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VARIABILITÀ LINGUISTICHE

diastratica= è una variabile sociolinguistica che dipende dalla situazione dei parlanti:
provenienza socio-culturale
diatopica= è una variabile sociolinguistica relativa al mutare dei fatti linguistici nello spazio,
secondo una prospettiva geografica
diacronica= è una variabile sociolinguistica che indica lo studio e la valutazione dei fatti
linguistici considerati secondo il loro divenire nel tempo, secondo una prospettiva dinamica
ed evolutiva.
diamesica= è una variabile sociolinguistica relativa al mezzo materiale adottato per
comunicare

I CAPITOLO, “LA PROSPETTIVA STORICA”


il “De vulgari eloquentia” dantesco offre una prima descrizione della geografia linguistica
italiana. Dante può essere considerato non solo un anticipatore della “storia della letteratura
italiana”, ma anche il primo che, attraverso esempi concreti, abbia illustrato i diversi idiomi
materni parlati nella nostra penisola.
Tra i punti fermi su cui si fonda l’argomentazione dantesca, la certezza che il modo di
parlare si modifichi da un luogo all’altro, non solo nel passaggio da un’area ad un’altra, ma
finanche da una zona all’altra dello stesso territorio.
Dante afferma anche con chiarezza che le lingue parlate cambiano nel tempo.
Le modificazioni delle lingue naturali nel tempo nello spazio, per Dante rappresentano quasi
un limite delle lingue volgari. Pertanto, nel cercare di individuare il volgare più adatto per un
uso letterario, egli ritiene che tale volgare debba essere stabile come il latino.
Aldilà del problema affrontato da Dante, è fuor di dubbio che i parametri da lui individuati
rappresentano due fondamentali motivi di interesse per chi studia le lingue in una
prospettiva storica (le modificazioni nel tempo: “variazione in diacronia”) o in prospettiva
geografica (le modificazioni nel tempo: “variazioni in diatopica”). descrivere i cambiamenti
intervenuti in una lingua, o le differenze tra una varietà e un’altra sono alcuni obiettivi a cui
punta lo studio della storia linguistica esaminata attraverso l’analisi dei testi.
L’attenzione di Dante si concentra in particolare su cambiamenti tra una già nell’altra, la sua
ricerca orientata verso una lingua letteraria che possa essere usata da tutti i letterati così
com’è usato il latino.
A questo proposito, però, risulta subito una certa stabilità della lingua italiana. L’italiano
infatti, pur modificandosi nel tempo, è cambiato in modo meno profondo rispetto ad altre
lingue europee: quando noi leggiamo Dante e Boccaccio o San Francesco, anche
incontrando talvolta difficoltà di comprensione, non abbiamo mai l’impressione di trovarci di
fronte a una lingua completamente diversa da quella che noi scriviamo e parliamo.
D’altra parte è anche vero che: un uso plurisecolare può avere un po’ appannato nel tempo
significati che per Dante, e i suoi contemporanei, erano di immediata evidenza:
ESEMPIO:
“Tanto gentile e tanto onesta pare,
La donna mia quand’ella altrui saluta”.
Aduna prima lettura, “ella” diverge un po’ dalla lingua oggi corrente, visto che la forma
pronominale più usata è lei.
Ad esempio però per Dante e per i suoi contemporanei una “donna gentile“, non è una
persona dotata di buone maniere, ma invece significa: capace di sentimenti nobili ed elevati,
dotata di elette qualità morali. Allo stesso modo “onesta“ non si riferisce al fatto che la donna

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non commette azioni disoneste ma: che manifesta superiorità ed elevatezza morale e
intellettuale, unite a compostezza, dignità e decoro.
Anche il verbo “pare” non ha il senso di “sembra”, ma significa: “si manifesta”.
Nemmeno “altrui” ha qui la funzione che noi attribuiremmo a questa forma; infatti non è un
aggettivo, ma un pronome con il valore di “ciascuno”.
La comprensione, lo studio e le edizioni di testi antichi, rappresentano alcuni degli obiettivi
degli studi di storia della lingua italiana, che si articolano in diversi filoni di ricerca: studio dei
cambiamenti della lingua scritta, forme e strutture dell’italiano, caratteristiche stilistiche di
diversi autori, indagini dialettologiche, interesse per le varietà intermedie tra lingua e dialetto,
nonché storia dei dialetti studio in diacronia e in sincronia degli usi comunicativi in rapporto
anche ai diversi mezzi di comunicazione adottati (esempio: giornali, teatro, cinema,
televisione, Internet).

II CAPITOLO, “LE ORIGINI LATINE DELL’ITALIANO”


Nell’antichità non esisteva una lingua unica è stabile, uguale per tutti i parlanti. In ogni
epoca, infatti la comunicazione scritta e parlata si modifica in rapporto a circostanze,
parlanti, usi, scrittura oralità.
Anche il latino era usato in modo diverso da coloro che lo parlavano; da alcune scritte murali
incise sui muri di Pompei ci accorgiamo che il modo di parlare poteva essere ben diverso dal
latino di tipo classico e letterario, visto che perfino nella scrittura si inserivano forme
particolari.

QUISQUIS AMA VALIA PERIA QUI NOSCI AMARE BIS [T]ANTI PERIA QUISQUIS AMARE
VOTA.

L’estensore di questa scritta e non ha rispettato tutte le regole della grammatica: ha scritto in
modo diverso da come avrebbe scritto il letterato: ciò accade perché l’autore di questo
graffito non aveva una conoscenza perfetta della lingua scritta e trasferiva nel suo breve
testo alcune caratteristiche diffuso in un modo di parlare veloce poco formale.qui, come si
vede, mancano tutte le -t finali delle desinenze verbali di terza persona, per cui leggiamo
“ama” invece di “amat”, inoltre la -e, seguita da -a, viene resa come -i, per cui troviamo
“Peria” invece di “pereat”, “valia” invece di “valeat”. chi ha inciso questo graffito
probabilmente trasferito nella scrittura il suo modo di parlare. Se in italiano si dice “ama” e
perché già nel latino parlato del I secolo d.C., ma probabilmente anche prima, poteva
accadere che la -t finale non fosse pronunciata.
Coloro che scrivevano abitualmente testi letterari erano però consapevoli di alcune
particolarità della pronuncia delle differenze rispetto alla scrittura: lo scrivente improvvisato,
che incide alcune frasi proverbiali suoi versi di una poesia d’amore ascoltate memorizzata,
non è invece la capacità di cogliere le differenze tra la lingua Dalì parlato abitualmente e la
lingua della scrittura letteraria.
Quando mi secoli successivi è stato studiato il latino, è stata adottata come modello la lingua
letteraria che si era conservata attraverso le scritture.
Anche al tempo dei latini, il latino si studiava a scuola: è verosimile infatti che una delle
principali preoccupazioni dei maestri fosse quella di insegnare agli scolari una lingua scritta
che era in parte diversa da quella che si parlavano. L’obiettivo fondamentale della scuola e
quella di insegnare agli scolari ciò che essi non sanno; per quanto riguarda le conoscenze
linguistiche, insegnare agli alunni ciò che non sanno significa che condurli a riflettere sulla

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lingua che hanno appreso e parlano. Dalla riflessione sull’uso linguistico spontaneo può
derivare l’apprendimento di un modo di parlare di scrivere più consapevole ed elaborato.
Questo principio, era probabilmente ben presente anche a maestri di latino dell’antichità.era
ben presente un insegnante del IV secolo di cui ci resta un documento didattico: si tratta di
una lunga lista di vocaboli, che posto sconosciuto grammatico adottava come punto di
riferimento nella sua attività didattica.tale lista nota con il nome di “APPENDIX PROBI” (si
trova la fine di un manoscritto che contiene una serie di testi grammaticali latini, alcuni dei
quali attribuiti a un autore che si suole individuare come pseudo-Probo: pertanto il nome
“Appendix Probi” dipende dal fatto che la lista è collocata in appendice a una serie di testi
dello pseudo Probo), comprende 277 parole; per ognuna di esse affianca la forma corretta e
quella errata. Il maestro vuole mostrare come si scrivono alcune parole che gli scolari
scrivono secondo la loro pronuncia:
SPECULUM NON SPECLUM (da cui poi deriva “specchio”)
FORMICA NON FURMICA (passaggio dalla -o- protonica a -u-, perdura nella forma
dialettale “furmicula”)
CALIDA NON CALDA
VINEA NON VINIA (da cui deriva la forma “vigna”)
GRUNDIO NON GRUNNIO (si spiega “grugno”)
da questo elenco di parole risalente al IV secolo d.C., deduciamo che il latino pronunciato da
scolari suscitava la preoccupazione degli insegnanti. Probabilmente anche nei secoli
precedenti i maestri dovevano competenza insegnare le forme corretto latino a scolari che a
Roma come nelle diverse regioni controllate da romani, apprendevano il latino
pronunciandolo in modo diverso da una zona all’altro : in questo modo, grazie insegnamento
si è affermata e si è diffusa nella scrittura una lingua latina stabile.
I cambiamenti del latino furono favoriti da alcune circostanze; ocorre ricordare che il latino
era utilizzato in modo diverso in tutto il territorio dell’impero romano, poiché entrava in
interferenza con le lingue già usate (lingue di sostrato) dalle popolazioni delle regioni via via
conquistate.
Queste differenze diventarono sempre più sensibili, nel momento in cui le istituzioni romane
e non riuscivano più a controllare in modo uniforme l’intero territorio dell’impero.
In particolare, proprio l’Appendix Probi mostra quanto fosse difficile proporre
nell’insegnamento la lingua della scrittura.
Rispetto alle poche persone che apprendevano la lingua scritta, in un periodo di crisi anche
dell’istituzione scolastica, avevano un peso notevole tutti coloro che, usando il latino solo
come lingua parlata, trasmettevano da una generazione all’altra una lingua sempre più
lontana da quella della scrittura letteraria.
Di fronte a un uso linguistico che si andava modificando rapidamente, veniva dunque a
mancare il controllo della norma linguistica, che in genere è garantita da istituzioni solide e
compatte.
L’indebolimento dell’istituzioni imperiali rese più rilevante l’arrivo di popolazioni che, a partire
dal III secolo d.C., entrarono in territorio dell’impero portando nuove abitudini e nuove lingue
che a lungo andare facevano sentire la loro influenza.
La crisi dell’impero le nuove circostanze storiche resero ancora più evidenti le differenze tra
il latino parlato da tutti, e il latino della scrittura ufficiale ormai conosciuto e praticato solo da
pochi professionisti della scrittura.
Dal modo di parlare del popolo, cioè dal latino volgare derivano le diverse lingue volgari neo-
latine o romanze: derivano dal latino parlato il francese, il castigliano, l’italiano e tutte le

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lingue romanze; derivano dal latino parlato anche tutte le altre varietà locali italiane
tradizionali (per intenderci: dialetti), come il torinese, il milanese, il napoletano.
Con questi esempi si vuole affermare che ogni singola varietà locale, piccola grande che sia,
nasce come diretta derivazione dal latino.

III CAPITOLO, “IL VOLGARE NELLA SCRITTURA”


il passaggio dal latino volgare alle lingue neo-latine si realizza nell’arco di alcuni secoli
attraverso una serie di cambiamenti che si instaurano nella lingua parlata: accade
normalmente infatti che mentre la lingua scritta resta stabile, la lingua parlata si evolve.
Occorre osservare come la lingua parlata si sia nel tempo allontanata dalla lingua scritta,
Comin certe occasioni tale uso sia stato al conto nella scrittura, sottoforma di elementi isolati
occasionali (come nel caso del “graffito pompeiano”).
In qualsiasi comunità che conosce la scrittura, il modo di scrivere si differenzia dal modo di
parlare, poiché in genere la scrittura tende a una comunicazione più formale.
Proprio attraverso la scrittura viene salvaguardata la tradizione linguistica, che permette di
trasmettere testi da un secolo all’altro; come già notava Dante, non capiremmo il loro modo
di parlare: invece li capiamo se leggiamo quello che si hanno scritto.
Questi cambiamenti diventano invece molto più probabili se la maggioranza dei parlanti non
ho contatti costanti con la scrittura.
Quando in una comunità linguistica viene meno la “manutenzione” del proprio bagaglio
linguistico, è più facile che tale bagaglio si preferisca i, si cominci poi a confondere una
lingua con un’altra.
Dal I secolo d.C. si affievolita la “manutenzione” del latino e delle sue varietà.
A lungo andare si realizzeranno su queste premesse la crisi e i cambiamenti profondi del
latino, con la conseguente nascita delle lingue volgari.
Come dimostrano: il graffito pompeiano, l’Appendix Probi, numerose altre iscrizioni e altre
testimonianze letterarie, accanto al latino si affacciano alcuni usi da cui deriveranno in
seguito le lingue romanze volgari.
Il latino e lingua ancora usata in certe circostanze e ancora nota e studiata nelle sue
strutture: non è dunque lingua del tutto morta.
Tuttora il latino conserva uno spazio in letteratura. Non dimentichiamo infine, che il latino è,
insieme con l’italiano, lingua ufficiale dello Stato della città del Vaticano.
D’altra parte anche la nascita di una lingua non è un evento puntuale, ma si diluisce in tempi
lunghissimi.
La consapevolezza del cambiamento di una lingua usata, non ha luogo nell’uso spontaneo e
parlato di una comunità, ma si compie quando una lingua è osservata, per così dire
“dall’esterno”.
La trasmissione orale di una lingua nel tempo è una delle principali manifestazioni di
continuità della cultura orale; tale tradizione assicura una catena di continuità tra le
generazioni induce a porre in risalto una sostanziale stabilità.
la consapevolezza il cambiamento linguistico della trasformazione di una lingua in un’altra, si
affacciano i casi in cui è la scrittura rendere evidenti gli avvenuti cambiamenti.
Uno dei motivi dell’adozione del volgare nella scrittura, si collega al fatto che qualcuno (più
probabilmente è un gruppo culturale) si accorge che la lingua si è ormai modificata e prende
coscienza di caratteristiche specifiche della propria lingua.
Come sottolinea Terracini (1996), una lingua muore quando i parlanti non percepiscono più
le sue specificità peculiari.

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Come si è detto, l’oralità è il luogo del cambiamento linguistico, mentre è nella scrittura che i
cambiamenti di una lingua assumono una evidenza concreta.
Se nell’oralità i cambiamenti sono meno percepiti, ciò dipende dal fatto che una lingua
cambia in modo graduale: le parole antiche, per esempio, restano sempre a disposizione dei
parlanti, che le usano accanto a parole nuove. Solo lentamente accade che la parola più
arcaica possa essere del tutto abbandonata, ma ciò è possibile solo quando la nuova si sia
definitivamente radicata nell’uso. Il cambiamento più radicale che comporta un graduale
“scivolamento” di una lingua in un’altra e percepito nella scrittura.
Per comprendere tale cambiamento possiamo notare che, quando parliamo, raramente ci
fermiamo a pensare come si debba dire una cosa; viceversa quando scriviamo ci fermiamo
a riflettere su come scrivere una parola o come esprimere al meglio un certo pensiero.
la scrittura comporta sempre uno sforzo di oggettivazione con una o più o meno articolata
riflessione sulla lingua (riflessione metalinguistica).
Nei secoli di passaggio tra il latino e l’italiano, quando in sostanza si scriveva in un modo,
ma si parlava in un altro, in alcuni ambienti culturali è stato percepito il cambiamento, ed è
stata sentita la necessità di usare nella scrittura la lingua che si parlava.
Tale situazione si collega una crisi, di trasmissione della norma, favorita a sua volta da
analfabetismo diffuso, spopolamento, crollo delle istituzioni, crisi della comunicazione scritta.
La lingua parlata poi progressivamente sentire la sua influenza nella scrittura; tale influenza
si realizza sottoforma di interferenza involontaria fin quando, non si afferma la
consapevolezza della differenza tra le varietà, che conduce a un diverso modo di scrivere.

IV CAPITOLO, LATINO E VOLGARE IN DOCUMENTI MEDIEVALI E PRIMI TESTI IN


VOLGARE
L’interferenza tra lingue diverse si insinua anche nelle scritture latine. Accolgono forme che
rientrano nella lingua dell’uso parlato e sono lontane dalla norma grammaticale del latino. In
certe circostanze, la scrittura vive nell’ambito giuridico e nell’ambito ecclesiastico religioso; si
scrive soltanto per fini istituzionali.
In un latino progressivamente avviato verso il parlato, si inseriscono anche elementi tipici del
lessico quotidiano: gli atti notarili latini danno spazio a volgarismi di vario genere in
particolare a parole della lingua parlata.
In un documento redatto a Tito (in Basilicata) nell’anno 823 si incontrano volgarismi
lessicali, fonetici e morfologici (citazione da Sabatini 1968).
E tra gli elementi linguistici più evidenti spicca la distinzione tra le desinenze singolari e
quelle plurali, che seguono la morfologia del volgare; per le forme verbali invece, ormai
sembra stabile la caduta delle desinenze del latino (abea).
Osserva Sabatini che l’impiego inevitabile di queste parole quotidiane può aver
“condizionato la lingua anche in sede fonetica, morfologica e sintattica”.
come in altri testi documentari, quando viene meno la componente formulare, affiorano
elementi che rimandano alla vita materiale e agli oggetti di uso comune.
I PLACITI CAPUANI
In documenti come quello di Tito dell’823, il latino e il volgare si confondono.
In qualche caso, anzi latino e volgare sono stati all’interno dello stesso documento, accostati
l’uno all’altro, ma tra loro ben distinti.tale situazione si realizza appunto nei “Placiti Capuani”,
il più antico dei quali e del marzo 960.
Il placito Capuano più antico, è un atto notarile redatto a Capua nel (per l’abbazia di
Montecassino) marzo 960 d.C., in questo documento per la prima volta vi è un uso scritto
consapevole e ufficiale di un volgare italiano.

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Nel corso del X secolo i monaci hanno bisogno di riprendere i propri territori, dato che questi
ultimi, a causa delle scorrerie dei Saraceni, dovettero abbandonare l’abbazia.
Tali proprietà però vengono discussi e messi in dubbio da un certo Rodelgrino D’Aquino.
Viene quindi chiamato a giudicare il tribunale.
Nel marzo 960 il giudice Arechisi, su richiesta dell’abbazia di Montecassino, convoca tre
testimoni per definire la proprietà di una notevole estensione di terra.
Quindi, la soluzione trovata, è quella di convocare alcuni testimoni che dichiarino di sapere
che l’abbazia detiene da trent’anni il possesso di determinate terre. Viene cioè invocato un
principio di usucapione.
Visto che tali documenti sono il prodotto di una strategia ben precisa, non si può certo
pensare che sia casuale o involontario l’inserimento al loro interno di parole in volgare.
Il placito in quanto atto notarile è interamente redatto in latino: al momento in cui
intervengono i testimoni è inserita la frase da loro pronunciata, che è riportata in volgare:
“SAO KO KELLE TERRE PER KELLE FINI QUE KI CONTENE, TRENTA ANNI LE
POSSETTE PARTE S(A)NC(T)I BENEDICTI”
le parole pronunciate dei testimoni possono essere così interpretate:
“Mi risulta (non perché ho sentito dire), che la terra di cui stiamo parlando, secondo i confini
che qui (nel documento) sono stati descritti, trent’anni l’ha posseduta l’abbazia di San
Benedetto”
I tre testimoni, che pure giurano in piena coscienza di dichiarare il vero, ripetono senza
dubbio parole concordati prima, che evidentemente devono contenere precisi riferimenti
indispensabili a rendere valido l’atto. Il notaio mette a verbale la dichiarazione, ma è chiaro
che questa non è una verbalizzazione di parlato spontaneo. Queste formule, al contrario,
sono frutto di meditata riflessione sono state davvero pesate parola per parola.
La dichiarazione è dunque una formula finalizzata a una precisa esigenza giuridica.
dobbiamo poi escludere che la trascrizione in volgare dipenda dalla volontà del notaio o
dell’abate di agevolare in questo modo testimoni che siano eventualmente ignari di latino.
Questa esigenza, in questo caso non sussiste, perché i tre testimoni sono chierici anche
notai, tutti quindi gli appartenenti a quella ristretta cerchia di persone usano in latino.
Questi testimoni che sono in possesso di una cultura latina sono d’altra parte anche
perfettamente in grado di cogliere in pieno il valore giuridico e tecnico delle frasi che
pronunciano. Essi quindi, non ripetono parole formulari che non capiscono, ma hanno piena
consapevolezza di quanto stanno dicendo.
Per quanto riguarda la pregnanza giuridica del lessico, è sufficiente ricordare che “sao” non
significa genericamente “solo”, ma “mi consta”.
Una cenno merita anche il “contene”, nel senso di “si contiene”: con questa forma verbale si
allude alla descrizione delle terre che si legge nella sezione latina del documento notarile.
ciò significa che la formula è stata pensata in stretta connessione con il testo scritto.
La preparazione accurata che si intravede attraverso il testo della formula ballare fa credere
che questa scelta si colleghi all’intenzione di dare la massima pubblicità e ufficialità alla
testimonianza, fissata anche in prospettiva futura al fine di risultare comprensibile agli occhi
dei posteri.
Se ne può dedurre che in questi documenti il latino corrente, veniva percepito come una
lingua labile, mentre il volgare sembrava più adeguato a valere anche nel futuro.
L’impiego del volgare nelle scrittura nasce subito in Italia con un connotato culturale alto: è
una conferma di come la scrittura sia principalmente il luogo della formalità.
Nel caso della storia degli usi scritti in Italia è importante sottolineare che l’uso scritto
dell’italiano ha origine in un testo destinato a svolgere una funzione elevata.

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in questo uso particolare la variabile diamesica (cioè la variabilità del mezzo: scrittura,
oralità), fa sentire tutto il suo viso: il testo è incentrato tutto sulla scrittura, perché nella
trasmissione scritta deve spendere la sua validità, che di lunghissimo periodo.
Come il placito Capuano esiste ancora, in quanto è stato conservato allungo proprio per la
sua funzione pratica.
Sono i tempi relativamente recenti è stata rilevata la sua importanza di documento
linguistico.
Altre formule testimoniali simile a quella ora vista, Sono usate in documenti trascritti nel
“CHRONICON VULTURNESE”, relativo all’insediamento benedettino di San Vincenzo al
Volturno. Ne deduciamo che i monaci benedettini sono stati molto attenti a conservare gli
originali dei placiti.
Se così fosse, come nota Petrucci (1994), l’uso del volgare nei placiti rappresenterebbe da
bere un’eccezione di un periodo particolare.
Se confrontiamo i placiti Capuani con i giuramenti di Strasburgo che segnano il primo
impiego nella scrittura del volgare francese, notiamo alcune differenze.
I GIURAMENTI DI STRASBURGO
Si dice che il 14 febbraio 842, i tuoi nipoti di Carlo Magno, Carlo il calvo, re dei franchi
occidentali, e Ludovico il germanico, re dei franchi orientali (di lingua tedesca) giurano,
rispettivamente in “romana lingua” e “teudisca lingua”, di non prendere accordi separati con
il fratello primogenito Lotario.
I due giurano l’uno nella lingua dell’altro, evidentemente per rendere il proprio impegno più
comprensibile agli altri e più solido.
Anche se in un giuramento solenne, l’uso del volgare avviene nel caso dei giuramenti di
Strasburgo nella comunicazione orale registrata da un cronista; nei placiti al contrario
l’affermazione del volgare ha luogo nella scrittura, per iniziativa di personaggi alfabetizzati,
che percepiscono le differenze tra latino e volgare.
L’INDOVINELLO VERONESE
prima della formula Cassini s’c’è qualche altra testimonianza di uso scritto del volgare. Una
risale alla fine dell’VIII secolo (cioè fine del 700).
Si tratta di un breve testo in versi alla fine di un manoscritto che contiene un’opera latina: è
l’indovinello veronese.
Esso si configura come una prova di pinna o come una conclusiva postilla che un copista
pone al termine del suo lavoro.
Qui è sufficiente ricordare che l’indovinello è scritto in “è una lingua che non è più in latino e
non è ancora volgare”.

“Se pareba boves, alba pratalia araba, et albo versorio teneba….. et negro semen
seminaba”

Questi brevi versi, sono stati riconosciuti come indovinello da Vincenzo de Bartholomaeis, il
quale chiarire che la risposta è la mano che scrive.
Secondo la sua interpretazione, le cinque dita della mano con la penna sembrano sei buoi
che spargono non seme nero (l’inchiostro) in un campo bianco (il foglio) solcato dall’aratro (il
pennino).
Secondo un’altra possibile interpretazione il testo andrebbe inteso come “spingeva innanzi i
buoi, arava bianchi i campi, teneva un bianco aratro, spargeva un seme nero”

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Altra lettura è quella proposta da Bartoli Langeli (1995), che intende “se paraba” come “sic
parebat”, traducendo quindi:” c’era una volta un bue, bianchi prati arava e bianco aratro
teneva e nero seme seminava”.
In questo breve testo il copista, chi inserisce questo indovinello, sottolinea, certo non per sua
invenzione, che la scrittura in quanto lavoro, non è da meno dell’aratura.
Il copista che ho scritto questa frase appena finito di copiare un testo latino: egli quindi
pratica la scrittura per professione e conosce il latino.
Il testo non è totalmente in volgare, anche se accoglie numerosi volgarsmi.
Forse è proprio per questa modalità intermedia di scrittura il copista non scrive il latino
letterario delle opere, ma in latino che quotidianamente si mescola con il volgare.
Dato il tipo di argomento, può darsi che ci sia la volontà di ricorrere a una lingua scritta che
richiami il modo di parlare di chi non conosce bene il latino: il divertimento-riposo del copista,
cenerebbe quindi un divertimento linguistico-espressivo.
Seminaba fa rima con araba, teneba con seminaba.
Se fosse stato scritto “boves se pareba” faceva rima con “teneba” avremmo quindi ottenuto
una terzina alternata.
Non vi è molta differenza da un graffito di Pompei: caduta delle desinenze, andatura
sintattica che segue un po’ il volgare e un po’ di latino.
IL GRAFFITO DI COMMODILLA
Un altro piccolo testo, scritto in una lingua che può essere definita come “volgare”:
(Scritto su muro)
Graffito di Comodilla
Scritto su 5 righi 6,5x11
“NON
DICE
REIL
LESE
CRITA
ABbOCE”
(Rafforzamento fonosintattico)
“non dire le cose segrete a voce!”
Ritrovato da Francesco Sabatini, il quale scopre che è un testo contemporaneo all’atto
notarile di Tito, scritto in una catacomba. Sostiene inoltre che “i secreta” è una particolare
preghiera che il sacerdote pronuncia durante la liturgia nel momento della consacrazione.
Quest’ultima è stata inaccessibile fino al 1900, perché risulta che a metà del (IX, 850) ci fu
una frana.
All’interno di quest’utilità vi erano i corpi di sue santi.
È stata trovata anche una moneta dell’inizio del (IX), anche per questo si pensi che tale
scritta risalga ai primi decenni del IX secolo.
(queste due bb sono diverse, la seconda più piccola, perché aggiunta dopo, ci dà dei dettagli
della buona cultura grafica della persona che l’ha scritto).
un indizio di “ricezione” della fonetica locale nella scrittura sia nell’ultimo rigo: A BBOCE, è
stato prima scritto A BOCE, poi in un secondo momento è stata aggiunta la seconda -B- è
perché evidentemente l’autore del graffito si è reso conto che la sequenza -a boce- poteva
essere letta “a voce”. Questa minima giunta ci permette quindi di immaginare che, dopo aver
inciso la sua scritta, il chierico l’abbia mentalmente riletta e l’abbia trovata non del tutto
rispondente alle sue intenzioni; si sarebbe accorto che mancava qualcosa, c’è proprio la

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seconda -B-che meglio avrebbe reso la corrispondenza tra grafia e pronuncia, suggerendo
la lettura A BBOCE.
Poco osservazione sulla lingua possono partire proprio dalla seconda -B- aggiunta nella
parola BBOCE: in questa grafia si riflette un fenomeno diffuso tuttora nei dialetti meridionali,
il cosiddetto betacismo, che in alcune posizioni, per esempio dopo la proposizione a,
comporta la pronuncia intensa della consonante labiale occlusiva, che invece, quando si
trova tra due locali, cioè in posizione debole, viene articolata non come occlusiva ma come
Fricativa (v) consente il passaggio dell'aria. Il rafforzamento fono-sintattico lo usiamo quando
parliamo italiano, non viene colta subito dagli stranieri, c'è in latino e in diversi dialetti ma
manca nei dialetti settentrionali (Veneto-Emilia Romagna-Lombaria-Friuli etc)
un italiano settentrionale non usa questo rafforzamento. Quest'ultimo si sta espandendo nei
settentrionali negli ultimi decenni. È causato anche da "Più", in latino c'erano monosillabi che
terminavano per consonante provocano il rafforzamento fono-sintattico. Anche dopo
"The", "Caffè" abbiamo il rafforzamento fono-sintattico, lo abbiamo con parole terminano con
sillaba accentata (città). Nei dialetti centro-meridionali abbiamo il rafforzamento fono-
sintattico, non in tutti i dialetti sono le stesse parole a provocarlo. In fiorentino è provocato
dal "Da", gli italiani non toscani dicono "esco di casa alle tre, torno a casa alle tre" un
fiorentino dice "esco da casa e torno a casa". In italiano, (Dapprima, dappertutto)
scritte come parole uniche hanno una p rafforzata perché sono parole che conservano il
segno di una pronuncia di tipo Fiorentino. È una delle prove fonetica del fatto che l'italiano
ha una linea diretta con il fiorentino, così era pronunciato, l'italiano ha avuto una sua vitalità
come lingua parlata mentre arrivava la scrittura che si è stabilizzata come l'italiano veniva
pronunciato. L'italiano era parlato anche prima.

CAPITOLO V, “UNITÀ E MOLTEPLICITÀ LINGUISTICA AL TEMPO DI DANTE”


In ogni epoca una qualsiasi lingua, pur percepita come unitaria, può essere parlata e scritta
in modi diversi: nell’italiano riconosciamo varietà diatopiche (italiano regionale), che sono
ulteriormente differenziabili in senso diastratico (italiano popolare).
Nel medioevo il latino e il volgare convivono dapprima in ambiti tra loro ben differenziati:
possiamo dire che il latino è lingua scritta, mentre il volgare è la lingua usata nella
comunicazione parlata.
Tale situazione è tipicamente chiamata “diglossia”, con cui si indica la compresenza di due
lingue, usate in settori tra loro ben differenziati e, per così dire, impermeabili l’uno all’altro.
La diglossia tuttavia non è in genere stabile nel lungo periodo.
L’adozione del volgare nella scrittura, si diffonde in relazione alle esigenze di alcuni
ambienti, come per esempio l’ambiente mercantile: i mercanti e i notai a loro collegati, sono i
fruitori del volgare scritto.
Nelle città si costituisce un ceto di scriventi e di lettori che adottano il volgare.
Grazie al nuovo pubblico di alfabetizzati di cultura media, si diffonde la letteratura in volgare.
In quest’epoca la prima formalizzazione di un interesse per il volgare si coglie nel “Convivio”
e nel “De vulgari eloquentia” di Dante; queste opere definiscono le diverse connotazioni
culturali del latino e del volgare parlato.
Nelle prime pagine del “De vulgari eloquentia”, Dante definisce cosa sia il volgare e lo pone
a confronto con il latino.
Il volgare non si impara, piuttosto si riceve (accipimus) per abitudine, (assefiunt) cioè solo
attraverso l’uso, senza alcun ausilio di regole.
Il latino; al contrario, è una lingua secondaria (nel senso che è apparsa in un secondo
tempo, come seconda lingua), che non si acquisisce naturalmente, ma richiede lunga

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applicazione e studio: pertanto tutti possono conoscere il volgare, mentre solo pochi
giungono alla conoscenza del latino.
Nella prospettiva della cultura medievale, interamente fondata sulla “lingua secondaria” in
partenza ignota agli scolari, non c’era posto per uno studio del volgare, anzi sarebbe
apparso inutile, poiché per definizione il volgare era noto a tutti naturalmente.
La lingua materna non era però del tutto assente dalle aule scolastiche.
Se non era lingua da studiare, il volgare era comunque lo strumento iniziale di conoscenza,
perché tramite questo, era possibile indirizzare lo scolare allo studio del latino, per poi man
mano approfondirlo.
Nel De vulgari eloquentia, Dante pone in primo luogo un problema retorico e di stile, poiché
si domanda quale tipo di volgare debba essere usato in opere letterarie.
L’ampia diffusione del volgare gli suggeriscono una riflessione teorica, che punta a valutare
se esista una lingua parlata, sia adatta alla cultura elevata, cioè in qualche modo accostabile
al latino.
Uno dei requisiti che contraddistinguono il latino è l’uniformità, laddove i volgare sono
numerosi e diversi uno dall’altro. Per questo motivo, occorre in primo luogo prendere atto
della molteplicità dei volgare al fine di sceglierne uno solo, da riconoscere come:
illustre
cardinale
aulico
curiale
La scelta di un unico volgare diventa premessa per il superamento dell’instabilità dei volgari,
mutevoli nello spazio e nel tempo.
Nella prospettiva di Dante la stabilità del latino dipende dal fatto che esso sarebbe una
lingua artificiale ideata con dotti, mente i volgari sono lingue naturali e proprio per questo
motivo sono mutevoli.
All’inizio del De vulgari eloquentia è sottolineata la molteplicità dei volgari: sono quattordici,
ma, secondo Dante, a volerli elencare tutti, potrebbero essere anche più di mille.
Il numero di mille (e oltre) è probabilmente iperbolico, un modo per dire che i volgari sono
davvero tanti.
Il problema che Dante pone è quello di individuare una lingua unica che sia riconosciuta
come propria da tutti coloro che, pur parlando naturalmente mille lingue diverse, possono
intendersi, attraverso gli scritti letterari.
Per il poeta non si tratta di eliminare le mille lingue materne naturali, ma di scegliere una
lingua, che pur mutevole, sia fatta a svolgere le funzioni di lingua di cultura che al suo tempo
erano invece assegnato al solo latino.
Dante cerca di analizzare tutti i volgari al fine di eliminare quelli più inadeguati a una
funzione letteraria.
Però, se si esclude qualche concessione al siciliano e al bolognese dei letterati, tutti i
volgari, compreso il fiorentino, risultano ampiamente inadeguati, perché la loro
inadeguatezza, in sintonia con l’intento retorico e stilistico del trattato, è innanzi tutto valutata
in termini estetici e di armonia sonora: quindi quasi tutti i volontari sono aspramente criticati
per i loro suoni sgradevoli.
Gli unici per il volgari parzialmente apprezzati sono quelli usati da poeti siciliani e dai
bolognesi.
Il volgare che essi hanno adottato e non sarebbe infatti quello usato nella comune
conversazione.

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La lingua (Siciliana) di Guido delle Colonne o la lingua (bolognese) di Guido Guinizelli sono
cioè giudicate positivamente proprio perché questi poeti hanno scritto in modo diverso da
come avrebbe parlato da come parlavano i loro conterranei: lo stile dei poeti garantisce la
letterarietà della lingua in quanto assicura una certa distanza bello hai parlato.
Dante gli apprezza perché sono stati sottoposti in poesia ad un rigoroso filtro formale
stilistico.
In conclusione, per Dante, il volgare in quanto parlato e naturale è privo di una regolarità
grammaticale.
Tra il 204 100, solo quelli che scrivevano in volgare dopo aver acquisito una conoscenza del
latino inserivano nella propria scrittura in lingua volgare anche alcuni elementi del latino. A
partire dal 300, coloro che usando in latino nutrono ambizioni letterarie, si orientano in modo
sempre più consistente verso il modello di Dante e di Petrarca.

VI CAPITOLO, ”NOTAI, MERCANTI E SCRITTURA IN VOLGARE”


Tra le categorie sociali che adottarono il volgare nella scrittura figurano i notai e i mercanti: i
primi legati a una tradizione di scritture formulari latine, ma tenuti anche a trascrivere aspetti
della realtà concreta inevitabilmente nominati in volgare, i secondi interessati ad una
scrittura pratica che per esigenze di commercio, doveva, prescindere dal prolungato studio
del latino.
Nelle scuole tenute da notai, il volgare rimaneva strumento per la conoscenza del latino, ma
acquistava anche un ruolo diverso poiché ai notai si richiedeva, anche di saper scrivere in
una lingua comprensibile agli illetterati.
Molto particolare è un foglietto del 1311 conservato tra le carte di un notaio genovese, in cui
si legge una frase ripetuta per ben quattro volte:
“PERÒ PUMOSO DE ZOANE A FATTO COSSE INVER LO MAISTRO DE LE QUAE ELO
SE PENTIRÀ”.
Lo scolaro Piero Pumoso di Giovanni eseguiva probabilmente una punizione inflittagli dal
maestro.
Ben poco si può dedurre da un solo rigo in merito alle tecniche dell’insegnamento, ma è
scontato che il volgare usato nella scrittura fosse quello parlato dagli alunni come lingua
materna.
Altri frammenti di libri di scuola notarile dimostrano che gli scolari mettevano per iscritto il
volgare di uso quotidiano, simile a quello che si riscontra nei documenti notarili.
I notai imparavano a scrivere il volgare dopo aver imparato a scrivere in latino: in seguito
essi, non seguivano un modello, né una norma studiata, ma si abituavano a trasferire nella
scrittura ciò che ascoltavano.
Come per i notai, anche per i mercanti la scrittura è componente indispensabile dell’attività
professionale.
Le loro esigenze sono dettate da necessità concrete, poiché solo la scrittura gli permette di
seguire con attenzione sui conti e i suoi affari. Proprio la vocazione alla concretezza e al
profitto, rendeva improduttiva per i mercanti la scuola di grammatica, che per la sua
lunghezza non era conveniente per chi avesse esigenze diverse dallo studio del latino. Con
lo sviluppo della civiltà urbana, e delle attività economiche, soprattutto da parte dei ceti
mercantili, ma qua la necessità di una scuola che insegnasse “a scrivere una lettera di affari
e a tenere l’amministrazione”. Fu così incoraggiato l’insegnamento privato: a tenerlo erano
sempre dei chierici. La novità principale suggerita dalle esigenze mercantili fu lo studio
dell’abaco, cioè del pratico “far di conto”. Alla fine del 200 l’insegnamento privato dà luogo a
“curricula” scolastici del tutto nuovi. Per i mercanti impartire ai propri figli un’istruzione pratico

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e veloce è un vantaggioso investimento.l’insegnamento impartito agli aspiranti mercanti, già
dall’inizio del XIII secolo da notai da chierici, conduceva in tempi brevi gli allievi a scrivere in
volgare.nel 1317, un ragazzo frequentava Genova le lezioni del maestro di grammatica
Salvo da Pontremoli, presso il quale in quattro anni avrebbe imparato a “leggere ed anche
scrivere lettere brevi”. Nei più antichi testi in volgare di uso pratico, si trovano i riflessi di un
insegnamento della scrittura in partito da notai e da chierici, E si notano elementi di novità
che rinviano ad un nuovo ambiente sociale indirizzato verso la scrittura in volgare. La
domanda di istruzione da parte di ceti sociali nuovi, aveva luogo soprattutto nei centri urbani
dove era incoraggiata l’istruzione di scuole di orientamento pratico. Da una contrapposizione
tra attività manuali, per compiere le quali non serviva essere alfabetizzati, e le attività che
invece richiedevano le abilità del leggere e dello scrivere, derivano negli stessi secoli una
opposizione tra cultura urbana e cultura rurale. La connessione tra civiltà urbana mercantile
e progresso dell’alfabetizzazione è esplicita in un famoso passo in cui Giovanni Villani
registra con orgoglio il numero degli scolari fiorentini. Villani, oltre a suddividere gli scolari,
fornisce cifre che farebbero a presupporre un’elevata percentuale di alfabetizzazione a
Firenze negli anni intorno al 1339: 8000 o 10.000 ragazzi che imparano a leggere
corrisponderebbero infatti al 10% di una popolazione che è stata stimata in circa 90.000
abitanti. Sono forse valutazioni ottimistiche da parte del Villani, che tuttavia si riferiscono ad
un centro che aveva conosciuto uno straordinario sviluppo economico. Tuttavia è fuor di
dubbio che è una buona percentuale di ragazzi fiorentini nella prima metà del trecento
vivesse l’esperienza diretta di un contatto con la scrittura. Giovanni Villani non dice da
quanto tempo può essere operanti le scuole a cui fa riferimento; non si può quindi tentare di
calcolare quante generazioni di fiorentini abbiano potuto frequentarle, e in quale percentuale
fossero alfabetizzati i fiorentini adulti, ma le parole del cronista fanno credere che egli dia
conto di uno sviluppo dell’istruzione ormai consolidato. Il nesso tra scrittura in volgare e
e sviluppo economico risalta in modo vistoso dato che proviene dalla Toscana una parte
enorme dei testi in volgare scritti entro il 1375. A questa massa cartacea scritta in volgare
hanno dato un ampio contributo i mercanti: per loro, soprattutto a un certo livello, era infatti
una cosa scontata saper scrivere e fare in modo che i dipendenti imparassero a scrivere.
L’abitudine dei mercanti alla scrittura si connette, d’altro lato, alla diffusione della lettura.
proprio in questo terreno di vasta alfabetizzazione, attecchì in ambito mercantile la
circolazione del libro di lettura in volgare, sostenuta anche da un pubblico femminile che era
sempre stato estraneo alla cultura in latino.

VII CAPITOLO, “I LETTERATI ITALIANI E IL TOSCANO”


in una veste linguistica già toscanizzare dei copisti, Dante leggeva i poeti siciliani. Questa è
dunque la lingua che verrà tenuta presente da Dante e dai suoi contemporanei come
modello di scrittura letteraria. Se pensiamo alla linea di continuità che lega la lingua dei
siciliani a quella di Dante, e poi alla lingua di Petrarca e Boccaccio, notiamo che la lingua
letteraria nata da un trapianto di testi siciliani in Toscana si è poi diffusa. la particolare vitalità
del centro culturale fiorentino ha fatto sì che da Firenze fosse rimessa in circolazione, una
lingua letteraria che aveva già assimilato e fatta propria l’esperienza iniziale dei poeti
siciliani. Il toscano si diffonde tempestivamente fuori dalla Toscana non per effetto di una
pressione militare, né da uso di scritti ufficiali. Questa si diffonde attraverso la persuasione
della sua letteratura, che si avvale come mezzo di diffusione dei mercanti toscani nei diversi
centri commerciali italiani. In ogni centro culturale italiano ha luogo infatti, tra inizio 300 e fino
ai 400 più o meno, un’intensa fioritura di letteratura in volgare locale. Si tratta di una
produzione destinata ad una fortuna solo locale; viceversa in ogni centro culturale italiano,

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giungono le opere letterarie scritte nel volgare di una precisa regione, in cui fiorisce una
letteratura che più delle altre si impone all’attenzione dei cultori di opere in volgare: il volgare
è quello toscano, e toscana è la letteratura che viene letta in ogni regione. Ne deriva
insomma che il toscano, si è proposto come modello di lingua letteraria; è stato scelto dei
parlanti di altre aree culturali come lingua da imitare nella letteratura, perché le opere dei
toscani risultavano particolarmente gradite e lette. Nel volgare toscano gioca un ruolo
decisivo l’opera di Dante Alighieri, che circola immediatamente in ogni regione d’Italia.
Significativa è l’influenza linguistica toscana, che si nota nelle canzoni del poeta Brizio
Visconti (morto nel 1359), il quale riprende dalla cultura Toscana anche a temi e contenuti
poetici:
Le tradizioni locali sono sopraffatti dalla vita di corte che accoglie ora le nuove mode toscane
accanto a quelle francesi; un altro elemento che colpisce, nelle canzoni di Brizio Visconti e la
nobilitazione stilistica della donna, vale a dire il rifiuto di quella antifemminismo che aveva
caratterizzato tanta parte della poesia duecentesca.
Anche in aree dove già esiste una produzione letteraria in volgare locale, la diffusione delle
opere di Dante provoca un’attenzione verso il toscano.
Tutto ciò favorisce la ricezione in area ligure di laudi e di altre opere di argomento religioso.
Queste laude circolano in seguito in area genovese. In ambiente napoletano incontriamo
inoltre due episodi che sono indizi della fortuna del toscano, che si impone come lingua
scritta letteraria, anche se il modo di parlare è ancora integralmente napoletano. Una
testimone, proveniente dalla famiglia fiorentina degli Acciaioli, molto potente a Napoli nel
300, dimostra che i giovani di questa importante famiglia si inserivano nella realtà locale e a
prendevano la lingua del luogo: il letterato fiorentino Zanobi da Strada, nel 1354 comunicava
a Jacopo Acciaioli che una giovane della famiglia era ormai diventata napoletana pure nel
modo di parlare. Sappiamo d’altra parte che raggiunse una buona conoscenza del
napoletano anche Giovanni Boccaccio. Egli usa il napoletano nella scrittura (più non lo
specifico nella cosiddetta “epistola napoletana” databile al 1339).mentre i fiorentini
osservano il napoletano, e lo usano nella conversazione, i napoletani cominciano ad
interessarsi al fiorentino in quanto strumento di espressione letteraria. In questo diverso
atteggiamento di parlanti e degli scriventi, si coglie la diversa connotazione culturale che
viene attribuita da un lato a una lingua locale come il napoletano (usato nella comunicazione
orale), dall’altro al toscano (che viene visto come lingua letteraria destinata alla scrittura).
A questo proposito è esemplare il caso dei versi composti da un nobile napoletano,
Bartolomeo di Capua: sui suoi esercizi di poesia, ci informa Andreina Acciaioli (moglie del
poeta):
“Vi mando alcune rime di sonetti che furtivamente ho messo insieme, all’insaputa di mio
marito.perché penso che siano state scritte male, in quanto gli scrittori di queste parti non
scrivono bene nel nostro volgare”.
Dalle parole di Andreina si ricavano informazioni sulla cultura cortigiana della metà del
trecento. Fa pensare che il passatempo della versificazione in volgare fosse coltivato in quel
periodo da un gruppo di scrittori e non solo dal conte d’Altavilla. Inoltre si deduce che tali
prove poetiche avessero una certa circolazione, visto che il giudizio investe in generale gli
autori “di queste parti”. Non vi sono poi i dubbi sulla scelta linguistica di questi poeti: e si
vogliono scrivere nel volgare toscano, ma a parere della Acciaioli non ne sono capaci.
In un trattato di retorica del padovano Antonio da Tempo (rimatore teorico di poesia), scrisse
nel 1332 una “Summa Artis Rithimici Volgaris Dictaminis”, nella quale affermava che il
toscano più di altri volgari era adatto alla letteratura.

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Proprio il Veneto è tra le aree che più accolgono la cultura toscana; l’individuazione di un
modello linguistico da imitare, come risulta dalle parole di Antonio da Tempo, e successiva
alla diffusione dei testi dei poeti stilnovisti e delle opere di Dante. Con il Veneto ebbero del
resto contatti diretti Lapo Gianni, cino da Pistoia e Guido Guinizelli. La successiva influenza
di Dante si aggiunse a una già consolidata tradizione di collegamenti e di diffusione di testi:
Il nodo centrale per il consolidamento della nuova cultura poetica è rappresentato dalla
stessa presenza di Dante nel Veneto, negli anni dell’esilio.

VIII CAPITOLO, “DALL’USO ALLE REGOLE DEL VOLGARE: LA GRAMMATICHETTA


DI ALBERTI”
La sistemazione grammaticale della lingua italiana risale alle “prose della volgar lingua”
(1525) di Pietro Bembo. Dall’esempio di Bembo hanno tratto modelli e regole tutti i
grammatici successivi, almeno fino all’ottocento inoltrato, quando, grazie all’autorizzazione
di Manzoni, cominciò a farsi strada una nuova prospettiva grammaticale fondata su
un’attenzione alla lingua parlata. Già prima di Bembo, però, il volgare fu oggetto di un
efficace riflessione grammaticale adopera di Leon Battista Albert, la breve descrizione
grammaticale del volgare, ora nota come “Grammatichetta (risale a: luglio 1008 438 e
ottobre 1441); essa non circolo al di fuori degli ambienti fiorentini, ma ebbe una sua “fortuna
sotterranea”. Nella tradizione grammaticale italiana questo testo è importante perché
rimane, in un certo senso, per lungo tempo isolato: infatti in Italia ha prevalso per molti
secoli, da Pietro Bembo fin oltre Manzoni, un’attenzione grammaticale concentrata sulla
lingua scritta dei letterati.
L’osservazione di Alberti punta a descrivere l’uso della lingua parlata a Firenze nel presente.
L’intento dell’autore e dimostrare che anche una lingua parlata è usata secondo alcune
regole precise e riconoscibili. Le prime regole a cui l’autore si riferisce, sono quelle della
grafia. Infatti l’opera si apre con “l’ordine delle lettere“, che presenta tutte le lettere
dell’alfabeto disposte in un ordine non alfabetico: esso infatti non serve a insegnare
l’alfabeto, che è un potenziale lettore, in quanto tale, già conosce, ma fa riflettere sulla forma
dei vari segni grafici al fine di un più economico apprendimento della scrittura del volgare.
coloro che imparavano a leggere scrivere in volgare, senza poi proseguire gli studi
grammaticali latini, acquisivano un’abilità più o meno sviluppata nel riconoscere le lettere
dell’alfabeto e nel metterle per iscritto. Alberti inizia perciò dal punto in cui terminava il
bagaglio di conoscenze posseduto in genere da un qualsiasi alfabetizzato. L’autore si
inserisce in una tradizione didattica che dà grande importanza alla grafia e, per la prima
volta egli si dispone a descrivere le peculiarità grammaticali della propria lingua. Essa infatti,
se da un lato si presenta come un’opera destinata apparentemente ad una riflessione
personale, sin dal suo brevissimo Proemio, viene collegata alle polemiche linguistiche di
battute dai filologi del tempo.
in questa iniziale attenzione grammaticale verso il volgare è esplicito il rinvio al dibattito
sull’unicità della lingua latina, che si svolgeva nel 400.a questo proposito erano state
espresse due tesi opposte: secondo Leonardo Bruni, presso i Romani esistevano due
diverse lingue latine, una dei colti e un’altra del popolo, nettamente distinte tra loro. Invece
per Flavio Biondo il latino era una lingua unica, differenziava soltanto al suo interno per
diversità di stile di tono: la lingua degli scrittori era cioè la stessa del popolo, ma
rappresentava il risultato di un processo di affinamento favorito proprio dall’impiego
letterario. Il latino classico viene visto perciò da Biondo come un’unica lingua di cui il “sermo
vulgaris” (discorso volgare) era la manifestazione immediata. La questione venne dibattuta

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presto l’anticamera papale di Eugenio IV, nel 1435. Biondo sottolineava che la differenza tra
lingua dei dotti e lingua del popolo era di “modo e di gradi, ma non di natura”.
Per Leonardo Bruni il “vulgaris sermo” era del tutto privo di regole, come il volgare
contemporaneo. Dimostrare che il volgare parlato aveva delle regole che potevano essere
individuate descritte, significava dimostrare che anche il latino parlato dal popolo romano
non fosse privo di regole come invece riteneva Leonardo Bruni.
come gli scrittori latini scrivevano per essere intesi da molti, piuttosto che da pochi letterati,
Alberti opta per il volgare, lingua a molti comprensibile. Per scrivere in modo comprensibile a
tutti, non si può fare a meno di attenersi a “quanto nostra lingua oggi richiede”; la decisione
di adottare il volgare comporta, perciò la necessità di impegnarsi nella descrizione delle
regole della sua grammatica. Alberti passa dunque all’illustrazione della lingua volgare.
Alberti e in effetti il primo a sancire che non si può parlare o scrivere bene in volgare, se non
si conoscono e non si applicano le sue regole e, nello stesso tempo, dà per scontata la
necessità di fare ricorso ad una lingua corretta e priva di vizi grammaticali.

IX CAPITOLO, “FORTUNE DEL VOLGARE TRA ‘400 E ‘500: DAL TOSCANO


ALL’ITALIANO”
Già nella seconda metà del 400, molto prima della codificazione bembesca, il toscano
condizionò anche la lingua di testi non letterari scritti da persone colte. Un esempio tra i
quotanti di tale condizionamento, si trai da una lettera del poeta milanese Gaspare Visconti: i
pezzi del genere si notano tre diverse componenti nella veste linguistica. Accanto ai tratti
latini, si riconoscono infatti quelli toscani e quelli che dipendono dalla varietà locale. Qui,
come si vede, sono in latino le formule di saluto iniziali e finali della lettera, mentre altri la
can Ismo i grafici e fonetici si distribuiscono nella lettera che denotano una voluta
ricercatezza nella scrittura. La componente toscana risalta con particolare evidenza nella
dittongoazione di “può” e “suoi”.
La tendenza che si riconosce nella scrittura di un lombardo colto, è che per esigenza
culturale puntano e convergono verso una lingua che permetta di comunicare al di fuori di un
ristretto ambito locale. Accanto al prestigio del latino si delinea un modello toscano che
comincia orientarsi verso una lingua che si distacca dalle caratteristiche locali in seguito,
nella scuola di grammatica cinquecentesca, il latino continua ad essere l’unica lingua
studiata, ma l’ormai consacrata fortuna letteraria del volgare, fa sì che nelle sue aule si
introduca anche il libro in volgare.
L’esperienza del lombardo Visconti e le testimonianze di alcuni scolari del 500, confermano
infatti che la volontà di apprendere una lingua non locale nasceva come esigenza per chi
voleva uscire da un orizzonte limitato, pur senza far ricorso necessariamente al latino. Da
una testimonianza di Benedetto v
Varchi (nel 1503) si intravede la preoccupazione che le letture in volgare potessero
distogliere dal vero studio: la prima colazione dei genitori e dei maestri riguardavano la
corretta lettura del latino (va intesa come la proibizione di non leggere “come volgare”). La
decisa reazione del maestro di Varchi, fai ne Fetty pensare che fosse abbastanza diffusa tra
gli scolari la tendenza a leggere di nascosto per volgare di Petrarca o di altri. Nel 1595
Tommaso Garzoni nella sua opera “piazza universale di tutte le professioni del mondo”, tra
le monellerie compiute degli scolari far rientrare la lettura clandestina di testi in volgare, in
questo caso “l’Orlando furioso”. Gli studenti di grammatica che coltivavano la passione per i
libri in volgare, sarebbero poi diventati futuri lettori anche di libri grammaticali dedicati al
volgare. Si diffuse nel 500 il genere testuale della grammatica del volgare: questi libri
facevano ricorso tutti coloro che volevano approfondire la padronanza della lingua volgare

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così come avevano approfondito quella del latino.proprio nel 500 si compie, in un certo
senso, il percorso avviato dalla riflessione del “De vulgari eloquentia” . Nel trattato dantesco
vigeva una contrapposizione tra: il volgare acquisito spontaneamente come lingua materna,
il latino che doveva essere appreso attraverso lo studio. Dopo un paio di secoli, si delinea
nei primi decenni del cinquecento una nuova prospettiva, secondo la quale anche la
competenza del volgare letterario doveva essere conseguita attraverso l’apprendimento e lo
studio.tale applicazione diventava indispensabile per chi volesse giungere a un’adeguata
padronanza di una lingua letteraria, che in effetti, quell’altezza cronologica, non era più per
nessuno una lingua materna acquisita spontaneamente.
Nella scuola di grammatica, il volgare aveva nel 500 la stessa funzione strumentale, che gli
era propria almeno dai tempi di Dante: coloro che frequentavano questo tipo di scuola
potevano giungere a una conoscenza del latino, senza aver maturato alcun interesse per
l’uso di un volgare letterario.
Solo chi seguiva una particolare vocazione per la letteratura in volgare, assecondava la
propria inclinazione studiando le: opere degli autori volgari e i testi grammaticali che si
andavano diffondendo nel 500.
Nell’organizzazione didattica di questo è un po’ come si delinea, una sempre più forte
domanda di istruzione proveniente dei ceti popolari. Si tratta di un’esigenza diffusa di
alfabetizzazione, in parte certamente indotta dalla crescente diffusione dei libri a stampa e in
specie dei libri in volgare. Su questa esigenza si modella una pratica didattica che si
rivolgeva al basso settore di coloro che volevano imparare soltanto a leggere a scrivere. Si
determina, in tal modo, una fascia di persone che sono in grado di mettere per iscritto il
proprio volgare materno.
Da quanto si è detto finora, si comprende che le fortune dell’italiano non sono determinate
dalla scuola.prima di fare il loro ingresso nelle aule scolastiche, le opere dei trecentisti
potevano essere utilizzate come primi libri di lettura in famiglia.sono infatti categorica
l’affermazione di Vincenzo Borghini, il quale garantisce che “sempre” i massimi autori di quel
secolo sono stati letti e studiati dalle famiglie fiorentine:
“Nella nostra città si è usato sempre il Boccaccio, il Petrarca e Dante. Sono i primi libri che a
me ricorda avere veduti, e io per me imparai a leggere in sul Petrarca”
È molto probabile che il “sempre” equivalga più o meno una formula del tipo “a memoria
d’uomo”, Bari da cioè per un arco di tempo per il quale Borghini può testimoniare per sé e
per le generazioni immediatamente precedenti.
Al primo 500 riporta poi un’altra testimonianza, molto significativa, anche perché dà
conferma dell’uniformità di abitudini e di letture favorite dalla stampa. Si tratta infatti di una
cronaca della fine del 500, in cui Eustachio Verricelli ricorda che un suo zio medico, prima di
intraprendere la scuola di grammatica, aveva già imparato a memoria Petrarca:
“A tempo che imparava di leggere s’imparò tutto il Petrarcha a mente, di poi alla schola di
gramatica quasi tutto il Virgilio“.
Nell’abbinamento tra Petrarca e Virgilio, che nel primo cinquecento segna l’iter linguistico e
didattico, si coglie una spontanea adesione a un principio di autorità che evidentemente era
avvertito anche prima della teorizzazione di Bembo: lo zio di Eustachio Verricelli, che
certamente parlava il proprio volgare materno, si costruisce una competenza linguistica
trilingue, nella quale accanto al volgare spontaneamente acquisito nell’infanzia, si
collocavano le altre due lingue studiate attraverso i libri, la lingua letteraria di Petrarca e la
lingua letteraria di Virgilio.
Nei primi anni del 500 era già teorizzata la necessità di preferire Dante e soprattutto
Petrarca qualsiasi altro autore, e di scegliere il toscano come lingua letteraria.

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la convinzione di Borghini che non vi fosse famiglia priva dei libri di Boccaccio, Dante e
Petrarca viene d’altronde confermata dalle ricerche di Bec (1984) su inventari dei libri dei
fiorentini.
Degli inventari studiati da Bec si apprende inoltre che la lettura degli autori volgari non
esclude quella degli autori latini.
Nell’ambito della stessa cultura volgare si viene delimitando un settore di letture considerate
compatibili con quelle latine, anche se questa affinità non è accettata dalla scuola.

X CAPITOLO, “CODIFICAZIONE DELLA LINGUA LETTERARIA. IL RUOLO DEL


VENEZIANO BEMBO”
L’ intervento di Bembo si realizza attraverso vari momenti. In una prima fase Bembo lavora
come filologo e fissa il testo dei grandi “classici” della letteratura volgare, che grazie a lui è
vista come lingua dei classici. Nel corso del 400, la letteratura in volgare conquista un
crescente prestigio. In questo momento il volgare occupa un posto decisivo nella “storia
antologica” della letteratura italiana, curata da Lorenzo de Medici ed Angelo Poliziano, che
selezionano le opere dei poeti italiani dal 200 fino al 400. Questa antologia è nota come
“raccolta aragonese”. Fu preparata nel 1476 per la casa regnante di Napoli, indirizzata al
principe Federico d’Aragona che era particolarmente attento alla poesia in volgare. Nella
lettera introduttiva dichiarano che la letteratura ha bisogno di qualcuno che la sostenga, così
come nell’antica Grecia, Pericle ha incoraggiato la cultura ateniese. Un principio importante
affermato da Lorenzo e Poliziano è che la letteratura in volgare non è effimera, ma può
durare nel corso dei secoli. Ne deriva una conseguenza immediata: se un’opera è ritenuta
classica in quanto dura nel tempo, le opere volgari sono letta a distanza di secoli, cioè ne
consegue che anche le opere volgari possono aspirare allo status di classici. Sull’idea della
durata del volgare si fonda l’opera di Pietro Bembo, che per la comunicazione con i posteri,
avverte la necessità di conferire al volgare stesso una necessaria formalizzazione. Nelle
“prose della volgar lingua”, (1525) Bembo in forma di dialogo riflette (cioè fa riflettere i
personaggi che dialogano) sulle “leggi e regole” del volgare. Nelle prime pagine dell’opera,
l’autore sottolinea le differenze tra il parlare e lo scrivere. Se con la lingua parlata ci si rivolge
a chi è vicino, con quella scritta si comunica anche con chi è lontano. Inoltre scrivere non è
cosa facile, poiché il modo di parlare, che è molto vario, non può essere consegnato alla
carta scritta così com’è. Aggiunge Bembo, la “volgar lingua” è stata usata in versi e in prose
da oltre 300 anni, ma nessuno si è dedicato a scrivere “delle leggi e regole dello scrivere”.
La lunga durata della scrittura (rispetto alla lingua parlata) e la sua destinazione a un gran
numero di lettori, rendono indispensabile l’individuazione di leggi e regole che si conservano
stabili nel tempo e valgono anche nel futuro. Proprio per questo la lingua scritta deve
allontanarsi dalla variabilità di quella parlata. Una lingua destinata a durare nel tempo, non
può fondarsi su un modo di parlare, ma deve modellarsi secondo l’esempio della lingua
scritta degli autori. Come per il latino valeva il modello degli autori classici, così per l’italiano
doveva valere l’autorità dei modelli linguistici ritenuti più prestigiosi. A parere di Bembo, la
scrittura letteraria in prosa deve seguire il modello di Boccaccio, mentre quella in poesia
deve seguire Petrarca. L’auctoritas di Petrarca e Boccaccio è quindi preferita qualsiasi altra
lingua parlata, in quanto la loro lingua è già collaudata anche per quanto riguarda la sua
durata. Il modello bembesco, per la sua semplicità, risulterà di grande efficacia per i letterati
italiani che non dovranno fare altro che uniformare il proprio stile su quello di Boccaccio e
Petrarca. Per la lingua poetica l’esempio petrarchesco è preferito a quello dantesco perché
la lingua di Dante, è meno uniforme e stilisticamente più varia, e quindi non sarebbe
facilmente imitabile. L’ uniformità dello stile di Petrarca offre invece agli imitatori una

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compattezza di stile. La lingua proposta da Bembo è diversa da tutti i volgari parlati nel 500,
può quindi diffondersi perso e letterati, che la vedranno adeguata quindi a sostituire il latino.
Questo volgare letterario non sarà destinato a competere con gli altri volgari, ma dovrà
proporsi come alternativa al latino. Spesso nel valutare la proposta di Bembo, ci si domanda
come mai nella sua formulazione egli proponga italiano è una lingua che già nel 500 era
antica. Il veneziano Pietro Bembo sapeva invece, che impadronirsi di una lingua già fissata
nella scrittura era un obiettivo alla portata dei letterati di ogni parte d’Italia. Contrario alla tesi
di Pietro Bembo, è l’autore del “discorso dialogo intorno alla nostra lingua“ (ora attribuito a
Niccolò Machiavelli) che afferma il prestigio di Firenze del fiorentino (lingua usata da Dante).
Altri autori fiorentini rivendicavano la superiorità della lingua parlata a Firenze nel presente.
Un’ interpretazione particolare della lingua di Dante proveniva inoltre da Gian Giorgio
Trissino, il quale dopo aver rimesso in circolazione il “De vulgari eloquentia” affermava che il
fiorentino, non poteva assumere un ruolo di modello linguistico: occorreva a prendere atto
del fatto che la lingua usata da Dante nella “Commedia“ e dallo stesso Petrarca non era
Fiorentina, ma già italiana. Gli altri teorici intervenuti nel 500 nella cosiddetta “questione
della lingua”, pur argomentando le proprie prospettive linguistiche, non suggerivano modelli
imitabili, né offrivano quelle “leggi e regole” di cui Bembo sentiva l’esigenza. In un modo o
nell’altro è come se gli autori degli altri interventi avessero affermato la validità della propria
lingua d’uso. Ma proprio la lingua dell’uso, anche dell’uso negli ambienti prestigiosi delle
Corti, era una lingua diversa da un luogo all’altro. Al contrario la preoccupazione principale e
costante di Bembo è proprio quella di fornire un modello oggettivo e stabile. Se noi oggi
possiamo a volte trovare singolare l’idea di Bembo, ciò dipende dal fatto che immaginiamo
che tale proposta fosse in qualche modo imposto a tutti come vincolante obbligatoria: in
verità è evidente che il modello bembesco non poteva in alcun modo essere imposto da
alcuno. Il pubblico a cui Bembo si rivolge è costituito da tutti i letterati italiani, cioè da coloro
che guardavano al toscano trecentesco come ad una lingua da imitare. I non letterati,
avrebbero continuato a scrivere, come prima, testi non letterati ai quali non sarebbe stato
richiesto di risultare leggibili per i posteri. La diffusione di una lingua letteraria nel corso del
500 è sostenuta da nuove condizioni culturali che, grazie anche alla stampa, favoriscono il
contatto con la letteratura da parte di nuovi ceti sociali: la letteratura non è più un bene di
pochissimi, ma diventa la portata di tutti quelli che sanno leggere. Osserva a riguardo Carlo
Dionisotti (1967) che nel 500 arrivano alla letteratura anche i gruppi sociali che prima
potevano solo ascoltare la lettura di opere letterarie. Per esempio con l’invenzione del libro,
si hanno le prime donne che, da pubblico di letteratura, diventano autrici: come accade a
Vittoria Colonna, punto di riferimento di interi ambienti cortigiani. Esemplare a questo
proposito è il caso della poetessa Isabella Morra che ha scritto un breve canzoniere in
volgare di argomento amoroso, pur vivendo nel suo piccolo castello di Favale (in provincia di
Potenza). Molto probabilmente, se fosse nata cinquant’anni prima, Isabella Morra sarebbe
rimasta analfabeta. Grazie all’invenzione del libro a stampa, e grazie alla facile applicabilità
del modello bembesco, Isabella Morra scrive in una lingua letteraria che in periferia e la
stessa che viene usata nella letteratura di centri culturali. Tra gli scriventi figurano i nuovi
alfabetizzati che imparano a scrivere solo per esigenze della vita quotidiana, e in qualche
caso si spingono a produrre testi scritti di una certa ampiezza (lettere, autobiografie,
cronache ecc..). Soprattutto in quest’ultima fascia di scriventi, l’italiano che viene adottato è
intriso di elementi linguistici locali. Il panorama della cultura scritta dal 500 non è uniforme:
l’articolazione diastratica delle produzioni scritte, successiva alla diffusione della stampa e
alla codificazione bembesca, di norma conservate nelle biblioteche, ora ci si rivolge al
patrimonio delle carte d’archivio che per ogni epoca custodiscono e tramandano scritture per

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necessità concreto e materiale. Attraverso i documenti di archivio si scopre un mondo di
scriventi di cultura bassa o media, che scrivono al loro meglio, ma spesso con ridotta
padronanza della lingua e della scrittura. Per la storia della lingua, questi documenti sono
molto importanti perché permettono di entrare in contatto con una realtà linguistica,
caratterizzata da una forte variazione linguistica. Studiando testi di autori non letterati,
abbiamo accesso al mondo molto più Dario di quello che ci appare attraverso la letteratura. I
cronisti, per esempio, usano a volte una lingua meno uniforme di quella letteraria codificata
da Pietro Bembo. In ogni epoca della nostra storia, troviamo in diastratìa una realtà varia in
cui le persone scrivono più o meno come parlano. Questa lingua è lontana dal modello
bembesco, ma ha una forte componente locale. Dobbiamo abituarci a una prospettiva
secondo cui per alcuni secoli la lingua letteraria alla maniera di Bembo è un’opzione per
poche persone colte. In questa stratificazione, c’è anche spazio per la fioritura della
letteratura: tale letteratura non è il prodotto spontaneo di autori popolari, anzi, a praticare il
dialetto e letteratura, sono autori completamente bilingui chec pur controllando l’italiano
letterario, scelgono la lingua della realtà quando vogliono avvicinarsi ad altri temi, ad altri
motivi più vicini alla vita quotidiana.

XI CAPITOLO, “DIFFUSIONE DELL’ITALIANO E


STRATIFICAZIONE DELLA LINGUA NEI TESTI”
le diverse tradizioni culturali locali, hanno avvertito gli effetti di un contatto sempre più stretto
con la cultura e con il volgare dei toscani. Si può osservare la tensione dinamica che si
stabilisce tra gli elementi linguistici locali e quelli provenienti dal toscano; tra gli UNI e gli altri
si stende un’assidua presenza di tratti latineggianti. L’interferenza tra volgare locale e
toscano, assume sfumature diverse, non solo in rapporto all’area di provenienza, ma anche
in relazione al livello culturale degli scriventi e al genere di scrittura da essi praticato. Chi si
dispone una scrittura letteraria o comunque con piena padronanza del codice linguistico,
partendo da una buona conoscenza del latino e della lettura degli autori toscani, tende infatti
a eliminare dalla scrittura gli elementi della lingua materna che gli sembrano inadeguati a un
tono letterario. L’eliminazione dei tratti locali, comporta in principio l’accoglimento di forme
latineggianti, e l’avvicinamento agli usi linguistici dei letterati toscani. Gli scriventi di livello
culturale medio, spesso non avevano cognizione approfondita del latino, né alle opere
letterarie in volgare; perciò si riferivano alle scritture di tipo pratico che si trovavano a
maneggiare per motivi di lavoro. In genere chi si avvicina alla scrittura, sa di entrare in un
sistema diverso da quello della lingua parlata, in un codice che richiede una specifica
competenza materiale, oltre che linguistica. Tenendo conto di questi aspetti, Bruni ha
riconosciuto tre categorie di testi, che presentano diverse caratteristiche linguistiche. Al
“gradino più basso” i testi scritti sono “ai limiti della comprensibilità per la scarsa coesione e
coerenza” e per il faticoso controllo delle convenzioni della scrittura. In questi testi si
riscontra anche la fitta presenza di elementi linguistici locali, che gli scriventi, anche volendo,
non sarebbero in grado di sostituire con forme più adeguate. In questa categoria rientrano le
scritture semicolte o di italiano popolare. A un livello medio sono meno frequenti le
incertezze dovute a una limitata padronanza della scrittura, ma si riscontrano ancora
caratteri linguistici connessi alla realtà dialettale. Al gradino più elevato si trovano le scritture
più colte e adottano di volta in volta la lingua ritenuta più adeguata agli usi scritti.

XII CAPITOLO, “L’ITALIANO LINGUA DI TUTTI. RELAZIONE MANZONIANA DEL 1868”


L’unificazione della nazione italiana viene, quando già da secoli l’italiano è la lingua di
cultura di conosciuto è usata come tale in ogni parte della penisola. Nel corso del settecento,

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l’italiano conquista anche un suo spazio come materia di insegnamento scolastico. Tale
prospettiva si realizza però solo nel corso dell’ottocento, poco prima della nascita dello Stato
unitario: nel 1859 nel regno piemontese, la “ legge Casati” prevedeva un biennio di
istruzione obbligatoria per tutti. Al momento dell’unità d’Italia quindi esiste già una legge che
si presenta come il primo strumento per fare fronte a una situazione di diffuso analfabetismo.
Nel nuovo Stato unitario l’esigenza di formare cittadini capaci di leggere e di scrivere, si
combina con la necessità di avvicinare tutti gli italiani alla lingua che è diventata la lingua
scritta e letteraria di tutti. Tuttavia non tutti gli italiani sono in grado di parlare questa lingua;
anche se è impossibile proporre conteggi incontestabili, si può considerare che
nell’ottocento la comunità dei parlanti italiani non si divideva in due parti. Si deve tener conto
di coloro che parlavano un italiano più o meno caratterizzato da tratti dialettali, oppure un
dialetto più o meno intriso di elementi italiani. Coloro che parlavano tali varietà intermedie,
avevano tuttavia un contatto con l’italiano ed erano in grado di comprenderlo: ne avevano
cioè almeno una competenza passiva, che favoriva comunque le interazioni comunicative
con parlanti di altre zone. Tuttavia il problema nuovo che si pone è quello di dotare non più
solo i letterati, ma tutti gli italiani di uno strumento linguistico unitario buono per tutti gli usi,
scritti e parlati. Il veicolo più immediato per mettere in circolazione tale lingua, nei primi
decenni post unitari, è la scuola. Per la scuola, secondo il modello piemontese, si apriva a
tutti i bambini; si trattava perciò di affrontare la questione del tipo di lingua da diffondere da
insegnare, sia come lingua scritta che come lingua parlata. L’unico mezzo di diffusione
linguistica di grande circolazione, accanto alla voce delle persone, era il libro. Dobbiamo
pensare che alla lingua scritta dei libri, per i bambini del 1861 si accedeva attraverso la
mediazione degli insegnanti e della lingua da loro parlata. Il problema linguistico è posto
ufficialmente nella scuola del 1868, per iniziativa del ministro dell’istruzione Emilio Broglio,
che sul tema della lingua nomina una commissione di esperti, articolata in due
sottocommissioni: una milanese, presieduta dal autorevole Alessandro Manzoni, l’altra
fiorentina presieduta dal pedagogista Raffaello Lambruschini. Il ministro assegna agli esperti
il compito di “ricercare e proporre tutti i provvedimenti i modi, con i quali ti posso aiutare a
rendere più universale la notizia della buona lingua e della buona pronunzia”. Le due
commissioni nascevano con fisionomie tra loro diverse che avrebbero inevitabilmente
condizionato i loro lavori. A partire dalla proposta del Ministro, si determinò nella società e
nella scuola un nuovo clima di attenzione verso la lingua, che al lungo andare risentì dei
risultati della riflessione proposta da Broglio nel 1868. Perciò è il caso di esaminare le
conclusioni delle due commissioni, cominciando dalla relazione pubblicata da Manzoni pochi
mesi dopo l’invito del ministro. La premessa da cui muove la relazione manzoniana è che la
molteplicità di idiomi diventa un ostacolo serio quando si voglia tendere all’unità. Tanto più
l’ostacolo diventa serio, in quanto c’è concordia sul mezzo (la lingua) da adottare per
superare la molteplicità e per sostituire ad essa un’unità. Viene così stabilita una stretta
relazione tra la lingua è una società che la parla: in tal modo è accantonata in partenza la
possibilità che si prende in considerazione una lingua affidata ad un uso parziale, non
condiviso da un’intera società. Il binomio di unità e molteplicità, non riguarda più la lingua
scritta di un limitato numero di letterati, ma la lingua parlata dell’intera popolazione.Tuttavia
anche Manzoni procede individuando un modello, che però deve riguardare la lingua
parlata, ed è fuori di dubbio che proporre a tutti un modello di lingua parlata è una cosa
molto più complicata che proporre a pochi un modello di lingua scritta.
Sulla scelta del modello, Manzoni si indirizza senza incertezze verso il toscano, che dal
resto può contare sulla sua diffusione plurisecolare come lingua scritta. Il toscano letterario è
tendenzialmente unitario, mentre il modo di parlare dei toscani è piuttosto variegato da un

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luogo all’altro, perciò, se si vuole indicare un modello, occorre che esso sia priva di
oscillazioni e uniforme. L’attenzione di Manzoni si concentra in primo luogo sul vocabolario:
l’unità della lingua, nella sua prospettiva è in primo luogo unità del lessico: viene individuato
un obiettivo perseguibile anche attraverso l’impiego di strumenti didattici scritti, da abbinare
ad altre iniziative didattiche particolari. Sul piano delle proposte concrete operative, è
sostenuta l’idea di inviare insegnanti toscani in ogni parte d’Italia; si incoraggiava il ricorso a
viaggi premio a Firenze, per gli scolari più meritevoli della scuole normali e magistrali, cioè di
quelli che in seguito sarebbero diventati insegnanti. Un’attenzione specifica avrebbe dovuto
riguardare i libri, che dovevano essere scritti o almeno rivisti da autori toscani, mentre uno
strumento indispensabile da diffondere in ogni classe sarebbe stato un “nuovo vocabolario”
stampato in edizione economica accessibile a tutti.

XIII CAPITOLO, “LINGUA VIVA O BUONA LINGUA?”


Se la proposta di Manzoni sembra oggi esposta a facili critiche, a proposito del vocabolario,
per esempio, Lambruschini e gli altri componenti della commissione affermano l’utilità di
servirsi di altre fonti lessicografiche, ritornando ad una lingua dettata dai libri, proprio ciò che
Manzoni voleva evitare.
Questa formulazione è antitetica rispetto a quella di Manzoni, poiché ribadisce l’idea di un
vocabolario limitato ad una parte di lingua, mentre per Manzoni occorreva giungere a un
vocabolario che rappresentasse per intero la lingua parlata. Ma la stessa nozione di lingua
parlata diventa vaga, visto che a parere di Lambruschini, ad essa si può giungere
procedendo per sottrazione, limitando il materiale offerto dalla lessicografia vigente. Un altro
suggerimento molto particolare è quello di adottare come consulenti persone “ peritissime
della lingua parlata”. Ai consulenti si chiede in sostanza di rappresentare l’uso, ma a patto
che essi non riferiscano quegli aspetti dell’uso che il Lambruschini considera corrotti. Egli
predilige la spontanea e naturale conservatività dell’uso contadino, in cui riconosce una
purezza ormai perduta nel fiorentino urbano. Da questo punto di vista perciò non poteva
piacere a Lambruschini la proposta manzoniana di orientarsi verso il fiorentino mentre la sua
opinione era più vicina a quella di chi sosteneva che la purezza della lingua italiana antica si
fosse conservata soltanto nel modo di parlare del popolo contadino toscano. La proposta
lambruschiniana volta alla ricerca di una lingua incorrotta (si parla sempre di “buona lingua”)
assumeva dunque un’impostazione estranea all’idea manzoniana. Alcuni anni dopo, sui
problemi sollevati dalla relazione manzoniana, intervenne il glottologo Isaia Ascoli con un
saggio pubblicato come proemio chiamata “ archivio glottologico italiano”. Il proemio, datato
10 settembre 1872, sottolinea che questo intervento come sistemazione teorica, più che
come proposta concreta alternativa a quella manzoniana. Da parte sua Ascoli rivelando il
suo scetticismo verso il fiorentinismo dell’uso vivente, svolgeva alcune considerazioni in
gran parte condivisibili in linea teorica, ma forse finiva col restituire alla lingua scritta quel
primato che Manzoni aveva cercato di assegnare alla lingua parlata. Ascoli inizia il suo
proemio analizzando e criticando il titolo del “Novo vocabolario” redatto da Giovan Battista
giorgini. Questo vocabolario si presentava come l’attuazione del progetto lessicografico
delineato nella proposta manzoniana. La critica di Ascoli sul “Novo vocabolario”, si dirige
verso l’aggettivo “novo” presente nel titolo. Infatti il glottologo fa notare che la forma “novo”,
priva di dittongo perché ripresa dal fiorentino parlato vivente sarebbe una forzatura
eccessiva, dal momento che ormai in Italia tutti da tempo conoscevano la forma “nuovo”. A
parere di Ascoli, una rigida adesione al modello del fiorentino dell’uso vivo avrebbe
comportato un inutile disorientamento dei parlanti che avrebbero dovuto adeguarsi a forme
nuove modificando abitudini fissate nell’uso oltre che nella norma virgola e consolidate da

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secoli. Secondo lui è importante quell’unità che si è raggiunta, almeno nell’espressione
scritta tra le persone che, imparando a scrivere, si sono impadronite di un mezzo espressivo
di base toscana. Sin da questo punto però, Ascoli sposta lievemente il problema rispetto
all’impostazione manzoniana: infatti fa spesso riferimento al pensiero elevato che si deve
trasporre nella scrittura e al lavoro intellettuale. Tutto ciò contrasta con la visione di Manzoni
che invece pensava alla lingua che i maestri e le maestre dovevano insegnare agli scolaretti,
affrontando il dramma dell’ignoranza di un lessico italiano fondamentale presso quei ceti in
genere lontani dagli “operaj dell’intelligenza”. Il discorso ascoliano si mobilita sulla
constatazione degli effetti negativi che la soluzione manzoniana potrebbe avere sull’incisività
del linguaggio intellettuale. Anche a proposito dell’uso quotidiano, secondo Ascoli,
l’accoglimento dell’uso vivo fiorentino potrebbe condurre alla consacrazione di improprietà
se non addirittura di scorrettezze. La polemica di Ascoli si indirizzava non tanto contro
Manzoni, quanto contro una tendenza reale virgola che prospettava tra l’altro una diffusione
di un malinteso fiorentinismo popolareggiante in un ambito colto. Il propagarsi della
soluzione fiorentinista, auspicata da Manzoni, non rappresenta di per sé voi una soluzione,
ma è un’aggravante perché instaura il culto formale della “tersità popolana” in luogo
dell’ideale della “teresità classica”. I punti principali su cui Ascoli dissente da Manzoni sono:
da un lato il rifiuto di riconoscere la precedenza del parlato sullo scritto, dall’altro la
convinzione che la cultura di una nazione non si misuri sul metro della maggiore o minore
prossimità tra lingua parlata e lingua scritta.
XIV CAPITOLO, “LINGUA PARLATA E SCUOLA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO”
Nella scuola odierna e nella comunicazione quotidiana si è spesso disattenti verso il modo di
parlare, che in genere non è oggetto di correzione. Invece la didattica di fine 800 e di gran
parte del 900 ha dato, grande spazio proprio all’attenzione verso il modo di parlare. Negli
anni in cui l’italiano si è ormai diffuso presso gran parte degli italiani, si è forse ritenuto inutile
insistere, a scuola, sugli italiano parlato. Quando al centro dell’attenzione è stata posta la
correttezza della lingua, si è accordata senz’altro maggiore importanza all’italiano letterario.
La presunta conoscenza da parte degli alunni dell’italiano parlato, ha comportato una sorta
di rinuncia a intervenire sull’espressione orale, con il risultato che nella didattica ci si è
limitati ad accettare il modo spontaneo di parlare, mentre nella migliore delle ipotesi l’invito a
correggere e riformulare ha riguardato soltanto l’espressione scritta. Solo da pochi decenni
l’italiano e la lingua parlata, dall’assoluto maggioranza della popolazione del nostro paese.
Quasi fino al nostro secolo gli italiani di regioni diverse dalla Toscana, riuscirono a imparare
la lingua nazionale tramite apprendimento scolastico, mentre ora essa viene sempre più
appresa con l’interazione. All’inizio, l’apprendimento dell’italiano era basato sulla fruizione di
testi scritti con scarso intervento dell’uso orale, dato che era ritenuto innaturale parlare una
lingua che non fosse quella materna, mentre si riservava la lingua ufficiale alla
comunicazione scritta. La situazione odierna non è però identica a quella passata, la
preoccupazione di insegnare e diffondere un italiano parlato è stata costante. L’obiettivo
primario della scuola italiana era quello di condurre gli alunni a parlare (non solo scrivere),
una lingua diversa da quella appresa spontaneamente. Questa impostazione didattica era
esposta a una serie di incertezze nell’individuazione del modello da proporre come norma.
Sin dal primo 700, il periodo in cui si comincia ad affermare la lingua italiana come materia
scolastica, si è trasferita alla didattica dell’italiano, la prospettiva che sin dal medioevo via
era nell’insegnamento del latino. Solo in latino, era oggetto di studio nelle scuole di
grammatica, dal medioevo fino alla fine del 600. Quando nella scuola si cominciò a prestare
attenzione all’italiano, a questa lingua fu adattata la didattica usata per il latino. Al riguardo è

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molto significativa un’affermazione di Niccolò Amenta che distingue appunto due linguaggi
tra loro differenti:
“ un che s’usa parlando comunalmente, e senza studio alcuno, che noi chiamiamo
imperfetto, il qual’ordinamento si parla dal vulgo; l’altro che si cerca parlare, da gente civile
virgola e noi chiamiamo perfetto, simile a quello col qual si scrive”:

La gente civile, secondo Amenta, cerca di distinguersi dal “vulgo”. L’aggettivo “nobile” con
cui l’autore qualifica la lingua di cui intende occuparsi nel suo trattato, si riferisce proprio al
fatto che tale lingua è appunto il frutto di una lunga educazione di studio. La
contrapposizione rieccheggia la differenza stabilita da Dante tra volgare e latino. Per
Amenta, come per Dante, un corso di studi deve portare, anche per quanto riguarda la
lingua, ad un punto di arrivo non identificabile con il punto di partenza. Francesco De Sanctis
raccontava con queste parole l’incontro con un amico che lo avrebbe convinto a seguire i
corsi di lingua, tenuti a Napoli dal purista Basilio Puoti:
“- Chi è il marchese Puoti?-“, diss’io a Costabile
“- Insegna l’italiano”- disse lui
“-E credi tu ch’io debba ancora imparare l’italiano?-“
“-Sicuro; quell’italiano lì l’è un’altra cosa; vieni”.

Grazie all’incontro con l’amico Francesco costabile anche De Sanctis si convince di quanto
sia necessario lo studio dell’italiano, in quanto “quell’italiano lì”, insegnato da Puoti, “l’è
un’altra cosa”, rispetto a quello che i suoi allievi già conoscono e parlano. In quale misura sia
“un’altra cosa” si sa bene, visto che la didattica di Puoti era orientata verso il modello
dell’italiano trecentesco, e puntava in particolare all’acquisizione di una lingua scritta
rigorosamente normativa. Un indizio evidente si nota proprio nella breve frase attribuita al
Costabile che usa la forma ridondante del soggetto, comune all’italiano letterario antico e al
toscano parlato: in quel “l’è un’altra cosa” (in luogo di “è un ‘altra cosa”) c’è appunto il segno
di una distanza tra la competenza di partenza e quella di arrivo. Sia la citazione da Niccolò
Amenta, sia il caso ricordato da De Sanctis alludono con chiarezza al fatto che la lingua da
imparare dovesse essere spendibile anche nell’interazione parlata. L’idea che
l’apprendimento dell’italiano corretto comportasse il distacco delle abitudini comunicative
spontanee, si spiega se si pensa che la lingua spontanea era identificata con un modo di
parlare in tutto o in parte dialettale, o quantomeno in continua interferenza con il dialetto in
tale prospettiva il dialetto non era considerato in sé in termini negativi, ma si riteneva che
conoscendo il proprio dialetto materno e ignorando l’italiano non si potesse procedere negli
studi. L’adesione a un modello linguistico alternativo, trasmesso dalla scuola, si imponeva
come una strada obbligata per tutti quelli che volessero distaccarsi dalle influenze del modo
locale di parlare. Per ben comprendere tale situazione, occorre considerare che la scelta di
continuare a studiare dopo le classi elementari non era la norma, ma rappresentava una
decisione consapevole e meditata: ne consegue che lo studio dell’italiano, come lingua di
cultura, era frutto di un preciso progetto culturale, orientato verso orizzonti linguistici e
professionali non coincidenti con quelli di partenza. Non si riteneva pensabile che un
medico, un imprenditore o un professore potessero avere difficoltà nel controllo dell’italiano
scritto e parlato. Nella tradizione didattica dunque, un interesse per l’italiano parlato esisteva
e si manifestava sia attraverso la preoccupazione per una buona pronuncia, sia ponendo al
centro della didattica le parole e le forme dell’uso parlato.

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XV CAPITOLO, “IL MODELLO DEL FIORENTINO”
Nella scuola di fine 800, gli unici strumenti per la didattica della lingua era nel modo di
parlare dei maestri e i libri. Naturalmente virgola non era facile individuare un modello di
pronuncia da proporre e diffondere. Da quando l’italiano è stato considerato a tutti gli effetti
una materia di insegnamento scolastico (vale a dire a partire dal XVIII secolo), è stata
sempre curata la buona pronuncia, almeno fino a quando la scuola ha proposto agli scolari
un modello di lingua identificato con il toscano o con il fiorentino delle persone che: “meglio
trattano, e parlano”. L’identificazione della buona pronuncia ha comportato problemi, poiché
non è mai stato facile assumere nella didattica un punto di riferimento stabile e sicuro. Se
era semplice suggerire di parlare come i toscani, non era altrettanto semplice far sentire agli
scolari come effettivamente parlassero i toscani. Questo problema era ben presente a coloro
che assumevano l’onere di predisporre strumenti didattici specificamente destinati
all’insegnamento della pronuncia. Proprio la difficoltà nel proporre in modo oggettivo in
concreto esempio di pronuncia da imitare, induceva a insistere sulla pronuncia da evitare.
Ciò spiega come mai, nella scuola si mettesse al centro dell’interesse la pronuncia è il
lessico del dialetto. Da testimonianze dirette relative alla scuola post unitaria si coglie
l’importanza della buona pronuncia, abbinata la svalutazione del condizionamento del
dialetto. L’ansia iper corretta di aderire al modello toscano portano all’eccesso di un modo
artificioso e studiato di parlare, una maestrina lombarda di cui (nel 1890), parla Edmondo De
Amicis nel suo “romanzo d’un maestro”. Gli accessi fiorentineggianti suscitano a lungo
andare l’ilarità delle abitanti del paesino piemontese dove la maestrina insegna:

“Presero a spassarsi della maestrina, ripetendo dietro le sue spalle, e in presenza sua, le
sue parole, con la sua pronunzia d’accatto“.

Sull’altro versante si situa l’inadeguatezza opposta, di chi non riesce ad abbandonare tutti i
tratti fonetici del proprio dialetto di origine. A questo proposito è significativa la testimonianza
di Gabriele D’Annunzio, che dall’Abruzzo è invitato a studiare nel prestigioso collegio
Cicognini di Prato. Nelle pagine de “il secondo amante di Lucrezia Buti” egli rievoca il proprio
entusiasmo per il vivente linguaggio di toscana, acquisito direttamente attraverso l’acqua del
fiume di Prato.
Ma nonostante fosse “intoscanito“, il giovane abruzzese non riusciva a superare del tutto le
incertezze dovute alla sua originaria fonetica dialettale. L’ “irrisione feroce“ dei compagni di
scuola, per il “rosa, rosae” del giovane D’Annunzio, confermato in quegli anni successivi
all’unificazione nazionale, il completo processo della lingua da parte di uno studente
dovesse comportare anche una pronuncia non condizionata dal dialetto d’origine. D’altra
parte, come mostra il caso di D’Annunzio, che proprio gli alunni avevano l’ambizione di
conseguire una pronuncia non connotata dell’italiano. La nuova situazione post unitaria è
descritta da Luigi Mancini, che allude alla necessità di una lingua comune rapporto a un
nuovo fervore di scambi e di spostamenti. In questo contesto era molto apprezzata una
pronuncia priva di certezze. Questo tipo di pronuncia poteva proporsi come il modello verso
cui orientare gli sforzi della didattica. Va ricordato il caso della scrittrice toscana Ida Baccini
(1855) che ricorda di essere diventato una specie di maestrina di lingua, in quanto italiano
per definizione, quando da bambina si trova a frequentare la scuola in Liguria:
“In brevissimo tempo, riuscì a capire benone il dialetto genovese, ciò senza perdere
l’accento toscano e la proprietà di linguaggio, che mandavano in visibilio i miei insegnanti e il
direttore dell’Istituto, innamorato della sua ‘piccola italiana‘ “.

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Da questo ricordo di Ida Baccini si comprende che l’insegnamento di un italiano parlato
senza interferenze con il dialetto, non comportava la cancellazione del proprio dialetto, e non
impediva l’apprendimento di altri dialetti. La presenza di una “piccola italiana” non era però
un caso frequentissimo. Perciò la buona pronuncia, rimaneva in gran parte affidata ai libri di
testo. L’autore pistoiese Policarpo Petrocchi ripropose quindi l’idea di segnalare con accenti
il grado di apertura delle vocali, poiché la buona pronuncia rientrava tra i requisiti di una
“perfette educazione”. Qualche suggerimento più preciso riguardo alla pronuncia, veniva
dato da Petrocchi nella sua grammatica. Qui l’autore propone a tutti gli italiani di adottare: la
gorgia di tipo Fiorentino. Quest’ultimo accenno si riferisce al fatto che Petrocchi sconsigliava
il totale dileguo dell’occlusiva per effetto della gorgia. Nel tempo l’attenzione per una
pronuncia unica si è molto attenuata.
Pertanto i maggiori sforzi didattici si sono concentrati da un lato verso il possesso della
competenza della lingua scritta, dall’altro verso un lessico unitario di base Fiorentina, che
andasse a sostituire la molteplicità delle parole dialettali. Tale prospettiva risalta bene in un
dialogo di “in casa e fuori”, un libro scolastico di Policarpo Petrocchi. Qui la contrapposizione
è tra la parola italiana “vera” e quelle dialettali, in un contesto in cui si rievoca il clima dei
tempi della proposta manzoniana, che suggeriva di adeguarsi all’uso di Firenze:
“potrebbero scrivere il nome italiano vero, e tra parentesi quello in dialetto, e sarebbe bell’e
fatto. Così si corregge e si diffonde la lingua. Tu, per tua fortuna, sei giovane ancora: e non ti
immagini neppure la quantità immensa di lingua che piovuta in tutta Italia e venuta da
Firenze, dopo che il Manzoni ebbe fatto la sua proposta”.
Quanta lingua fiorentina “piovve” in tutt’Italia anche per merito dei libri, secondo gli auspici
manzoniani, si capisce attraverso un dialogo con un maestro scritto dallo stesso Petrocchi. Il
maestro, come si vede, è il mediatore tra gli “scarabocchi” (scritti) del libro e l’uso parlato
che gli scolari dovranno apprendere.
All’inizio del 900 la ricerca dell’unico termine fiorentino da contrapporre alla varietà dei
dialetti, si scontrava con una realtà linguistica multiforme. A chi credeva di trovare per ogni
concetto la parola in uso a Firenze, capitava di consultare un ampio ventaglio di soluzioni
lessicali alternative. Ne derivava che la diffusione della lingua potesse seguire strada e non
sempre previste, modellando si può di fatto più nella scrittura che sul fiorentino vivo. Proprio
Edmondo De Amicis, nella prefazione alla seconda edizione del suo volume “l’idioma
gentile”, dovete ammettere la complessità dell’uso viventi di Firenze:
“Certi modi sono usati in certe classi sociali, in altri no: molti sono usati da chi esercita certe
arti o mestieri, e conosciuti da pochi; altri sono d’uso recente, ma vanno diventando dell’uso
comune”.

Alla molteplicità del lessico fiorentino si aggiungeva, l’ulteriore complicazione


dell’interferenza tra dialetto italiano. Gli involontari dialettalismi angustiarono generazioni di
maestri, e gli autori di manualetti di provincialismi, che per evitare parole apparentemente di
uso dialettale, preferivano suggerire una terminologia di libresca e antiquata (con la
conseguente diffusione di un lessico poco spontaneo e non aderente al fiorentino
contemporaneo).
L’incontro tra parlanti di diverse regioni e la loro circolazione, comportò nel tempo incerto
relativismo linguistico. In un’opera di Fedele Romani sui “Calabresismi” si nota un notevole
senso storico anche sull’arco della diacronia contemporanea.
Secondo il Romani una pronuncia corretta dovrebbe evitare i tratti più spiccatamente toscani
orientarsi verso una lingua d’uso comune. Non stupisce quindi che un monolinguismo

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(fonetico e lessicale) di stampo fiorentino sembra ormai, nel 1907, segno di altri tempi e che
si è ritenuta utile una “varietà dell’unità“.
La realtà dei fatti rende insomma evidente che l’italiano parlato non è identificabile con il
dialetto fiorentino. Da questo lato è indicativo un racconto che si legge nel libro scolastico
d’epoca fascista, “il balilla Vittorio“ di Roberto Davanzati. Qui è presentata una classe
scolastica con alunni provenienti da diverse parti d’Italia. L’autore sottolinea l’accento
dell’alunno che proviene dalla Toscana, ma il segno dei tempi nuovi, si coglie nel fatto che
questo alunno, di origine milanese, ha soggiornato in varie regioni d’Italia (Toscana
compresa). Il suo accento quindi non dipenderà da una competenza nativa del toscano.
Nella stessa classe c’è un ragazzo siciliano, il cui dialetto, suscita l’ilarità dei compagni, ma il
maestro dopo aver ricordato le origini siciliani della letteratura italiana, precisa che a contatto
con i nuovi compagni, anche il piccolo siciliano imparerà a parlare l’italiano, pur senza
dimenticare il proprio dialetto.
lo stesso maestro trova poi il modo di affermare il nuovo ruolo della città di Roma, che
diventa luogo di incontro tra famiglie di ogni parte d’Italia:
“Murrisi imparerà sempre meglio a parlare, qui, i scuola, come avvenuto con alcuni di voi
che vi trovate a Roma, venuti da tante parti d’Italia.
Murrisi parlerà italiano, ma se ancora gli capiterà di dire qui o fuori parole del suo dialetto, in
quel momento il suo pensiero andrà la sua terra. Sappiate che questa della scuola di Roma
è una condizione felice, perché qui, venite da famiglie di tutte le parti d’Italia, e qui l’unità
della patria è cosa vivente, che parla anche attraverso questi incontri di dialetti”.

Nelle scuole di Roma, un po’ in tutte le scuole d’Italia, diventa quindi cosa vivente “l’unità
della patria” e con essa anche l’unità della lingua parlata. Nei libri nati per la scuola, fu
progressivamente accolto il suggerimento di Manzoni, che richiedeva gli autori toscani di
scrivere in modo non diverso da come parlavano. L’orientamento manzoniano fu seguito da
autori che i libri di dialoghi per la scuola, manifestavano un autentico interesse verso la
lingua parlata. Tale genere didattico, aveva la funzione di illustrare il lessico, in particolare le
voci di arti e mestieri che erano poco aperti alla lingua parlata. Se si leggono alcune operette
dialogiche del 1868, appare evidente che alcune caratteristiche della lingua usata nella
scrittura sono vicine a strutture sintattiche tipiche del parlato. Si può quindi dire che anche gli
strumenti didattici più usuali si uniformarono all’esigenza, prospettata da Manzoni, di
orientare verso una lingua “vivente” la norma trasmessa dalla scuola. Lo proposto a strutture
dialogiche che, con le parole di uso toscano, diffondevano anche una sintassi discorsiva,
come risulta dai testi di Petrocchi. Questa attenzione dei libri di scuola, non poteva però
spingersi all’insegnamento di una pronuncia particolare. Gli elementi linguistici vicini al
parlato, messi in circolazione da questi libri, erano perlopiù sintattici: ciò vuol dire che si
trattava di caratteristiche che non erano tipiche della sola area toscana (erano cioè varianti
diamesiche).
Subito dopo l’unità, nell’editoria nata per la scuola, si dava per scontato che il centro
dell’interesse andasse individuato negli scrittori del passato, ai quali occorreva rivolgersi
anche per cercare qualche riflesso della lingua viva. Se si esclude i pochi libri dialogici, la
scuola in seguito sarebbe stata fedele a un modello di lingua scritta che veicola lava le
scritture degli alunni verso una lingua artificiose non spontanea.
XVI CAPITOLO, “COME GLI ITALIANI HANNO INCONTRATO L’ITALIANO”
Nel trattare alcuni aspetti della storia della lingua, bisogna capire attraverso quali modalità gli
italiani siano entrati in contatto con l’italiano. Un’idea di queste modali si ricava da fonti

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letterarie, che spesso presentano personaggi che si trovano nella fase di apprendimento
della lingua o che, in circostanze diverse, incontrano l’italiano usato come lingua parlata.
L’italiano, nei secondi tra il XVI e XIX secolo è stato una lingua prevalentemente scritta, ma
è stato anche presente nella comunicazione parlata. È vero che l’italiano è stata per secoli
lingua prevalentemente letteraria, ma è anche vero che, con questa lingua, vi entrava in
contatto anche chi non praticava letteratura. Infatti, se si pensa al ruolo della Chiesa (in
particolare dei predicatori), delle Istituzioni, dei venditori che si muovevano da una fiera
all’altra, deve essere stata piuttosto diffusa.
Un ruolo importante nella diffusione dell’italiano è stato svolto dal TEATRO. Sin dal ‘500
compagnie teatrali giravano da una regione all’altra: più di recente, compagnie
filodrammatiche amatoriali, anche in località piccole, recepivano testi teatrali e li mettevano
in scena. Il teatro quindi, ha messo in contatto il pubblico (socialmente misto) con la lingua
del teatro che era la lingua letteraria. Questa è stata messa in circolazione non solo per
iscritto, ma anche attraverso la comunicazione parlata.
Un esempio remoto può riferirsi alla commedia dei secoli XVI e XVII che presentava in
scena lingue diverse per caratterizzare i dati verso personaggi.
Ricordiamo il caso di Silvio Fiorillo, autore campano che scrive testi in cui il dialetto si
affianca al toscano. I suoi testi, pubblicati nei primi anni del Seicento, propongono una
variazione linguistica.
Il suo pubblico ascoltava il dialetto campano portato in scena, ma contemporaneamente
ascoltava una lingua letteraria.
Per la Lombardia, come per altre regioni, un importante “canale di diffusione dell’italiano” è
rappresentato dalla musica e dal teatro.
Nel teatro dialettale di Carlo Maggi, propone al proprio pubblico, una lingua della scrittura e
della letteratura.
A una situazione più vicina a noi, risalente all’inizio del Novecento, ricordiamo l’esperienza
dei fratelli De Filippo.
Peppino De Filippo, commediografo, attore e autore di un’autobiografia (“Una famiglia
difficile”), narra che quando era bambino organizzava con il fratello Eduardo, scenette con le
marionette, a cui i due prestavano le loro voci, recitando brani imparato a memoria.
Nella “voce” prestata dal piccolo Peppino, troviamo un elemento informativo sul piano
storico-linguistico: alle orecchie del bambino, che ripeteva delle battute, queste gli erano
arrivate attraverso la recitazione.
Il bambino quindi, le aveva sentite recitare da qualcuno e le aveva imparate a memoria: non
aveva copione, ma attingeva dalla tradizione orale, recepita attraverso il teatro.
Come il giovane futuro attore, anche il pubblico teatrale (non necessariamente colto) poteva
ascoltare frasi del genere a teatro e poteva imprimerle nella propria memoria.
L’italiano aulico come punto di partenza della sua esperienza teatrale, è ricordato da
Peppino De Filippo attraverso le difficoltà riscontrate in una battuta prevista in una recita
familiare; qui a Peppino toccava una frase che, pronunciata da un messaggero affannato,
diventa un vero scioglilingua:
“Aquila viva! Il plico meco porto ove grazia le fa re Baldobrando”

Proprio la sequenza di forme insolite nel parlato (plico, meco, ove) provocano nell’interprete
disperazione.
I ricordi di Peppino De Filippo si riferiscono agli anni tra il 1910 e il 1915.
Nel Novecento, il teatro ha svolto la funzione di diffondere la lingua italiana anche grazie
all’attività delle filodrammatiche.

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Un esempio di questo genere si trae dal film “Il ratto delle Sabine” con Totò, in cui deve
mettere in scena un dramma storico scritto da un maestro nell’italiano letterario aulico è
poetico della tradizione scritta.
La lingua letteraria era consegnata non solo alla scrittura, ma anche all’opera dei
cantastorie, che è stata attiva fino alla prima metà del Novecento.
Attraverso i cantastorie, la lingua letteraria giungeva alle orecchie di un pubblico popolare e
analfabeta.
Nella situazione che si determina nel momento in cui il cantastorie declama le vicende dei
cavalieri, mentre il pubblico ascolta e commenta, il contatto tra le lingua letteraria e dialetto
non potrebbe essere più stretto e spontaneo.
Un veicolo di diffusione dell’italiano letterario è anche la letteratura popolare, trasmessa i
“fogli volanti”.
Un esempio di questo tipo, si riscontra attraverso l’autore lucano Tommaso Claps che, in un
bozzetto intitolato “all’anno della malannata”, racconta l’arrivo di alcuni girovaghi che
vendono in un paese lucano un foglio volante (ovvero una stampa di una sola pagina,
contente testi di destinazione popolare) che riporta la cosiddetta “Lettera di Gesù Cristo”
La “lettera di Gesù Cristo” era scritta in italiano, ed era letta a persone che non sapevano
leggere, ma che in questo modo, con la mediazione di un ragazzino alfabetizzato, ascoltava
l’italiano letterario letto ad alta voce.
Anche le prediche avevano una funzione dello stesso genere: la liturgia era in latino fino al
1963, ma le prediche quaresimali erano tenute da secoli in un italiano che oscillava tra un
modello letterario scritto e lingua parlata, talvolta anche esposta all’influenza dei dialetti. Se il
latino era lingua della liturgia, l’italiano conquistava il suo spazio nella predicazione.
Quest’ultima poteva cambiare da un luogo all’altro, perché i predicatori adeguavano il
proprio modo di parlare al tipo di pubblico: dalla fine del Cinquecento, le prediche rivolte ad
un uditorio cittadino, erano maggiormente orientate verso il toscano letterario.
I predicatori, in genere, provenivano da località lontane, anche se di norma cercavano di
acquisire elementi della lingua dei luoghi da loro visitati, mettevano comunque in
circolazione un modo di parlare non strettamente locale.
Anche in Tribunale accano al latino delle scritture ufficiali, veniva messo in circolazione un
italiano parlato, aperto a vistose intonazioni locali.
A questo proposito sono interessanti ricordi di Francesco D’Andrea, avvocato napoletano, il
quale sottolinea quanto sia importante per un avvocato parlare in un italiano privo di
accento. Gli avvocati napoletani, da parte loro, usavano forse un italiano con un’impronta
locale forte, ma è molto probabile che un accento napoletano a Napoli fosse meno notato, e
di conseguenza meno criticato di quello calabrese o leccese. Il tribunale, oltre che occasione
per entrare in contatto con l’italiano scritto e parlato, è anche occasione per la produzione la
conservazione di testi scritti. Da questo lato sono esemplari gli scritti dei briganti, che
traggono spesso ispirazione nei loro brevi scritti. È dimostrato che in qualche caso, i briganti
negli anni successivi all’unità, avevano occasione di conoscere l’italiano proprio durante la
detenzione. Al riguardo è esemplare il racconto “la difesa della lingua” di Luigi Malerba:
protagonista del racconto è il contadino Armisdo, che impara in prigione a parlare italiano.
La moglie è sorpresa dal nuovo modo di parlare del marito, perché fino allora Ehi l’italiano lei
lo aveva sentito solo alla radio. Per lei non c’è motivo di usare una lingua diversa dal
dialetto, perciò si meraviglia di come parla il marito. Per aver imparato l’italiano, Armisdo non
si inserisce più nel suo ambiente e giunge alla follia. In realtà il caso di Armisdo è esemplare
perché simbolo proprio di quello che in genere non succede. Cioè in genere non si
abbandona di colpo una lingua per passare in blocco a un’altra lingua. Dopo l’unità anche il

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servizio militare obbligatorio porta gli italiani in contatto con l’italiano, perché fa spostare le
persone a lungo e per lunghi viaggi, contribuendo a prolungate convivenze con persone di
altre parti d’Italia. Spostarsi è un modo per uscire dall’orizzonte abituale e dialettale e,
incontrare nuove forme di comunicazione. Esemplare è il caso dello scrittore contemporaneo
Gavino Ledda che, nel suo libro autobiografico “padre padrone”, racconta come da pastore
analfabeta sia diventato scrittore e professore, dopo aver imparato a leggere e a scrivere
presso una scuola di reggimento.
Non si dimentichi che un ruolo importante nella circolazione dell’italiano lo svolse anche lo
spostamento di manodopera, che da un lato si dirigeva verso i cantieri e gli insediamenti
industriali, dall’altro si dirigeva verso i luoghi, anche periferici, dove fossero richieste
assistenze tecniche qualificate. Un supporto alla diffusione dell’italiano come lingua parlata,
era dato infine dai libri che garantivano anche la circolazione di opere che raggiungevano
lettori che, pur alfabetizzati, erano ampiamente partecipi della cultura tradizionale popolare.
Esemplare è l’attività editoriale dello stampatore Giovanni Antonio Remondini che, a
Bassano, produsse libri ben presto avviati a un’ampia circolazione. Attraverso i libri
circolavano dunque, anche le opere che andavano ad alimentare il repertorio dei
cantastorie: mediatori in sostanza tra lingua scritta e parlata.
Anche altri titoli che potevano favorire l’incontro tra l’italiano e un pubblico di lettori che a sua
volta, attraverso la lettura a voce alta, poteva raggiungere nuovi imprevisti ascoltatori della
letteratura e dell’italiano. L’italiano insomma, nelle forme della comunicazione parlata, e
anche attraverso imprevisti percorsi di alfabetizzazione, è giunto in contatto con gli italiani
intatti modi diversi, anche prima dell’invenzione del cinema o della televisione, e anche al di
fuori delle aule scolastiche.

XVII CAPITOLO, “IL RUOLO DEI LIBRI E DELLA SCUOLA NELLA DIFFUSIONE
DELL’ITALIANO PARLATO”
La scuola, attraverso libri di lettura e sussidiari, molto più che attraverso le grammatiche, ha
perseguito l’obiettivo di diffondere un italiano parlato. Oggi questo obiettivo è stato raggiunto,
ma rischia di essere sottovalutato proprio il ruolo storicamente avuto dalla scuola. Bisogna
sottolineare che la scuola (attraverso anche il mezzo della lingua scritta), ha diffuso la
conoscenza della lingua parlata. La scuola, in questo modo, ha contribuito a modificare
qualche aspetto della lingua parlata, favorendo lo stabilizzarsi di un certo lessico. Il ruolo
fondamentale svolto dalla scuola nella fortuna di certe locuzioni, sembra evidente nel caso di
quelle frasi celebri, diventate di uso comune, perché pronunciate da protagonisti di eventi
storici, un tempo raccontati dai libri di scuola. Molto spesso tali frasi si riferiscono a momenti
delle lotte risorgimentali ottocentesce, quindi sono entrate in circolazione solo dopo l’Unità.
Ma anche le frasi che si riferiscono a momenti più antichi hanno conosciuto una diffusione
dopo il 1861.
La scuola ha quindi svolto un ruolo fondamentale nel fare entrare molti italiani in contatto
con l’italiano, anche grazie alla fortuna di alcune locuzioni, e dal loro ricorrere in contesti
quotidiani: per esempio, un artigiano napoletano, di oltre trent’anni, rivolgendosi ad alcuni
muratori che avevano issato un’impalcatura per impedire la sosta delle auto, esordì
dicendo:”QUESTE SONO LE FORCHE CAUDINE”, adottando una locuzione che si legava
quasi sicuramente ad un ricordo scolastico.
Il percorso dal libro al parato quotidiano, si riconosce soprattutto nel caso di quelle
espressioni presenti in libri come: PINOCCHIO (di Collodi), I PROMESSI SPOSI (di
Manzoni), letti da scolari di molte generazioni:
1. “mettersi di buzzo buono”, dedicarsi con ogni cura e studio (Federigo Tozzi)

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2. “giocare un tiro barbone”, indica una persona disonesta (Alessandro Manzoni)
3. “essere agli sgoccioli”, essere al termine di una scadenza (Collodi)
Ci sono anche frasi trasmesse dai libri di scuola e diventate modi di dire correnti:

 Galeotto fu il libro e chi lo scrisse


 Tallone di Achille
 Vittoria di Pirro
Inoltre numerose frasi risalgono a libri letti da generazioni di scolari, tra la fine dell’Ottocento
e la fine del Novecento, Alcune si presentano come dirette citazioni dei Promessi sposi:

 Essere un azzeccagarbugli
Altre si riferiscono al Pinocchio di Collodi:

 Essere come la volpe e il gatto


 Essere il grillo parlante
Quindi si è riusciti a confermare che certi modi di dire si sono diffusi nell’italiano parlato
grazie a testi scritti che hanno avuto una circolazione scolastica: non è quindi improprio
affermare che la scuola, almeno quella del primo secolo postunitario, ha dato un contributo
all’italiano parlato contemporaneo.
I pochi modi di dire e le frasi prese in esame, rappresentano il residuo ancora riconoscibile di
un sostegno massiccio che, la scuola e la lingua scritta dei libri, hanno dato alla diffusione di
un italiano parlato uguale per tutti gli italiani.

XVIII CAPITOLO, “COME SI È SVOLTA LA STORIA DELL’ITALIANO”


Tra 300 e 500 si sono determinate le circostanze che hanno condotto il toscano diventare
italiano, lingua di tutti certamente di tutti letterati, molto prima che l’Italia diventasse uno
Stato unitario. Tre secoli prima che si definisse lo status di una nazione unica, italiani
avevano già trovato una lingua di cultura a cui attribuire una dignità pari a quella latina.
L’italiano diventava la lingua verso cui tutti i letterati potevano entrare in possesso di uno
strumento che avrebbe potuto mettere in contatto con i contemporanei, ma anche con i
posteri: d’altra parte se noi leggiamo Dante Boccaccio o Petrarca e riconosciamo nella loro
lingua la nostra stessa lingua, ciò dipende proprio dal fatto che il veneziano Pietro Bembo ha
proposto ai suoi contemporanei di riprendere il modello dei letterati del trecento. Alle
formulazioni teoriche di Bembo, la stampa ha aggiunto la stabilità di un mezzo che ha
garantito la continuità diretta tra la lingua del trecento e noi. La prospettiva di Giangiorgio
Trissino che nel primo 500 sottolineava che a tutti coloro che volevano si insegnava latino,
mentre chi voleva poteva voi studiare da sé l’italiano, chiarisce un aspetto decisivo della
percezione linguistica degli intellettuali di quell’epoca. Per loro l’italiano era una lingua da
imparare: si realizzava finalmente una sorta di parità rispetto al latino, che al tempo di Dante
era l’unica lingua che si poteva studiare, laddove il volgare era acquisito spontaneamente
come lingua materna. Quindi l’italiano del 500 è di fatto per tutti una lingua da studiare,
perché non è una lingua materna per nessuno, ma potrà essere conquistata solo attraverso
la scelta di apprendere attraverso i libri e la letteratura. Tra 300 e 500 si è delineata una
lingua italiana che, aveva una validità non solo locale che, pur essendo vicina ai volgari
parlati, non si identificava con alcuno di essi. Tale lingua, fatta per mettere in comunicazione
persone nate luoghi diversi, si configura come il risultato di un percorso di unità. Dal
momento che costruire un percorso comune è molto difficile, si comprende che è stato

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possibile individuare una lingua di prestigio equidistante super partes, solo perché nessuno,
dotandola come lingua letteraria, avrebbe avuto ragione di sentirsi in qualche modo
svantaggiato. Dopo la codificazione bembesca che ha assicurato una stabilità all’italiano
scritto, si è verificato un effetto collaterale: si sono determinate le condizioni che hanno
favorito l’impiego letterario dei dialetti. Tale impiego letterario non ho più riguardato solo le
varietà delle grandi città, ma sia esteso a dialetti di centri minori. Ciò ne conseguì che dopo
l’unità, la letteratura scritta in dialetto ha conquistato un prestigio che in precedenza mai
aveva raggiunto. Con la letteratura, è fiorito un ricco interesse per tutte le manifestazioni
tradizionali e dialettali: dopo l’unificazione politica si affermano discipline quali la storia delle
tradizioni popolari (tipo le raccolte di canti) e la stessa dialettologia, con le sue diverse
prospettive di studio che hanno incoraggiato l’impegno di tanti appassionati, non specialisti
(ad esempio si pensi ai tanti vocabolari dialettali pubblicati dalla fine dell’ottocento a oggi).in
tempi più recenti si delinea un’altra situazione nuova: il dialetto, oltre che nella letteratura,
trova spazio nelle pubblicità, nei programmi televisivi, nel teatro, nonché in Internet. A ben
guardare sembra evidente che ciò accade perché dialetti conservano una loro vitalità nella
comunicazione parlata. Da un’indagine dell’Istat (Istituto di statistica), risulta che all’incirca
nella metà delle famiglie italiane, il dialetto è presente come lingua della comunicazione
familiare, e che in alcune regioni (per esempio Calabria) tale percentuale sale oltre il
75%.molto spesso, accanto al dialetto, è usato anche l’italiano, poiché l’apprendimento di
una lingua si combina bene con la conservazione delle lingue che già si conoscono. La
storia della nostra lingua, ha conosciuto due momenti decisivi: il primo è quello della
codificazione dell’italiano letterario, avvenuto nella prima metà del 500; il secondo
corrisponde con la fase in cui, affermatosi il principio dell’istruzione per tutti, per tutti gli
italiani è stato possibile avvicinarsi all’italiano scritto e all’italiano parlato. La scuola ha
allargato il numero di coloro che potevano entrare in contatto con una lingua già da secoli
riconosciuta come lingua potenzialmente di tutti, in quanto era da secoli adottata da tutti
coloro che imparavano a scrivere. Riprendendo le parole di Dante (convivio I, XIII), si può
dire che l’italiano dell’ottocento in poi è “stato introduttore […] ne la via di scienza“ e a
rappresentato, per chi lo ha studiato, la “via a più innanzi andare“. Se ai tempi di Dante di
Bembo accanto alla conoscenza del latino le persone colte conservavano la conoscenza
della propria lingua materna, la stessa cosa vale in seguito per chi a scuola a preso l’italiano:
lo confermano i dati della ricerca Istat del 2007: pensiamo a tutte le persone di elevata
cultura, per esempio in possesso di laurea che hanno continuato a parlare il proprio diretto
come facevano prima. Sono persone di questo tipo che hanno composto e compongono i
dizionari del proprio dialetto, e che hanno trasmesso in famiglia l’amore per il dialetto.
Questa constatazione dimostra che lo studio di una lingua, può favorire il bilinguismo e
anche una certa attenzione della “manutenzione” del proprio patrimonio linguistico. Assume
una certa attualità un episodio risalente al II secolo d.C., ricordato dal linguista Benvenuto
Terracini. Una delle modalità che conduce alla morte della lingua e il “disfacimento del
sistema”, che ha luogo quando i parlanti non sono più consapevoli delle differenze tra la
propria lingua e le altre; ciò significa che una lingua cede quando più i parlanti sono
inconsapevoli dei cambiamenti in corso. A questo proposito Terracini riferisce un episodio
relativo al periodo in cui la lingua gallica viene sostituita dal latino, quando coloro che
parlava nel Gallico non avvertono più la differenza rispetto al latino:
Tra le poche testimonianze del Gallico, spicca in particolare la “vita latina di San Sinforiano”,
che venne martirizzato dai romani durante la persecuzione del 180. La madre di San
Sinforiano, che intendeva parlare Gallico, usa senza volere una lingua che è
sostanzialmente quella latina. Se l’autore della vita di San Sinforiano non avessi definite

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esplicitamente che fossero parole galliche, un lettore avrebbe potuto interpretarla come una
forma particolare di latino. Quando si vorrebbe parlare una lingua, ma poi infondo se ne
parla un’altra, significa che non si dominano più le differenze tra un sistema linguistico e un
altro: in questa confusione prevale il sistema linguistico più forte, che è tale perché in quel
momento si trova in una situazione di vantaggio. Torniamo a ruolo della scuola: una scuola
che insegna gli scolari una lingua diversa da quella parlata, insegna a non confondere tra
loro le lingue, perché fissano norme regole di una lingua che, da spontanea e istintiva, può
diventare consapevole può essere tenuta lontana da interferenze involontarie. Una didattica
linguistica produce almeno due effetti: mette l’alunno nelle condizioni di imparare una lingua
nuova, ma lo aiuta anche a formarsi una consapevolezza linguistica più ampia che comporta
anche un migliore controllo dei “contorni” della propria verità materna. È il caso di ricordare
che la capacità di Dante di scrivere in italiano, si costituisce dalla sua capacità di scrivere in
latino: ciò in seguito vale anche per tutti i letterati che hanno scritto in una lingua che non era
insegnata. Quando si concentra l’attenzione dei grammatici sull’italiano, accade che la
didattica assuma un andamento contrastivo. Da questo lato sono esemplari le prescrizioni
date intorno al 1530, dal napoletano Benedetto di Falco, che elenca una serie di differenze
tra il toscano e l’italiano.
Le indicazioni di Benedetto di Falco si spiegano se si pensa la necessità di offrire parametri
chiari, ma il problema è un altro: i parlanti che si sono attenuti a questi suggerimenti,
avranno senz’altro usato le parole “vecchio e mantello” quando parlavano in italiano, ma
avranno anche tranquillamente detto “viecchio e mantiello” quando parlavano in napoletano.
Di Falco ha perciò il merito di suggerire ai lettori contemporanei la differenza tra due diverse
lingue, trasmettendo loro una maggiore consapevolezza del loro modo di parlare.
Ritornando al discorso dei dialetti, se da un lato il dialetto persiste come lingua familiare
deluso negli ambienti in cui esso vige tradizionalmente come lingua materna, accade anche
che alcuni giovani apprendono un dialetto come seconda lingua: è probabile che tale
apprendimento da parte di giovani italofoni, non comporti l’adozione di un lessico
tradizionale, ma comporta il ricorso elementi caratterizzanti tipici della pronuncia. Vanno poi
considerati tutti gli spostamenti personali che, per motivi diversi, hanno sempre più favorito il
cambiamento delle abitudini e le interazioni parlate con persone nate luoghi tra loro lontani.
Da questo punto di vista, è esemplare la vicenda narrata nel film “la meglio gioventù” (2003)
di Marco Tullio Giordana, che segue la storia di una famiglia: questa nasce dall’incontro tra
due persone, la madre proveniente da Milano, il padre da Napoli, che vanno a vivere a
Roma. I figli per studio, si trasferiscono in altre città e, dopo varie vicende, prendono
l’abitudine di incontrarsi in una casa di campagna in una zona dell’Appennino centrale.
Vicende del genere erano molto meno frequenti nei secoli passati, quanto di più,
recentemente,di molte famiglie italiane, che hanno contribuito a conseguenti modificazioni
delle abitudini linguistiche. Anche attraverso incontri, spostamenti, la storia delle persone,
per quanto riguarda la lingua, entra in una storia più ampia e meno angusta.

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