREM) o sepulcro
(SEPULCRUM). C’è un costante riferimento al latinismo fonetico in particolare riguardo alla
forma di consonante + i conservati indenni alla palatizzazione volgare come preclare,
clarissimo, amplissimi o esempli.
Anche in Poliziano abbiamo l’uso semidotto di –TI. Lemmi come uno, una, singulare, fatti,
certame o magno sono tutti di ascendenza latina.

Analizzate dal punto di vista linguistico il seguente brano estratto dalla Lettera
proemiale alla Raccolta Aragonese:
"Imperocché, essendo la sacra opera di questo celebratissimo poeta dopo la sua
morte per molti e vari luoghi della Grecia dissipata e quasi dimembrata, Pisistrato,
ateniese principe, uomo per molte virtu? e d'animo e di corpo prestantissimo,
proposti amplissimi premi a chi alcuni de' versi omerici gli apportassi, con somma
diligenzia ed esamine tutto il corpo del santissimo poeta insieme raccolse, e si? come
a quello dette perpetua vita, cosi? lui a se stesso immortal gloria e clarissimo
splendore acquistonne"
Il legami interfrasali con la coniunctio relativa tematizzano di rado, e, rinunciando a condurre
per mano il lettore attualizzando il già detto, Poliziano preferisce rilanciare il discorso in
avanti mediante la congiunzione. Imperocché (6, 27, 31, 44, 53, 64) che spiega ma
soprattutto arricchisce con ulteriori precisazioni e corollari quanto espresso in precedenza.
Alcune forme particolari del congiuntivo, quali essendo.Per il consonantismo emergono,
accanto al rifiuto delle innovazioni quattrocentesche, il costante riferimento al latinismo
fonetico, in particolare per l’accoglienza di nessi di consonante + l conservati e indenni dalla
palatalizzazione del volgare: clarissimo , amplissimi e splendore. Essendo la sacra opera di
questo celebratissimo poeta dopo la sua morte per molti e vari luoghi della Grecia dissipata
e quasi dimembrata : Le forme verbali composte sono un’innovazione linguistica romanza e
dunque sono caratteristiche del volgare; numerosi umanisti, nel desiderio di modellare il
proprio volgare sul latino, tentarono di ridurne le occorrenze, sostituendo, laddove fosse
possibile, il passato remoto al passato prossimo (così fa per esempio Leon Battista Alberti).
Il Poliziano invece non censura tali forme, ma piuttosto le ‘depotenzia’, separando di
frequente l’ausiliare dal participio passato (e dunque riducendo la visibilità del tempo
composto) e ponendo in evidenza in fine di periodo il participio passato (ottenendo in tal
modo un effetto latineggiante analogo a quello della posposizione dell’intero sintagma
verbale) dissipata e dimembrata: latinismi lessicali.
LEZIONE 35 -
Quali problemi vengono affrontati e quali soluzioni vengono proposte nelle prime
grammatiche del volgare, in particolare nelle Regole del Fortunio e nelle Prose del
Bembo?
La prima grammatica italiana ad uscire in stampa fu quella di Giovanni Francesco Fortunio,
rimasta incompiuta per la morte improvvisa dell'autore, si intitolava le Regole grammaticali
della volgar lingua. A questa prima edizione fecero seguito due altre edizioni milanesi del
1517.La pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Bembo nel 1525 non interruppe la
fortuna di questa prima grammatica, più volte andata in ristampa. Attento al problema
ortografico, l'autore scriveva una grammatica diretta a letterati, esaltando e valorizzando le
basi letterarie che sole permettevano di parlare di una lingua volgare, e non di molteplici
varietà, spazialmente e geograficamente differenti. L'impostazione data era di tipo filologico,
cercava cioè di trasferire al volgare quella tradizione umanistica che nei decenni precedenti
era stata applicata al latino. Fortunio interpretava esigenze importanti per chi volesse porsi
la questione di una normazione del volgare (ortografia e modelli di riferimento), ma rimaneva
distante dal pubblico di utenti: un pubblico di letterati e scriventi, bisognosi di una norma
sicura a cui adeguare la propria produzione, che non sapeva o poteva contentarsi di richiami
alla tradizione grammaticale latina oppure disinteressati alla visione filologica umanistica del
Fortunio. Era, piuttosto, necessaria loro una grammatica letteraria e retorica in prospettiva
ad una nuova letteratura. A questa esigenza risposero le Prose del Bembo (probabilmente
ideate prima della prima grammatica del Fortunio) del 1525, poi edite nuovamente nel 1549.
La proposta di Bembo fu quella di indicare a modello della scrittura letteraria dei propri
contemporanei la lingua di Bocaccio per la prosa e di Petrarca per la poesia, formulando
giudizi molto limitativi su Dante.
La posizione linguistica di Pietro Bembo e il ciceronianismo.
Bembo nel 1525 era un intellettale di spicco e la comparsa delle Prose beneficiò di questa
sua autorevolezza. La sua presa di posizione sul tema della lingua fu quindi notata da tutti.
Bembo individua due modelli di scrittura. Boccaccio per la prosa e Petrarca per la poesia.
Una scelta che equiparava il volgare al modello classico del binomio: Cicerone-Virgilio. Già
solo con questo parallelismo Bembo da parità letteraria al volgare rispetto al latino. C’è un
precedente che porta a questa posizione, ovvero uno scambio epistolare tra Bembo e Pico.
Quest’ultimo prospettava una certa libertà anarchica per gli scrittori, che secondo lui
avevano la libertà di attingere a momenti diversi della latinità. Bembo risponde a questa
epistola con la sua De Imitatione, in cui ribadisce regole più rigide ma con una base solita: la
considerazione che la più alta forma latina si è raggiunta con Cicerone in prosa e Virgilio in
poesia e sulla base di questi due importantissimi nomi, andavano costruite delle ferree
regole grammaticali.

Pietro Bembo: la posizione teorica vista alla luce del dibattito quattrocentesco e
contemporaneo sul ciceronianesimo
Tra il 1510 e il 1530 trionfa a Roma il “ciceronianesimo”, l'imitazione del sonoro periodo del
grande modello, che ebbe sanzione ufficiale quando Leone X elesse suoi segretari due
eleganti ciceronianisti: Pietro Bembo e Jacopo Sadoleto. Classicismo, imitazione della lingua
e dello stile degli antichi diventano canoni in tutti i generi letterari per ottenere risultati artistici
universali e perenni. Predomina con l'opera del Bembo la forza istituzionale ed esemplare
dell'imitazione dei grandi modelli. Anche in questa direzione la scelta del Bembo è contraria
all'arricchimento linguistico mediante l'uso quotidiano. La lingua letteraria non deve
accostarsi a quella del popolo ma «discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a
mantenersi in vago et in gentile stato» Quando l'affermazione del volgare è definitiva e lo
sviluppo della stampa crea un pubblico più vasto Bembo accentua la frattura fra lingua
letteraria e lingua parlata per favorire la produzione aristocratica – produzione di classe –
gradita ai signori dai quali umanisti e letterati dipendevano.

LEZIONE 36 - Niccolò Machiavelli: prassi e teoria linguistiche.


All'interno della tradizione letteraria italiana, la prosa politica di Machiavelli fa storia a sé, o
meglio avvia una storia a sé stante. Se l’assetto fonomorfologico la avvicina al secolo e alla
geografia linguistica e culturale di una parte della prosa che la precede (il Quattrocento
fiorentino di Leon Battista Alberti), la sintassi e lo stile la proiettano senz'altro verso il secolo
e la geografia linguistica e culturale di una parte della prosa che la segue (il Seicento già
italiano di Galileo Galilei). La straordinaria novità della lingua e dello stile del Principe fu
colta a suo tempo da un grande poeta, scrittore e critico italiano dell’Ottocento, Ugo Foscolo
(1778-1827). In una sua opera questi affermò che nessuno, in Italia, aveva scritto mai «né
con più forza né con più evidenza né con più brevità del Machiavelli». A parere di Foscolo,
l’unico difetto della lingua e dello stile dell’autore del Principe derivava dalla «barbarie del
dialetto materno», cioè dalla condizione rozza e disordinata in cui egli aveva trovato il
fiorentino dei suoi tempi. A due secoli di distanza, e no- nostante l'improprietà di quest'ultima
affermazione, le parole di Foscolo descrivono in modo molto efficace le caratteristiche più
importanti della prosa politica di Machiavelli: le categorie della forza, dell’evidenza e della
brevità possono essere riferite alle strategie generali di organizzazione del testo e alle
strutture della sintassi, mentre la presunta barbarie del dialetto materno è riferibile all'aspetto
grafico-fonetico e morfologico.
La nascita della grammatica della lingua italiana.
La grammatica italiana nacque dunque fonda le sue radici nel confronto con la grammatica
latina, perché l’idea stessa della grammatica si legava al latino, a tal punto che Dante, nel
De vulgari eloquentia, aveva identificato direttamente latino e grammatica. A giudizio di
Dante, però, non tutte le lingue erano dotate di grammatica, la quale era prerogativa di
quelle regolate e letterarie, come il latino stesso e il greco. Se la Grammatichetta di Alberti
non fosse rimasta inedita, sarebbe risultata cronologicamente la prima stampata in Europa.
La prima grammatica italiana stampata uscì ad Ancona nel 1516 dalla bottega di un
tipografo di origine vercellese, Bernardino Guerralda. Era intitolata Regole grammaticali
della volgar lingua (edizione moderna a cura di Richardson: Fortunio 2001; riproduzione
fotografica nell’edizione a cura di C. Marazzini e S. Fornara: Fortunio 1999), e ne era autore
un umanista e uomo di legge, Giovanni Francesco Fortunio, che si trovava allora in qualità di
podestà ad Ancona, dove morì l’anno dopo. Tali Regole furono seguite dalle Prose della
volgar lingua, di Pietro Bembo, stampate nel 1525. Le Prose di Bembo, però, non sono
esclusivamente un trattato grammaticale, e anche il titolo ne dichiara il contenuto più ampio:
dei tre libri di cui si compongono, solo il terzo è una grammatica, mentre i primi due parlano
della storia, della formazione, dei pregi e caratteri del volgare, e definiscono il livello stilistico
da conseguire mediante l’imitazione di modelli, identificati in primo luogo nella poesia di
Francesco Petrarca e nella prosa più elevata del Decameron di Giovanni Boccaccio (non in
tutta l’opera, dunque), e solo in maniera subordinata in Dante, autore macchiato, agli occhi
del Bembo, dal difetto di un eccessivo abbassamento del livello linguistico e stilistico nelle
parti più realistiche della Commedia. Le Prose sono un trattato in forma dialogica, secondo il
gusto del tempo, seguendo prima di tutto il modello dei dialoghi di Cicerone. Anche la parte
strettamente grammaticale, nel libro terzo, è svolta in forma dialogica, per di più con un uso
quasi nullo dei tecnicismi grammaticali. Il modello normativo bembiano, che si impose nel
corso del Cinquecento, fu poi divulgato in forma più schematica da altri autori.
Le due grammatiche di Fortunio e di Bembo si differenziano nettamente dal più antico
esperimento di Alberti e hanno in comune il fatto di non basarsi sulla lingua viva, ma di
codificare il modello costituito dagli autori del Trecento: si fondano cioè sulla lingua letteraria
del passato. Benché i principi e i modelli a cui guardarono sia Bembo sia Fortunio non
appaiano diversi nella loro essenza (per la comune ispirazione agli autori del Trecento), le
due opere finiscono tuttavia per rivelarsi assai distanti nel metodo, nell’impostazione e nella
forma. Fortunio procede fornendo una serie di regole numerate in ordine progressivo,
rispettivamente relative ai nomi, pronomi, verbi e avverbi, a cui seguono le norme
dell’ortografia. Sotto queste regole, si affastellano esempi di Dante, Petrarca e Boccaccio,
con una pletora di osservazioni di natura filologica. Bembo, invece, discorre compiutamente
di lingua, di letteratura, di retorica, e alla fine offre un libro di grammatica indubbiamente
prescrittiva, e descrittiva dell’uso degli autori, ma esposta in forma discorsiva e mai
schematica, calata com’è nel genere dialogico. Molte norme che si sono imposte nell’italiano
trovano qui il primo deciso codificatore (per es., l’eliminazione dell’articolo maschile el al
posto di il, l’abolizione del pronome lui soggetto a favore di egli, ecc.).

LEZIONE 37 -
Analizzate nei suoi tratti fonomorfologici la lingua di Machiavelli utilizzando il breve
brano tratto dal De principatibus: "[III] DE PRINCIPATIBUS MIXTIS. [De' principati
misti] - [1] Ma nel principato nuovo consistono le difficultà. E prima, s'e' non è tutto
nuovo, ma come membro - che si può chiamare tutto insieme quasi misto -, le
variazioni sue nascono in prima da una naturale difficultà quale è in tutti e' principati
nuovi. Le quali sono che li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare, e
questa credenza li fa pigliare l'arme contro a quello: di che e' s'ingannano, perché
veggono poi per esperienza avere piggiorato".
L’assetto fonomorfologico la avvicina al secolo e alla geografia linguistica e culturale di una
parte della prosa che la precede. Riprendendo la sequenza dei tratti fiorentini
quattrocenteschi verifichiamo nella morfologia nominale l’incidenza dei nomi femminili della
III terminanti in e anzi che in i (arme). Per quanto riguarda l’articolo la variante li potrebbe
essere un arcaismo grafico.
- Latinismi fonetici: difficultà;
- Il rigore definitorio, oltre che con la disgiuntiva si esprime anche attraverso l’avversativa: III
1, 1 Ma nel principato nuovo consistono le difficultà ;
Individuate nei due brani di Poliziano e Machiavelli riportati qui sotto l'affioramento
dei tratti del fiorentino argenteo:
a) "Conosceva questo egregio principe li altri suoi virtuosi fatti, comeché molti e
mirabili fussino, tutti nientedimeno a quest'una laude essere inferiori";
b) "E sempre interverrà ch'e' vi sarà messo da coloro che saranno in quella
malcontenti o per troppa ambizione o per paura: come si vidde già che li etoli
missono e' romani in Grecia, e, in ogni altra provincia che gli entrorno, vi furno messi
da' provinciali".
a) Morfologia verbale 1) nel verbo essere : (tu) sè >sei ; siete > sete ; fossi > fussi ; fosti >
fusti;
b)Poliziano: Morfologia verbale - il passato remoto di mettere (e composti) con - s - > - ss -:
missi , promisse;
LEZIONE 38 -
Analizzate dal punto di vista linguistico e stilistico il seguente brano tratto dal De
principatibus di Machiavelli:
"[14] L'altro migliore remedio è mandare colonie in uno o in dua luoghi, che sieno
quasi compedes di quello stato: perché è necessario o fare questo o tenervi assai
gente d'arme e fanti. [15] Nelle colonie non si spende molto; e sanza sua spesa, o
poca, ve le manda e tiene, e solamente offende coloro a chi toglie e' campi e le case
per darle a' nuovi abitatori, che sono una minima parte di quello stato".
Se l’assetto fonomorfologico la avvicina al secolo e alla geografia linguistica e culturale di
una parte della prosa che la precede la sintassi e lo stile la proiettano senz'altro verso il
secolo e la geografia linguistica e culturale di una parte della prosa che la segue le categorie
della forza, le strategie generali di organizzazione del testo e alle strutture della sintassi
mirano alla brevità e all’evidenza per dare un effetto razionalizzante e di categorizzazione
del reale raggiunto ad esempio col ricorso insistito al modulo il modulo o ... o : *III 14, 1-
2 colonie in uno o in dua luoghi * ... + perché è necessario o fare questo o tenervi assai
gente d’arme e fanti; III 15, 2 e sanza sua spesa, o poca Latinismi: -- uso del latino nei titoli
generale e dei capitoli, ma anche gli inserti latini nella trattazione: compedes ‘ceppi’ III 14, 1,
quest’ultimo un esplicito rimando a Livio, ab Urbe condita , XXXII, 37, 2-4) Riprendendo la
sequenza dei tratti fiorentini quattrocenteschi verifichiamo nella morfologia nominale
l’incidenza dei nomi femminili della III terminanti in e anzi che in i (arme).

Parlato e scritto, tradizione e innovazione nella lingua di Niccolò Machiavelli.


Nella tesi fiorentinista, è poco netta (se non addirittura annullata) la distinzione fra parlato e
scritto, fra competenza nativa (nell’aneddoto infatti il Fiorentino pretende sia di parlare
veneziano sia di dettar regole sull’uso scritto) e uso della lingua a scopo letterario. È
evidente che l’ironia sulle Prose del Bembo (di colui che da Veneziano aveva preteso di
insegnare a parlar toscano ai Toscani, secondo il paradosso dell’aneddoto) si fonda su una
sostanziale incomprensione della proposta bembesca. Per Bembo l’eccellenza del toscano è
un privilegio ottenuto sul campo della letteratura da quella variante linguistica diatopica: il
toscano non è migliore in sé e per sé, ma perché eccellenti scrittori hanno impostato in
letteratura le condizioni per una lingua letteraria. Ed è proprio perché lo scopo è quello di
perfezionare uno strumento linguistico a fini artistici che i Toscani, secondo Bembo, partono
svantaggiati anziché avvantaggiati. Non è però a questo o ad altri passaggi delle Prose che
Machiavelli risponde con il Discorso intorno alla nostra lingua ; scritto all’incirca nel 1524, il
Discorso testimonia quel che si diceva in giro delle Prose , non ancora pubblicate né,
dunque, lette nella loro integrità. È però certo che le impostazioni di Bembo e Machiavelli
sono diametralmente opposte. Machiavelli, a differenza del Bembo, rivendica l’eccellenza di
natura della lingua parlata a Firenze. Nel Discorso , che a tratti assume la forma di dialogo
fra l’autore e Dante stesso, Machiavelli afferma non solo che Dante (anziché in volgare
curiale o ‘cortigiano’) ha scritto in fiorentino, ma anche che la storia non ha potuto che
svolgersi così perché l’arte degli scrittori eccellenti ha trovato uno strumento (il fiorentino)
che per natura si offriva più adatto alla elaborazione letteraria. Tutto il Discorso di
Machiavelli (sul quale non possiamo soffermarci oltre) stabilisce questa solidarietà fra lingua
data per natura e sua elaborazione attraverso l’ arte , fra lingua dell’oralità, lingua parlata,
quotidiana e lingua della letteratura; gli scrittori non possono essere eccellenti se a loro
disposizione non è dato uno strumento linguistico tale che consenta e faciliti l’esercizio
dell’arte.
LEZIONE 39 -
Analizzate dal punto di vista linguistico il seguente brano estratto dal De
principatibus: "[42] Aveva dunque fatto Luigi questi cinque errori: spenti e' minori
potenti; accresciuto in Italia potenza a uno potente; messo in quella uno forestiere
potentissimo; non venuto ad abitarvi; non vi messo colonie. [43] E' quali errori
ancora, vivendo lui, potevono non lo offendere s'e' non avessi fatto il sesto, di torre lo
stato a' viniziani".
Se l’assetto fonomorfologico la avvicina al secolo e alla geografia linguistica e culturale di
una parte della prosa che la precede la sintassi e lo stile la proiettano senz'altro verso il
secolo e la geografia linguistica e culturale di una parte della prosa che la segue; l’enclisi
compare in condizioni analoghe a quelle moderne: dopo participio passato purché non
preceduto dalla negazione, nel qual caso la proclisi è costante: non lo offendere (III 43, 1)
non vi messo (III 42, 2).
Risalita del clitico: anche se non esclusiva potevono non lo offendere III 43, 1
Abbiamo poi conferme dell’accoglimento delle innovazioni quattrocentesche arrivano infine
dalla morfologia verbaleIn potevono abbiamo della desinenza -ono alla terza persona plurale
dell’imperfetto.

LEZIONE 40 -
Tracciate un quadro dei rispettivi ambiti d'uso del latino, del volgare e del dialetto nel
secondo Cinquecento e nel Seicento.
La seconda parte del secolo (più coerente, sotto vari punti di vista, con il secolo successivo),
rimarca il valore di svolta della fine del Concilio di Trento, che, oltre che una data epocale in
fatto di costume e di ideologia “ebbe effetti rilevanti nel campo della comunicazione sociale,
della politica linguistica della Chiesa, della predicazione”.
La seconda metà del Cinquecento e il Seicento sono normalmente associati a due categorie
interpretative entrambe desunte dal mondo delle arti (il Manierismo e rispettivamente il
Barocco) il concetto di Manierismo è entrato nella storia dell’arte per indicare tendenze e
caratteri propri del secondo Cinquecento. La sua fortuna deriva dal fatto che si tratta di un
comodo raccordo tra due realtà apparentemente incommensurabili, come sono il
Rinascimento e il Barocco. È perfino banale ricordare come la diffusione del concetto di
Manierismo sia stata parallela ad un riesame del giudizio sul Barocco [...] che da equivalente
di deviazione e di perversione del gusto, quale era stato reputato a partire dal Settecento e
dall’Illuminismo, venne interpretato come la cifra di una crisi del razionalismo
cinquecentesco, con sbocchi verso forme di soggettivismo accentuato e di svuotamento
della tradizione, tappa necessaria, insomma per lo sviluppo di quello che si usa chiamare lo
‘spirito moderno’. Anche in questo senso è di importanza determinante il richiamo al
Manierismo come transizione tra due poli estremi (il classicismo razionalista e il Barocco
anticlassico. Nell’Accademia Fiorentina in verità si fronteggiarono istanze ‘classicheggianti’ e
filobembiane come quella di Benedetto Varchi (1503- 1565) da una parte, e pretese di
superiorità del fiorentino (anche nella sua versione contemporanea, di lingua parlata e
mutevole nella diatopia e della diastratia) rispetto agli altri volgari, come quelle di Giovan
Battista Gelli (1498-1563) e Pier Francesco Giambullari (1495-1555), dall’altra. Se tali
posizioni si trovavano contrapposte riguardo al modello linguistico da proporre, esse erano
però concordi nella necessità di rivendicare a Firenze il proprio ruolo di sede privilegiata di
lingua (nativa o letterariamente educata), e sulla necessità di recuperare un ‘primato’ che,
per quanto riguardava la redazione della grammatica del volgare era stato sottratto a
Firenze da i non fiorentini Fortunio e Bembo. Con Salviati il fiorentino non teme rivali,
essendo lingua viva e non morta come il greco e il latino, e avendo fra i suoi autori «quello
stupore e quel miracolo» che è Dante.

Pietro Bembo e Leonardo Salviati (quali sono le analogie e le differenze nelle


rispettive posizioni linguistiche?)
Autore di commedie e trattati e rappresentante di quella tradizione filologica fiorentina che si
era espressa soprattutto in ambito latino e greco (lui stesso fu traduttore e commentatore
della Poetica aristotelica), il Salviati svolse nell’Accademia un ruolo di primo piano,
divenendone il vero animatore tanto dal punto di vista teorico quanto dal punto di vista delle
iniziative editoriali. “I nuclei dell’argomentazione salviatesca, svolti con lucidità e rigore [nell’
Orazione], sono i seguenti:
(a) alle lingue per imporsi non bastano le virtù naturali né un’illustre tradizione letteraria;
(b) il fiorentino da questo punto di vista ha le carte in regola e non teme rivali, essendo
lingua viva e non morta come il greco e il latino, e avendo fra i suoi autori «quello stupore e
quel miracolo» che è Dante;
(c) ma le lingue si affermano solo se chi le parla è consapevole del loro valore e se quelli
che hanno il prestigio per farlo si impegnano per il loro riconoscimento e la loro diffusione;
(d) il fiorentino è stato risvegliato «dal sonno» agli inizi del Cinquecento dalla maggior
autorità di quel momento, Pietro Bembo, «tenuto il maggiore huomo che havesse l’Italia in
quel tempo»;
(e) ma è necessario, perché non ricada proprio quando sta per risorgere, che qualcuno
altrettanto capace e autorevole si impegni nella stessa direzione;
(f) a Firenze c’è chi può assolvere a questo compito, la più importante istituzione culturale
della città: l’Accademia fiorentina, direttamente governata da Cosimo de’ Medici, «uno dei
maggiori Principi della Christianità»”.
Salviati espone la propria teoria, riprendendo dalle Prose del Bembo il modello
arcaicizzante, scostandosene però nel rivendicare non solo il valore di Dante, ma quello di
tutte le scritture trecentesche fiorentine di ogni genere e registro.
Nella visione del Salviati la teoria di Bembo è accolta nei suoi termini arcaizzanti eppure
profondamente rivisitata. In primo luogo alle Tre Corone trecentesche viene riannesso di
pieno diritto Dante, che Bembo aveva escluso dal ruolo di modello esemplare di stile,
esclusivamente riservato a Petrarca e Boccaccio. In secondo luogo, e soprattutto, marca la
differenza della impostazione salviatesca da quella del predecessore il fatto che, in buona
sostanza, ad un modello di stile si sostituisce un modello di lingua: in una prospettiva meno
élitaria dal punto di vista stilistico e letterario, si riconosce a tutto il Trecento una ‘purezza’
(poi deturpata dalla storia linguistica successiva) che consente di affiancare ai due modelli
letterari supremi, una miriade di modelli di lingua, selezionati solo per l’attinenza secolare.

L'Accademia fiorentina e la nascita dell'Accademia della Crusca.


Fra il 1540 e il 1541, una Accademia di privati cittadini (l’Accademia degli Umidi, che
comprendeva spiriti indipendenti e politicamente non allineati alla riconquista del potere in
Toscana da parte della casa dei Medici) era stata trasformata in strumento ufficiale di
promozione linguistica e letteraria da parte del duca Cosimo I (l’Accademia Fiorentina). In
tale Accademia aveva avuto occasione di svilupparsi e meglio strutturarsi quel sentimento di
orgoglio municipale che, a stare alla testimonianza di Carlo Lenzoni, era stato espresso da
Machiavelli all’uscita delle Prose della volgar lingua di Bembo: la rivendicazione cioè
(oculatamente promossa e incoraggiata dal Duca, che vi scorgeva un’insostituibile
opportunità di autopromozione culturale, letteraria e linguistica) del “primato fiorentino”, di cui
l’opera di Carlo Lenzoni è un esempio concreto. Nell’Accademia Fiorentina in verità si
fronteggiarono istanze ‘classicheggianti’ e filobembiane come quella di Benedetto Varchi
(1503-1565) da una parte, e pretese di superiorità del fiorentino (anche nella sua versione
contemporanea, di lingua parlata e mutevole nella diatopia e della diastratia) rispetto agli
altri volgari, come quelle di Giovan Battista Gelli (1498-1563) e Pier Francesco Giambullari
(1495-1555), dall’altra. Se tali posizioni si trovavano contrapposte riguardo al modello
linguistico da proporre, esse erano però concordi nella necessità di rivendicare a Firenze il
proprio ruolo di sede privilegiata di lingua (nativa o letterariamente educata), e sulla
necessità di recuperare un ‘primato’ che, per quanto riguardava la redazione della
grammatica del volgare era stato sottratto a Firenze da i non fiorentini Fortunio e Bembo.
Già nel diploma ducale del 22 febbraio 1542 (istitutivo dell’Accademia Fiorentina) il Duca
Cosimo, ricordando come in passato “i favori e gli aiuti” di tutta la famiglia Medici. A questo
generale auspicio di promozione del volgare, si era affiancato poco più tardi l’invito rivolto
ancora dal Duca agli accademici a redigere una grammatica; “Nel 1550 [...] l’Accademia
fiorentina [...] aveva affidato a una commissione di cinque membri (Varchi, Giambullari,
Lenzoni, Torelli, Gelli) l’incarico di stabilire le regole della lingua fiorentina”; ma, a parte
iniziative private come la grammatica del Giambullari (uscita nel 1552), il desiderio non fu
attuato. Dell’Accademia Fiorentina era entrato a far parte giovanissimo Lionardo Salviati
(1540-1589). L’attività del Salviati dei maturi anni Ottanta del XVI secolo (e in particolare
tutta la polemica antitassesca) non si svolgeva ormai più entro l’Accademia Fiorentina. Nel
1582 era stata creata la Brigata dei Crusconi, “costituita da un gruppo di amici, che si
riunivano per cenare e conversare piacevolmente. I loro argomenti leggeri, bizzarri e
inconsueti, erano definiti ‘cruscate’ e il loro ‘leggere in crusca’ significava ‘leggere in burla’
con uno spirito volutamente antipedantesco”. Nella Brigata (di carattere privato) confluirono
alcuni membri dell’Accademia ufficiale, compreso il Salviati che, subito dopo aver aderito,
“per alleggerire in parte le cure noiose della vita” (ma forse anche per ragioni politiche,
giacché dalla seconda metà degli anni Settanta erano sorti motivi di contrasto con il
Granduca Francesco I, successore di Cosimo I) avanzò la proposta “di dar a questa nostra
brigata nome d’Accademia [...] e noi non più Crusconi ci facciamo chiamare ma Accademici
della Crusca”

LEZIONE 41 - Lionardo Salviati, l'Accademia della Crusca e la nascita del Vocabolario.


Salviati aveva approfondito gli aspetti lessicali, oltre che fonetici e morfologici, del fiorentino
trecentesco, facendo anche riferimento a più riprese ad un Vocabolario toscano , del quale
non rimane traccia documentaria. Da questa idea embrionale, rimasta probabilmente allo
stato di semplice aspirazione, nacque l’impresa lessicografica più innovativa e di maggior
impatto nei secoli a venire, contestata e discussa, messa in ridicolo o osannata, ma
strumento imprescindibile (anche simbolico, nel bene e nel male) per l’unificazione della
lingua che man mano da ‘fiorentina’ o ‘toscana’ si avviava a diventare (almeno nel
sentimento comune) nazionale. Il Vocabolario, sopra il fondamento di una omogeneità
idiomatica ormai sufficientemente acquisita, fornì uno scelto repertorio lessicale e
fraseologico di elementi autorevolmente definiti e contestualizzati, cioè inseriti nelle loro reti
associative più proprie. Era un notevole passo avanti verso il requisito primario di una lingua
comune: la certezza dell’uso, al cui conseguimento, trattandosi di lingua scritta e mancando
il vivo confronto della conversazione, erano indispensabili strumenti dotti e riflessi quali
grammatiche e vocabolari. Sulla base di quel progetto del Salviati (e fedeli alla sua
impostazione) gli Accademici della Crusca si impegnarono, dopo la sua morte, a redigere,
con un lavoro di circa un ventennio (1592-1612). il primo Vocabolario degli Accademici della
Crusca uscito a Venezia nel 1612.
La lessicografia della Crusca: storia de Vocabolario e le reazioni alla Crusca (qualche
esempio nei secoli XVII e XVIII).
Salviati aveva approfondito gli aspetti lessicali, oltre che fonetici e morfologici, del fiorentino
trecentesco, facendo anche riferimento a più riprese ad un Vocabolario toscano , del quale
non rimane traccia documentaria. Da questa idea embrionale, rimasta probabilmente allo
stato di semplice aspirazione, nacque l’impresa lessicografica più innovativa e di maggior
impatto nei secoli a venire, contestata e discussa, messa in ridicolo o osannata, ma
strumento imprescindibile (anche simbolico, nel bene e nel male) per l’unificazione della
lingua che man mano da ‘fiorentina’ o ‘toscana’ si avviava a diventare (almeno nel
sentimento comune) nazionale. Il Vocabolario, sopra il fondamento di una omogeneità
idiomatica ormai sufficientemente acquisita, fornì uno scelto repertorio lessicale e
fraseologico di elementi autorevolmente definiti e contestualizzati, cioè inseriti nelle loro reti
associative più proprie. Era un notevole passo avanti verso il requisito primario di una lingua
comune: la certezza dell’uso, al cui conseguimento, trattandosi di lingua scritta e mancando
il vivo confronto della conversazione, erano indispensabili strumenti dotti e riflessi quali
grammatiche e vocabolari. Sulla base di quel progetto del Salviati (e fedeli alla sua
impostazione) gli Accademici della Crusca si impegnarono, dopo la sua morte, a redigere,
con un lavoro di circa un ventennio (1592-1612). il primo Vocabolario degli Accademici della
Crusca uscito a Venezia nel 1612.
La lingua in Italia nel Seicento fra volgare, latino, dialetto.
Le altre due date indicate da Migliorini (quella della fondazione dell’Accademia della Crusca
e quella della fondazione dell’Accademia dell’Arcadia) delimitano in maniera emblematica
rispettivamente il tentativo di creare (o, a seconda del punto di vista, di tutelare) una norma
ponendo un freno (almeno linguistico) alla ‘sregolatezza’ del Barocco, del quale l’Arcadia,
sulla fine del XVII secolo, si dimostrerà poi antagonista vincente nell’ambito più generale del
gusto e della letteratura. D’altra parte la nascita dell’Accademia della Crusca da un lato si
volge all’indietro per i rapporti di stretta continuità con eventi culturali fiorentini della metà del
XVI secolo, dall’altro proietta in avanti il proprio influsso su tutto il secolo XVII con le tre
edizioni del Vocabolario. Nell’Accademia Fiorentina in verità si fronteggiarono istanze
‘classicheggianti’ e filobembiane come quella di Benedetto Varchi (1503-1565) da una parte,
e pretese di superiorità del fiorentino (anche nella sua versione contemporanea, di lingua
parlata e mutevole nella diatopia e della diastratia) rispetto agli altri volgari, come quelle di
Giovan Battista Gelli (1498-1563) e Pier Francesco Giambullari (1495-1555), dall’altra. Se
tali posizioni si trovavano contrapposte riguardo al modello linguistico da proporre, esse
erano però concordi nella necessità di rivendicare a Firenze il proprio ruolo di sede
privilegiata di lingua (nativa o letterariamente educata), e sulla necessità di recuperare un
‘primato’ che, per quanto riguardava la redazione della grammatica del volgare era stato
sottratto a Firenze da i non fiorentini Fortunio e Bembo. A questo generale auspicio di
promozione del volgare, si era affiancato poco più tardi l’invito rivolto ancora dal Duca agli
accademici a redigere una grammatica; Salviati redasse le Regole della toscana favella ,
che, rimaste inedite in quanto tali confluirono poi nella sostanza negli Avvertimenti della
lingua sopra ’l Decamerone (1584-1586). Rivendicando il “primato fiorentino”, Salviati
espone la propria teoria, riprendendo dalle Prose del Bembo il modello arcaicizzante,
scostandosene però nel rivendicare non solo il valore di Dante, ma quello di tutte le scritture
trecentesche fiorentine di ogni genere e registro. Salviati si muove in un’ottica ‘naturalistica’,
che lo porta a sostenere ‘la sovranità popolare nell’uso linguistico, […] la priorità del parlato
nel funzionamento della lingua, […] la purezza linguistica come dato naturale del fiorentino’,
e quindi a riconoscere ‘implicitamente l’uso vivo e attuale come realtà importante alla
dinamica linguistica’ […]. L’ostilità al latinismo quattrocentesco, considerato artificiale e in
qualche modo inquinante l’originaria purezza della lingua, lo spinse a criticare Tasso e uno
stile in cui il ricorso ai cultismi è frequente e caratterizzante.
Illustrate il contesto storico e storico-linguistico che porta dall'Accademia degli Umidi
all'Accademia Fiorentina e infine all'Accademia della Crusca.
Tracciate infine un profilo di Lionardo Salviati e il suo contributo alla creazione del
Vocabolario degli Accademici della Crusca.
Fra il 1540 e il 1541, una Accademia di privati cittadini (l’Accademia degli Umidi, che
comprendeva spiriti indipendenti e politicamente non allineati alla riconquista del potere in
Toscana da parte della casa dei Medici) era stata trasformata in strumento ufficiale di
promozione linguistica e letteraria da parte del duca Cosimo I (l’Accademia Fiorentina). In
tale Accademia aveva avuto occasione di svilupparsi e meglio strutturarsi quel sentimento di
orgoglio municipale. Nell’Accademia Fiorentina in verità si fronteggiarono istanze
‘classicheggianti’ e filobembiane come quella di Benedetto Varchi (1503-1565) da una parte,
e pretese di superiorità del fiorentino (anche nella sua versione contemporanea, di lingua
parlata e mutevole nella diatopia e della diastratia) rispetto agli altri volgari, come quelle di
Giovan Battista Gelli (1498-1563) e Pier Francesco Giambullari (1495-1555), dall’altra. Se
tali posizioni si trovavano contrapposte riguardo al modello linguistico da proporre, esse
erano però concordi nella necessità di rivendicare a Firenze il proprio ruolo di sede
privilegiata di lingua (nativa o letterariamente educata), e sulla necessità di recuperare un
‘primato’ che, per quanto riguardava la redazione della grammatica del volgare era stato
sottratto a Firenze da i non fiorentini Fortunio e Bembo. Già nel diploma ducale del 22
febbraio 1542 (istitutivo dell’Accademia Fiorentina) il Duca Cosimo, ricordando come in
passato “i favori e gli aiuti” di tutta la famiglia Medici. A questo generale auspicio di
promozione del volgare, si era affiancato poco più tardi l’invito rivolto ancora dal Duca agli
accademici a redigere una grammatica; “Nel 1550 [...] l’Accademia fiorentina [...] aveva
affidato a una commissione di cinque membri (Varchi, Giambullari, Lenzoni, Torelli, Gelli)
l’incarico di stabilire le regole della lingua fiorentina”; ma, a parte iniziative private come la
grammatica del Giambullari (uscita nel 1552), il desiderio non fu attuato. Dell’Accademia
Fiorentina era entrato a far parte giovanissimo Lionardo Salviati (1540-1589).
L’attività del Salviati dei maturi anni Ottanta del XVI secolo (e in particolare tutta la polemica
antitassesca) non si svolgeva ormai più entro l’Accademia Fiorentina. Nel 1582 era stata
creata la Brigata dei Crusconi, “costituita da un gruppo di amici, che si riunivano per cenare
e conversare piacevolmente. I loro argomenti leggeri, bizzarri e inconsueti, erano definiti
‘cruscate’ e il loro ‘leggere in crusca’ significava ‘leggere in burla’ con uno spirito
volutamente antipedantesco”. Nella Brigata (di carattere privato) confluirono alcuni membri
dell’Accademia ufficiale, compreso il Salviati che, subito dopo aver aderito, “per alleggerire
in parte le cure noiose della vita” (ma forse anche per ragioni politiche, giacché dalla
seconda metà degli anni Settanta erano sorti motivi di contrasto con il Granduca Francesco
I, successore di Cosimo I) avanzò la proposta “di dar a questa nostra brigata nome
d’Accademia [...] e noi non più Crusconi ci facciamo chiamare ma Accademici della Crusca”.
Salviati aveva approfondito gli aspetti lessicali, oltre che fonetici e morfologici, del fiorentino
trecentesco, facendo anche riferimento a più riprese ad un Vocabolario toscano , del quale
non rimane traccia documentaria. Da questa idea embrionale, rimasta probabilmente allo
stato di semplice aspirazione, nacque l’impresa lessicografica più innovativa e di maggior
impatto nei secoli a venire, contestata e discussa, messa in ridicolo o osannata, ma
strumento imprescindibile (anche simbolico, nel bene e nel male) per l’unificazione della
lingua che man mano da ‘fiorentina’ o ‘toscana’ si avviava a diventare (almeno nel
sentimento comune) nazionale. Il Vocabolario, sopra il fondamento di una omogeneità
idiomatica ormai sufficientemente acquisita, fornì uno scelto repertorio lessicale e
fraseologico di elementi autorevolmente definiti e contestualizzati, cioè inseriti nelle loro reti
associative più proprie. Era un notevole passo avanti verso il requisito primario di una lingua
comune: la certezza dell’uso, al cui conseguimento, trattandosi di lingua scritta e mancando
il vivo confronto della conversazione, erano indispensabili strumenti dotti e riflessi quali
grammatiche e vocabolari. Sulla base di quel progetto del Salviati (e fedeli alla sua
impostazione) gli Accademici della Crusca si impegnarono, dopo la sua morte, a redigere,
con un lavoro di circa un ventennio (1592-1612). il primo Vocabolario degli Accademici della
Crusca uscito a Venezia nel 1612.
La Crusca fra adesioni e reazioni dal Seicento al Settecento
Il dizionario moderno, redatto dagli Accademici della Crusca, risulta il frutto di aggiustamenti
successivi che gli diedero forma definitiva solo nel XVI secolo, se non all’inizio del XVII [e
che] il dizionario potrebbe essere visto come uno dei risultati della regolamentazione delle
lingue nazionali, anzi l’espressione compiuta del raggiungimento del loro equilibrio
normativo. Con l’impresa del Vocabolario Firenze recuperava davvero un ’primato’, che non
poteva più essergli disconosciuto né da quanti aderivano al modello linguistico che lo
ispirava, sia da quanti in quel modello non si riconoscevano; come è dimostrato nei fatti dalla
rapida diffusione e smercio di quella prima edizione, che, di poco mutata, fu ristampata di lì a
un decennio, nel 1623. Paolo Beni ([1552 circa-1625], autore dell’ Anticrusca [1612] e de Il
Cavalcanti [1614]) e di Alessandro Tassoni [1565-1635]) con le loro critiche indussero gli
Accademici nella terza edizione (nel 1691) a rendere meno rigido il paradigma di autori
spogliati, che accoglieva ora, oltre agli autori del Trecento, anche le opere di scrittori del
Cinquecento e, fra queste, con particolare riguardo alle opere tecniche e scientifiche; e, a
ridimensionare la prospettiva arcaizzante originaria, il Vocabolario del 1691 segnalava come
V( oce ) A( ntiquata ) le parole uscite dall’uso, registrate non più per essere riusate, ma
quale documento per la lettura degli antichi scrittori.
La prosa di Daniello Bartoli e le sue posizioni linguistiche
Una posizione di misurata presa di distanze è anche quella che regola l’intervento di
Daniello Bartoli a proposito delle scelte linguistiche ne Il torto e ’l diritto del Non si può. Il
torto e ’l diritto consiste per lo più, in considerazioni né sistematiche né omogenee al loro
interno, legate però insieme dal tema dell’opportunità e liceità di dichiarare inammissibile o
meno (appunto il non si può del titolo) l’una o l’altra delle forme lessicali o fono-morfologiche
autorizzate dal Vocabolario della Crusca. La posizione del Bartoli non è di preconcetta o
totale e dunque generica avversione nei confronti del Vocabolario o del canone degli autori
trecenteschi stabilito dagli Accademici; piuttosto mette in guardia dai rischi di assolutizzare i
precetti linguistici che possono essere desunti da una scarsa o insufficiente documentazione
o informazione. Uno degli esempi trattati dal Bartoli ne Il torto e ’l diritto (riferito da Claudio
Marazzini nel volume volte citato: p. 185) è quello che riguarda il genere di carcere che il
Vocabolario registrava solamente nella forma maschile, mentre il Bartoli ricorda come il
femminile la carcere sia ben documentato proprio in scrittori trecenteschi spogliati dagli
Accademici (nel caso specifico nell’opera storiografica di Giovanni e Matteo Villani). La
precisazione intende sottolineare la variabilità di quel fiorentino trecentesco che,
immobilizzato nella sua funzione di modello, correva il rischio di essere appiattito (anche se
magari a scopo didattico): ne discende l’invito del Bartoli ad usare il divieto grammaticale
(appunto il n on si può ) con minor rigore, dato il rischio che di volta in volta ci si trovi nel
diritto o nel torto di farlo in maniera assoluta e rigida.

Daniello Bartoli: teoria e prassi linguistica.


Bartoli è rappresentante di se stesso e di un’epoca, più che rappresentante di una corrente
letteraria (quella barocca). Proprio per questo, forse, egli ha collezionato giudizi a dir poco
contrastanti se non addirittura diametralmente opposti, a seconda che sia stato assimilato o
meno al giudizio negativo che per secoli ha colpito il periodo barocco, o che invece ne sia
stato considerato rappresentante più o meno fedele nella rivalutazione a cui dalla metà del
Novecento si è assistito riguardo alla prosa e alla poesia del Seicento. Altre opere ci
permettono di tracciare, in maniera più ampia, la cultura e il genere di formazione ricevuta
dal Bartoli, a cui in momenti diversi si deve la scrittura di opere di carattere retorico, o
propriamente linguistico; sono della maturità quelle di carattere scientifico. Quando egli
critica ‘lo stile moderno concettoso’, non lo fa per avversione generalizzata ad un’arte
adorna di tutti i possibili fiori dell’ornato, bensì per l’immoderatezza con cui esso applica i
precetti di una retorica giudicata complessivamente assai preziosa. Una posizione di
prudente empirismo interviene là dove una teoria rigorosa non porterebbe probabilmente ad
alcun risultato, e la conclusione del discorso sta in una formula equilibrata. Rifiutare lo stile
asiano e quello laconico non significa dunque per lui, in un certo senso, proporne un terzo,
distinto nelle qualità dello stile e, ancor più, dell’invenzione retorica, ma arrivare ad una
posizione mediana fra i due. La posizione del Bartoli non è di preconcetta o totale e dunque
generica avversione nei confronti del Vocabolario o del canone degli autori trecenteschi
stabilito dagli Accademici; piuttosto mette in guardia dai rischi di assolutizzare i precetti
linguistici che possono essere desunti da una scarsa o insufficiente documentazione o
informazione.

LEZIONE 48 -
Francesco Algarotti, l'Accademia della Crusca e la Francia
Francesco Algarotti riconosce come la condizione socio-politica di un paese ne influenzino il
panorama culturale ed imputa alla ‘picciolezza e divisione degli stati’ la decadenza letteraria
italiana. Lo stato presente della lingua italiana, così come, viceversa, il corrispondente stato
del francese, collimano in maniera speculare con lo stato sociale in cui vivono e pensano i
parlanti. Egli attribuisce le caratteristiche del francese a lui contemporaneo all’efficacia della
riforma attuata già nel Seicento da un organo ufficiale e centrale, l’Académie française. Ben
diverso il contesto in cui era nata la Crusca, organo in origine assolutamente privato e che
dunque né aveva espresso la volontà di un centro politico e culturale paragonabile alla
Parigi della monarchia francese, né aveva potuto prescindere dal ricchissimo passato
letterario. Altra fondamentale differenza era nell’atteggiamento: da un lato l’Accademia
italiana guarda all’indietro e svolge un ruolo di “conserva”, di tesaurizzazione della tradizione
linguistica, dall’altro l’Académie che guarda al futuro avendo come obiettivo di riformar la
lingua “a benefizio degli scrittori che doveano venire dipoi”.

Quali sono i piani linguistici più permeabili ai francesismi introdotti nel Settecento?
A partire dagli anni Trenta del Settecento, dunque, si vengono man mano stabilendo su
territorio italiano dinastie francofone o francofile. Già nel secondo Seicento si era andata
sempre più concretizzando una apertura internazionale (cosmopolita) dell’Italia nei confronti
della cultura europea con particolare riguardo alle letterature francese, inglese e, seppure in
minor misura, tedesca. Il “frazionamento politico-culturale” da sempre lamentato per l’Italia e
ricordato sopra per l’Italia del Settecento risulta agli uomini di quel secolo e del precedente
ancora più grave e manifesto se posto in confronto alla situazione delle grandi
organizzazioni statali inglese e soprattutto francese. La “gallomania” si esercitò tanto a livello
letterario e linguistico, quanto a livello del costume, della moda, dei comportamenti. Il
fenomeno gallicizzante dunque che, a partire dalla seconda metà del Seicento, interesserà
con sempre maggiore forza l’intero secolo XVIII, non è esclusivamente linguistico, né
linguistico-letterario. È infatti impossibile decidere se, a determinare la scelta del francese
come lingua della conversazione delle classi colte per esempio a Milano (dove si parlava
francese anche in contesti familiari, come avviene nella famiglia Verri nell’avanzato XVIII
secolo), sia stata la penetrazione della cultura letteraria della Francia (il teatro tragico del
Seicento di Jean Racine [1639-1699] e Pierre Corneille [1606-1684] o il teatro comico di
Molière [1622-1673] o, più tardi, le idee dei philosophes illuministi), o se, viceversa, il fatto
che il francese sia divenuto una sorta di lingua franca dell’Europa abbia facilitato la fortuna e
la diffusione della letteratura di quel paese.

Illustrate i temi e le posizioni della querelle des anciens et des modernes e di quella
correlata fra Dominique Bouhours e Giovan Gioseffo Orsi.
Nel 1688 Fontanelle interviene con la cosiddetta querelle des anciens et des modernes, una
polemica relativa al rapporto gerarchico da stabilirsi o da riconoscere alla tradizione antica
rispetto alla cultura e alla letteratura moderne. Fontanelle sostiene l'uguaglianza di natura tra
antichi e moderni. Il tempo determina, poi, la superiorità dei moderni nella scienza e nella
filosofia, mentre riguardo alla letteratura e alla poesia egli ammette che gli antichi siano
superiori o al massimo eguagliati. la polemica fra antichi e moderni, dominò anche nel
Settecento, Nella contrapposizione fra vecchio e nuovo, fra anciens e modernes si celava
anche la contrapposizione fra italiano e francese. Nel 1671, e poi nel 1687 Dominique
Bouhours aveva espresso giudizi poco lusinghieri sulla la bizzarria e l'artificiosità della prosa
e poesia barocca accusata di eccessiva innaturalezza sia a causa della scrittura per
immagini metaforiche sia, e soprattutto, a causa del ‘disordine’ e artificiosità sintattica,
contrapponendo all’ ordine inverso l’ ordine naturale proprio del francese. A quelle critiche, in
difesa della tradizione letteraria italiana rispose Giovan Gioseffo Felice Orsi, che distinse le
lingue in propense alla costruzione inversa , portate all’espressione dell’immaginazione e
propense alla costruzione diretta proprie del francese.

Il genio delle lingue: sintassi lineare e ordine inverso nel Settecento


La riflessione metalinguistica settecentesca si era concentrata sulle categoria delle lingue
dunque sul loro genio e sulle loro caratteristiche interne di tipo sintattico o stilistico. Questo
interesse aveva avuto origine dalla polemica Orsi - Bouohurs.
Dominique Bouhours accusava la prosa barocca italiana di eccessiva innaturalezza a causa
del ‘disordine’ e artificiosità sintattica, contrapponendo all’ordine inverso l’ ordine naturale
proprio del francese. A quelle critiche, in difesa della tradizione letteraria italiana rispose
Giovan Gioseffo Felice Orsi, che distinse le lingue in propense alla costruzione inversa,
portate all’espressione dell’immaginazione e propense alla costruzione diretta proprie del
francese. Questa riflessione condurrà ad una comparazione dei caratteri della lingua antica
e moderna e all’elaborazione di un lessico privo di elementi ideologici. Scomparirà cosi la
definizione di ordine naturale data da Bouohurus all’ordine diretto, a seguito della
rivalutazione della fantasia delle culture antiche che conduce Condillac a definire
naturale proprio l’ordine inverso contrapposto alla sintassi lineare della cultura moderna.
Illustrate la posizione di Francesco Algarotti nei confronti della situazione linguistica
italiana a lui contemporanea e nei confronti dell'Accademia della Crusca in
particolare.
Francesco Algarotti riconosce come le condizioni socio-politiche di un paese ne influenzi il
panorama culturale ed imputa alla ‘picciolezza e divisione degli stati’ la decadenza letteraria
italiana. Lo stato presente della lingua italiana, così come, viceversa, il corrispondente stato
del francese, collimano in maniera speculare con lo stato sociale in cui vivono e pensano i
parlanti. Egli attribuisce le caratteristiche del francese a lui contemporaneo all’efficacia della
riforma attuata già nel Seicento da un organo ufficiale e centrale, l’Académie française. Ben
diverso il contesto in cui era nata la Crusca, organo in origine assolutamente privato e che
dunque né aveva espresso la volontà di un centro politico e culturale paragonabile alla
Parigi della monarchia francese, né aveva potuto prescindere dal ricchissimo passato
letterario. Altra fondamentale differenza era nell’atteggiamento: da un lato l’Accademia
italiana guarda all’indietro e svolge un ruolo di “conserva”, di tesaurizzazione della tradizione
linguistica, dall’altro l’Académie che guarda al futuro avendo come obiettivo di riformar la
lingua “a benefizio degli scrittori che doveano venire dipoi”.

Le polemiche linguistiche del Settecento


Nel 1688 Fontenelle interviene (con la Digression sur les anciens et les modernes ) nella
cosiddetta querelle des anciens et des modernes , una polemica (già avviata alla fine del
secolo precedente) relativa al rapporto gerarchico da stabilirsi o da riconoscere alla
tradizione antica rispetto alla cultura e alla letteratura moderne. Fontenelle si fa assertore
dell’uguaglianza di natura fra antichi e moderni è il tempo e il sovrapporsi delle epoche che
però comporta l’incremento continuo del sapere, il che determina, a dire di Fontenelle, la
superiorità dei moderni nella scienza e nella filosofia cosicché l’ingegno dell’uomo moderno
“è, per così dire, composto da tutti gli ingegni dei secoli precedenti”. Fontenelle afferma
dunque la superiorità dei moderni per quanto riguarda la scienza e la filosofia; riguardo alla
letteratura e alla poesia egli ammette invece che gli antichi possano essere superiori o al
massimo solo eguagliati. La polemica fra antichi e moderni, innescata alla fine del XVI
secolo e giunta all’acme alla fine del XVII, si concluse poi soltanto nel XVIII secolo. La
querelle des anciens et des modernes dunque in Italia assume connotati e sapore
particolari; non si tratta solo di decidere se la cultura antica sia migliore della moderna o se
nel XVII secolo, i moderni superino gli antichi nonostante la loro pochezza perché “nani sulle
spalle dei giganti”; in Italia lo scontro è fra cultura attuale (ma vecchia e invecchiata, tradiz
ionalmente ancorata ai miti di un classicismo impaludato) e cultura nuova (perché moderna,
aggiornata, disponibile alle novità e alla messa in discussione di schemi precostituiti). Non è
dunque un caso che negli stessi anni in cui, principalmente in Francia, si discute di antichi e
di moderni, una nuova polemica si innescasse fra letterati francesi e letterati italiani. Nel
1671, e poi nel 1687 Dominique Bouhours (1628-1702) aveva espresso giudizi ben poco
lusinghieri sulla letteratura italiana che in realtà intendevano colpire la bizzaria e l’artificiosità
di certa prosa e poesia barocca. A quelle critiche, in difesa della tradizione letteraria italiana
rispose Giovan Gioseffo Felice Orsi; in appoggio all’Orsi scrissero lettere apologetiche, fra
gli altri, Ludovico Antonio Muratori, Eustachio Manfredi e Anton Maria Salvini, lettere poi
stampate a Bologna nel 1707. Nella contrapposizione fra vecchio e nuovo, fra anciens e
modernes infatti si celava (o almeno così si intese da parte dei contemporanei) anche la
contrapposizione fra italiano e francese. L’italiano infatti rappresentava, suo malgrado, agli
occhi della punta più avanzata della cultura settecentesca, il vecchio, il contorto, l’artificiale,
il formale, il retoricamente atteggiato perché si trattava, per l’italiano, di una lingua per
necessità misurata solo sulla letteratura, giacché l’italiano della civile conversazione, la
lingua comune dell’oralità ad un livello diafasico alto o medio-alto non esisteva, agli affari
pratici essendo deputato il dialetto. Viceversa il francese è il nuovo, è lo strumento linguistico
svelto e vivace che tien dietro

LEZIONE 49 - Alessandro Verri milanese e romano.


La posizione di Alessandro Verri milanese riesce nei fatti a rompere i lacci che la tradizione
aveva rappresentato, per adottarne passivamente un’altra. Il francese lingua della
conversazione è per il Verri e per i suoi amici non una moda ma uno strumento adatto alla
circolazione delle idee; quanto questo sia vero lo si può toccare con mano nella
rifunzionalizzazione dello style coupé alla forma stessa della Rinunzia, organizzata e
frammentata in capitoletti che parafrasano la suddivisione in articoli e commi di una legge.
Il trasferimento di lì a qualche anno di Alessandro Verri da Milano alla Roma papalina, dalla
città degli uffici e dei commerci alla città delle rovine e delle testimonianze storiche,
corrisponderà ad un cambio di posizione ideologica ed estetica in senso archeologico se
non addirittura reazionario; e il cambio di posizionamento culturale porterà con sé il ritorno
della prosa verriana alla tradizione: ispirata ai miti della Grecia e della Roma antiche, la
prosa dei romanzi di Alessandro Verri recupererà nel lessico e nella sintassi la tradizione
italiana antica. E di lì a poco, il romanticismo italiano si intersecherà con il neoclassicismo
perché il sentimento e la passione si sostituiscano alla razionalità settecentesca.

LEZIONE 51 - Illustrate un argomento a vostra scelta fra quelli studiati nel volume di
Roberta Cella o, a seconda dell'anno di corso, nel volume di Francesco Bruni
Bruni sostiene nel capitolo 10 di l’italiano letterario che la diffusione dell’italiano in Europa sia
dovuto all’inventiva e alla vivacità culturale della lingua. L’italiano si afferma infatti poiché
lingua di cultura. Il suo sviluppo culturale è dovuto all’iniziativa di gruppi o singoli, sulla base
di idee esportabili come l’umanesimo e il classicismo. Il Rinascimento italiano ha avuto un
ruolo determinante nel diffondere l’alta considerazione per la tradizione latina e greca,
insegnandola alla cultura europea. Recenti studi hanno poi dimostrato come in alcuni luoghi
del Mediterraneo e in oriente l’italiano abbia avuto la funzione di lingua internazionale per
trattati di pace e giornali, che fosse la lingua più usata per testi di carattere commerciale e
politico presso i consolati francesi ed inglesi di Tunisi e Tripoli e che fosse conosciuta nei
Balcani da greci e albanesi.
Illustrate dal punto di vista linguistico, stilistico e ideologico il seguente brano tratto
dalla Rinunzia avanti il notaio di Alessandro Verri:
"Cum sit, che gli Autori del Caffè siano estremamente portati a preferire le idee alle
parole, ed essendo inimicissimi d'ogni laccio ingiusto che imporre si voglia
all'onesta libertà de' loro pensieri, e della ragion loro, perciò sono venuti in parere di
fare nelle forme solenne rinunzia alla purezza della Toscana favella, e ciò per
le seguenti ragioni".
Commentate dal punto di vista grafico, fono-morfologico e sintattico il seguente
brano della Rinunzia di Alessandro Verri:
"6. Porteremo questa nostra indipendente libertà sulle squallide pianure del dispotico
Regno Ortografico e conformeremo le sue leggi alla ragione, dove ci parrà
che sia inutile il replicare le consonanti o l'accentar le vocali, e tutte quelle regole che
il capriccioso Pedantismo ha introdotte, e consagrate, noi non le rispetteremo
in modo alcuno. In oltre considerando noi che le cose utili a sapersi son molte, e che
la vita è breve, abbiamo consagrato il prezioso tempo all'acquisto delle idee,
ponendo nel numero delle secondarie cognizioni la pura favella, del che siamo tanto
lontani d'arrossirne, che ne facciamo amende honorable avanti a tutti gli
amatori de' riboboli nojosissimi dell'infinitamente nojoso Malmantile, i quali sparsi
quà e là come giojelli nelle Lombarde cicalate, sono proprio il grottesco delle
belle Lettere".
La libertà rivendicata significa dunque, prima di tutto liberazione da un’ortografia (6,1-4)
fissate sulla base del fiorentino del Trecento e, per volontà dei Grammatici. verifichiamo che
la liberazione dal laccio cruscante è rappresentata da un’assenza, dalla mancata adesione
cioè a quei fiorentinismi, esibiti dai puristi di stretta osservanza. Si veda del resto come
alcuni sintagmi fissi siano segnalati come citazione mediante il corsivo: pura favella (6,6);
È ‘citazionale’ infine l’uso di ribobolo (6,7), nelle due prime edizioni della Crusca registrato
con rinvio ad enigma, nella III e IV Crusca glossato come ‘Sorta di dire breve, e in burla’).
Usi grafici divergenti dalla ortografia moderna
1) uso di “j” che ricorre in nojosissimi 6, 7; nojoso 6, 8; giojelli 6, 8; relativa libertà nell’uso
delle maiuscole:
A) la maiuscola è usata a) per aggettivi denotanti l’origine geografica (Lombarde 6,8).
Il quadro fono-morfologico e ormai quello dell’italiano moderno Anche l’adozione di apocopi
ormai appartenenti alla lingua letteraria media, indica un registro linguistico sostenuto, ma
non particolarmente connotato in tal senso. Si vedano: -- dopo n : (che però è un sintagma
fisso); le cose utili a sapersi son molte 6,4-5; dopo r : l’accenta r le vocali 6,3;
Il francese è esibito come lingua delle buone maniere e della socievolezza nella ‘citazione’
della formula “amende honorable” a 6,7, con provocatoria ostentazione proprio nel momento
in cui si chiede formale perdono ( amende ) di una cosa di cui Verri dichiara in realtà di non
vergognarsi (6,6- 7: “del che siamo tanto lontani d’arrossirne”).

LEZIONE 53 - Illustrate la situazione dell'insegnamento scolastico che il nuovo stato


unitario si trovò a riformare, la natura e i contenuti del sistema scolastico unitario, i
problemi linguistici affrontati.
Dopo la proclamazione del Regno d'Italia, si fece necessaria l'esigenza di impostare una
scuola unitaria valida nei programmi e negli obiettivi. L’intento risulto arduo anche a Italia a
causa della frammentazione nel parlato. Il numero degli italofoni al momento della
unificazione dell’Italia era appena del 9,2% degli italiani, gli altri parlavano i dialetti. Non
sempre all’interno della scuola il maestro era in grado di gestire in piena consapevolezza
dialetto e lingua, o di insegnarne l’uso, o a volte non era in grado di distinguere fra le due. La
legge Casati aveva sancito il principio della gratuità e dell’obbligatorietà dell’istruzione
primaria dai sei agli otto anni e l’obbligo per i comuni di impartirla a proprie spese, ma non
aveva previsto sanzioni per i genitori e per i comuni che avessero disatteso all’obbligo, né il
rilascio di un diploma che attestasse le competenze di base acquisite durante il biennio. I
comuni più piccoli, privi di risorse finanziarie adeguate, spesso non furono in grado di
aprire e di mantenere le scuole. L’evasione scolastica restò altissima, soprattutto nelle zone
rurali e montane, dove i bambini aiutavano le famiglie nei lavori dei campi. Alla formazione
dei maestri provvedevano le Scuole Normali, della durata di soli tre anni, separate per
sesso: La preparazione dei maestri restava pertanto molto approssimativa. La legge
Coppino, varata il 15 luglio 1877 introdusse alcune novità rispetto alla legge Casati:
scuola elementare unificata a carattere quinquennale con sanzioni contro i genitori
disattendevano all’obbligo.

Illustrate le differenti posizioni linguistiche che si fronteggiano nell'Ottocento.


Il primo Ottocento, sostiene Luca Serrani, è un momento di frattura con l'ideologia
settecentesca. All'Illuminismo succede, con la riscoperta delle radici nazionali promosse dal
romanticismo, la valorizzazione del patrimonio linguistico tradizionale. alla lingua colta e
letteraria, si affianca l'uso popolare ed ingenuo della lingua, depositato nelle scritture
trecentesche. Le tre le correnti caratteristici dell'Ottocento sono:
- purismo, che proponeva un ritorno all’usi della lingua italiana dll’aureo Trecento.
-classicismo, contrario anche egli ai forestierismi e ai neologismi, proponeva di imitare la
naturalezza degli antichi evitando registri bassi e comici.
- neotoscanesimo, il quale guardava all’uso del toscano vivo. non necessariamente colto.

La legislazione scolastica del Regno d'Italia.


La proclamazione del Regno d’Italia comportò in maniera legislatica scolastica l’adozione del
decreto emanato nel 1859 dal Regno di Sardegna, con il nome Legge Casati, che
riorganizzava il sistema scolastico con l’introduzione di ordini e gradi di istruzione.
La scuola elementare organizzata in due bienni, di cui il primo obbligatorio e la scuola media
separata in due indirizzi classico e tecnico-professionale. L’istruzione era gratuita, a carico
del comune, che spesso non riuscivano ad affrontare le spese che questa comportava.
Nonostante questa legge, molti bambini aiutavano la famiglia con il lavoro e quindi non
frequentavano la scuola. In tal senso fu introdotta la Legge Coppino, che rese obbligatoria la
frequenza alle classi 1, 2 e 3 elementare, pena una sanzione per i genitori che non la
rispettavano.

LEZIONE 54 - L'Ottocento: l'Unificazione e la scuola


Dopo la proclamazione del Regno d'Italia, si fece necessaria l'esigenza di impostare una
scuola unitaria valida nei programmi e negli obiettivi. L’intento risultò arduo anche a causa
della frammentazione nel parlato: solo il del 9,2% degli italiani parlavo gli italiani, gli altri
parlavano i dialetti. Non sempre all’interno della scuola il maestro era in grado di gestire in
piena consapevolezza dialetto e lingua, o di insegnarne l’uso, o a volte non era in grado di
distinguere fra le due. La legge Casati aveva sancito il principio della gratuità e
dell’obbligatorietà dell’istruzione primaria dai sei agli otto anni e l’obbligo per i comuni di
impartirla a proprie spese, ma non aveva previsto sanzioni per i genitori e per i comuni che
avessero disatteso all’obbligo, né il rilascio di un diploma che attestasse le competenze di
base acquisite durante il biennio. I comuni più piccoli, privi di risorse finanziarie adeguate,
spesso non furono in grado di aprire e di mantenere le scuole. L’evasione scolastica restò
altissima, soprattutto nelle zone rurali e montane, dove i bambini aiutavano le famiglie nei
lavori dei campi. Alla formazione dei maestri provvedevano le Scuole Normali, della durata
di soli tre anni, separate per sesso. La preparazione dei maestri restava pertanto molto
approssimativa. La legge Coppino, varata il 15 luglio 1877 introdusse alcune novità rispetto
alla legge Casati: scuola elementare unificata a carattere quinquennale con sanzioni contro i
genitori disattendevano all’obbligo, per contrastare l’analfabetismo. Infatti, se nel 1861 il 75%
degli uomini e l’84% delle donne era analfabeta, nel 1911 questo numero scese, per
entrambi i sessi, al 40%.

Teorie e modelli linguistici nel secondo Ottocento: classicismo, purismo,


neo-toscanismo.
Il classicismo per teoria e modello linguistico, propose di imitare nel linguaggio la
naturalezza degli antichi e di evitare i registri bassi e comici, operare una selezione
all’interno del repertorio trecentesco, eliminando forestierismi e neologismi. Massimo
esponente del classicismo fu Vincenzo Monti, il quale valorizò l’apporto non fiorentino e non
toscano alla lingua italiana. Il purismo abbracciò l’idea di una lingua pura alle origini della
sua evoluzione: massimo esponente il veronese Antonio Cesari (1760 - 1828) che pubblicò
la Crusca veronese. Antonio Cesari fu favorevole all’adozione e all’insegnamento della
lingua del Trecento, dal quale però dovevano essere estromesse sia le novità del fiorentino
dei secoli successivi, sia i forestierismi, per tutelare la purezza linguistica del secolo aureo. Il
neotoscanismo ebbe come massimo esponente Niccolò Tommaseo (1802-1874) che
espose la sua teoria nel “Dizionario dei sinonimi” e nella “Nuova proposta di correzioni e
giunte al Dizionario italiano: l’uso del toscano vivo come norma linguistica”.

L'Ottocento: le condizioni linguistiche dell'Italia pre-unitaria


Il numero degli italofoni al momento dell’unificazione dell’Italia era appena del 9,2%. Il
restante 90,8% parlava il dialetto. Le condizioni linguistiche per il cittadino erano legate
all’ambiente circoscritto al piccolo spazio regionale in cui viveva. La scolarizzazione scarsa e
l’analfabetismo marcato influivano notevolmente e comportavano una dicotomia tra dialetto
e lingua che corrispondeva ad una dicotomia tra parlato e scritto. Il parlato corrispondeva al
dialetto locale, mentre lo scritto alla lingua nazionale. La dicotomia dialetto/italiano è
evidente in alcune opere letterarie ad esempio in “Confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo
si segnala la dicotomia tra veneziano e italiano. E’ presente ancora il cosmopolitismo che la
prima metà del XIX secolo eredita dal XVIII ossia l’influsso delle lingue straniere, in
particolare il francese e, in subordine, l’inglese.

LEZIONE 55 - Alessandro Manzoni e la lingua: dal primo abbozzo del romanzo, alla
prima edizione dei Promessi Sposi, all'edizione definitiva.
Alessandro Manzoni individuò il problema dell’ibridismo nella stesura del Fermo e Lucia che
a suo avviso era un composto indigesto di frasi lombarde, toscane, francesi e latine. La
prima stesura del romanzo comportò una pronta revisione per risolvere il problema messo a
fuoco e quindi Le soluzioni per sfuggire al lombardismo e al francesismo le trova nella
lessicografia settecentesca di ascendenza cruscante o purista o dagli autori cinquecenteschi
comici e popolari. Mentre sta ultimando la revisione del romanzo I Promessi Sposi uscita a
dispense fin dal 1825 progetta un viaggio a Firenze che risulterà di forte impatto per il
contatto con il fiorentino vivo, parlato. La prima revisione dell’opera fu dunque il passaggio
dal modello linguistico del toscano letterario e libresco al modello linguistico fiorentino
colloquiale vivo ma non plebeo ascoltato da amici e conoscenti proprio nel soggiorno
fiorentino. Ne sarebbe uscita una seconda e definitiva edizione che fu contrastata e
censurata a causa della coraggiosa scelta linguistica.
Graziadio Isaia Ascoli e il Manzoni della Relazione.
Graziadio Isaia Ascoli linguista di professione guarda con occhi da scienziato al problema
nei modi con cui creare e diffondere una lingua nazionale: In Italia secondo Ascoli non c’è un
centro culturale e politico da cui può scaturire un linguaggio nazionale e Firenze non lo ha
mai rappresentato. Una soluzione linguistica letteraria non serve, occorre che in Italia si
formi quella società civile che solo la scuola e l’istruzione può creare, fatta l’Italia restano da
fare gli italiani e fatti gli italiani ne discenderà la loro lingua. Ascoli contraddisse le proposte
per una lingua comune espresse dal Manzoni nella Relazione presentata alla Commissione
nominata dal ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio nel 1868 ovvero la
compilazione di un vocabolario basato sull’uso del linguaggio vivo fiorentino, preferenza
accordata ad insegnanti toscani o educati in Toscana, sussidi statali ai comuni che si
dotassero di maestri nativi toscani; conferenze di maestri toscani nelle scuole delle varie
province; borse di studio ad allievi di scuole magistrali che consentissero di trascorrere un
anno scolastico a Firenze, per fare pratica in una delle migliori scuole primarie.

Alessandro Manzoni e la Lettera a Giacinto Carena.


Alessandro Manzoni scrisse una lettera a Giacinto Carena in occasione dell’uscita della sua
opera “Vocabolario domestico”. Lettera importante perché espresse i due capisaldi
fondamentali del suo credo linguistico:
Per lui il fiorentino è lingua italiana e il rimprovero quindi all’autore piemontese di non aver
esclusivamente raccolto il suo Vocabolario a Firenze ma anche in altre città toscane in
quanto la lingua italiana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è
in Parigi. In secondo luogo, sostiene Manzoni, la pluralità di termini per indicare una stessa
cosa è una disgrazia e non una ricchezza. Manzoni contesta al Carena di sostituire l’unità
del fiorentino che il Manzoni aveva da poco proposto come modello di lingua piuttosto che
alla molteplicità di termini. La debolezza pratica della soluzione manzoniana si rifletterà nei
metodi indicati nella relazione ministeriale del 1868, per patrocinare la diffusione dell’italiano
lingua comune. Fra le sue proposte la compilazione di un vocabolario fiorentino, che però
sarà più utile a un letterato che non a un contadino, ma Manzoni esprime
inconsapevolmente la sua posizione di letterato della lingua, come strumento di espressione
d’arte, mostrando in tal senso di non avere piena consapevolezza dei meccanismi
sociolinguistici delle lingue.

Manzoni romanziere e Manzoni linguista (le proposte avanzate da Manzoni per


l'unificazione linguistica nella Relazione per la commissione ministeriale).
Nell' 800, ai tempi del Nuovo Regno d'Italia, la questione della lingua era ancora una
questione da risolvere, per questo emerge la figura di Alessandro Manzoni. Egli oltre ai vari
scritti come Fermo e Lucia, nel 1868, scrisse su commissione una relazione: “Dell’unità della
lingua e dei mezzi di diffonderla”, dove spiegava il perchè il fiorentino dell'uso colto dovesse
divenire modello per tutti, parlanti e scrittori. Infatti si pensava che per concludere il processo
di unificazione dell’Italia, era necessario avere una lingua riconosciuta da tutti. Per cui
Manzoni riteneva opportuno proporre una lingua già sperimentata, esistente ed omogenea
piuttosto che pensare a un nuovo modello linguistico che avrebbe rallentato ulteriormente il
processo.
Graziadio Isaia Ascoli e il problema della lingua nazionale.
Graziadio Isaia Ascoli poteva guardare al problema dei modi con cui diffondere o ‘creare’
una lingua nazionale solo con gli occhi dello scienziato, non con quelli di un letterato come
Alessandro Manzoni. A distanza di qualche anno dalla proposta manzoniana consegnata
alla Relazione, Graziadio Isaia Ascoli fondava nel 1873 l’“Archivio glottologico italiano”, una
rivista specialistica di linguistica il cui primo numero era introdotto da un Proemio, in cui il
fondatore prendeva posizione sulla questione dell’italiano e sulla proposta avanzata da
Manzoni. Ascoli sostiene in Italia non c’è stato come in Francia, un centro culturale e Firenze
non lo ha rappresentato; in Italia non c’è stato un evento tale da determinare l’unità
linguistica .Insomma la proposta di far assurgere Firenze e il fiorentino a lingua comune
costringe con leggi e dettami inefficaci quel che altrove è avvenuto sulla base di
un’evoluzione che prima che linguistica è stata politica e soprattutto culturale. La
ragione della divergenza fra la situazione linguistica italiana da una parte e quelle francese e
tedesca dall’altra consiste nel fatto che agli “uomini grandi” non ha fatto da contorno una
società civile, ampia e articolata, che consentisse la diffusione della cultura, rimasta isolata.
Bisognerà che anche in Italia si formi quella società civile che solo la scuola e l’istruzione
può creare.

LEZIONE 56 - Indicate quali furono i mezzi principali per una crescita


dell'alfabetizzazione nel nuovo stato unitario e quali categorie di lettori furono
coinvolte nella nascita della nuova stampa periodica.
L’educazione del popolo esigeva innanzitutto la creazione di una ideologia popolare:
moderazione, rispettabilità, equilibrio tra l’aspirazione a migliorarsi e la capacità di
accontentarsi di ciò che si ha. Questi modelli, in ogni caso, passarono attraverso una
copiosa produzione di giornali, opuscoli divulgativi, testi educativi, che divenne, in seguito,
editoria specificamente scolastica. Ciò pose le condizioni per il potenziamento del mercato
dei manuali destinati soprattutto alle ultime classi elementari. Solo più tardi il libro di lettura
sembra perdere la funzione di ammaestramento morale, in quanto gli si chiede di avere
valore artistico e di formare il gusto estetico. Nel XIX secolo assistiamo poi all’incremento
delle nuove testate giornalistiche e alla diversificazione dell’utenza: dal giornale della classe
colta al giornale politico all’almanacco rivolto ai singoli gruppi di lavoratori. La stessa stampa
periodica contri poi all’alfabetizzazione tramite la diffusione di notizie e nozioni tramite la
pratica della lettura condivisa e alla diffusione della letteratura di massa e i romanzi
d’appendice.

LEZIONE 57 - Tracciate per sommi capi l'evoluzione del genere romanzo in Italia dal
Seicento all'Ottocento e collegate tale genere alla problematica linguistica
dell'Unificazione politica.
Il romanzo seicentesco e primo-settecentesco aveva assunto le caratteristiche di un prodotto
di massa venendo ad occupare i margini della letteratura. Fra la fine del Settecento e gli inizi
dell’Ottocento però in Italia si erano avuti alcuni tentivi di “nobilitare” il genere della
narrazione lunga di tupo romanzesco: tentativi molto diversi per forme e caratteristiche, ma
significativi in quanto esperimenti di collocazione del romanzo nella letteratura italia. E’ con il
terzo decennio dell’Ottocento che l’ostracismo decretato dal classicismo italiano alla nuova
forma, venne prima combattuto e poi vinto. Nel 1827 si ha la data del romanzo italiano
moderno e a questo stesso anno si ha la prima edizione dei Promessi Sposi. Il successo dei
romanzi di Walter Scott si unì al successo interno dei romanzi dove il “vero”, l’ambientazione
storica accoglie e si mescola al “verisimile”, alla storia dei personaggi, alle loro vicende, ai
loro affetti, una forma di “storia finta” che lascia spazio alla “umana fantasia”.
La diffusione dei giornali e dei romanzi d’appendice, scritti con un lessico moderno,
diventano di facile lettura e favorendo l’aumento dell’alfabetizzazione anche per gli strati
sociali più bassi.
L'Ottocento: la nascita del romanzo
Nell’Ottocento si afferma il romanzo come genere letterario. Alessandro Verri, alla fine del
Settecento, diedeo alle stampe due romanzi: “Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene” e
“Notti romane del sepolcro degli Scipioni” e così i due romanzi costituiscono l’atto di
rifondazione nobilitante del genere in Italia con riferimenti al mondo classico, alle rovine della
città antica. Ugo Foscolo e Vincenzo Cuoco, subito dopo diedero vita al romano epistolare
con Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis e Platone in Italia. Il tentativo di Verri, Foscolo e Cuoco
di nobilitare il genere romanzo seppur da apprezzare, non riuscì in modo incisivo nello scopo
di abbattere le resistenze dei letterati italiani posizionai sui modelli classicistici. Il terzo
decennio dell’Ottocento fu decisivo in tal senso con il movimento romantico a vincere le
resistenze del classicismo italiano. Nel 1827 viene pubblicata la prima edizione de I
Promessi Sposi di Manzoni e molti autori contribuirono alla diffusione di questo genere. In
più il romanzo, avendo un lessico più comprensibile, rese le pubblicazione di facile
consultazione e quindi di largo consumo.

LEZIONE 59 - Caratteristiche linguistiche della scrittura giovanile di Giovanni Verga.


La lingua del giovane Verga si presenta come una lingua composita per necessità. Nella
lettera allo zio sono infatti presenti elementi arcaici, ma anche appartenenti all’uso del
toscanismo vivo e forestierismi. L’eclettismo della lingua del Verga sembrerebbe essere
dovuto, o comunque è coerente con i metodi d’insegnamento di Antonio Abbate, presso il
quale Verga stava apprendendo l’italiano. Il registro formale con cui egli esprime deferenza
nei confronti dello zio si colloca entro la tradizione scritta dell’italiano. Normali sono però le
interferenze tra latino e dialetto. Gli elementi di quest’ultimo sforano nella lingua di prestigio,
ovvero lo scritto, appresa a scuola.

Illustrate la lingua di Giovanni Verga nella letterina trascritta qui sotto:


"Caro Sign.r Zio, | Ieri abbiamo ricevuto il suo gratissimo foglio nel quale avemmo
rilevato l'amore che V.E. nutre per noi; da canto mio La ringrazio della
premura che V.E. si piglia per lo studio nel quale dobbiamo fondare i nostri pensieri
per la nostra riuscita. | Abbiamo inteso che V.E. verrà fra poco in questa, e
desideriamo sapere il giorno della di Lei venuta onde adempiere il nostro dovere
venendoLa ad incontrare. | Intanto desidererei che con la venuta di V.E. porterà
qualche libro di storia per divertirmi, essendo quasi in fine della Storia romana di
Rollin che mi ha favorito questo mio Sig. Zio Don Salvadore. | Io studio la
Lingua Latina, ed in due mesi che ho dimorato in questa incomincio a spiegare tale
Lingua. | Le baciamo le mani come pure alle Sign.r Zie alle quale non scrivo
per farmi le cosi della Scuola, non che alla Zia D.nna Francesca, mi dico Suo nipote
da figlio | Giovan Carmelo Verga"
Nella lettera allo zio sono presenti elementi arcaici, ma anche appartenenti all’uso del
toscanismo vivo e forestierismi. Il registro formale con cui egli esprime deferenza nei
confronti dello zio si colloca entro la tradizione scritta dell’italiano. L’uso della maiuscola per
il tono referente da figlio e nipote educato nei riguardi dello zio, il pluralis modestiae, la prima
persona nei capoversi centrali riguardanti note biografiche.
Non traspare il dialetto siciliano eccetto nella riga finale l’utilizzo di “le cosi” in luogo di le
cose e alle quale per le quali rivelano errori del vocalismo atono siciliano che in posizione
finale è trivocalico –u,-a,-i (non conosce –e in posizione finale). Gli errori lessicali vistosi
sono: l’uso del siciliano passato remoto laddove il toscano usa il passato prossimo, la scelta
agrammaticale del trapassato remoto per disporre su diversi piani temporali gli eventi, la
ripresa approssimativa della locuzione toscana in da canto mio. Formule stereotipe come la
perifrasi della di lei venuta in luogo dell’aggettivo possessivo. L’uso dell’antiquato onde
invece di affinché, del formale adempiere, di foglio per lettera. E’ un franco toscanismo la
frase pigliarsi premura mentre è un francesismo favorire per mettersi a disposizione,
divertirsi è un arcaismo e infine l’uso sintattico di spiegare per aver manifesta davanti in
forma chiara richiede semmai la forma passiva o riflessiva.

LEZIONE 60 - I sicilianismi irriflessi nella scrittura giovanile di Giovanni Verga.


Nella scrittura giovanile di Giovanni Verga si può notare come l’autore nello scrivere assuma
un registro formale soprattutto per esprimere l’ossequioso verso lo zio che rileva un buon
apprendimento della tradizione scritta dell’italiano, lingua altra, a discapito e alternativa alla
lingua materna ossia il dialetto, lingua orale per eccellenza. I sicilianismi irriflessi sono dovuti
soprattutto al rapporto di diglossia che si ha tra la lingua alta appresa per la scrittura, lingua
del registro formale e la lingua bassa del registro informale. L’aspetto fonomorfologico è in
lingua corretta e non traspare il dialetto siciliano eccetto nella riga finale l’utilizzo di le cosi in
luogo di le cose e alle quale per le quali rivelano errori del vocalismo atono siciliano che in
posizione finale è trivocalico –u,-a,-i (non conosce –e in posizione finale). Un errore lessicale
vistoso è l’uso del siciliano passato remoto laddove il toscano usa il passato prossimo, la
scelta agrammaticale del trapassato remoto per disporre su diversi piani temporali gli eventi.

L'apprendimento verghiano dell'italiano: maestri e strumenti grammaticali e


lessicografici.

Verga nasce a Catania nel 1840, lo stesso anno dell'uscita della seconda edizione de
I Promessi Sposi revisionata da Manzoni con il fiorentino parlato dalle classi colte. La sua
formazione letteraria parte dai maestri e i classici della della generazione precedente.
Verga, come ci informa il suo amico De Roberto, studiò presso la scuola tenuta dal maestro
Francesco Caranna mentre gli studi secondari li fece presso Antonio Abate.
Presso Abate l'insegnamento della lingua era però trasmessa tramite l'emulazione
l'insegnamento sinonimico piuttosto che tramite regole e precetti. Lo studio del latino era
trasmesso attraverso la lettura dell'opera “Histoire romaine depuis la fondation de Rome
jusqu'à la batalile d' Actium” pubblicata in cinque volumi fra il 1738 eil 1741 da Charles Rollin
(1661-1741), che fin dal 1761 era stata tradotta in italiano, un testo manualitico sorpassato
da un secolo. Il giovane Verga non poteva accorgersi certo della limitatezza di quella scuola
pur avendone il sentore. La maturazione del giovane scrittore e il distacco dal maestro
avvenne nel decennio 1850-1850. Verga era ormai consapevole dell'esigenza di una
padronanza dell'italiano.
LEZIONE 63 - Individuate alcuni elementi della lingua del giovane Verga nel breve
brano riportato qui sotto, tratto dai Carbonari della montagna (versi 20 - 25):
"alla nostra volta ripresimo i capitoli che dormivano da qualche mese in mezzo alle
ansie supreme dell'aspettativa dell' Aprile 1860.
Li ripresimo quasi con slancio... e poi, ci si perdoni il peccato, in quei momenti ci
parevano belli, ci pareva di combattere anche la nostra battaglia morale ai Borboni e a
Clery"
Gli elementi della lingua del Giovane Verga presenti in questo brano (versi 20-25) tratto dai
Carbonari della Montagna sono: a livello di morfologia la presenza della forma verbale
cosiddetta forte di I persona plurale del perfetto “Li ripresimo” verso 21. L’origine di tale
forma è analogica e si riconduce alla I persona singolare con la desinenza –mo caratteristica
della II plurale per creare la forma binaria io ripresi, noi ripresimo. La presenza di questo tipo
di forme verbali fu segnalata da Luigi Russo nel libro Giovanni Verga e precisamente nel
capitolo intitolato Nei versi presi in esame si notano forme dell’imperfetto che dominano nel
resto dell’opera e il cui uso si deve anche ad un rilievo sintattico e non solo stilistico o di
pertinenza narrativa. Gli imperfetti dormivano, parevano e pareva sono degli imperfetti che
hanno un valore aspettuale della continuità d’azione.
LEZIONE 67 - Individuate alcuni elementi della lingua del giovane Verga nel breve
brano riportato qui sotto, tratto da Sulle lagune:
“Che ci resta ora, amico mio? Io veggo tutto nero, sarà il pianger molto che ho fatto…
io, sì… vorrei sperare, Dio mio! come?... e non posso… e non ne ho il coraggio!...”
“Ieri ricevemmo una lettera da mio fratello che è a Brescia; egli ci scrive di sperare,
che nostro padre non corre pericolo di venir processato per ora, e che fra breve, a
quel che si dice, sarà liberato anche lui, come tutti noi poveri prigionieri, dai nostri
fratelli liberi… Oh, se potessi sperare com’egli spera! Sento che ciò mi farebbe un
gran bene… Dice che egli verrà colle prime guide dei nostri liberatori.”
Il romanzo “Sulle Lagune” presenta un narratore onnisciente che conduce ad una narrazione
opaca. Le caratteristiche linguistiche sono le incertezze sulle reggenze preposizionali. Si
notano periodi brevi, ridotti ad una principale e ad una subordinata di primo grado. Troviamo,
nel testo frasi esclamative, interazioni, puntini di reticenza che connotano il tono di sfogo e
lamento. Sono presenti frasi ellittiche. Verga usa l’avverbio di luogo “ce e ci” che deve
invece svolgere la funzione di pronome di prima persona plurale. Nella morfologia nominale:
uniforme masch.; “ce, ci” in funzione di pronome di prima persona plurale (55 Che ci resta,
58 ci scrive).
Illustrate dal punto di vista sintattico (tenendo conto delle due parti narrativa e
epistolare che vi si alternano) il seguente brano tratto da Sulle lagune:
"Quelle date dovevano molto parlare al cuore del giovane ungherese, poiche? dopo
aver baciato l'immagine, egli baciava ognuna di quelle date. | Poscia comincio?
a rileggere, forse per la ventesima volta, quelle lettere, mentre insieme ad altre carte le
andava ordinando dentro una grossa sopracoperta, nella quale avea scritto
in antecedenza l'indirizzo di Collini. [...] Mio buon amico, | Vi scrivo la prima volta dal
mio paesello nativo, seduta innanzi la mia finestra, da cui un raggio allegro
di sole si riflette sul mio tavolino, frastagliato dalle foglie del vecchio pergolato che
incorona il davanzale. Ho dinanzi a me quest'immenso orizzonte, inondato di
luce splendida e cerulea, che si stende sino alla laguna, ove voi dovete essere a
quest'ora... fors'anche affacciato alla vostra finestra e cogli occhi rivolti verso...".
Il brano è per lo più costituito da periodi brevi, normalmente ridotti ad una principale e a una
subordinata di primo grado. Rari invece sono i casi in cui alla principale si accompagnano
subordinate che superino il terzo grado di subordinazione. Quando ciò avviene assistiamo a
un impacciata collocazione degli elementi frasali o parentetici: “Vi scrivo la prima volta dal
mio paesello nativo, seduta innanzi la mia finestra, da cui un raggio allegro di sole si riflette
sul mio tavolino, frastagliato dalle foglie del vecchio pergolato che incorona il davanzale” (rr.
26-28) nel quale, contro l’interpretazione che verrebbe spontanea, non è il più vicino tavolino
ad essere frastagliato bensì il più lontano raggio. nella sezione narrativa che apre il cap. XVI
si avverte la tensione insoddisfatta ad essere chiaro e inequivoco mostrata dal ricorso
ridondante ai deittici quelle. Dal punto di vista del tono e della sintassi la sezione epistolare
presenta Rari capoversi più ampi e distesi ma anch’essi, sono costituiti da allocuzioni, frasi
esclamative e interrogative, interiezioni, puntini di sospensione, a connotare il tono di sfogo
e di lamento; quest’ultimo si esprime tramite periodi brevi o brevissimi, di solito monofrasali,
o tramite frasi nominali (e dunque ellittiche) che, anziché legarsi per il mezzo di connettivi
logici (congiunzioni subordinanti), si affidano ad una sintassi paratattica e slegata tenuta
insieme sulla pagina dall’interpunzione marcata (punti interrogativi, esclamativi e punti di
sospensione), esplicito segnale di emotività.

LEZIONE 71 - Filologia e analisi linguistica: in che modo la condizione di non finito di


Frine​ rappresenta una risorsa e/o una limitazione per l'analisi linguistica del romanzo
inedito?
Rimasto allo stato di abbozzo, e mai rivisto in maniera conclusiva dall’autore, Frine è
composto di 31 capitoli. Verga non rivide il romanzo in maniera definitiva per la
pubblicazione; era infatti normale, per un autore scrivere e trascrivere senza dare particolare
importanza a fatti grafico-fonetici, uniformati e corretti poi in extremis, nelle fasi successive e
magari addirittura sulle bozze di stampa. Si tratta di una tendenza generale che per lo più
scandisce la scrittura e la rielaborazione secondo una gradazione che va dal macro-testuale
al micro-testuale e che riserva la definizione di fatti morfologici, fonetici e soprattutto grafici
all’ultima fase correttiva. Il manoscritto di Frine insomma se da un lato ci dà testimonianza
su come Verga scrivesse, intorno al 1866-1869, in una forma semispontanea non ci dice
invece come Verga intendesse consegnare al pubblico i propri testi né quale lingua Frine
avrebbe avuto qualora anche questo romanzo fosse andato in stampa.
LEZIONE 73 - Le componenti straniere della lingua del giovane Verga (quali le lingue
usate, quale l'ambito di provenienza)
Un Verga desideroso di entrare nei salotti più importanti nonostante le sue evidenti
incertezze ortografiche riguardo i termini stranieri. L’adesione alla cultura europea è evidente
nella citazione di termini francesi ed inglesi tali e quali. Nei periodi delle frasi si evince
un’attinenza al modello francese settecentesco dello “style coupè” caratterizzato da un
andamento sincopato e da periodi molto brevi. Il lessico anche presenta termini stranieri
riguardanti l’abbigliamento, il costume mondano, i mezzi di trasporto, l’arredamento. I
foriestierismi più evidenti sono presenti in Eva e risalgono al periodo milanese e consistono
in francesismi attinenti al mondo della moda e dell’abbigliamento femminile e maschile.

Varianti diatopiche in Verga (fra siciliano, fiorentino e lingue straniere).


Per riprodurre la società in modo più vero, Vergo la osserva scrupolosamente studiandone
ambiente fisico e dialetto. Nei suoi scritti giovanili sono presenti le influenze della sua lingua
madre, il siciliano, mentre il contatto con FIrenze lascia tracce nei fiorentinismi presenti in
“Storia di una Capinera” ed ascoltati per le strade di quella che era la capitale. I francesismi
e anglicismi usati da Verga nell’opera “Eva” derivano dalla lettura di romanzi stranieri da cui
trae i termini alla moda che riguardano soprattutto l’abbigliamento. Per rendere ancora più
vera e impersonale la rappresentazione, lo scrittore costruisce una lingua nuova: è la lingua
nazionale (non usa il dialetto siciliano perchè vuole che le sue opere siano lette in tutta Italia)
arricchita di termini di origine dialettale, di modi di dire e proverbi, di una sintassi modellata
sul ritmo della lingua parlata dal popolo.

Tracciate un quadro dell'evoluzione e delle persistenze della lingua verghiana nel


periodo catanese (da I Carbonari della montagna a Frine)
I romanzi del periodo catanese, “I carbonari della montagna”, “Sulle lagune”, “Una
peccatrice” e “Frine” presentano tracce di vocalismo tonico ad esempio “intieramente”, al
quale si affianca in Frine anche la forma “intiero”, “capriuolo”, “fagiuolo”. In queste forme
notiamo come non sia rispettata la legge del dittongo mobile. Elementi di continuità tra i
romanzi sono anche i consonantismi a testimonianza di una lingua antiquata. Nonostante gli
esiti toscani adottati in “sacrificio” e “denuncia” non mancano esiti colti in “zi” come
“rinunzia”. La morfologia nominale rimane a favore della forma colta a svantaggio di quella
più colloquiale. La lettura del primo capitolo di Frine presenta però delle novità a favore
dell'innovazione. Un puntuale riscontro su tutto il romanzo conferma che, non solo
l'innovazione fiorentina è accolta in maniera sistematica nella fase ultima dell’elaborazione
attestata dal manoscritto, ma che essa è già introdotta nella primitiva scrittura, tanto da poter
affermare con buon margine di sicurezza che Verga si è autoimposto di aderire ad esempio,
alla funzionalità della diversa desinenza fra prima e terza persona singolare dell'imperfetto,
fra la scrittura di Una peccatrce la composizione di Frine.
LEZIONE 77 -
Individuate alcuni elementi della lingua di Verga nel breve brano riportato qui sotto,
tratto da Storia di una capinera: “io pensai alla povera capinera che guardava il cielo
attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristemente il
suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l’ala ed era morta.”
Gli elementi presenti e da sottolineare della lingua di Verga in questo brano sono l’uso del
vocabolo “gretole” in alcune edizioni sostituito da grate fa pensare che si tratti più di una
forma di fiorentinismo puro piuttosto che un arcaismo. Il termine testolina indica il diminutivo
con suffisso “– ino” presente in alta concentrazione nella prosa.

Indicare alcuni fiorentinismi adottati da Verga in Storia di una capinera.


I fiorentinismi presenti in Storia di Una Capinera sono tratti dal fiorentino ascoltato per le
strade della città. Si nota un’alta concentrazione di diminutivi nella prosa con suffissi che
terminano in “–ino” (es. scodellino), ”-etto” (uccelletto), “-ello” (grandicello), “-uccio”
(capannuccia). L’uso del vocabolo “gretole” in alcune edizioni sostituito da grate fa pensare
che si tratti più di una forma di fiorentinismo puro piuttosto che un arcaismo. Infine l’uso
di dittonghi nel vocalismo dopo l’elemento palatale (muricciolo, donnicciola). Nel
consonantismo non appaiono piu’ le forme antiquate del tipo “(s)covrire”. Il rifiuto della
sonorizzazione viene attestato da una sola apparizione del termine “sacrifizio”.

Illustrate il significato linguistico e stilistico che Storia di una capinera rappresenta


nel percorso verghiano.
Verga in quest’opera appare più maturo rispetto al precedente filone romantico ora espresso
con toni medi esprime condivisione simpatetica con le sofferenze dell’animale ma senza mai
oltrepassare la soglia che ci condurrebbe dritti al dramma. Nel romanzo il discorso coincide
con le riflessioni della protagonista. Al fine di descrivere i pensieri che tormentano la
protagonista, il romanzo Storia di una capinera ricorre spesso al discorso dubitativo. La
forma del discorso dominante è il flusso di pensieri, la riflessione, con frequente uso di
esclamazioni e interiezioni. Maria si abbandona ai suoi pensieri, come se stesse parlando
con sé stessa, e il discorso viene a coincidere con i suoi ragionamenti. La forma epistolare
determina un uso molto forte del linguaggio della soggettività. Storia di una capinera non
rappresenta una frattura netta con la lingua verghiana precedente dal punto di vista fonetico
Dal punto di vista del linguaggio In Storia di una capinera si affiancano l'uno all'altro un
lessico colto ed arcaico ed un lessico toscano. L’incremento dei toscanismi si manifesta oltre
che nel lessico Nella formazione della parole (incremento degli alterati) e livello
morfosintattico (uso della forma impersonale in luogo della I persona plurale).

LEZIONE 80 - Da Frine a Eva: interventi narratologici e modifiche linguistiche.


Già dal breve sunto di Frine risultano evidenti i contatti fra quest’ultimo e il successivo Eva :
Luigi Deforti infatti assomiglia in maniera impressionante a Enrico Lanti, anch’egli pittore,
anch’egli al centro di una scommessa e di un duello. Inoltre, identica è l’ambientazione
fiorentina e, a parte la persistenza di alcuni altri antroponimi, rimane costante nei due
romanzi il nome della protagonista femminile. Nonostante le analogie già ricordate, Frine è
inconfrontabile con Eva che sarà completamente riscritto, salvo il recupero di un capitolo che
costituirà l’epilogo del romanzo Eva. Rimasto allo stato di abbozzo, e mai rivisto in maniera
conclusiva dall’autore, Il manoscritto di Frine ci dà testimonianza su come Verga scrivesse,
intorno al 1866-1869, in una forma semispontanea non ci dice invece come Verga
intendesse consegnare al pubblico i propri testi né quale lingua Frine avrebbe avuto
qualora anche questo romanzo fosse andato in stampa. Rispetto a Frine in Eva abbiamo
una maggiore appropriatezza e una lingua tendenzialmente asinonimica, un incremento dei
toscanismi, una riduzione dei dettagli descrittivi e una riduzione della ricca aggettivazione.

Collocate Eva nel percorso linguistico e letterario di Verga e illustrate gli aspetti
linguistici interessanti del seguente brano:
"Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un
mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli
infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla
poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo
che moriva. | Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare.
Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento
per levarsi"
Verga nel 1872 decide di abbandonare il giovanile inedito Frine, scritto durante in primo
soggiorno fiorentino. Eva uscì, nell’estate del 1873 e racconta la storia d’amore della
ballerina Eva e del pittore Enrico Lanti per tanti tratti narrativi e tematici alla storia raccontata
in Frine. Le obiezioni fatte dai recensori alla lingua di Eva, riguardavano vari aspetti: il
lessico in primo luogo (forestierismi, povertà lessicale, inappropriatezza), ma anche e
soprattutto contorsione sintattica e ‘barocchismo’ di immagini. Ma possiamo dire che la
critica ha riconosciuto uno snodo artistico importante, sia nella gestione sapiente dei
momenti di dinamicità e di stasi, sia nella piena percezione dell’autonomia dei tempi della
storia narrata e dei tempi del racconto, sia infine nella costruzione del discorso riportato
Levarsi: Un'opzione in senso favorevole al toscano potrebbe sembrare anche l’insinuarsi
nella lingua del Verga di levarsi nel significato di ‘alzarsi in piedi’. L’ intero testo di Eva
mostra una netta preferenza di levare (sei casi) contro alzare (due casi) quando significhi
‘tirar su, sollevare’; la situazione si ribalta se consideriamo esclusivamente il significato di
‘alzarsi in piedi’; in questo senso la forma riflessiva alzarsi ricorre in otto casi mentre levarsi
compare solo in tre casi . Che in questi casi il Verga stia tentando di sganciarsi da scelte
lessicali che gli sono più naturali, pare confermato dall'incertezza con cui a 22 all’iniziale “
fece istintivamente un moto per levarsi” di Frine tiene dietro in Eva “fece come un
movimento per alzarsi”, subito di nuovo corretto in levarsi.

LEZIONE 82 - ​Nedda​: la scoperta della novella, la scoperta del mondo degli umili e le
strategie linguistiche verghiane.
Nedda cambia la visione della vita, cambia anche il contenuto della nuova arte: non più
duelli, non più amori raffinati di artisti e di ballerine, ma passioni semplici, tragedie silenziose
e modeste di povere contadine. L’adesione umana di Verga al mondo degli umili e l’ingresso
letterario nel genere “rusticale” che Nedda rappresenta non corrispondono a mutamenti
sostanziali né nelle strategie narrative messe in atto, né nelle scelte linguistiche del nostro
autore, aspetti complementari dal punto di vista stilistico: è infatti facile decretare (alla luce
degli sviluppi che verranno) come la presenza di un narratore e dunque l’assenza
dell’impersonalità e/o coralità, che verranno conquistate con le novelle e i romanzi
successivi, corrispondano in maniera pienamente giustificata ad una lingua governata
ancora da una personalità narrativa. Nel caso specifico di Nedda poi si tratta di un narratore
che si autorappresenta (nella sezione proemiale della novella) come appartenente ad una
classe sociale differente dal mondo narrato, appartenente ad un luogo geograficamente
distante da quello delle campagne siciliane in cui la vita di Nedda si svolge, appartenente
infine ad un milieu culturale e intellettuale che fin da subito viene caratterizzato come
superiore a quello cui appartiene la ragazza.

Illustrate il significato di Nedda nel percorso letterario e linguistico di Verga,


soffermandovi anche sull'interpretazione datane da Luigi Russo.
I critici, a incominciare dal Capuana, hanno visto in Nedda una svolta dell’arte verghiana”.
Luigi Russo afferma che con Nedda “Cambia la visione della vita, cambia anche il contenuto
della nuova arte: non più duelli, non più amori raffinati di artisti e di ballerine, ma passioni
semplici, tragedie silenziose e modeste di povere contadine. Ma accanto alle novità rilevate
qui sopra da Russo, il medesimo critico poco oltre aggiungeva di non voler nascondere i
suoi vari difetti, che restano come sopravviventi squame di vecchie abitudini letterarie, o
sono dovuti alla penetrazione non ancora molto concentrata e smaliziata del nuovo mondo”:
1) nelle strategie narrative
2) in specifici fatti formali (per esempio la prolissità del ritratto di Nedda “condotto alla
maniera manzoniana”) e linguistici ancora fortemente connotati in senso letterario.

LEZIONE 85 - Individuate le tipologie di discorso (diretto e indiretto, libero e legato)


nel seguente brano:
"Don Franco allora si sfogava mettendosi a ridere come una gallina, all'uso di don
Silvestro, rizzandosi sulla punta dei piedi, coll'uscio spalancato a due battenti,
che per questo non c'era pericolo d'andare in prigione; e diceva che finché ci
sarebbero stati i preti era sempre la stessa cosa, e bisognava fare tavola rasa,
s'intendeva lui, trinciando colla mano in giro. | - Io per me li vorrei tutti arsi!
rispondeva don Giammaria, che intendeva anche lui di chi parlava".
- "Don Franco allora si sfogava mettendosi a ridere come una gallina, all'uso di don
Silvestro, rizzandosi sulla punta dei piedi, coll'uscio spalancato a due battenti, che per
questo non c'era pericolo d'andare in prigione” ​è un discorso indiretto libero;
- “e diceva che finché ci sarebbero stati i preti era sempre la stessa cosa, e bisognava fare
tavola rasa, s'intendeva lui, trinciando colla mano in giro” ​è un discorso indiretto legato​;
- “Io per me li vorrei tutti arsi! rispondeva don Giammaria” ​è un discorso diretto legato​;
- ”che intendeva anche lui di chi parlava” ​è un discorso indiretto libero.
Analizzate dal punto di vista linguistico il seguente brano, estratto dalla novella
Pentolaccia: “Già si sa che la gelosia è un difetto che l’abbiamo tutti, chi più chi
meno, e per questo i galletti si spennacchiano fra di loro prima ancora di mettere la
cresta, i muli sparano calci nella stalla. Ma quando uno non ha mai avuto questo vizio,
e ha chinato sempre il capo in santa pace, che sant’Isidoro ce ne scampi, non si sa
capire come abbia a infuriare tutt’a un tratto, al pari di un toro nel mese di luglio, e
faccia cose da matto, come uno che non ci vegga più dagli occhi pel mal di denti; chè
quelle cose lì sono appunto come i denti, che dànno un martoro da far perdere la
ragione allorchè spuntano, ma dopo non dànno più noia, e servono a masticare il
pane; e lui ci masticava così bene che aveva messo pancia, come un galantuomo, e
pareva un canonico; per questo la gente lo chiamava « Pentolaccia » perché ci aveva
la pentola al fuoco tutti i giorni, chè gliela manteneva sua moglie Venera con don
Liborio.”
Apocopi presenti fin dalla prima scrittura sull’autografo: in relazione ad infiniti: 21 da far
perdere; La sottolineatura attualizzante è ottenuta di frequente attraverso ci : 25 “perché ci
aveva la pentola al fuoco” .Per la ridondanza si veda in primo luogo proprio il caso di ci
avverbio locativo 20 “come uno che non ci vegga più dagli occhi”.
Attiene alla mimesi di una lingua parlata la ripetizione lessicale, che rigetta consapevolmente
il diktat retorico-letterario così caratteristico della nostra tradizione anche scolastica. 18-23 “e
faccia cose da matto, come uno che non ci vegga più dagli occhi pel mal di denti; ché quelle
cose lì sono appunto come i denti, che dànno un martoro da far perdere la ragione allorché
spuntano, ma dopo non dànno più noia e servono a masticare; e lui ci masticava così bene”.
Dal punto di vista lessicale si assiste ad una sostanziale indifferenza riguardo alla
provenienza geografica delle forme, mentre, viceversa, Verga dimostra particolare sensibilità
nei confronti della loro connotazione diastratica. L’abbassamento di tono è evidente, per
l’eliminazione di elementi considerati più formali a favore sia del toscano ( testa è mutato in
capo a 17), sia nelle scelte a favore del siciliano ( galantuomo ‘signore’ 24). La prima
persona plurale di chi parla corrisponde alla seconda persona plurale di chi ascolta: si veda
la correzione “non si capisce” e infine “non si sa capire” introdotta da Verga al rigo 18 in cui
era stato scritto “sant’Isidoro ce ne scampi, non so capire come abbia a infuriare”. ("si"frutto
della conduzione impersonale della narrazione).
Situazione comunicativa: l’alternanza dei tempi presente della narrazione rr. 1-23 imperfetto
o passato remoto della vicenda narrata: dal r. 23 alla fine.

LEZIONE 89 - Tecniche dell'impersonalità: I Malavoglia e Pentolaccia


In “Pentolaccia” Verga realizza l'impersonalità, in quanto Verga non è più il narratore
onnisciente, ma sceglie di annullarsi e di affidare il racconto dei fatti a un narratore popolare,
cioè a una voce che provenga dall’interno del gruppo sociale a cui appartengono i
protagonisti. Ebbene, con la presa in diretta del narratore popolare che fa sentire la sua voce
in “Pentolaccia”, Verga sperimenta una maniera differente da quella poi utilizzata ne “I
Malavoglia” per esprimere l’impersonalità dell’opera d’arte, per conseguire l’annullamento
dell’autore e della sua personalità, aderendo in maniera diretta ad un parlato che viene dal di
dentro della situazione narrata e dunque annullando la distanza narrativa fra
l’autore-narratore e chi parla.
Individuate nel brano seguente de I Malavoglia gli esempi di ci attualizzante e del che
polivalente; illustrate inoltre altri elementi utili alla caratterizzazione
linguistica.
"Una sera si fermò nella strada del Nero Alfio Mosca, col carro, che ci aveva attaccato
il mulo adesso, e per questo aveva acchiappato le febbri alla Bicocca, ed era
stato per morire, tanto che aveva la faccia gialla e la pancia grossa come un otre; ma
il mulo era grasso e col pelo lucente. | - Vi rammentate quando sono partito
per la Bicocca? diceva lui, che stavate ancora nella casa del nespolo! Ora ogni cosa è
cambiata, ché «il mondo è tondo, chi nuota e chi va a fondo». - Stavolta non
potevano dargli nemmeno un bicchiere di vino, pel ben tornato."
In questo brano possiamo rintracciare
- la Ridondanza pronominale in “col carro che ci aveva”,
- l’uso di “ci” attualizzante con il verbo avere
- “Che” polivante usato per indicare subordinazione, spesso senza un unico valore sintattico.

LEZIONE 90 - Discorso diretto e discorso indiretto liberi e legati.


Si parla di discorso diretto quando vengono riportate le parole esatte che vengono
pronunciate dai personaggi.
- Il discorso diretto può essere libero o legato.
1) il discorso libero è l'introduzione di una frase senza preannuncio;
2) il discorso legato è preceduto da un verbo dichiarativo es. il verbo dire.
Nel discorso indiretto invece non vengono riportate le parole esatte ma viene riportato il
concetto in forma indiretta.
- Il discorso indiretto può essere libero o legato.
1)libero quando manca il verbo dire per lasciare che sia la voce del narratore a parlare
2)legato quando è introdotto dal verbo dire o da un sinonimo.

Illustrate la categoria di discorso, distinguetene le particolari tipologie soffermandovi


in particolare sul discorso indiretto libero e sui suoi rilevatori primari e
secondari.
Si parla di discorso diretto quando vengono riportate le parole esatte che vengono
pronunciate dai personaggi.
Il discorso diretto può essere libero o legato.
1) il discorso libero i è l'introduzione di una frase senza preannuncio
2) il discorso legato è preceduto da un verbo dichiarativo es. il verbo dire
Nel discorso indiretto invece non vengono riportate le parole esatte ma viene riportato il
concetto in forma indiretta. Il discorso indiretto può essere libero o legato : legato quando è
introdotto dal verbo dire o da un sinonimo, libero quando manca il verbo dire per lasciare
che sia la voce del narratore a parlare :il discorso indiretto libero è individuabile mediante
rilevatori che possono essere primari, come il processo di modifica che interessa i tempi (ed
eventualmente i modi), l'espressione delle persone grammaticali e di altri elementi deittici nel
passaggio dal discorso diretto all'indiretto, o secondari, come elementi del parlato, di
carattere per lo più idiomatico o enfatico che collaborano al riempimento sintattico o
lessicale del costrutto.
Individuate il discorso indiretto legato e il discorso libero nel seguente passaggio de I
Malavoglia (cap. XV):
"La gente diceva che la Lia era andata a stare con don Michele; già i Malavoglia non
avevano più niente da perdere, e don Michele almeno le avrebbe dato il
pane".
Nel seguente passaggio possiamo individuare discorso indiretto legato e discorso libero nei
seguenti passaggi:
- “La gente diceva che la Lia era andata a stare con don Michele” è un discorso indiretto
legato;
- “già i Malavoglia non avevano più niente da perdere, e don Michele almeno le avrebbe
dato il pane” è un discorso indiretto libero.

LEZIONE 91 - I Malavoglia: i tempi verbali e i deittici


Verga ne “I Malavoglia” usa spesso il tempo verbale dell'imperfetto perchè adatto ad
esprimere il discorso indiretto. Nel passaggio da discordo diretto a discorso indiretto avviene
un cambiamento dei tempi dei verbi in particolare il presente indicativo si trasforma in
imperfetto indicativo Il discorso indiretto legato è collegato al verbo introduttore da che
oppure da altri elementi variabili come, perché. Il connettore di massima ricorrenza il che
dichiarativo viene spesso omesso e sostituito da elementi di interpunzione, ma bisogna fare
attenzione perché non sempre questi segni sostituiscono il che dichiarativo. Spesso
introducono un discorso indiretto libero segnalato dalla presenza dei deittici “già, ora” ecc.

In che rapporto sta l'uso dell'imperfetto con il discorso indiretto?


Verga nei malavoglia usa spesso il tempo verbale dell'imperfetto perchè adatto ad esprimere
il discorso indiretto. Nel passaggio da discordo diretto a discorso indiretto avviene un
cambiamento dei tempi dei verbi in particolare il presente indicativo si trasforma in imperfetto
indicativo. Esempio: "i denari ce li abbiamo disse a compar Alfio" si trasforma in "disse a
compar Alfio che i denari ce li avevano". Il discorso indiretto legato è collegato al verbo
“introduttore da che” oppure da altri elementi variabili come, perché ecc..

Uso dei tempi verbali nella lingua letteraria verghiana in genere e nei Malavoglia in
particolare.
Verga nei malavoglia usa spesso il tempo verbale dell'imperfetto perchè adatto ad esprimere
il discorso indiretto. Il discorso indiretto legato è collegato al verbo introduttore “da che”
oppure da altri elementi variabili “come, perché” ecc.., ma il connettore di massima
ricorrenza il “che” dichiarativo viene spesso omesso e sostituito da elementi di
interpunzione, ma bisogna fare attenzione perché non sempre questi segni sostituiscono il
“che” dichiarativo e spesso introducono un discorso indiretto libero segnalato dalla presenza
dei deittici come “già, ora” ecc..

Tratti linguistici dell'oralità nella produzione matura di Verga


Verga applica i principi dell’impersonalità nelle opere veriste composte dal '78 in poi: l'autore
si eclissa, si cala nella pelle dei personaggi, vede le cose con loro occhi e le esprime con le
loro parole. A raccontare i fatti non è il narratore onnisciente ma la voce narrante si mimetiza
nei personaggi, adotta il loro modo di pensare, di esprimersi.
L'adesione ad una lingua parlata è caratterizzata da:
1) “che” polvalente,
2) da un abuso di “e” in luogo diconnettivi subordinantI,
3) Da marcature attualizanti,
4) reduplicazioni pronominali e avverbiali e ripetizioni lessicali oltre che, a livello semantico
dal “non detto” e da formulazioni allusive che contribuiscono a caratterizzare la scrittura e
dunque il tipo di narrazione. Il narratore dunque è espressione di una voce che parla
piuttosto che scrivere e che mira a riprodurre l’oralità, la colloquialtà, la spontaneità della
lingua adottando il discorso indiretto libero, un procedimento letterario finalzzato a
rappresentare in letteratura, l'oralità poiché, “per l'assenza di segni esterni di subordinazione
lo stile indiretto libero offre un'immagine della fluidità che si è soliti attribuire alla lingua
parlata.

Analizzate, dal punto di vista del discorso, il seguente brano dei Malavoglia,
individuando nell’indiretto libero i connettori, e illustrandone il rilevatore
primario della trasposizione e i rilevatori secondari (per es. deissi, enfasi, formule
idiomatiche, esclamative e interrogative).
“Alessi tornava a casa il sabato, e gli veniva a contare i denari della settimana, come
se il nonno avesse ancora giudizio. Egli rispondeva sempre di sì, col capo; e
bisognava che andasse a nascondere il gruzzoletto sotto la materassa, e gli diceva,
per farlo contento, che ci voleva poco a mettere insieme un’altra volta i denari
della casa del nespolo, e fra un anno o due ci sarebbero arrivati. | Ma il vecchio
scrollava il capo, colla testa dura, e ribatteva che adesso non avevano più bisogno
della casa; e meglio che non ci fosse mai stata al mondo la casa dei Malavoglia, ora
che i Malavoglia erano di qua e di là”.
Il discorso indiretto libero è individuabile mediante tratti pertinenti che si distinguono in
rilevatori primari, cioè costanti grammaticali di natura formale, e rilevatori secondari, cioè
elementi variabili e meno formalizzabili. Rilevatori sono la trasposizione, che investe tempi,
modi e persone del verbo, pronomi personali (gli), avverbi circostanziali (adesso), aggettivi e
pronomi dimostrativi e possessivi, trasformandoli da elementi formali del discorso diretto in
elementi formali del discorso indiretto; e l’indipendenza del costrutto dal verbum dicendi o
putandi . Rivelatori secondari sono tutti quegli elementi del parlato, principalmente di
carattere enfatico o idiomatico, che collaborano al riempimento lessicale o sintattico del
costrutto; essi da un lato sono legati al contenuto, dall’altro ricorrono con più o meno
frequenza a seconda che lo scrittore inclini più o meno al discorso diretto. Possono essere
formule asseverative, imprecative o esecrative, appellativi, frasi nominali, frasi interrogative
o esclamative, topicalizzazioni, proverbi.
Analizzate, dal punto di vista del discorso, il seguente brano de I Malavoglia,
individuando nell’indiretto libero i connettori, e illustrandone il rilevatore
primario della trasposizione e i rilevatori secondari (per es. deissi, enfasi, formule
idiomatiche, esclamative e interrogative).
“Gli parlava pure di quel che avrebbero fatto quando arrivava un po’ di provvidenza, per
fargli allargare il cuore; gli diceva che avrebbero comprato un vitellino a
San Sebastiano, ed ella bastava a procurargli l’erba e il mangime per l’inverno. A maggio si
sarebbe venduto con guadagno; e gli faceva vedere pure le nidiate di
pulcini che aveva messo, e venivano a pigolare davanti ai loro piedi, al sole, starnazzando
nella polvere della strada. Coi denari dei pulcini avrebbe anche
comperato un maiale, per non perdere le buccie dei fichidindia, e l’acqua che serviva a
cuocere la minestra, e a fin d’anno sarebbe stato come aver messo dei soldi
nel salvadanaio. Il vecchio, colle mani sul bastone, approvava del capo, guardando i pulcini”.

LEZIONE 94 -
Il problema della lingua dopo I Malavoglia.
Il problema della lingua dopo i Malavoglia si presenta quando Verga inizia a scrivere gli
abbozzi di Mastro Don Gesualdo. Nei primi elaborati del Mastro Don Gesualdo si riscontra
una narrazione monotona e soprattutto è evidente l’assenza assoluta del discorso indiretto
libero a fronte di un poco uso del discorso diretto. Verga infatti utilizza il discorso indiretto
tradizionale. Altri elementi riscontrabili sono nel lessico le incertezze tipiche della fase
giovanile ed individuabili nella novella Nedda. I sette abbozzi incompiuti sono la
testimonianza della crisi che investe il sistema espressivo verghiano dopo la stesura della
novella I Malavoglia che induce l’autore a rinnovarsi grazie ad una ricerca durata sette anni
dall’82 al ’89. Il Verga utilizza il laboratorio della novella per sperimentare un nuovo stile
come già era successo per l’elaborazione travagliata de I Malavoglia.
Dopo i malavoglia verga inizia a scrivere gli abbozzi di Mastro Don Gesualdo , ma in questi
scritti troviamo una narrazione monotona, manca del tutto il discorso indiretto libero e il
discorso diretto è poco usato, perchè tende ad usare il discorso indiretto tradizionale invece
nel lessico ci sono delle incertezze tipiche della fase giovanile in particolare della Nedda.
Questi 7 abbozzi rimasti incompiuti costituiscono la testimonianza della crisi che investe il
sistema espressivo verghiano dopo i malavoglia, che porta l'autore a rinnovarsi attraverso
una ricerca durata sette anni dall'82 all'89. Come già era successo durante il lungo travaglio
che aveva accompagnato l’elaborazione de I Malavoglia, il Verga utilizza il laboratorio della
novella per sperimentare un nuovo stile.

LEZIONE 95 - Verga e Manzoni davanti alla lingua di Firenze.


Nel redigere Mastro Don Gesualdo, Verga è cosciente dell’esigenza di una lingua media e di
uno stile “adeguati” al nuovo ceto socioculturale ‘borghese’. Ciò significava fare di nuovo i
conti con la lingua italiana come era e non come avrebbe dovuto essere nei sogni e nelle
ricette dei manzoniani. Bruni evidenzia come, tra le competenze linguistiche di Verga, vi sia
un fondo relativamente compatto di fiorentino, entro il quale è talore possibile distinguere “tra
un fiorentino libresco e uno dell’uso”.
L’italiano di Verga è misto di forme del fiorentino moderno come di tratti arcaici della lingua
letteraria: forme sentite come letterarie ed ingessate da Manzoni, vengono utilizzate senza
remore. Lo studioso però mette in guardia dal rischio di concludere da tutta l’analisi “che la
lingua di Verga, misurata su quella dei Promessi Sposi, presenti il doppio svantaggio
dell’arcaismo e dell’incoerenza: a rendere disomogenea la lingua di Verga rispetto alla
conquistata omogeneità della sistematica correzione dei Promessi Sposi è anche l’aspetto
del regionalismo, non solo siciliano, e l’etnificazione della lingua.

Strategie linguistiche dell'impersonalità nella prosa del Mastro-don Gesualdo.


Un’impersonalità raggiunta tramite l’anonimato del narratore, tramite la sua indistinzione, il
suo trasformarsi in un ‘uomo qualsiasi’ che però guarda e sente da una certa distanza il
mondo rappresentato.Piuttosto che l’impersonalità dell’opera d’arte Verga riesce qui ad
attingere dell’impersonalità del narratore, il quale, lungi dal rappresentare una persona in
carne ed ossa, riveste il ruolo di una persona grammaticale, quel si dell'impersonalità, o in
maniera ancora più evidente la presenza di un chi indistinto che diventa emblema del
narratore.

Individuate alcune caratteristiche linguistico-stilistiche del seguente brano del


Mastro-don Gesualdo : “Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera dell’Alìa,
ammiccava soltanto un lume di carbonai, e più a sinistra la stella del mattino, sopra
un nuvolone basso che tagliava l’alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la
campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso,
giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l’allarme anch’esso;
poi la campana fessa di San Vito; l’altra della chiesa madre, più lontano; quella di
Sant’Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una
dopo l’altra s’erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa
Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti
spaventato, nelle tenebre.”
ll narratore, in Mastro Don Gesualdo si maschera dietro la forma linguistica della costruzione
impersonale e che per tale tramite raggiunge (in maniera stilisticamente divergente da
quanto conseguito ne I Malavoglia) l'impersonalità narrativa. Un’impersonalità raggiunta
tramite l'anonimato del narratore, tramite la sua indistinzione, il suo trasformarsi in un “uomo
qualsiasi” che però guarda e sente da una certa distanza il mondo rappresentato. Piuttosto
che l'impersonalità dell'opera d'arte Verga riesce qui a raggiungere l'impersonalità del
narratore il quale, lungi dal rappresentare una persona in came ed ossa, riveste il ruolo di
una persona grammaticale, quel “si” dell'impersonalità, o, in maniera ancora più evidente
quell'indistinto “chi” che diventa emblema del narratore.

Illustrate brevemente il contenuto di uno dei volumi a scelta (Daria Motta, La lingua
fusa; Fulvio Leone, La lingua dei Malavoglia rivisitata; Gabriella Alfieri,
Giovanni Verga) o, a seconda dell'anno di corso, uno dei capitoli del volume di
Gabriella Alfieri indicati nel programma.
Lingua fusa​: L’Autrice ha indagato sulle scelte linguistiche e stilistico retoriche delle novelle
di Vita dei campi, fornendo così il primo studio sistematico sulla raccolta. Nel primo capitolo,
una ricca introduzione all’analisi linguistica, l’Autrice, oltre a ripercorre le motivazioni che
hanno spinto gli scrittori del secondo Ottocento a cercare una lingua semplice e moderna,
indaga le soluzioni adottate per la resa dello stile popolare. Il secondo capitolo è dedicato
all’analisi dei tratti fonografemici e morfosintattici. Le scelte di Verga relative alla grafia e alla
fonetica sono conformi alla prassi scrittoria di fine Ottocento. ma è sul piano sintattico che
Verga riesce ad ottenere i maggiori effetti della sperimentazione dello stile popolare
attraverso l’uso dei moduli del parlato: il ci attualizzante, le dislocazioni a destra e a sinistra,
il che polivalente, la frase foderata, le frasi scisse, il c’è presentativo. La sintassi è
probabilmente, insieme al lessico, il livello linguistico nel quale Verga ha conseguito le più
grandi novità. Il terzo capitolo analizza minuziosamente il lessico, indagando sui toscanismi,
sicilianismi, colloquialismi e aulicismi che all’interno dei testi si intrecciano creando un
perfetto equilibrio.

Analizzate dal punto di vista linguistico il brano, estratto dal Mastro-don Gesualdo:
"Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua;
ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come
fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di
stoffa che pendevano ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti,
vociando per udir l'eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le
dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che
sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni
che faceva ballare il pavimento".
Quel che colpisce è l'uso dell’imperfetto per i tradizionali usi ‘di lingua’. L’imperfetto è adibito
a segnalare la ripetizione e la continuità. Se ne trae la contrapposizione canonica fra
narrazione di eventi tramite l’uso del passato remoto e descrizione di stati tramite
l’imperfetto, fra movimento e avanzamento della storia e stasi, blocco dell’azione;
contrapposizione particolarmente evidente quando alla sequenza di imperfetti esprimenti
esclusivamente la continuità di una condizione (magari anche immutabile, come avviene con
il dato paesaggistico) fa seguito all’improvviso l’intromissione del dato temporale tramite il
passato remoto. Si assiste, nel testo sottoposto ad analisi, a periodi nominali nei quali la
principale manca del verbo reggente (o perché non ripetuto o perché non esplicitato)
sebbene le subordinate relative o implicite attestino il verbo alla forma dell’imperfetto o del
gerundio.

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