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LA LINGUA È UN’ORCHESTRA (MARIAROSA BRICCHI)

1. ITALIANO PLURALE: LE LINGUE CHE SCRIVIAMO


L’Italiano è una lingua in movimento che cresce e si arricchisce; è una lingua plurale
costituita, cioè, da dialetti e italiani locali, con stili e registri diversi, lingue speciali e lingue
settoriali. Riconoscere le varietà, ma anche saperle mescolare è uno dei modi di
maneggiare la lingua con precisione e fantasia. Si parla di Italiani, che utilizzano l’italiano
con diversificati livelli di competenza; es. nella frase “lo sapete tu e quelli della palazzina
tua” si ha un aspetto sintattico della parlata romanesca, cioè la posposizione del
possessivo rispetto al nome. In un’altra frase “Io sono una famiglia povera” si ha un
italiano scorretto e approssimativo, proprio degli immigrati, quelli che in passato erano
italiani che parlavano solo dialetto. Le forme colloquiali, anche agrammaticali,
costituiscono una fonte interessa di sottocodici.
La molteplicità, stratificazione, le differenze coincidono con la storia dell’italiano,
sono parte della sua identità. Restano gli italiani regionali o locali, che hanno assorbito la
vitalità dei dialetti. Esiste un italiano standard o medio; i linguaggi settoriali propri di ambiti
specializzati del sapere, ma che si estendono anche nel parlato e nello scritto comuni. Le
varietà dell’italiano hanno a che fare con la storia, in quanto la lingua cambia nel tempo,
ma anche con la geografia (variazioni diatopiche); con lo strato sociale e culturale
(variazioni diastratiche); con la situazione comunicativa nella quale la lingua viene usata
(variazioni diafasiche). Si accostano le variazioni diamesiche, che utilizzano altri canali
mediatici come la radio, tv, e social media.

Cominciando dalla lingua degli scrittori e lo stile, questi utilizzano modalità stilistiche
diverse e talvolta lontane tra loro, ma neppure lo stile di un singolo scrittore è compatto e
uniforme. È fatto di sovrapposizioni e contaminazioni. Nei romanzi si intrecciano molte voci
e linguaggi. Ci sono parole di personaggi riportate nella forma del discorso diretto, ma
anche la voce del narratore, echi letterari e espressioni tipiche di un determinato gruppo
sociali, parole specialistiche o settoriali. Di fatto, la voce narrante è un’orchestra che
accorda strumenti diversi; voce narrante che assimila registri e linguaggi da fonti
disparate, aspetto che mette in luce la molteplicità che è propria di ogni lingua.

Oggi si riconosce l’esistenza di quello che è definito italiano dell’uso medio: lingua
diffusa e condivisa, di registro intermedio, che accoglie anche tratti prelevati dalle varianti

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locali, risultato di evoluzioni continue, particolarmente significative dopo gli anni Sessanta.
Tra i fenomeni ormai presenti in maniera stabile nel parlato quanto nello scritto: l’uso di gli
per loro: lui e lei in funzione di soggetto; che in funzione di subordinante generico (‘vieni
che ti pettino’); frasi segmentate e scisse; tema sospeso; forma interrogativa come mai? In
alternativa a perché; imperfetto di cortesia (‘ volevo un caffè’); il futuro con valore di
passato (Napoleone sarà esiliato a Sant’Elena); la diffusione dell’indicativo al posto del
congiuntivo nelle completive rette da verbi di opinione e nelle ipotetiche irreali (‘se mi
telefonavi, ci vedevamo’); sono in espansione le forme fra virgole, parentesi o trattini. Sul
piano del lessico, una novità significativa è l’ingresso nel vocabolario fondamentale di
molte parolacce, che dagli anni Novanta compaiono anche nei discorsi di leader politici e
nello scritto.

Si parla anche di geosinonimi, ossia varianti locali dello stesso termine, non parole
dialettali, ma parole italiane che conservano l’impronta dei dialetti. Quello che i linguisti
definiscono italiano locale, un italiano raggiunto partendo dal dialetto, come lo chiamava
Carlo Emilio Gadda (es.: Anguria/Melone/cocomero). I geosinonimi, incluse creazioni
personali e fantasiose, sono la prova dello spazio che gli italiani locali occupano all’interno
della lingua. Segnali di ciò si ritrovano non solo nel lessico, ma anche nell’uso del passato
remoto ancora vitale al centro-sud, e il passato prossimo dell’Italia settentrionale; oppure,
nella diffusione solo toscana della forma impersonale in luogo della prima persona plurale
(‘ noi si va’). L’italiano locale nasce dalla contaminazione. I dialetti sono entrati via via più
profondamente in contatto con l’italiano colto, col risultato di parlare qualcosa che non era
più dialetto, ma non ancora italiano. Questo fenomeno si verifica nel corso del Novecento,
in tutte le aree del paese, con velocità e variabili. Il dislivello tra lingua e dialetto si riduce e
nascono parlate di compromesso. Lo screditamento del dialetto è stato un prezzo da
pagare per consentire a tutti gli italiani di accedere alla lingua nazionale. Il processo ha
però innegabilmente penalizzato i dialetti: la storia linguistica italiana è, in buona parte,
storia della diffusione del toscano letterario (indicato da Bembo come modello) e poi del
toscano parlato (scelto dal Manzoni). Nell’Italiano di oggi, anche in quello più colto, gli
elementi regionali hanno una presenza significativa, perché molti parlanti e scriventi
scelgono di inserirli per aggiungere colore al discorso. Dunque, gli slittamenti tra italiano,
italiano con venature locali e dialetti sono un fenomeno frequente.

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Immettere oggi nelle traduzioni il dialetto non è cosa che si fa senza cautela e
consapevolezza; lo stesso vale con le varianti locali. Una sfida per i traduttori è quella di
restituire i registri diversi che si intrecciano nelle pagine e frasi di molti scrittori.

Dunque, la lingua non è un corpo compatto ma si modifica, adattandosi alle scelte


stilistiche degli scrittori, ma anche in base alle esigenze comunicative dettate dalla
situazione. A un diverso tipo di messaggio corrisponde un diverso tipo di lingua. Per
esempio, esistono linguaggi che sono impiegati da gruppi di parlanti più ristretti rispetto a
chi si serve dell’italiano normale per parlare di determinati settori della conoscenza o
ambiti professionali (Lingue Settoriali). Le varietà linguistiche legate alle particolari
situazioni d’uso, dette anche sottocodici, rientrano in due gruppi: i linguaggi speciali o
specialistici (forniti di lessico particolare non comprensibile ai non addetti ai lavori, es. i
linguaggi delle scienze come la chimica, fisica, medicina, il linguaggio giuridico e della
tecnica); e i linguaggi settoriali, che non possiedono un lessico specialistico, ma sono
impiegati in aree particolari (il linguaggio del giornalismo e degli altri mezzi di
comunicazione e quello della politica).
Un altro aspetto con il quale i traduttori devono confrontarsi deriva dai cosiddetti
tecnicismi collaterali, o usi caratteristici di un certo ambito professionale anche al di fuori di
una precisa necessità comunicativa. Riconoscerli è indispensabile per catturare per
catturare tutte quelle sfumature stilistiche di una pagina letteraria. Prendere una medicina
o assumere una medicina; dare o somministrare una medicina; sentire o avvertire un
dolore; mal di testa o cefalea/emicrania; influenza o episodio influenzale; queste coppie
pur designando la stessa situazione o azione, rimandano a linguaggi diversi, comune il
primo e medico il secondo. Confonderli, in un testo letterario, significherebbe appiattire su
un unico livello quello che nelle intenzioni d’autore è l’alternarsi di voci e registri diversi.
Inoltre, parlando di letteratura e linguaggi speciali, accade anche che gli scrittori non solo
si servano dei tecnicismi, ma ne traggano ispirazione.
Un accenno al parlato della rete: è caratterizzato da brevità, frammentazione, simboli non
alfabetici e rispondono tutti questi aspetti all’esigenza di immediatezza essendo letti in
tempo reale.

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2. IL TESSUTO DELLA LINGUA
La lingua non è fatta semplicemente di parole, ma della loro capacità di combinarsi in frasi
e testi. Accostare, legare, sono operazioni in parte regolate dalla grammatica, in parte alla
libertà di chi scrive. La padronanza della lingua non è il semplice possesso delle parole,
ma la capacità di accostarle e di ordinarle in costruzioni che moltiplicano le possibilità del
significato.

La sintassi, o insieme delle relazioni grammaticali che regolano una frase, contiene già
nella sua etimologia l’idea di unione e quella di ordine. Dunque, parole soggette ad
un’organizzazione propria dell’intelligenza umana. La frase diventa uno spazio
architettonico, composta da vari elementi che servono ad ampliarla con informazioni
aggiuntive: attributi, apposizioni, frasi relative o altre forme che indicano tempi, modi
cause, etc. Entrano nell’ambito della grammatica delle regole: la fonologia (sistema dei
suoni che formano le parole) e le strutture morfologiche, che raggruppano i meccanismi di
flessione, dunque declinazione e coniugazione. Anche la frase semplice ha una sua
struttura portante rigida: accordi tra articoli e nomi, nomi e aggettivi, soggetti e verbi sono
sottoposti alle regole della grammatica, per il suo buon funzionamento. Attorno al nucleo
della frase semplice si dispongono espansioni, o margini, che moltiplicano i contenuti
della frase. Espansioni nominali, come i pronomi e gli aggettivi, ed espressioni di tempo,
causa, concessione. La lingua consente di creare con gli stessi contenuti frasi
indipendenti. Questa proprietà appartiene esclusivamente ai margini, cioè a quei processi
che si collegano a quanto espresso nella proposizione principale e ne arricchiscono il
contenuto. Le subordinate completive, invece, non possono essere staccate e collocate i
una frase indipendente, poiché obbediscono alla grammatica delle regole, mentre i margini
entrano nell’ambito della grammatica delle scelte, perché sono espresse in forme decise di
volta in volta dallo scrivente che è libero di selezionare un’opzione che risponde alle sue
esigenze comunicative. I margini possono dunque separarsi dalla frase nucleare e formare
una frase indipendente.

Vedi es. di Levi: ‘Faceva insomma tante cose così strane che era interessantissimo starlo
a guardare’. Questa frase contiene due processi, o azioni di senso compiuto: ‘Faceva
tante cose strane e nuove’ e ‘Era interessantissimo starlo a guardare’. Il ponte che li
unisce è un motivo, e lo scrittore utilizza per esprimerlo una proposizione consecutiva per
intensificare un rapporto causale. Ma la sua è solo una delle scelte possibili, perché il
ponte tra i due non è regolato da una norma grammaticale ma dipende dalla decisione del
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parlante. Avrebbe potuto scrivere: ‘Faceva tante cose strane e nuove. Dunque era
interessantissimo starlo a guardare’ o ‘ Perché faceva tante cose strane e nuove, era
interessantissimo guardarle’. Con soluzioni di coordinazione o subordinazione o
trasformarle in due frasi autonome per formare un testo.

Riguardo, a tal proposito, la definizione di testo, questo è una produzione


linguistica dotata di senso compiuto, fatta da un emittente e ricevuta da un destinatario in
un contesto determinato, con l’intenzione e l’effetto di comunicare. L’etimologia è textus,
tessuto, poi intreccio, è participio passato del verbo texere. Una delle frequenti metafore
artigianali attraverso le quali il latino trascina un vocabolo dall’ambito pratico a quello
intellettuale. Il passaggio si applica all’operazione dello scrivere in questo caso: il testo è
un tessuto o intreccio di parole e di frasi legate in unità di senso. È il tessuto linguistico del
discorso. Quindi il testo di distingue dalla frase non tanto in senso quantitativo (esistono
frasi molto lunghe e testi molto brevi), ma in senso qualitativo. Il testo non è unificato da
connessioni grammaticali, ma deriva la sua struttura unitaria dal fatto che gli enunciati che
lo compongono si legano tra loro in una rete di relazioni concettuali, fino a formare un
messaggio. Condizione imprescindibile perché un testo sia tale è la coerenza, cioè la sua
unità di significato, e la capacità delle sue parti di integrarsi in un tutto. La coerenza è
spesso sostenuta da segnali che rendono evidenti i rapporti tra i diversi enunciati;
proprietà che prende il nome di coesione, cioè l’insieme dei mezzi linguistici che
connettono gli enunciati e le parti di un testo. La coesione è la forma linguistica della
coerenza.

Si distinguono due categorie di elementi coesivi: le forme coesive vere e proprie che
richiamano un elemento già comparso in precedenza (pronomi, iperonimi, iponimi,
ripetizioni, riformulazioni); e elementi connettivi che collegano le diverse parti evidenziando
i rapporti logici (congiunzioni, avverbi, particelle modali e anche interi enunciati che
marcano passaggi –es. per passare ora ). Lo scrittore fissa quindi una relazione
consecutiva che il lettore interpreterà secondo le direttive sintattiche fornite dallo scrittore.
Queste due modalità prendono il nome di codifica, che agisce quanto l’autore controlla le
relazioni all’interno del testo, e di inferenza, che è l’azione interpretativa da parte del
lettore. Ad un grado più alto di codifica corrisponde un minore grado dello spazio di
inferenza da parte del lettore e viceversa, una codifica debole o inesistente fornisce ampi
margini di inferenza. Codifica e inferenza sono graduabili attraverso la sintassi entro lo
spazio della frase, attraverso i nessi coesivi. Codifica e inferenza si graduano in modo

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diverso anche a seconda dei diversi tipi di testi. Anzi, è possibile classificare i testi in base
alla rigidità del vincolo interpretativo imposto dall’autore. Agli estremi della sala si
collocano da un lato i test rigidi, come sono quelli scientifici, tecnici o giuridici che non
possono concedere spazio alla libera interpretazione del lettore; dall’altro i testi elastici e
poco vincolanti, che includono i testi letterari. Questo modello nasce per proporre una
classificazione di diversi tipi di testi. Al traduttore tocca riconoscere e riprodurre le scelte
comunicative dell’autore in tema di codifica e inferenza. La presenza o assenza di
connettivi determina il livello di codifica di un testo.

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3. DIRE DI PIÙ CON LE STESSE PAROLE
Spostare le parole all’interno delle frasi è un gioco combinatorio che moltiplica le
possibilità espressive, meccanismo utile per aggirare le regole che, in italiano, impongono
una posizione fissa al soggetto e al complemento oggetto. Le frasi segmentate non sono
dunque un errore da evitare, bensì una risorsa che va sfruttata.

‘Sao ke kelle terre …’- Questa frase è datata all’anno 960 dC e viene considerata il primo
documento che attesta l’uso consapevole del volgare, dunque l’atto di nascita dell’italiano.
Si tratta di un verbale steso in latino da un notaio che riporta la testimonianza di una
persona che si esprime utilizzando il volgare. Utilizza anche una risorsa espressiva che ha
attraversato i secoli ed è, ancora oggi, vitale: l’anticipazione del complemento oggetto
(‘kelle terre’) a sinistra del verbo, in modo di dirigere l’attenzione dell’ascoltatore
sull’elemento anticipato. Un italiano semplice, con tratti locali già marcati (forme vicine a
ke e kelle sono presenti ancora oggi in alcuni dialetti meridionali) e con un ordine delle
parole secondo la sequenza che meglio esprime quello che vuole dire. L’intervento
sull’ordine degli elementi costituenti di una frase per scopi comunicativi è una risorsa tipica
del volgare, limitata e regolata entro un sistema preciso di possibilità. Era invece
sconosciuta al latino classico, dove la libertà di collocazione era molto più ampia, perché
le funzioni logiche delle parole non erano determinate in base alla loro posizione, ma dai
casi: la desinenza distingueva non solo il genere e il numero, ma anche la funzione svolta
da ciascun termine. Nella pratica, il latino classico tendeva a privilegiare l’ordine SOV
(soggetto-oggetto-verbo), mentre nei secoli tardi e nel latino parlato si va affermando
l’ordine SVO, poi passato all’italiano. Caduto il sistema delle declinazioni, l’ordine acquista,
in italiano, il ruolo di segnalare la funzione logica delle parole, che si riconosce anche
attraverso la loro posizione nella frase. E la libertà di movimento che si limita. Più
specificamente, i sintagmi nucleari, (ossia necessari affinché la frase possa realizzarsi in
modo completo, che sono spesso il soggetto e il complemento oggetto) hanno di solito
posizione fissa; mentre, i sintagmi extranucleari o elementi facoltativi godono di maggiore
libertà di movimento.

L’italiano tende a trasmettere le informazioni in modo lineare, presentando prima il


tema o topic, quindi il rema. Dunque in una frase normale come “Andrea aspettava nelle
sue stanze un’amante”, il soggetto o tema precede il verbo e il complemento segue
entrambi. L’insieme di verbo e complemento costituisce il rema. La specificazione locale
‘nelle sue stanze’ potrebbe invece essere collocata anche in altre posizioni della frase.
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Agire sull’ordine dei costituenti per i quali la grammatica richiede una posizione fissa
significa attivare un dispositivo che aggira le regole, e imprime alla frase una particolare
sfumatura comunicativa. Questa parziale libertà di intervento si basa su due
caratteristiche: il ricco sistema di flessione dei verbi italiani, che consente quasi sempre di
risalire al soggetto; e l’ampia disponibilità di pronomi clitici (mi, ti, gli, lo, le, li, ci, vi, si, ne)
che chiariscono il rapporto tra verbo e complementi anche a distanza. LE frasi che
sfruttando queste proprietà, alterano a fini espressivi l’ordine canonico dei componenti
principali si definiscono frasi marcate. Alcune forme di marcatezza sono più consuete,
come quella dello scambio di posto tra soggetto e verbo e la frase passiva (che ha il
vantaggio di non nominare l’agente, ma poco usata nell’italiano di oggi). Ci sono però altre
risorse:

Dislocazione: Queste risorse sono le frasi segmentate; l’italiano dispone di costruzioni,


infatti, che evidenziano il tema, quali le dislocazioni, e di costruzioni che evidenziano il
fuoco (frasi scisse). La dislocazione modifica la posizione dei costituenti che compongono
la frase; la forma più diffusa è quella che sposta uno o più complementi a sinistra del
verbo: anticipandone l’apparizione si dà loro maggiore risalto, che non avevano in una
struttura non marcata. Es. ‘Ella lascerà entrare Tonio e suo fratello’ diventa ‘Tonio e suo
fratello, li lascerà entrare’ - Il complemento oggetto viene anticipato e poi ripreso con il
pronome clitico li, (ripresa pronominale obbligatoria quando l’elemento dislocato a sinistra
è un complemento oggetto; facoltativa se si anticipano altri complementi). La dislocazione
a sinistra è dunque utile per creare coesione all’interno dei testi. Le dislocazioni furono a
lungo guardate con sospetto sovvertitore e la tradizione grammaticale ostile alle forme
marcate ha resistito a lungo. Pietro Bembo, ne aveva analizzato alcuni esempi da
Boccaccio e da Petrarca, senza condannarli. Fortunatamente, gli scrittori sperimentavo e
le dislocazioni continuano a circolare nei testi di tutti i secoli, da quelli popolari a quelli di
registro altro.

Accanto alla dislocazione a sinistra esistono altri spostamenti utili per imprimere alle frasi
una diversa intensità comunicativa. Prima di tutto la dislocazione a destra. La frase ‘io le
so tutte queste cose’ corrisponde a un’ipotetica forma non marcata ‘io so tutte queste
cose’. Si mantiene il topic o informazione nota (‘queste cose’) alla destra della frase,
anticipandolo però grazie al pronome clitico le, che si inserisce all’interno del rema.
Spesso in casi come questi è frequente la presenza di una virgola dopo il rema (‘io le so,
tutte queste cose’), che riflette la frattura caratteristica.

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Altra risorsa coesiva, lo Spezzare o Frase scissa: mentre le dislocazioni lavorano sui
complementi, esiste una forma che consente di intervenire anche sulla posizione del
soggetto. È la frase scissa, formata da una reggente copulativa priva di soggetto, seguita
da una subordinata introdotta da che. Es. ‘In Italia, siamo noi che rappresentiamo la
scuola’. Varianti della frase scissa sono infine quelle che utilizzano il cosiddetto ‘C’è
presentativo’, (es, ‘c’è che mi sono stancato di te’).

La frase scissa esiste anche in inglese (cleft sentence) e andrà sempre considerata
la possibilità di riprodurla. Ma esistono anche tipi di inversione che non hanno
corrispondenza in italiano. Quindi, la sfida sarà isolarne la finalità comunicativa e proporre
una costruzione che garantisca l’enfasi. Talvolta, è possibile ricorrere a una soluzione
meno incisa, cioè marcare la separatezza tra due segmenti tramite l’inserimento di una
virgola. La virgola agisce così da segnale di marcatezza. Nella traduzione dall’inglese, per
restituire l’enfasi che alcuni scrittori segnalano con l’uso del corsivo, specialmente nei
discorsi diretti dei personaggi, la virgola può essere una soluzione utile. Es. ‘What’s your
answer? What do you think I should look forward to?’, in italiano si potrebbe fare ricorso
all’uso di una virgola che separa: ‘Tu, cosa rispondi? Tu, cosa pensi che dovrei sperare?’.

Le frasi segmentate sono, dunque, una risorsa, pienamente grammaticale e


utilizzabile a quasi tutti i piani dell’italiano scritto. Ma esistono forme che chiedono un
livello di attenzione più alto. Ad es. nell’espressione comunissima ‘a me mi piace’, il
complemento di termine iniziale propone il tema, segue l’informazione che riprende il
complemento di termine. Efficace nel comunicare l’enfasi. Da valutare con pari attenzione
è poi il caso di una versione di dislocazione a sinistra denominata tema sospeso o
anacoluto, in cui un complemento viene anticipato a sinistra del verbo, ma perde la
preposizione che lo accompagna. Es. ‘ Non sapete che i soldati è il loro mestiere di
prender le fortezze?’- Per il traduttore, l’anacoluto sarà quindi possibile quando si presenti
l’esigenza di rendere un linguaggio non solo agrammaticale, ma anche informale.

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4. VOCABOLARI, SENZA I QUALI LA VITA PERDE COLORE
I vocabolari non si limitano a spiegare significati; informano anche sull’origine delle parole
e la loro storia. Vengono impiegati nella lingua della comunicazione quotidiana; elencano
sinonimi e soprattutto evidenziano le differenze tra termini solo apparentemente
intercambiabili. Esistono diversi tipi di vocabolari. L’Italia vanta alcuni indiscussi primati.
Primato cronologico: quello della Crusca fu il primo vocabolario di una lingua moderna
realizzato secondo criteri scientifici. Primato della varietà e della produzione. L’Ottocento
viene definito anche secolo dei vocabolari. In nessun paese i dibattiti intorno ai vocabolari
sono stati lunghi, accesi e culturalmente importanti come in Italia. Il dottor Johnson, nel
suo grande dizionario inglese, alla voce lessicografico, dava la definizione di “un
mestierante inoffensivo – (a harmless drudge)”, mentre i lessicografici italiani erano
impegnati a distinguere tra uso e buon uso della lingua, tra ben parlanti e mal parlanti, tra
norma e trasgressione. Un lavoro che dura secoli quello del lessicografico, che continua
anche oggi e che ha dotato l’italiano di eccellenti vocabolari.

Il vocabolario come ausilio per decifrare parole difficili o ambigue, come mappa del
linguaggio letterario, come fonte di lingua per gli scrittori, insieme a strumento di verifica di
dubbi grammaticali (ortografia, pronuncia, morfologia). Non esiste però un dizionario che
sia in grado di soddisfare tutte le esigenze. Esistono invece diversi tipi di vocabolari che
rispondono ai vari bisogni. Una delle scelte che definiscono un vocabolario è il modo di
affrontare il neologismo, o parola nuova che fa la sua prima apparizione in una lingua in un
determinato momento della storia; e arcaismo, o parola vecchia, scomparsa o poco usata.
Le parole hanno una data di nascita. La questione è più complicata quando si tratta non di
nascita, ma di morte fino a sparire. Un processo che si dispiega in tempi lunghi.

Il più antico vocabolario di una lingua moderna fondato su teorie lessicografiche


scientifiche fu dunque quello dedicato all’italiano: il Vocabolario della Crusca, pubblicato
a Venezia nel 1612. Mentre il vocabolario dell’Académie Française è del 1694; il
Diccionario de la lengua castellana della Real Academia Española fu pubblicato tra 1726-
1739 e quello di Johnson nel 1755- La Crusca ha una caratteristica destinata a incidere
profondamente sulla storia della lingua italiana per i secoli a venire: in adeguamento alle
teorie linguistiche formulate da Pietro Bembo quasi cent’anni prima, il vocabolario accoglie
parole che provengono non dalla lingua parlata, ma soltanto da fonti letterarie, e
seleziona queste fonti secondo il criterio della toscanità e dell’antichità degli autori. Anzi,
l’impostazione del Bembo fu integrata con le idee dell’accademico Salviati, cui si deve la
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scelta di includere, accanto agli scrittori somi del Trecento, anche gli autori minori, i
volgarizzamenti, le scritture devote. Pochi gli autori post-trecenteschi e soprattutto
fiorentini come il Macchiavelli o fiorentinizzati come l’Ariosto. La Crusca ebbe quattro
nuove edizioni, nel 1623 la seconda, la terza nel 1691 sino alla quinta interrotta alla lettera
‘O’ tra 1863-1923. A partire dalla terza edizione del 1729-1738 si introducono alcuni
cambiamenti: entrano nel vocabolario anche voci, prima escluse, del linguaggio scientifico
della terminologia tecnica delle arti e dei mestieri, e un gruppo di espressioni dell’uso vivo.
Nonostante queste progressive aperture la Crusca rimane un baluardo del
conservatorismo linguistico e il modello di un dizionario che registra l’uso degli scrittori dei
primi secoli piuttosto che quello del parlato vivente. Tramontava nel Novecento, l’idea che
la lingua letteraria debba fondarsi sull’imitazione dei modelli ideali e lontani. In questo
senso , altri due vocabolari storici sono ancora strumenti essenziali per scrivere in italiano.
Il primo è il Tommaseo-Bellini, Torino 1865-1879; la firma di Tommaseo è riconoscibile
dalla sigla con la lettera T, anche per gli umori personali, polemiche e aneddoti contenuti
alla sua voce. Inserire nei dizionari opinioni e commenti è un’abitudine che pare, oggi,
lontanissima. Ma era invece comune a molti lessicografi del passato. Nel dizionario
Tommaseo-Bellini convivono lingua della tradizione e lingua dell’uso toscano-fiorentino. Il
dizionario storico più recente, tra 1961-2002, è il Grande dizionario della lingua italiana,
o il Battaglia, che pone una particolare attenziona al Novecento, pur fondati sulla lingua
letteraria di tutti i secoli. Il vocabolario si è gradualmente aperto a linguaggi giornalistici,
scientifici e d’attualità.

I dizionari hanno una doppia finalità, addirittura si orientano verso due categorie di
pubblico: verso chi legge gli autori antichi e verso chi scrive testi destinati alla diffusione
nel presente. Tocca al Manzoni impostare il problema su nuove basi. Nella relazione
Dell’Unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), lo scrittore spiega che lo scopo di
un vocabolario si biforca in due direzioni ben distinte: da una parte diviene ‘un mezzo per
intendere gli scrittori di tutti i tempi’; dall’altra serve a ‘rappresentarne l’uso attuale di una
lingua viva’. Nasce il Novo vocabolario della lingua italiana, tra 1870-1897; un
vocabolario che trascura la tradizione letteraria e raccoglie parole dell’uso vivo fiorentino,
con esempi prelevati non dagli scrittori, ma dal parlato. Da queste premesse discendono
altri vocabolari di fine secolo dedicati alla lingua contemporanea (come il Sabatini-Coletti
(DISC); Grande Dizionario Garzanti; lo Zingarelli che nel 2017 ha compiuto cent’anni di
vita e che ha la caratteristica di proporre ogni anno una ristampa aggiornata.

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Tutti questi strumenti offrono, accanto a definizione, classificazione grammaticale ed
etimologia, una serie ampia di informazioni, con ricche indicazioni grammaticali, note
d’uso. Etc. I vocabolari contemporanei si aggiornano inoltre includendo in ogni edizione
parole nuove, selezionate tra le molte che appaiono ogni giorno in base alla loro
probabilità di stabilizzarsi e d entrare a pieno titolo nella lingua del futuro vicino.
Frequenza e disponibilità; spesso non coincidono, cioè, ci sono parole ad alta
disponibilità, cioè note a una percentuale di parlanti superiore al 98%, che hanno valori di
frequenza bassissimi come canarino, forchetta, giraffa. I vocabolari, ormai da secoli,
offrono anche indicazioni sul registro dei termini, le cosiddette marche d’uso. Tra le sigle
più utilizzate troviamo: ant. (antico), lett. (letterario); region. (regionale); dial. (dialettale);
volg. (volgare). L’insieme delle parole fondamentali, di alto uso e di altra disponibilità
costituisce invece il vocabolario base dell’italiano.
Un altro tema al quale i vocabolari dell’uso di oggi dedicano particolare attenzione,
è la registrazione delle polirematiche, cioè parole composte da più termini, separati ma
inscindibili per raggiungere un determinato significato (Es. sala d’attesa; cavallo di
battaglia), che non tollerano di essere spezzate.
Al momento dell’Unità, gli italiani parlavano dialetto o un italiano approssimativo
raggiunto attraverso il dialetto; e le persone colte scrivevano secondo il modello dei grandi
autori del passato. Stabilito che la lingua della nazione sarebbe stato il toscano, si trattava
di insegnarlo a tutti. Ebbe molta fortuna in epoca post-unitaria una tipologia specifica di
vocabolari rivolti non a chi conosceva una parola e ne cercava il significato o gli usi, ma a
chi aveva in mente un oggetto o un concetto, ma non possedeva la parola per esprimerlo.
In soccorso di costoro si diffusero dunque i vocabolari metodici o nomenclatori, che
raccolgono attorno a un vocabolo una serie di altri termini che gli sono legati per relazioni
di vario tipo; nell’Ottocento si diffusero vocabolari metodici dedicati alle voci specialistiche
di arti e mestieri, o a quelle della vita domestica.
Il lessico di una lingua non è solo un inventario, ma un insieme di combinazione. Non si
muovono sole, ma si combinano tra loro. Un aspetto della fantasia linguistica sta nel
creare significato aggiuntivo proprio aggregando parole che non è ovvio pensare insieme.
Queste combinazioni consolidate prendono il nome di collocazioni. La collocazione si
distingue da altri accostamenti. Es. ‘mangiare di gusto’. Un’altra caratteristica delle
collocazioni è l’assenza di equivalenti formali immediati nelle varie lingue. Spetta al
traduttore riconoscere e riprodurre, anche avvalendosi dei dizionari. Sarà opportuno
ricorrere agli specifici dizionari delle collocazioni nella lingua di partenza e in italiano.

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5. PARLARE ARTIFICIALE
Parole semplici e naturali da un lato, parole pompose ed eccessive dall’altro sono due
linee che corrono parallele nella storia dell’italiano; se ne discute, arrivano scrittori che
combattono l’artificio, lo bandiscono dalle loro pagine e altri continuano a usarle. Questo
avveniva nell’Ottocento, mentre si faceva strada l’esigenza di una lingua moderna,
emancipata dal peso della tradizione letteraria e più vicina all’uso: parole e forme antiche e
letterarie, poetiche, che riempivano libri, ma erano sempre più lontane dalla vita
quotidiana. Alessando Manzoni riscrive la seconda edizione dei Promessi sposi nel
fiorentino dei suoi tempi e lo depura da quei termini ed espressioni milanesi, anche molte
altre di tradizione letteraria, sostituendole con altre del linguaggio comune. Pochi esempi:
aere-aria, bamboli-bambini, amaritudine-amarezza, copia-quantità, perdonanza-perdono.
Ma proprio negli stessi anni, e poi ben oltre, altri autori di romanzi storici (era il genere alla
moda), e i traduttori, utilizzano paroloni già allora inattuali e arcaicizzanti. Una patina
aulica che è lontana dalla naturalezza, ma che i lettori erano abituati a riconoscere come
un sistema tipico della letteratura del tempo. Complicazioni, innalzamento di registro,
intrusione poetiche che appartengono insomma solo all’italiano vengono immesse in
traduzioni dall’inglese e che sono spesso assenti nell’originale. La scrittura si è appoggiata
per secoli ai grandi modelli del canone trecentesco, mentre il parlato si evolveva, si
sporcava, si modernizzava senza rapporto diretto con la lingua dei libri. Già alcune decine
d’anni prima di Manzoni, i pensatori illuministi lombardi si erano dichiarati paladini di una
lingua aderente alle cose, strumento di espressione aperto a tutte le parole, vecchie e
nuove, italiane o straniere, che sapessero comunicare al meglio un’idea. Unico requisito,
che tali parole fossero comprensibili agli uomini colti di ogni parte d’Italia (così scriveva il
Verri). Ma la vera rivoluzione resta quella del Manzoni, perché le sue idee, prevalsero. Ci
sono ragioni storiche. La prima: subito dopo l’Unità d’Italia il vecchio scrittore viene invitato
dal ministro della Pubblica istruzione, Emilio Broglio, a pronunciarsi su quale debba essere
la lingua del nuovo Stato, e quali i mezzi per diffonderla. La risposta di Manzoni, contenuta
in un breve scritto pubblicato nel 1868 col titolo già citato Dell’unità della lingua e dei
mezzi di diffonderla, indica la parlata di Firenze come lingua nazionale, e suggerisce la
sua diffusione nelle scuole attraverso un vocabolario non storico, ma dell’uso presente.
Una scelta di rottura, che sposta l’attenzione dalla lingua della tradizione letteraria,
raccolta nei vocabolari storici fino ad allora correnti, alla lingua attuale, cui saranno
dedicati, negli anni a venire, numerosi dizionari, tra i quali quello nato per diretta
ispirazione manzoniana, il Giorgini-Broglio. Il secondo fattore che determinò la prevalenza
13
delle posizioni di Manzoni è la scuola: gli insegnanti di fede manzoniana furono molti e
molto attivi; i Promessi Sposi, entrarono presto nei programmi e ci rimasero, mentre si
affermava l’enorme successo commerciale di altri due libri che ne replicano le opzioni
linguistiche fiorentine e diffondono espressioni idiomatiche del toscano vico: Pinocchio di
Collodi (1883) e Cuore di Edmondo De Amicis (1886). Le critiche non mancarono,
dirigendosi soprattutto contro l’opportunità di imporre dall’altro un modello linguistico unico
a un paese da secoli diviso; e contro l’idea che il rinnovamento della lingua dovesse
passare per libri e vocabolari, piuttosto che per una nuova modernità sociale e culturale.
Tuttavia, attraverso il fiorentino contemporaneo, una lingua viva e parlata, trovano
finalmente posto nella scrittura parole ed espressioni meno antiche e letterarie, più
naturali. Ma il legame con la tradizione letteraria resta duro a morire. Accanto al parlato
toscano dei maestri e ai libri di testo toscani, sono utilizzate ancora a lungo nelle scuole
grammatiche ottocentesche, di impostazione tradizionale. E, per contro, l’acquisizione del
fiorentino è un percorso non immediato, sia per i parlanti, sia per gli scrittori non toscani.
L’Italia unita è un paese di analfabeti, che parlano dialetto. Nel 1861 la percentuale di
analfabetismo è del 75%, mentre meno del 10% dei cittadini è in grado di sostenere una
conversazione in italiano. L’italiano (il fiorentino promosso a lingua nazionale) inculcato a
scuola ai bambini abituati al dialetto sembra, di nuovo, una lingua pomposa e così per
diversi decenni tra parlare (spontaneo e informale) e scrivere (formale e artificiato) erano
un problema. In effetti la scuola, nell’intento di insegnare l’italiano a chi non lo sapeva, ha
assunto per decenni posizioni normative e repressive. A lotta per estirpare i dialetti, che si
rafforza in epoca fascista in parallelo col bando delle lingue straniere, prosegue fino al
secondo dopoguerra. L’italiano che si insegna a scuola, escludendo i dialetti, ignora la
lingua parlata: nei programmi varati nel 1965 dal ministro Giuseppe Ermini, si insiste
sull’insegnamento della lingua nazionale. Oggi il 90% della popolazione parla italiano: non
il fiorentino di Manzoni o di Pinocchio, ma una lingua variegata che assimila gli apporti
delle parlate regionali e delle lingue straniere, e un italiano che ha strati diversi, dai codici
specialistici e settoriali ai gerghi. Sono arrivati la radio, la televisione, le canzoni, internet e
i social media. E la letteratura ha perso da tempo il suo ruolo di modello linguistico. Tanti
scrittori, come Calvino, lavorano sull’italiano per renderlo moderno e agile, per ripulirlo di
scorie fuori moda. Mentre circola la lingua, meno sorvegliata, dei mezzi di comunicazione,
e quella dei libri di intrattenimento. Che , guarda caso, sia per trascuratezza, sia pe
insicurezza grammaticale, sia per tendenza conservativa propongono un italiano che è

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spesso malato di perbenismo, rispettoso delle regole grammaticali – anche quelle
superato - forbito e vecchiotto, dal ‘sound anticato’.
La resistenza dei pronomi egli, ella, essi, esse al posto di lui, lei, loro. Un
anacronistico divieto scolastico che, a tratti, ancora sopravvive è una probabile ragione. E,
certo, agisce il una tradizione grammaticale che, per secoli, ha sanzionato l’uso dei
pronomi complemento in funzione di soggetto. Nella prosa ottocentesca dominano in
generale egli, ella, essi, anche se lei, lui, loro sono presenti, ma di solito collegati a parlanti
popolari o a situazioni colloquiali. Una presa di posizione radicale arriva con Manzoni. Nel
passaggio dalla prima alla seconda edizione dei Promessi sposi si sopprimono i pronomi
soggetto egli, ella, essi introducendo frasi a soggetto zero, o utilizzando lei, lui, loro come
soggetti. Manzoni percepisce dunque l’alternativa come opposizione non a livello
linguistico, bensì a livello stilistico. Dunque, non è Manzoni a introdurre lui in funzione di
soggetto, che era già presente nella prosa ottocentesca; è lui però ad amplificarne l’uso. In
sintesi, l’uso di lui, lei, loro in funzione di soggetto è oggetto non solo accettato ma
rappresenta lo standard dell’italiano, corretto, mentre egli va riservato ale scritture molto
formali o a quelle tecniche.
Non succede solo coi pronomi. La coppia ‘aspettare/attendere’ entra in un
gruppo abbastanza folto di alternative simili (arrivare/giungere; finire/terminare;
recarsi/andare; capire/comprendere; recarsi/andare; conseguire/prendere; sorbire/bere). Il
primo termine della coppia è sempre il più comune, il secondo quello un po’ più formale, o
letterario. Gli allotropi (o forme diverse di una stessa parola) marcati da un diverso livello
linguistico sono molto frequenti anche nell’italiano di oggi. Quando il sinonimo di registro
più alto è frequente, si ha un colore formale che, se non risponde alle intenzioni del testo
fonte, finisce per proporre un italiano infarcito. Il sussiego verbale spesso smaschera chi
maneggia l’italiano senza sicurezza e cerca di farsi scudo del parlar difficile. La
nobilitazione è anche una delle tendenze deformanti tipiche della traduzione. L’esempio
viene fornito da due saggi che si sono occupati dello stesso tema, le traduzioni del
Castello di Franz Kafka. Uno di Kundera – “Una Frase”- e l’altro di Coetzee – “Translating
Kafka”. Kundera sottolinea, confrontando il testo originale con tre diverse versioni
francesi, soffermandosi sulle scelte lessicali dei traduttori e sulla loro mancata aderenza
all’originale. Assenza di precisione, con tendenza a sinonimizzare là dove l’autore ripete
la parola; questo è un pericolo poiché si può arrivare alla perdita del valore semantico e
ritmico che la rinuncia a ripetizioni introdotte consapevolmente dall’autore comporta; il
sovvertimento di personalità stilistica. La tentazione che il traduttore deve evitare –

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sottolinea Coetzee- è quella di introdurre una ricchezza linguistica che è in realtà assente
nel testo originale.
Altro è il caso di un autore che utilizza, con consapevole fine stilistico, una
lingua in falsetto. Magari per restituire la voce peculiare di un personaggio. Come in David
Copperfield (1850) di Dickens, in cui un secondario personaggio come Mr Micawber entra
in scena utilizzando un discorso diretto attraverso un inglese pomposo e caricaturale. Qui
sì che il traduttore potrà e dovrà attingere al repertorio più démodé dell’italiano per
riportare la parlata stravagante e pomposa del personaggio attraverso la caricatura del
parlare artificiale. Quindi in traduzione, la lingua aulicheggiante va bene se il testo di
partenza la richiede.
Un caso particolare della lingua troppo artificiosa è quello delle traduzioni dei
classici antichi. Il fenomeno si collega all’influenza conservativa della scuola. I classici
tradotti oggi ai aggiornano poco e parlano piuttosto un metalinguaggio ad altissimo tasso
di standardizzazione, che si trasforma in una varietà di anti-italiano. Nulla a che fare con
quella lingua, musicale. Quella dei classici è dunque una varietà ipercaratterizzata di anti-
italiano, con uso di un lessico arcaico e calchi sintattici impensabili oltre lo spazio della
traduzione che creano un linguaggio accettato come “lingua dei greci e dei latini in
italiano”.
Parlando di parole e di forme pompose, anticheggianti, c’è un altro modo di
allontanare la scrittura dalla lingua realmente parlata. Lo ha denunciato Italo Calvino in un
saggio cui titolo è diventato proverbiale; L’Antilingua. Si veda l’esempio del brigadiere
davanti alla macchina da scrivere che trascrive burocraticamente quanto l’interrogato
seduto davanti a lui dice, rispondendo alle domande in merito ad un furto di vino
(‘avviamento dell’impianto termico’ in loco di ‘accendere la stufa’; ‘quantitativo di prodotti
vinicoli’ invece di ‘ tutti quei fiaschi’; ‘pasto pomeridiano’ al posto di ‘cena’). Calvino
sottolinea come molti traducono la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati,
funzionari, ministeri, redazioni di giornali, telegiornali. Fuga di fronte a ogni vocabolo che
abbia un significato; l’italiano di chi non sa dire <<ho fatto>> ma deve dire <<ho
effettuato>>. La lingua viene così uccisa. Quindi, come dice lo scrittore, sembra quasi che
si abbia paura dell’italiano semplice e normale. L’italiano burocratico è legato a una svolta
sociale importante dell’Italia novecentesca. Negli anni sessanta, mentre il paese si
modernizza, anche la lingua cambia. È Pier Paolo Pasolini a cogliere i segni del nuovo,
argomentando che, per la prima volta nella storia, i luoghi di elaborazione della lingua non
sono più le Università, ma le aziende; e che il suo centro di irradiazione non è più Firenze,

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ma le città del Nord. Scompaiono i dialetti e si diffonde il linguaggio tecnocratico. Il
concetto di antilingua si sviluppa in un contesto storico preciso, definito dai mutamenti
socio-politici dell’Italia del boom economico. Molte traduzioni non sono immuni da forme di
questo linguaggio: antistante e retrostante, sembrano ancora preferibili a davanti e dietro;
lo stesso per il verbo fare. E capita spesso che l’antilingua si insinui non nella traduzione,
ma nella revisione. L’antilingua, come la lingua pomposa e artificiale, è ormai da decenni
oggetto di prese in giro, accuse da parte di grammatici e scrittori. Ma resiste. Questo tipo
di lingua non è alta, è anzi spesso quella impacciata e insicura dei nuovi semicolti.

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6. L’ITALIANO È AMMALATO (NON GRAVE) DI CONGIUNTIVITE
‘Sono certo che si usa così’: la frase è corretta. Le grammatiche contemporanee
concordano nello stabilire che nelle completive ( Le completive sono frasi subordinate che
svolgono la funzione di ➔ soggetto, oggetto diretto (➔ oggetto) o complemento indiretto
del verbo della frase reggente, come in: che sono stanchi [soggetto] è evidente) rette da
verbi, nomi o aggettivi che esprimono certezza, sicurezza, consapevolezza l’indicativo
prevale sul congiuntivo Le cose non stavano diversamente in passato: negli anni ottanta
dell’Ottocento la grammatica raccomandava l’indicativo quando il verbo reggente indica
percezione sicura, certezza. Tuttavia, nell’Italiano di oggi, dunque anche nella pratica della
revisione editoriale, la questione del modo verbale nelle completive si pone spesso. Il
congiuntivo non sta sparendo dall’italiano, ma è utilizzato con frequenza in maniera
ragionevole nei diversi registri della lingua scritta e parlata. Il problema è che spesso sono
in esubero. Spesso l’insicurezza, la paura di sbagliare aumenta il suo uso. Da un lato
esistono regole grammaticali chiari; dall’altro forme diffuse di trasgressione. Cominciamo
dalle regole; nella lingua letteraria, formale o controllata, il modo della completiva è
condizionata dal verbo reggente. La grammatica di Luca Serianni propone un elenco di
verbi che reggono il congiuntivo (tra gli altri, accettare, aspettare, attendere, augurare,
chiedere, credere, desiderare, decidere, domandare, dubitare, immaginare, permettere,
preferire, sperare, suppore, volere, supporre); e uno di verbi che reggono l’indicativo
(accorgersi, affermare, dichiarare, dimostrare, dire, sentire, sapere, scoprire, sentire,
sostenere, spiegare, vedere, rispondere). Ci sono poi verbi che a seconda del significato,
sono seguiti dall’uno o dall’altro modo. Per esempio, capire, che nel senso di ‘rendersi
conto’, regge l’indicativo (ES. ‘Capisco che sei stanco’); nel senso di ‘trovare naturale’
regge il congiuntivo (ES. ‘Capisco che tu abbia fretta di andartene’). Il verbo ‘dimostrare’
regge l’indicativo.
Spesso in fase di editing molti congiuntivi di verbi che non lo richiedono, usati non
correttamente dai traduttori, spesso come esito di distrazione, vengono sostituiti con
indicativi. Ma altre situazioni sono più complesse e richiedono maggiore riflessione. Il
congiuntivo ha valore nel determinare il senso della dipendente solo quando la scelta tra
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indicativo e congiuntivo è davvero libera. A volte l’uso del congiuntivo può suggerire un
innalzamento di registro e non una sfumatura semantica di incertezza, quindi un
innalzamento di registro. L’uso del congiuntivo diventa, per molti traduttori, un effetto
dell’ipercorrettismo: uno scrivente che utilizza il congiuntivo in luogo dell’indicativo è forse
lievemente insicuro delle proprie competenze linguistiche e sente che il congiuntivo è
l’opzione più colta, la scelta meno rischiosa. Chi usa troppi congiuntivi spesso predilige le
varianti meno comuni (tipicamente, recarsi al posto di andare), le parole ricercate, le
marche burocratiche. In un esempio come: “It was already decided he was a suitable
match for her” tradotta come: “Era stato già deciso che fosse un buon partito per lei”;, il
verbo decidere regge il congiuntivo quando significa ‘disporre’, l’indicativo quando significa
‘rendersi conto’. In tal caso meglio optare per “Che era un buon partito”. Quando viene
accertato che la regola grammaticale è stata violata, la visione dell’editor si impone su
quella dell’autore o del traduttore, anche a rischio di violenza.

A MARGINE

TRATTINO: C’è un segno molto diffuso nella prosa inglese, ma qualche volta problematico per chi

traduce in italiano: il trattino. Che va, prima di tutto, distinto dal tratto breve (o trait-d’union usato

per aggregare singole parole come week-end o centro-sinistra); il trattino, o lineetta (dash in

inglese) è il tratto lungo, che lavora entro lo spazio della frase. Nel sistema di punteggiatura

anglosassone il tratto lungo ha un posto ben chiaro: “A dash is a mark of separation stronger than

a comma, less formal than a colon, and more relaxed than parenthesis). In italiano è normale l’uso

del doppio tratto, in apertura e in chiusura, per isolare un inciso. Il tratto che apre e non chiude è

invece un segno a lungo trascurato dalla tradizione grammaticale. Serve per risvegliare

l’attenzione, creare attesa su quel che segue. Attribuire importanza all’informazione che sta per

arrivare. Usato molto da Emily Dickinson. Va mantenuto nella traduzione.

DARE DEL LEI (non) DARE DEL VOI: Mentre il lei si va affermando con una certa lentezza,

personaggi che si danno del voi hanno affollato le traduzioni di romanzi fino ad anni recenti. La

resistenza del voi si spiega per diverse ragioni: calco dall’inglese you o dal vous francese;

l’imposizione fascista del voi al posto del lei; persistenza del voi nell’Italia centro-meridionale, pur

con forti connotazioni dialettali o locali; l’idea ricevuta che il voi dia a testi non recenti, o ambientati

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nel passato, quella ricercata patina di antichità che si armonizza con l’epoca. Nel Medioevo

l’Italiano, come altre lingue romanze, ha un sistema bipartito tu/voi (Dante usa il voi per i

personaggi cui tributa rispetto, come il suo maestro Brunetto). L’allocutivo lei si diffonde a partire

dal Rinascimento. Dunque, tra il Cinquecento e l’Ottocento, si attesta un sistema tripartito:

tu/voi/lei. Il pronome non marcato era il voi, mentre si usava ‘lei’ per il formale e il ‘tu’ per

l’informale. Nei Promessi sposi, Agnese con Lucia, sua figlia, usa il tu, mentre Renzo si rivolge a

Lucia col voi. Il lei, Renzo lo impiega invece parlando a un personaggio di riguardo che gli è

socialmente molto superiore (l’Azzeccagarbugli). Dunque, impiegare il voi per esprimere rispetto

nella traduzione di un romanzo del Settecento o dell’Ottocento è, a tutti gli effetti, un piccolo falso

storico. Molte nuove traduzioni tendono, correttamente, a uniformarsi sulla scelta del lei. Ma

resiste la convinzione che l’italiano offra un ventaglio di tre pronomi personali per rivolgersi ad altri;

non è così; l’italiano standard di oggi ha due pronomi allocutivi, tu e lei; mentre nell’italiano fino

all’Ottocento il voi era disponibile non come forma di massimo rispetto, ma come scelta neutra non

marcata.

ATTENTI AI DUE PUNTI: I due punti uniscono e separano; spezzano la frase, ma aggregano e

collegano. Stratificano la scrittura, costringendo chi legge a fermare l’attenzione sul prima e sul

dopo. I due punti collaborano alla costruzione dell’architettura argomentativa, dicono al lettore che

tra il prima e il dopo esiste un rapporto logico-semantico. I due punti appartengono, quindi, alla

classe dei connettivi.

RIPETERE SI DEVE (con giudizio): Variare, alternare, sinonimizzare. La ripetizione non discende

da povertà lessicale, ma è una scelta dettata da ragioni sia stilistiche che strutturali. Molti traduttori,

e i loro editor, lo sanno bene. Creano coesione e sono una delle viti che tengono insieme

l’impalcatura di una pagina scritta. A causa di un’abitudine secolare, derivante dalla tradizione

retorica dura a morire, l’italiano è in effetti una lingua che tollera le ripetizioni meno di altre.

VITE E BULLONI (connettivi): E, o, oppure, ma, infatti, insomma, tuttavia, dunque, perché, allora,

per questo motivo, dopo che, ne consegue che, per concludere … Questo elenco include

congiunzioni, locuzioni, frasi, tutti accomunati dalla loro funzione: connettere qualcosa che viene

prima a qualcosa che viene dopo, e rendere più o meno esplicita la relazione logica che li lega. Dal

punto di vista del significato, alcuni connettivi sono più energici di altri, più ricchi. Per esempio,

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espressioni del tipo ne consegue che, indicano senza possibilità di equivoco quale rapporto esiste

tra il prima e il dopo. Altri connettivi sono più duttili perché lasciano aperta la possibilità di

interpretarne il senso. Un altro aspetto interessante dei connettivi è infatti la loro capacità di

giocare un doppio ruolo: talvolta collegano parti del testo contigue; ma succede anche che

stabiliscano un legame non con parole appena precedenti, ma con una porzione di testo estesa, e

con tutte le informazioni contenute. Sono congiunzioni testuali che operano in un campo d’azione

più vasto. Questa proprietà dei connettivi spiega il motivo per cui viene spesso evitata la scelta di

aprire una frase con congiunzioni come ‘E’ o ‘Ma’, collocate subito dopo un punto fermo e quindi

incapaci di collegare due elementi vicini. In realtà quando una frase si apre con una congiunzione,

quella congiunzione può riferirsi a blocchi estesi di già detto.

ARS TITOLANDI: I titoli dei libri, spesso, non li traducono i traduttori. E in fondo nemmeno gli

editori. Perché talvolta non di traduzione si tratta, ma di adattamento, o di reinvenzione: non si

traducono i titoli, ma si ribattezzano i libri. C’è un movimento in direzione inversa, però, quasi una

controtendenza; testi ormai classici vengono presentati, in occasione di una nuova traduzione, con

un titolo diverso da quello ormai diffuso. C’è anche un movimento di recupero di aderenza

all’originale per i classici, rilevante sotto l’aspetto qualitativo. Es. Sense and sensibility di Jane

Austen, intitolato Senno e sensibilità nell’’edizione della vecchia BUR, si è trasformato in edizioni

più recenti in Ragione e sentimento, con perdita volonterosa dell’allitterazione, ma sostituzione di

una parola ormai meno consueta come senno con il più usuale ragione. La scelta di ripristinare il

nome di un classico, anche rinunciando a titoli facenti parte della memoria affettiva dei lettori può

essere rischiosa e va giustificata, come fecero le traduttrici che documentarono con rigore le

ragioni della lor scelta in prefazioni o postfazioni.

GIOCARE AD ALTERARE: gli alterati entrano nella prosa spesso anche in assenza di esplicite

indicazioni della lingua di partenza per creare un’atmosfera fiabesca, ad esempio, attingendo

spesso alle risorse dell’italiano usato nei libri per l’infanzia come Pinocchio, carico di diminutivi.

Suffissi diminutivi come straduzze, manine, cosucce. Gli alterati sono una risorsa tipica

dell’italiano, ma spesso sottoimpiegata nelle traduzioni. Il motivo è chiaro: molte lingue di partenza

ne sono sprovviste o li possiedono in una gamma meno ricca. Accrescitivi e diminutivi,

vezzeggiativi e peggiorativi che rendono il parlar nostro espressivo. Le cose vanno diversamente

per esempio in inglese, dove si contano due soli suffissi diminutivi neanche frequentissimi come

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-let e -ette (booklet, kitchenette), e due vezzeggiativi: -y e -ie (daddy, auntie). In italiano hanno

sempre una valenza affettiva, che è diversa però a seconda della base di partenza (-uccio può

avere valenza positiva in ‘tesoruccio’ e negativa in ‘borghesuccio’).

LA SCHEDA DI LETTURA COME MICRO-GENERE:

Schede di lettura o, semplicemente, letture sono i testi che descrivono e valutano un manoscritto,

esprimendo un giudizio sulla sua possibilità di trasformarsi in libro entro il catalogo di una

determinata casa editrice. Prodotto di scrittura professionale, la scheda si caratterizza per essere

un documento a destinazione interna, pensato e redatto perché il pubblico non vi abbia accesso.

Scrittura privata, dunque, che testimonia un tratto del percorso decisionale precedente la

pubblicazione e appartiene al patrimonio storico di una casa editrice. Le schede accessibili al

pubblico, al di fuori degli archivi editoriali, sono dunque quelle raccolte e pubblicate (come

documenti di storia dell’’editoria o perché firmate da scrittori noti che collaboravano con l’’editore).

Una scheda di lettura standard ruota intorno a due elementi; la descrizione del libro (nel caso di un

testo narrativo: racconto della trama) e la valutazione. Raccontare la trama è un esercizio tutt’altro

che semplice, anche se chiama in causa un genere di reputazione modesta come il riassunto. La

scheda di lettura impone infatti di graduare le informazioni in rapporto allo spazio disponibile (non

più di un paio di pagine, nella pratica editoriale di oggi); e di individuare il nucleo narrativo portante

del testo. Richiede una lettura consapevole e una presa di posizione critica. Un parere negativo

implica responsabilità e può bastare perché un libro sia rifiutato, mentre difficilmente l’acquisto si

basa su una sola valutazione positiva. La storia letteraria ha i suoi grandi rifiutati (Delitto e Castigo

di Tolstoj).

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ITALIANI SCRITTI (LUCA SERIANNI)

1. ITALIANO PLURALE: LE LINGUE CHE SCRIVIAMO


Il capitolo esamina le differenze tra linguaggio parlato e linguaggio scritto. Una caratteristica
essenziale del parlato, oltre alla minore programmazione, è il suo forte aggancio al contesto
comunicativo, attraverso un ampio ricorso ai meccanismi della presupposizione e della deissi.
Sono tutte scorciatoie che la grande maggioranza dei testi scritti, in particolare quelli di tipo
informativo o argomentativo, non possono permettersi.

Ogni lingua, antica o moderna, è stata in origine una lingua parlata. Ciò che caratterizza la
specie umana rispetto agli animali è la capacità di produrre suoni articolati, esprimendo con poche
decine di elementi (fonemi), variamente combinati tra loro, una serie infinita di significati: emozioni,
ordini, ragionamenti. Anche l’analfabeta conosce perfettamente la propria lingua o dialetto; sa
articolare suoni e declinare o coniugare verbi e creare frasi. Solo il suo vocabolario è più povero
rispetto a quello di una persona istruita. Accanto al linguaggio parlato sussistono codici secondati,
come il linguaggio mimico (affidato all’atteggiamento del volto e soprattutto all’espressione dello
sguardo); il linguaggio gestuale (costituito dall’insieme dei gesti che compiamo con mani o la
testa); il linguaggio prossemico (legato alla distanza fisica che stabiliamo rispetto al nostro
interlocutore e la postura del corpo). Questi linguaggi sono ausiliari rispetto al parlato, ma non
raramente possono sostituirlo completamente (a parte sordomuti, ad es.). Non è così invece per la
scrittura: un linguaggio dal quale ancora oggi sono esclusi milioni di esseri umani e che tuttavia
contrassegna tutte le grandi civiltà. Grazie alla scrittura si perpetua la memoria del passato e si
trasmettono alle generazioni successive opere letterarie, scientifiche e filosofiche.

Alcuni pensano che lo scritto non sia altro che una sequenza parlata trascritta su carta. Ma
non è così. Il parlato esaurisce la sua funzione nell’immediatezza della comunicazione, non aspira
a lasciare traccia di sé nel tempo. Lo scritto, invece, si rivolge anche a destinatari lontani
temporalmente. La distanza geografica non impedisce la possibilità di comunicare, ma non è
possibile farlo verbalmente ai posteri senza che ci sia un interlocutore interessato ad ascoltare e,
soprattutto, ad interagire esattamente in quel momento. Con lo scritto, invece, possiamo rivolgerci
a un pubblico indifferenziato. Tuttavia, il parlato è molto più libero dello scritto, ha un minore
controllo e richiede minore esplicitezza rispetto allo scritto, facendo riferimento al contesto in cui la
comunicazione si svolge e in particolare a due meccanismi fondamentali: la presupposizione e la
deissi. La presupposizione consiste nel dare per noto un elemento non esplicitato nel discorso,
perché ricavabile dalle conoscenze dell’interlocutore o dal modo in cui il discorso viene presentato.

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Questo aspetto di presupposizioni, normale nel parlato, verrebbe meno nella prosa informativa. La
deissi consiste nel riferimento al contesto, in relazione al tempo (per es. con avverbi come ieri,
oggi), allo spazio (qui, lì, questo, quello) o alle persone implicate (io, tu). Queste parole
rimarrebbero sospese se trasferite nella scrittura senza altre indicazioni. La presupposizione e la
deissi possono avere largo spazio nelle comunicazioni di tipo private (es. sms dove si fa
riferimento ad un contesto noto a coloro che sono coinvolti nella comunicazione).

Si possono individuare tre grandi differenze tra scritto e parlato:

- Possibilità di retroazione: (o feed-back). Solo il parlato dialogico da modo a chi parla di


aggiustare il discorso in base alle reazioni dell’interlocutore, intervenire immediatamente
e correggere.
- Obbligo di svolgimento lineare: a differenza di un testo scritto, col parlato non
possiamo tronare indietro: il parlante può interrompersi, riprendere il già detto con nuove
spiegazioni o anche contraddicendosi, ma è costretto ad accumulare ogni sequenza
verbale in modo progressivo. Con qualsiasi testo scritto, invece, posso organizzare la
lettura a mio piacimento, scorrerlo, ricercare informazioni essenziali, secondo le proprie
esigenze.
- Limitazione alla sfera uditiva: a differenza del discorso orale, il testo scritto è fatto sia
per essere letto ad alta voce o attraverso una lettura mentale. Bisogna adottare adeguati
segni grafici (accenti, apostrofi, segni d’interpunzione); rappresentare informazioni o
argomentazioni.

2. IL TESTO E I SUOI REQUISITI FONDAMENTALI


Al centro della comunicazione linguistica (sia parlata che scritta), c’è il testo. Se ne illustrano qui
due requisiti fondamentali: la coesione e la coerenza.

Che cos’è un testo: la nozione di ‘testo’ fa riferimento etimologicamente alla metafora del
‘tessuto’, in latino TEXTUS, trama di singoli fili che dà vita a un insieme organico (Textus è il
participio passato del verbo TEXERE ‘tessere’). In questa accezione il testo può essere non solo
quello scritto, ma anche quello orale. Condizione perché si possa parlare di testo è che si abbia
una produzione linguistica (orale o scritta) fatta con l’intenzione e con l’effetto di comunicare e
nella quale si possano individuare un emittente (da cui parte il messaggio) e un destinatario (per il
quale il messaggio è stato pensato). Saranno ‘testi’ allora tanto la Divina commedia quanto la targa
che reca la scritta USCITA in una sala cinematografica. Infatti: entrambi hanno un contenuto
comunicativo (benché nel poema dantesco sia più complesso dire quali siano gli intenti
comunicativi), e in entrambi possiamo individuare un emittente e un destinatario, espliciti e
impliciti. In Dante l’emittente è l’autore e il destinatario è chi legge; per USCITA l’emittente è il

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gestore della sala e il destinatario è il pubblico a cui è rivolto. I testi possono essere molto rigidi,
come quelli scientifici, che non ammettono margini di interpretazione soggettiva. All’estremo
opposto c’è il linguaggio poetico, soprattutto quello moderno con vari significati e non si può
vincolare il lettore ad una sola interpretazione rigida.

I due requisiti fondamentali che devono essere assolti perché si possa parlare di un testo
sono la Coesione e la Coerenza:

1) La COESIONE: che consiste nel rispetto dei rapporti grammaticali e della connessione sintattica
tra le varie parti attraverso la concordanza di numero tra soggetto e predicato; talvolta si può
però avere una sconcordanza quando si ha un soggetto singolare di valore collettivo, seguito da
un complemento di specificazione: es. ‘c’era una gran quantità di animali’- queste frasi vanno
evitate nella prosa informativa che richiede un controllo maggiore (si scriverebbe: ‘c’era una
moltitudine di’); attraverso la concordanza di genere: tra sostantivo e articolo, aggettivo o
participio; e l’ordine delle parole. Due fondamentali strumenti per garantire la coesione testuale
sono: i coesivi e i connettivi.

I COESIVI: sono i vari modi attraverso i quali si può richiamare un elemento già espresso in
precedenza. Il primo modo è costituito dai:

- pronomi (dal latino Pronomen, cioè che sta al posto di un nome), in particolare i
pronomi personali (es. atono ‘gli’ e tonico ‘egli’) e dimostrativi. L’uso dei pronomi in
funzione dei coesivi si ha nello scritto e nel parlato; in particolare nella lingua parlata non
si usano molto come coesivi i pronomi dimostrativi (questo, quella, costoro ecc.) in
funzione di soggetto. Quanto ai pronomi personali, quelli impiegati nel parlato in
riferimento a persone e ad animali sono soltanto lui, lei, loro; mentre egli, ella, essi, esse
sono forme tipicamente libresche che possono considerarsi eccezionali nell’italiano
parlato contemporaneo. Ma i pronomi non sono l’unico modo di richiamare il già detto
senza ripetere una certa parola.
- Sostituzione lessicale mediante: sinonimi, iperonimi, nomi generali. Sono coesivi
costituiti non da una forma grammaticale come i pronomi, ma da un vocabolo, che
condivide più o meno precisamente il significato di un altro (sinonimo: vecchio-anziano),
lo include mantenendo un carattere semanticamente specifico (iperonimo: gatto-felino)
oppure lo include, ma ricorrendo a un termine di significato generico (nome generale:
cosa/fatto, persona). Iperonimi e nomi generali sono particolarmente adoperati nel
linguaggio giuridico.
- Riformulazione: consiste nel sostituire al già detto un’espressione (una singola parola o
perifrasi) che richiami nel contesto, senza possibilità di dubbio, ciò di cui si è parlato. Il
richiamo avviene facendo appello a una conoscenza largamente diffusa (es. Bonaparte
per Napoleone).
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- Ellissi: consiste nell’omettere un riferimento esplicito al già detto: il contesto provvede a
eliminare ogni dubbio. L’ellissi è non solo praticata, ma addirittura obbligatoria
nell’italiano moderno quando il soggetto di una frase coordinata o subordinata è lo stesso
della reggente. Es. ‘Paolo prese la giacca e uscì’ (e non ‘.ed egli uscì). L’ellissi deve
essere praticata anche in brani relativamente lunghi, purché il soggetto rimanga invariato.

I CONNETTIVI: sono elementi che assicurano la coesione di un testo garantendo i rapporti logici e
sintattici tra le varie parti. Dei connettivi fanno parte in primo luogo le congiunzioni. Nella frase ‘
Non è arrivata perché ha perso il treno’, perché è un connettivo causale che motiva l’affermazione
contenuta nella reggente; in ‘penso, dunque esisto’, dunque è un connettivo conclusivo che
coordina questa frase alla reggente. Qualche volta i connettivi possono essere omessi, anche se
l’omissione non ci consente sempre di esplicitare il rapporto sintattico tra due frasi. Se mancano i
connettivi, la lingua scritta si serve di un segno di punteggiatura ‘forte’ per marcare lo speciale
rapporto tra le due frasi: non la semplice virgola, ma i due punti, il punto e virgola, o il punto fermo.
Il limitato uso dei connettivi è tipico della scrittura giornalistica e si accompagna con uno stile
rapido che tende alle frasi nominali.

2)La COERENZA: mentre la coesione si riferisce al corretto collegamento formale tra le varie parti
di un testo, la coerenza riguarda il suo significato; la coesione dipende da requisiti presenti o
assenti nel testo, la coerenza è legata invece alla reazione del destinatario, che deve valutare un
certo testo chiaro e appropriato alla circostanza in cui è stato prodotto, evitando un caso di
incoerenza logica. L’ambito pubblicitario e il linguaggio letterario possono talvolta presentare
incoerenze logiche apparenti per sconcertare le attese del destinatario e attirare la sua attenzione.
Un testo informativo o argomentativo (un saggio di economia politica) non può permettersi di
violare il requisito della coerenza. La coerenza stilistica richiede un registro congruente con un
certo tipo di testo.

3. L’ALLESTIMENTO DELLA PAGINA SCRITTA


(PUNTEGGIATURA)
In questo capitolo si esaminano alcuni caratteri fondamentali in qualsiasi testo scritto:
l’interpunzione. In qualsiasi grammatica italiana si trova una lista dei segni di punteggiatura con le
relative funzioni. In fatto di punteggiatura occorre prima di tutto tenere ben fermi due capisaldi: i
segni che indicano una pausa (pausa forte come nel caso del punto fermo; pausa media nel caso
del punto e virgola e dei due punti; pausa debole nel caso della virgola) non riflettono di norma
corrispondenti pause del parlato, ma contrassegnano i vari rapporti sintattici che si stabiliscono tra
le varie parti di una frase o di un periodo. Nel parlato invece troviamo corrispondenza con il punto

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interrogativo e esclamativo; i due segni marcano una curva prosodica discendente-ascendente e
viceversa-

La VIRGOLA: il segno di pausa debole è anche, col punto, quello di uso più comune. Non va usato
all’interno di un blocco unitario; in particolare tra soggetto e predicato, tra predicato e complemento
oggetto, tra un elemento reggente e il complemento di specificazione e tra aggettivo e sostantivo
(‘Guerre Stellari’)- La mancanza di virgola tra soggetto e predicato vale anche in presenza di un
soggetto espanso, cioè arricchito di altri elementi (attributi, avverbi, complementi indiretti) che ne
dipendono. La virgola può tuttavia figurare tra soggetto e predicato o tra predicato e oggetto
quando uno degli elementi è messo in particolare evidenza. Es. Lei, è stata zitta tutto il tempo (con
valore enfatico). Abitualmente la virgola è richiesta in vari casi: prima di un’apposizione (‘è morto
Josè, il noto pittore del posto’); di un vocativo (es. ‘ Pregate, fratelli’); nelle ellissi. La virgola ricorre
di norma, ma con qualche oscillazione, nelle:

- enumerazioni e coordinazioni asindetiche (cioè in presenza di singoli elementi o di proposizioni in


sequenza, senza congiunzioni di collegamento); quando l’enumerazione è complessa si usa il
punto e virgola. La virgola è ammissibile quando collega due frasi che lo scrivente avverte distanti
grammaticalmente o tematicamente. Nella coordinazione disgiuntiva (o, oppure, ma, ovvero) la
virgola è più frequente.

- per delimitare un inciso di qualsiasi tipo. Si possono usare anche le parentesi, frequenti all’interno
di frasi di una certa estensione, per delimitare con nettezza l’inciso. Le lineette (o trattini lungi; da
non confondere con i tratti corti adoperati per separare gli elementi di una parola composta o di
due cifre in sequenza) sono di uso frequente nella prosa letteraria e giornalistica e contrassegnano
in modo marcato l’inciso. Ricorrono senza nessuna particolare restrizione nella saggistica e nella
prosa scientifica.

La virgola non va mai adoperata in due casi: tra reggente e completiva (frase subordinata che
svolge la funzione di soggetto, oggetto indiretto o compl. Indiretto del verbo) e prima delle limitative
(dette restrittive, che sono quelle che precisano il significato dell’antecedente, il quale altrimenti
sarebbe incompleto; in particolare sono sempre limitative le relative in cui l’antecedente sia
rappresentato da un dimostrativo: es. ‘sono quelle che precisano il significato’. La virgola invece
compare prima di una relativa esplicativa che potrebbe essere omessa senza compromettere il
significato complessivo. Una virgola usata male può compromettere il significato complessivo e la
coerenza testuale.

Il PUNTO E VIRGOLA: va adoperato in luogo della virgola per scandire i membri di


un’enumerazione complessa; per segnalare, in una frase coordinata complessa, una diversa
tematizzazione; ciò che avviene quando il soggetto è diverso o quando un elemento è presente in
funzione di un soggetto in una delle due frasi e con un diverso regime sintattico nell’altra (es. come

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compl. Oggetto). Oppure, viene utilizzato davanti a un connettivo ‘forte’ per carattere
argomentativo e sintattico, specie conclusivo o esplicativo (dunque, quindi, perciò, infatti,
insomma, ossia); vale a dire, in tutti i casi in cui si introduce la conclusione di un ragionamento. A
volte sostituibile dai due punto o dal punto.

I DUE PUNTI: una funzione tradizionale dei due punti è quella di introdurre il discorso diretto. Ma i
due punti si adoperano anche in altri casi, soprattutto nelle due funzioni più importanti:

- La funzione argomentativa: indicando la conseguenza logica di un fatto, l’effetto prodotto


da una causa.
- Funzione descrittiva: se si esplicitano i particolari di un insieme enumerandone le singole
componenti.

i due punti non vanno usati in presenza di enumerazioni che facciano corpo con la frase che
precede.

Le VIRGOLETTE: in tipografia si distinguono le virgolette basse (<< >>) e le virgolette alte (“ “). In
genere, le prime assolvono alla funzione più caratteristica di delimitare una parola o un discorso
altrui. Le virgolette alte si adoperano soprattutto in due casi invece: per riportare un discorso diretto
o una citazione entro un altro discorso diretto o citazione (possono alternarsi in questo senso con
la lineetta, di norma solo all’inizio del discorso diretto – nella prosa narrativa più recente non è raro
l’assenza di segnali di delimitazione); le virgolette alte si usano anche per contrassegnare l’uso
particolare (allusivo, ironico) di una qualsiasi espressione. Gli scriventi non specialisti fanno un
vero abuso di queste virgolette metalinguistiche. L’impressione che se ne ricava è quasi sempre
negativa.

I CAPOVERSI: quando, dopo un punto fermo, andiamo a capo e cominciamo un nuovo periodo è
abituale introdurre un capoverso, cioè rientrare di qualche battuta rispetto all’inizio delle altre linee
di scrittura. Questa norma, in genere ignorata nella scrittura a mano, è applicata in modo
sistematico e automatico nella stampa e videoscrittura. Il problema è quando ricorrere al
capoverso e andare a capo; andare a capo significa avvertire il lettore che l’argomento cambia, o
che se ne affronta un aspetto nuovo e significativo. Il capoverso si usa:

- Nella prosa saggistica e argomentativa, per introdurre più serie di dati, notizie,
circostanze.
- Nella prosa letteraria, per riprodurre le battute di dialogo di due o più personaggi (ma
nei romanzi più recenti possono le battute essere anche inserite in un medesimo blocco
e addirittura prive delle virgolette di apertura e chiusura).
-

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4. IL RIASSUNTO
Il riassunto è la sintesi di ciò che altri hanno detto o scritto; fare un riassunto orale è meno
impegnativo che mettere le stesse cose per iscritto. Intanto, non tutti i testi possono essere
riassunti e alcuni si prestano a essere condensati meglio di altri. Non sono riassumibili i testi detti
“regolativi”, cioè quelli che contengono regole, norme, istruzioni che qualcuno deve seguire
obbligatoriamente (le leggi) o solo nel caso che voglia ottenere un certo risultato (una ricetta di
cucina o istruzione di installazione), poiché tutte le informazioni sono necessarie. Viceversa, sono
riassumibili facilmente i testi narrativi, dai romanzi agli articoli di giornale che raccontino un fatto.
I tratti costitutivi di un riassunto dipendono in relazione al contesto e al destinatario. Un conto è
l’esercizio scolastico consistente nel riassumere un romanzo letto durante l’estate, un conto è il
resoconto di una riunione d’affari. Ma in ogni caso, c’è un’esigenza fondamentale da rispettare:
bisogna fare i conti con lo spazio a disposizione, che va programmato in anticipo e in base a
questa variabile strutturare la gerarchia delle informazioni, contrassegnando i blocchi informativi,
ossia le principali unità informative presenti nel testo (che possono risultare sintatticamente, di una
frase, di un periodo, o anche più periodi). Bisognerà considerare l’importanza delle singole unità
informative, alcune sono essenziali, mentre altre sono marginali. Inoltre, in un riassunto è
importante non ripetere estesi blocchi del testo originale e trasformare in discorsi indiretti gli
eventuali discorsi diretti. Ogni buon riassunto mantiene intatto il rapporto tra unità informativi
essenziali, importanti e marginali. L’estensione di un’unità informativa può variare da una singola
frase a molti periodi.

5. LA PARAFRASI
La parafrasi è la riscrittura in un testo in prosa che riproduce il contenuto di un testo di partenza
appianandone le difficoltà formali; è un’operazione fondamentale nella didattica di qualsiasi livello.
Nel capitolo viene analizzata la parafrasi di alcuni versi dell’Inferno di Dante. La parafrasi potrebbe
essere definita la sorella minore del riassunto. Se il riassunto si propone in primo luogo di
condensare un qualsiasi testo, facendone emergere le informazioni salienti, la parafrasi ha un
intento più umile; quello di affiancare a un testo di partenza giudicato difficile (perché scritto in
italiano antico o letterario p perché settoriale) una versione in prosa corrente che ne appiani le
difficoltà lessicali e semantiche (sostituendo o illustrando parole difficili), sintattiche (trasformando
frasi complesse in frasi lineari) o contenutistiche (spiegando un nome o un dato poco noto). Una
perifrasi efficace presuppone l’esatta comprensione del testo di partenza in tutti i suoi particolare e
la capacità di rendere comprensibile quel testo a un pubblico diverso da quello per il quale è stato
concepito. Questo avviene soprattutto per la lettura dei classici, come ad es. il canto VI de
l’Inferno di Dante: “Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e
qualità mai non l’è nova” = “Mi trovo ora nel terzo cerchio dell’inferno, il cerchio caratterizzato dalla
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pioggia che eternamente cade sui dannati, maledetta dai dannati per la sua costanza e violenza,
elida e flagellante (greve): non c’è in essa mai mutamento di norma e di natura (regola e quantità);
continua a cadere e cadrà per l’eternità nello stesso modo, con lo stesso ritmo violento e con la
stessa qualità” - Si nota come la parafrasi interviene in modo sistematico, anche dove non vi sono
difficoltà interpretative, precisando particolari che nel testo sono impliciti. Si badi inoltre all’uso
delle parentesi, che isolano parole del testo originale la cui corrispondenza con il testo parafrasato
non è ovvia. La parentesi offre inoltre l’occasione di notare altre due caratteristiche tipiche della
riscrittura: 1)il commentatore può aggiungere particolare che mancano nell’originale quando
servono a rendere più appropriatamente l’immagine del testo di partenza; 2)contenere spiegazioni
di tipo semantico (es. Spiegare chi è Cerbero o commenti). Il registro stilistico della parafrasi deve
essere medio-alto e nella riscrittura, rispetto al testo originario si può modificare la strategia
espositiva.

6. I LINGUAGGI SETTORIALI
I linguisti definiscono il linguaggio settoriale una lingua, o linguaggio settoriale o speciale. La
differenza tra lingua e linguaggio è netta: la prima fa riferimento al codice verbale posseduto
esclusivamente dalla specie umana; la seconda ai tipi di comunicazione, verbali e non verbali,
messi in atto non solo dagli esseri umani ma anche da quasi tutte le specie animali. Si parla di
linguaggi, piuttosto che lingue, settoriali per sottolineare il fatto che alcuni di essi possiedono, oltra
al codice verbale, un codice non verbale attraverso cui esprimersi: ad es. i numeri e altri simboli
grafici nella matematica o le formule chimiche. Il linguaggio settoriale rappresenta la varietà di una
lingua naturale, dipendente da un settore di conoscenze o da un ambito di attività professionale; è
utilizzato da un gruppo di parlanti più ristretto rispetto a quelli che parlano la lingua base e risponde
allo scopo di soddisfare le necessità comunicative di un certo settore specialistico. Caratteristica
del linguaggio settoriale è dunque la sua referenzialità, il suo riferimento a significati oggettivi.
Detto in altri termini: nel linguaggio settoriale agisce la detonazione di una parola (il rapporto tra la
parola e l’oggetto che vuole significare) e non la connotazione (che indica il significato nascosto e
metaforico di una parola che riconduce spesso al sentimento di chi scrive) con la sua carica di
risonanze emotive. Quindi si ha neutralità emotiva. A livello linguistico un linguaggio settoriale si
caratterizza in primo luogo per determinate scelte lessicali; ma hanno importanza anche le
soluzioni morfologiche e sintattiche.
IL LESSICO: TECNICISMI SPECIFICI E TECNICISMI COLLATERALI: il lessico caratteristico che
indica concetti, nozioni, strumenti tipici di quel particolare settore è rappresentato dai tecnicismi
specifici. Tecnicismi come crocidismo in medicina (movimento involontario delle mani di malati)
non hanno nessun margine di ambiguità, essendo parole che si usano solo nelle rispettive
accezioni tecniche (hanno solo un significato oggettivo). In molti altri casi, tuttavia, i linguaggi
settoriali ricorrono al meccanismo della rideterminazione, cioè assegnano un significato specifico a
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parole d’uso comune, generando possibili equivoci. Es. il concetto di colpa si oppone a quello di
dolo nel diritto penale: la colpa, meno grave, presuppone che il soggetto non abbia volontà di
commettere il fatto imputabile quindi a disattenzione o omissione, mentre il dolo presuppone
l’intenzione di delinquere. Ma colpa è anche termine del linguaggio comune usato per indicare la
piena intenzione di fare qualcosa di censurabile. Accanto ai tecnicismi specifici figurano i
tecnicismi collaterali. Si tratta di termini altrettanto caratteristici di un certo ambito settoriale, che
però sono legati non a effettive necessità comunicative, bensì all’opportunità di adoperare un
registro elevato, distinto dal linguaggio comune. Due esempi, attinti ancora una volta da medicina
e diritto. Un malato dirà che “sente (avverte) un forte dolore alla bocca dello stomaco”; in una
cartella clinica un medico scriverebbe “il paziente accusa/ lamenta un vivo dolore nella regione
epigastrica”. Usa tecnicismi collaterali che potrebbero essere sostituiti o tradotti in forme condivise
dal linguaggio comune, ma che appartengono tipicamente allo stile espositivo dei medici. Così, in
un’aula di tribunale, l’interrogatorio dei testimoni diventerà piuttosto l’escussione dei testi e il perito
balistico riferirà che il proiettile ‘ha attinto’ invece di ‘ha raggiunto’ la vittima. I tecnicismi specifici
sono indispensabili alle esigenze terminologiche di un certo linguaggio settoriale, mentre i
tecnicismi collaterali potrebbero essere sostituiti senza che l’esattezza ne risenta. Talvolta, i
tecnicismi specifici possono essere noti anche al profano, ma non adoperato.
LINGUAGGIO SETTORIALE E MORFOLOGIA: I linguaggi settoriali possono presentare-oltre a
un lessico caratteristico-anche particolari soluzioni morfologiche (in particolare per quanto riguarda
la formazione delle parole), sintattiche e testuali. A tutti i livelli della lingua esiste la possibilità di
combinare nuove parole attraverso affissi distinguibili in prefissi (morfemi anteposti: es. idoneo-in-
idoneo) e suffissi (morfemi posposti a una base lessicale: es. nomade-nomad+ismo) e confissi (o
affissoidi, elementi che si comportano rispettivamente come prefissi (prefissoidi) o come suffissi
(suffisoidi), estratti da una parola composta e suscettibili di creare una serie di formazioni. Es. sono
confissi auto (prefissoide estratto da automobile e adoperato in composti in cui non significa ‘da
sé’, ma relativo all’automobile) e -logia (suffissoide estratto da parole greche in riferimento allo
studio di una certa branca specialistica. Nei linguaggi settoriali questo procedimento è molto
sviluppato. Un sistema di suffissi altamente elaborato offre la chimica (clor +ico,-oso, -uro, -ito); la
medicina con confissi come -patia.
Quanto alle scelte sintattiche e testuali, esistono caratteristiche che, pur non essendo generali,
sono sufficientemente estese. Ricordiamo: a)il forte sviluppo del nome rispetto al verbo (in tutti i
linguaggi scientifici, ma anche giuridici, i termini di massima informatività tendono a essere i nomi,
mentre i verbi svolgono piuttosto un ruolo di collegamento; l’espansione del nome rispetto al verbo
può comportare frasi ad alto tasso di nominalizzazione, cioè si preferisce al verbo il corrispondente
sostantivo astratto); la dea-gentivizzazione ossia la tendenza ad omettere l’esplicitazione del
soggetto o del complemento d’agente (nei testi applicativi o normativi -come la Costituzione o il
Codice civile o penale- l’agente coincide con la legge o con l’istituzione che viene regolata e viene

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sottinteso); lo sviluppo delle frasi passive per garantire la progressione tema-rema (il passivo è
anche favorito in molti linguaggi settoriali, anche per la necessità di preservare la sequenza tema-
rema (come tema si intende ciò di cui si parla; come rema ciò che si dice del tema; spesso il tema
è anche l’elemento noto e il rema quello nuovo). Es. “chi ha visto quel film? Io, l’ho visto” = in
questo caso il tema è l’elemento nuovo (‘Io’) e il rema è quello noto (‘l’ho visto’). Non sempre il
tema coincide con il soggetto, come comunque nella maggioranza dei casi avviene, es, “Grazie, il
caffè lo prendo amaro” = ‘il caffè’ (che è il complemento oggetto) diventa il tema ed è anticipato
attraverso la dislocazione a sinistra – ‘lo prendo amaro’ è il rema, il soggetto sottinteso.

7. IL LINGUAGGIO MEDICO
Il linguaggio medico presenta due caratteristiche che non si ritrovano, insieme, in nessun altro
linguaggio settoriale:
- Notevole ricchezza terminologica: in un dizionario italiano circe 1 lemma su 20 sono di
ambito medico.
- Ha una forte ricaduta sul linguaggio comune: grazie a mezzi di comunicazione e per
la salute.
L’ampio vocabolario della medicina comprende termini condivisi dall’italiano fondamentale (occhio,
fegato) o esclusivi di pochi specialisti (come crocidismo), antichi o recentissimi (termini come
artrite, dal greco artrhritis, risalente al greco di Ippocrate e di Galeno); termini di origine araba,
risalenti al Medioevo (epoca di massimo prestigio dei medici arabi, es. nuca); termini latini
reintrodotti durante il Rinascimento (femore); termini formati modernamente dal latino e soprattutto
dal greco, in massima composti; termini di recente introduzione, prelevati da una lingua straniera
moderna, soprattutto dall’inglese (bypass). Se il greco ha molta più importanza del latino nella
formazione del linguaggio medico, va ricordato che il latino è stato il tramite attraverso il quale
molte parole greche si sono affermate. È preferibile adottare l’accentazione alla latina in parole
come alopècia, edèma, arterioscleròsi che non alopecìa, èdema. Qualche volta sono rimasti in uso
termini che tradiscono concezioni superate (es. l’Influenza prodotta da un virus, si continua a
chiamarla con un nome che allude ad influssi astrali).
LA FORMAZIONE DELLE PAROLE: Assai produttiva è la formazione delle parole, foggiate con
elementi greco-latini. Es-Gastro+logo (esperto di). Ma non sempre il rapporto tra gli elementi di un
composto è quello atteso. Es. molti termini indicanti malformazioni congenite sono formati con
prefisso a (an davanti a vocale, con funzione negativa di ‘mancanza di’), ma in ‘anemia’ non si ha
nulla a che fare con ‘mancanza di sangue’, bensì solo ‘carenza o diminuzione‘.
Vi è una Spiccata presenza del latino nell’anatomia di fronte al greco nella patologia. Ciò ha
alimentato un esteso suppletivismo (fenomeno per il quale, all’interno di uno stesso paradigma o
di una stessa famiglia di parole si ricorre a temi diversi, per es. vad-o e and-are; acqu-a e idr-ico).
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Così l’aggettivo di relazione di fegato è epatico; di sangue è ematico. Tre suffissi caratteristici
della patologia sono di origine greca infatti: -ite (che indica un processo infiammatorio che colpisce
l’organo, es. bronchite) -osi (appare in coppie formate dalla stessa base come artrite/artrosi; il
suffisso -osi serve a indicare un’affezione non infiammatoria, per lo più a carattere degenerativo e
questo suffisso funziona spesso come iperonimo per riferirsi in modo generico a un complesso di
patologie caratterizzate da un elemento in comune: es. Dermatosi); -oma (si tratta del suffisso dei
tumori; in altri tecnicismi non indica un tumore ma patologie o alterazioni varie, es. ematoma o
glaucoma.).
Accanto a confissi e suffissi caratteristici, il linguaggio della medicina ricorre ampiamente a
elementi che sono più occasionali in altri settori specialistici: gli acronimi e soprattutto gli eponimi.
Gli acronimi medici sono in parte noti e adoperati anche dai profani (es. AIDS=Acquired Immune
Deficiency Syndrome; TAC=Tomografia Assiale Computerizzata). È sempre frequente l’ordine
anglosassone, mentre dovrebbe essere SIDA, come per Francia e Spagna.
Gli eponimi, a differenza degli acronimi, sembrano essere tipici della medicina (anche se la
geometria può vantare il teorema di Pitagora). Sono denominazioni di un organo, malattia o
strumento che fanno riferimento al nome dello scienziato che li ha studiati o scoperti (ad es. Tuba
di Falloppio o morbo di Parkinson).
TECNICISMI COLLATERALI LESSICALI E MORFO-SINTATTICI: Molto ricca la serie di tecnicismi
collaterali che si possono distinguere in lessicali, i più numerosi, e morfo-sintattici, quando
riguardano un aspetto grammaticale (uso del maschile invece che del femminile, del plurale invece
che del singolare, di preposizioni e locuzioni preposizionali caratteristiche). Alcuni TC lessicali
sono nomi generali (come ‘fatto’, ‘processo’); altri sono sinonimi di registro più elevato
(‘conclamato’=evidente, manifesto; ‘indurre’=causare, ‘inibire’= ostacolare, impedire). Altri
presentano uno scarto semantico rispetto alla lingua comune: spesso si tratta di parole che
presuppongono come soggetto un esser umano e che vengono adoperate in riferimento a enti
inanimati (una malattia, una parte del corpo, un principio chimico). Altre volte cambia la
connotazione, da positiva (come ‘apprezzare’) a non marcata (‘riscontrare’). Ciò può dare luogo ad
equivoci. Es. in ‘sofferenza epatica’, non si parla di sofferenza fisica, ma di alterazione di un
organo o di una funzione. Non mancano infine nei TC della medicina, spinte eufemistiche, dovute
o al rispetto di fronte alla morte o al desiderio di non allarmare il paziente formulando in modo
troppo esplicito una diagnosi sfavorevole (esito infausto). TC morfo-sintattici sono: a, da, a carico
di, a livello di. (Es. sindrome da carenza vitaminica)
Tutte queste caratteristiche si ritrovano in testi medici, insieme a aggettivi di relazione (virale,
fecale, etc).

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8. IL LINGUAGGIO GIURIDICO
Abbiamo ricordato la tipica distinzione dei testi giuridici in testi normativi e applicativi e sottolineato
la diffusione dei nomi generali e che la quota di tecnicismi specifici del linguaggio giuridico è
inferiore a quella che si ha nel linguaggio medico e che la tendenza alle frasi nominali accomuna
larga parte dei testi giuridici ad altri testi settoriali. A proposito dei vari tipi di linguaggio giuridico un
posto a sé spetta all’arringa giudiziaria, che condivide molte caratteristiche del linguaggio politico,
potendosi rivolgere ad un pubblico vasto e ha l’intento di convincere di una tesi; il lessico tecnico è
sicuramente ridotto e compaiono caratteristiche linguistiche impensabili in un testo normativo. Un
articolo di legge non presenterebbe, ad esempio, interiezioni (oh) o deittici relativi allo spazio o al
tempo (lì, qui, ieri, oggi), né frasi interrogative o esclamative o nozioni che non hanno rilevanza
giuridica.
A differenza di altri linguaggi settoriali, la lingua del diritto non ha confini precisi.
A) Gran parte dei termini giuridici sono attinti dalla lingua comune, ma si tratta spesso di nozioni
che hanno un contenuto diverso e ciò può generare equivoci.
B) Inoltre, nei testi normativi non sono ammessi contraddizioni o incertezze applicative: se questo
avviene il sistema giudiziario interviene riformando una sentenza tramite la Corte di
Cassazione o dichiarando illegittima una disposizione di legge che contrasta con una norma di
rango più elevata in quanto contemplata dalla Costituzione. Si vedano i seguenti esempi
relativi a questi due punti:
a. Il codice penale distingue due diversi tipi di reato: il delitto, più grave, e la contravvenzione; e
per ciascuno di essi prevede diverse sanzioni: pene detentive (ergastolo e reclusione per i
delitti e arresti per le contravvenzioni) e pene pecuniarie (multa per i delitti e ammenda per le
contravvenzioni). Abitualmente l’accezione di ‘delitto’ ha il valore di grave atto di violenza, che
presuppone perlopiù l’omicidio di qualcuno. Una frase banale come “ho lasciato la macchina in
divieto di sosta e dovrò pagare la contravvenzione” contiene due improprietà dal punto di vista
giuridico: 1)la contravvenzione è un tipo di reato, ma l’infrazione al divieto di sosta rappresenta
soltanto un illecito amministrativo, meno grave dell’illecito penale; 2)tale infrazione comporta
non una ‘multa’, bensì ‘una sanzione amministrativa pecuniaria o ammenda’. Dovrà essere
pagata proprio la sanzione e non la contravvenzione che designa l’infrazione del divieto e non
la sanzione.
b. Molte sono le nozioni giuridiche che si richiamano reciprocamente. Ad es l’amnistia e l’indulto
sono due provvedimenti generali di clemenza, ma differiscono perché l’amnistia estingue il
reato, facendo cessare le cosiddette pene accessorie (es. interdizione dai pubblici uffici);
mentre l’indulto, che non interviene sul reato, non estingue le pene accessorie (Concessione
consistente nella remissione totale o parziale della pena (o nella sua commutazione in altra
meno grave); per l’amnistia vera e propria prima della sentenza definitiva è più corretto parlare
di ‘estinzione del reato’. Altri esempi: la rapina e l’estorsione sono due delitti contro il
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patrimonio che presuppongono una qualche violenza o minaccia contro la persona, ma
differiscono perché la rapina comporta la sottrazione di una cosa mobile altrui e l’estorsione
implica che si costringa qualcuno a fare o a omettere qualcosa. Accanto al lessico e alle sottili
distinzioni semantiche ha grande importanza la testualità, a cominciare dall’ordine delle parole
e dalla progressione tema-rema.
LA TERMINOLOGIA GIURIDICA: Un aspetto essenziale del linguaggio giuridico è la sua
terminologia. La distinzione tra tecnicismi specifici e collaterali può presentare qualche difficoltà
quando un originario tecnicismo collaterale come delazione (attribuzione a qualcuno dell’eredità di
un defunto), nell’essere utilizzato nel codice civile, massima fonte normativa, ha assunto un
carattere di insostituibilità che lo ha trasformato in un vero e proprio tecnicismo specifico. Lo
stesso vale per successione legittima che non si oppone a una presunta successione illegittima,
come suggerirebbe la lingua comune, ma vuol dire semplicemente ‘regolata da legge’; l’aggettivo
legittimo è diventato anch’esso un tecnicismo specifico. Delazione e legittimo sono due tra i tanti
termini giuridici che, nella lingua corrente, si usano in un’altra accezione (nel primo caso negativa:
azione di denunciare qualcuno per motivi di lucro e comunque non nobili). Si distinguono quattro
gruppi di Tecnicismi Collaterali:
a. Nomi generali: che ricorrono non solo come coesivi, ma anche con la funzione di sussumere
(riferire un caso specifico alla norma generale che lo contempla), con un nome generale,
l’infinita serie di casi particolari che possono avere interesse giuridico. Es. cosa (qualsiasi
bene che possa essere oggetto di un diritto); fatto (qualsiasi comportamento umano che abbia
rilevanza giuridica); parte (ciascun soggetto tra i protagonisti di un processo); persona
(ciascun essere umano dotato di capacità giuridica, anche società o azienda).
b. Alcuni originari tecnicismi collaterali (come per delazione e successione ‘legittima’) sono di uso
così stabile da essere divenuti insostituibili. Es. Impugnare (presentare all’autorità giudiziaria o
amministrativa la richiesta di modificare un precedente provvedimento);
contemplare=prevedere; adire=ricorrere a.
c. A esigenze di decoro espressivo o anche solo all’ossequio alla tradizione compaiono esempi
come: caducazione o perenzione=annullamento; proporre querela=presentare querela.
d. Caratteristiche del linguaggio giuridico sono alcune locuzioni preposizionali preferite a
preposizioni semplici di uso più corrente: ‘a carico di’: contro; ‘a seguito di’ -‘a titolo di’’- ‘ai fini
di’ = per.
e. Oltre alle locuzioni preposizionali si ricordano altre strutture adoperate in funzione di
connettivi, per es. i participi assoluti come atteso+sostantivo= per o ‘salvo+sostantivo= tranne.
f. Sono frequenti anche latinismi e forestierismi di leggera patina arcaica, utilizzando la lingua
del diritto romano che sta a fondamento dei diritti europei: de iure (di diritto), ‘de facto’ (di
fatto). Accanto al latino fa capolino l’inglese per effetto della globalizzazione attuale, spesso
parlando di imprese si parla di leasing, factoring, franchising.

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GRAMMATICA E SINTASSI:
1. Maggiore presenza del congiuntivo nelle subordinate, dove l’italiano parlato e gran parte di
quello scritto preferirebbe l’indicativo.
2. Forte diffusione del participio presente (‘i diritti spettanti al condannato’)
3. Frequente anteposizione del participio passato (e in generale dell’aggettivo) al nome (es,
concesse le attenuanti
4. Omissione dell’articolo, per il carattere tecnico della locuzione o sintagmi a valore
avverbiale.

9. IL LINGUAGGIO BUROCRATICO
A differenza degli altri linguaggi settoriali visti, quello burocratico si caratterizza per la sua
applicazione ad una realtà più sfuggente. Il linguaggio burocratico può essere adoperato nelle
circostanze più diverse infatti: dall’ufficio delle Imposte, all’azienda di trasporti, al Comune. In
questo tipo di comunicazione l’emittente può essere un ente o un privato; e il destinatario può
essere specifico, indifferenziato o anonimo. Ciò che accomuna questa tipologia di testi tanto
diversi è la presenza di alcune scelte linguistiche. Quando si parla di linguaggio burocratico, si
pensa però in primo luogo agli uffici, in particolare a quelli della pubblica amministrazione, che
hanno il compito di regolare aspetti essenziali della vita di un cittadino: la sua attività lavorativa
(dall’assunzione al pensionamento), i suoi guadagni, la sua salute. Il termine burocrazia, di origine
francese, è fin dall’origine marcato negativamente, in quanto spesso l’autorità degli uffici (in
francese ‘bureaux’) viene vista come strapotere. L’elemento ‘crazia’ deriva dal greco ‘potere-
forza’, non ha il valore assunto in democrazia, ma una connotazione polemica. Linguaggio
burocratico è sinonimo di complicazione inutile, quasi concepita per ostacolare l’uomo della strada,
rendendogli più spiacevoli i suoi doveri di contribuente e più difficile da conseguire i suoi diritti di
cittadino.
Un’impressione del genere ha senza dubbio qualche fondamento. La proverbiale
artificiosità del linguaggio burocratico. Per ‘spiccioli’, ad es., negli uffici postali si leggeva ‘moneta
divisionale’. Occorre ricordare che la massima parte dei testi burocratici nasce in ambiente
giuridico: si può dire , anzi, che il linguaggio burocratico è un poco il parente povero di quello
legale. Ora le leggi fondamentali dello Stato sono frutto dell’elaborazione collettiva di grandi
giuristi, che soppesano ogni parola ben consapevoli del potere della lingua usata nello stilare le
norme, ma anche dalla necessita di offrire maggiore trasparenza ai cittadini che a quelle norme
devono attenersi. Invece la burocrazia ha a che fare con fonti di diritto di rango inferiore; dalle
leggi del Parlamento ai regolamenti, alle circolari emanate da un singolo dirigente. Ciò comporta
una minore cura formale, e quindi la minore chiarezza ed efficacia comunicativa con cui questi testi
sono stilati. In moltissimi casi una legge nuova non abroga la vecchia, ma ne limita l’applicazione.

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TECNICISMI COLLATERALI: Si può osservare la quasi assoluta assenza di tecnicismi specifici, a
parte pochissime eccezioni come ‘fincatura’ (suddivisione della pagina di un registro in colonne
verticali o righe orizzontali) o ‘ firmario’ (contenitore a libro per contenere documenti da firmare).
Come avviene per altri linguaggi settoriali, si incontrano originari tecnicismi collaterali che si sono
consolidati, stabilizzandosi in un significato fisso: si pensi alla ‘visura’ (verifica catastale
dell’effettiva situazione giuridica di un bene immobile) oppure alla distinzione tra pensioni di
vecchiaia (per limiti di età) e di anzianità (dopo un certo numero di anni di servizio). Il linguaggio
burocratico è il regno dei tecnicismi collaterali e proprio per questo offre larghi margini di intervento
alla sua riscrittura. Per es. ‘compiere’= allegare; ‘espletare’=svolgere; ‘incartamento’=pratica;
‘quiescenza’=pensione.
Ci sono anche frequenti locuzioni preposizionali di registro libresco; possiamo considerare tipiche
del linguaggio dell’amministrazione locuzioni come: ‘a corredo di’= insieme con; ‘a mezzo’=con,
mediante; ‘entro e non oltre’=entro.
In molti casi il tecnicismo collaterale convive con il sinonimo corrente nell’intento di ottenere effetti
di variatio (il timore delle ripetizioni). Talvolta è necessario, proprio come avviene nel linguaggio
giuridico ricorrere a un iperonimo: se in autobus leggessimo un avviso come: “il viaggiatore
sprovvisto di titolo di viaggio dovrà pagare una somma da 50 a 100 euro”. Con l’iperonimo ‘titolo di
viaggio’ si comprende il biglietto, la tessera, l’abbonamento, etc.
Altre volte il tecnicismo collaterale risponde a esigenze eufemistiche intese in senso lato. Es. al
posto di cieco, sordo, handicappato o invalido tendono essere utilizzati litoti come non vedente,
diversamente abile, non udente; termini che nel linguaggio comune possono essere usati
metaforicamente a indicare mancanza di sensibilità o intelligenza (essere cechi o sordi a
qualcosa). Ed è comprensibile che categorie di lavoratori persuasi di svolgere un lavoro di scarso
prestigio sociale preferiscano evitare termini tradizionali come becchino (necroforo), o spazzino
(operatore ecologico), bidello (ausiliario o collaboratore scolastico). A proposito di non urtare la
suscettibilità di determinate categorie, si ha anche il cosiddetto sessismo della lingua italiana, che
discriminerebbe il sesso femminile, preferendo espressioni come ‘l’uomo della strada’, ‘la paternità
di un’opera’ o ‘fratellanza delle nazioni’ dando una visione maschilista del mondo. Uso non
sessista e non discriminatorio della lingua ha portato a sdoppiamenti come abbonato/abbonata,
architetto/architetta, funzionario/funzionaria.
Presente nel linguaggio burocratico sono anche acronimi e frasi ad alto tasso di
nominalizzazione. Quanto agli acronimi, possiamo notare due caratteristiche che li differenziano da
quelli propri dell’ambito tecnico-scientifico, in particolare medico: questi tendono a essere usati
tanto nella lingua scritta quanto in quella parlata, mentre quelli burocratici siglati nello scritto,
diventano estesi nel parlato (es D.Lgs diventa ‘decreto legislativo’); quelli medici presentano
l’ordine dei costituenti dell’equivalente inglese, in quelli burocratici, propria della realtà italiana,

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viene mantenuta la sequenza della lingua madre. Tra gli acronimi che circolano in ambito
universitario si ha ‘CdF’ (Consiglio di Facoltà) e CdL (Corso di Laurea ).
Un’altra caratteristica del linguaggio burocratico è il suo precisionismo, cioè l’ossessione di
non dar luogo a possibili equivoci, richiamando continuamente il già detto e sovrabbondando in
precisazioni superflue, col risultato di ottenere periodi lunghi e complessi con basso indice di
leggibilità. Due tratti spiccano in particolare:
a- Continuo ricorso a elementi anaforici, cioè ad aggettivi, sostantivi o locuzioni che
‘rimandano indietro a qualcosa di già affermato in precedenza: detto, suddetto, sopracitato,
di cui sopra. (oltre a dimostrativi che verrebbero usati in funzione anaforica anche nella
lingua comune, come tale e questo.
b- Tendenza alla ridondanza, (la ridondanza è l'uso di parole la cui omissione non costituisce
una sostanziale perdita di significato ) soprattutto col ricorso ad aggettivi o avverbi che, in
quel contesto, sono poco informativi perché altamente prevedibili e quindi potrebbero
essere tralasciati. Es. un ‘bonus aggiuntivo’ o ‘normativa vigente’ ‘debitamente firmato’
‘richiesta documentazione’.

RISCRITTURA E STRATEGIE COMUNICATIVE NEL TESTO BUROCRATICO: Accanto al


lessico e alla lunghezza di parole e frasi, un requisito fondamentale di cui tener conto nella
riscrittura di un testo burocratico è la strategia delle informazioni. Un atto amministrativo ha una
struttura tradizionale che prevede in sequenza, i seguenti punti: a) indicazione del soggetto che
emana l’atto; b) l’atto; c) l’elencazione delle norme e degli altri elementi in base ai quali il soggetto
ha il potere di emanare l’atto; d) decisione presa dall’Amministrazione; e) firma dell’atto. Si tratta di
elementi essenziali per assicurare la legittimità dell’atto; ma nulla vieta che il punto C- quello più
ostico per i cittadini – possa essere delegato in nota o stampato in corpo minore. Ad. Es. in un
documento per informare la revoca della concessione dell’assegno mensile di invalidità, sono
messi a confronto due testi: burocratico e riscritto per maggiore leggibilità. Intervenendo sulla
completa ristrutturazione del testo che, pur conservando tutti gli elementi del testo di partenza, dà
la massima evidenza, grafica e linguistica, ai dati che interessano il cittadino-destinatario:
- Interventi nella presentazione grafica: sono stati messi in evidenza, nel margine
sinistro e in MAIUSCOETTO gli argomenti essenziali; e nella seconda metà del foglio, in
corpo minore, sono stati posti due elementi indispensabili ma di interesse non immediato
per il destinatario – relativo alle norme alle quali si dovrebbe far riferimento in un
eventuale ricorso.
- Interventi sul contenuto: solo qualche ritocco, omissione del decreto-legge preesistente
poi convertito in legge (di interesse solo strettamente giuridico) e il riferimento al comma.
- Interventi linguistici:

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a) Eliminazione di usi poco comuni nella lingua corrente come il participio presente con
valore verbale (‘concernente le verifiche’ diventa ‘che riguarda le verifiche’).;
b) eliminazione dei tecnicismi collaterali; lessicali: ‘che è stata svolta’ (‘effettuata’) –
‘fruire di pensione’ diventa ‘mantenere l’assegno mensile’; eliminazione di tecnicismi
collaterali morfo-sintattici come: ‘in data …’ diventa ‘il 25 Novembre 1995’ – ‘ai sensi
e per gli effetti’ diventa ‘in base’.
c) Eliminazione delle frequenti formule anaforiche, grazie a una diversa organizzazione
del testo.
d) Riduzione del tasso di nominalizzazione, che dava luogo a sostantivi astratti poco
comuni: ‘è stata accertata l’insussistenza dei requisiti richiesti’ diventa ‘la visita ha
verificato che mancano i requisiti necessari’.
e) L’esplicitazione dei soggetti ogni volta che sia possibile
f) Scioglimento delle abbreviazioni e delle sigle
g) Personalizzazione del decreto, che non si rivolge più a un astratto ‘beneficiario’ ma a
un ben individuato cittadino indicato a più riprese in modi cortesi con cognome.

10. LA VOCE DI ENCICLOPEDIA


È un particolare tipo di linguaggio appartenente ad un certo sapere specialistico proposto al lettore
comune, senza particolari restrizioni di destinatario (Enciclopedia) o con specifica destinazione agli
studenti (libro scolastico).
I DIZIONARI ED ENCICLOPEDIE: si dice abitualmente che il dizionario si occupa di parole mentre
l’enciclopedia si occupa di cose. Ciò è vero solo in parte. Anche il dizionario non può fare a meno
di fornire una serie di dati di volta in volta scientifici, tecnici o storici per illustrare adeguatamente il
significato di un vocabolo. Si tratta, piuttosto, di dosare i vari aspetti. Una voce come ‘illuminismo’
in un dizionario, darebbe una serie di informazioni strettamente grammaticali che prescindono dal
significato della parola: sostantivo maschile (s.m.) che si uniforma al paradigma dei nomi in -o; poi
ci ragguaglia sulle varie accezioni del termine contrassegnandole con numeri arabi in grassetto;
definisce le varie accezioni (appartenenti al lessico tecnico specialistico [TS -storico] o a quello
comune [CO]; offre la lista dei sinonimi e dei contrari disponibili per alcuni accezioni
(oscurantismo, secolo dei lumi); indica infine qual è la data della prima attestazione della parola in
italiano, suggerendo per la sua etimologia l’influenza del corrispondente termine tedesco
(Aufklarung). In questa fitta serie di informazioni, quelle propriamente enciclopediche sono solo
due: il luogo in cui si sviluppò (Europa) e l’epoca in cui ciò avvenne (sec. XVIII).
In un’enciclopedia- ‘illuminismo’ in un’enciclopedia, elimina tutte le indicazioni di tipo linguistico. La
voce abbonda invece nei dati (aree di diffusione e principali esponenti dell’illuminismo) mirando a
fare emergere la portata del fenomeno e il suo significato storico. L’universo lessicale di un
dizionario è chiuso, nel senso che tutte le parole adoperate nella definizione di un vocabolo
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dovrebbero essere registrate anche in ordine alfabetico con una loro definizione; invece
l’enciclopedia riflette un universo aperto: voci secondarie, soprattutto nomi di personaggi storici,
possono essere menzionate in un articolo di carattere generale, ma non avere uno spazio loro
dedicato. La consultazione di un dizionario dovrebbe essere sufficiente allo scopo che si propone
l’utente (sapere qual è il significato di una parola e quali ne sono le caratteristiche grammaticali e
fraseologiche dove cade l’accento, etc.); la consultazione di un’enciclopedia rappresenta uno
stimolo che il lettore interessato al tema deve approfondire attraverso letture specifiche.
Un’importante differenza tra dizionario ed enciclopedia riguarda la consistenza del lemmario. Il
dizionario comprende solo quelli che, nella grammatica tradizionale, si chiamano ‘nomi comuni’;
mentre è mutevole la porzione di lessico settoriale e di lessico marginale. L’enciclopedia, invece,
comprende una quota consistente di ‘nomi propri’ considerati significativi (nomi di personaggi
storici, mitologici, letterari, scrittori, scienziati, etc) e dei nomi comuni, solo quelli che hanno un
rilievo che vada oltre il puro significato linguistico. Nessuna enciclopedia registrerà l’articolo ‘il’
come parola grammaticale priva di valore semantico o avverbi come ‘successivamente’.

LA COMPILAZIONE DI UNA VOCE DI ENCICLOPEDIA: Una voce come illuminismo non pone
problemi particolari dal punto di vista linguistico al compilatore di un’enciclopedia (ma è
fondamentale la gerarchizzazione delle notizie ritenute degne di essere trasmesse). In generale, il
compilatore mantiene i necessari tecnicismi specifici e anche un certo numero di tecnicismi
collaterali. Lo stile è quello di uno scienziato, attendo alla precisione di quel che dice e all’uso di
tecnicismi specifici e collaterali. Alte volte, la definizione è molto ricca e articolata. Un’enciclopedia
può dare maggior risalto a ciò che in un determinato momento storico, appare più importante nella
coscienza collettiva. Es AIDS. Nel caso di definizioni particolarmente stringate, la frase nominale
può esaurire l’intero lemma. I vari periodi sono raramente collegati da connettivi che segnalino il
cambiamento del tema e non compare mai quella sorta di connettivo grafico che è il capoverso.

GERARCHIA ED EQUILIBRI DELLE INFORMAZIONI: Uno dei requisiti fondamentali di un


dizionario enciclopedico, costretto a condensare in poco spazio una massa di notizie eterogenee,
è una corretta selezione delle informazioni da offrire al lettore, ispirata al criterio della sistematicità.
Così, esaminando un segmento da Manganelli (saggista e narratore) a mangusta (mammifero
carnivoro) in un’’enciclopedia, in merito al trattamento di mango e mangusta, siamo autorizzati ad
aspettarci che anche per altri termini botanici e zoologici siano date analoghe indicazioni con le
medesime soluzioni grafiche: nome latino (tra parentesi e in corsivo) e precisazione della famiglia,
oltre eventualmente classe e ordine es. mangusta (mammifero e carnivoro). Per gli elementi
chimici (manganese) la serie di parametri identificativi comprende in sequenza il simbolo, il numero
atomico, il peso atomico, il punto di fusione, la densità. In realtà qualche incoerenza può
presentarsi (ad es. per argento non si dà il punto di fusione e per lo stagno manca la densità). Dei

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comuni italiani (Mango e Mangone) si offrono sistematicamente il numero degli abitanti e la quota
altimetrica. Per i nomi id persona si dà la nascita e morte, ma per gli italiani si indicano anche i
luoghi dove gli eventi si sono prodotti. Una volta indicato qual è il settore per il quale un certo
personaggio viene registrato, la menzione di un’opera in corsivo (con l’anno di composizione,
edizione o di diffusione). Si deve infine considerare lo spazio a disposizione e che ogni voce deve
avere uno sviluppo proporzionale all’importanza del tema trattato.
I requisiti essenziali per i dizionari enciclopedici sono due: 1) l’esattezza delle informazioni e la loro
controllabilità; 2) la sistematicità dei dati offerti.

11. IL TESTO SCOLASTICO


Da sempre il testo scolastico è lo strumento della divulgazione che interviene nella fase decisiva
per l’apprendimento di una disciplina, ma soprattutto di un metodo di studio. Mentre l’enciclopedia
o dizionario enciclopedico è consultato da persone di tutte le età, niente del genere avviene per il
libro scolastico. L’attuale assetto linguistico dei libri di testo dipende in gran parte dal mutamento
dei programmi e degli obiettivi formativi La storia ha da tempo ridimensionato, ad esempio,
l’importanza delle vicende militari e diplomatiche, valorizzando le componenti sociali ed
economiche; non si tratta più di raccogliere singole nozioni, ma di collegare dati a un più vasto
fenomeno. I libri di testo sono più ridotti di un tempo (manuali divisi in due o tre volumetti dedicati a
singoli moduli), con una presentazione grafica più accattivante, si fa largo ricorso a tavole fuori
testo e a illustrazioni multicolori, si insiste molto sul percorso didattico che lo studente deve
compiere, sollecitandolo con verifiche e con test di autovalutazione.
Una caratteristica non nuova, ma fortemente accentuata, è proprio questo forte orientamento sul
destinatario, individuato come l’interlocutore del libro di testo. Già la presentazione è spesso
costruita con i pronomi ‘tu’ o ‘voi’. Sul piano grafico si può notare prima di tutto l’accentuazione di
un espediente tradizionale, inimmaginabile in un testo non destinato allo studio: l’evidenziazione
(attraverso il corsivo, il grassetto, il ricorso a un colore diverso) delle parole-chiave di una certa
frase: non solo di nomi proprio, riferimenti, nozioni tecniche, ma anche degli elementi di maggiore
rilievo. Nella stessa direzione vanno i simboli che simulano la penna o la matita. Quanto alle
illustrazioni basterà osservare che attualmente anche i testi scientifici abbondano nell’apparato
iconico, allo scopo di alleggerire il volume e di renderlo più digeribile da parte dell’alunno. La vera
novità rispetto a un passato anche recente è rappresentata dai vari sussidi didattici che
sottolineano i ‘prerequisiti’ (cioè le conoscenze presupposte per uno studio efficace, conoscenza
dei termini e concetti di base); gli obiettivi del modulo; le competenze di stabilire confronti e la
capacità di analizzare fonti scritte e interpretare.
La porzione di testo scritto riservata a un singolo argomento può essere ridotta rispetto a un
tempo: ma questo non implica, almeno nelle intenzioni del compilatore, che la materia sia
banalizzata e che si debba rinunciare a un apparato terminologico e concettuale avanzato. Può
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accadere che un testo scolastico presenti un certo numero di termini specialistici che sono assenti
dai dizionari correnti. Molti testi sono forniti di un Glossario; altri presentano delle ‘finestre’
esplicative per spiegare appunto determinate parole chiave. Un tecnicismo può non essere
spiegato esplicitamente se il contesto è sufficiente a chiarirne il significato.
Ogni discorso procede per accumulo, rimettendo continuamente in circolo elementi introdotti in
precedenza. Il problema (delicato per ogni testo scolastico) di conciliare informazione e
divulgazione, rinunciando eventualmente a fornire dati in modo troppo sommario perché possano
essere davvero assimilati, si pone per diverse materie come la teologia, la chimica (scienza dura).
Spesso il testo deve intervenire in due direzioni: 1) di carattere generale, è la ridondanza
informativa – come sappiamo la retroazione o feedback è un requisito proprio di ciascun testo
orale, particolarmente usata nella didattica frontale; diffondendo un argomento ritenuto importante,
tornandovi sopra con altri punti di vista o altre parole, un insegnante può cercare di superare il
disinteresse dello studente o la distrazione e trasmettere le informazioni essenziali. Sappiamo
anche che un testo scritto ha caratteristiche diverse. Tuttavia, il testo scolastico è un genere di
testo assai particolare, la ridondanza informativa mantiene una sua funziona precisa e non è detto
che per un ragazzo-tipo sia più proficuo studiare tre pagine ad alta densità informativa piuttosto
che cinque pagine di ritmo più disteso. 2) la seconda direzione è l’inevitabile eliminazione di alcuni
concetti fondamentali e la mancata esplicitazione di altri. A volte si rinuncia a introdurre alcune
nozioni preliminari (per es. nel libro di Chimica del Marinelli concetti come miscuglio, valenza; si
definiscono gli elementi, ma non se ne menziona nemmeno uno; si introduce la sigla pH senza
spiegarla) con conseguenze sulla comprensione e sull’assimilazione del contenuto. Il rischio è che
il ragazzo salti tutto o lo impari a memoria senza capirlo. In casi del genere sarebbe meglio
privilegiare nozioni importanti, dedicando loro una trattazione sufficientemente distesa e sacrificare
il resto.

STRUTTURA LINGUISTICA E STRATEGIE INFORMATIVE: La scelta e la gerarchia delle


informazioni sono aspetti particolarmente importanti che possono suscitare perplessità anche in
libri di testo di buon livello qualitativo. Individuati i contenuti da trasmettere, è necessario calarli in
una struttura linguistica he sia chiara dal punto di vista della strategia informativa. Per es. nella
descrizione dell’effetto serra, il brano viene suddiviso in capoversi ed ognuno contiene una precisa
unità informativa: descrizione del fenomeno, precisazioni relative al punto precedente per ribadirne
l’importanza (es. il calore trattenuto fa aumentare la temperatura della Terra); lo sviluppo del
fenomeno nel tempo; effetti del fenomeno (riscaldamento globale); cause e rimedi. Dal punto di
vista sintattico-grafico l’insistenza sul meccanismo causa-effetto è essenziale per illustrare molti
fenomeni scientifici; per tradurre linguisticamente questo meccanismo di causa-effetto si utilizza la
struttura del ‘periodo ipotetico’ (se).

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Anche l’equilibrio tema-rema è orchestrato con efficacia. Che cosa cambia passando da un libro di
testo scientifico a un libro di testo letterario? Poco o nulla per quanto riguarda le esigenze di fondo:
gerarchia delle informazioni e adeguata strutturazione testuale. Ma è normale che aumenti
l’attenzione stilistica e che il lessico si faccia più ricco e articolato. Ciò non perché le materie
umanistiche siano il regno delle belle parole (possono anch’esse essere illustrate con analogo
scrupolo scientifico), ma perché è la materia stessa che, per essere esposta in maniera efficace,
può richiedere un ventaglio espressivo più ampio. Esempio, una storia-antologia del Novecento dà
largo spazio, accanto alla letteratura italiana, alla letteratura straniere, alle correnti filosofiche,
ideologiche e artistiche che hanno segnato il panorama storico-culturale del periodo trattato.
Rispetto a un libro di testo scientifico, un libro di testo letterario si caratterizza per via
dell’aggettivazione e il lessico più ricco e articolato.

12. L’ARTICOLO DI GIORNALE


Il giornale offre, dal punto di vista linguistico, una rassegna di testi e di stili alquanto diversi tra loro:
dalla narrazione propria di un articolo di cronaca, alle strategie argomentative di un editoriale
all’oralità di un’intervista.
In Italia, si legge poco rispetto al resto d’Europa e si comprano pochi quotidiani. D’altra parte, non
solo nel nostro Paese, nel corso degli ultimi decenni il giornale ha via via perso la sua funzione di
informare su quel che avviene nel mondo, in quanto si hanno altre ben più rapide fonti di
informazione come radio, internet. Il giornale cartaceo ha avuto una ripresa, nelle grandi città, con
la distribuzione mattutina dei quotidiani gratuiti (free press). Ma questo prodotto non ha molto in
comune col quotidiano tradizionale: usura rapida, mentre il quotidiano a pagamento è portato a
casa e può essere letto o sfogliato da altri; grande spazio alla pubblicità, notizie breve, mancanza
di commenti e di reportages, forte sviluppo per la cronaca. Eppure il grande quotidiano classico, è
il luogo dei commenti sui grandi fatti della politica, del costume, della cultura scritti da grandi
giornalisti o da intellettuali prestigiosi; propone diversi soggetti; gestire il rapporto testo-spazio a
disposizione, sollecitare l’interesse, indurre a proseguire la lettura è importante. Per raggiungere
questi obiettivi, occorre una buona padronanza linguistica, a cominciare dal lessico. In un giornale
possiamo trovare, con intento ironico, neologismi occasionali o anche parole letterarie o addirittura
arcaiche. Nell’articolo di giornale sono frequenti i neologismi occasionali o voci letterarie o
arcaiche.
Analizziamo tre tipici articoli giornalistici per comprendere il funzionamento linguistico:

L’ARTICOLO DI CRONACA: la cronaca è forse il settore in cui più si avverte il cambiamento di


stile del giornale rispetto a 40 anni fa. Prima di tutto c’è una drastica selezione delle notizie
collegandole a discorsi di portata più generale; nella lingua si evitano i tradizionali stereotipi
(agghiacciante sciagura) e si punta su ciò che fa, di un certo avvenimento, una notizia realmente
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meritevole di essere comunicata ai lettori. Il cronista deve lavorare con poche notizie, quelle
ricavate dal verbale delle indagini e deve farle stare in poche righe, fornendo unità informative
relative a: luogo dell’avvenimento, in cosa consiste e come si è concluso, chi è il responsabile. Si
può ricorrere ad una tecnica narrativa che si definisce della circolarità. La notizia viene raccontata
più volte aggiungendo ogni volta qualche particolare che non avrebbe interesse ma che serve a
mantenere alta la tensione del racconto riproponendo snodi essenziali. L’importanza di una notizia
giornalistica si giudica in primo luogo dallo spazio assegnatole dal quotidiano; e per raggiungere
uno spazio adeguato era inevitabile accogliere particolari accessori. Ma se tutti questi dati
accessori fossero presentati simultaneamente, riducendo l’articolo a un unico e particolareggiato
resoconto, il racconto risulterebbe lento e poco leggibile.

L’ARTICOLO DI FONDO: L’articolo di fondo (o editoriale) è un po’ il biglietto da visita di un grande


giornale. È la sede in cui il direttore, un giornalista esperto o, un autorevole collaboratore esterno
propongono una valutazione personale – che il giornale fa propria accogliendola in apertura – su
un grande tema di politica interna o internazionale oppure di costume. A differenza di altre sezioni
del giornale, che molti saltano, l’articolo di fono è generalmente letto da tutti color che comprano
un grande quotidiano. Se l’articolo di cronaca condensa il massimo di informazione nel titolo, molto
strutturato e dettagliato, in questo caso la titolazione è assai ridotta e dice poco; va letto
interamente. Se l’articolo di cronaca è un testo tipicamente narrativo, l’editoriale è un testo
argomentativo che procede in modo lineare, scandendo le fasi del ragionamento in capoversi
senza riprese del già detto (benché non sia rara, tra gli strumenti della coesione testuale, la
riforume) e senza picchi emotivi. Il tessuto argomentativo è costruito su tipici connettivi che
articolano un ragionamento, per dedurre una conseguenza da una premessa (quindi), per
avanzare un’obiezione a quanto appena asserito (ma), per stringere in una conclusione una serie
di considerazioni precedenti (insomma). Rispondono a una strategia testuale anche alcuni segni
d’interpunzione, come il punto e virgola che precede un connettivo forte (“sarebbe la prima a farne
le spese; insomma”) o i due punti con funzione descrittivo-argomentativa. Tipica è anche
l’interrogativa didascalica, con la quale chi parla o scrive rivolge una domanda a sé stesso, per
vivacizzare l’esposizione. Vengono usate ellissi, sineddoche (‘America’ in riferimento agli USA);
rari coesivi pronominali in funzione di soggetto (egli, questo).

L’INTERVISTA: Le interviste ad alte cariche istituzionali e politiche avvengono spesso a distanza


(le domande sono inviate via fax o via posta elettronica, l’intervistato ha tutto l’agio di calibrare le
risposte) e in genere vengono rilette dall’interessato prima che ne sia autorizzata la pubblicazione.
Invece le interviste a personaggi di minore autorevolezza (cantanti, attori), offrono al giornalista
l’occasione di rappresentare -e in parte ricostruire artificialmente- una conversazione reale, col
vantaggio che l’intervistato di turno appare spontaneo, con tutte le esitazioni e approssimazioni di

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discorso proprie del parlato. Domande e risposte procedono a ritmo serrato. Non tutte le domande
hanno una risposta puntuale; a volte è elusiva, sfumata, A tale scopo utilizza puntini di
sospensione, per simulare i modi di una conversazione orale interrotta o sfumata.
Vengono utilizzati per la riproduzione del parlato diversi espedienti:
a) Formule per dire ‘sì, no forse’ (anche ‘non lo so’, ‘chissà’, ‘mah’)
b) I connettivi fraseologici di apertura del turno di discorso (‘sa’, ‘senta’) all’interno del
discorso.
c) Le formule originariamente metalinguistiche che sembrano andare in cerca della parola
giusta, ma in realtà introducono una nota polemica: ‘aveva… come dire? altre priorità’.
d) Onomatopee che indicano una reazione non verbale (‘Mmmhhh’).
e) Nella sintassi, il frequente ricorso a frasi nominali (‘Mai navigato nell’oro, questo partito’ –
‘due giorni di mobilitazione in tutte le piazze’).
Tutti questi tratti linguistici non rispecchieranno esattamente ciò che è stato effettivamente detto; il
parlato reale è pieno di ridondanze, sovrapposizione dei turni di discorso, false partenze. Il
giornalista deve avere l’abilità di restituire l’apparenza di un discorso reale, interpretando il senso,
se non sempre la lettera, delle cose dette dall’intervistato e distribuendo sobriamente alcune
marche tipiche dell’oralità.

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